Stampa dietro le sbarre: l’appello al Dap di 21 redazioni carcerarie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2025 Proprio ieri, sulle pagine de Il Dubbio, si parlava di un silenzio che grida. Quello ad esempio imposto a La Fenice, il giornale nato tra le mura del carcere di Ivrea, spento il 7 gennaio con un comunicato asettico che invoca “questioni burocratiche”. Ma non è un caso isolato. Da Nord a Sud, progetti editoriali creati per dare voce a chi è rinchiuso soccombono a divieti, censure ed espulsioni. La novità è che un appello corale per il rispetto dei diritti delle persone detenute e degli operatori dell’informazione arriva dal Coordinamento dei giornali e delle realtà della comunicazione attive nelle carceri italiane. In una lettera aperta indirizzata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e alle sue autorità, tra cui la Capo reggente del Dap Lina Di Domenico e il Direttore generale detenuti Ernesto Napolillo, i firmatari denunciano “ostacoli e barriere” che limitano il diritto all’espressione e al dialogo tra carcere e società esterna. La missiva parte dal richiamo all’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, che attua l’articolo 21 della Costituzione, garantendo ai detenuti il diritto a “una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni”. Eppure, come sottolineano i firmatari, “questo diritto è tutt’altro che rispettato”. Nonostante anni di impegno nel raccontare le carceri “con onestà”, i giornali e i media penitenziari si scontrano con restrizioni che “condizionano pesantemente il nostro lavoro”. Nella lettera aperta vengono poste con forza cinque domande, tutte rivolte alle istituzioni, che mettono in luce alcune criticità fondamentali dell’informazione prodotta dentro le carceri. La prima riguarda la possibilità per i detenuti di firmare i propri articoli con nome e cognome. Si chiede se sia davvero legittimo impedire questa scelta, considerando che la tutela della privacy è già garantita dalla direzione del giornale. Un altro nodo tocca il tema della censura preventiva: perché, se un giornale carcerario ha un direttore responsabile - che risponde anche penalmente di ciò che viene pubblicato - in alcune strutture è ancora obbligatoria una pre-lettura degli articoli da parte delle direzioni o di fantomatiche “istanze superiori”? Si mette poi in discussione la fiducia riposta nei volontari e negli operatori autorizzati: com’è possibile che queste stesse persone, che spesso portano avanti con serietà e impegno i progetti editoriali, non siano considerate affidabili e ritenute responsabili del materiale prodotto? Non manca il tema delle tecnologie, vietate nella maggior parte degli istituti: ci si interroga su come si possa svolgere un vero lavoro redazionale senza strumenti basilari come un registratore, una macchina fotografica o l’accesso a Internet. La lettera richiama in proposito una circolare del Dap del 2015, che definiva proprio la connessione alla rete “un indispensabile elemento di crescita personale”, e chiede che quelle parole si traducano finalmente in autorizzazioni concrete. Infine, viene denunciata la lentezza delle autorizzazioni burocratiche: articoli scritti nel pieno dell’estate, che parlano del caldo soffocante nelle celle, vengono pubblicati soltanto a Natale, vanificando di fatto ogni intento informativo. I firmatari della lettera sottolineano quanto esperienze come podcast, trasmissioni radio e televisive, laboratori di scrittura e progetti editoriali rappresentino una vera e propria ricchezza culturale, da difendere e valorizzare. Per questo motivo, rivolgono un appello diretto al Dap: chiedono un confronto, un incontro concreto per discutere insieme di questi temi, spesso affrontati solo in modo astratto o frammentario. Tra le criticità evidenziate, emerge soprattutto il divario tra le potenzialità dell’informazione prodotta all’interno delle carceri e le restrizioni che ne ostacolano lo sviluppo. Una distanza resa ancora più stridente dalla mancata applicazione di norme già esistenti, che restano sulla carta senza mai tradursi in pratiche operative. A firmare l’appello sono 21 realtà attive negli istituti penitenziari di tutta Italia, una vera rete nazionale che lavora da anni per fare dell’informazione uno strumento di espressione, crescita e dialogo. Ecco l’elenco completo: Ristretti Orizzonti di Padova, direttrice Ornella Favero, Ristretti