Dal 41-bis i boss escono solo da morti di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 11 febbraio 2025 Cos’è cambiato a due anni dalla diffusione della lista dei detenuti sottoposti allo speciale regime carcerario? C’è qualcuno degli 83 mafiosi del capoluogo che è riuscito a passare a quello ordinario? Dossier analizza i dati e gli ultimi provvedimenti emessi dalla Cassazione, da cui emerge anche come la politica non abbia alcun ruolo nelle decisioni. Due anni fa, per l’esattezza il 16 febbraio del 2023, è stata diffusa la lista di tutti i detenuti al 41-bis in Italia, ovvero 728 persone, di cui 238 siciliani e 83 palermitani, contando tra questi anche Matteo Messina Denaro, che in quel momento era stato arrestato, dopo quasi trent’anni da latitanza, da un mese. Cos’è cambiato da allora? C’è stato effettivamente un allentamento? C’è qualcuna delle numerose richieste dei boss del capoluogo di lasciare il carcere “duro” che è stata accolta dai giudici? A fornire le risposte sono i numeri e anche tutta una serie di provvedimenti emessi dalla Cassazione che in questi due anni non ha lasciato scampo praticamente a nessuno. Quanti sono oggi i mafiosi palermitani al 41-bis - Se al 16 febbraio di due anni fa i mafiosi palermitani al 41-bis erano 83, oggi sono 81. I due che mancano all’appello non sono passati al regime ordinario, ma sono morti e si tratta proprio di Messina Denaro oltre che del boss di Villagrazia, Benedetto Capizzi. Non solo. L’unico al quale era stato lasciato uno spiraglio, come aveva raccontato /Dossier/ analizzando tutti i ricorsi presentati dai reclusi, cioè il boss ergastolano di Villabate Nicola Mandalà, alla fine non l’ha spuntata: recentemente la Suprema Corte ha infatti confermato anche per lui il 41-bis. Un margine, invece, è stato lasciato a Giovanni Riina, figlio del “capo dei capi” di Cosa nostra, per il quale l’ultima proroga del ministero della Giustizia è stata annullata con rinvio. Ma questo - e lo dimostra il caso di Mandalà - non vuol dire che matematicamente gli sarà poi concesso di passare al regime ordinario. Tra ricorsi in Cassazione e bocciature - Gli ultimi in ordine di tempo ad aver ottenuto una bocciatura dei loro ricorsi in Cassazione sono Francesco Giuliano, uno dei killer del piccolo Giuseppe Di Matteo, che si trova al 41-bis da quasi trent’anni, Giorgio Pizzo della cosca di Brancaccio, coinvolto pure nelle stragi di Firenze e Capaci, che è sottoposto anche lui allo speciale regime da tre decenni, Andrea Adamo, sempre del clan di Brancaccio e catturato assieme ai boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo nel 2007 e da allora sempre recluso al 41-bis, e lo stragista Vittorio Tutino, detenuto dal 1995 e che nel 2022 era riuscito a ottenere un annullamento con rinvio sulla proroga, ma che alla fine aveva perso la battaglia. Ha presentato un nuovo ricorso sull’ennesimo rinnovo del carcere “duro”, che è stato recentemente bocciato dalla settima sezione della Suprema Corte, presieduta da Vincenzo Siani, che lo ha anche condannato a versare 3 mila euro alla Cassa delle ammende. Scelte giuridiche e non politiche - A guardare i dati, dunque, è evidente che nonostante i ricorsi nessuno dei mafiosi palermitani è riuscito a lasciare il carcere “duro” se non da morto, com’era già accaduto a Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ed è chiaro che la costante conferma del 41-bis per i boss più pericolosi c’entra poco con eventuali scelte politiche: i parametri vagliati dai tribunali di Sorveglianza e infine anche dalla Cassazione sono ovviamente strettamente giuridici. Si valuta se un detenuto è (ancora) pericoloso e soprattutto se, recluso al regime ordinario, potrebbe avere la capacità di riallacciare i rapporti con l’organizzazione criminale. Perché alla fine lo scopo del 41-bis è proprio evitare la comunicazione dei boss con l’esterno. Un regime temporaneo ma prorogato anche per decenni - Lo speciale regime carcerario è in realtà, però, una misura temporanea di quattro anni, che può essere prorogata per altri due, proprio perché sospende una serie di diritti fondamentali. Ed è proprio questo aspetto che più spesso viene contestato nei ricorsi dei detenuti che, in molti casi, sono al 41-bis anche da decenni e se lo vedono rinnovare di biennio in biennio. Alcuni sono poi veramente anziani come Pippo Calò che ha 93 anni, Leoluca Bagarella, che ne ha 83, Michelangelo La Barbera che ne ha 81, Benedetto Spera, 90 anni e che è anche malato e Salvatore Prestifilippo che ne ha 91 e qualche anno fa chiese - inutilmente - i domiciliari proprio perché pure lui malato. Ma né l’età né gli anni trascorsi in carcere sono argomenti che trovano sponda nei giudici perché è sufficiente provare che la cosca di appartenenza sia ancora operativa, valutare il ruolo spesso apicale del detenuto e arrivare alla conclusione che il pericolo di riprendere contatti con l’esterno sia sempre attuale per confermare il regime detentivo. Cosa che accade praticamente in tutti i casi. Il 41-bis come lo conosciamo oggi, cioè esteso a chi commette reati di tipo mafioso, è stato introdotto nel 1992, dopo la strage di Capaci e da allora è sempre stato una spina nel fianco di Cosa nostra. Nel 2023, l’allora Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, aveva chiesto una revisione della norma perché “alcuni divieti sono solo un’afflizione aggiuntiva alla pena” e perché “manca il percorso di rieducazione in strutture spesso fatiscenti”. Non si parlava di abrogare il 41-bis ma di eliminare una serie di restrizioni, non applicate peraltro in maniera uniforme in tutti gli istituti penitenziari, di cui effettivamente si fatica a comprendere il senso. Tra questi divieti quello di possedere più di 30 fotografie, quello di avere pentole di diametro superiore a 25 centimetri e coperchi che, tuttavia, non devono superare i 22, la possibilità di appendere al muro della cella solo un foglio o una foto (rigorosamente di un famigliare), di avere 12 matite o colori ad acquerello nella sala pittura e di detenere al massimo quattro libri. Alla relazione però non sono seguiti particolari provvedimenti. Cos’è il 41-bis e come è nato - L’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario è stato introdotto nel 1986 per modificare una norma del 1975 e prevedeva in origine che il ministro della Giustizia avesse la facoltà “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza” di sospendere “nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti” per “la durata strettamente necessaria” a “ripristinare l’ordine e la sicurezza”. Soltanto dopo la strage di Capaci, nel 1992, fu aggiunto un secondo comma che ha esteso il particolare regime carcerario a chi commette un certo tipo di reato, nello specifico quelli di tipo mafioso. Nel 2002 è stata disposta poi la possibilità che venga applicato anche ad altri reati, come quelli legati al terrorismo. Sulla carta il 41-bis ha una durata di quattro anni, mentre le successive ed eventuali proroghe sono invece di due anni: in questi casi, vengono valutate essenzialmente la “pericolosità sociale” del detenuto e il fatto che la sua capacità di mantenere contatti sia “attuale”, cioè concreta in quel preciso momento. E c’è da dire che, nella maggior parte dei casi, anche se si tratta di persone recluse da decenni al 41-bis, queste due variabili vengono quasi sempre ritenute sussistenti. Le sliding doors delle prigioni per i soliti noti di Enrico Bellavia L’Espresso, 11 febbraio 2025 Mentre le carceri scoppiano, boss e ras tornano liberi. È l’effetto di norme, stratagemmi e scappatoie. Entrano a frotte, spinti dalla girandola dei venti nuovi reati che la maggioranza si è inventata a colpi di decreti. Intasano prigioni già ben oltre i limiti di un sovraffollamento tollerabile. Con carceri, come Regina Coeli, che segnano più 400 detenuti rispetto alla capienza. Altri, invece, molto più pericolosi, escono alla chetichella. Tornano sul territorio e lo presidiano. Perché “la presenza è potenza”. Accade a Palermo, a Napoli e in Calabria. E a Roma, dove i ras delle piazze di spaccio lasciano le celle grazie a un meccanismo oliato da almeno sei anni e che solo adesso ha incontrato un primo inceppamento con 32 arresti, a fine gennaio. Il sistema è quello di strumentali certificati di tossicodipendenza che sono un biglietto di sola andata per più confortevoli comunità di recupero. Strutture miraggio per chi soffre davvero fino al suicidio, scorciatoia di libertà per chi la droga la distribuisce a fiumi. Basta uno psicologo dell’Asl compiacente per scavalcare il muro, senza evadere. A Rebibbia, recentemente, un professionista così lo hanno trovato, mettendolo ai domiciliari e scoperchiando un calderone fatto di corruzione stratificata. Mille euro per un salvacondotto. E c’era, ovviamente, la fila, alimentata da uno stuolo di procacciatori d’affari, nel giro di quelle cooperative che, parafrasando Massimo Carminati, più che tra il mondo di sopra e quello di sotto, fanno da cerniera tra dentro e fuori. Ne hanno approfittato negli anni broker internazionali della cocaina al servizio dei Bellocco di Rosarno o dei Giorgi di San Luca e il faccendiere degli Alvaro di Sinopoli. Ma anche un rapinatore di banche assassino, il balordo che ha sparato dopo una lite in un bar, il figlio di uno dei pezzi grossi della Magliana e uno del giro dell’estrema destra di Carminati. Tanto lavoro per medici e psicologi. Che significa anche più straordinari per tutti. Sarà anche per questo che la giostra ha girato a lungo. Un po’ come accadeva con gli ospedali psichiatrici giudiziari, abominevole discarica ma anche regno dei finti pazzi alla Michele Senese. Se il carcere è lo specchio del Paese, soprattutto qui la forza repressiva si abbatte su deboli e piccoli e grazia grandi e potenti. Dell’impunità ai colletti bianchi, tra abolizione dell’abuso d’ufficio e picconate al concorso esterno, molto si è detto. Poche, deboli e isolate voci invece su quel che accade sul fronte antimafia, all’ombra della gigantesca macchina fumogena che si mette in moto per le rituali celebrazioni. Tra settembre e novembre dell’anno scorso - per fine pena, permessi premio e semilibertà concessi da magistrati di sorveglianza di manica larga, per le pronunce di Cassazione e Consulta che hanno attenuato il rigore contro i boss e per lungaggini processuali - una ventina tra rampolli di cosca e anziani padrini sono tornati liberi. Ne ha scritto tanto Salvo Palazzolo, inviato di Repubblica, che per questo, pochi giorni fa ha rimediato l’ennesima minaccia. Tanto seria da smuovere le autorità a metterlo sotto scorta. Uno di questi boss, è il mafioso-imprenditore palermitano Franco Bonura. Era in libertà dai tempi del Covid e lo ha riportato dentro pochi giorni fa un’indagine coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia. Una tempesta perfetta gli aveva riconsegnato la possibilità di ritrovare per strada molti di quelli con cui aveva già provato a ricostruire la cupola di Cosa nostra nel 2006. Ambizione che evidentemente non aveva accantonato. E che gli altri coltivano ancora. Magari insieme con chi arriverà a dargli manforte. Del resto, il bollo di mafia non è più di ostacolo ai benefici da buona condotta. E per alcuni, solo per alcuni, i portoni delle carceri sono solo sliding doors. La vittoria del detenuto: il magistrato autorizza il “colloquio visivo intimo” con la moglie di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 11 febbraio 2025 Il protagonista della lunga battaglia è in prigione a Parma. Pur essendo in regime di Alta sicurezza, usufruirà del diritto sancito dalla Consulta. L’Istituto di pena si era opposto. Ora dovrà garantire la riservatezza dell’incontro. Se c’è qualcosa che non si può reprimere, e vola alto al di fuori delle sbarre, sono i sentimenti e ora anche il sesso, pure per chi ha commesso dei reati e sta scontando la pena. Anzi, poterlo vivere fa parte del cammino del detenuto verso una nuova vita. Facendo valere questo principio, affrontato dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 26 gennaio 2024, che riguarda coniugi, conviventi e unioni civili, un 44enne di origine campana chiuso nel carcere di Parma ha ottenuto dal magistrato di sorveglianza competente di Reggio Emilia, Elena Bianchi, di avere un “colloquio visivo intimo” con la moglie. Il magistrato ha infatti accolto il reclamo presentato dall’avvocato Pina Di Credico “contro la negazione del diritto all’affettività” che avrebbe esercitato il carcere di Parma. Il 44enne ha un curriculum penale di spessore: è una persona vicina al clan dei Casalesi, in particolare al boss Francesco Schiavone detto ‘Sandokan’. Deve scontare un cumulo di pene iniziato dal 2011 e che terminerà nel novembre 2026: tra i reati spicca l’estorsione aggravata dal metodo mafioso, a causa dei quali si trova in Alta sicurezza. L’uomo ha chiesto di poter avere incontri sessuali con la consorte. E ha ottenuto dal magistrato di sorveglianza “spazi allo scopo che saranno individuati dalla casa di reclusione”, dentro l’istituto di Parma, secondo le modalità individuate dalla Corte Costituzionale. Il provvedimento, datato 7 febbraio, prescrive che entro 60 giorni la struttura di via Burla debba allestire la ‘camera dell’amore’: dovrà avere “garanzie minime di riservatezza, senza il controllo a vista della polizia penitenziaria”, e qui la coppia potrà lasciarsi andare a effusioni. Il detenuto aveva avanzato la domanda il 4 marzo 2024: il mese dopo la struttura penitenziaria rispose di no, dicendo di essere in attesa di determinazioni dagli uffici superiori sulle modalità per concretizzare i colloqui intimi, e poi, nel maggio 2024, di non avere in quel momento gli spazi. Si precisava anche che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva costituito un gruppo di lavoro che aveva chiesto alla direzione di dare notizie. Il detenuto ha addotto un pregiudizio al proprio diritto di non subire una pena contraria al senso di umanità, secondo lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, e ha chiesto di poter mantenere un legame, “innanzitutto fisico”, con la moglie, che già vede in presenza durante regolari colloqui visivi. Sono state promosse verifiche su circostanze che potessero negare al 44enne l’accoglimento della domanda. Il carcere di Parma ha risposto con un’ulteriore nota datata 10 gennaio: in otto mesi non sarebbe cambiato nulla, in quanto è rimasto in attesa di decisioni. Acquisendo ulteriori documenti, è emerso che lui “tiene una condotta regolare”, tale per cui sembra escluso il rischio che possa sfruttare l’incontro intimo per fini illeciti. Risulterebbe poi “consapevole del disvalore delle proprie condotte, si mantiene lavorando e fa versamenti periodici sul fondo per le vittime di reati mafiosi”. Da qui, con parere favorevole del pm, il magistrato di sorveglianza ha accolto la richiesta. “Auspico che questa sia la prima di una lunga serie di pronunce - dichiara l’avvocato Di Credico - perché si permetta ai detenuti, anche in Alta sicurezza, di scontare la pena senza perdere la dignità e senza recidere i legami con i compagni di vita”. Toghe-Governo, colombe al lavoro ma la tregua è utopia di Paolo Delgado Il Dubbio, 11 febbraio 2025 Il neopresidente dell’Anm Parodi ha impugnato il ramoscello d’ulivo ma è stato subito “corretto” dai falchi. Lo spiraglio c’è ed è una novità rispetto alle chiusure blindate delle settimane e dei mesi scorsi. Però è strettissimo e per imboccarlo ci vorrebbe da entrambe le parti, la maggioranza parlamentare da un lato, i magistrati dall’altro, un coraggio del quale si qui non si è vista traccia. Il nuovo presidente dell’Anm Cesare Parodi, Magistratura indipendente, dunque vicino alla destra, ha adoperato subito toni opposti a quelli abituali: la richiesta immediata di incontro col governo, la denuncia del muro contro muro, l’insistenza sul concetto che “le leggi le fa il Parlamento e le decide il governo” sono tutti ramoscelli d’ulivo offerti alla premier che si è affrettata a coglierli. Solo che la sola idea di una pace tra destra e toghe scontenta molti. Parodi è stato rapidamente rimesso al proprio posto, tanto da doversi scusare: “Forse sono partito male. Sono partito con una richiesta personale senza cosultarmi con i colleghi. Chiedo scusa”. Soprattutto il nuovo presidente si è affrettato a confermare lo sciopero contro la separazione delle carriere. Nel centrodestra Fi, sentendo la ‘ sua’ riforma in pericolo, si è subito agitata bocciando l’idea di una trattativa con le toghe. La partita non è chiusa. Due esempi tra i tanti bastano a illustrare la situazione. Il procuratore di Napoli Gratteri, solitamente uno dei più infervorati contro la riforma e il governo, fa il paladino della pace: “Ci sono sempre alti e bassi, picchi di nervosismo, battute a effetto. Ma il dialogo conviene a tutti nell’interesse del Paese”. Il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Balboni, che oltre a occupare una posizione nevralgica è anche uno dei Fratelli più vicini alla Sorellona di Chigi, canta la stessa serafica canzone: “Nella vita non c’è nulla che non possa essere modificata. Dunque certo che si possono apportare cambiamenti alla riforma della giustizia. Io accolgo sempre le proposte costruttive” . Il nervosismo degli azzurri di fronte a questo tubare è comprensibile. Il viceministro della Giustizia Sisto è definitivo: “Un ramo del Parlamento ha già scelto il testo. Non c’è una pregressa blindatura ma una precisa scelta dell’aula di non modificare il testo”. Le toghe sanno perfettamente che la riforma non può essere ritirata. Non perderebbero la faccia solo Tajani, come leader di Fi, e Nordio ma la stessa premier. Però sa anche che intervenire chirurgicamente per eliminare i passaggi più indigesti per le toghe, quelli che ne minano il potere come il sorteggio, sarebbe probabilmente possibile. Per FdI, partito che non ha affatto una tradizione di scontro con la magistratura come Fi e ormai anche la Lega, la tentazione di offrire qualcosa in cambio della pace con la magistratura non può che sussistere. Ma gli ostacoli sono irti e vistosi. Intanto la magistratura non è un partito. Nessuno può garantire a chicchessia che i singoli magistrati non procederanno in base alle loro scelte e la rapidità con la quale è stato costretto alla correzione di rotta Parodi dimostra che molti non sono disponibili a mediazioni interpretate come una resa. Poi avere ragione delle resistenze di Forza Italia non sarebbe uno scherzo neppure per Giorgia. Il contesto non aiuta. La magistratura non sembra affatto scaldarsi troppo per l’assedio contro il procuratore di Roma Lo Voi. Nessuno, neppure Mi, cioè la sua corrente, ha firmato la pratica a tutela chiesta dal consigliere indipendente Andrea Mirenda. Ma anche se le toghe fossero pronte a sacrificare Lo Voi, per il quale i membri laici di destra del Csm hanno chiesto la cacciata da Roma per incompatibilità ambientale e che i servizi hanno denunciato per il caso Caputi, basterebbero l’eventuale non archiviazione della denuncia contro la premier e i tre alti esponenti del governo sul caso Almasri per riportare