Scontro con le toghe: il Governo non cede di Irene Famà La Stampa, 10 febbraio 2025 La maggioranza incalza dopo l’apertura dell’Anm: “Ora revochino lo sciopero”. Dopo mesi di incomunicabilità (e anche scontri), toghe e governo sembravano voler scendere dal ring. E puntare al dialogo. O almeno provarci. Il nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi propone un incontro alla premier. E Giorgia Meloni non solo accetta e si dice pronta al confronto ma, raccontano i bene informati, chiede anche ai suoi di smorzare i torni. Ieri però il percorso si complica di nuovo. Pronti al dialogo, sì. Ma la riforma della giustizia non si tocca: ecco la linea dell’esecutivo. Pronti al dialogo, sì. Ma la riforma non va bene e lo sciopero annunciato per il 27 febbraio resta: ecco la posizione dei magistrati. Un empasse. Per raccontare l’ennesimo atto della battaglia governo-magistrati bisogna seguire l’ordine cronologico. L’altro ieri l’Anm elegge come nuovo presidente Parodi che propone un incontro alla premier. Lei accetta. E anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro sceglie una posizione conciliante: “Potrebbe aprirsi una stagione di rinnovato confronto”. Idillio breve. L’Anm conferma la protesta e il Comitato direttivo centrale invita “tutti i colleghi ad indossare la coccarda tricolore durante tutte le udienze civili e penali da qui allo sciopero”. Si torna a discutere. Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia, attacca: “Tre consigli: i magistrati revochino questo sciopero eversivo. Se non fosse possibile, lavorino di più, per far rilevare la differenza tra l’eventuale sciopero e le giornate di lavoro, che non appaiono caratterizzate da ritmi - apprezzabili e sembrano un simil sciopero permanente. Se proprio devono indossare una coccarda se la mettano rossa, così confermeranno la loro natura di avanguardia militante della sinistra politica. Povera Italia”. Anche Enrico Costa, deputato di Forza Italia e membro della commissione giustizia alla Camera, abbandona la cortesia. “Dall’Anm c’è una chiusura totale e assoluta alla riforma”, dice. “Il governo non si farà risucchiare in una finta trattativa”. E ancora: “La coccarda? Scrivano sopra a chiare lettere a quale corrente appartengono”. Nel botta e risposta arrivano anche le opposizioni. Il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte è provocatorio. “Alla giustizia per i cittadini comuni chi ci pensa? Di certo non Meloni e Nordio. Due cose le hanno fatte: un’app non funzionante per il processo telematico penale e una riforma che fa scappare criminali e spacciatori, che vengono avvisati prima di essere arrestati. Un trionfo”. Gli fa eco il deputato di Avs Angelo Bonelli. Definisce la destra “ipocrita. Parla di dialogo, ma nei fatti ha respinto tutti gli emendamenti dell’opposizione sulla riforma della giustizia. Il vero obiettivo del governo è delegittimare l’autorità giudiziaria”. Discutono toghe e governo. E discutono all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Con una nuova composizione: dopo oltre vent’anni hanno vinto le toghe di destra. Ieri mattina, durante il comitato, dalle fila di Magistratura indipendente avanzano qualche riflessione sull’opportunità di sospendere lo sciopero prima dell’incontro con la premier. Il neopresidente ribatte più o meno così: “Non avrebbe alcun senso. Lo sciopero si revoca, se il giorno prima revocano la riforma”. Qualcuno, poi, sembra aver storto il naso davanti a quell’incontro chiesto alla premier e annunciato davanti ai giornalisti senza prima confrontarsi con la giunta. Parodi si scusa. Una risposta, però, l’ha ottenuta. Così da poter “spiegare una volta di più con chiarezza, fermezza, lucidità e senza nessun cedimento quelle che sono le nostre ragioni soprattutto di cittadini e anche di magistrati”. Il senatore Gasparri torna all’attacco. “Pessimo esordio. Non ci faremo intimidire”. Prove di dialogo, si diceva. Troppo presto per andare in scena insieme. Lo sciopero (e le coccarde tricolori). Resta alta la tensione toghe-governo di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 10 febbraio 2025 La dichiarata “disponibilità al dialogo” del sottosegretario Mantovano e l’auspicio della ripresa di un “sano confronto” della premier Meloni dopo l’elezione del nuovo presidente dell’Anm Parodi non fermano la protesta dei magistrati, che in tutte le udienze civili e penali, fino a fine mese, indosseranno un coccarda tricolore sulle loro toghe, come già fatto all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Troppo avvelenato il clima dalle polemiche stratificatesi in questi giorni, troppo diretti i ripetuti attacchi ai magistrati nei casi Almasri e Caputi per metterseli alle spalle. Il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha inoltre deliberato lo sciopero generale il 27 febbraio. “La destra ipocrita parla di dialogo, ma nei fatti dimostra che il suo unico obiettivo è garantire impunità e immunità ai potenti e delegittimare l’autorità giudiziaria”, attacca Angelo Bonelli di Avs. Sul fronte opposto, Maurizio Gasparri (FI) ironizza invitando i magistrati a “indossare una coccarda rossa”, parla di “sciopero eversivo” ed esorta i magistrati a “lavorare di più” (uno dei temi della protesta sono i vuoti in organico). Sempre Forza Italia parla di “pessimo esordio” per il neo eletto presidente della Anm. Al centro dello scontro, come detto, oltre alla osteggiata separazione delle carriere c’è la tempesta scatenatasi sugli uffici giudiziari di Roma nelle due inchieste che hanno paralizzato anche l’attività politica di questi giorni. La liberazione del torturatore libico con le responsabilità attribuite (senza riscontri) dal ministro Nordio alla Procura generale della corte d’Appello e l’attacco della premier al procuratore capo Lo Voi per le ipotesi di reato trasmesse al tribunale dei ministri a carico degli stessi Nordio, Meloni Mantovano e Piantedosi. “Io tento di avere rispetto istituzionale. Sono sotto accusa per favoreggiamento e peculato e attendo di spiegare nelle sedi competenti quanto è successo - ha commentato sul punto il sottosegretario - posso solo dire che, nella mia stanza, da qualche giorno quell’avviso è incorniciato”. Il tribunale dei ministri deve valutare in particolare nei confronti del Guardasigilli l’ipotesi di omissione di atti d’ufficio per non aver dato seguito alle sollecitazioni della corte d’Appello. Un comportamento analogo, su un piano diverso, contrappone il governo alla Cpi, che chiedeva la cattura di Almasri. Lo Voi è chiamato in causa anche per la presunta rivelazione di segreto in relazione agli accertamenti compiuti dall’Aisi sul capo di gabinetto di palazzo Chigi, Gaetano Caputi, finiti negli atti delle indagini nate da una denuncia dello stesso contro il quotidiano Domani. Il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, che fa capo proprio a Mantovano, ha denunciato a Perugia il capo dei pm romani e il suo omologo Raffaele Cantone valuterà oggi come procedere. Possibile l’apertura di un fascicolo senza reati né indagati per le prime valutazioni. Nel Csm, invece, si sono invece attivati i consiglieri laici di centrodestra, chiedendo l’avvio di una procedura di incompatibilità a carico di Lo Voi. Il capo dei pm capitolini è certo di aver rispettato tutte le procedure in entrambe le vicende e attende la convocazione del Copasir (entro le due settimane) per poterle esporre nel merito. In procura a Roma, intanto, è arrivata una nuova denuncia contro il governo da parte di un sudanese vittima di Almasri. Parodi: “Rapporti radicalizzati tra poteri. Porto pace, ma non arretriamo” di Giuseppe Legato La Stampa, 10 febbraio 2025 Il neo presidente dell’Anm: “L’incontro con la premier è un segnale positivo. Il muro contro muro non giova a nessuno. Spiegheremo le nostre preoccupazioni”. “Un momento così complicato nei rapporti tra esecutivo e magistratura, tra poteri dello Stato, non me lo ricordo e non credo vi siano precedenti. Siamo arrivati allo scontro sistemico, cercherò di pacificare - per quanto possibile - ma spiegando anche le ragioni delle nostre posizioni sulle quali non si arretra”. Eccolo qui il neo-presidente dell’Anm Cesare Parodi, 62 anni, procuratore Aggiunto a Torino, da 48 ore al vertice dell’associazione delle toghe. Un moderato, Magistratura Indipendente, che cercherà di ricostruire un dialogo. Pontiere dove i ponti sono saltati, pompiere dove le fiamme si sono prese già il tetto. Dottor Parodi: a detta di molti la aspetta un lavoro complicato. Ne è consapevole? “Che sia un momento molto difficile è indubbio, ma si è arrivati a un punto che non giova a nessuno. Dobbiamo ricostruire un dialogo. Poi quale sarà l’esito non è un tema da porsi adesso”. Appena eletto ha sollecitato un incontro della giunta Anm con la premier ed è arrivata un’apertura: “Auspico da subito che si possa riprendere il dialogo” ha fatto sapere Meloni... “Lo considero un segnale sicuramente positivo quantomeno sul piano relazionale e non può che rallegrarmi; i contenuti li verificheremo spero presto. Comunque, credo che il dialogo sia la cosa migliore. Il muro contro muro difficilmente paga”. È una critica a chi l’ha preceduta? “Nient’affatto, ma si immagini. Auspichiamo invece tutti un confronto, magari serrato in cui ognuno forse alla fine rimarrà della propria idea e nel proprio ruolo, ma in un contesto generale di minore conflittualità”. Ha detto: “Non siamo la banda Bassotti”. Ritiene che nell’esecutivo vi vedano così? “Intanto non mi riferivo alla Magistratura in generale, ma all’Anm. È innegabile, in generale, che i gruppi associativi spesso vengano identificati peggio di come sono. Noi ci aggreghiamo per uno spirito di condivisione di idee, di confronto. Colpevolizzarci è sbagliato”. Nordio ha detto: “Più ci attaccano (voi magistrati ndr) più porteremo a fondo la riforma con forza”. Le premesse non sono incoraggianti, non trova? “Il ministro fa le sue dichiarazioni. Sappiamo perfettamente che i provvedimenti li fa il governo, ma noi vogliamo spiegare bene le ragioni per cui a nostro parere questa riforma possa e debba essere modificata, migliorata o addirittura stravolta”. Pare di percepire un certo possibilismo. Non è così? “Dipende dalla nostra capacità di convinzione, le nostre motivazioni sono fondate. Certo va rasserenato il clima. Poi guardiamoci negli occhi e se si riuscirà a creare un rapporto di fiducia reciproca allora tutto il resto potrà essere rivisto”. Il procuratore di Roma Lo Voi è sotto assedio: questione Almasri, Csm, denunce dell’Intelligence. Qual è il suo giudizio sul punto? “È una vicenda che non abbiamo ancora commentato coi colleghi della giunta e del comitato direttivo centrale. Certamente è questione delicata alla quale dedicheremo attenzione. Al netto del merito della vicenda, nel quale non entro, in generale è una delle conferme che le difficoltà di rapporti da qualche tempo si sono radicalizzate. Si è arrivati allo scontro sistematico che non giova a nessuno. Auspico che un momento di chiarimento e di confronto possa portare a un’apertura di dialogo nei temi su cui il ministro ha responsabilità. E non vi è solo la riforma”. Che già da sola basterebbe per prevedere ampio disaccordo. O qualcosa sta cambiando? “A me questa riforma lascia perplesso non perché attacca il potere dei magistrati ma perché da cittadino - ad esempio - mi sento più tutelato da un sistema in cui il pm non è un super-poliziotto, ma soltanto se dopo aver fatto gli accertamenti obbligatori e necessari può fare una valutazione serena dei fatti”. Diceva: “Porremo altri temi sul tavolo”. Quali? “Almeno due: l’organizzazione della giustizia per prima. Ci si richiede grande efficienza e non abbiamo gli strumenti per garantirla; dovremo spiegare che questo limita fortemente il funzionamento della macchina. Il governo lo saprà di certo, ma parlarne sarà utile”. E la seconda questione? “Attiene alla magistratura sulla quale negli anni si è formata, non necessariamente e non solamente per colpa di certa politica, una narrazione che non corrisponde a quello che siamo e cioè fortemente negativa in molti casi. L’immagine che passa è questa, ma non è la verità”. Ricapitoliamo: Meloni aderisce alla richiesta di incontro, Bignami (capogruppo Fdi alla Camera) invoca un nuovo dialogo, Pinelli - vicepresidente del Csm - le fa un augurio “non formale” di buon lavoro... “Anche questo è un segnale da tenere in considerazione”. Gasparri le attribuisce “un pessimo esordio”. Dice che lei “intima il Parlamento di revocare la riforma perché questa sarebbero l’unica condizione per revocare lo sciopero”... “Lo sciopero non sarà un momento decisivo di questo nostro impegno. Il discorso non finisce con lo sciopero ma anzi inizia. Dobbiamo mettere in conto che alcuni non aderiranno e dobbiamo essere pronti quando ci salteranno addosso e ci diranno “vedete neanche i vostri colleghi vi seguono”. Perché la riforma non può diventare l’ennesimo alibi per una giustizia incompiuta di Errico Novi Il Dubbio, 10 febbraio 2025 La separazione delle carriere dei magistrati nasconde diverse contraddizioni su garanzie, diritti e carcere. Rischia di essere anche la scorciatoia per rimandare di una legislatura l’insidiosa resa dei conti tra Forza Italia, FdI e Lega. E se la separazione delle carriere fosse una scorciatoia? Un compromesso astuto, ingegnoso ma anche un po’ infingardo, per citare un aggettivo adoperato da Giovanni Maria Flick nell’intervista attorno a cui ruota questo numero del Dubbio? È una domanda inevitabile. Non solo alla luce delle considerazioni svolte dal presidente emerito della Consulta, ma anche vista la genesi della riforma, il contesto politico da cui proviene. L’attuale maggioranza è assai meno omogenea, sulla giustizia, di quanto possa far credere la sua marcia compatta, unitaria, quasi marziale al fianco del guardasigilli Carlo Nordio. Intanto va ricordato come fino a meno di un anno fa tanta comune determinazione sarebbe stata impensabile. Poi c’è stata una carambola. Improvvisa, e inesorabile. Da una parte il pressing di Forza Italia, che ha voluto le carriere separate, e ne ha fatto la propria bandiera, anche in vista delle Europee dello scorso giugno. Dall’altra un repentino raffreddamento di Palazzo Chigi, e di Giorgia Meloni in particolare, sul premierato. Troppo rischioso battersi contro le opposizioni per una riforma esposta, a torto o a ragione, alla facile accusa di implicare una svolta cesarista. Così, la presidente del Consiglio ha realizzato, fino al clamoroso cambio di rotta dell’estate scorsa, che la separazione delle carriere è la sua sola possibilità di lasciare un segno “costituente”, di rivendicare meriti da statista, e di affrancare così la propria figura dallo stigma del postfascismo. Anche considerato che l’altra riforma istituzionale, peraltro di rango ordinario, e cioè l’autonomia differenziata, presenta ben altre controindicazioni politiche, e da Fratelli d’Italia è sempre stata percepita, seppur incoffesabilmente, come una mezza iattura. Restava solo la giustizia, solo la “separazione”. Era il ddl Nordio, la vera, imperdibile chance. E così ora la maggioranza ha portato a casa la prima delle quattro letture parlamentari necessarie, con la seconda in fase di accelerazione a Palazzo Madama. Separare le carriere non è inutile. Com’è stato chiarito in un editoriale del direttore, questo giornale sostiene la riforma, seppur con l’impegno di promuovere e ospitare il dibattito fra gli opposti schieramenti, inclusa la magistratura già calatasi nella trincea anti-Nordio. Ma al di là del giudizio sul ddl costituzionale in sé, c’è un altro problema. Flick ne parla con il tono di un padre nobile della giustizia: senza fare nomi, senza entrare nelle pieghe delle contraddizioni fra i partiti, di maggioranza e di opposizione. Una cosa però è indiscutibile, e la si accennava all’inizio: il centrodestra è idealmente assai poco omogeneo sulla giustizia. Forza Italia è generalmente agli antipodi di FdI e Lega: sulle garanzie nel processo, sulla revisione del doppio binario nella legislazione antimafia, sulle intercettazioni e, soprattutto, sul carcere. Non riescono neppure più a rivendicare la loro diversità, i berlusconiani: certo, se solo ne avessero la facoltà, farebbero ben altre scelte, soprattutto in ambito penitenziario. La Lega, e ancor più Fratelli d’Italia, si celano dietro la fragilissima - non ce ne voglia Nordio che prova a nobilitarla - teoria del garantismo differenziato, valido cioè a processo in corso ma inservibile quando si sia definitivamente accertata la colpevolezza dell’imputato. A quel punto, secondo tale asimmetria concettuale, si può dismettere ogni remora, passare dalle “garanzie” alla “garanzia di crudeltà”, e lasciare i detenuti in carceri pollaio, anche se si tratta di una donna con un figlio neonato. Che paghi, arrivata a quel punto. Che marcisca, al limite. E se si suicida? Peccato, ma viene prima la sicurezza di chi sta fuori e, all’inferno della prigione, per merito o ventura, è scampato. È mai possibile che una maggioranza siffatta possa partorire la più importante e articolata riforma costituzionale della giustizia di tutta la storia repubblicana? Certo che è possibile. Proprio perché la riforma riguarda, direttamente, solo i magistrati, con la politica, intesa come complesso delle scelte sulla giustizia, che si “compromette”, in quel pur condivisibile progetto, solo in modo parziale. La separazione delle carriere potrà riverberarsi solo in modo indiretto sul destino degli imputati e degli eventuali condannati. Cioè sulla pena, sul carcere, ma anche su altri aspetti comunque divisivi per l’attuale maggioranza. Ed ecco perché è vero che, come dice Flick, le carriere separate possono diventare il pietoso velo dietro cui nascondere tutte le contraddizioni del centrodestra sulle