Parma, responsabile Carla Chappini, Cronisti in Opera di Milano- Opera, direttore Stefano Natoli, Voci di dentro, direttore Francesco Lo Piccolo, Non tutti sanno di Rebibbia, responsabile Roberto Monteforte, Carte Bollate di Milano Bollate, direttrice Susanna Ripamonti, Web radio caffeitaliaradio. com, responsabili Davide Pelanda e Dario Albertini, Liberi dentro Eduradio& TV, responsabile Antonella Cortese, Salute inGrata 2 CR Milano Bollate, responsabile Nicola Garofalo, sito laltrariva. net, responsabile Francesca de Carolis, Non solo Dentro, inserto dal carcere di Trento di Vita Trentina a cura di Apas, direttore Diego Andreatta, Mondo a quadretti di Fossombrone (PU), responsabile Giorgio Magnanelli, Ristretti Marassi, responsabile Grazia Paletta coordinatrice con Arci Genova, Altre Storie, pubblicato all’interno del giornale Il Cittadino di Lodi, referente Andrea Ferrari, Astrolabio di Ferrara, curatore Mauro Presini, Ponti del “Santa Maria Maggiore” di Venezia, supervisore Maria Voltolina, Gazzetta dentro di Quarto d’Asti, referente Domenico Massano, NeValeLaPena, del Rocco D’Amato di Bologna, referente Federica Lombardi, Operanews, di Milano Opera, direttore responsabile Renzo Magosso, Itaca di Verona Montorio, referente Anna Corsini. L’appello conclude con un invito al dialogo: “Se l’attività giornalistica nei penitenziari è ritenuta una risorsa importante per il dialogo tra realtà detentiva e società esterna, perché le Istituzioni non semplificano le procedure e accorciano i tempi di tante estenuanti attese?”. La palla passa ora al Dap, chiamato a rispondere a una sfida che unisce diritti costituzionali, reinserimento e libertà di stampa. Meno posti, più detenuti: il 9% delle celle è inagibile e il sovraffollamento peggiora di Luca Bonzanni Avvenire, 9 aprile 2025 I posti aumentano, ma sono solo quelli teorici. Perché la capienza reale, immediatamente disponibile, delle carceri italiane dal 2020 a oggi si è addirittura ridotta: 382 posti in meno, a fronte di quasi 10mila detenuti in più, saliti a quota 62.137 al 17 marzo scorso. Le cifre, elaborate dal Garante nazionale dei detenuti, portano all’affollamento del 132,8% della disponibilità complessiva. Un malessere strutturale che finisce per spingere a gesti estremi e a vanificare gli sforzi volti all’integrazione e al reinserimento in società. Da un lato ci sono i numeri teorici, dall’altro quelli reali. La forbice però si allarga sempre più, in negativo. Il dramma del sovraffollamento è acuito dalle condizioni strutturali delle carceri: dei posti previsti sulla carta, oltre 4.500 - cioè quasi uno su dieci - sono in realtà non disponibili. Sono inagibili o inutilizzabili, temporaneamente o da lunghi periodi, dunque in sostanza “chiusi”. Più passa il tempo e più il numero dei posti “fuori uso” aumenta, mentre i reclusi crescono sempre di più. Il paradosso della contabilità penitenziaria è inciso nei numeri di un recente report del Garante nazionale dei detenuti, elaborato partendo dai dati del ministero della Giustizia, e racconta di quanto successo negli ultimi anni, in un’epoca scandita dal sovraffollamento cronico. A fine 2020 in Italia la capienza formale degli istituti di pena per adulti era di 50.564 posti; al 17 marzo di quest’anno, data di riferimento del dossier, i posti teorici sono saliti a 51.323, cioè se ne sono aggiunti 759. In realtà, quelli realmente disponibili sono andati riducendosi. Perché c’è un’altra voce messa in colonna, ed è l’aspetto più concreto della quotidianità dietro le sbarre: sempre tra quelle due date, cioè in poco più di quattro anni, i posti effettivamente disponibili - quelli utilizzabili - sono scesi dai 47.193 di fine 2020 ai 46.811 del marzo 2025. In altri termini: si sono “persi” 382 posti reali, nonostante si siano approntati lavori e progetti per ampliare, almeno sulla carta, gli spazi detentivi. E così, attualmente quasi il 9% dei posti teorici nelle carceri italiane risulta “fuori uso”. Tema d’attualità, visti gli appalti lanciati recentemente dal Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, col bando di gara per la realizzazione di 384 posti - organizzati in “moduli detentivi” prefabbricati - sparsi tra dieci istituti del Paese. L’escalation della popolazione carceraria è d’altronde evidente: al 30 dicembre 2020 - durante la fase di maggiore emergenza del Covid erano state ampliate le misure alternative per ridurre