la tensione molto oltre il livello di guardia. Figurarsi poi se a procedere contro i medesimi quattro vertici del governo dovesse essere la Cpi. Ma probabilmente basterebbe il braccio di ferro sui trasferimenti in Albania o uno qualsiasi dei possibili incidenti dietro ogni angolo. Insomma, la sospensione delle ostilità non è del tutto impossibile. È solo un po’ meno probabile del prolungamento sino alla terza fase e oltre della tregua a Gaza. Macché “apertura al dialogo”: il tranello dell’Anm al governo di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 febbraio 2025 Il neopresidente del sindacato delle toghe, Cesare Parodi, chiede al governo un incontro sulla riforma della giustizia. Ma il vero obiettivo è solo aumentare l’adesione allo sciopero: “Vorrei un incontro con il governo per dire che è stato assolutamente inutile. Per fare in modo poi che a quel punto molti più colleghi potranno scioperare”. Altro che “apertura al dialogo”. Quella avanzata al governo dal neoeletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi, in realtà è un grande bluff. Un tranello per scopi elettorali. A rivelarlo esplicitamente è stato lo stesso Parodi nel corso della lunghissima assemblea del comitato direttivo centrale dell’Anm che si è tenuta sabato scorso, poi sfociata nell’elezione del procuratore aggiunto di Torino, esponente di Magistratura democratica (Mi), come nuovo presidente del sindacato delle toghe. Stupisce che nessuno se ne sia accorto, ma lo facciamo noi. Pressato dalle richieste di chiarimento da parte degli esponenti delle correnti di sinistra su quale fosse la reale posizione di Mi attorno allo sciopero già fissato dalla precedente giunta per il 27 febbraio contro la riforma Nordio, Parodi (prima di essere eletto) ha detto: “Noi non torniamo indietro su niente. Il discorso della trattativa non lo accetto, perché si tratta se qualcuno ha qualcosa da dare, noi non abbiamo niente da dare in cambio”. Parodi ha poi aggiunto: “Sono disponibile a revocare lo sciopero se il governo ritira tutta la riforma. Io non tratto su nulla ma vorrei chiedere un incontro e spiegare la nostra posizione, anche se sarà inutile. Per dire che è stato assolutamente inutile. Per fare in modo poi che a quel punto molti più colleghi potranno scioperare. Potremo dire: ‘Abbiamo persino provato a parlare’. Noi siamo degli interlocutori, siamo ontologicamente aperti al dialogo. Dimostriamolo e poi dimostriamo che nonostante la nostra buona volontà…”. Queste parole hanno generato un’ondata di applausi dai magistrati presenti in assemblea. Insomma, la principale preoccupazione di Parodi non è dialogare col governo, ma un’altra: “Se lo sciopero che faremo non sarà seguito da un numero consistente di colleghi sarà un argomento forte contro di noi. E noi dobbiamo evitare questo”. La preoccupazione è quella di non fallire lo sciopero proclamato dall’Anm per il 27 febbraio contro la riforma costituzionale della giustizia. La soglia di adesione del 90 per cento raggiunta nel 2004 allo sciopero indetto dall’Anm contro l’allora riforma dell’ordinamento giudiziario appare un miraggio, soprattutto alla luce del calo di credibilità subìto negli ultimi vent’anni dal sindacato delle toghe. L’obiettivo sarebbe però raggiungere almeno un’adesione del 75 per cento. Una soglia non indifferente, se si considera che all’ultimo sciopero dell’Anm, nel 2022, ha aderito meno di una toga su due (il 48 per cento dei magistrati). “C’è una parte dei colleghi che potrebbe avere perplessità nello scioperare, quindi dobbiamo fare in modo che quanti più possibili di questi colleghi siano messi nella condizione di aderire”, ha dichiarato Parodi durante l’assemblea dell’Anm. Da qui l’idea della richiesta di incontro con il governo. Un incontro che quindi non è affatto orientato al dialogo, visto che Parodi ha negato fin da subito qualsiasi trattativa e qualsiasi passo indietro, ma è finalizzato soltanto a essere usato per fini interni, per dare risalto alla volontà del governo di andare fino in fondo con la riforma e così cercare di convincere i magistrati ad aderire allo sciopero. Appena eletto, Parodi ha iniziato ad attuare il piano, dichiarando: “Chiederò in tempi brevi un incontro con il governo. Non possiamo rinunciare a nessuna strada per la difesa della magistratura, è un momento delicato e non possiamo commettere errori”. Sabato sera la premier Giorgia Meloni, dopo aver augurato buon lavoro al neopresidente dell’Anm, si è subito detta pronta ad accogliere “con favore la richiesta di un incontro col governo”, auspicando “che, da subito, si possa riprendere un sano confronto sui principali temi che riguardano l’amministrazione della giustizia nella nostra nazione, nel rispetto dell’autonomia della politica e della magistratura”. Tutto ciò ha portato gli organi di informazione a parlare di “apertura al dialogo” dell’Anm, quando sarebbe bastato ascoltare le parole di Parodi durante l’assemblea per capire che si tratta di uno scenario inesistente. I prossimi giorni ci diranno se almeno a Palazzo Chigi e a Via Arenula sono stati più attenti o se invece cadranno, ingenuamente, nel tranello teso dall’Anm. “Non vedo rischi di pm assoggettati alla politica. Per ora” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 febbraio 2025 Intervista a Cesare Parodi, nuovo presidente dell’Anm: “L’incontro con la premier? Vorrei spiegare le ragioni del dissenso sulla riforma, come magistrato e cittadino”. Cesare Parodi, nuovo presidente dell’Anm, in una intervista al Giornale in merito alla riforma costituzionale ha detto: “Non penso ci sia il rischio dell’asservimento del pm all’Esecutivo”. Quindi lei sta ribaltando la narrazione che fino ad ora hanno fatto tutti i suoi colleghi lanciando questo allarme... La ringrazio per la possibilità di spiegare meglio quello che intendevo. La preoccupazione dell’assoggettamento del pm all’Esecutivo è assolutamente la principale preoccupazione dell’Anm e mia personale. Quello che intendevo dire è che, a fronte di alcune critiche ricevute per cui noi immaginiamo ipotesi non previste dalla riforma, ho solo ribadito, da giurista logico, che oggettivamente quella previsione nella legge non esiste. Detto ciò, anche senza l’assoggettamento, a me questa legge non convince. Sostenere questo non vuol dire cambiare idea. Anche un’altra sua frase mi ha sorpresa: “Non possiamo fare il processo alle intenzioni” verso chi scrive le leggi. Ha usato le stesse parole del Ministro Nordio. Forse i suoi colleghi non saranno stati felicissimi... Mi sono espresso male io. Ribadisco che ritengo l’assoggettamento del pm al Governo il maggiore pericolo potenziale, perché potenziale va considerato adesso. Lei ha subito chiesto un incontro alla premier Meloni che ha accettato per avere un confronto. Ma questo non è in contraddizione con la mozione approvata a Palermo lo scorso maggio da migliaia di suoi colleghi dove leggiamo: “L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme”? In pratica qui si diceva che non si poteva dialogare su nulla... Qui la risposta è molto semplice. Nella mozione si dice che non ci può essere nessuna trattativa e io ho infatti, in due interventi fatti prima di essere eletto, ho proprio specificato che non ci può essere nessuna trattativa per il motivo che noi non abbiamo nulla da offrire. Questo punto è stato ben compreso dai miei colleghi. E allora perché chiedere un incontro? Come Giunta unitaria vorremmo essere ascoltati per esprimere le nostre effettive ragioni di contrarietà alla riforma, e non invece magari opinioni che vengono rappresentate sull’immagine della magistratura che secondo me non corrispondono a quella effettiva. L’altro giorno il senatore Gasparri ha detto che sono “eversivo”, che ho minacciato il Parlamento. Io non minaccio nessuno. Sono mica così sciocco da minacciare il Parlamento! Io ho detto soltanto che mi piacerebbe che qualunque decisione prenderà il governo la prendesse dopo aver audito l’Anm che è portatrice di valori importanti, espressiva della maggioranza dei magistrati. Nel momento in cui lei dice che non ci può essere alcuna trattativa, vuol dire che rimane saldo il concetto che nulla di questa riforma per voi si può modificare? Le modifiche le può fare il potere legislativo. Siccome noi abbiamo un dissenso globale su questa riforma, vorrei soltanto spiegare quali sono le ragioni di questo dissenso, come magistrato e come cittadino. Immagino che non cambieranno idea, però perché non tentare? Non voglio metterla nella posizione di parlare per tutta la Giunta ma in astratto le chiedo: se il governo vi proponesse il sorteggio temperato secondo lei la magistratura sarebbe pronta ad accettare questa modifica? Se rispondessi alla sua domanda mi metterebbe in grande difficoltà perché ogni decisione spetta alla giunta. Noi ovviamente ribadiamo che abbiamo osservazioni critiche su ogni singolo punto della riforma. La mia impressione personale è che probabilmente nulla verrà cambiato e quindi il problema che solleva lei non si porrà. Comunque mi preme sottolineare che la giunta è sovrana per qualunque decisione che verrà presa. Anche questa sua non risposta lascia aperta comunque la possibilità di dialogo su alcuni punti, altrimenti avrebbe detto già “no”, ribadendo quello già espresso dalla giunta precedente... La nuova Giunta valuterà con estrema attenzione quello che ci sarà detto nell’incontro: sarà comunque un momento significativo, quantomeno se riusciremo almeno a distendere i rapporti tra le parti. Sui contenuti, non voglio essere evasivo, però è talmente complessa e delicata la situazione che non posso aggiungere altro. Secondo Lei con la sua presidenza il Governo sarebbe pronto a rimettere mano all’intera riforma? Non glielo so dire. Mi piacerebbe che fosse così, però io non vivo di illusioni. Dopodiché ascolteremo tutti con attenzione e faremo le nostre valutazioni. A proposito di correnti, lei ha detto “non siamo la banda Bassotti”. Però sabato chi era presente al Cdc non ha assistito a uno spettacolo edificante. Più che gruppi di pensiero, sembravate partiti politici pronti a scannarvi per una poltrona... Quando ho usato il termine Banda Bassotti non mi riferivo tanto a quello che stava accadendo in quella giornata dove si decidevano degli incarichi, momenti in cui ci possano esserci delle tensioni: credo che questo sia assolutamente normale. Mi riferivo al fatto che da molto tempo ormai si è formata l’idea che le correnti siano sostanzialmente soltanto un luogo di aggregazione per la trasmissione del potere: io questo francamente non l’accetto, non è il mondo che conosco io, non è il mondo del mio gruppo e penso nemmeno di quello degli altri. Poi ci sono delle persone che vivono la vita di corrente per interessi personali, ma questo si verifica in tutte le associazioni. Però Giuseppe Tango della sua corrente arriva primo e proprio Mi non lo vuole alla presidenza. Lo giudica opportuno? Quattro anni fa Giuseppe Santalucia, che è stato uno splendido presidente dell’Anm, non era certamente il candidato più votato. Però se è stato eletto presidente è perché proprio Mi ha posto il veto su Luca Poniz. Addirittura ora lo avete messo su uno dei vostri... Come sa, io non ero candidato alla presidenza. Io sono iscritto a Mi dal 1990, mi ritengono una persona affidabile e quindi se i colleghi di Mi in un momento particolare mi hanno chiesto di fare qualcosa mi sono reso disponibile. È pronto a riaprire un dialogo con l’avvocatura? Certamente. Un dialogo è necessario con tutti: avvocatura, politici, giornalisti. I suoi colleghi milanesi hanno rifiutato di prendere parte all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi. Lei sarebbe andato? Non mi hanno invitato e comunque avrei sicuramente sottoposto la questione alla Giunta. Le pongo la domanda immaginando di mettersi nei panni dei vertici giudiziari degli uffici milanesi... Si tratta di rapporti personali che potrebbero esserci con determinati soggetti. Posso dirle che a fronte di inviti di alcuni avvocati magari non sarei andato. È anche una questione di persone, nel senso che ci sono molti avvocati con cui io sono in buoni rapporti e a fronte di un loro invito sarei invece andato. Sarebbe d’accordo con l’inserimento dell’Avvocato in Costituzione? A titolo personale le rispondo di sì. Non so cosa pensi la Giunta su questo. L’onorevole Calderone di Forza Italia ha detto: “Se i magistrati dovessero andare in un’udienza con la coccarda, sono pronto a chiedere procedimenti disciplinari”... È un suo diritto chiedere il procedimento disciplinare e qualcuno poi deciderà se c’è un illecito oppure no. Sul Ddl Sicurezza un “caso Italia”, ma in tutta Europa c’è puzza di autoritarismo di Leonardo Fiorentini L’Unità, 11 febbraio 2025 A Bruxelles l’assemblea sul contestato progetto di legge, promossa dalla rete “A pieno regime”. L’attacco ai diritti civili e politici oltrepassa i confini nazionali. La rete “A pieno regime - No Ddl Sicurezza” è riuscita a portare sino a Bruxelles il dibattito sul contestato progetto di legge in discussione al Senato. Nelle stesse ore in cui Maurizio Gasparri ha invocato la necessità di “prendere una decisione politica” evocando la possibilità di adozione di uno stralcio per decreto-legge, una delegazione delle associazioni, realtà sociali, civiche e politiche che hanno organizzato la manifestazione dei 100.000 del 14 dicembre a Roma, ha partecipato ad una affollata assemblea che ha discusso le criticità del Ddl Sicurezza. Ospitata da Ilaria Salis negli spazi del gruppo della Sinistra al Parlamento Europeo, l’assemblea ha permesso di condividere con europarlamentari di tutta Europa i pericoli di “un provvedimento autoritario che mina diritti fondamentali e garanzie costituzionali”. Durante l’assemblea, Salis ha denunciato le somiglianze con le misure adottate dal governo Orbán in Ungheria, dove il reato di vagabondaggio è stato reintrodotto e le donne incinte scontano pene senza tutela sanitaria. Anche in Francia, come ha evidenziato Damien Carême (La France Insoumise), la repressione dei movimenti ambientalisti e delle reti solidali con i migranti è all’ordine del giorno. Isabel Serra Sánchez (Podemos) ha sottolineato come il governo italiano non stia facendo altro che seguire schemi repressivi già sperimentati dalla destra europea, come la legge spagnola del 2013 che ha limitato la libertà di manifestazione. Infine, Marc Botenga (Pvda-Ptb) ha testimoniato come anche in Belgio la criminalizzazione dei picchetti sindacali e le pesanti condanne inflitte ai sindacalisti, dimostrano la volontà di annientare la conflittualità sociale. Gli interventi che poi si sono alternati degli eurodeputati italiani del PD Cecilia Strada e Alessandro Zan, Giuseppe Antoci e Gaetano Pedullà del Movimento 5 Stelle hanno evidenziato come contro il DdL Sicurezza si possa e si debba costruire un’ampia opposizione nel parlamento, ma soprattutto nel paese. Ma l’intervento più applaudito è stato quello delle studenti e degli studenti che hanno denunciato prima la riforma Valditara, che con la reintroduzione del voto di condotta “tratta come disordine, e quindi criminalizza, ogni forma di espressione politica e manifestazione nelle scuole” e poi la “trasformazione dei luoghi del sapere e della formazione in luoghi di schedatura di massa” con l’art. 31 del DdL Sicurezza che prevede la comunicazione ai servizi segreti dei dati personali da parte di Scuole e Università, per segnalare individui pericolosi o addirittura insegnanti accusati di diffondere “tesi sovversive”. Sono state esaminate un po’ tutte le misure presenti nel provvedimento, compresa l’esenzione di responsabilità per reati eversivi commessi dagli apparati di intelligence. Particolare attenzione è stata dedicata alla negazione della sospensione della pena per donne in gravidanza e l’introduzione del reato di “rivolta penitenziaria”, che equipara la resistenza passiva a quella attiva, in un sistema carcerario già in crisi per sovraffollamento e suicidi. L’assemblea ha inoltre condannato la violenza sistematica contro i migranti e l’eliminazione del diritto alla comunicazione per chi non ha documenti di soggiorno, chiedendo un intervento europeo per il monitoraggio dei centri di detenzione e rimpatrio. Consiglio d’Europa, OSCE e ONU hanno già espresso preoccupazione per la natura repressiva del DDL Sicurezza. È ormai evidente che ci sono le premesse per aprire un “Caso Italia” a livello internazionale. È quello che hanno chiesto al Parlamento Europeo Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni durante la conferenza stampa introdotta da Benedetta Scuderi, eurodeputata verde, che ha aperto il pomeriggio ed alla quale hanno partecipato rappresentanti della delegazione della rete. Rispetto al passato però, come hanno testimoniato le parole degli interlocutori internazionali, andare a Bruxelles non equivale più a prendere “una boccata d’ossigeno”. L’autoritarismo è una deriva che oltrepassa i confini delle nazioni: non si tratta più di pochi casi isolati, ma di un processo decennale che sta normalizzando l’attacco ai diritti civili e politici in tutta Europa. Il disegno di legge italiano rappresenta un ulteriore tassello, ancora più pericoloso perché si inserisce in un processo repressivo su scala europea, mirato a consolidare il controllo sociale e favorire interessi economici elitari. Per questo nel documento finale si ribadisce che “la solidarietà tra i movimenti europei è imprescindibile” e si sottolinea l’importanza di una “mobilitazione europea e di una resistenza antifascista sovranazionale”. La lotta contro il DDL Sicurezza non riguarda quindi solo l’Italia, ma è una battaglia per la democrazia in tutta Europa. Si pensa già ad un momento di mobilitazione internazionale, mentre già il 22 febbraio sono previste nuove mobilitazioni in tutto il territorio italiano in attesa della calendarizzazione in aula del Disegno di Legge. Baby gang, inutile punire sotto i 14 anni di Giovanni Valentini Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2025 I reati commessi da minorenni sono aumentati nel dopo-Covid (con il picco nel 2022). Ma uno studio del professor De Vita smonta l’utilità della repressione prevista dal decreto Caivano. Ottomila euro al mese per fare lo spacciatore: la confessione del baby killer di 16 anni che qualche mese fa - su mandato del boss del clan a cui apparteneva - aveva ucciso con un colpo di pistola l’amico d’infanzia, il ventenne Giuliano Ramondino, ha aperto uno squarcio di orrore sul fenomeno terrificante della delinquenza minorile. Ma la cronaca continua purtroppo a registrare, con una quotidiana e terribile puntualità, i casi che si susseguono uno dietro l’altro in una spirale di violenza e di odio: dal bambino di dieci anni che a Giugliano, in Campania, ha colpito con un coltello un tredicenne durante una lite per un pallone, fino alla dodicenne che ha accoltellato un coetaneo di scuola media nel cortile di un istituto romano. Ormai, di fronte a questo inquietante crescendo criminale, anche il termine emergenza appare inadeguato. E insufficienti risultano i tentativi e i rimedi messi in atto finora. A