garanzie, sul sistema penitenziario e, in qualche caso, anche sul sistema processuale, a cominciare dalle intercettazioni e in particolare dai trojan. C’è una realpolitik che alla fine prevale sul resto. Ma si lascia dietro sacrifici umani. Quelli dei detenuti, delle madri con figli neonati che ora rischiano di allattare in carcere. I sacrifici umani, sanguinosissimi (in senso metaforico ma anche materiale, come attesta qualche tragico caso di suicidio) degli imprenditori colpiti, per loro sventura, da una misura di prevenzione antimafia, privati di tutto, anche prima che si concluda il processo penale, l’unico in cui le accuse di 416 bis siano sottoposte a un vero vaglio nei tre gradi di giudizio: imprenditori, persone che spesso non riescono a riavere i loro beni anche se assolte. Restano sacrificati i cittadini sottoposti al micidiale trojan, violati nella loro intimità fin dentro la camera da letto, in una fase in cui sono presunti innocenti, e senza alcun reale rimedio quando quell’innocenza sia accertata. Sono battaglie a cui, per la gran parte, Forza Italia ha rinunciato. Se ne parlerà forse nella prossima legislatura. Troppo scomodo lasciare sul tappeto simili contraddizioni: meglio nasconderle sotto. E la separazione delle carriere, pur con tutte le validissime ragioni che l’accompagnano, rischia di essere anche l’improprio alibi per tenere quelle contraddizioni al riparo dalla luce. C’è solo una cosa da aggiungere. Ed è il messaggio affidato da Flick all’intervista che trovate in questo numero: il cinismo può essere della politica. Ma non dell’avvocatura. Che non dovrà accontentarsi. E dovrà, allo stesso tempo, battersi per la separazione delle carriere, fino al referendum, e continuare a dire alla maggioranza che non ci potrà mai essere alcun merito tanto grande da condonare così gravi, imperdonabili amnesie. Flick: “Avvocati, basta guerra coi giudici o il processo e i diritti sono perduti” di Errico Novi Il Dubbio, 10 febbraio 2025 “Il mondo forense e la magistratura non devono cedere all’idea secondo cui la separazione delle carriere sarebbe la madre di tutte le battaglie: finirebbero così per non discutere più di giustizia e dei suoi mali, dalla legge al sistema penitenziario”. “Sono sorpreso. Deluso, anche. Avvilito, verrebbe quasi da dire. Davanti abbiamo un sistema giustizia, e un sistema penale in particolare, che è gravato da problemi, da una sedimentazione ormai pluridecennale di problemi. A fronte dell’amara realtà con cui toccherebbe confrontarsi, assisto invece a un conflitto che in alcune fasi degenera in rissa confusa, insensata. E la mia più grande amarezza deriva dal verificare che tale conflitto vede contrapposte non solo magistratura e politica, ma purtroppo anche avvocatura e magistratura, come attesta la recente vicenda dell’evento organizzato dalle Camere penali a Milano. Da entrambe le parti mi sarei aspettato un atteggiamento diverso che non fosse né la esibizione scomposta e sventolata della Costituzione, né l’intitolazione a senso unico degli argomenti da discutere nell’incontro della settimana scorsa. La politica a propria volta ne approfitta, per strumentalizzare anche questa sottocategoria del conflitto sulla giustizia. Senza avere invece la prudenza e il buonsenso di cogliere l’importanza del confronto tecnico -non influenzato da prese di posizione ideologiche e precostituite, non reso incomprensibile per l’opinione pubblica e per i media a causa di eccessivi tecnicismi - fra avvocati e magistrati, per trarne soluzioni ai problemi accennati all’inizio”. Giovanni Maria Flick è un avvocato, oltre che uno dei punti di riferimento del sistema giustizia, un presidente emerito della Corte costituzionale, un ex ministro i cui propositi furono purtroppo successivamente traditi o attuati in piccola parte solo con lustri di ritardo. È tutto questo, ma è innanzitutto un avvocato; eppure, nel suo sconcerto, una volta tanto Flick sembra quasi optare per il registro della requisitoria spietata. Non contro una parte del perenne conflitto sulla giustizia. Ma proprio contro il conflitto in quanto banalizzazione ed estremizzazione dei problemi. “Ora la materia del contendere è essenzialmente la riforma relativa alla separazione delle carriere. Si parla solo di quello. Ed ecco l’altra grave banalizzazione: il conflitto su questa riforma è il velo sotto il quale si rischia di nascondere, colpevolmente, il gigantesco il groviglio di problemi che affigge il sistema penale, dalla legge alla pena passando per il processo. Si tratta di una versione se vogliamo estremizzata di quella tendenza alla rimozione e alla strumentalizzazione di cui le dicevo. Ricordo che lo stesso invito al buonsenso e al dialogo di cui parlavo prima lo rivolsi all’avvocatura e alla magistratura quando ero ministro, in un convegno a Bologna nel 1997. Spero adesso sia chiaro perché sono così deluso e, diciamolo pure, avvilito”. Presidente, ci spieghi: la separazione delle carriere è un narcotico, una cortina fumogena dietro la quale rischiamo di perdere di vista i problemi del processo? Viene usata proprio in questa chiave, al di là del giudizio che si può dare su quella riforma. Viene opposta come alibi per non risolvere i problemi stratificati da decenni. Incredibilmente ci si scontra con una certa asprezza, e appunto mi riferisco anche alle recenti tensioni nate attorno all’evento delle Camere penali a Milano e prima ancora alle inaugurazioni ufficiali dell’anno giudiziario, pure tra chi, come avvocatura e magistratura, dovrebbe essere ben consapevole della reale natura e portata di quei problemi. D’accordo. Da quale dei mali irrisolti si dovrebbe cominciare? Intanto bisogna fare un ordine concettuale, logico, sistematico. Bisogna ricordarsi che il sistema giustizia è una rosa dei venti. In essa si riconoscono quattro direttrici principali sulle quali soffia però costantemente un vento impetuoso che porta spesso a farle intrecciare e a trasformarle, in un turbine da cui sembra non esserci via d’uscita: la riserva di legge; il giusto processo con tutte le sue implicazioni, sostanziali e processuali; il principio cardine e universale per cui la responsabilità penale è personale, e può essere contestata solo in forza di una legge anteriore al fatto commesso, e non a un fenomeno; e la pena, che non deve essere mai contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione. Perché è necessario ricordare alle parti in gioco qual è la struttura del sistema, presidente? Non perché analizzare la giustizia sia possibile solo con un approccio scientifico-sistemico, ma perché solo se abbiamo dinanzi a noi la portata, la complessità e la dimensione delle questioni possiamo renderci conto di quanto sia da irresponsabili ridursi al conflitto, se non alla rissa, su di un particolare, per quanto significativo e simbolico. Tanto più quando essa si apre alla prospettiva del divide et impera contro chi si ritiene occupi troppo potere. Ho sempre pensato che fosse necessario distinguere le funzioni tra pm e giudice e non le carriere, proprio per evitare il rischio di un pm superpoliziotto, che in un primo momento viene esaltato ma che poi si vuole indebolire, o forse inesorabilmente assoggettare al potere politico. Incombe inoltre uno spettro sinistro. Quale spettro? Che a fronte della difficoltà, o meglio dell’incapacità nel risolvere effettivamente le questioni aperte, ci si rassegni, si indichi come ineluttabile la scorciatoia della giustizia algoritmica. Parliamo di un approccio robotico che ci sembra, grazie all’intelligenza artificiale, vantaggioso e a portata di mano; ma che equivarrebbe alla definitiva resa del sistema civile rispetto a un vero risanamento della giustizia penale. Ribadisco: serve una visione organica e globale del problema giustizia. Quella rosa dei venti dev’essere un monito a non scivolare nella semplificazione. Perché, ricordiamocelo, anche il conflitto è in sé una semplificazione. Anche un po’ infingarda, se permette. Vogliamo entrare nel dettaglio delle quattro direttrici? Partiamo dalla riserva di legge. E in particolare dal primo interrogativo: di chi è voce, oggi, il giudice. Di un tiranno? Del popolo? Della tecnologia? Di sé stesso? Poi teniamo presente che il ruolo del giudice, la sua crisi, sono complicati dal carattere multilevel sia delle fonti normative sia delle giurisdizioni. In un quadro già così complesso, si inserisce l’aporia fra diritto ex lege, che tende a implodere, e diritto ex iure, che invece dilaga. Sono solo alcune delle questioni ascrivibili sotto l’intestazione riserva di legge. Non dimentichiamo il già citato principio dell’irretroattività in malam partem. A qualsiasi analista non offuscato dalle nebbie del conflitto strumentale tremerebbero già le vene ai polsi. Veniamo al cuore dei contrasti a cui si assiste: il giusto processo regolato da legge... Ecco, le regole. Abbiamo un problema di regolazione del sistema, intanto. Abbiamo a che fare formalmente con un determinato modello, il processo accusatorio, che è gestito dalle parti in condizioni di parità sotto il controllo del giudice, e si è accantonato, in apparenza, il processo inquisitorio, che era gestito solo dal giudice. Eppure l’instabilità del sistema è evidente, lo sconfinamento dall’uno all’altro modello è continuo. E questo è solo un preambolo. Quali sono le “patologie” più gravi? Ce n’è un elenco. Innanzitutto Il troppo frequente uso della custodia cautelare come strumento per supplire alle carenze probatorie attraverso la confessione della persona accusata. A volte è anche peggio, se possibile: l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare diventa un’anticipazione di pena per soddisfare l’attesa di vittime o opinione pubblica, e anche un paradossale rimedio a una durata prevedibilmente troppo lunga del processo. Che è di per sé un ulteriore, se non il più grave problema... L’eccessiva durata dei processi penali, semplicemente, è intollerabile. Contraddice la civiltà giuridica. Si accompagna a corollari e concause. Tra gli altri, l’incognita sull’inizio effettivo delle indagini, che determina anche l’incertezza sulla loro effettiva durata, e dunque la fragilità dei limiti temporali che la legge prevede. Non mi pare che il controllo giurisdizionale sulla fase delle indagini si sia rivelato, anche dopo le modifiche introdotte con la riforma Cartabia, un valido antidoto a tali distorsioni. D’altra parte, la deriva che riguarda il pubblico ministero ha, come sappiamo, un risvolto ancora più grave e ingovernabile. Si riferisce al cosiddetto strapotere dei pm? È un’espressione che non chiarisce la natura del problema. Io mi riferisco alla tendenza, intanto, a imbastire dei maxiprocessi, una tendenza che si intreccia con il più generale nodo del protagonismo dei pm di fronte alle aspettative dell’opinione pubblica. Ed è ormai nota la degenerazione per cui quelle aspettative diventano oggetto di continuo abuso e strumentalizzazione da parte dei contrapposti schieramenti politici. È il processo che finisce fuori delle aule di giustizia... E che si vizia dell’altrettanto noto e patologico rapporto incestuoso tra i pm, protagonisti appunto, e i media, che quel protagonismo rendono possibile e amplificano, con l’ovvio risultato che l’informazione si occupa quasi esclusivamente delle indagini, e dunque delle ipotesi d’accusa. E qui siamo forse al nodo centrale, nel senso che sulla mediatizzazione delle indagini frana, in concreto, la parità fra accusa e difesa, cardine del modello accusatorio… Attenzione, non si tratta solo del protagonismo sui media. C’è un aspetto che dovrebbe preoccupare assai l’avvocatura, ma che rischia di essere oscurato dal conflitto di cui si parlava all’inizio: al di là del rapporto ordinamentale col giudice, cioè, di nuovo, al di là della separazione delle carriere di cui si discetta in modo praticamente esclusivo, il pm è e resta in ogni caso dotato di risorse tecniche ben più rilevanti, incisive e costose, dalla polizia giudiziaria alle consulenze tecnico-specialistiche. Immaginate quanto tale squilibrio possa esasperarsi e ingigantirsi nel momento in cui la magistratura requirente avesse un Consiglio superiore tutto proprio. In Italia l’accusa gode di molti vantaggi: basti pensare all’assoluto squilibrio del procedimento di prevenzione… Ecco un’altra questione molto delicata, oscurata dalla polemica quotidiana. C’è una tendenza crescente del pubblico ministero ad abbandonare il vincolo costituzionale, sancito in nome dell’eguaglianza, all’esercizio obbligatorio dell’azione penale, con tutti i correlati profili di garanzia, di prova e di difficoltà di scelta, per prediligere la via del processo di prevenzione. Il fenomeno diventa ancora più problematico nel momento in cui contempla persino la pericolosità sociale dell’impresa che deriverebbe anche, secondo alcune Procure, dall’utilizzo dei frutti del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori. Si riferisce ai casi che hanno riguardato, a partire dalla primavera dello scorso anno, persino Armani? L’agevolazione colposa di reati riconducibili al fenomeno del caporalato sembra consolidarsi come diffusa ipotesi di lavoro, negli uffici inquirenti, anche con riferimento all’evasione dall’adempimento degli obblighi tributari e alla configurabilità della frode fiscale. La repressione penale propriamente detta impone limiti garantistici a livello sostanziale, di merito e di procedura. La prevenzione consente di contestare all’impresa, in modo più agile, meno garantito, e sostanzialmente non presidiato dalle tutele costituzionali, ipotesi molto gravi, nel momento in cui quell’impresa sia ritenuta beneficiaria del profitto che deriva dallo sfruttamento di lavoratori col meccanismo della cosiddetta supply chain. Una frontiera che sembra pericolosa e di cui però in realtà, si parla ancora troppo poco. D’altra parte l’avvocatura penale ha già iniziato da un po’ di tempo a segnalare la deriva di un pubblico ministero che, con la condivisione delle sezioni “Misure di prevenzione” dei Tribunali, sostituisce sempre più il procedimento penale e le sue correlate garanzie con il procedimento di prevenzione, in cui il contraddittorio e il diritto di difesa sono ridotti al lumicino. Certo questi allarmi sono stati sollevati finora solo per la prevenzione antimafia… È un problema di cui ci si deve occupare. L’ablazione preventiva, il sequestro, l’amministrazione giudiziaria e magari la confisca, sono scorciatoie molto comode, più facili, se così si può dire, del vero e proprio procedimento penale. Ma se ci si giura battaglia all’ultimo sangue sulla separazione delle carriere, come mi pare si rischi di fare, quando e come ci sarà, per avvocatura e magistratura, tempo e modo di confrontarsi seriamente su problemi così gravi, e di insinuare almeno, nella politica, il sospetto che qualche modifica normativa sarebbe necessaria? E poi, presidente, c’è l’emergenza che in qualche modo autorizza a parlare di illegalità di Stato: il carcere… Il carcere è l’unica pena: la brutalizzazione operata dalla politica, dalla panpenalizzazione e dalla pancarcerizzazione, è questa. E produce effetti devastanti. Il più disumano, sul quale tengo a focalizzare l’attenzione, consiste nel comprimere, con il sovraffollamento del carcere, non solo lo spazio, della persona detenuta, ma anche il contesto temporale: si cancella il passato, scompare la speranza del futuro, e più ancora la possibilità e l’effettività delle relazioni, a cominciare da quelle sessuali, affettive e familiari. Quale altra risposta può venire, dall’individuo, se non la spinta al suicidio? Terrificante. Disumano. L’esatto contrario della nostra Costituzione. Viene cancellata l’intimità della persona… E pensiamo all’uso distorto, per certi versi ancora più incivile, che si fa del carcere come reazione unica e uguale a varie forme di diversità, inclusa l’infermità mentale. Pensiamo ancora a quanto sia ancora insufficiente la possibilità per i detenuti di lavorare, dentro e fuori dal carcere. È stata incredibilmente cancellata la possibilità di restare a dormire a casa, ai domiciliari, per i semiliberi ai quali tale beneficio era stato concesso durante il covid: finché si doveva evitare che portassero il virus in cella, e che diventasse così inevitabile uno svuota carceri, li si poteva pure lasciare a casa a dormire la notte. Una volta scongiurato il rischio di dover veramente ridurre il sovraffollamento per non trasformare le prigioni in infestatoi di massa, concedere i domiciliari ai semiliberi è diventato improvvisamente rischioso. È uno scenario desolante, gravissimo, in cui la rieducazione e dunque la sicurezza dei cittadini scivolano in realtà in una posizione del tutto residuale. Conta solo la propaganda, la faccia feroce da esibire per accontentare, almeno ci si illude di farlo, le aspettative dell’opinione pubblica più arrabbiata. Uno Stato non può ridursi a questo. Come se ne esce, presidente? Con un cambio radicale di passo, intanto, da parte delle uniche componenti in grado di guardare alla giustizia, alla legge, al processo, alla pena con un atteggiamento libero dalla ricerca del consenso facile: gli avvocati e i magistrati. Rivolgo a loro un appello: deponete le armi. Se vi lasciate irretire dall’idea che la separazione delle carriere sia la madre di tutte le battaglie, è la fine. Mandate al massacro l’unico, ultimo bene che è al centro della vostra missione: i diritti. Si ricordino le parole del Papa, la priorità che il Pontefice ha riconosciuto ai carcerati già con la scelta di aprire la porta santa a Rebibbia. Si ricordino, avvocati e magistrati, che senza una loro alleanza per i diritti, la politica continuerà a offrire, sulla giustizia, risposte estemporanee, occasionali, piccoli interventi disarticolati fra loro, privi di un disegno e di una visione organici. Sono