il sovraffollamento e contenere il rischio di contagio - in Italia si contavano 52.273 detenuti, al 17 marzo 2025 si è saliti a quota 62.137, con un incremento di 9.864 reclusi e l’indice di affollamento che ha raggiunto il 132,8%. Sono numeri, quelli dei posti inagibili e quelli del sovraffollamento, che si tengono stretti in un “rapporto - così lo definisce il dossier del Garante dei detenuti - che ha una diretta correlazione”. La fotografia del Garante scava nelle criticità del sistema, censendo i “posti per varie ragioni temporaneamente inagibili”: il divario “aumenta sempre in negativo, ossia con una riduzione dei posti disponibili a fronte di un progressivo aumento delle persone detenute, che, come detto, incide negativamente sull’indice di affollamento”, si legge nel documento. Calibrando la quota di posti inagibili rispetto al totale dei posti teorici, le carenze maggiori si rilevano nel Provveditorato delle carceri di Puglia e Basilicata (è fuori uso il 13,8% dei posti), nel Provveditorato della Toscana e Umbria (13%), in quello della Sardegna (11,7%) e in quello di Lazio, Abruzzo e Molise (11,3%). Caso emblematico è il carcere milanese di San Vittore, dove su ben 220 posti su 702 (il 31,3%) non sono attualmente disponibili, mentre i detenuti presenti sono 1.012 e l’indice di affollamento ha toccato il 215%. Una struttura, scrive il Garante, “in cui è stata registra anche la presenza di persone detenute allocate in camere di pernottamento che risultano essere al di sotto dei 3 metri quadri consentiti per ciascun individuo, secondo il parametro della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Campane a morto per i detenuti di Franco Corleone L’Unità, 9 aprile 2025 Dall’edilizia penitenziaria alla demagogia sui detenuti tossicodipendenti, dall’equipaggiamento degli agenti all’ipocrisia sui suicidi in cella: la mozione della maggioranza sull’emergenza carceraria è stata una vera provocazione. Bisogna protestare, scioperare, digiunare. E sarebbe straordinario se il venerdì prima di Pasqua le campane di tutte le chiese suonassero a morto per richiamare al bisogno di una resurrezione a cominciare dagli ultimi. Pensavo di avere già scritto tutto su quello che serve fare per il carcere (l’Unità, 8 marzo). Avevo anche richiamato il saggio di Grazia Zuffa “Ripensare il carcere, dall’ottica della differenza femminile” - addirittura di dieci anni fa - quale possibile manifesto per avviare una riforma necessaria e radicale, prima che sia troppo tardi. Ma di questi tempi, sul punto e in generale, la realtà corre assai rapidamente verso il baratro. Sono quindi costretto a reintervenire dopo l’esito della discussione alla Camera dei deputati, con l’esame delle mozioni presentate dall’opposizione e l’approvazione di quella della maggioranza. La mozione del centrodestra è una vera provocazione. Infatti, la premessa si rivela un mattinale del governo sui meriti acquisiti nei due anni di attività. Nulla viene detto sull’avere licenziato due capi del Dap e sul fatto anomalo di una gestione affidata a una vice facente funzione. Nulla sui record di suicidi negli ultimi due anni. Molto spazio è invece dedicato al minorile, colpito da un sovraffollamento inedito grazie alle misure varate da questo governo (ricordate il decreto Caivano?). La parte dedicata agli adulti è impressionante per la protervia e la iattanza con cui si descrive la difficile condizione degli istituti penitenziari attribuita però alle “rivolte carcerarie esplose a marzo 2020 durante la pandemia da Covid, che hanno lasciato profonde ferite sia nelle strutture che nel morale di chi vive e lavora in carcere”, omettendo i tanti morti avvenuti nel carcere di Modena e i pestaggi. L’intollerabilità delle condizioni di vita quotidiana e la negazione dei diritti fondamentali, primo tra tutti quello alla salute, a causa del sovraffollamento e delle logiche di gestione, è liquidata con l’affermazione che “tutti i detenuti, tuttavia, fruiscono nelle camere di pernottamento di una superficie media di almeno 3 metri quadrati come da standard fissato dalla Cedu”. Evidentemente la vergogna di un cesso per otto persone e la conseguente mancanza di dignità non turbano Maria Carolina Varchi, prima firmataria della mozione. La questione della possibilità di un provvedimento di amnistia e/o indulto è sbrigativamente cancellata, perché non bisogna “dare l’idea di uno Stato che non