cominciare dal cosiddetto “decreto Caivano”, approvato il 15 settembre 2023 e convertito in legge il 13 novembre successivo, con cui il governo ha cercato di dare un giro di vite alle misure per la sicurezza dei minori in chiave nettamente repressiva. Rieducazione e recupero. Al di là delle sanzioni da applicare ai responsabili di questi reati, è necessario combinare il principio della rieducazione e quello del recupero. E qui si riapre il tema della punibilità del minore in base all’età: 18 anni, 14 anni o ancora meno? In un ampio dossier del professor Roberto De Vita, avvocato penalista e docente alla Scuola di Polizia economica della Guardia di Finanza, con la collaborazione degli avvocati Giada Caprini e Marco Della Bruna, si analizzano le cause e le possibili soluzioni di questo problema, anche in rapporto agli altri paesi europei. “Alla ricerca di un difficile equilibrio fra educazione e punizione, si tratta di conciliare le istanze di sicurezza sociale e la responsabilità dei giovani con la tutela della loro effettiva condizione di maturità, delle loro esigenze di crescita e del sano inserimento nella società”, si legge nello studio. La questione, insomma, non si risolve abbassando ancora il livello dell’età per stabilire la punibilità dei minorenni che delinquono. E così assistiamo, da una parte, all’impotenza di genitori e di educatori; dall’altra, a misure di contrasto alla criminalità che però non sembrano rispondere in modo efficace. Povertà assoluta. Il reclutamento dei minorenni, da parte della criminalità organizzata, è agevolato dalla circostanza che i ragazzi sono sempre più colpiti dalla povertà assoluta in seguito alla pandemia da Covid: oltre il 13% dopo il 2020 e fino al 13,8% nel 2024. Da questo dato, si possono comprendere meglio le condizioni del contesto sociale e familiare che favoriscono l’ingresso precoce nel circuito criminale: soprattutto in determinate fasce della popolazione e in contesti territoriali disagiati. In Italia, dopo la progressiva flessione delle denunce contro minori avvenuta fino al 2019, già dal 2021 si è registrato un sensibile aumento. Fino al picco del 2022, anno in cui i casi sono saliti a 32.522, tornando al livello massimo raggiunto nel 2015 (35.744). Una leggera contrazione si è poi rilevata nel 2023, con 31.173 segnalazioni, confermando in ogni caso uno spaventoso ordine di grandezza. I dati più recenti, come quelli della Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia del 2024, insieme alle segnalazioni raccolte dalle Forze dell’ordine, indicano che nell’ultimo anno sono cresciute tra i minorenni anche le violazioni in tema di stupefacenti (da 2.499 a 2.671), oltre le risse, le lesioni dolose e le rapine. Queste ultime, in particolare, non hanno registrato alcuna flessione in conseguenza al blackout del periodo pandemico: anzi, dal 2020 a oggi, sono costantemente cresciute da poco meno di 2.000 a oltre 3.400. La soglia dei 14 anni. Sotto il fascismo, fu il Codice Rocco a innalzare da nove a 14 anni l’età di presunzione di non impunibilità assoluta per i minori (articolo 97 del Codice penale). È passato quasi un secolo, quel Codice è ancora in vigore e si studia all’Università. “Al di sotto di questa età - spiega il professor De Vita, citando il precedente storico - un minore non può essere ritenuto penalmente responsabile, poiché si presume in via assoluta che sia privo della capacità di intendere e di volere”. All’epoca tale soglia fu individuata poiché il quattordicesimo anno di età veniva fatto coincidere con lo sviluppo puberale, ritenuto decisivo per la formazione fisica e psichica. Dai 14 ai 18 anni, mentre prima esisteva una presunzione di responsabilità, adesso il minore viene ritenuto imputabile solo se ha la cosiddetta “capacità di intendere e di volere”: non più presunta, ma accertata caso per caso. Dopo i 18 anni, invece, questa è sempre presunta e non sono previste diminuzioni di pena (art. 98). Ma ora, di fronte all’escalation della criminalità minorile, si può dire che la situazione non sia cambiata? E un adolescente di oggi non è più informato ed evoluto di un coetaneo di allora? Non sarebbe opportuno modificare la soglia di punibilità? La risposta di De Vita è netta: “L’estensione della responsabilità penale ai minori di 14 anni si tradurrebbe solo in un approccio repressivo inefficace”. Per ribadire questa tesi, nello stesso studio si legge: “L’eventuale modifica dell’età minima di imputabilità, al contrario, dovrebbe tenere conto di numerosi aspetti di carattere sociale, biologico, giudiziario e geografico. Senza pensare che si possa intervenire con un semplice spostamento di asticella per poter perseguire i minori laddove falliscono gli adulti: genitori e educatori che, così, sarebbero ancora più deresponsabilizzati da un intervento a valle dell’autorità pubblica su patologie molto spesso prevenibili”. Il confronto con gli altri paesi. A sostegno della propria posizione, più “garantista” che repressiva e punitiva, il professor De Vita passa in rassegna la legislazione di altri paesi. In Europa, la soglia minima per stabilire l’imputabilità è molto variabile. La maggior parte dei nostri partner, seppure con alcune differenze fra loro, applicano il modello italiano dei 14 anni. Adottano invece il limite dei dieci anni Svizzera, Inghilterra e Galles, Irlanda del Nord; mentre sono imputabili dai 12 anni in Andorra, Belgio, Ungheria (solo per i reati più gravi, negli altri casi dai 14 anni), Irlanda (che prevede tuttavia l’imputabilità dai 10 anni per i reati più gravi), Paesi Bassi, San Marino, Slovacchia (con l’eccezione della violenza sessuale, per cui si parte dai 15 anni), Slovenia, Spagna e Scozia. Altrove, troviamo la soglia di 13 anni in Francia e nel Principato di Monaco; 15 in Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Grecia, Islanda, Norvegia, Polonia e Svezia. Si sale a 16 in Albania, Armenia, Austria, Azerbaijan, Bielorussia, Lituania, Moldavia, Russia, Ucraina (che però prevedono l’imputabilità a 14 anni per i reati più gravi) e Portogallo (con una estensione fino a 12 anni di determinate misure correzionali). Curioso è il caso del Lussemburgo, dove non è prevista un’età minima. L’età colpevole. Conclude il professor De Vita: “Un impulsivo e non ponderato abbassamento dell’età imputabile rischia di certificare il passaggio da un processo per i minorenni a un processo contro i minorenni. Dalla presunzione di innocenza si passa così all’età colpevole”. Fatto sta che - come sanno bene gli operatori della giustizia - recludere un minore in carcere o in un altro istituto, rischia di servire poco al recupero e alla rieducazione, come prescrive la Costituzione. Più spesso, soprattutto per gli spacciatori o per i colpevoli di reati meno gravi, la detenzione si trasforma purtroppo in una scuola di perfezionamento o di specializzazione. E quando escono tornano in società e sono anche peggiori di prima. Isolamento diurno, la Cassazione scioglie il nodo competenze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2025 La discussione sulla sacrosanta separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri si trascina da decenni, mentre paradossalmente la Cassazione si trova continuamente costretta a ribadire il principio di separazione delle competenze già esistenti, come quella sulla determinazione della pena. L’ultima sentenza della Corte Suprema, la numero 4793 proprio a firma del giudice Giuseppe Santalucia, ex presidente dell’Anm critico contro il disegno di legge sulla separazione, è dovuta intervenire per demarcare tali competenze. Pietro Comberiati, nato a Crotone il 24 luglio 1980 e condannato in via definitiva all’ergastolo a venti anni di reclusione, aveva presentato un ricorso contestando la gestione dell’isolamento diurno, una misura prevista dall’art. 72 del codice penale. In particolare, la difesa di Comberiati sosteneva che, pur essendo state poste in esecuzione entrambe le condanne, il provvedimento del Pubblico ministero - il quale aveva disposto l’esecuzione di entrambe le pene - doveva invece essere integrato con una specifica richiesta rivolta al Giudice dell’esecuzione. Quest’ultimo, infatti, avrebbe dovuto stabilire la durata dell’isolamento diurno da espiare, separando così l’esecuzione dell’ergastolo da quella della pena detentiva a termine. La controversia nasceva dalla modalità con cui era stata gestita l’istanza difensiva: la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro aveva dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo che la questione andasse sollevata direttamente dal Pm, il quale avrebbe dovuto decidere sulla richiesta relativa all’isolamento diurno. Secondo l’ordinanza impugnata, la difesa avrebbe sbagliato nel presentare la domanda nel contesto sbagliato. La Cassazione, tuttavia, ha chiarito che la situazione è ben diversa. Con una decisione fondata sui principi giurisprudenziali consolidati - come evidenziato nelle sentenze “Rosmini” e “Araniti” del 2000 e confermato recentemente con la sentenza “Morelli” del giugno 2024 - la Cassazione ha stabilito che il potere di determinare il quantum dell’isolamento diurno spetta unicamente al Giudice dell’esecuzione. In altre parole, il ruolo del Pubblico ministero non include la valutazione e la quantificazione di tale sanzione penale. La sentenza, pronunciata dal relatore Angelo Valerio Lanna e dal presidente Giuseppe Santalucia, non solo annulla l’ordinanza impugnata, ma dispone il rinvio della causa alla Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro per un nuovo giudizio. Questa decisione comporta un duplice messaggio. Il primo è la chiarezza sulla distribuzione delle competenze: la Cassazione ribadisce che, in presenza di pene multiple, la determinazione dell’isolamento diurno è di esclusiva competenza del Giudice dell’esecuzione, il quale deve operare seguendo i criteri previsti dall’art. 133 del codice penale. Il secondo messaggio è la risoluzione di una apparente contraddizione: la sentenza evidenzia come l’errata attribuzione di compiti al Pm, in questo ambito, costituisca una motivazione “contraddittoria e manifestamente illogica”. Tale chiarimento giurisprudenziale punta a garantire la coerenza dell’ordinamento nell’applicazione delle norme esecutive. Il pronunciamento della Cassazione ha rilevanti ripercussioni sulla gestione delle pene esecutive. Stabilire con fermezza la competenza del Giudice dell’esecuzione offre una maggiore tutela ai condannati, assicurando che la determinazione del quantum dell’isolamento diurno sia valutata da un organo giudiziario indipendente, secondo criteri oggettivi e consolidati. Questa decisione potrebbe, infatti, influire su altri casi in cui si intrecciano pene definitive e a termine, contribuendo a evitare conflitti interpretativi e procedurali. La decisione della Suprema Corte nel caso Comberiati rappresenta un ulteriore tassello nella definizione delle competenze nell’ambito dell’esecuzione penale. Con il rinvio per nuovo giudizio, la Cassazione ha non solo corretto un errore procedurale, ma ha anche rafforzato il principio secondo cui il potere di determinare l’isolamento diurno spetta esclusivamente al Giudice dell’esecuzione. Un chiarimento che, nel contesto di un sistema giuridico complesso, mira a garantire maggiore coerenza e trasparenza nell’applicazione delle sanzioni penali. Prima ancora della separazione delle carriere, abbiamo ancora oggi un problema con la separazione delle competenze. Reggio Emilia. Morto in carcere a vent’anni: “Voleva lottare per riabilitarsi, non meritava questa fine” di Paola Pagnanelli Il Resto del Carlino, 11 febbraio 2025 Ragazzo trovato senza vita nel penitenziario di Reggio Emilia, ora la famiglia chiede chiarezza. L’avvocato Giulianelli: “Dispiace che non possa più difendere le sue ragioni in appello”. “Dispiace che un ragazzo di 20 anni sia morto, prima di poter dimostrare che le accuse su di lui non erano tutte fondate, e che ora al suo nome resti legata una storia così brutta”. L’avvocato Giancarlo Giulianelli parla con profondo rammarico del ventenne di Cingoli trovato morto sabato pomeriggio nel carcere di Reggio Emilia. Le cause della morte non sono ancora chiare, per questo la procura ha disposto un’autopsia, che sarà eseguita questa mattina. Il ragazzo era stato arrestato per una condanna per estorsione, relativa a un episodio avvenuto in provincia di Ancona. Era invece in corso un altro processo, sempre per estorsione, ai danni però di una minorenne: l’avrebbe costretta a pagare 300 euro, se non voleva che lui divulgasse alcune sue foto intime. Per questa accusa, il ventenne (di cui omettiamo le generalità a tutela della vittima) era stato condannato a cinque anni di reclusione, ma presto la vicenda sarebbe finita davanti alla corte d’appello. “Avevamo elementi validi per dimostrare che la storia era piuttosto anomala, e che le cose non stavano proprio nei termini emersi in primo grado - commenta l’avvocato Giulianelli, che difendeva il ragazzo con il collega Alberto Rossi -. Per questo, dispiace ancora di più che ora non possa esserci modo di difendere le sue ragioni in appello: ormai il processo si è chiuso così. Questo ragazzo non lo meritava, non meritava che le sue questioni con la legge finissero prima di poter essere riabilitato, e di sicuro non meritava di morire. La mamma - aggiunge il difensore - si era sempre spesa tantissimo per lui, e ora per lei è motivo di grande amarezza che il figlio se ne sia andato in questo modo. Era un ragazzo che ha dovuto affrontare tante difficoltà, ma non doveva finire così”. La madre e i difensori escludono che il ventenne possa essersi suicidato, visto che anzi era piuttosto contento negli ultimi giorni: dopo diversi trasferimenti da un carcere all’altro, per via di alcune intemperanze, stava per tornare nelle Marche, riavvicinandosi alla famiglia. Il giovane era stato rinvenuto ormai cadavere dal compagno di cella, che aveva allertato la polizia penitenziaria. “Dai primi accertamenti - ha detto Francesca Bertolini, responsabile del Servizio inserimento socio lavorativo e area penale per l’organizzazione di volontariato Nuovamente di Reggio Emilia - sembra si possa essere trattato di un mix tra farmaci e alcol. Una cosa che spesso accade in questi luoghi. I farmaci in cella diventano merce di scambio tra detenuti, che se li fanno prescrivere magari per un mal di testa o perché insonni, e poi li barattano con i compagni in cambio di altri beni o denaro. Questi poi li assumono facendo un cocktail in grado di stordirli e fargli dimenticare il luogo dove si trovano e la situazione che stanno vivendo. Il ventenne non aveva problemi di salute noti, non pare però che ci siano nemmeno indizi che portino sulla strada del suicidio. Il ragazzo è stato al centro delle preghiere nella messa delle 10 a San Pietro, nel centro di Reggio Emilia, la comunità è stata invitata a pregare per lui “morto in solitudine, lontano dai suoi affetti, in cella. Un ennesimo dramma umano avvenuto in carcere”. “Spiace perché era giovanissimo - ha concluso Bertolini -. Non sappiano come sarebbe andata se si fosse trovato in un altro ambiente, con i soccorsi allertati in tempo utile, magari si sarebbe salvato, qui purtroppo se ne sono accorti quando ormai era troppo tardi per fare qualsiasi cosa. È l’ennesimo triste episodio di un essere umano che muore così, dietro le sbarre”. Lecce. Cade in carcere, per il medico sta bene: muore per ematoma interno pochi giorni dopo di Francesco Oliva La Repubblica, 11 febbraio 2025 Aperta un’inchiesta per omicidio colposo a carico di ignoti per far luce sul decesso di Massimo Calò, detenuto a Borgo San Nicola a Lecce. La cognata: “Stava male ma non sono stati disposti accertamenti finché due giorni dopo non è svenuto. Ma era troppo tardi”. Detenuto cade dal letto e riporta un ematoma in testa ma il medico del carcere non dispone alcun accertamento. Giorni dopo sviene e, solo a quel punto, viene ricoverato in ospedale dove, però, muore mercoledì 4 febbraio. C’è un fascicolo di indagine avviato dalla magistratura salentina per fare luce sulle cause e accertare eventuali responsabilità sul decesso di Massimo Calò, leccese di 53 anni non ancora compiuti, detenuto nel carcere di borgo “San Nicola”. “Non si può morire per un ematoma in testa - dichiara a Repubblica la cognata - vogliamo capire se ci sia stata qualche superficialità nell’assistenza e nelle cure. Perché Massimo - si domandano i familiari - non è stato sottoposto prontamente ad alcuni accertamenti che avrebbero potuto salvargli la vita?”