un avvocato, mi rivolgo innanzitutto agli avvocati: la giustizia, da sempre, da quando esiste la civiltà del diritto, è nelle loro mani. Mettano da parte il conflitto con la magistratura, si convincano che la lite sulla separazione delle carriere non può comportare il sacrificio di ogni altro bene e tornino a battersi per i diritti, come in tutta la loro storia hanno sempre fatto. Veneto. Impresa etica, nelle carceri tre detenuti su dieci lavorano di Barbara Ganz e Valentina Saini Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2025 In regione gli ospiti degli istituti sono 2.600: di questi 491 lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria mentre 270 per imprese o coop. La collaborazione fra amministrazione penitenziaria, Unioncamere e Regione crea opportunità di crescita e reinserimento sociale. Non solo le imprese più grandi e strutturate: anche realtà di dimensioni minori, perfino familiari, possono trovare nella collaborazione con le carceri del territorio una opportunità di crescita, non solo in senso economico. L’assessore regionale veneto allo Sviluppo economico, Roberto Marcato, la definisce “una sfida di civiltà”. Il progetto di far incontrare il mondo dell’industria e dell’artigianato con le attività produttive portate avanti all’interno degli istituti di pena veneti è l’occasione per aumentare le opportunità lavorative dei detenuti nei nove istituti penitenziari del Veneto, complessivamente 2.600, e allo stesso tempo sostenere l’economia del territorio con i benefici garantiti dalla Legge. I risultati sono andati al di là delle nostre aspettative: il lavoro dà nuovi orizzonti di vita alle persone fornendo dignità, nel pieno rispetto delle regole e della pena. Ma riducendo molto i fenomeni di recidiva del reato”. I numeri dicono che, al 30 giugno 2024, i detenuti in Veneto erano 2.675, di cui 1.361 stranieri e 138 donne. I detenuti lavoratori negli istituti penitenziari alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria erano 491, mentre i lavoratori alle dipendenze di imprese o cooperative erano 270. Il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto, che ha sede a Padova, esercita la propria competenza su tutti gli Istituti Penitenziari del Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. In Veneto sono presenti nove istituti penitenziari: sette Case Circondariali (condanne inferiori ai 5 anni) e due Case di Reclusione (per scontare sentenze passate in giudicato con condanne superiori ai 5 anni). Provveditorato e Regione del Veneto, in collaborazione con Unioncamere del Veneto, hanno iniziato nel 2015 a mettere a sistema le occasioni di lavoro in carcere: “Nella nostra regione ci sono più di 100mila offerte di lavoro inevase - spiega il presidente di Unioncamere del Veneto Antonio Santocono - Promuovere un’economia inclusiva e sostenibile significa considerare il lavoro penitenziario come risorsa anche per le imprese”. A dieci anni dalla prima fotografia della situazione, ora la collaborazione fra istituzioni e mondo dell’economia segna un ulteriore sviluppo e vede Unioncamere Veneto in rappresentanza del Sistema Camerale regionale, al fianco dell’Amministrazione penitenziaria, in seno alla Commissione regionale per il lavoro penitenziario, con il comune intento di promuovere misure efficaci per il reinserimento lavorativo delle persone detenute. Imprese e cooperative sociali possono stipulare con le Direzioni degli istituti convenzioni per la gestione in comodato d’uso di spazi da adibire alla produzione: “Il lavoro costituisce un’importante occasione di riscatto. Riuscire ad ampliare al massimo le possibilità occupazionali all’interno degli Istituti ha una valenza sociale inestimabile poiché significa poter incidere in modo sensibile sulla riduzione della recidiva” spiega Rosella Santoro, provveditore regionale, che sottolinea come non sia solo una questione di convenienza: “La scelta delle aziende che sinora hanno portato una parte o tutta la propria produzione all’interno di un istituto non è legata solo a un eventuale vantaggio economico ma è una scelta etica di responsabilità sociale. Lavorare all’interno di un carcere richiede disponibilità a trovare un equilibrio con i fattori connaturati al sistema carcerario che, solo apparentemente, sembrerebbero penalizzare chi investe nel lavoro penitenziario; ma un’analisi più attenta porta ad apprezzare i numerosi punti di forza che il lavoro penitenziario presenta come spazi lavorativi concessi in comodato d’uso gratuito, agevolazioni e incentivi fiscali, misure per il sostegno e l’avvio di nuove attività imprenditoriali, costo competitivo delle produzioni insieme all’acquisizione di una condotta aziendale filantropica”. Veneto. Lavoro in carcere: occhiali, chitarre e gastronomia di Barbara Ganz e Valentina Saini Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2025 Nelle carceri venete si lavora in una molteplicità di settori. Dalla gastronomia e pasticceria all’assemblaggio nell’ambito di occhialeria, minuterie metalliche e plastiche, carta, componenti meccaniche ed elettriche, imballaggi; legatoria e cartotecnica artigianali; dalle cuciture e assemblaggio componenti di valigie al contact center per prenotazioni di attività sanitaria; dall’assemblaggio, verniciatura e regolazione di chitarre e bassi elettrici alle fattorie sociali. È una molteplicità di settori quella che ha trovato posto nelle carceri. “Attività di lavoro stanno nascendo in Italia un po’ ovunque: il modello Veneto resta un esempio per intensità e qualità”. Angela Venezia è direttrice dell’Ufficio III - Detenuti e trattamento del Provveditorato regionale Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. “La collaborazione con il territorio e le sue imprese è davvero significativa: in realtà come Belluno si arriva al 60-70% di detenuti che lavorano grazie alle commesse di aziende come Fedon. La motivazione di chi vive in regime di reclusione è altissima, perché il lavoro, al di là dello stipendio rende piene di senso le giornate e può dare una prospettiva per il futuro. Per le imprese, poi, sono previsti incentivi che rappresentano una compensazione dei problemi che possono esserci: un detenuto, ad esempio, può avere udienze, o sedute con lo psicologo, colloqui con i familiari e altri impegni che in alcune occasioni rappresentano altrettante assenze, di qui la volontà del legislatore di tenerne conto abbassando il costo del lavoro”. Il quadro normativo si fonda sulla legge 22 giugno 2000, n. 193, meglio nota come “legge Smuraglia”, e la legge 381/91 sulle cooperative sociali: sono previste varie misure con le quali si intende favorire l’attività lavorativa dei detenuti, con la possibilità di applicare sgravi fiscali e contributivi per quei soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono lavoratori detenuti in esecuzione di pena. I datori di lavoro destinatari dell’agevolazione contributiva e dei benefici fiscali sono cooperative sociali, aziende pubbliche e aziende private. Le formule sono diverse e includono contratti di lavoro subordinato a tempo pieno, parziale, determinato superiore a 30 giorni, indeterminato o a domicilio. Al rapporto di lavoro con la persona detenuta si applica la normativa vigente prevista per le persone libere: l’impresa garantisce il rispetto della normativa assistenziale, assicurativa e previdenziale; svolge ove occorra attività di formazione per i detenuti impiegati e versa la retribuzione loro spettante direttamente alla Direzione dell’Istituto Penitenziario. Il trattamento retributivo da riconoscersi non deve essere inferiore a quanto stabilito dai contratti collettivi di lavoro. Per le aziende che assumono persone in esecuzione penale interna sono previsti sgravi contributivi, con una agevolazione costituita da una riduzione delle aliquote contributive dovute dai datori di lavoro. E poi ci sono i benefici fiscali: alle imprese e cooperative sociali che assumono detenuti o internati presso Istituti di pena, ovvero ammessi al lavoro all’esterno, è concesso un credito mensile di imposta pari 520 euro per ogni lavoratore, da riproporzionare in base alle ore lavorate. Il credito di imposta dei 520 euro e lo sgravio fiscale del 95% spettano con differenti quote anche per i mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo. Esperienze e progetti di lavoro in carcere sono raccontati dal progetto ‘Liberiamo le produzioni’. Ne è nata una pubblicazione realizzata grazie al contributo della Regione del Veneto e Unioncamere regionale e le foto di Daniele Gobbin, che oggi, a dieci anni dalla prima edizione (2015) racconta l’evoluzione avvenuta. A Belluno, ditte del distretto dell’occhiale hanno coinvolto 38 detenuti in diverse lavorazioni: imballaggio e spedizione per occhiali in aziende o negozi in Europa, riempimento boccette con liquido detergente, etichettatura e confezionamento anche di kit pulizia composti da astuccio, boccetta, cacciavite per chiusura occhiali. A Padova è un caso di successo quello della Giotto, cooperativa sociale di tipo B che oggi offre opportunità di lavoro a oltre 500 persone, di queste circa 70 sono disabili psicofisici e quasi un centinaio i detenuti. Colombe pasquali e panettoni (ma anche pasticceria fresca e secca, brioches e gelati) prodotti sono venduti in negozi monomarca e rivendite in tutta Italia, ma ci sono altre attività: l’azienda Del Brenta occupa otto detenuti per la levigatura di tacchi per l’alta moda, Valigeria Roncato altrettanti per Cuciture di divisori interni di valigie, con assemblaggio di componenti. Nella pubblicazione regionale la pagina dedicata alla Casa circondariale di Rovigo mostra spazi vuoti, ma è solo questione di tempo: tutto è pronto per l’avvio, già da questo mese, di una attività di assemblaggio, e si guarda anche al possibile utilizzo dell’appezzamento di terreno di circa 1.800 mq che potrebbe essere adibito a coltivazione ortoflorovivaistica. A Treviso la capacità produttiva è di 10 chitarre ogni 3 settimane: i servizi sono di vendita di chitarre e bassi elettrici sia “entry level” che di livello superiore, realizzazioni custom di chitarre e bassi elettrici secondo le richieste, manutenzione di chitarre e bassi elettrici. I prodotti sono acquistabili nel negozio della cooperativa “El Magazen” a Vascon di Carbonera Padova. Formazione per le figure più richieste dal mercato Percorsi di formazione professionalizzante e di lavoro per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, anche con la speranza di trovare nuove risorse per le aziende sempre alla ricerca di manodopera e di ridurre il rischio di recidiva. È l’obiettivo del protocollo di intesa firmato da Confindustria Veneto Est e dalla Casa di reclusione di Padova, che vede coinvolte anche l’agenzia per il lavoro Umana e la società di formazione di Confindustria Veneto Est, Fòrema. Prevede anzitutto l’avvio, entro la primavera, di un primo percorso di formazione, orientamento e inserimento al lavoro presso aziende delle province di Venezia, Padova, Rovigo e Treviso. Il corso, di 80-100 ore strutturate in una parte teorica e una pratica, è incentrato su alcuni tra i profili tecnici più richiesti ma anche più difficili da trovare: saldatori, operatori macchine a controllo numerico computerizzato, operatori meccanici, magazzinieri e carrellisti. A potervi accedere saranno tra 12 e 15 detenuti ammessi ad attività di formazione e lavoro all’esterno dell’istituto o quasi giunti al termine della pena. Oltre alla formazione vera e propria, il percorso comprende anche azioni di reinserimento sociale e relazionale attraverso dei colloqui individuali tra i partecipanti al corso e le aziende coinvolte. Se interessate, queste potranno usufruire delle agevolazioni previste per l’assunzione di persone provenienti dalla detenzione, a cominciare dagli sgravi fiscali. Il direttore generale di Fòrema, Matteo Sinigaglia, sottolinea anche l’importanza della formazione del personale delle aziende coinvolte “per garantire un’accoglienza inclusiva e preparata, creando così un ambiente di lavoro che promuova la reintegrazione e la crescita per tutti”. La presidente di Confindustria Veneto Est, Paola Carron, definisce l’iniziativa “un impegno coerente con i valori del fare impresa, affinché il lavoro diventi, soprattutto per i detenuti, occasione di riscatto e di effettiva reintegrazione nella società”. E Giuseppe Venier, ad di Umana, assicura: “Abbiamo già avviato con successo iniziative simili e crediamo fermamente che, attraverso il lavoro, sia possibile trasformare un percorso di detenzione in un’opportunità di crescita”. Venezia. Abiti di alta sartoria, borse in Pvc e cosmetici In entrambi gli Istituti penitenziari di Venezia - la Casa circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore e la Casa di reclusione per Donne della Giudecca e all’esterno delle carceri - opera la Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri, che organizza laboratori artigianali e attività di servizio con i detenuti che possono usufruire di misure alternative alla detenzione, come la semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali. Una delle attività più consolidate è il riciclo di Pvc recuperato da banner pubblicitari dismessi e trasformato - con il marchio Le Malefatte - in borse e accessori venduti tramite e-commerce e nel negozio Made in Prison, nel centro storico di Venezia. Nella struttura femminile Il Cerchio coop sociale onlus impiega 12 detenute e due tutor in una attività di lavanderia industriale, con lavaggio ad acqua e a secco, per strutture ricettive del centro storico di Venezia, altri istituti penitenziari di Venezia e per commesse esterne di esercenti del territorio. Assi da stiro professionali, lavatrici e imbustatrici sono disposizione di chi lavora, dopo un periodo di formazione. Macchine da cucire elettriche lineari di varia complessità e tecnologia, taglia e cuci e una macchina confezionamento occhielli, oltre a utensili per piccola sartoria e piccoli attrezzi di uso comune sono invece il cuore del laboratorio di sartoria che confeziona abiti e accessori su proprio disegno originale o su cartamodello concordato con il committente, e anche abiti d’epoca per rievocazioni storiche, spettacoli e feste, su ordinazione con tessuti preziosi a partire da un attento lavoro di progettazione artistica. Fra i committenti Palazzo Grassi, Tribunale di Venezia, Hotel Hilton e Danieli. Sempre al femminile l’attività di cura di un orto di 6mila metri quadri in cui si producono frutta e verdura vendute in un mercatino pubblico una volta alla settimana, ai Gas e ad alcuni ristoranti quali Do Feri Storti, Caffè Concerto, Venice Venice. Dalla distillazione di alcune delle piante coltivate e seguendo preziose ricette, le detenute coadiuvate dal personale della cooperativa e da un direttore tecnico di laboratorio, realizzano cosmetici di alta qualità, mantenendo viva l’antica tradizione veneziana della cosmetica artigianale. Vicenza. La fabbrica delle polpette nella casa circondariale Dalle 7 alle 8mila polpette al giorno, destinate a gastronomie, bar, cicchetterie e ristoranti di tutta Italia. Il 31 gennaio è stato inaugurato il nuovo laboratorio di Gastronomia Marcolin nel carcere di Vicenza. Marcolin è una azienda familiare, evoluzione del negozio di alimentari aperto nel 1985 a Padova, sotto il Salone. Oggi i due figli del fondatore sono subentrati nella società che, con la collaborazione della sorella, ha raggiunto i 30 dipendenti. Cinque anni fa è stata aperta una nuova attività di cucina fuori dal centro di Padova, a Selvazzano, ma c’erano ancora spazi per crescere a fronte di una domanda in deciso aumento. “Abbiamo letto di un bando per produrre in carcere, e abbiamo scelto di partecipare. Qualche lentezza e difficoltà burocratica ci sono state, va detto, e il percorso ha richiesto un paio di anni quando sarebbe bastato qualche mese, ma oggi siamo operativi e gli aspetti positivi sono innegabili”, spiega Andrea Marcolin. L’operazione ha permesso di fare incontrare più motivazioni: quella di contribuire a un progetto di comprovato valore etico, ma anche di poter usufruire di spazi e macchinari da cucina già disponibili (erano pensati per una mensa carceraria mai entrata in funzione). Non ultima la disponibilità di personale, così difficile ormai da trovare all’esterno. Con l’équipe degli educatori sono stati selezionati alcuni detenuti, e oggi in cinque - dopo un periodo di formazione - sono al lavoro. “Cucinare le polpette non è difficile, noi diamo ricette precise, grammature degli ingredienti e ogni spiegazione - sottolinea Marcolin - Non serve dunque avere studiato da cuochi, è più importante avere buona volontà. Un altro aspetto da considerare è quello della durata, perché se la fine pena è vicina magari è più difficile ingranare”. I detenuti, tutti di origine straniera, sono guidati da Roberto Boffo, responsabile per Marcolin e ogni giorno sul posto. Dalle polpette di baccalà a quelle vegetariane, al brasato o di pollo e speck, al tonno e cipolla o a base di bresaola (la novità appena proposta), le specialità Marcolin viaggiano anche all’estero e hanno raggiunto anche Tokyo e Londra. Sicilia. Limiti a ricezione di alimentari e vestiario, detenuti protestano contro la circolare del Prap di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2025 Vietato inviare ai detenuti anche indumenti di pile, farina e lievito. “In un carcere come il Pagliarelli, in cui non c’è l’impianto di riscaldamento, proibire coperte e pile significa limitare l’unica possibilità di scaldarsi”, spiega il Garante dei diritti dei detenuti del comune di Palermo, Pino Apprendi. Antigone: “Così limitano i pochi momenti di ‘normalità’ in grado di attenuare quel senso di distacco dal mondo esterno”. Nelle carceri siciliane, sovraffollate, spesso fatiscenti e senza riscaldamento, da