. Calò si trovava detenuto per una rapina compiuta il 23 dicembre 2021 ai danni di un anziano a Lecce. E stava finendo di scontare la condanna a 4 anni diventata, nel frattempo, definitiva. Il fine pena, infatti, era previsto fra pochi mesi. “In carcere non aveva mai dato alcun tipo di problema - spiegano i familiari - e non vedeva l’ora di ritornare in libertà e poter così riabbracciare l’amata figlioletta”. Agli inizi di gennaio, però, Calò rimane vittima di un incidente: cade dal letto e sbatte la testa per terra. Viene così portato in infermiera per sottoporsi a un consulto. “Qui un medico - racconta sempre la cognata - visita Massimo ma, a nostro avviso, avrebbe sottovalutato la gravità dell’incidente. Non viene disposto alcun accertamento, come una Tac, e mio cognato viene rimandato in reparto con un ematoma interno”. Calò, però, continua a non stare bene. Lamenta, in particolare, forti dolori in testa. Due giorni dopo, il detenuto accusa un malore. Perde i sensi, cade a terra, e interviene un’ambulanza. “Che - racconta la cognata - arriva dopo un paio di ore. Il personale del 118 rileva un’emorragia interna e Massimo viene accompagnato all’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce”. Da subito le condizioni del detenuto sono giudicate gravissime. L’ematoma, infatti, ha provocato danni irreversibili e Calò si spegne nel reparto di Rianimazione, dove era ricoverato da settimane, mercoledì 4 febbraio. Rabbia e sconcerto tra i familiari che hanno deciso di formalizzare una denuncia. E la pm Maria Grazia Anastasia ha aperto un fascicolo d’indagine con l’accusa di omicidio colposo al momento a carico di ignoti. Nella giornata di mercoledì 12 febbraio è fissata l’autopsia sul corpo dell’uomo affidata al medico legale Alberto Tortorella. Sarà un primo passaggio fondamentale per dare le risposte che attendono i familiari “perché - dicono - non si può morire a quell’età per un ematoma in testa”. “La situazione all’interno del carcere di Lecce - commenta l’avvocata Maria Pia Scarciglia, Presidente di Antigone Puglia - non è più esplosiva ma è esplosa. Pochi giorni fa, abbiamo sfiorato i 1300 detenuti. Ci sono tanti detenuti che aspettano visite, interventi chirurgici anche gravi da tempo. È ormai chiaro - sbotta l’avvocato - che il sistema è collassato”. Avellino. Il detenuto 36enne ritrovato morto era affetto da una grave forma di diabete napolitan.it, 11 febbraio 2025 Saranno le cartelle cliniche e le relazioni mediche a stabilire perchè il 36enne Ciro Pettirosso, detenuto nella Sezione comuni del carcere Antimo Graziano di Bellizzi Irpino in provincia di Avellino, è deceduto dopo aver perso i sensi all’interno della sua cella. Autopsia e cartelle cliniche che dovranno far luce sul decesso e chiarire se ci sono responsabilità mediche: a distanza di 48 ore dal decesso del giovane napoletano, stroncato da un arresto cardiocircolatorio, l’ipotesi più probabile resta quella collegata alla patologia di cui il trentaseienne era affetto, una grave forma di diabete mellito. La Procura di Avellino avrebbe già acquisito tutte le cartelle cliniche e le relazioni redatte dal personale in servizio nel pomeriggio di venerdì 7 febbraio, quando il 36enne è stato colto dal malore che ne ha provocato la morte. Sul corpo del trentaseienne non c’erano segni di violenza. Nelle prossime ore il pm che coordina la prima fase di accertamenti, il sostituto procuratore Cecilia Annecchini, conferirà l’incarico per l’esame medico legale sulla salma del giovane. Nel corso del pomeriggio di venerdì 7 gennaio, Ciro Pettirosso è stato colto da un malore, mentre si trovava nella sua cella ed è stato condotto in infermeria dove gli sarebbero state praticate tutte le manovre necessarie per rianimarlo, seppure non sia bastato a salvargli la vita. Anche il personale del 118 una volta giunto nell’istituto penitenziario di Bellizzi non ha potuto fare altro che constatare il decesso. La famiglia di Ciro Pettirosso chiede giustizia e la verità sulla morte del giovane, il fratello Francesco sostiene che vi sia stata una presunta negligenza medica e Ciro avrebbe ricevuto cure inadeguate: “Hanno sbagliato la somministrazione dell’insulina, mio fratello è morto per la loro incapacità”. Modena. Il carcere della morte: quattro decessi in meno di un mese di Luigi Mastrodonato Il Domani, 11 febbraio 2025 Tra le celle dell’istituto Sant’Anna ci sono stati quattro decessi in poche settimane. Si presume che in tutti i casi i detenuti si siano tolti la vita. L’ultimo suicidio risale allo scorso 4 febbraio. L’uomo aveva problemi psichici e aveva ricevuto una segnalazione per rischio suicidario lieve. Il 2025 delle carceri italiane si è aperto come era finito il 2024, cioè all’insegna dei decessi. Se lo scorso anno si è chiuso con il record di suicidi, ben 90, nell’anno nuovo ne sono stati registrati già dieci, un ritmo in linea con quello del 2024. Di carcere si muore, ma c’è un istituto dove nelle ultime settimane si sta morendo più che negli altri. Tra le celle del carcere Sant’Anna di Modena nel giro di un mese ci sono stati quattro decessi, presumibilmente tutti suicidi. Cinque anni dopo le rivolte che portarono alla morte di nove detenuti in circostanze mai del tutto chiarite, l’istituto emiliano torna dunque a far parlare tragicamente di sé. E le Camere penali di Modena e Bologna hanno annunciato uno sciopero contro le condizioni critiche di detenzione nell’istituto. L’ultimo decesso nel carcere Sant’Anna di Modena c’è stato la scorsa settimana. Il 4 febbraio un 27enne di origine marocchina è stato trovato morto nella sua cella per una presunta overdose di farmaci. Secondo le prime ricostruzioni sarebbe morto nella notte, eppure la scoperta del decesso sarebbe avvenuta solo il giorno successivo, a diverse ore di distanza. L’uomo aveva problemi psichici e aveva ricevuto una segnalazione per rischio suicidario lieve. Proprio pochi giorni prima del decesso aveva fatto però una nuova visita psichiatrica e dalla cartella clinica era stato depennato il rischio suicidario rilevato in precedenza, che significa da quel momento avrebbe ricevuto una minore sorveglianza. Come ha fatto sapere la legale della famiglia dell’uomo, Tea Federico, non si sa ancora se sarà disposta l’autopsia, che sarebbe utile per comprendere meglio le cause del decesso. Che al momento non sembra un incidente, ma un suicidio, vista la grande quantità di farmaci che l’uomo avrebbe assunto nel giro di pochi minuti. La morte di inizio febbraio nel carcere Sant’Anna di Modena è l’ultima di una scia che va avanti da poco più di un mese. Il 31 dicembre scorso nell’istituto emiliano si è tolto la vita un 37enne di origine macedone. L’uomo sarebbe morto inalando gas dalla bomboletta data in dotazione ai detenuti per cucinare. Il 7 gennaio nello stesso modo è morto il detenuto 49enne Andrea Paltrinieri. Il giorno prima, il 6 gennaio, era invece morto un detenuto 27enne di origine marocchina, che era ricoverato in ospedale da metà dicembre in gravissime condizioni per le conseguenze di un tentativo di suicidio. Quattro detenuti di un singolo istituto penitenziario morti in poco più di un mese. È un dato impressionante, come impressionante è il fatto che due di questi si siano uccisi inalando gas, così come aveva fatto un altro detenuto del carcere di Modena nel 2023. L’inalazione di gas è la seconda tecnica di suicidio più diffusa nelle carceri italiane dopo l’impiccagione e la domanda che sorge spontanea è perché allora i detenuti, compresi quelli più fragili, continuino a poter disporre di questi strumenti di potenziale morte senza che l’amministrazione penitenziaria pensi ad alternative, come i fornelletti elettrici. La risposta sta nelle condizioni strutturali precarie della gran parte delle carceri italiane. A Modena per esempio tutti quei fornelletti elettrici farebbero saltare i vecchi generatori e invece di modernizzare il sistema si continua a dare il gas in mano ai detenuti. Nelle scorse settimane le Camere penali di Modena e Bologna hanno condotto visite all’istituto Sant’Anna di Modena e alla Dozza di Bologna, rilevando condizioni di detenzione terribili, in particolare legate al sovraffollamento. A Modena il tasso di sovraffollamento è del 151 per cento e questo si riflette sulla salute delle persone detenute, contribuendo a spiegare la strage dell’ultimo mese. Proprio per protesta contro queste terribili condizioni di detenzione e per i quattro morti di Modena, le Camere penali di Modena e Bologna hanno annunciato che il 19 e 20 febbraio si asterranno dalle udienze in tribunale. “Quello passato è stato un anno tragico per quanto riguarda il numero di suicidi avvenuti in carcere: si deve prendere atto di questa situazione così allarmante e intervenire, ognuno per la sua competenza, per fermare questa emorragia. Il 2025, purtroppo, non è iniziato diversamente”, denuncia l’avvocato Luca Sebastiani. “Solo a Modena, nelle prime quattro settimane dell’anno, si sono registrati quattro decessi. Abbiamo visitato l’Istituto che, come altre carceri regionali, versa in condizioni decisamente critiche: oltre ai problemi strutturali, è ampiamente sovraffollato e la pianta organica dell’area educativa e della Polizia Penitenziaria è inferiore a quella regolare”. E sempre riguardo a Modena, a fine mese dovrebbero concludersi le indagini supplementari per le presunte torture degli agenti penitenziari a danno dei detenuti nel corso della rivolta del 2020, quando morirono in nove. A settembre la gip aveva infatti respinto la richiesta di archiviazione della Procura, chiedendo altri sei mesi di investigazioni. E nelle scorse settimane si è aggiunta una nuova voce alle denunce di violenze. Un detenuto che non risulta tra quelli sotto processo per la rivolta ha presentato infatti un esposto in cui denuncia le lesioni che gli sarebbero state provocate dagli agenti in quelle tragiche ore. Palermo. Preoccupazioni per le restrizioni e i divieti al carcere Pagliarelli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2025 Il deputato Roberto Giachetti, di Italia Viva, ha portato in Parlamento la questione delle draconiane restrizioni imposte nel carcere di Palermo- Pagliarelli, sollevando dubbi e preoccupazioni riguardo al trattamento riservato ai detenuti. Nell’interrogazione parlamentare indirizzata al ministro della Giustizia, chiede chiarimenti e spiegazioni su una serie di misure che, secondo quanto riportato, stanno peggiorando le condizioni di vita all’interno della Casa circondariale. La vicenda è emersa dopo una notizia dell’AGI, che ha descritto una mobilitazione dei detenuti in reazione a una circolare emanata dal provveditore regionale. Tale documento, infatti, inasprisce il regime di detenzione, introducendo restrizioni che colpiscono vari aspetti della quotidianità dei detenuti. Tra le misure segnalate figurano il divieto di ricevere pacchi contenenti alimenti, una decisione particolarmente gravosa considerando che una buona parte dei detenuti proviene da contesti economicamente svantaggiati e che circa il 40% di essi è trasferito da altre province. L’inasprimento delle misure si accompagna, inoltre, a ulteriori criticità: i detenuti lamentano l’assenza di acqua calda nelle docce, il mancato adeguamento del riscaldamento nelle celle e ritardi considerevoli nell’erogazione delle analisi mediche. A peggiorare la situazione, si vocifera che presto possano essere introdotte nuove limitazioni, come il divieto di far entrare coperte e indumenti in pile, essenziali per fronteggiare il freddo in un ambiente che molti definiscono “di ghiaccio”. Le reazioni a queste misure non si sono fatte attendere. Il Garante dei detenuti di Palermo, Pino Apprendi, ha denunciato come particolarmente grave il divieto sull’ingresso dei pacchi alimentari, sottolineando come questo provvedimento penalizzi ulteriormente i detenuti, già messi in difficoltà da una condizione economica precaria. Anche il garante regionale Santi Consolo ha espresso il suo dissenso, ricordando che simili restrizioni erano già state contestate in altre sedi, come a Siracusa, e affermando che “non è questa la via per mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari”. Consolo, inoltre, ha manifestato preoccupazione per il fatto che non gli sia stato consentito l’accesso al testo della circolare. Il dibattito assume rilevanza anche se posto in un contesto normativo più ampio, che prevede che la vita in carcere debba avvicinarsi il più possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera. Le regole penitenziarie europee, infatti, stabiliscono che il regime alimentare dei detenuti debba tener conto di molteplici esigenze - dal sesso all’età, dallo stato di salute alle convinzioni religiose - mentre l’ordinamento italiano evidenzia l’importanza di mantenere e rafforzare i contatti tra i detenuti e il mondo esterno, in particolare i legami familiari. In questo quadro, le misure restrittive adottate a Pagliarelli appaiono in contrasto con questi principi fondamentali. Nel corso della sua interrogazione, Giachetti ha chiesto se il ministro Carlo Nordio fosse a conoscenza delle limitazioni imposte sia in ambito alimentare che in altre aree, se fosse vero che il carcere di Pagliarelli continui a soffrire di problemi strutturali quali l’assenza di acqua calda e il mancato funzionamento del sistema di riscaldamento, nonché ritardi nelle visite mediche e ulteriori limitazioni sulle comunicazioni telefoniche. Inoltre, il parlamentare ha richiesto spiegazioni in merito al mancato accesso del garante regionale Consolo al testo della circolare, elemento ritenuto indispensabile per il corretto esercizio della sua funzione di tutela dei diritti dei detenuti. Messina. Allarme della Garante: detenuti in drammatiche condizioni, clima preoccupante di Alessandra Serio tempostretto.it, 11 febbraio 2025 Malati gravi abbandonati nei propri escrementi, detenuti senza indumenti invernali. Lo spaccato più tragico del penitenziario messinese. Essere ammalati gravemente in carcere è una condanna nella condanna alle peggiori condizioni di umanità. Lo spiega la Garante dei detenuti del Comune di Messina Lucia Risicato, oggi ascoltata dal Consiglio comunale sui suoi 7 mesi di mandato. La Garante incontra i detenuti almeno una volta a settimana, raccogliendo le loro richieste. Poter incontrare i familiari, essere trasferiti in penitenziari più vicini ai propri cari o potersi curare sono le principali richieste raccolte dalla Garante. “Nelle mie visite ho riscontrato con dolore la presenza, nel centro clinico del carcere, di soggetti non autosufficienti, giacenti nei propri escrementi, di soggetti con insufficienza renale al quarto stadio, di pazienti oncologici e affetti da ictus”, scrive Risicato nella relazione consegnata ai consiglieri. “In questi mesi, grazie anche al mio interessamento sono stati tre i detenuti con patologie multiple a lasciare il carcere per incompatibilità con la condizione carceraria”, racconta la Garante, che grazie alla collaborazione con l’Asp penitenziaria è riuscita a trovare un posto in un centro assistenziale specializzato per un detenuto afasico e con ictus, incapace di badare a se stesso. No ai pacchi in carcere, detenuti senza indumenti invernali - Non è l’unico caso di ottima collaborazione tra operatori riscontrata dalla Garante, che denuncia invece l’assoluta chiusura al dialogo da parte del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Tutte le richieste di contatto, segnalazioni, chiarimenti, da parte della Garante al Provveditore sono rimaste senza alcuna risposta. Una chiusura che rende di esasperare la situazione nelle carceri, dove la recente stretta ai generi di necessità che i detenuti possono ricevere dall’esterno sta sfiancando i detenuti, a Messina come nel resto della Sicilia. Per ragioni di sicurezza e per uniformare la modellistica e le procedure, la Circolare 1/2025 ha infatti limitato la possibilità per i detenuti di ricevere diverso materiale e vettovaglie nei “pacchi” provenienti dall’esterno. Alcuni possono essere acquistati all’interno del penitenziario, ma a prezzi molto più alti. A farne le spese sono proprio i detenuti che cercano riscatto, impegnati nei percorsi di formazione e scolarizzazione per esempio, che hanno bisogno di materiale scolastico. Per ragioni di sicurezza, sollevate anche dai tanti rinvenimenti di cellulari e droga in cella, sono stati proibiti anche gli indumenti di pile. Clima preoccupante - ““I detenuti delle carceri siciliane non sono insorti per la carenza d’acqua, per le infestazioni di topi e insetti, per il caldo asfissiante e per il freddo pungente, e neanche per i problemi infiniti della sanità penitenziaria: vedendosi però privati di ciò che potevano legittimamente ricevere dalle famiglie (e mi riferisco anche agli indumenti in pile contro il freddo invernale)”, scrive la Garante, che ha raccolto le proteste di 90 detenuti messinesi su questo argomento. Bologna. Sezione per minori alla Dozza: si attende solo la firma di Nordio di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 11 febbraio 2025 Il capo dipartimento della giustizia minorile Sangermano ha risposto ai sindacati sul trasferimento “Soluzione temporanea della durata di tre mesi rinnovabili”. Assicurata la separazione dai detenuti adulti. La creazione, alla Dozza, di una sezione per giovani adulti provenienti dal minorile attende solo la firma del Guardasigilli Carlo Nordio. Lo ha comunicato alle organizzazioni sindacali della penitenziaria, che erano insorte negli scorsi giorni appena appreso della possibilità, il capo dipartimento per la giustizia minorile Antonio Sangermano, che ha specificato l’”assoluta separatezza logistica, funzionale e personale” dei detenuti in arrivo dal minorile con il resto della popolazione ristretta. “Separatezza che si estrinsecherà - dice Sangermano - sia nel contesto propriamente detentivo che nelle attività educativo-trattamentali e ricreative”. Il provvedimento è dettato dalla necessità, scrive ancora Sangermano, di reperire “nuovi spazi di agibilità detentiva e trattamentale” visto il sovraffollamento degli istituti minorili, “determinato del forte incremento dei minori stranieri non accompagnati, immessi nel circulto penale” e dall’aumento “della gravità e pregnanza lesiva delle condotte criminose” che porta sempre più spesso all’adozione, da parte della magistratura minorile, di misure custodiali intra-murarie. Questi fattori, sommati al “ridursi della capienza complessiva del comparto detentivo minorile, quale conseguenza di numerosi, reiterati e gravi danneggiamenti mediante incendio attuati da detenuti, con conseguente Inagibilità delle stanze di pernottamento”, ha prodotto l’attuale stato di emergenza, “che trova radice - prosegue il capo dipartimento - in criticità risalenti, persistenti, croniche e irrisolte nel momento di avvio dell’attuale Amministrazione”. Tuttavia, Sangermano assicura che la ‘soluzione Dozza’ sarà temporanea, “tre mesi eventualmente rinnovabili”. Intanto, “Il Dgmc si è fortemente impegnato nella riacquisizione, già avvenuta, e nell’apertura di tre nuovi istituti minorili, la cui operatività è progressivamente prevista entro l’anno, nonchè nella istituzione di comunità socio-educative ad altra integrazione sanitaria per minorenni”. I ragazzi che arriveranno alla Dozza saranno in prevalenza giovani adulti: “Il provvedimento non avrà alcun carattere sanzionatorio”, precisa Sangermano in risposta ai sindacati che paventavano il trasferimento, nella nuova sezione, dei giovani detenuti più problematici. La sezione sarà gestita esclusivamente dal personale del Dgmc e saranno applicate “le procedure trattamentali previste dalla normativa minorile, con esclusivo impiego di personale del Dgmc”. L’applicazione temporanea del personale di Penitenziaria “avverrà mediante procedura di ricognizione”. Rovigo. L’apertura del nuovo carcere minorile slitta all’inizio dell’estate La Voce di Rovigo, 11 febbraio 2025 Dal Ministero evidenziano necessità di intervenire con una variante nel cantiere. L’apertura del nuovo carcere minorile, in fase di allestimento in via Verdi, slitta di qualche mese. Il via libera alla struttura, che sorge dove c’era il vecchio carcere rodigino, tra via Verdi e via Mazzini, arriverà, quindi, poco prima della prossima estate e non entro il mese di marzo come era stato annunciato nei mesi scorsi. Uno slittamento dovuto ad una variante legata all’esecuzione dei lavori. Sono fonti del ministero della giustizia a far sapere che i lavori per la realizzazione del nuovo istituto per minorenni di Rovigo procedono. Secondo quanto riferito dal Provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Tommaso Colabufo, “i cantieri saranno consegnati prima dell’estate, a causa della necessità di intervenire con una variante. Il ritardo è stato contenuto grazie all’impegno del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti”. Il carcere minorile di Rovigo, quindi aprirà entro l’inizio dell’estate 2025, attualmente il cantiere allestito all’interno delle mura di cinta è ancora operativo. L’appalto per la costruzione del carcere per minori era stato affidato il 29 dicembre 2020 per un importo di 8.935.985 euro. I lavori consegnati il 15 ottobre 2020 con una durata prevista dei lavori di 645 giorni. In base alle previsioni i posti regolamentari per i giovani detenuti saranno 32. Oltre a spazi più dignitosi, la struttura rodigina sarà all’avanguardia “sia per la sicurezza che per il trattamento e la rieducazione dei giovani utenti - aveva precisato il sottosegretario al ministero della giustizia Andrea Ostellari - Con spazi adeguati per la formazione e l’avviamento al lavoro”. Bologna. “Parole in