metà gennaio è vietato ricevere alcuni viveri (come la farina) e indumenti (come i tessuti in pile) per effetto di una normativa nazionale. Fuori dall’Ucciardone di Palermo, sabato 8 febbraio, associazioni e familiari dei detenuti hanno indetto un sit-in per chiedere che le nuove regole siano riviste. In alcuni istituti - come al Pagliarelli, sempre nel capoluogo siciliano - ci sono state proteste pacifiche, con pentole battute sulle grate, rinunce a vitto e sopravvitto (il cibo che si può acquistare dentro i penitenziari). “In un carcere come il Pagliarelli, in cui non c’è l’impianto di riscaldamento, proibire coperte e pile significa limitare l’unica possibilità di scaldarsi”, spiega a ilfattoquotidiano.it il Garante dei diritti dei detenuti del comune di Palermo, Pino Apprendi. Ma la limitazione indiretta è anche ai diritti che rendono vivibile il carcere. “Al Pagliarelli, per esempio, il 40% dei detenuti viene da fuori regione, in molti altri casi è straniero e quasi sempre è indigente, il pacco da fuori è un modo per salvaguardare i rapporti con la famiglia e risparmiare qualche soldo, vietare perfino farina e lievito vuol dire azzerare i già rari momenti di svago e socialità”. La normativa - L’ordine di servizio, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare nella forma applicata da una singola casa circondariale, ma che è o sarà esteso nella stessa forma da tutte le direzioni penitenziarie, stabilisce il divieto di acquisto e ricezione di alcuni indumenti o viveri per due ragioni: pericoli per la sicurezza o espressioni di “privilegio”. Vengono proibiti alimenti di base e non, come farina, latticini, pesce crudo, crostacei, pesce a taglio (tonno, pesce spada, salmone), biscotti. Tra i generi vietati ci sono scaldacollo, coperte, pile, cuffie per pc, prodotti per la pulizia e l’igiene personale, farmaci. “Constatiamo con estrema preoccupazione - dice l’avvocato Giorgio Bisagna, presidente di Antigone Sicilia - che aumenta l’esigenza di porre restrizioni e divieti ma si fa pochissimo per rieducare e dare una dimensione dignitosa alla detenzione, come prevede la Costituzione”. Il documento contiene poi un elenco di prodotti inammissibili in quanto “brand di valore” che possono “riferirsi a una condizione di privilegio”, tra cui diversi modelli di scarpe Adidas (come Sply 350 o Ultra boost), beni firmati Dolce & Gabbana, Dior, Ducati, Marlboro, Gucci. I provvedimenti cercano di evitare l’ingresso di indumenti difficilmente controllabili, infiammabili o pericolosi, ma anche di limitare quello che può far emergere disuguaglianze di reddito tra i reclusi portando a disordini. Il rischio però è di creare tensione in una situazione che già non è rosea. ??I casi di Catania e Palermo - Tra gennaio e febbraio Antigone ha fatto diversi sopralluoghi negli istituti per verificare le condizioni di strutture e detenuti. Due le situazioni più critiche: in piazza Lanza a Catania e al Pagliarelli di Palermo, uno dei penitenziari più grandi d’Italia, con 1.165 posti regolamentari, dove l’associazione si è recata con il garante comunale. “C’erano 1.435 detenuti e tantissime persone con problemi psichiatrici senza adeguata assistenza”, dice Bisagna. In proporzione, i numeri sono anche più complessi nella casa circondariale di piazza Lanza, che ha una capienza di 279 posti ma a gennaio ne occupava 422, con sei o sette detenuti per cella.Il carcere catanese è in buono stato, ristrutturato da poco, ma i numeri sono altissimi e, stando ai dati di Antigone, un centinaio di reclusi sono tossicodipendenti. “C’è grande preoccupazione per l’entrata in vigore della circolare da gennaio - spiega l’avvocata Roberta Guzzardi di Antigone in una nota successiva alla visita del carcere di piazza Lanza - perché riduce fortemente l’ingresso di beni di prima necessità, limitando così quei pochi momenti di ‘normalità’ in grado di attenuare quel senso di distacco dal mondo esterno, come i pranzi e le cene con i compagni di cella”. Avellino. Morte detenuto: acquisite la cartella clinica e le relazioni mediche ottopagine.it, 10 febbraio 2025 Decesso nel carcere di Bellizzi Irpino: saranno le cartelle cliniche e le relazioni mediche a stabilire perché il 36enne C.P. detenuto nella Sezione comuni del carcere Antimo Graziano è deceduto dopo aver perso i sensi all’interno della sua cella. Autopsia e cartelle cliniche che dovranno far luce sul decesso del 36enne e far comprendere se ci sono responsabilità mediche. Perché a distanza di 48 ore dal decesso del giovane napoletano, stroncato da un arresto cardiocircolatorio, l’ipotesi più probabile resta quella collegata alla patologia di cui il trentaseienne era affetto, una grave forma di diabete mellito. La Procura di Avellino avrebbe già acquisito tutto il carteggio medico e le relazioni redatte dal personale in servizio nel pomeriggio di venerdì, quando il trentaseienne ha avuto il malore fatale. Sul corpo del trentaseienne non c’erano segni di violenza. Nelle prossime ore il pm che coordina la prima fase di accertamenti, il sostituto procuratore Cecilia Annecchini, conferirà l’incarico per l’esame medico legale sulla salma del giovane. Venerdì pomeriggio C. P. ha un malore e collassa nella sua cella. Un malore fatale. Viene condotto in infermieria dove gli sarebbbero state praticate tutte le manovre necessarie per rianimarlo. Nulla da fare. Anche il personale del 118 arriva nell’istituto penitenziario di Bellizzi ma per il trentaseienne è troppo tardi. Molto probabile che già nella giornata di domani possa essere fissato il conferimento e scattare anche qualche informazione di garanzia. Cosa è successo prima delle quindici di venerdì sarà fondamentale per avere la verità sulla morte di C.P.. I familiari chiedono di sapere la verità - La famiglia di Ciro Pettirosso chiede giustizia e la verità sulla morte del giovane. il fratello Francesco sostiene che vi sia stata una presunta negligenza medica. Secondo lui C.P. avrebbe ricevuto cure inadeguate: “Hanno sbagliato la somministrazione dell’insulina, mio fratello è morto per la loro incapacità”. Padova. Sovraffollamento, una prima risposta con un nuovo reparto alla Casa di Reclusione di Giovanni Sgobba difesapopolo.it, 10 febbraio 2025 Venerdì 24 gennaio, è stato inaugurato un nuovo reparto con 50 posti letto (che possono salire a cento) utile anche per allentare la pressione del sistema penitenziario non solo locale. Dignità delle persone detenute Bagno privato, fornelli a induzione, pulsante per le chiamate d’emergenza sono alcuni accorgimenti introdotti. È stata inaugurata anche la nuova infermeria che permetterà la presa in carico diretta. Un tasso di sovraffollamento nazionale superiore al 132 per cento. Basterebbe questo numero per fotografare l’urgenza della situazione delle carceri italiane. Il dato, aggiornato al 26 gennaio 2025, è estrapolato dalla pagina www.sovraffollamentocarcerario.it, progetto del giornalista Marco Dalla Stella, esperto di dati, che analizza quotidianamente le informazioni provenienti dal ministero della Giustizia, a loro volta estrapolate dalle 190 schede di trasparenza degli istituti penitenziari, aggiornate con frequenza rispetto ai bollettini mensili. In Italia ci sono 61.921 persone detenute, a fronte di una capienza ordinaria di poco più di 51 mila posti: ma numeri alla mano, di questi, 4.474 posti non sono a oggi disponibili. Questo lo scenario che fa da sfondo all’inaugurazione, nella mattinata di venerdì 24 gennaio, di un nuovo reparto di detenzione all’interno della casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Un’ala già esistente, situata nel settimo blocco, rinnovata e rimessa in piedi, nel giro di un anno, per ospitare 50 persone detenute, con attenzioni che soddisfano gli stringenti parametri europei sulla dignità degli stessi ospiti. “Un primo passo, una prima risposta, non solo a Padova, al tema del sovraffollamento - è il commento del padovano Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato alla Giustizia, presente alla cerimonia di inaugurazione - Per qualcuno il sovraffollamento dovrebbe essere risolto con la ricetta della legge “svuota carceri”, indulti o provvedimenti di clemenza: noi riteniamo che il problema possa essere risolto in maniera seria agendo con iniziative come questa, l’inaugurazione di un reparto che dà sicurezza sia per chi qui dentro ci lavora sia per chi qui è detenuto, in assoluta condizione di dignità. La vera sfida è iniziare con un “piano carceri” che può funzionare, ovviamente non ci fermiamo con questo reparto, altri saranno inaugurati in tutto il Triveneto e in Italia”. Nonostante la giornata nuvolosa, percorrendo il nuovo corridoio e affacciandosi nelle celle si avverte una sensazione di maggiore luminosità, percezione aumentata anche dalla scelta cromatica di puntare su pareti bianche e porte e sbarre di verde pastello. Oltre a un’area ricreativa comune, ogni stanza è dotata di un letto a una piazza - che può essere sostituito con uno a castello se si volesse salire a due persone detenute - un bagno privato con doccia, una televisione, un cucinino con lavandino e fornello a induzione (il direttore del Due Palazzi, Claudio Mazzeo, ha sottolineato l’importanza di questo intervento necessario per abbandonare le ormai vecchie bombole a gas, utilizzate in alcuni casi in passato anche “per sniffare”) e un pulsante per le emergenze che garantisce il pronto intervento e soccorso del personale carcerario. Un ulteriore passo in avanti, inoltre, è la costruzione di alcune celle con spazi più ampi per le persone detenute con problemi di mobilità. “Lo definisco un bel traguardo - sottolinea Rosella Santoro, provveditore regionale del Triveneto per l’amministrazione penitenziaria - perché abbiamo ristrutturato questa sezione secondo normativa, garantendo un minimo di tre metri quadrati per persona, e adeguando gli ambienti tenendo ben presente che il nostro compito è migliorare la qualità degli spazi oltre che del tempo: è il concetto di rieducazione che favorisce un futuro reinserimento sociale”. Consultando la scheda dell’istituto penitenziario padovano (www.giustizia.it) si legge che nella casa di reclusione (in cui sono detenuti coloro che hanno riportato una condanna definitiva a una pena non inferiore ai cinque anni) i posti regolamentari sono 438, quelli effettivamente disponibili sono 375, mentre le persone detenute sono 558, per un tasso di sovraffollamento del 149 per cento, ben 17 punti percentuali superiori alla media nazionale. Discorso leggermente diverso, invece, per la casa circondariale (in cui sono detenute le persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni, o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni): qui i posti regolamentari sarebbero 188 (183 quelli disponibili), ma i detenuti sono 233 (il tasso di sovraffollamento è del 127 per cento). L’inaugurazione del nuovo reparto è stata, inoltre, l’occasione per presentare anche la nuova infermeria, il cui obiettivo è una presa in carico in loco delle persone detenute, così da non doverle trasportare per ogni necessità all’esterno: “Con l’allargamento degli spazi sanitari possiamo incrementare l’attività interna che diventa costantemente maggiore perché anche l’età delle persone recluse aumenta così come le patologie croniche - sostiene Paolo Fortuna, direttore generale dell’Ulss 6 Euganea - Curare qui significa concentrare l’attività e quindi ridurre le uscite per visite specialistiche, mentre parallelamente si lavora per perfezionare telemedicina, teleconsulti, televisite. Qui operano due medici 24 ore al giorno (uno per la casa di reclusione, l’altro in quella circondariale, ndg) più una ventina di infermieri che lavorano a turno, ma in questa struttura entrano su richiesta dei medici curanti anche altri specialisti come cardiologi, dermatologi, diabetologi. E via via andremo a implementare altri interventi in base alle necessità”. Entro marzo, poi, verrà inaugurato anche un nuovo reparto al sesto blocco, con altri 50 posti letto: si potrebbe arrivare a un potenziale di 650 persone detenute, tuttavia non è ancora chiaro se saranno messi a disposizione per nuovi ospiti o per i già presenti. Sanno tanto di commiato, invece, le parole del direttore del Due Palazzi, Claudio Mazzeo, prossimo a lasciare dopo sette anni di direzione, per tornare in Sicilia a dirigere la scuola di formazione per l’amministrazione penitenziaria: “Qui abbiamo raggiunto grandi obiettivi anche grazie alla collaborazione con gli enti del Terzo settore e, con orgoglio, possiamo dire che a Padova non solo l’università e la sanità sono eccellenze, ma anche la gestione del sistema penitenziario. L’apertura verso l’esterno, le collaborazioni con associazioni, imprese, il mondo del lavoro, le iniziative culturali, la squadra di calcio, tutto questo ha migliorato e migliora la situazione dell’istituto. Abbiamo passato momenti difficili come quello legato al Covid e alla pandemia, è stato particolarmente duro, ma l’abbiamo superato come meglio si poteva. Questo ultimo atto, l’inaugurazione di questa nuova sezione e un’infermeria all’avanguardia, mi rende orgoglioso. Sono certo che chi mi succederà saprà continuare in questo solco il percorso che abbiamo intrapreso”. Giustizia riparativa, Ostellari: “Sono necessarie verifiche” - Nel recente Decreto giustizia, di recente approvazione, come riporta La Stampa, si parla anche di fondi per la costruzione e l’ammodernamento delle carceri. L’incremento di oltre 95 milioni di euro è attinto da tre fondi: circa 73 milioni da quello per la riforma della magistratura onoraria; circa 13 milioni da quello per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti; quasi 9 milioni di euro dal fondo per la giustizia riparativa. Al sottosegretario Ostellari abbiamo chiesto se, a parer suo, questo non rappresenti una contraddizione: “È stata fatta una scelta di urgenza e priorità, con risposte serie per risolvere il tema sovraffollamento. La giustizia riparativa è un percorso impegnativo e lungo su cui continuiamo a investire, consapevoli però che dovremo fare verifiche: secondo me dovrebbe essere escluso da questo percorso chi commette reati gravi”. Il rugby in carcere: il primo torneo con persone detenute - Una giornata storica per il Cus Padova, il carcere di Padova, ma anche per il mondo del rugby. Sabato 25 gennaio, infatti, a coronamento del secondo anno del progetto “Rugby in carcere”, è andato in scena un torneo amichevole tra squadre composte da detenuti della casa circondariale e una selezione di rugbisti padovani. Per la prima volta, dopo un anno di pratica e allenamenti, gli atleti detenuti si sono confrontati con dei rugbisti agonisti, in una mattinata all’insegna di quei valori dello sport che educatori e tecnici hanno trasmesso nel corso dei vari incontri. Sono state formate quattro squadre miste di rugby a sette, composte da atleti detenuti e da una selezione di rugbisti del Cus Padova e della Polisportiva SanPrecario. Immancabile il momento più iconico di questo sport, il terzo tempo fatto di abbracci e fratellanza. Persone detenute coinvolte nella ristrutturazione - Il reinserimento passa anche e necessariamente dal lavoro. All’ammodernamento dell’infermeria e del nuovo reparto, hanno contribuito anche le stesse persone detenute. È Christine Rossi, ufficio progettazioni della Scuola edile di Padova a spiegarlo. Con il Consorzio Pedron che ha vinto l’appalto, hanno lavorato, infatti, tre persone detenute per l’infermeria: formati attraverso il Gol 4 della Regione del Veneto, dopo due mesi di tirocinio, sono stati assunti in Articolo 21 per sei mesi. Per quanto riguarda il reparto al settimo blocco, grazie a Regione e Cassa delle ammende con il progetto “Restart 2” hanno lavorato cinque persone detenute, dopo tre mesi di tirocinio. Ma non è tutto perché tre di loro, assunti per tre mesi, hanno prestato servizio anche per il nuovo reparto del sesto blocco che entro marzo il Due Palazzi inaugurerà. Preziosa la sinergia con la Scuola edile di Padova che ha formato i lavoratori con corsi sulla sicurezza, per elettricista e intonacatura e che ha coordinato il matching con l’azienda stessa. Palermo. Ucciardone, sit-in contro la vergogna delle carceri: diritti negati e vite spezzate di Francesco Panasci ilmoderatore.it, 10 febbraio 2025 Sabato 8 febbraio 2025, il Comitato “Esistono i Diritti” ha organizzato un sit-in davanti alla casa di reclusione dell’Ucciardone di Palermo per denunciare le condizioni disumane in cui vivono i detenuti. Un tema che da anni è al centro della battaglia del comitato e del suo presidente, Gaetano D’Amico, che ha ribadito l’urgenza di un intervento istituzionale per fermare la deriva del sistema carcerario italiano. L’iniziativa ha visto la partecipazione di diverse figure del mondo politico e dell’associazionismo, tra cui Gaspare Nuccio, Pino Apprendi, Giorgio Bisagna, Valentina Chinnici, Alberto Mangano, Eleonora Gazziano, Floriana D’Amico e Marco Traina. Presenti anche il garante dei detenuti della città di Palermo, Pino Apprendi, e il presidente di Antigone, Giorgio Bisagna, che hanno portato il loro contributo in difesa dei diritti fondamentali dei detenuti. I numeri parlano chiaro: nel 2024, 90 detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane, mentre centinaia di altri sono morti per cause ancora da accertare. Una strage silenziosa che riflette il fallimento di un sistema che, invece di rieducare, abbandona e isola. Durante l’ispezione all’Ucciardone, i rappresentanti del comitato hanno riscontrato gravi criticità, in particolare per quanto riguarda la gestione dei detenuti con problemi psichiatrici. “Non esiste una metodologia univoca per identificarli e trattarli” - ha spiegato Pino Apprendi, sottolineando come la direzione del carcere non sia stata in grado di fornire un numero esatto