libertà e…”, un incontro-evento alla Dozza di Antonella Cortese Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2025 Il 28 gennaio alla Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna si è tenuto un incontro-evento che ha dato spazio a tutte le forme di espressività possibili all’interno di un carcere: “Parole in libertà e…” con una congiunzione che si è aggiunta al titolo delle precedenti edizioni che intende creare legami e spazi nuovi per accogliere tutte le forme d’arte. La rassegna, non competitiva e aperta a tutti, è stata realizzata grazie al lavoro di persone detenute dei diversi bracci, sia del Maschile che del Femminile, che, in gran parte, hanno partecipato ai laboratori attivati dai volontari. L’iniziativa è promossa e organizzata dal Consiglio di Zona soci di Coop Alleanza 3.0 che ha provveduto a consegnare a tutti i partecipanti un sacchetto con alimenti e beni per la cura della persona, e da AVoC (Associazione volontari carcere) presenza stabile da anni in Dozza. Presente all’appuntamento Alessandro Bergonzoni, l’artista rivoltoso sempre in prima fila nelle battaglie sociali-umane-civili, con la giacca rovesciata, anche in carcere. Ha letto alcuni testi di persone detenute non presenti in sala cinema a causa del regime ostativo e ha coinvolto i detenuti e le detenute presenti, invitando a leggere e a raccontare. Liberi dentro Eduradio & Tv ha ripreso i lettori e le lettrici e gli estratti vengono mandati in onda sulle 3 TV grazie alle quali, quotidianamente, propone una “mezz’ora d’aria” dedicata al carcere e alla città (IcaroTv 18, Teletricolore 97, Giovanni Paolo 79) e su Radio Città Fujiko. Ogni scritto porta tanto presente ristretto e compresso tra le inferriate e la storia di una vita passata, evaporata in un giorno qualsiasi quando un gesto inopportuno ha fissato il fotogramma su quel preciso istante dopo il quale nulla è stato più come prima e un altro film è cominciato. In molti testi letti emerge un bisogno di natura, un anelito a intrappolare nello sguardo, attraverso le grate, un frammento di azzurro del cielo, ma anche un pensiero alla propria figlia diventata adulta senza i genitori e per anni il tarlo fisso: mi amerà nonostante tutto e nonostante me? Tante storie che diventano poesie, racconti, denunce, preghiere. Un futuro è ancora possibile? Il presente è sopportabile? Insieme ci si supporta e ci si aiuta, soprattutto tra concellini. Tutti i partecipanti, separati per sezione in gruppi di file diverse, applaudono chi ha scritto e ha letto con la voce spezzata e le gambe tremanti, con gli occhiali sbagliati, inciampando sul palco. È stato come lanciare una bottiglia con messaggio in mare, tutti naufraghi alla ricerca di sprazzi di speranza. Chi ha scelto di usare le mani per esprimersi, lo ha fatto dipingendo una casa, disegnando volti, costruendo oggetti con fiammiferi, realizzando origami di auto da corsa o cesti di fiori piegando tanti foglietti tra le dita spesse. Compostezza e, a tratti, commozione in sala. Poi, per sezione, il rientro in cella. Saluti, sorrisi e ringraziamenti, tutti con il proprio sacchetto, in ordine rientrano, dopo poco passerà il carrello con il pranzo. Anche il pubblico viene accompagnato attraverso i diversi blocchi all’uscita, carico di storie sospese, pezzi di vita raccolti tra le parole e un vago senso di vacua tristezza. Pesaro. Studenti e detenuti sul palco, dietro le quinte c’è la libertà di Laura Nasali, Maria Dessole e Maria Selene Clemente ilducato.it, 11 febbraio 2025 Tra i corridoi del carcere si stringono legami difficili da immaginare, si celano storie e speranze di riscatto. In una realtà che spesso isola dal mondo esterno, il teatro può rappresentare uno spiraglio di luce. Lo sa bene l’Istituto superiore Luigi Donati. Sei anni fa, per la prima volta, un gruppo di studenti ha superato quel confine che divide il carcere dal resto del mondo: nasceva il progetto teatrale tra la scuola e la casa di reclusione di Fossombrone. Una finestra sul mondo - “Il teatro è per eccellenza lo strumento che consente di superare i confini, di volare alto e di spogliarsi da tutti i preconcetti”, racconta la preside Alessandra Di Giuseppe che fin dal suo primo anno in dirigenza si è preoccupata di poter far interagire i ragazzi del Donati con i suoi studenti del carcere. Ha realizzato il progetto insieme a una collega Sara Mei con l’obiettivo di aprire una finestra sul mondo per i detenuti di Fossombrone e aprire le menti degli studenti. La professoressa Mei non vede il carcere in bianco e nero, come spesso succede. “Lo associo al colore blu, perché è il mio colore preferito. Sì perché io non lo faccio solo per lavoro, tra quei corridoi ci sto davvero bene”. Ma per la professoressa il colore che più rappresenta quel mondo è il verde. È proprio tra quelle stanze che si sprigiona la speranza di scelte e vite diverse. Docenti e studenti dell’Istituto superiore Luigi Donati - “I nostri ragazzi e docenti che partecipano a questo laboratorio vedono i carcerati come persone, al di là di quello che hanno commesso. Due volte a settimana detenuti e ragazzi provano gli uni accanto agli altri per prepararsi allo spettacolo finale” racconta la professoressa Mei. La docente spiega anche come i carcerati si sentano formatori dei giovani: “A ogni incontro i detenuti spiegano quanto sia importante scegliere la strada giusta, perché da certe scelte sbagliate non si torna indietro”. Il carcere riflesso negli occhi degli studenti - “Questa esperienza mi ha lasciato dei ricordi bellissimi di momenti spensierati e liberi per noi e loro. Il clima che si respira è molto diverso da ciò che si pensa - racconta Linda, 18 anni - c’è grande rispetto, ho imparato tanto da loro”. Francesco ha percorso i corridoi del carcere quando non aveva ancora compiuto diciotto anni: era la prima volta che gli capitava di vedere con i propri occhi una realtà simile, molto distante da quella a cui era abituato. “In televisione i detenuti vengono raccontati in modo completamente diverso rispetto alla realtà. Facendo questo progetto ho scoperto che non sono dei mostri” racconta Francesco. La scuola in carcere - Con i ragazzi protagonisti del progetto c’è anche il professore Eraldo Mazza. Lui il carcere lo conosce bene, fin dal ‘98 quando ha iniziato a insegnare ai detenuti che frequentano la scuola superiore. “Sono quasi un ergastolano” scherza, spiegando il rapporto di collaborazione che lega da trent’anni l’istituto Donati al carcere di Fossombrone. “Ho sempre considerato questa esperienza come un’opportunità di crescita personale” dice il professore, che insegna matematica. Gli studenti detenuti sono simili a quelli che incontra a scuola. C’è chi zoppica nella temuta materia, chi la sfanga solo all’ultimo, con il compito di fine anno, e chi, invece, “dimostra grande capacità di ragionamento e logica”. L’opinione pubblica sa molto poco della realtà carceraria e Mazza trova che il laboratorio di teatro abbia una valenza fondamentale, non solo per gli studenti, ma anche per i professori. Lui stesso ha partecipato al progetto recitando sul palcoscenico accanto ai suoi studenti, detenuti e non. “Il ruolo era piccolo” dice, ma il tempo passato insieme ai ragazzi gli ha dato la possibilità di conoscerne lati nuovi. Che sia matematica o teatro non conta: “Insegnare in carcere è un’opportunità unica che arricchisce profondamente dal punto di vista umano e professionale” afferma il professore che, a distanza di anni, sorride raccontando degli studenti detenuti che più lo hanno colpito, alcuni dei quali sono nella struttura di reclusione fin da quando ha iniziato a insegnare. Un palco per sentirsi meno soli - Ed è così che due mondi si uniscono fino ad azzerare ogni differenza e quella stanza usata come palcoscenico vede nascere amicizie profonde. Rapporti simili sono nati anche in altri carceri poco distanti, come quello di Pesaro. Vito Minoia e Giuseppe Pollastrelli si conoscono ormai da anni. Si abbracciano forte e si commuovono quando pensano ai ricordi insieme dietro le sbarre. Vito, insegnante di teatro, da anni è impegnato nel portare ai detenuti una speranza e tra i tanti volti incontrati negli anni c’è anche quello di Giuseppe. “Il teatro mi ha salvato la vita, mi ha fatto capire che ce la potevo fare, che le seconde possibilità esistono davvero”. E prosegue: “Scandivo i miei giorni pensando a quando sarebbe stato l’incontro successivo. Quelle due ore alla settimana erano uno spiraglio”. Vito lo ascolta e si asciuga le lacrime che gli scorrono sul viso. Sa che nel suo piccolo ha cambiato le cose e che se Giuseppe ce l’ha fatta è anche un po’ grazie a lui e a quel palcoscenico che l’ha fatto sentire meno solo. Torino. Una mostra per abbattere il muro dei suicidi in carcere di Bianca Caramelli futura.news, 11 febbraio 2025 Il 2024 è stato tristemente un anno record per i suicidi nelle carceri italiane. Sono stati infatti 90 i casi registrati: si tratta del numero più alto degli ultimi 30 anni, da quando cioè è iniziata la raccolta di questo dato. Anche sotto la spinta di questi ultimi avvenimenti, Juri Nervo, dell’associazione Essere Umani ha scelto, in collaborazione con i professori dell’Accademia Pierpaolo Rovero e Maurizio Quarello, di usare l’arte per non lasciare sotto silenzio questa realtà. E così lunedì 10 febbraio è stata inaugurata presso i locali del Museo dell’ex carcere Le Nuove la mostra “Dietro il silenzio”. Si tratta di opere realizzate dagli studenti dell’Accademia albertina di belle arti di Torino su questo difficile tema, che sfida le democrazie e la loro dichiarata aspirazione al recupero umano, civile e sociale del detenuto. Le opere sono 15 pannelli nella forma espressiva del fumetto, che tanto si adatta a trasmettere messaggi forti in una maniera diretta e accessibile a chiunque. Secondo il direttore del museo, Calogero Modica, scegliere quest’arte è importante, perché nel parlare di suicidi “da un lato si rischia di scadere nel banale dall’altro nel truculento” e rimanere sul confine tra i due non è facile. Resta però la necessità di parlarne, perché “è il modo migliore per diffondere la consapevolezza su una realtà che è un fallimento di tutta la società democratica”. Anche la scelta del luogo di esposizione delle opere non è casuale. Le tavole si trovano infatti all’interno delle celle de Le Nuove, un ex-complesso carcerario della città di Torino che è stato attivo fino agli anni ‘80 del secolo scorso. Visitare la mostra percorrendo dei locali in cui dei detenuti hanno scontato la propria pena permette a chi è in visita di fare esperienza viva di ciò che viene rappresentato. Al fianco della tematica dei suicidi, i fumetti parlano anche di disumanizzazione, discriminazione e scopo rieducativo del carcere. Non a caso, la mostra “Dietro il silenzio” si trova affiancata a quella “Art. 27”, nata dalla stessa collaborazione tra Essere Umani e l’Accademia di Belle Arti, che sancisce il principio per cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Pisa. Dalla pet therapy alla dignità dei detenuti di Enrico Mattia Del Punta La Nazione, 11 febbraio 2025 Dalla collaborazione con il volontariato penitenziario alla pet therapy per i bambini malati, fino a una marcia sportiva che promuove il benessere psicofisico, l’associazione Barbara Capovani, nata nel 2024 su iniziativa di familiari, amici e colleghi, porta avanti il suo lascito con azioni concrete, con iniziative che riflettono il suo impegno professionale e umano. Uno dei progetti avviati riguarda la collaborazione con Controluce, per l’acquisto di condizionatori destinati alle strutture carcerarie. “Barbara credeva che la riabilitazione passasse anche dal garantire condizioni di vita dignitose”, spiega Michele Bellandi, presidente dell’associazione e compagno di vita della psichiatra. Pet therapy per bambini oncologici e pazienti psichiatrici. Un altro importante progetto promosso dall’associazione Capovani riguarda l’avvio di un programma di pet therapy, realizzato insieme ad Agbalt (Associazione Genitori per la cura e l’assistenza ai bambini affetti da leucemia e tumori). L’obiettivo è quello di creare un servizio permanente di pet therapy dedicato sia ai pazienti del reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale Santa Chiara, sia a quelli del reparto psichiatrico Spdc. Pisa Ten dedicata a Barbara. Sport e benessere mentale erano un binomio inscindibile per Barbara Capovani. Per questo, l’associazione sostiene la Pisa Ten, la marcia ludico-motoria che si svolge all’interno della Mezza Maratona di Pisa e che nel 2025 giungerà alla sua terza edizione. Organizzata dal gruppo sportivo Leaning Tower Runners a supporto dell’Associazione per Donare la Vita onlus. A sottolineare il valore scientifico e umano della dottoressa Capovani sono anche Andrea Fagiolini, professore ordinario di Psichiatria all’Università di Siena, e Paolo Spagnolo, direttore dell’Infn di Pisa. “Barbara ha sempre mostrato un impegno straordinario come psichiatra, cercando di equilibrare la sicurezza dei pazienti con la loro dignità”, afferma Fagiolini. “Era conosciuta per la sua competenza clinica e per la capacità di ascoltare con empatia”. Anche Spagnolo ricorda con affetto la sua amica: “Era un ciclone di energia e dedizione, un medico eccellente con una straordinaria capacità analitica. La sua curiosità scientifica la spingeva a esplorare oltre la psichiatria, fino alla cosmologia e alle neuroscienze. Il suo impatto è stato profondo e continuerà a ispirare”. Addio Grazia, sorella compagna e maestra di Stefano Anastasia e Cecilia D’Elia Il Dubbio, 11 febbraio 2025 Domenica pomeriggio, dopo tre giorni in cui abbiamo sperato e disperato nel vecchio Policlinico universitario romano, ci ha lasciato Grazia Zuffa, amica, sorella, compagna, maestra di una moltitudine transgenerazionale di attiviste, scienziate, ricercatrici, professioniste e professionisti di ogni settore socio-sanitario che potesse avere a che fare con la vita, il corpo, la libertà delle persone, e delle donne in particolare. Psicologa di formazione, femminista per scelta, attraversa gli anni Settanta e Ottanta a Firenze tra movimenti e partito. In relazione con le compagne di sempre, Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch, Ida Domnijanni, pratica la politica dentro e fuori dalle istituzioni. Il Pci la porterà prima in Consiglio comunale e poi in Senato, per due legislature. Sono gli anni del primo contrattacco alla legge sull’aborto e della svolta proibizionista e punitiva sulle droghe. Grazia, con il rigore e l’intelligenza che ne formavano la cifra distintiva, stringeva rapporti con le comunità di accoglienza guidate da Luigi Ciotti e spendeva argomenti di opposizione che andavano oltre i confini del suo gruppo parlamentare e si intrecciavano con quelli dei radicali, dei Verdi, tra cui il suo Franco Corleone, lì conosciuto e amato per sempre, e della Sinistra indipendente, tra cui spiccavano, in quelle battaglie, Franca Ongaro e Pierluigi Onorato. Ma sono anche gli anni del crollo del muro e della fine del Pci. Grazia si schiera con Ingrao e Tortorella, contro il cambio del nome e del simbolo, ma lo fa a partire da un documento sottoscritto da un gruppo di femministe da tempo in relazione tra loro e che lo resteranno per sempre, dando contributi fondamentali alla cultura politica delle sinistre, da Maria Luisa Boccia a Franca Chiaromonte, da Letizia Paolozzi a Fulvia Bandoli, Marisa Nicchi, Gloria Buffo. “La nostra libertà è solo nelle nostre mani”, si intitolava quel documento, e il nome era già un programma. L’uscita dal Palazzo, al termine della burrascosa legislatura di Mani pulite, non fu un problema per Grazia, abituata a fare politica con il pensiero e con l’azione ovunque si trovasse, e quindi, all’indomani del vittorioso referendum contro le norme più odiose della legge sulla droga, venne naturale cercare nuovi percorsi e nuove pratiche, come la promozione di un forum permanente sulle politiche sulle droghe, quel “Forum droghe” intorno a cui si aggregò gran parte del mondo antiproibizionista e per la sperimentazione delle politiche di riduzione del danno e da cui nacque Fuoriluogo, periodico e poi rubrica, tutt’ora ospitato su questo giornale. Da quell’impegno sulla riduzione del danno, sulla libertà e la responsabilità delle persone verso se stesse e verso le prossime, venne il suo libro I drogati e gli altri (Sellerio) e un pezzo della sua ricerca bioetica, insieme a quella sulle tecnologie della riproduzione assistita (con Boccia scriverà il fondamentale Eclissi della madre nel 1998). Naturale, quindi, il suo approdo nel 2006 nel Comitato nazionale di bioetica, da cui ha dato contributi fondamentali sulla salute in carcere, sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e della cultura manicomiale, fino a i progetti di lavoro - purtroppo incompiuti - sul trattenimento dei migranti nei Cpr. Anche qui, impegno istituzionale che si mischiava, anzi si nutriva di confronti scientifici e pratiche sociali in ogni contesto e in ogni parte del mondo. Ogni cosa che Grazia diceva e scriveva era frutto di conoscenze maturate nel confronto diretto con scienziati di fama internazionale, gruppi di attivisti e associazioni di utenti dei servizi, tutte e tutti ascoltati e interrogati con la medesima attenzione. Ogni cosa che avesse a che fare con la libertà relazionale la interessava e poteva diventare oggetto di studio o di impegno, dalla condizione femminile nelle carceri, cui ha dedicato due libri con Susanna Ronconi, alle nuove pratiche della giustizia riparativa, da cui l’autoriflessione maturata nell’ambito de La Società della ragione, in anni recenti da lei presieduta, Giustizia nella comunità, scritta a otto mani con Camillo Donati, Giulia Melani e Patrizia Meringolo. Grazie era una persona che aveva cura delle relazioni, apriva le sue case agli amici. Passeggiava per le montagne di Timau seguendo il suo passo. Grazia era anche una grande amante della natura. Perdiamo un’amica carissima. Ci uniamo al dolore di Franco, della figlia Irene, di Aaron e degli amatissimi nipoti Leonardo e Ulisse. Grazia, avevi ragione tu di Andrea Pugiotto L’Unità, 11 febbraio 2025 Quando una persona muore si dice, pudicamente, che è scomparsa. È vero, ma non è del tutto esatto perché le persone che sono state generose di sé, congedandosi dalla vita, non scompaiono. Lasciano, semmai, orme profonde del loro cammino che molti compagni di strada continueranno a percorrere e che tanti altri, prima o poi, incroceranno saltando di carreggiata. Vale certamente per Grazia Zuffa, che in una manciata di giorni terribili - tra giovedì e domenica scorsa - è stata strappata alla vita, tradita da un cuore crepatosi all’improvviso. Il suo cammino racconta molto di Lei, perché la biografia di ciascuno si rispecchia nelle cose di cui ci occupiamo e nelle persone di cui ci preoccupiamo. La biografia di Grazia è stata ritmata dallo studio sul campo, dall’insegnamento universitario, dall’attività pubblicistica, dall’impegno istituzionale e, soprattutto, da una rara capacità di azione politica trasformativa. Ha scelto di attraversare