di quanti reclusi abbiano patologie mentali. Una lacuna gravissima, che si traduce in detenzioni inappropriate e in un’escalation di episodi di autolesionismo e violenza. A tutto ciò si aggiunge la vergognosa situazione della nona sezione dell’Ucciardone, destinata ai detenuti psichiatrici e in condizioni fatiscenti. Prevista per una ristrutturazione già nel 2021, ad oggi è ancora in attesa di interventi concreti. Il divieto di coperte e vestiti in pile: una misura punitiva - Tra le misure più contestate c’è la recente circolare del Provveditorato regionale, che ha vietato ai detenuti l’uso di coperte e maglie in pile, le uniche protezioni dal freddo per chi si trova in celle prive di riscaldamento. Il provvedimento, giustificato da ragioni di sicurezza, è stato definito da più parti un atto punitivo e inumano, che rende ancora più drammatiche le condizioni di detenzione. Droga e degrado: il carcere come specchio della società - Durante l’incontro con la direzione dell’Ucciardone, sono emerse altre problematiche, come il traffico di droga all’interno del carcere. La polizia penitenziaria ha descritto con dettagli inquietanti le tecniche usate dai detenuti per nascondere le sostanze stupefacenti, tra cui l’impiego della farina mescolata con le saponette per creare uno stucco con cui sigillare nascondigli nelle pareti. Il comandante dell’istituto ha usato parole dure per descrivere la realtà carceraria: “Il carcere è il luogo dove si riversa tutto ciò che la società civile rigurgita”. Un’affermazione che sottolinea la mancanza di un vero progetto di rieducazione e reinserimento per i detenuti, che una volta scontata la pena si trovano spesso senza alternative, condannati a un ciclo infinito di emarginazione e recidività. Dichiarazione di Gaetano D’Amico - “La situazione nelle carceri italiane è diventata insostenibile e non possiamo più restare in silenzio di fronte a un sistema che, invece di rieducare, abbandona e condanna alla disperazione chi si trova recluso. I dati sui suicidi in carcere sono la prova evidente di un’emergenza che non può più essere ignorata: 90 persone si sono tolte la vita nel solo 2024, mentre centinaia di decessi restano senza una spiegazione chiara. Questo non è più solo un problema di giustizia, ma di umanità.” “Il nostro sit-in davanti all’Ucciardone ha voluto accendere i riflettori su una condizione che va ben oltre la singola realtà carceraria di Palermo: in tutta Italia, i detenuti sono costretti a vivere in condizioni degradanti, senza cure adeguate e spesso senza neanche il minimo necessario per sopravvivere al freddo. La circolare del Provveditorato regionale, che vieta l’uso di coperte e maglie in pile, è l’ennesima dimostrazione di un atteggiamento punitivo che non tiene conto della realtà all’interno degli istituti penitenziari. Non si può parlare di sicurezza mentre si nega la dignità umana”. “Gravissimo è anche il problema dei detenuti psichiatrici, la cui presenza in carcere è inaccettabile e la cui gestione è priva di una metodologia chiara e uniforme. Durante il nostro incontro con la direzione dell’Ucciardone, non siamo riusciti nemmeno a ottenere un dato certo sul numero di reclusi con disturbi psichici. Questo dimostra come lo Stato continui a ignorare la questione, lasciando il problema nelle mani di un sistema penitenziario che non ha né gli strumenti né la formazione per gestirlo adeguatamente.” “Le istituzioni devono assumersi la responsabilità di intervenire con riforme concrete, che vadano oltre la logica della repressione e puntino finalmente su un vero percorso di reinserimento sociale per i detenuti. Chiediamo con forza che venga garantito il diritto alla salute, al rispetto della dignità e a condizioni di vita umane all’interno delle carceri. La privazione della libertà non deve mai tradursi in una condanna alla sofferenza o alla morte.” “In relazione allo sciopero della fame dei detenuti, come presidente del Comitato ‘Esistono i Diritti Transpartito’, voglio ribadire con fermezza che la Nonviolenza non è reato. Lottiamo per il diritto alla vita e per la vita del Diritto, in nome di Papa Francesco e Marco Pannella. Ogni atto di protesta nonviolenta che nasce dalla disperazione di chi vive dietro le sbarre deve essere ascoltato, non represso.” Un grido che non può essere ignorato - Il sit-in dell’8 febbraio all’Ucciardone è stato un momento di denuncia e di riflessione su un tema troppo spesso dimenticato. Il diritto alla dignità non può essere sospeso per chi si trova in carcere e le condizioni attuali degli istituti di pena italiani pongono interrogativi profondi sulla tenuta democratica del Paese. La battaglia del Comitato “Esistono i Diritti” continua, con la speranza che le istituzioni raccolgano l’appello e mettano finalmente mano a riforme necessarie e non più rimandabili. È importante evidenziare che la delegazione del Comitato ‘Esistono i Diritti’ che ha preso parte all’ispezione nel carcere dell’Ucciardone adotta un approccio politico trasversale. Oltre a Pino Apprendi, garante comunale per i diritti delle persone detenute della città di Palermo, e Giorgio Bisagna, presidente di Antigone, erano presenti anche Eleonora Gazziano, Alberto Mangano e Marco Traina, che in passato hanno ricoperto il ruolo di copresidenti del Comitato ‘Esistono i Diritti Transpartito’. Verona. Carcere di Montorio: “Sovraffollamento e mancanza di lavoro i problemi” veronasera.it, 10 febbraio 2025 La scorsa settimana si è svolto il sopralluogo organizzato dalla Camera Penale di Verona, al quale ha partecipato anche la consigliera comunale Patrizia Bisinella. Mercoledì 5 febbraio la Camera Penale di Verona ha organizzato un sopralluogo al carcere di Montorio per monitorare la situazione e le criticità che ormai si protraggono da qualche anno. Presente su invito anche la capogruppo della Lista Fare con Tosi a Palazzo Barbieri Patrizia Bisinella, da sempre vicina ai temi della vivibilità delle carceri italiane, in particolare di quello veronese, e supporter dei progetti di formazione e rieducazione. Miglioramenti in alcune parti della struttura, sovraffollamento e assenza di progetti di lavoro, clima sempre pesante per la Polizia penitenziaria, sono stati i temi della visita. “La nostra è stata una visita significativa e ringrazio per l’opportunità il presidente della Camera Penale di Verona, l’avvocato Paolo Mastropasqua, per l’organizzazione e il coinvolgimento - ha detto Bisinella -. Con Forza Italia e con la nostra Lista Civica ci siamo fatti più volte parte attiva per portare all’attenzione del Governo i temi caldi della struttura e a tutt’oggi stiamo lavorando in Parlamento in diretto contatto con il Viceministro Sisto. Proprio lo scorso 5 febbraio è avvenuto l’avvicendamento alla Direzione della Casa Circondariale di Montorio e siamo molto lieti del ritorno della dottoressa Maria Grazia Bregoli con la quale è sempre esistita un’ottima interlocuzione, già conoscitrice dei problemi della struttura e sempre sensibile verso le istanze dei detenuti e degli operatori e nei rapporti con le Istituzioni del territorio. Con l’occasione della visita, dopo la donazione delle piastrelle che abbiamo fatto in estate, con l’onorevole Flavio Tosi e in collaborazione con alcuni imprenditori veronesi, ho potuto verificare l’avvenuta ristrutturazione dei bagni di un piano e che è in corso la realizzazione di un secondo settore e ne sono molto contenta - ha aggiunto la consigliera comunale della lista Fare con Tosi -. D’altro canto, però, ho dovuto constatare quanto il sovraffollamento sia ancora un gravissimo problema, con circa 600 detenuti a fronte di una capienza di 300 posti letto, in sezioni con pesanti problemi igienici e strutturali e celle non idonee; possiamo ben comprendere quanto questo crei enormi tensioni e difficoltà per gli agenti di Polizia penitenziaria, come raccontano sempre più spesso le cronache, anche soprattutto per l’affollamento tra detenuti stranieri, detenuti con problemi di tossicodipendenza e soggetti psichiatrici, che dovrebbero trovarsi altrove. Il tema più preoccupante è sempre quello della mancanza di lavoro: ad oggi, su 600 persone, solo 17 hanno accesso a progetti di formazione e reinserimento lavorativo, parliamo di un numero incredibilmente esiguo: il carcere, lo ricordo, dovrebbe avere una funzione riabilitativa e la creazione di una cultura della formazione al lavoro tra le mura carcerarie, con percorsi anche fuori dal carcere, è sicuramente l’opportunità principale di recupero, che possa evitare la recidiva. Fondamentale per ridurre e smorzare tensioni e risse. Su questo aspetto, con il cambio di Direzione, spero ora si possa tornare a insistere e a progettare, creare percorsi di apprendimento e garantire lavoro e sostentamento è l’unico modo per fare sì che gli anni trascorsi nello scontare la propria pena non siano vani, ma volti davvero al pieno e sicuro reinserimento nella società”, ha concluso Bisinella. Siena. Una delegazione di Forza Italia in visita nel carcere Santo Spirito di Marco Decandia corrieredisiena.it, 10 febbraio 2025 Il cardinale Lojudice nel frattempo annuncia il Giubileo dei detenuti per dicembre 2025. Una delegazione di Forza Italia si è recata in visita all’interno della Casa circondariale di Santo Spirito a Siena. Erano presenti il coordinatore provinciale Alessandro Pallassini, la responsabile giustizia del coordinamento provinciale Lucia Marraudino e il capogruppo in Consiglio provinciale Paolo Salvini. C’è stato un confronto con il nuovo direttore Graziano Puija, (“persona di grande esperienza”, come è stato definito dagli esponenti azzurri) sullo stato dei luoghi, sul numero di detenuti e sull’organico della polizia penitenziaria. “Si è trattato - è il commento a fine incontro - di un proficuo dialogo nel quale è stata evidenziata la centralità della persona e la necessità di un rapporto collaborativo e costruttivo tra istituzioni rimarcando, come Forza Italia della provincia di Siena, la completa disponibilità ad un costante confronto e supporto su un tema così sensibile come quello relativo al sistema carcerario”. Il tema è caro anche al cardinale Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena, Colle Val d’Elsa, Montalcino e vescovo di Montepulciano, Chiusi, Pienza. “Papa Francesco - racconta - ha voluto aprire una porta santa all’interno di un carcere indicando a tutti la strada da percorrere per trasformare i luoghi di detenzione in laboratori dove coltivare la speranza. Per questo abbiamo deciso di iniziare un percorso che ci porterà a vivere a dicembre il Giubileo dei detenuti. Verrà istituito un comitato organizzatore che dovrà definire contenuti e modalità per lo svolgimento dell’evento”. Roma. Accoglienza, coffee break e catering affidati a detenuti in fase di formazione di Redazione “Visto da dentro” Il Tempo, 10 febbraio 2025 Accordo siglato dal Garante dei diritti delle persone recluse del Lazio e l’Istituto professionale alberghiero “Amerigo Vespucci”. Formazione e reinserimento delle persone recluse trovano una concreta applicazione con l’accordo siglato tra la struttura amministrativa di supporto al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e l’Istituto professionale per i servizi dell’enogastronomia e dell’ospitalità alberghiera “Amerigo Vespucci” di Roma. Sottoscritto un protocollo d’intesa incentrato sull’organizzazione di eventi istituzionali, come servizi di accoglienza, coffee break e catering, gestiti da studenti e studentesse detenuti in fase di formazione. Il protocollo ha una durata di due anni e prevede un contributo da parte della Struttura di supporto al Garante di 20mila euro per il rimborso delle spese sostenute dal “Vespucci”, in occasione degli eventi istituzionali del Garante. “Questo accordo rappresenta un esempio importante di cooperazione tra istituzioni pubbliche e formative, per il reinserimento lavorativo delle persone detenute. La collaborazione con l’istituto alberghiero Vespucci, al quale, con i finanziamenti regionali sono state messe a disposizione le cucine del carcere femminile di Rebibbia, ne esce ulteriormente rafforzata”, ha commentato il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. L’Istituto “Amerigo Vespucci” è attivo con due percorsi formativi nel Polo penitenziario di Rebibbia, uno nella Casa di reclusione e uno nella Casa circondariale femminile. Gli studenti, dopo aver completato il percorso di studi, possono ottenere il diploma e acquisire competenze pratiche direttamente applicabili nel mondo del lavoro. “L’opportunità che offriamo - spiega Alessandro Reale, docente del “Vespucci” e referente dell’istituto per il Polo di Rebibbia - è quella di conciliare il recupero scolastico con l’acquisizione di competenze per un reinserimento socio- lavorativo. In base alle esperienze formali, non formali e informali precedentemente acquisite è data la possibilità agli studenti nel percorso dell’istruzione degli adulti, di riprendere gli studi, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale”. “Attualmente - ha proseguito Reale - abbiamo due classi al femminile e due nella reclusione maschile, frequentati da una cinquantina di persone detenute. Proprio quest’anno ci sono due quinte classi, una al femminile, una alla reclusione maschile, che dovrebbero diplomarsi”. Grazie alla collaborazione con il Garante, gli studenti detenuti parteciperanno attivamente alla realizzazione di eventi istituzionali, contribuendo con la preparazione dei piatti, mentre gli studenti non detenuti dell’istituto si occuperanno di accoglienza e sala. Un modello di reinserimento che va oltre la didattica tradizionale, poiché offre concrete possibilità di formazione e di esperienza sul campo, supportando il percorso di recupero e reintegrazione sociale. Forlì. La vita nell’Istituto penale minorile raccontata da don Domenico Cambareri forlitoday.it, 10 febbraio 2025 Sabato scorso l’istituto tecnico Saffi-Alberti di Forlì ha ospitato un incontro nell’ambito delle ore di educazione civica con don Domenico Cambareri e i ragazzi delle classi quarte e quinte per raccontare l’Istituto per i Minori “Pietro Siciliani” di Bologna. Don Domenico è cappellano dell’Istituto penale minorile di Bologna ed è autore di un toccante libro dal titolo “Ti sogno fuori” dove, attraverso lettere scritte ad un ragazzo detenuto, cerca di trasmettere la sua passione per i giovani che vivono il dramma dell’errore e spesso del giudizio e dell’abbandono: “Non sono qui per spaventare, la paura non educa, ma per educare all’amore che solo può salvare” così ha iniziato il sacerdote il suo intervento. In Italia oggi ci sono 17 Ipm con 600 ragazzi dai 14 ai 25 anni. Questi istituti sono stati creati per essere un laboratorio di costruzione e di integrazione e soprattutto di educazione al valore dell’uomo e al rispetto della vita. Oggi purtroppo “le carceri” sembrano invece essere diventate, in parte, solo dei luoghi aventi carattere punitivo e sembrano avere quindi perso il loro ruolo pedagogico e soprattutto rieducativo. Don Domenico sogna “di rivedere un giorno tutti i suoi ragazzi fuori, in un contesto di accoglienza ma anche di lavoro e di fatica per il bene della società”. In fondo non è questo che già Beccaria nel 1764 scriveva nel suo capolavoro “Dei delitti e delle Pene” biasimando lo stato deplorevole della giustizia penale. La dirigente scolastica, Vincenza Muratore, quindi ha concluso affermando che solo una sana educazione può salvare tutti: “Ti sogno fuori, a scuola”. Potenza. “In-Out. Libertà Aumentata”, detenuti e nuove tecnologie pressenza.com, 10 febbraio 2025 Cosa accade quando la sperimentazione e il teatro si incontrano nel contesto carcerario? Venerdì 14 febbraio, presso Casa BCC Basilicata - Banca di Credito Cooperativo - a Potenza (dalle 9:30 alle 13:30), si terrà l’incontro di presentazione dei risultati del progetto “In-Out. Libertà Aumentata”, rassegna di teatro-danza dedicata ai detenuti e all’uso delle nuove tecnologie, a cura di Compagnia Teatrale Petra che fonde due progettualità: IN&OUT, finanziato dal Bando TOCC - Transizione Digitale Organismi Culturali e Creativi dei Ministeri della Cultura e dello Sviluppo Economico e Teatro oltre i Limiti, finanziato da 8×1000 dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdese, con il contributo del Fondo Etico BCC Basilicata e del Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo. L’iniziativa è stata realizzata dalla Compagnia Teatrale Petra in collaborazione con la Casa Circondariale di Potenza, in sinergia con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia e la Basilicata. Dalla Casa Circondariale di Potenza - dove da un decennio la Compagnia Teatrale porta il proprio linguaggio artistico - l’offerta si è ampliata ad altri istituti di pena di Puglia e Basilicata, sperimentando l’utilizzo dei media, della realtà aumentata e dei virtual tour per superare il “limite” della condizione detentiva favorendone una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura, con l’obiettivo di sviluppare progetti culturali, di educazione e formazione. Un’occasione di cambiamento, un modo nuovo di relazionarsi per i detenuti-attori in un luogo capace di includere, promuovere e valorizzare le differenze. “Siamo molto felici di presentare i risultati di In-Out - Libertà Aumentata, progetto nato dall’evoluzione di un dialogo lungo 12 anni con il sistema carcerario - dichiara Antonella Iallorenzi, direttrice artistica di Petra - in particolare con le Case Circondariali di Potenza e Matera, e recentemente estesa anche alla Puglia. Grazie al bando TOCC del Ministero della Cultura, la compagnia ha integrato il tema della transizione digitale nelle carceri, portando contenuti multimediali e visori per ampliare le possibilità di fruizione artistica per i detenuti. Il 14 febbraio, sarà possibile scoprire i risultati di questo progetto innovativo che unisce carcere, arte digitale e comunità, sia in presenza che online. In-Out - Libertà Aumentata segna l’inizio di un percorso che mira a rendere il digitale una parte integrante della vita culturale degli istituti penitenziari, offrendo nuove prospettive artistiche a chi vive in regime di restrizione”. L’evento vuole essere dunque un’importante occasione per condividere gli esiti del percorso laboratoriale dopo mesi intensi di lavoro, un modo per analizzare collettivamente il modello sperimentale applicato e la risposta fattiva dei partecipanti. “Il teatro in carcere è apprendimento e coinvolgimento non solo di docenti, educatori, ma anche di tutto il personale. La relazione che si viene ad instaurare tra il regista e le persone in regime di detenzione è significativa sul piano della fiducia reciproca, del legame che si crea in un percorso condiviso - ha dichiarato il Direttore dott. Paolo Pastena - altrettanto importante è instaurare un rapporto di fiducia con la nostra amministrazione. Il teatro non è solo attività di svago, ma svolge un importante valore terapeutico, agisce nel profondo e implica un percorso di consapevolezza che è individuale e collettivo allo stesso tempo. In questo senso deve essere considerato un valore l’esperienza teatrale”. A moderare l’incontro del 14 febbraio sarà Ornella Rosato di Theatron 2.0 e interverranno numerosi partner del progetto ed esperti del settore. Il confronto sarà poi arricchito dalla presentazione del libro ‘Altrimenti il carcere resta carcere. Teatro Oltre i Limiti Compagnia teatrale Petra’, edito Bulzoni, alla presenza degli autori Ornella Rosato e Alessandro Toppi e di alcuni degli autori dei contributi presenti nel testo. Il volume nasce dalla volontà di testimoniare il progetto Teatro Oltre i Limiti, l’attività laboratoriale di teatro danza svolta dalla Compagnia Teatrale Petra presso la Casa Circondariale A. Santoro di Potenza, che i due autori hanno osservato nel corso di un processo di monitoraggio durato due anni. Obiettivo della ricerca è offrire una panoramica sul sistema detentivo italiano e una riflessione sull’utilizzo dei linguaggi e delle pratiche performative quali attività trattamentali. Padova. “Maschere e volti dietro le barre”. Mostra al Museo Internazionale della Maschera provincia.padova.it, 10 febbraio 2025 Sabato 15 febbraio 2025 alle ore 11:30 al Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori” si inaugura con il patrocinio della Provincia di Padova e del Comune di Abano Terme, la mostra “Maschere e volti dietro le sbarre” a cura di Paola Pizzi, Sarah Sartori e Walter Valeri, in collaborazione con Balamòs Teatro APS. La mostra è composta da maschere realizzate dai detenuti del carcere maschile di Padova alla fine degli anni 80 e documenti realizzati nel corso degli anni successivi: servizi fotografici, video, locandine del progetto teatrale Passi Sospesi. A partire dagli anni Ottanta il teatro in carcere ha assunto significati importanti, metodologie sperimentali e obiettivi che si sono consolidati nel tempo, esprimendo delle vere e proprie eccellenze in Veneto. Col passare degli anni il Teatro in carcere ha posto sempre di più l’accento sull’esperienza, sulla pratica teatrale, sull’attività diretta e laboratoriale dei detenuti, sulla funzione terapeutica e pedagogica del palcoscenico, piuttosto che sul mero spettacolo di intrattenimento. Il Centro Maschere e Strutture Gestuali di Abano Terme, fondato e diretto da Donato Sartori, è stato il primo in Italia e in Europa a realizzare un laboratorio teorico-pratico di maschere create dai detenuti, alla fine degli anni ‘80. I filmati, i gesti, le maschere, lo spettacolo a cui hanno dato vita i detenuti in quell’esperienza pilota di Padova e, negli anni successivi a Venezia, sono i protagonisti indiscussi e sorprendenti di questa mostra. La mostra gratuita, patrocinata dalla Provincia di Padova, è aperta fino a domenica 6 aprile 2025, presso il Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”ad Abano Terme. Nel corso della mostra è previsto un fitto calendario di incontri, testimonianze, dibattiti e filmati. Per informazioni: Balamòs Teatro: https://balamosteatro.org/. Museo Internazionale della Maschera Amleto e Donato Sartori: info@sartorimaskmuseum.it. 049 8601642. Foggia. Incontro con Lucia Annibali, dalla violenza subita all’impegno sociale statoquotidiano.it, 10 febbraio 2025 Sarà Lucia Annibali, con la sua storia vera di riscatto contro la violenza sulle donne, a tenere a battesimo la mini-rassegna Rinascere insieme nell’ambito di Fuori gli Autori, la kermesse letteraria organizzata dalla Biblioteca “la Magna Capitana” di Foggia e dalla Libreria Ubik. Giovedì 13 febbraio 2025, alle ore 18.00, nella Sala del Tribunale di Palazzo Dogana, storica sede della Provincia di Foggia in piazza XX Settembre, si terrà infatti la presentazione del libro Il futuro mi aspetta, fresco di stampa per Feltrinelli, nella collana Up. A portare i saluti istituzionali interverranno Assunta Di Matteo, Consigliera di parità della Provincia di Foggia; Franca Dente, Presidente dell’Associazione Impegno Donna e Mario Cagiano, delegato alle politiche di genere e parità del Comune di Foggia. Intervisterà Lucia Annibali la psicoterapeuta, volontaria anche di Impegno Donna, Daniela Cataudella. Non soltanto un memoir, ma anche uno strumento di sensibilizzazione e di riflessione, questo libro, scritto insieme a Daniela Palumbo, giornalista e scrittrice per ragazzi. In poco più di 150 pagine, con una voce sempre sincera e aperta alla vita, Lucia Annibali ripercorre l’aggressione subita la sera del 16 aprile 2013, quando due sicari assoldati dall’ex compagno, Luca Varani, le gettarono l’acido sul volto. Il racconto non si limita alla cronaca dei fatti e alla vicenda giudiziaria, ma testimonia un percorso di rinascita individuale e collettiva, che parte dalla consapevolezza senza mai rinunciare alla dimensione della speranza: “Vi racconto la mia storia perché non appartenga solo a me. Non ci siamo solo io e i miei aguzzini dentro quella sera. Quello che state per attraversare contiene un Noi che nasce dal desiderio di opporsi, insieme, alla brutalità. Non c’è modo migliore di immaginare il futuro”, scrive nell’introduzione del libro. Capace di trasformare il dolore privato in una possibilità di cambiamento da coltivare insieme, Lucia Annibali, che al momento dell’aggressione esercitava la professione di avvocato, ha scelto la strada dell’impegno e dell’attivismo. Nel 2014, a poco meno di un anno dall’aggressione, l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al merito. Nello stesso anno ha pubblicato, con Giusi Fasano, Io ci sono (Rizzoli), da cui è stato tratto un film andato in onda su Rai 1. Da allora non si è mai fermata: è stata deputata della XVII legislatura. Attualmente è Difensora Civica della Regione Toscana. Da dieci anni è impegnata in progetti nelle scuole e nelle carceri per portare la sua testimonianza. La rassegna Rinascere insieme proseguirà il 28 febbraio con Violetta Bellocchio, autrice del libro Electra, Il Saggiatore 2024. In programma il 4 marzo, invece, la presentazione del terzo libro, il saggio dal titolo Non tutto è come appare. Contro la cultura della manipolazione di Simona Ruffino, Apogeo, in uscita nei prossimi giorni. Fuori gli Autori è organizzata anche in collaborazione con l’Associazione Presidi del Libro e con il Presidio del Libro di Foggia RivoltaPagina, che ha inserito la mini-rassegna “Rinascere insieme” nel progetto tematico annuale. Ingresso libero fino ad esaurimento posti. Carcere ai ribell3: il carcere come strumento di repressione del dissenso di Daniela Bezzi pressenza.com, 10 febbraio 2025 È uscito recentemente per l’Associazione Editoriale Multimage un libro che più necessario e attuale non sapremmo immaginare. Si intitola Carcere ai ribell3 ed è stato curato da Nicoletta Salvi Ouazzene in rappresentanza delle Mamme in piazza per la libertà del dissenso di Torino. Un libro che ho letto con un misto di emozione, smarrimento, ammirazione. Emozione perché parecchie delle storie documentate in queste pagine le ho raccontate un po’ anch’io, e proprio per questa testata, in alternanza con il collega Fabrizio Maffioletti. Smarrimento perché si fa fatica a credere che simili vicende di repressione del dissenso possano essere successe qui, a casa nostra, nella nostra ‘democratica’ Italia, nel cuore dell’Europa. Ammirazione per la forza, la capacità di reazione e resilienza, la mirabile propensione a stemperare le proprie singolari sventure in un ‘noi’ che per un attimo diventa messa in pratica di ‘nuova società’, così autenticamente partecipata e solidale che persino quelle alte mura carcerarie diventano almeno per brevi sprazzi permeabili al ‘fuori’, a qualche azione concreta nella giusta direzione, dimostrativa di una qualche possibilità di miglioramento. E insomma sì: tanta roba ci arriva dalle storie così efficacemente ricostruite da Nicoletta Salvi in queste pagine. Proviamo dunque a passarle in rassegna queste storie. Storia di Dana (Lauriola) che un certo giorno, 17 settembre 2020, alla fine di un’estate già parecchio ‘calda’ in Val Susa, viene prelevata dalla casa in cui abita a Bussoleno per essere tradotta alla Casa Circondariale Lorusso Cotugno di Torino comunemente nota come Vallette. A nulla sono valsi i tentativi dei suoi Avvocati di vedere applicate misure meno restrittive: Dana è incensurata, è una giovane donna impegnata nel sociale, con un rapporto di lavoro stabile all’interno di una cooperativa, niente da fare. Due anni di carcere è la pena che la Procura di Torino si è sentita in dovere di prescrivere per il reato commesso in data 14 marzo 2012 nell’ambito di una manifestazione che il movimento NoTav aveva inscenato al casello di Avigliana, in bassa Val Susa. Un’azione che con lo slogan ‘Oggi Paga Monti’ si limitò a tenere aperti i tornelli per una quindicina di minuti, mentre Dana spiegava al microfono le ragioni della protesta e qualcuno dietro di lei (tra cui Nicoletta Dosio) sorreggeva uno striscione. Particolare non da poco: solo qualche mese prima, 27 giugno 2011, le ruspe avevano sgomberato con violenza la ‘Libera Repubblica della Maddalena’, presidio che per settimane aveva cercato di opporsi all’apertura del cantiere di Chiomonte; e solo pochi giorni prima, 27 febbraio, l’attivista Luca Abbà era precipitato da un traliccio della luce, nel tentativo di dare visibilità allo scempio che si sarebbe mangiato la Val Clarea… e i giorni immediatamente successivi erano stati un susseguirsi di scontri, lacrimogeni e violenze, con le FFOO all’inseguimento degli attivisti fin dentro i bar, mentre Abbà era tra la vita e la morte. Una situazione insomma di comprensibile rabbia e ansietà collettiva, che era sfociata in quell’azione ai caselli di Avigliana, durata in tutto una manciata di minuti, con un mancato incasso di € 777 che il Movimento NoTav aveva poi rimborsato in sede processuale. Ma niente da fare: due anni di carcere a Dana Lauriola per aver reiterato dentro un microfono le ragioni del No al TAV a nome di un’intera valle. “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” starebbe scritto nell’Art 21 della Costituzione a tutela del Diritto al Dissenso. Così non è. In difesa di Dana si attiveranno a un certo punto anche le donne della Biblioteca UDI di Palermo, in particolare Ketty Giannilivigni e Daniela Dioguardi che oltre a dare vita a dei presidi ‘a distanza’ che da Palermo fino a Torino aggiungeranno anche le loro grida a quelle delle Mamme in Piazza, non perderanno occasione di scrivere lettere, raccogliere firme, indirizzare appelli, a Liliana Segre, a Sergio Mattarella, sulle colonne de Il Manifesto. “Quando finalmente ho avuto modo di soffermarmi sul caso della Lauriola non riuscivo a credere che le avessero dato due anni solo per aver speakerato al megafono!” ebbe a dichiarare poi la Dioguardi, ex parlamentare (tra il 2006 e il 2008) nelle fila di RC. “E quanti ergastoli avrei dovuto avere io, tutt3 noi, per le manifestazioni che ci siamo fatte in anni di impegno politico!” Dana uscirà dalle Vallette il 16 marzo 2021, solo per proseguire la sua detenzione ai domiciliari, situazione non meno (e per molti versi più) penosa del carcere, perché non sei libera comunque, e sei da sola. “A Dana è permesso uscire solo per recarsi al lavoro” leggiamo infatti nel libro. “Chiami i carabinieri, li avvisi che stai uscendo di casa, poi li chiami per avvisarli che sei arrivata a destinazione e al rientro stesso teatrino. Sabato e domenica due ore d’aria (…) In casa non può ricevere nessuno, previo permesso del magistrato di sorveglianza…” Una non vita che durerà fino ai primi di maggio 2022, quando verrà dichiarata ‘rieducata’ e rimessa in libertà. Ci siamo particolarmente soffermati sul caso di Dana perché tra tutti i casi che Nicoletta Salvi ricostruisce con mirabile puntualità e frequente, utilissimo, ricorso al QRCode, è quello che riuscì a catalizzare un certo seguito, nonostante la pandemia. Ma non meno meritevoli di attenzione sono le ‘storie di carcerè delle pagine successive. La storia di Fabiola Di Costanzo, implicata nello stesso caso di blocco stradale dei tornelli di Avigliana. E le storie di Stella, Francesco, Mattia, Stefano, Emilio, e tanti altri attivisti NoTav che si trovarono a condividere pesanti restrizioni nello stesso periodo di Dana: sospensione dei colloqui, scioperi della fame, difficoltà di far fronte a situazioni già molto penalizzanti in condizioni di “normale amministrazione” figurarsi in tempi di emergenza e pandemia! E poi passa anche la pandemia e solo pochi giorni dopo la riconquistata libertà di Dana, ecco il 12 maggio l’azione in grande stile della Digos che colpisce tre studenti universitari, anche loro giovanissimi, incensurati, rei di aver partecipato qualche mese prima alle sacrosante proteste di piazza per la morte di Lorenzo Parrelli, martire di quell’indecenza che si chiama “alternanza scuola-lavoro”. Si era ancora in regime di restrizioni, la polizia risponde con pesanti cariche ad ogni tentativo di corteo e a fine giornata il bilancio è: 40 feriti, parecchie teste rotte, molti al Pronto Soccorso, una violenza inaudita contro ragazzi inermi. Il 14 febbraio la stessa “alternanza scuola-lavoro” registra una nuova vittima, Giuseppe Lenoci. Di nuovo gli studenti cercano di inscenare manifestazioni di protesta, con scontri dinnanzi alla sede della Confindustria - e dai primi di maggio 2022 ha inizio l’allucinante calvario giudiziario per i “capri espiatori” Emiliano e Jacopo (22 anni) e Francesco (20 anni) oltre alla compagna Sara, con i legali che cercano invano di ridimensionare le penalità a loro carico. Passano i mesi, si arriva al 13 novembre 2023 con una sentenza che punisce il summenzionato gruppetto più altri a condanne variabili tra i cinque e nove mei di reclusione, però con la condizionale e la facoltà di ‘non menzione nel casellario giudiziario”. “La mitezza delle condanne conferma che le pesanti restrizioni della libertà personale, comminate come misure cautelari erano state “incongrue e sproporzionate” fa notare Nicoletta Salvi a pag. 56 del libro. E insomma tante ansietà, dolore, difficoltà, per i ragazzi e per le loro famiglie, tanto tempo che avrebbe potuto essere dedicato allo studio, a qualcosa di costruttivo, tante risorse buttate, per esempio per i braccialetti elettronici… per nulla. Questa l’amara conclusione di Emiliano, Francesco e Jacopo nelle testimonianze che concludono il loro capitolo. Ed eccoci alla storia di Francesca Lucchetto. Personalità estroversa, solare, concreta, Cecca (come tutti la chiamano) fa parte del Centro Sociale Askatasuna ed è impegnata nel movimento NoTav, per la libertà in Kurdistan, per la fine dell’occupazione in Palestina, per i senza casa che crescono a vista d’occhio a Torino. Finirà dietro le sbarre il 7 febbraio 2023 e vi resterà fino al 17 settembre dello stesso anno, proseguendo poi la detenzione ai domiciliari fino al 1 dicembre 2023. Il reato? Di nuovo un nonnulla: aver tentato (e solo tentato, perché la polizia partì subito alla carica con gran dispiego di violenza e manganelli) di appendere uno striscione davanti al Tribunale di Torino, per esprimere solidarietà alla 1ma udienza (nel lontano 2013) a carico della compagna Marta, che non solo era stata malmenata e molestata sessualmente durante una manifestazione al Cantiere Tav di Chiomonte, ma si era beccata appunto una denuncia. Una semplice, pacifica, inoffensiva manifestazione di dissenso, che ci aspetteremmo di veder tutelata da uno ‘stato di diritto’. E dieci anni dopo quei lontani fatti, febbraio 2023, la procura di Torino decide di punire con il carcere anche Cecca. Una reclusione che lei affronta fin da subito con gran determinazione e concretezza, facendosi portavoce delle istanze, bisogni, desideri delle altre recluse, con cui entra subito in sintonia, instaurando un ponte tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, con il puntuale, affettuoso, immancabile sostegno delle Mamme. Che ogni giovedì hanno ricominciato ad essere lì, presenti, sotto le mura delle Vallette: con il banchetto, il megafono per gli interventi, la musica a palla trasmessa dagli altoparlanti, come ai tempi di Dana e di nuovo per un’intera comunità di detenute, un terzo delle quali soffre di disturbi psichiatrici, “curati” a suon di psicofarmaci. La detenzione di Cecca sarà infatti scandita da una serie di suicidi: il 28 giugno si impicca Graziana, che aveva quasi finito di scontare la sua pena: “la prospettiva di tornare in libertà ha scatenato in lei un malessere che pure erano stati notati, segnalati…” ma senza alcun concreto intervento; solo pochi giorni dopo, 12 luglio, toccherà ad Angelo, 44 anni anche lui