le problematiche della tossicodipendenza e dell’antiproibizionismo, della salute mentale e del bio-potere, dello stato di diritto e della reclusione (negli istituti di pena, negli ospedali psichiatrici giudiziari, nella prigione di un corpo malato): il tutto filtrato dallo sguardo della differenza femminile, fedele alla ribelle matrice del suo impegno personale. Sono trincee per lo più abbandonate da chi, istituzionalmente, avrebbe invece il dovere di presidiarle. Tocca, allora, all’energia generatrice e alla tenace resistenza di persone come Grazia prendersene cura, facendone terreno privilegiato di battaglia politica. È ciò che Lei ha fatto sempre. Dai banchi dell’opposizione parlamentare (è stata senatrice per due legislature, la X e la XI, nelle fila del PCI prima, del PDS poi). Scrivendo sulle colonne di Fuoriluogo (a lungo inserto mensile del quotidiano il manifesto, da lei creato e diretto per oltre un decennio). Attraverso l’associazione antiproibizionista Forum Droghe (di cui è stata per molti anni presidente). Mediante l’insegnamento universitario, nell’Ateneo di Firenze, di una disciplina ad hoc, Psicologia delle tossicodipendenze. Pubblicando libri preziosi e dallo sguardo originale (sul materno, sulla riduzione del danno correlato alle droghe, sul loro consumo controllato, sulla reclusione femminile), preferibilmente pensati e scritti a quattro mani (con Maria Luisa Boccia, Patrizia Meringolo, Susanna Ronconi), in una rinnovata e feconda alleanza femminile. Arricchendo, con i suoi saperi e le sue esperienze, la non facile dialettica interna al Comitato Nazionale per la Bioetica (di cui era componente fin dal 2007) e, prima ancora, del Comitato Scientifico Nazionale sulle Droghe e le Dipendenze (istituito, nel 2007-2008, dal Ministero della Solidarietà Sociale). Fino a guidare l’ultima e - probabilmente - più preziosa creatura, concepita insieme a Franco Corleone: La Società della Ragione, associazione di advocacy nel campo della giustizia, del carcere, dei diritti (di cui è stata presidente dal 2018 al gennaio scorso). Chi ha camminato con Grazia lungo questi territori accidentati - in queste ore di sgomento e incredulità, precipitate in un grande lutto collettivo - la trattiene in vita attraverso vividi ricordi. Scorrendoli, rivelano una cifra comune: una profonda e autentica gratitudine verso quella che è stata “un’amica, una maestra, una guida, una compagna di lotte”. Ho avuto anch’io il privilegio intellettuale di conoscere Grazia attraverso uno dei miei fratelli maggiori, Franco Corleone: tra le tante altre cose, anche di questa gli sono debitore. “Liberale perché ho studiato, radicale perché ho capito”, il mio percorso - se posso dire - è più simile a quello di Franco che a quello di Grazia. Per di più appartengo a una leva diversa dalla loro. Condizioni, entrambe, che - in politica, ma non solo - preludono a relazioni asimmetriche e competitive. E invece, in tutte le battaglie di scopo in cui sono stato coinvolto da La Società della Ragione, anch’io ho felicemente sperimentato la capacità che aveva Grazia di creare ponti, anche generazionali. E ho potuto così avvalermi generosamente delle sue analisi, capaci di approdi inattesi. Ricordo solo il più recente, a mo’ di esemplificazione. Nel riflettere sulla vulnerabilità delle persone, Grazia osservava le cose con uno sguardo laterale. Guardava così anche alla giurisprudenza costituzionale in tema di fine vita (sentt. nn. 242/2019, 50/2022, 135/2024) dove prevale un riflesso automatico: proteggere le persone malate da scelte individuali ritenute contrarie al loro bene e guidarle nel loro stesso interesse, anche al prezzo di limitarne l’autonoma volontà. In questa forma di paternalismo giuridico, Grazia ha avuto l’acutezza di segnalare un’eterogenei dei fini, che sfugge colpevolmente ai giudici costituzionali. Limitare o negare l’autonomia del soggetto perché fragile - scriveva su l’Unità del 6 luglio 2024 - si traduce in un’”inaccettabile sofferenza aggiuntiva per il paziente” che “al dolore del corpo, al dolore psicologico, alla difficoltà di elaborare la morte” vede aggiungersi anche “una diminuzione di sé, una minore considerazione e uno scarso rispetto della propria autonomia di scelta (che rimane spesso come unica capacità residua in un corpo afflitto)”. Rigorosi. Affilati. Spiazzanti. Di questo materiale erano fatti i pensieri di Grazia. Nella giornata odierna, dalle ore 10.00 alle ore 18.00, sarà possibile portarle un ultimo saluto alla camera ardente allestita in suo onore, alla Sala Caduti di Nassiriya del Senato (Piazza Madama, 2). Sarà un congedo alla presenza di tante e di tanti, come Grazia merita per quanto ha saputo pensare, scrivere, insegnare, incarnare. Fine vita, l’offensiva delle Regioni: la Toscana vara una legge, Zaia studia un regolamento di Pino Di Biasio e Paolo Russo La Stampa, 11 febbraio 2025 Anche Emilia, Friuli, Lombardia e Puglia pronte a muoversi. Il sì della Toscana alla prima legge regionale sul fine vita arriverà oggi, dopo i due voti che ieri hanno respinto gli assalti di una destra tutt’altro che unita: quello sulla pregiudiziale di costituzionalità e la richiesta di procedere con voto segreto. Proposte presentate in entrambi i casi da Forza Italia. Ma il via libera è scontato e sembra destinato ad aprire la corsa delle Regioni a una legge che metta fine al calvario di tanti malati senza speranza. L’esempio Toscano potrebbe infatti essere seguito da almeno quattro regioni dove un testo analogo è stato presentato e i numeri dei parlamentini locali dicono che si può fare: l’Emilia-Romagna, il Friuli Venezia Giulia guidato dal leghista “laico” Massimiliano Fedriga, la Lombardia e la Puglia. Mentre in Veneto, dopo la bocciatura dello scorso anno in aula della legge promossa dal governatore Luca Zaia, lui stesso annuncia di voler tornare alla carica. Questa volta puntando ai tempi brevi di un regolamento. “Ci stiamo lavorando, a prescindere dal fare una legge. Lo vogliamo fare perché in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale ci siano tempi certi per la trattazione delle pratiche”, ha affermato ieri Zaia agganciandosi al treno lanciato dal collega toscano Eugenio Giani. Come ricordato dallo stesso presidente veneto la sentenza della Consulta del 2019 “non prevede i tempi di risposta e non chiarisce chi debba somministrare il farmaco”. I giudici costituzionali però il fine vita lo hanno di fatto legalizzato, anche se a quattro condizioni. Che il malato sia affetto da malattia irreversibile, che questa patologia sia fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La quarta condizione è che il paziente sia dipendente da un trattamento di sostegno vitale, inteso non solo in termini di alimentazione ma anche di cure chemioterapiche. La Consulta non ha invece autorizzato l’eutanasia, che contrariamente al suicidio assistito prevede che siano altri a somministrare il farmaco letale. Resta comunque il fatto che fino ad ora si è andati avanti con la Babele che ha visto alcune Regioni far applicare la sentenza dalle proprie Asl, pur se con tempi molto variabili e dilatati ed altre, come il Friuli, dove c’è voluta una sentenza del tribunale perché ci si muovesse. Fatto è che, come documenta l’Associazione Luca Coscioni, nonostante le 7 richieste al giorno di aiuto a porre fine alla propria esistenza, fino ad oggi solo 11 persone hanno ricevuto il via libera al suicidio assistito e di queste appena 5 hanno potuto vedere rispettata la propria volontà, che in sette casi è stata esaudita, ma in Svizzera. La legge toscana fa invece chiarezza su molti aspetti rimasti in sospeso, ricalcando la proposta dell’associazione Luca Coscioni, riproposta più o meno nella stessa veste in altre 16 regioni. “Sulla base della sentenza della Consulta - spiega Enrico Sostegni, presidente Pd della Commissione sanità toscana - quando vi sono state richieste di pazienti, sono intervenuti i direttori generali delle tre Aziende sanitarie, ognuno con modalità diverse. Adesso, con la legge, stabiliamo una procedura omogenea su tutta la regione, garantendo un’assistenza sanitaria uniforme in questi casi difficili. La legge regionale ha carattere meramente organizzativo, stabilisce che il costo di medicinali e attrezzature per il suicidio assistito, ora a carico dei familiari, sia sostenuto dal sistema sanitario. Il costo non supererà i 10mila euro e la partecipazione del personale medico e sanitario alle varie fasi dell’iter resta volontaria”. Dure invece le parole del cardinale Augusto Paolo Lojudice, che dopo aver contestato “l’ideologia inaccettabile del fine vita”, ha sostenuto che “un cristiano non può arrendersi alle logiche di una umanità patinata dove non esiste il dolore”. Quello che domenica ha invece accompagnato Gloria, 70 anni di Firenze che, come ha ricordato il consigliere Pd Iacopo Melio, costretta su una sedia a rotelle per la sindrome di Escobar, “aspettava il via libera della Asl per andarsene in maniera dignitosa, lucidamente e non addormentata, spenta dalle cure palliative”. Quelle che tra l’altro nemmeno in tutta Italia sono ancora oggi garantite. Malattia mentale, il Csm: ancora troppe falle nel sistema nato dopo la chiusura degli Opg di Francesco Dente vita.it, 11 febbraio 2025 A dieci anni dalla legge 81/2014 che ha superato gli Ospedali psichiatrici giudiziari - Opg, il Consiglio superiore della magistratura avanza alcune proposte per ridisegnare il sistema delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - Rems. Più spazi ma soprattutto più spazio alle riforme. È necessario ampliare il numero e la capienza delle sedi, riscrivere prassi e ridisegnare l’architettura del sistema per far ripartire le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - Rems, le strutture sanitarie che accolgono gli autori di reati affetti da disturbi mentali. Servono nuove procedure e un diverso ruolo degli attori in campo. A dieci anni dalla legge 81/2014 che ha superato gli ex “manicomi criminali”, il Consiglio superiore della magistratura - Csm pubblica un documento che analizza e avanza proposte sul “problema” delle Rems, frutto del lavoro dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza e dell’esecuzione penale. Un problema “grave e attuale”, si sottolinea, che si somma alle croniche criticità del nostro sistema penitenziario: il sovraffollamento carcerario, la precarietà dell’assistenza sanitaria all’interno delle carceri (di competenza regionale), il difficile equilibrio tra afflittività della pena, disagio psichico e misure di sicurezza. Come snellire le liste di attesa e i ricoveri inappropriati - La Commissione mista, al termine del confronto con i rappresentanti dei ministeri della Giustizia e della Salute, suggerisce due strade per provare a uscire dal tunnel. La prima è una “una generale e ragionata revisione del numero e dei posti all’interno delle Rems” che salvaguardi tuttavia il principio di territorialità della misura. Nelle 32 residenze esistenti al momento - il documento sottolinea che sono “inspiegabilmente assenti in Calabria e Umbria” - ci sono poco più di 600 posti ma ne servirebbero almeno altrettanti per ridurre le liste di attesa. Secondo il rapporto sono circa 700 i soggetti in coda, di cui 45 detenuti sine titulo. Persone cioè che sono in carcere ma non dovrebbero starci in quanto affetti da disturbi psichiatrici. La seconda direttrice consigliata è l’aumento a medio termine dei Centri di igiene mentale e delle strutture di accoglienza sul territorio. Le residenze che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari - Opg, infatti, non solo sono insufficienti ma ospitano persone che dovrebbero essere accolte in altre strutture. Nel documento del Csm e nelle audizioni preparatorie, non a caso, viene sollevato il problema del “frequente “abuso” del ricorso alla non imputabilità anche per categorie diagnostiche che non la determinano, quali i disturbi della personalità”. Si tratta dei cosiddetti “antisociali”, persone (talvolta anche tossicodipendenti) che “non necessitano di presa in carico da parte dei servizi sanitari, quanto piuttosto di contenimento”, come segnala l’audizione di Giuseppe Nicolò, vicepresidente del Tavolo tecnico sulla salute mentale presso il ministero della Salute. Più reparti per tossicodipendenti e tre Rems di alta sicurezza - Secondo i dati forniti di recente dal Collegio nazionale dei Dipartimenti di salute mentale (Dsm) nel documento programmatico sulla giustizia, circa il 10-15% dei detenuti è affetto da disturbo mentale grave. Si tratta di una fetta di popolazione carceraria fra i 6mila e i 9mila reclusi su oltre 60mila ristretti. È noto, ricorda il Csm, che la riforma della Sanità penitenziaria del 2008 e il successivo superamento degli Opg nel 2014 hanno previsto percorsi trattamentali e giuridici differenziati per le due categorie dei “folli rei” e dei “rei folli”. Mentre i primi sono di fatto affidati alla sanità territoriale, spesso “a detrimento delle funzioni di cura di pazienti psichiatrici non autori di reato, ed anche con evidenti problematiche sotto il profilo prettamente custodiale, che viene di fatto demandato al Servizio sanitario nazionale”, i secondi invece entrano nel circuito penitenziario “e dunque la garanzia della cura viene assicurata nei circuiti detentivi o ricorrendo a misure alternative”. La riforma del 2014, in particolare, ha stabilito che i “rei folli” in quanto “imputabili” espiino la pena in carcere in sezioni specialistiche dedicate ai disturbi mentali, le Articolazioni per la tutela della salute mentale - Atsm. Attualmente, nonostante la presenza di un numero sempre maggiore di persone affette da disturbo mentale (molte delle quali con disturbo da uso di sostanze), le sezioni dedicate “non riescono assolutamente a rispondere in maniera adeguata alle esigenze di cura”. Le articolazioni sono presenti in 33 istituti penitenziari per un totale di 320 posti circa che corrispondono più o meno allo 0,5% della popolazione detenuta. Succede così che, pur se destinati a questi reparti, i detenuti “psichiatrici” finiscano per essere spesso allocati nelle sezioni comuni degli istituti “in totale promiscuità con la restante popolazione”. La Commissione mista chiede pertanto il potenziamento delle Atsm negli istituti penitenziari e la realizzazione di apposite sezioni specialistiche psichiatriche per soggetti tossicodipendenti con comorbilità. Il Csm avanza, inoltre, l’idea di dar vita a un “doppio” circuito che distingua tra pazienti stabilizzati in grado di seguire un percorso di riabilitazione psichiatrica finalizzato a un prossimo reinserimento sociale e soggetti con un profilo di pericolosità bisognoso di contenimento. Il Csm ipotizza a tal proposito l’individuazione di tre Rems di alta sicurezza con prevalenza del profilo custodiale, da distribuire nelle tre aree geografiche (Nord, Centro e Sud) e da affidare alla polizia penitenziaria. L’albo dei periti e facilitare lo scambio di informazioni - Il rapporto propone la costituzione di un osservatorio per il monitoraggio dei dati e l’istituzione di un albo specializzato di periti del giudice, professionisti appositamente formati per valutare la capacità di intendere e di volere e la pericolosità sociale del soggetto. Caldeggia, inoltre, l’individuazione di meccanismi operativi che consentano un efficace scambio tra servizi sanitari e magistratura in modo da consentire all’autorità giudiziaria “di intervenire celermente per rivalutare i profili di rilievo, eventualmente modificando la misura di sicurezza applicata, qualora l’osservazione clinica svolta dagli operatori sanitari dia conto di discrasie e divergenze rispetto alle valutazioni già effettuate, sia con riferimento alla capacità di intendere e di volere, che in relazione alla pericolosità sociale”. Il ministero della Giustizia al centro della governance - Il Csm sollecita infine il Parlamento a “riconoscere al ministero della Giustizia la gestione delle Rems in leale cooperazione con le restanti figure istituzionali”. Vecchia questione, si dirà. La stessa Corte costituzionale nel 2022 ha rimarcato la necessità di “assicurare una esplicita base normativa allo stabile coinvolgimento del ministero della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture esistenti o degli strumenti alternativi”. Secondo il Csm, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero, dovrebbe esercitare un “ruolo di chiusura” non solo del sistema amministrativo di assegnazione degli interessati alle Rems “ma anche del meccanismo di individuazione di percorsi alternativi per i pazienti autori di reato”. Migranti in Albania, Meloni: “Non si può sbagliare”. Ora il Governo frena, anche per il voto a Tirana di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 11 febbraio 2025 Palazzo Chigi pronto a informare il Quirinale del decreto. Il 9 gennaio Giorgia Meloni aveva promesso che “i centri in Albania funzioneranno, funzioneranno, funzioneranno”, dovesse passarci “ogni notte, da qui alla fine del governo italiano”. Ma se la premier ha imposto ai suoi la consegna del silenzio è perché non tutto, nella gestazione del nuovo decreto anticipato dal Corriere, sta andando per il verso sperato. Dopo il vertice di venerdì scorso con la premier, il ministro Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano, ieri è toccato ai tecnici di Palazzo Chigi e del Viminale sedersi di nuovo al tavolo per lavorare al testo del provvedimento che dovrebbe trasformare i due centri albanesi, inizialmente destinati al trasferimento dei migranti “soccorsi” dalle navi italiane, in Cpr per i rimpatri di persone irregolari che hanno già in tasca il provvedimento di espulsione. Ma nel corso della riunione, che non è filata affatto liscia, sono emersi interrogativi e dubbi e non è ancora alle viste il Consiglio dei ministri che dovrà dare il via libera: “Siamo in una fase tecnica, stiamo studiando la fattibilità delle norme”. Per la leader di FdI, trovare una soluzione al rebus dei centri di Shenjin e Gjader è ormai una vera ossessione politica, che ha il sapore della controffensiva nei confronti dei magistrati. “Non possiamo ogni volta aspettare che i giudici, siano essi i tribunali o le corti d’appello, fermino tutto rimettendosi alla Corte Ue - spiega un ministro, previa richiesta di anonimato -. Se non cambiamo schema di gioco, restiamo appesi alle loro sentenze”. Dopo tre pronunce contrarie, che hanno di fatto reso inservibili le due strutture sorte dal patto tra Meloni ed Edi Rama, la donna che guida il governo è determinata ad aggirare le decisioni dei giudici con un nuovo provvedimento, ancor prima che si pronunci la Corte di Giustizia europea. Per quanto sia fiduciosa e convinta che “l’Europa ci darà ragione”, ha fretta di aggiustare la narrazione facendo ripartire i centri. “Questa volta non possiamo sbagliare”, è il monito che la premier ha consegnato agli esponenti del governo. Gli uffici legislativi della presidenza del Consiglio avrebbero già sondato il Quirinale e la stessa Meloni sarebbe intenzionata a informare personalmente il presidente Sergio Mattarella del nuovo decreto in