impiccato; il 9 agosto muore la nigeriana Susan George, che era in sciopero della fame dal 22 luglio, a quanto pare nessuno sapeva di lei; il giorno dopo si impicca Azzurra, ventotto anni, con già alle spalle un tentativo di suicidio presso il carcere di Genova. “È la cronaca di un inferno” scrive Nicoletta Salvi a pag 79 del libro. “Un inferno cui si assiste impotenti ma non silenti. Raccogliamo la voce delle donne detenute, la diffondiamo, contrastiamo gli articoli pietistici e giudicanti con articoli scritti da noi, che raccontano la realtà per come Cecca e le altre donne ce la fanno conoscere…” E nel suo piccolo anche questa testata farà la sua parte, inaugurando una rubrica fissa per questi preziosi contributi di controinformazione che ci arrivano dalle Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso di Torino, che il libro non manca di riproporre a mo’ di appendice conclusiva. Un libro dunque che ripercorre anche la loro storia, da quando nel 2015 si trovarono a condividere le udienze in tribunale per vicende (in tutto simili a quelle ricostruite in queste pagine) che vedevano protagonisti i loro figli “e ci venne spontaneo concludere che erano proprio figli nostri, che le mostruosità di cui erano accusati erano in fondo l’espressione di un forte impegno sociale che avevamo trasmesso noi stesse, per cui dovevamo fare qualcosa”. Un libro che le racconta nel loro mirabile lavoro di rete, di continua tessitura di relazioni, ciascuna con una propria distinta personalità, ma all’occorrenza tutte compatte e unite, in straordinaria sintonia di gesti, suddivisione dei compiti, reciproca valorizzazione, capacità di comunicazione. Arricchiscono questa pubblicazione la bella prefazione di Debora Del Pistoia, ricercatrice per Amnesty International, e le autorevoli conclusioni dell’Avv. Claudio Novaro, che di tutte le vicende giudiziarie passate in rassegna è stato il difensore. Ed entrambi i contributi ci invitano a tenere alta l’attenzione, a non arrenderci, anzi a moltiplicare le iniziative di risposta, da parte di noi cosiddetta ‘società civilè, che non può accontentarsi di restare alla finestra. Perché tra DDL Sicurezza e quella mostruosità di processo definito ‘del sovrano’, che sta per concludersi al Tribunale di Torino, il peggio deve ancora venire. Per saperne di più e/o organizzare presentazioni del libro: https://www.facebook.com/mammeinpiazza oppure contattando Multimage. Un migrante vale un diplomatico: gli stranieri e la sanità negata di Paolo Russo La Stampa, 10 febbraio 2025 Con l’aumento a 2mila euro dell’iscrizione volontaria al Ssn vengono colpiti 50 mila stranieri regolari ma senza un lavoro. Tra loro malati e disabili. Gli esperti: “È un paradosso e una legge incostituzionale”. Sono immigrati con regolare permesso di soggiorno, ma senza reddito o con entrate ridotte ai minimi termini. E spesso hanno seri problemi di salute, tanto da percepire una piccola pensione di invalidità. Lo Stato fornisce le cure, medico di famiglia compreso, anche alle persone senza permesso. Ma loro, paradossalmente, si trovano in un limbo, quello dei migranti regolari, ma poveri: il Governo Meloni, con la Finanziaria 2024, ha presentato loro un conto da 2 mila euro l’anno per iscriversi al Servizio sanitario nazionale, da versare tutti insieme. Solo l’anno prima ne bastavano 357. Un salasso che la maggior parte di queste persone non è in grado di pagare. E così in circa 50 mila, 3.811 solo in Piemonte, certifica il Gris, Gruppo regionale salute immigrati, sono diventati invisibili alla nostra sanità pubblica. Garantita invece a tutti gli stranieri in Italia che, con regolare lavoro, versando le tasse pagano la sanità. “Il paradosso - spiega Federica Tarenghi, medico della Simm, la Società italiana medicina dell’immigrazione e del GrIS-Piemonte - è che se sei irregolare puoi richiedere alla Asl il codice STP, quello di straniero temporaneamente presente che dà diritto ad accedere all’assistenza pubblica, mentre se hai regolare permesso di soggiorno devi pagare una somma irraggiungibile per molti. Così tanti immigrati regolari ma poveri si trovano nella assurda condizione di dover scegliere tra i diritti civili garantiti ai regolari e diritto alla salute”. In molti così hanno abdicato la sanità, come documenta il calo del 65% delle iscrizioni volontarie all’Ssn dopo il maxi-aumento. Approvato il quale il Governo si era affrettato a precisare che la quota di iscrizione non veniva aggiornata da un ventennio e che comunque il pagamento era richiesto a chi se lo poteva permettere. A leggere infatti il testo del comma 240 dell’articolo 1 della manovra 2024, si vede che il contributo è dovuto dal personale religioso temporaneamente in Italia, da diplomatici, dipendenti stranieri di organizzazioni internazionali, stranieri che partecipano a programmi di volontariato. Oltre che da studenti stranieri, over 65 arrivati in Italia dopo il 5 novembre 2008 per ricongiungersi ai loro cari e “dai titolari di permesso di soggiorno per residenza elettiva che non svolgono attività elettiva”. Va da sé che, tra studenti e pensionati, ci siano anche stranieri che versano in condizioni economiche di difficoltà. Ma il grosso degli “invisibili” della nostra sanità si annida in quella voce: gli stranieri con “residenza elettiva”. Ricconi tipo Sting che si sono potuti comprare la villa in Italia per risiedervi qualche mese l’anno e che vogliono garantirsi le cure del nostro Ssn, non poi così bistrattato all’estero. “Peccato però che quella voce raccolga anche tanti immigrati extracomunitari, per i quali la residenza elettiva, a volte una casa comunale, è servita come espediente per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno per altri due anni” spiega l’avvocato Vincenzo Papotti dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi), che assiste molti di questi fantasmi della nostra sanità: “L’assurdo - aggiunge- è che mi trovo costretto a dire: “Guarda che se paghi poi non possiamo fare ricorso contro una norma che è a mio avviso palesemente discriminante e anticostituzionale”“. “Ad essere stati così ingiustamente estromessi dall’assistenza sanitaria pubblica - aggiunge la dottoressa Tarenghi - sono ad esempio tanti africani che non hanno più un lavoro che gli consenta di ottenere il permesso di soggiorno e ai quali si assegna così una residenza elettiva. La scorsa settimana è venuto da noi un ragazzo con problemi psichiatrici che i duemila euro da versare non sapeva proprio dove trovarli, così ora si paga farmaci e visite specialistiche. Spende di più ma almeno non tutto in una volta” racconta sempre Federica Tarenghi, che ci mostra la lettera inviata a governo e regioni con la quale il GrIS avanza una serie di proposte, tra cui la rateizzazione del pagamento e una deroga all’intero pagamento per le persone in carico ai servizi sociali. Anche perché le storie raccolte dai suoi medici volontari reclamano giustizia. Come quella della signora marocchina, prima trapiantata di rene alle Molinette di Torino e poi lasciata senza cure. O quella della donna dominicana rimasta senza terapia anti-Hiv. O ancora il caso del ragazzo albanese costretto in carrozzina e con gravi deficit cognitivi che non può permettersi con la sua pensioncina di pagare la somma richiesta da uno Stato forte con i deboli e debole con i forti. Quelli che, come documentato dal rapporto Crea sanità, guadagnano ma non pagano le tasse e così nemmeno la sanità pubblica. Negata invece a chi ne avrebbe più bisogno. Migranti in Albania, l’accordo sarà modificato: il piano del Governo italiano per la competenza a Tirana di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 10 febbraio 2025 L’esecutivo vuole evitare nuovi stop da parte della magistratura: l’ipotesi di un decreto. L’opposizione: una follia, si fermino. Ripristinare subito l’operatività dei centri albanesi di Gjader e Shengjin, a prescindere dalla decisione della Corte di giustizia europea prevista per il prossimo 25 febbraio. Anche a costo, come soluzione estrema, di togliere la giurisdizione italiana sulle strutture, alla base del trattato siglato con Tirana. Cercando una strada, dopo tre bocciature consecutive dei trattenimenti di migranti da parte dei giudici dell’Immigrazione e della Corte d’Appello, per escludere la competenza dei magistrati italiani sulla gestione dei profughi da rimpatriare. In queste ore si stanno esaminando varie ipotesi per far ripartire i trasferimenti di migranti, ma questa volta con un discorso più ampio che non prevede solo quelli soccorsi in mare e provenienti da Paesi inseriti nella lista italiana di quelli sicuri, ma anche coloro che già si trovano negli hotspot e nei centri di accoglienza sul territorio nazionale. Se n’è parlato in una riunione venerdì scorso, durante la quale è emersa la possibilità che i centri albanesi possano essere trasformati in cpr - dedicati quindi esclusivamente al rimpatrio dei profughi ritenuti senza requisiti per ottenere protezione internazionale dall’Italia - oppure in centri di accoglienza. E non si esclude a questo punto che possano essere gestiti da Tirana e non più da Roma. In tutti i casi, in attesa del parere dei giudici del Lussemburgo, l’esecutivo ribadisce la volontà di andare avanti. E per questo per oggi è stato programmato un altro vertice. Al centro dell’incontro forse anche la discussione sul nuovo decreto legge - ipotizzato fra gli altri dal ministro per gli Affari europei Tommaso Foti - che potrebbe nei piani del governo fornire una soluzione giuridica affidabile dopo le sentenze contrarie dei giudici sui trattenimenti in Albania. Ma le opposizioni attaccano. “Perseverare è diabolico, il governo fermi questa follia che sta creando uno scontro tra poteri senza precedenti e uno spreco di risorse”, spiega Simona Bonafè, capogruppo dem in Commissione Affari costituzionali alla Camera, per la quale l’esecutivo “insiste nel tentativo inaccettabile di scegliersi i magistrati e riscrivere le regole in corsa”. Per il capogruppo Avs nella stessa commissione, Filiberto Zaratti, “si sono cacciati in un pasticcio, smettano di sperperare i soldi degli italiani”. Sul tavolo c’è anche la questione libica e le avvisaglie di una nuova ondata di partenze di migranti. I dati del Viminale confermano che gli arrivi nel 2025 sono superiori a quelli dello stesso periodo dello scorso anno: 4.144 contro 3.169. Sebbene nel mese in corso siano inferiori del febbraio 2024 (665 contro 2.301). Dalla “Relazione sulla situazione geopolitica del continente africano” approvata dal Copasir emerge che in Libia “sono presenti circa 700 mila immigrati irregolari” e altri “700-800 mila sono in Tunisia”. Non pronti a partire, ma non si può escludere che alcuni possano rivolgersi ai canali criminali collegati agli scafisti. Tanto più che il Copasir sottolinea l’esistenza di “un legame fra le organizzazioni che sfruttano i flussi irregolari e quelle terroristiche che pretendono denaro quando le carovane transitano dai territori da loro controllati”. Uno scenario preoccupante nel quale si inserisce ieri la scoperta di due fosse comuni a Jikharra e Kufra con almeno 49 corpi di migranti. Nella seconda, crocevia in Cirenaica di profughi subsahariani, con segni di tortura, mentre in 76 sono stati liberati dal lager dei trafficanti. Sempre ieri sono stati avvistati tre cadaveri in mare nell’Agrigentino, nel tratto poco distante da Marina di Palma dove la corrente ha trascinato un barcone utilizzato dai migranti. Libia e migranti, torna a girare la fake news dei “700mila pronti a partire” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2025 Il dato nella relazione del Copasir, che dice altro. Basta guardare i dati dell’OIM per rendersi conto che il dato corrisponde al totale degli stranieri nel Paese e che le nazionalità non sono quelle che sbarcano in Italia. Due anni fa si trattava di un rapporto degli apparati di sicurezza inviato al governo. Oggi della relazione del Copasir “sulla situazione geopolitica del continente africano e sui suoi riflessi sulla sicurezza nazionale”. Ma stavolta il documento è pubblico (questo il link) e non dice affatto quanto alcuni organi di stampa stanno attribuendo al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. “In Libia ci sono 700 mila migranti irregolari pronti a partire”, hanno titolato alcune agenzie e ripreso alcuni quotidiani, interpretando un dato, quello della presenza straniera in Libia, che la relazione del Copasir non trasforma in alcun modo nella minaccia spesso paventata. Da ultimo nella vicenda del torturatore libico Almasri, che il governo avrebbe liberato anche per evitare “un’improvvisa ondata di partenze” via mare. Il 12 marzo 2023 ci cascò anche il Corriere della Sera: “Nei rapporti settimanali sull’immigrazione che vengono mandati al governo italiano, gli apparati di sicurezza e gli analisti sottolineano come in Libia, nei campi di detenzione ma non solo, ci siano 685 mila migranti irregolari pronti a partire per sbarcare sulle coste italiane”, scriveva. L’ultimo censimento allora disponibile dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) contava in Libia 683 mila “international migrants”, che nei rapporti Oim sono tutte le persone “che cambiano il proprio paese di residenza abituale”. Insomma, tutti gli stranieri presenti in Libia, compresi quelli rinchiusi nei centri di detenzione come quelli guidati da Almasri, poche migliaia sul totale di circa 7.000 detenuti tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I migranti internazionali sarebbero oggi 787.326, dato raccolto dall’Oim tra agosto e ottobre 2024 e coerente con quello raccolto dal Copasir. “Secondo quanto riferito nelle audizioni svolte, sono presenti circa 700 mila immigrati irregolari in Libia”, si legge nel documento approvato il 5 febbraio dal Comitato, che in base agli elementi raccolti sviluppa poi una serie di raccomandazioni al Parlamento. Ma nemmeno qui si parla di migranti “pronti a partire”. E non a caso. Ancora una volta, il dato è sovrapponibile a quelli dell’Oim, che evidenziano come “nove migranti su dieci (87%) in Libia hanno dichiarato di non possedere un permesso di lavoro”. Niente di strano in un Paese che non offre alcuna garanzia di tutela dei diritti fondamentali e dei potenziali richiedenti asilo, non avendo neppure ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Per questo non è sbagliato parlare di “700mila immigrati irregolari”, senza però dimenticare che il 79% degli stranieri lavora, soprattutto nelle costruzioni e nell’agricoltura, e che la Libia rimane anche e soprattutto un Paese di destinazione. ?Quello che però disinnesca l’allarme dei 700mila irregolari pronti a imbarcarsi è il confronto tra l’origine degli stranieri in Libia e le principali nazionalità di chi sbarca in Italia. Il 26% degli immigrati oggi in Libia viene dal Sudan, il 24% dal Niger, il 21% dall’Egitto, il 10% dal Ciad e il 4% dalla Nigeria. Al contrario e coerentemente con il 2024, i 4.144 migranti sbarcati dall’inizio dell’anno provengono da Bangladesh (32%), Pakistan (21%), Siria (12%) ed Egitto (8%), mentre un ulteriore 11% viene da altri Paesi. Egitto a parte, Paese confinante con un’alta percentuale di occupati in Libia (93%), nessuna delle altre principali nazionalità presenti in Libia compare tra le prime dieci che sbarcano in Italia. Inoltre, per il 70% di sudanesi, nigerini e non solo, il denaro che inviano a casa è la fonte primaria di reddito per le loro famiglie, che utilizzano le rimesse per coprire i bisogni alimentari. Per la maggior parte, insomma, interrompere l’invio di denaro per rischiare la vita in mare semplicemente non è un’opzione. Quanto ai Paesi d’origine di chi arriva in Italia via mare, secondo la rilevazione Oim i bangladesi in Libia sono 19.820, i Pakistani 4.442 e non tutti quelli intervistati hanno espresso l’intenzione di proseguire verso altri Paesi, Europa compresa. Numeri che è bene conoscere anche solo per seguire le raccomandazioni del Copasir per il contrasto al traffico di migranti. Il Comitato suggerisce di potenziare le autorità di contrasto e cooperazione internazionale, di intensificare la collaborazione con i Paesi terzi d’origine e transito, attuando prevenzione, sensibilizzazione, conoscenza e monitoraggio del fenomeno. Inoltre, invita ad adottare politiche più incisive per la migrazione regolare, considerando “le cause profonde dell’attuale situazione in cui versa il continente africano - conclude la relazione - che affondano le loro radici in ragioni di carattere storico, acuite dai cambiamenti climatici, dalle condizioni di estrema poverta?, dalle crisi alimentari, dallo spesso carente accesso all’acqua potabile, nonche? da fattori quali l’instabilita? politica, la presenza di regimi non democratici e spesso connotati da alti tassi di corruzione, le forti diseguaglianze sociali, il terrorismo, la penetrazione di potenze autoritarie”. Migranti. Tarfusser sul caso Almasri: “Un assurdo cortocircuito” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 10 febbraio 2025 L’ex magistrato, ora in pensione, già giudice e vicepresidente della Corte penale internazionale dell’Aia, accusa ex colleghi e politici di aver causato “un danno incalcolabile alla giustizia nazionale e internazionale, al governo e alla credibilità dell’Italia”. Ha un’idea precisa di cosa sia accaduto nell’arresto e nel rilascio del libico Almasri e, da par suo, Cuno Tarfusser non fa sconti né agli ex colleghi magistrati (ora è in pensione) né ai politici, accusando tutti di aver affrontato il caso con “fretta, incompetenza, opacità e disinformazione che hanno causato un danno incalcolabile alla giustizia nazionale e internazionale, al governo e alla credibilità dell’Italia”. Gli 11 anni da giudice della Corte penale internazionale dell’Aia, di cui è stato vicepresidente, fanno di