gestazione. Le incognite però non mancano e i tempi del provvedimento potrebbero allungarsi. Tra i punti ancora oscuri ci sono i costi dell’operazione, che già tante armi hanno offerto alle opposizioni e che, con le nuove norme, potrebbero lievitare ancora: a Palazzo Chigi certo non vogliono rischiare altri esposti alla Corte dei Conti, dopo quelli già presentati da M5S e Italia viva. Un altro ostacolo è il primo ministro Edi Rama, che si è allarmato non poco leggendo le notizie italiane. Fonti di Tirana smentiscono le anticipazioni (“Nessun piano del genere è all’orizzonte”), anche se le nuove norme in gestazione sono state confermate da diversi ministri. Il problema, per il governo albanese, è tutto politico. L’11 maggio si vota e lo sfidante di Rama, Gazment Bardhi, ha già preparato la ruspa. Per il leader del Partito democratico di centrodestra “il patto con l’Italia è un danno per la reputazione internazionale di Tirana e lede il diritto comunitario, se vinciamo non lo applicheremo più”. Ecco perché Rama non vuol sentir parlare di giurisdizione albanese sui Cpr, né di modifiche al protocollo firmato con Giorgia Meloni il 6 novembre 2023. Secondo fonti parlamentari il premier albanese ha chiesto all’amica italiana di “tenere i toni bassi” sui centri, per evitare che l’onda delle tensioni politiche torni a gonfiarsi nei prossimi mesi, in piena campagna elettorale. Ecco allora che diventa vitale, per il governo italiano, trovare una formula che consenta di cambiare la tipologia dei destinatari del provvedimento, senza modificare il “patto” tra Roma e Tirana. E senza vanificare il messaggio di deterrenza che ha ispirato l’iniziativa di Giorgia Meloni. “Nella nostra narrativa - spiega un alto dirigente di FdI - chi vuole partire alla volta dell’Italia deve sapere che, se non è titolato, finirà in Albania”. Ma come superare il rischio che i migranti debbano essere accompagnati dall’Italia all’Albania e dall’Albania all’Italia e, da qui, essere poi messi sul volo che dovrà riportarli nei Paesi di origine? Il dubbio che il nuovo progetto possa rivelarsi inutile e costoso è venuto a più d’uno, tra i tecnici riuniti a Palazzo Chigi. Migranti. Centri in Albania, strade strette per le modifiche a cui pensa il Governo di Giansandro Merli Il Manifesto, 11 febbraio 2025 L’esecutivo studia come superare gli ostacoli sui Centri. Al momento solo ipotesi, come quella di “trasformarli in Cpr”. Un coniglio dal cilindro o la certificazione del fallimento? È su questo margine che si muove il nuovo intervento sui centri in Albania a cui lavora l’esecutivo. L’indiscrezione trapelata sui giornali è confermata da fonti governative: l’idea di trasformarli in Cpr è “una delle ipotesi in campo”. Non semplice, a dirla tutta. Tanto che il vicepremier Antonio Tajani (Fi) a domanda risponde freddo “vedremo”, mentre suoi colleghi di partito invitano ad attendere la sentenza della Corte Ue sui paesi sicuri che arriverà in primavera. “Politicamente sarebbe una débâcle, la prova che la destinazione con cui Meloni ha immaginato gli accordi con Tirana, la detenzione dei richiedenti asilo durante le procedure di frontiera, non può funzionare”, afferma Riccardo Magi, deputato di +Europa. “Provano a ripiegare realizzando strutture uguali a quelle che ci sono già in Italia, con l’aggiunta che le persone andrebbero spostate da una sponda all’altra dell’Adriatico a nostre spese”, afferma il leader M5S Giuseppe Conte. Ma prima dei risvolti politici, è l’aspetto tecnico che l’esecutivo deve chiarire. Per farlo ieri a palazzo Chigi si sono riuniti gli uffici legislativi, dopo il vertice di venerdì tra la premier Giorgia Meloni, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano. Bozze di decreti, però, non ce ne sono ancora. Né è stato convocato il Consiglio dei ministri. Al momento, dunque, circolano solo ipotesi. Quella di “trasformare i centri albanesi in Cpr” ha ostacoli di non poco conto. Perché è vero che oltre Adriatico un Cpr già esiste, ma doveva servire per le espulsioni al termine delle procedure accelerate di frontiera là svolte. Nella nuova accezione che trapela da Chigi, invece, le strutture sarebbero destinate alla detenzione dei cittadini stranieri che si trovano in situazione di irregolarità in Italia. Per provare questa strada il governo dovrebbe modificare la legge di ratifica del protocollo, secondo la quale “possono essere condotte [in Albania, ndr] esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati Ue”, e anche il Testo unico sull’immigrazione. Così il centro di Gjader diventerebbe il primo hub di espulsione da un paese terzo. Ma queste strutture al momento sono solo una proposta: attendono il via libera dalla nuova direttiva rimpatri che la Commissione presenterà a marzo. Strada ancora più stretta - a meno di gravi forzature nelle prassi, che rischiano di essere rapidamente scoperte vista la grande attenzione mediatica - è quella di portare in Albania le persone soccorse in mare che non chiedono asilo. Ovvero di far arrivare soggetti già destinatari del provvedimento di espulsione perché non hanno dichiarato di cercare protezione. In Sicilia casi analoghi, che spesso finiscono nel Cpr di Caltanissetta, riguardano soprattutto migranti tunisini, ma sollevano diversi dubbi sulla correttezza dell’informativa d’asilo e la legittimità di tutta la procedura. Ancora più remota appare l’altra idea fatta trapelare dalla maggioranza: cambiare il protocollo e ritirare la giurisdizione italiana. Ma allora a quale scopo sono stati realizzati i centri? Deportare i richiedenti asilo in un paese terzo violerebbe il principio di non respingimento. Migranti. L’espediente del Governo non salva i Centri in Albania dal fallimento di Vitalba Azzollini* Il Domani, 11 febbraio 2025 Il Governo vuole trasformare i Centri in Albania in Cpr: Centri per il rimpatrio ove i migranti privi dei requisiti per ottenere l’asilo sono tenuti in uno stato di detenzione amministrativa, in attesa dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione. Ma l’espediente presenta problemi in punto di diritto. “I centri in Albania funzioneranno”, aveva scandito Giorgia Meloni ad Atreju, nel dicembre scorso. Per cui, dopo la terza bocciatura da parte dei giudici di Roma, il governo ora vuole trasformare il progetto originario. Era previsto che i centri fossero utilizzati per le procedure accelerate di frontiera, vale a dire per accertare, entro il termine massimo di quattro settimane, se i migranti trovati in acque internazionali da navi militari avessero diritto alla protezione internazionale. L’idea ora è quella di adibire tali strutture a Cpr. Si tratta di centri per il rimpatrio, ove i migranti privi dei requisiti per ottenere l’asilo sono tenuti in uno stato di detenzione amministrativa, in attesa dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione. Nel settembre 2023, un decreto-legge (n. 124) ha esteso sino a 18 mesi il tempo massimo di trattenimento nei Cpr. In particolare, la permanenza è prevista per tre mesi, prorogabili per altri tre qualora vi siano difficoltà nell’accertamento dell’identità e della nazionalità o nell’acquisizione di documenti di viaggio. I sei mesi possono essere prorogati per altri dodici, nei casi di mancata cooperazione da parte dello straniero o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi. In base a una legge del 2015 (d.lgs. n. 142), nei Cpr può essere trattenuto non solo chi sia destinato al rimpatrio, ma anche il richiedente asilo, ad esempio, quando sia accusato di gravi crimini e costituisca “un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica” o se comunque “sussistono fondati motivi” per ritenere che sia pericoloso oppure, tra l’altro, quando vi sia “il rischio di fuga”. Il Protocollo Italia-Albania stabilisce che l’accesso e la permanenza dei migranti negli appositi centri sono consentiti solo “al fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea”. Dunque, i rimpatri sono già contemplati dal Protocollo, per cui non sembrerebbe preclusa al governo la possibilità di adibire i centri a tale utilizzo. Ma a parte che l’attuale normativa Ue (direttiva 2008/115) non prevede centri di rimpatrio in paesi terzi, ci sono ulteriori problemi in punto di diritto. Gli eventuali rimpatri indicati nell’accordo con l’Albania sono quelli da effettuare a seguito della procedura accelerata di esame del diritto all’asilo - l’unica che, ai sensi dell’accordo stesso, può essere svolta in territorio albanese - qualora essa abbia esito negativo. Per operare rimpatri dall’Albania basati su procedure diverse non basterebbe un decreto-legge del governo. Servirebbe, infatti, una modifica del Protocollo, nonché una nuova ratifica da parte del Parlamento. Prima che tutto questo avvenga, i giudici potrebbero non convalidare il trattenimento nei centri albanesi. Peraltro, anche a voler ammettere la possibilità che i migranti siano portati in Albania per i rimpatri, i centri si riempirebbero velocemente per la difficoltà di procedere ai rimpatri stessi, riscontrata ormai da anni. Verrebbe a mancare il ricambio di stranieri previsto originariamente ogni 28 giorni, durata massima delle procedure accelerate di frontiera. I centri albanesi finirebbero per ospitare anche per un anno e mezzo circa un migliaio di persone, capienza massima dei centri stessi, anziché le circa 10.000 stimate annualmente, in base al progetto originario. Peraltro, ove il rimpatrio non avvenisse nei 18 mesi previsti, i migranti dovrebbero comunque essere rimandati in Italia. L’operazione albanese sarebbe ancora più economicamente insostenibile di quanto non lo sia oggi. A spese dei contribuenti italiani, come sempre. Dubbi ancora più consistenti si porrebbero qualora i Cpr albanesi fossero adibiti al trattenimento non solo degli stranieri avviati all’espulsione, ma anche di richiedenti protezione internazionale che si trovino in una delle situazioni indicate dalla citata legge del 2015. Il Protocollo con l’Albania, infatti, si fonda sulla finzione giuridica di considerare i centri di Shengjin e Gjader come territorio italiano, ai fini dello svolgimento di procedure di frontiera per la valutazione del diritto all’asilo. Tale finzione non potrebbe supportare l’applicazione di procedure diverse, e anche in questo caso i giudici potrebbero sollevare problemi di legittimità. In conclusione, il ricorso del governo a un espediente che consenta di riempire i centri albanesi, snaturando l’operazione tanto declamata, ne attesta il fallimento. Fallimento, comunque, già chiaro in precedenza. *Giurista Migranti. Caso Almasri, quello che il Governo non ha detto (e non ha fatto) di Gaetano Pecorella Il Dubbio, 11 febbraio 2025 Perché non ha trasmesso il mandato di arresto? Il potere di sindacare se il provvedimento sia o meno nullo spetta alla Corte di Appello di Roma. Il ministro della Giustizia Nordio ha sostanzialmente accusato la Corte penale internazionale di essere una “pasticciona”, di contraddirsi e di emettere mandati di cattura nulli: una valutazione molto severa che toglie a uno dei Tribunali su cui si regge l’ordine internazionale ogni credibilità, Ma il Ministro non è solo. Il presidente Trump con un ordine esecutivo ha imposto sanzioni contro il Tribunale penale internazionale, il principale Tribunale per i crimini di guerra e contro l’umanità. Il ministro degli Esteri, Antonio Taiani, ha espresso molte riserve sul comportamento della Corte, così dicendo: “Forse bisognerebbe aprire una inchiesta sulla Corte penale”. Si ha l’impressione che ai potenti della terra dia molto fastidio l’esistenza di un Tribunale che sta sopra di loro e potrebbe un giorno giudicarli e persino arrestarli per violazione dei diritti dell’umanità. Ma proprio per la delicatezza della situazione demandata al giudizio della Corte si deve valutare serenamente da che parte sta la ragione e da che parte il torto. Torniamo al ministro Nordio che ha sostenuto in Parlamento che il Ministro non è un “passacarte” e che, se riceve un mandato di arresto dal Tribunale internazionale, deve valutarne la fondatezza. Nel caso di specie il mandato di arresto nei confronti di Osama Njeem Almasri sarebbe nullo per la mancata individuazione del tempus commissi delicti, e in particolare per il periodo tra il 2011 e il 2015. L’obbligo di sindacare deriverebbe dall’art. 2 della L. 20 dicembre 2012, e in specie dal diritto- dovere del ministro della Giustizia secondo cui, “ove ritenga che ne ricorra la necessità, concorda la propria azione con altri ministri interessati, con altre istituzioni o con altri organi dello Stato. Al ministro della Giustizia compete altresì di presentare alla Corte, ove occorra, atti e richieste”. Il Ministro è stato molto abile, da par suo, a sfruttare questa norma, ma si tratta di una materia che non ha nulla a che vedere con il mandato di arresto internazionale. Lo si comprende facilmente dal testo della legge che fa riferimento alle richieste provenienti dalla Corte, e al coordinamento della propria azione con altri ministri interessati. Si tratta della cooperazione nella raccolta di elementi di prova richiesta dal Tribunale internazionale per i quali può essere necessario il contributo di altri ministri interessati o di altre istituzioni o di altri organi dello Stato. Peraltro, da un punto di vista logico, non si vede come altri ministeri potrebbero essere interessati a dare il loro parere su un mandato di arresto internazionale. Tant’è che di tale provvedimento non si fa menzione né nell’art. 2, né nell’art. 4 della legge 20 dicembre 2012, n. 237: anzi al di fuori del coordinamento per la raccolta di prove l’art. 4 dispone che “il ministro della Giustizia da corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma perché ne dia esecuzione”. Sarebbe assai singolare che spettasse a un organo dell’esecutivo sindacare la correttezza di un provvedimento giurisdizionale proveniente da un Tribunale internazionale. Per il 3° comma dell’art. 4 è la Corte d’Appello di Roma, ove ne ricorrano le condizioni, che da esecuzione alla richiesta con decreto con il quale delega un proprio componente. Potrebbe osservare il ministro Nordio che mai si potrebbe dare esecuzione a un provvedimento privativo della libertà ove questo apparisse contraddittorio, “pasticciato” e comunque inidoneo a individuare il fatto di reato. È difficile dargli torto. La questione è se spetta a lui fare questa valutazione (e, come vedremo, non spetta al Ministro). In ogni caso si comprende, dalla comunicazione del ministro Nordio, che per il periodo dal 2015 al 2024 il provvedimento di arresto indicherebbe una serie di fatti criminosi di per sé idonei a giustificare l’arresto del ricercato. Non avere dato esecuzione almeno a questa parte della misura, costringendo la Corte d’Appello a scarcerare Osama Almasri, costituisce un fatto grave perché ha rimesso in libertà una persona giudicata pericolosa dallo stesso Stato italiano. A tutto concedere il ministro Nordio avrebbe potuto segnalare alla Corte d’Appello di Roma che poteva dare esecuzione al mandato di arresto per la parte in cui lo stesso trovava conferma lasciando alle competenze della giurisdizione la valutazione di quanto osservato. Spiace soprattutto che un giurista come il ministro Nordio abbia forzato, a posteriori, una norma, e cioè l’art. 2, che fa chiaro riferimento alla cooperazione per le indagini, e non al mandato di arresto internazionale. C’è di peggio. Il ministro Nordio, mentre ha fatto riferimento all’art. 2 della legge 20 dicembre 2012, n. 237, che non riguarda specificamente la materia della consegna di persone, bensì in generale la cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale, ha taciuto su quella parte della legge, dagli artt. 11 in poi, che regola la “applicazione della misura cautelare ai fini della consegna”. Non si può credere che il Ministro non conoscesse questa parte della legge se soltanto ha avuto modo di scorrerla. Perché l’ha ignorata? Le sequenze, in caso di una richiesta di consegna, sono le seguenti. I rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e darvi seguito (art. 1). Perciò tutti gli atti passano per il ministro, anche quelli su cui non ha alcun sindacato. Competente per l’esame e l’esecuzione del provvedimento di arresto è la Corte d’Appello di Roma. Il Procuratore generale, ricevuti gli atti, chiede alla Corte d’Appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna (art. 11, co. 1). La Corte d’Appello di Roma, sulla richiesta, decide con il rito camerale. Può dichiarare che non sussistono le condizioni per la consegna soltanto se non è stato emesso dalla Corte penale internazionale un provvedimento restrittivo della libertà personale; se non vi è corrispondenza tra l’identità della persona richiesta e quella della persona oggetto della procedura di consegna; se la richiesta contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato; se, per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata nello Stato italiano sentenza irrevocabile (art. 13, co. 3). Sono evidenti due regole: la valutazione del mandato di arresto, sotto il profilo delle condizioni per la consegna, è di competenza esclusiva della Corte d’Appello di Roma; la Corte d’Appello deve limitarsi a esaminare se sussistono le condizioni di cui all’art. 13, co. 3. Perciò, il ministro non ha alcun potere di sindacare se il mandato di arresto sia o meno nullo, e tanto meno per ragioni diverse da quelle di cui alla citata disposizione. Perciò il ministro deve limitarsi a trasmettere il mandato alla Corte d’Appello. Sono senza risposta queste domande: perché il ministro Nordio non si è attenuto alle disposizioni della legge 20 dicembre 2012, n. 237 che riguardano specificamente la consegna di una persona in esecuzione di un mandato di arresto del Tribunale penale internazionale? Perché il ministro Nordio ha taciuto sull’esistenza di queste disposizioni nella sua comunicazione al Parlamento? Temo che non ce lo dirà mai. Poteri selvaggi e resistenza costituzionale di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 11 febbraio 2025 Nella esibizione della disumanità il nostro Governo sta copiando fedelmente il modello trumpiano: dalle deportazioni in Albania agli attacchi alla Cpi. La sola possibilità di salvare le nostre democrazie e con esse la pace è portare il paradigma costituzionale all’altezza degli attuali poteri globali. Un fatto è certo, al di là delle sconclusionate dichiarazioni in parlamento dei ministri Nordio e Piantedosi sul caso Elmasry e degli insensati attacchi al procuratore di Roma Lo Voi. Il nostro governo, con un aereo di stato, ha fatto fuggire questo criminale anziché eseguire l’ordine di arrestarlo emesso dalla Corte penale internazionale per 34 omicidi e 22 stupri, di cui uno su un bambino di cinque anni. In questo modo si è reso complice dei metodi - gli assassinii, le violenze e le torture - con i quali Elmasry impedisce ai migranti di lasciare la Libia e di imbarcarsi per l’Italia. Al tempo stesso l’Italia, unico paese civile, si è allineata con Donald Trump nell’aggressione alla Corte penale internazionale. La consonanza con Trump del nostro governo