Tarfusser uno dei giuristi italiani più esperti nel funzionamento dell’organismo dell’Aia. Prima di tutto, ricorda che lo Statuto di Roma, con il quale nel ‘98 nacque la Corte, “fa parte dell’ordinamento giuridico italiano e va applicato”. Poi, a coloro che parlano di complotto internazionale per mettere in imbarazzo l’Italia, assicura che non c’è stata “nessuna stranezza nella tempistica”. Sono stati necessari i tempi tecnici prima che, dopo che il 6 gennaio Almasri era stato segnalato in Europa, la Corte il 18 gennaio trasmettesse il mandato di arresto a 6 Paesi, tra cui l’Italia. Quando il 19 gennaio la Digos di Torino allertata dall’Interpol lo arresta, per Tarfusser, la Procura generale di Roma avrebbe dovuto chiedere che il generale fosse sottoposto a custodia cautelare alla Corte d’Appello, che avrebbe dovuto disporre o negare la sua consegna alla Cpi. Invece, il pg ha chiesto all’Appello di far decadere l’arresto perché “non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia” che “non ha fatto pervenire nessuna richiesta”, decisione che i giudici “hanno incredibilmente accolto”, rileva Tarfusser, e in 48 ore Almasri è stato rispedito in patria. “È evidente come all’origine di questo assurdo cortocircuito - dice - c’è una magistratura che si è comportata con ubbidienza precipitosa nei confronti del potere politico, con buona pace dell’autonomia e dell’indipendenza che vengono rivendicate solo quando fa comodo”, e certamente non in base alla legge che obbliga alla cooperazione con la Cpi. Si è in questo modo “salvato dal giusto processo un presunto criminale”, causando un danno difficilmente riparabile, perché d’ora in poi “questa assurda interpretazione non permetterà l’esecuzione di nessun mandato di arresto della Cpi sul territorio italiano. Né oggi, né mai. Uno scempio delle norme insomma”. Invece “di seguire la strada della legge, della logica, del buon senso e della trasparenza, si è scelto di precipitare nel caos e nel disastro giudiziario e politico”, conclude. Perché le armi tacciono ma non c’è pace giusta di Domenico Quirico La Stampa, 10 febbraio 2025 Un conflitto serve prima a distruggere e poi a ricostruire: un investimento che rende due volte a chi lo sfrutta. Ma c’è chi perde tutto, anche la vita. Ora i contendenti accettano di discutere e dalla pace è scomparsa la parola pace. Perché si fanno le guerre? Per distruggere. E perché, qualche volta, si fanno finire? Per ricostruire. Così quelli che le amministrano e le sfruttano, generali finanzieri affaristi e mercanti riuniti in allegre conventicole che assomigliano un po’ troppo a banali società per azioni, realizzano la perfezione dell’investimento, cioè guadagnare due volte. fornendo a caro prezzo prima i mezzi per la distruzione bombe carri armati aerei droni; e poi facendosi assegnare gli altrettanto lucrosi appalti per rimettere insieme i cocci. Fregiandosi anche del titolo di benefattori. Chi è che non ha guadagnato nulla, anzi ha perso tutto case beni affetti la vita? Chi l’ha combattuta nelle trincee, prestando fede a slogan quasi sempre bugiardi, a infatuazioni epicizzanti, difendere la patria o ricostruirne la grandezza, applicare il diritto internazionale o realizzare i nostri sacri interessi. E coloro, molti di più, che l’hanno vissuta senza poter dire niente nelle retrovie che non esistono più perché sono solo un altro fronte, ridotti ad atti inutili come fuggire sopravvivere sperare. Nei venti giorni trumpiani che cambiarono, forse, il mondo, questo doveva accadere, come se niente fosse, in Ucraina. Il presidente americano è uno che vende fumo ma lo vende con brio. Non è certo uno che si ingarbuglia nelle sottigliezze del torto e della ragione, del colpevole e dell’innocente. Le Furie erano ritenute dai greci anteriori agli dei. Per Trump dopo la guerra e le vendette non viene Zeus, vengono i buoni affari, la ricostruzione e lo sfruttamento delle terre rare per ingolosire Zelensky. Ha gettato il suo sasso nella palude della guerra dei tre anni e come per incanto la melma si è smossa, i cerchi hanno iniziato ad allargarsi. Era quello che chi lo ha preceduto alla Casa Bianca non poteva fare, avrebbe perso la faccia. Così i due contendenti che si scambiavano solo insulti, nazista criminale di guerra invasore servo della Nato, hanno accettato quello che fino a ieri avrebbero definito tradimento, ovvero di discutere. In un conflitto fratricida dove la vendetta è l’unico imperativo, una necessità organica, si è compiuto il passo impossibile. Dopo le ultime moine propagandistiche secondo necessario passaggio, far sparire le condizioni non negoziabili, ovvero l’uscita di scena di Zelensky (e di Putin), la intangibilità dei confini del 2014, le ritirate preventive dei russi. Non so se Trump, da temerario dilettante abborracciatore, infatuatosi e infatuando con lo slogan faccio finire la guerra in ventiquattro ore, avesse coscienza o cognizione dei progressi fatti o si sia imbussolato il cervello di quelle teorie della signoria americana con avventata millanteria di potenza. Il fatto è che le intemperanze del cui stile c’è da avere rossore indelebile hanno ottenuto quello che in tre anni diplomatici sacri e profani, sedicenti mediatori e fini cervelli delle élite non hanno nemmeno sfiorato. È scomparso, ed è stato un segnale che avremmo dovuto notare con maggiore attenzione, un aggettivo a cui soprattutto noi europei siamo rimasti ottusamente incatenati per tre anni legandoci a una comoda impotenza, ovvero l’aggettivo “giusta” appiccicato alla parola pace. Non lo pronuncia più nessuno. Per la verità non l’ha mai utilizzato Zelensky che ha sempre coniugato la parola pace con vittoria che per lui significava vedere i russi in umiliante ritirata ripassare i confini fissati per l’Ucraina nella disinvolta disintegrazione della unione sovietica. Putin, beh Putin si è sempre mantenuto nel vago, in fondo era una operazione speciale non c’era bisogno di fissare dei limiti. In questo modo al momento in cui anche lui accetta di passare alla fase delle trattative, nessuno può dire che non abbia raggiunto i suoi obiettivi. Visto che restano ipotesi. Il concetto di pace giusta (quella ingiusta si definisce resa) l’hanno ripetuta fino allo sfinimento i leader europei con la loro politica inetta ad affrontare difficoltà e i pericoli per dare alle opinioni pubbliche e al severo Zelensky l’impressione di essere dei trinceristi della resistenza a oltranza al male assoluto, al nuovo Hitler. Quando in realtà il loro “essere con gli ucraini” consisteva, a grattare sotto la crosta dei discorsi, solo nel riempire gli arsenali e fornire denari alla tragedia: un’unione sciagurata di improvvido machiavellismo e di avara debolezza. La esclusione dal tavolo dei negoziati ne sarebbe una meritata punizione. Allora Trump è stato il detonatore, ma la guerra potrebbe arrivare a una tregua per una ragione che consiste nel reciproco riconoscimento di una condizione di sfinimento. È questo il vero modello coreano evocato come possibile via di uscita. Zelensky non ha più uomini da gettare nella fornace e rischia ogni giorno che passa il tracollo della sua linea di difesa. Potrebbe perdere così un territorio ancora più vasto di quello che i russi con la loro strategia brutale, lenta e implacabile gli hanno rosicchiato negli ultimi mesi. Putin sa che, anche dispiegando propagande spregiudicate e stringendo i bulloni autocratici, non può spremere i russi oltre un certo punto. La sua non è la grande guerra patriottica che cementa il popolo davanti a una invasione. Dunque come si interrompe una guerra come questa? Il primo passo, la scelta del mediatore, Trump, sembra accettata. Ora bisogna trovare un luogo neutrale dove trattare il cessate il fuoco o una tregua. Un passo difficile per Zelensky perché si parte dalla regola dell’ uti possidetis: i due eserciti a una certa ora smettano di sparare lungo il fronte che si è formato fino a quel momento. Lo slogan della geopolitica della palanche è dunque: non fate la guerra fate soldi. Purtroppo sembra l’unica via possibile in un tempo che non crede più a niente neppure alla propria ombra. Ma che cosa diranno Putin e Zelensky alle decine di migliaia di parenti dei morti, ai feriti, ai mutilati che si sarebbero battuti per tre anni per far crescere i fatturati e i dividenti di quelli che un tempo si definivano, ingenuamente, i padroni del vapore? Il diritto che cede alla forza di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 10 febbraio 2025 Nel mondo che si sta formando sotto i nostri occhi, andranno drasticamente a restringersi il ruolo e lo spazio del diritto internazionale così come è stato concepito (e reinterpretato), sotto la spinta occidentale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il disorientamento dell’opinione pubblica è comprensibile. Ma quando un ordine internazionale, solido e stabile per decenni, entra in una fase accelerata di declino, un declino che annuncia grandi cambiamenti, è inevitabile che volino gli stracci. E che vadano in pezzi le convenzioni, generate da quell’ordine, che fino a poco tempo prima si davano per irreversibilmente acquisite. Era forse inevitabile che Donald Trump, deciso a rompere con molte convenzioni, colpisse il Tribunale dell’Aja dopo la assai controversa decisione di quest’ultimo di incriminare il primo ministro israeliano Netanyahu. Ricordiamo che il Tribunale dell’Aja è una istituzione che non è mai stata sostenuta dagli Stati Uniti (democratiche o repubblicane che fossero le sue Amministrazioni). Se vogliamo dare di quanto accade una lettura non legata esclusivamente ai fatti contingenti, allora dobbiamo osservare che nel “nuovo mondo”, il mondo che si sta formando sotto i nostri occhi, andranno drasticamente a restringersi il ruolo e lo spazio del diritto internazionale così come è stato concepito (e reinterpretato), sotto la spinta occidentale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In un assetto internazionale multipolare, per definizione basato sulla competizione fra una pluralità di potenze, ciascuna delle quali rivendica una propria zona di influenza, il ruolo del diritto internazionale torna ad essere quello tradizionale. Ha soprattutto il compito di facilitare i rapporti fra potenze nell’intervallo fra un conflitto armato e l’altro. In un mondo siffatto, l’impronta e l’influenza occidentali sulle istituzioni internazionali si affievoliscono o declinano. E con quel declino perdono forza le idee su come regolare i rapporti internazionali, idee nate nella società occidentale, e che, per un certo periodo, erano sembrate (o erano state davvero) vincenti. L’Onu, successore della Società delle Nazioni, nacque per volontà del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt nel quadro di una riorganizzazione del sistema internazionale che, secondo il disegno americano, doveva fondarsi su una pluralità di istituzioni. Tali istituzioni avevano lo scopo di stabilizzare i rapporti fra gli Stati. Quel sistema internazionale, nelle intenzioni americane, doveva essere guidato dagli Stati Uniti con l’accordo delle altre grandi potenze. Lo scoppio della Guerra fredda permise solo una realizzazione parziale del piano: la funzione di tutore e garante di un sistema di sicurezza collettiva affidata all’Onu a causa del conflitto fra blocco occidentale a guida americana e blocco sovietico non potè essere esercitata (se non ai margini, nei conflitti locali ove non erano in gioco gli interessi vitali delle superpotenze). Però, i legami cosiddetti multilaterali assicurati dalle istituzioni nate per volontà statunitense si svilupparono coinvolgendo in primo luogo le società occidentali ma anche tanti altri Paesi in varie parti del mondo. Per gli avversari degli Stati Uniti quei legami erano la copertura sotto cui si nascondeva l’imperialismo americano. Di sicuro, l’egemonia politica, economica e militare esercitata dagli Stati Uniti laddove non arrivava l’influenza sovietica, era essenziale per garantire il mantenimento di quei legami. Ma c’era anche altro. Le istituzioni internazionali, e le pratiche giuridiche connesse, si nutrivano di idee che erano state partorite dalla tradizione occidentale (anche il Tribunale dell’Aja, benché non voluto dagli Stati Uniti).Diritti umani? È un’espressione che rinvia al giusnaturalismo cristiano e a quella sua variante secolarizzata che è il pensiero liberale. Idee occidentali. Ispiratrici di un’utopia: creare un mondo pacifico (l’ideale kantiano della “pace perpetua”) ove gli esseri umani potessero, in libertà, convivere. Dopo la fine della Guerra fredda, per un certo periodo, sembrò a molti che la realizzazione di quel sogno fosse a portata di mano. L’epoca dell’unilateralismo americano, l’epoca dominata da una sola superpotenza, è anche il momento di maggiore forza e prestigio dell’Onu. Poi è arrivato il declino relativo della potenza americana e si è palesato il declino (senza aggettivi) dell’Europa: in altri termini, il ridimensionamento del peso internazionale della società occidentale e l’ascesa di altri mondi e di altre civiltà con diverse concezioni, tradizioni e priorità. Non è possibile pensare che quel ridimensionamento e la nascita di un sistema multipolare fondato sulla competizione fra potenze non determinino anche cambiamenti radicali delle istituzioni che hanno fin qui contribuito a regolare la vita internazionale. Trump è quello che è. Ha ragione Fareed ZaKaria (Corriere della Sera del 7 febbraio): mentre la democrazia americana è solida e radicata (più solida, aggiungo io, di diverse democrazie europee) ed è probabilmente in grado di resistere anche a Trump e alle sue pulsioni autoritarie, l’impatto più forte dell’azione di quest’ultimo si manifesterà in ambito internazionale. Però, si osservi la contraddizione: gli Stati Uniti sono il principale finanziatore dell’Onu ma l’Assemblea generale è ormai da molto tempo schierata a maggioranza con i nemici degli Stati Uniti, potentemente influenzata da coloro che vogliono mettere in un angolo il mondo occidentale. Quanto a lungo può ancora durare una tale situazione? Solo per fare un esempio, se l’Onu fosse ancora ciò che in origine avrebbe dovuto essere, chi avrebbe mai permesso a quello iraniano e ad altri regimi di tal fatta, come è accaduto, di mettere le mani su questioni che hanno a che fare con i diritti umani? Dobbiamo realisticamente prendere atto del fatto che il diritto internazionale per come era stato concepito in Occidente, e le istituzioni collegate, si avviano verso un drastico ridimensionamento. La speranza è che in futuro sia possibile trovare o ricostituire, al posto di quello infranto, un nuovo equilibrio fra diritto e forza. Perché ciò accada occorre che, nei prossimi decenni, le società occidentali (Stati Uniti e Europa in primo luogo) conservino una forte influenza. I contorni del nuovo mondo, tuttavia, sono ancora indefiniti. L’attacco trumpiano ai giudici dice qualcosa anche a noi di Francesco Cundari linkiesta.it, 10 febbraio 2025 Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, ha dichiarato ieri in un post sui social media che “ai giudici non è consentito controllare il potere legittimo dell’esecutivo”. Una dichiarazione di cui non è difficile ricostruire il contesto, dopo che la magistratura ha bloccato l’esecuzione di alcuni dei più controversi ordini esecutivi emessi a raffica da Donald Trump nei suoi primi incredibili venti giorni da presidente degli Stati Uniti: dalla cancellazione dello ius soli al licenziamento di migliaia di dipendenti dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid), dall’accesso ai dati sensibili del Dipartimento del Tesoro da parte dei collaboratori di Elon Musk al trasferimento di detenuti transgender nelle carceri maschili. L’idea che un presidente possa decidere tutto questo con un tratto di penna, dal giorno dopo la sua elezione, calpestando o addirittura cancellando a suo piacimento diritti costituzionalmente garantiti di tutti i cittadini, senza che alcun giudice possa intervenire, è evidentemente estranea, per definizione, a qualsiasi democrazia costituzionale, comunque concepita. Ma forse non suonerà così estranea al lettore italiano, se solo avrà dato prima un’occhiata ai giornali di oggi. O anche delle ultime due settimane, per non dire degli ultimi due anni. Ogni riferimento alla violenta campagna del governo e della stampa di destra contro il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, ma anche a tutte le precedenti campagne contro i magistrati colpevoli di avere preso decisioni sgradite all’esecutivo, ad esempio, sul trattenimento dei migranti in Albania, ma anche alle discussioni in corso a Palazzo Chigi su come aggirare le norme sul diritto d’asilo proprio per rilanciare i fallimentari centri albanesi, ovviamente, è voluto e dovuto. A proposito di diritto d’asilo, mi pare peraltro utile segnalare che mentre programmava l’espulsione di milioni di immigrati e tagliava il programma di aiuti americani all’estero, come sottolinea Christian Rocca nel suo editoriale su Linkiesta, Trump offriva “lo status di rifugiati politici, perché “discriminati”, agli afrikaners, gli eredi dell’élite bianca che ha guidato il Sudafrica dell’apartheid, quell’ambientino dove si è formato il trio della PayPal mafia, Elon Musk, Peter Thiel e David Sacks, che oggi immagina di rinverdire i fasti razzisti dai corridoi della Casa Bianca”. Questo è oggi il capofila e modello della nuova destra, italiana ed europea, con cui occorre fare i conti. Una minaccia rispetto alla quale la sinistra non dovrebbe farsi sviare da vecchi schemi ormai anacronistici, come quelli che nel nostro paese continuano a confondere, ad arte, i fautori di un simile modello di “democrazia illiberale” con i difensori dello stato di diritto, della separazione dei poteri e delle garanzie costituzionali.