è stata totale, sia nell’esibizione della crudeltà che nel disprezzo per il diritto. L’esibizione compiaciuta della crudeltà è il tratto vistoso dello stile del presidente statunitense: le decine di decreti esecutivi, molti dei quali in contrasto con la Costituzione americana, firmati e poi sbandierati come segno dei suoi pieni poteri davanti alle telecamere; la gogna di decine di migranti in catene mentre vengono espulsi dal paese dove vivevano da anni perfettamente integrati; il progetto cinico di una gigantesca pulizia etnica diretta a evacuare più di due milioni di palestinesi dalla striscia di Gaza per far posto a ville milionarie e a lussuosi stabilimenti balneari in quella che diverrebbe “la Riviera del Medio Oriente”. Altrettanto ostentato è il disprezzo di Trump per il diritto, che chiaramente è per lui inesistente: dalla stigmatizzazione sprezzante come “farsa” del processo con cui è stato condannato per 34 capi d’imputazione poco prima del suo insediamento, alla grazia concessa ai suoi 1.500 seguaci che quattro anni fa dettero l’assalto a Capitol Hill; dalla cacciata dei funzionari che su quell’assalto avevano indagato all’incredibile decreto che vieta l’ingresso negli Stati uniti e congela i beni in essi detenuti di tutto il personale della Corte penale internazionale, a causa delle sue imputazioni sgradite, prima tra tutte quella contro il suo amico Netanyahu. Ebbene, il nostro governo sta copiando fedelmente questo modello trumpiano. L’esibizione della disumanità era stata inaugurata ben prima, con le misure dirette ad ostacolare i salvataggi dei naufraghi in mare, condizionandoli a insensati adempimenti burocratici, e con i tentativi, impediti dai giudici, di deportare in Albania i migranti indebitamente sequestrati in mare. A queste prove di crudeltà si aggiunge ora la sostanziale complicità con i crimini di Elmasry, che sta rivelando qual è la sostanza della nostra politica governativa in tema di migrazione. L’argomento secondo cui Elmasry è stato espulso per la nostra sicurezza nazionale è ridicolo. Elmasry non rappresentava nessun pericolo per l’Italia, ma solo per gli internati nei lager libici, i quali naturalmente, per il nostro governo, non sono persone. Ma alla disumanità si è aggiunta, come nelle rappresentazioni messe in scena da Trump, l’aggressione alla magistratura: dapprima ai giudici che non hanno convalidato le illegittime deportazioni in Albania, poi al procuratore di Roma Lo Voi per aver comunicato come era suo dovere al Tribunale dei ministri la denuncia del governo per il favoreggiamento di Elmasry, poi alla stessa Corte penale internazionale che si è permessa di registrare una denuncia sulla mancata esecuzione da parte dell’Italia del suo ordine di cattura. Questo disprezzo per il diritto e per la giurisdizione è il prodotto di una concezione primitiva e anti-costituzionale della democrazia, che si sta affermando e diffondendo in tutti i regimi populisti, peraltro in crescita costante in tutto l’occidente. La democrazia consisterebbe unicamente nel potere della maggioranza uscita vincente dalle elezioni: un potere che si vuole accreditato come espressione della volontà popolare e che perciò non tollera né limiti, né vincoli, né controlli. Di qui le riforme dell’ordinamento giudiziario realizzate o tentate: in Turchia, in Ungheria, in Israele, in Messico, in Italia. È una concezione che, unitamente alle pratiche crudeli da essa legittimate, gode del consenso popolare. È vero. Non è una novità. È esattamente ciò che è successo con il fascismo e con il nazismo, i quali ottennero un consenso di massa alle loro politiche immorali e disumane fascistizzando il senso civico e così producendo, a livello di massa, il crollo della morale e del senso di umanità. Contro questa degenerazione della politica non basta richiamarsi ai sacri principi: all’uguaglianza e alla dignità di tutti gli esseri umani, ai loro diritti, alla separazione dei poteri, al valore della legalità eccetera. In assenza di garanzie, questi principi sono solo parole, ignorate o peggio sbeffeggiate dai nuovi padroni del mondo. Ciò che occorre - la sola possibilità di salvare le nostre democrazie e con esse la pace, la sicurezza del genere umano e la nostra stessa dignità - è l’allargamento, a livello dei nuovi poteri selvaggi, del paradigma costituzionale. Solo portando il costituzionalismo, le garanzie dei diritti e dei beni vitali all’altezza degli attuali poteri globali e delle loro aggressioni, è possibile civilizzare questi poteri e funzionalizzarli all’attuazione di quei sacri principi, oggi ridotti a vuota retorica e sicuramente scomparsi dall’orizzonte della politica e dell’economia. La democrazia si può salvare. Per farlo servono costituzioni forti e poteri di garanzia di Nadia Urbinati* Il Domani, 11 febbraio 2025 Se le democrazie si salveranno, saranno i poteri di controllo a farlo. E costituzioni che sapranno resistere all’assalto quotidiano da parte dei poteri esecutivi. Costituzioni forti che celebrano la sovranità popolare attraverso la legge che la regola e l’articola. Potranno le democrazie essere salvate? E chi le salverà? Sono domande pertinenti e non sentimentali visto il flagello che sconvolge il paese-guida della democrazia, prontamente preso a modello dagli alleati più fedeli. Tra gli anarco-capitalisti raccolti attorno a Elon Musk molti pensano che la democrazia non sia compatibile con la libertà economica e che lo stato collettore di tasse vada abbattuto insieme al sistema di giustizia (Bruce Benson propone di “rebooting medievalism as a model of criminal justice”). Il vicepresidente americano, J.D. Vance, ha dichiarato due giorni fa che “i giudici non sono autorizzati a controllare il potere legittimo dell’esecutivo” e ha criticato la magistratura federale e le sentenze dei tribunali che hanno fermato parte dell’agenda di Donald Trump, come l’abolizione dello ius soli, l’accesso di Musk ai fondi pubblici, il congedo di migliaia di dipendenti dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Secondo Vance, i presidenti possono e devono ignorare le ordinanze dei tribunali che violano i loro legittimi poteri esecutivi. Il fronte italiano - In Italia, la campagna contro i magistrati è cronaca ordinaria: i tribunali “intralciano” le decisioni del governo perché i giudici sono “comunisti”. Con Trump, l’attacco si è esteso alla Corte penale internazionale, che tra l’altro il suo paese non riconosce. Gli ha fatto subito eco il fedele Matteo Salvini che al circo del Make Europe Great Again in Spagna ha tuonato contro i giudici dell’Aia. La corte, la legge, i diritti: termini detestati nei palazzi degli esecutivi. Per spiegare come è nato il divorzio dall’indipendenza del potere giudiziario si dovrà partire almeno dal progredire del populismo in questi ultimi decenni, con la sua mutazione maggioritarista delle regole di maggioranza, con l’umiliazione del pluralismo politico e la scarsa tolleranza del dissenso. Si dovrà parlare del disprezzo populista per il parlamento, giudicato luogo castale, inutile ed esoso. Dallo disfiguramento della regola di maggioranza e dalla debilitazione della funzione deliberativa collegiale si deve passare per cominciare a capire quel che sta succedendo alle nostre democrazie, oggi. C’è solo l’esecutivo - Cominciare a capire. Perché, all’apparenza, queste storture sembrerebbero celebrazioni della democrazia, che vuole essere “governante” (sic!) e godere di esecutivi forti, di capi che con uno schiocco di dita eseguono senza impedimento quel che hanno promesso agli elettori. Che cosa c’è di più democratico? Con questa lettura, sofista e bugiarda, talk show e media funzionali servono al popolo la patata avvelenata: solo l’esecutivo e la sua maggioranza sono il cuore della democrazia, non il corpo castale dei magistrati. La costituzione che divide i poteri e istituisce organi di garanzia contro i poteri costituti è il principale ostacolo. E non è un caso se gli autoritari riscrivono nuove costituzioni o modificano quando possono quelle esistenti per approvarne altre a loro immagine e somiglianza. Una costituzione specchio del potere costituito non é una costituzione. È un regolamento. Le democrazie si salveranno? Difficile dirlo. Ma se si salveranno saranno i poteri di controllo a salvarle, e costituzioni che sapranno resistere all’assalto quotidiano da parte dei poteri esecutivi. Costituzioni forti che celebrano la sovranità popolare attraverso la legge che la regola e l’articola. A salvare le democrazie saranno loro. E tra queste, quelle che hanno la capacità di essere più di documenti tecnici per magistrati e avvocati, di essere testi di un civismo democratico che ispira la responsabilità verso la libertà e la giustizia come beni comuni. A salvare le democrazie saranno i poteri di garanzia se i magistrati sapranno mantenere la loro onorabile indipendenza e non si piegheranno alle minacce o alle lusinghe di arroganti capi di governo. Il loro procedere è lento al contrario di quello decretizio che è veloce. Ma il potere di fermo è un mezzo che apre all’opposizione lo spazio per svolgere la propria funzione di critica, mirata e puntuale. *Politologa Come i leader usano il mito per manipolare la realtà di Barbara Carnevali La Stampa, 11 febbraio 2025 Uno dei punti forti della nuova destra globale è il suo uso del mito. La capacità di creare miti e interpretare la realtà in chiave mitica accomuna tutti i suoi leader, bravissimi nel mobilitare le masse attraverso una manipolazione tanto spregiudicata quanto efficace dell’immaginario: dal “destino manifesto” evocato da Trump per giustificare l’espansionismo americano, e quindi il diritto a prendersi Panama e la Groenlandia, al supereroismo prediletto dalla retorica di Milei, passando per la conquista dello spazio capitanata da Musk, che non solo prolunga quella del West in dimensione verticale, ma aggiorna la mitologia romantica del cowboy con due ingredienti irresistibili: la magia tecnologica e la promessa di futuro. La potenza del discorso americano poggia sulla più grande macchina mitologica della storia, Hollywood. Ma in versione più provinciale, il flirt con il mito non risparmia la destra italiana, che coltiva fantasie neomedievali già dai tempi della prima Lega e che ha nutrito i suoi desideri di rivalsa con gli hobbit di Tolkien, come ama ricordare Giorgia Meloni. Per quanto riguarda il tecnofuturismo, la destra nostrana tende a parassitare l’immaginario altrui: è l’amico americano che ci fornirà i satelliti, rianimando artificialmente lo spirito di Marinetti. Nel suo libro “La cultura di destra”, pubblicato quarantasei anni fa, Furio Jesi analizzava il funzionamento politico dei miti definendoli “idee senza parole”. Il mito è ineffabile, si sottrae al linguaggio attraverso cui passa ogni discorso razionale (lo suggerisce il greco “logos”, che identifica parola e ragione). La narrazione costruita sul mistero deve restare tale perché non contiene fatti o ragionamenti verificabili, ma il vuoto. Su questa assenza fa presa il mito come strumento politico: permette di mobilitare le masse dominandole; eccita l’immaginazione ma inibisce l’azione, consolidando rapporti di potere gerarchici e autoritari. Quando Musk promette di condurre l’umanità su Marte per metterla in salvo dalla catastrofe ecologica, non dice che, come il dottor Stranamore con cui condivide il dispettoso braccino nazista, pensa a un’élite selezionata per censo ed eugenetica. Nell’ottica del racconto mitico, contano solo l’entusiasmo per l’impresa eroica e la delega al capo a decidere per noi. La cultura di sinistra ha un problema strutturale con il mito, per via della matrice illuministica che la caratterizza. La ragione, per essenza, demitizza: porta la luce nelle tenebre, penetra le cortine di fumo dissolvendole con rigore scientifico. Così come la fisica e la chimica offrono una spiegazione razionale per i fenomeni naturali che sembrano soprannaturali, così la storia o l’antropologia smascherano i sortilegi sociali, mostrando come l’autorità dei condottieri leggendari abbia origine in prepotenze arbitrarie, o come i superpoteri degli eroi riposino su superiori capitali. La demistificazione ha una portata emancipatoria incontestabile: non chiede alla massa di obbedire ciecamente ai capi, ma offre a ogni essere umano ragioni confutabili per obbedire o per ribellarsi. Ma ha anche un costo pesante per la psiche: il mondo demitizzato perde l’incanto, la fiaba e la passione. Un esito possibile dell’eccesso di critica, che già denunciava Leopardi e su cui si è interrogata con timore la filosofia del Novecento, è nell’apatia o nel cinismo: accettare solo la positività dei fatti senza immaginare e desiderare più niente, perdere la speranza nel futuro. Si delineano allora due fronti ideali: da un lato, i demistificatori a oltranza, quelli che si affannano a smentire la falsa informazione di Trump, senza capire che la loro crociata compiace solo i già illuminati, mentre gli altri continueranno a credere alle leggende perché è di queste che hanno sete; dall’altro quelli che cercano di quadrare il cerchio facendo convivere mito e ragione, mettendo l’immaginazione al potere in nome della libertà collettiva. Questa seconda via, percorsa da Georges Sorel con il mito dello sciopero generale, ed esplorata da marxisti utopisti come Bloch o Marcuse, mira a realizzarsi nell’immaginario popolare - l’autentico crogiolo del mito, che non si fabbrica nelle aule universitarie. L’ultimo, sfolgorante esempio di mitologia di sinistra è stata la cultura pop, soprattutto musicale, che ha dato voce alla protesta giovanile degli anni 60-70. Alla lugubre e bellicistica mitologia della destra ha replicato con le sue immagini di pace, amore ed uguaglianza. Immagini ingenue, va da sé, perché il mito non può che essere naïf. Ma il fatto che in molti siamo usciti dal film su Bob Dylan col morale alle stelle invita a riflettere. Gran Bretagna. Migranti in manette a sinistra di Antonio Polito Corriere della Sera, 11 febbraio 2025 Il premier britannico (laburista) adotta il modello Trump. Ma il fenomeno va governato, senza farne uno scontro di civiltà. Se uno dei (pochi) governi di sinistra d’Europa imita Trump, e organizza uno show di deportazione di immigrati, mostrati in tv mentre vengono fermati nei blitz, radunati nei centri, messi su un bus e portati in fila indiana alla scaletta dell’aereo sotto scorta della polizia, vuol dire che destra e sinistra non esistono più o che il problema è uguale per tutti? Il premier britannico Starmer, preso alla gola da sondaggi impietosi che segnalano la scalata della destra xenofoba di Farage, sta obbedendo a un vecchio detto inglese: If you can’t beat them, join them, se non puoi batterli unisciti a loro. Non è detto che ci riesca, anzi. Magari gli elettori invece di un’imitazione preferiranno l’originale. Del resto, che per l’elettorato britannico il problema sia serio era chiaro fin dai tempi della Brexit, fatta anche per cacciare gli italiani accusati di togliere lavoro e welfare agli inglesi, figurarsi gli afghani. Infatti il governo conservatore di Sunak aveva ipotizzato addirittura di portare gli indesiderati in Ruanda. E il laburista Starmer era venuto a Roma da Giorgia Meloni per studiare la soluzione-Albania (poi deve aver rinunciato, visto l’esito). Ma in tutt’Europa, quando la sinistra è al governo adotta politiche sempre più rigide nei confronti dell’immigrazione clandestina. Il Cancelliere Scholz ha sospeso Schengen lo scorso autunno per sei mesi (per non parlare di ciò che si prepara a fare il “popolare” Merz); lo spagnolo Sanchez sta tentando con Gambia, Mauritania e Senegal gli stessi accordi che Meloni ha fatto con la Tunisia e prima di lei Minniti con la Libia (entrambi con un certo successo); per non parlare dei socialisti danesi, i più severi. Perfino Biden aveva emesso un ordine esecutivo per respingere alla frontiera gli immigrati dal Messico, oltre un certo numero di ingressi. Solo che, sempre per dirla all’inglese, fu too little, too late, troppo tardi e troppo poco, per fermare la marea Maga. Queste operazioni hanno infatti bisogno di spettacolo per raggiungere l’effetto mediatico cui puntano (di solito maggiore dell’effetto concreto). È ciò che deve aver pensato Starmer. Ed è forse ciò che cerca, finora senza successo, Meloni nei campi d’Albania. Il vero discrimine non è più infatti tra una destra cattiva che respinge e una sinistra buona che accoglie. È piuttosto tra chi sta al governo ed espelle, e chi sta all’opposizione e s’indigna. E la ragione sta nel fatto che il problema non è solo elettorale, è reale. O trovi una soluzione per non farli partire, e l’ideale sarebbe proprio un “Piano Mattei” pan-europeo, promuovere cioè lo sviluppo nei Paesi di provenienza per ridurre la spinta migratoria; ma ci vogliono decenni e miliardi, non è cosa che dà risultati in una settimana. Oppure li rimandi indietro una volta arrivati, che è il metodo Trump-Starmer. Se non fai niente, o se dai anche solo l’idea di non fare niente, passi presto all’opposizione, perché ti dimostri incapace di fronteggiare uno dei problemi cruciali oggi in Occidente. Con l’inizio del millennio è infatti saltata qualsiasi ricetta nazionale un tempo capace di tenere unite classi dirigenti e classi popolari: il melting pot all’americana, l’assimilazionismo alla francese, il multiculturalismo all’inglese, il solidarismo all’italiana. Nel ventennio della rabbia, in cui il risentimento ha preso il posto della politica (come dal titolo di un bel libro di Carlo Invernizzi-Accetti), i nativi, soprattutto i più poveri, si sono sentiti dimenticati, forgotten men, declassati, umiliati dalla globalizzazione e dall’establishment. E se la sono presa con i “nuovi arrivati”, che vedono come la causa più visibile e prossima della loro sconfitta, della loro perdita di status prima ancora che di benessere reale. È chiaro che la colpa non è degli immigrati, spesso i veri “ultimi”, le vere vittime. Ed è anche vero che gli immigrati ci servono eccome, e anzi spesso sono la forza lavoro a basso costo delle nostre opulente società servili di massa. Ma sono argomenti che non bastano a sciogliere quel grumo d’ansia; anzi, spesso indirizzano la rabbia elettorale contro chi li usa per proporre una più ampia e quasi illimitata accoglienza. Argomenti razionali, ma che non contano di fronte a un sentimento di rabbia: quando devi batterti per un posto all’asilo, per la casa popolare, per il sussidio, per il salario, o per la sicurezza del tuo quartiere. Il punto cruciale di una politica migratoria moderna e funzionante, dunque, dovrebbe essere lo stesso per destra e sinistra: separarla dalle pulsioni xenofobe, se non apertamente razziste, che di solito si accompagnano a quel risentimento, e che vengono invece alimentate dalle forze più estreme e irresponsabili. Governarla, senza trasformarla in uno scontro di civiltà. Gestirla, ma salvando i principi liberali delle nostre società. Non è certo facile. Ma se non si comincia nemmeno a pensare in questo modo, è inutile poi stupirsi se la sinistra di Starmer fa come la destra di Trump.