persegue i propri obiettivi di legalità e sicurezza per meri limiti organizzativi”. Infine, la conclusione apodittica e irrealistica: “il sovraffollamento carcerario si combatte con la creazione di nuovi posti detentivi mediante la costruzione di nuovi istituti e di nuovi padiglioni per far fronte ai 10.000 posti attualmente mancanti”. La grossolanità è così enorme che cascano le braccia e prevale il senso di inutilità di confrontarsi sul carcere come extrema ratio e sull’eliminazione della detenzione sociale come da decenni indicano e argomentano associazioni, operatori e giuristi (tra i tanti e le tante, ricordate il grande Sandro Margara?). Eppure, sempre da lì occorre testardamente ripartire, pena appunto arrendersi al disastro incombente. Bisogna insistere su una dimensione della carcerazione limitata ai reati di sangue, ai delitti gravi contro la persona, l’ambiente, l’economia, legati alle organizzazioni criminali che potrebbe riguardare al massimo trentamila individui. Molti soggetti oggi destinati alla prigione dovrebbero invece usufruire nella vasta gamma di misure alternative alla detenzione possibili e presenti nell’ordinamento, allo stesso modo in cui ne fruiscono già circa novantamila persone. Anche una misura di clemenza non può certo essere etichettata come scandalosa, visto che fino al 1990 se ne faceva un uso bulimico e che, del resto e non per caso, è una misura prevista dalla Costituzione. Certo, affinché non si traduca in un pannicello caldo, un provvedimento deflattivo dettato dal senso di umanità e/o dal pragmatismo dovrebbe essere accompagnato dalla previsione del “numero chiuso” e dall’istituzione delle “Case di reinserimento sociale” per i detenuti con meno di dodici mesi di pena residua. Case diffuse in città e paesi, di piccole dimensioni e gestite dal Sindaco, dai servizi sociali e dalle associazioni del volontariato, favorendo così un effettivo reinserimento sociale. Non sarebbe una novità, visto che centinaia di case mandamentali erano presenti in Italia dal 1940 fino ai primi anni del 2000. Si tratterebbe di una soluzione poco costosa e legata ai principi costituzionali; si potrebbero ristrutturare le carceri, impegnare risorse per dare case e non caserme al personale della polizia penitenziaria e inverare l’articolo 27 della Costituzione. Le soluzioni demagogiche, ideologiche e mistificatrici rivolte ai detenuti classificati come tossicodipendenti e malati di mente sarebbero così spazzate via. Invece, nel dispositivo della maggioranza governativa si prevedono solo migliaia di nuove celle e tanto lavoro non qualificato per i detenuti, con ingiustificata enfatizzazione sulle prospettive offerte dai progetti del Cnel. Viene poi sparsa a piene mani retorica sulle strutture chiuse per tossicodipendenti e per soggetti psichiatrici o comunque fragili. La fragilità non si nega a nessuno e quindi si prevedono subito tre nuove comunità sperimentali per coniugare sicurezza e trattamento. Si manifesta un entusiasmo fuori luogo per la costruzione del nuovo carcere a San Vito al Tagliamento (invece che a Pordenone) con 300 posti per “importare” detenuti in Friuli-Venezia Giulia a dispetto del principio della territorialità nell’esecuzione della pena, imitando la realtà del carcere di Tolmezzo in cui non è presente nessun detenuto della Carnia. La sbornia edilizia è accentuata dalla costruzione di otto nuovi padiglioni all’interno di altrettanti istituti da nord a sud, 92 nuovi posti nella sezione 41bis a Cagliari-Uta e, dulcis in fundo, l’operazione blocchi di cemento armato predisposti dal commissario Marco Doglio per contenere corpi e che saranno depositati nelle aree verdi delle carceri, che così verranno cancellate o limitate. In definita e nel complesso si tratta di un programma dissennato, che ricorda quell’operazione “carceri d’oro” che denunciai nella decima legislatura al Senato. La lettura del testo diventa pure esilarante con l’elenco delle meraviglie immaginate: annunci di assunzioni a go-go di agenti di polizia penitenziaria; istituzione del Gruppo di Intervento Operativo (GIO) per fronteggiare rivolte o sommosse; carriera dei medici del corpo di polizia penitenziaria; specializzazioni varie, da quella cinofila a pilota di droni, e, infine, Divisioni del Dap dirette da primi dirigenti della polizia penitenziaria. In tal modo, saranno “per la prima volta gli uomini e le donne in divisa ad amministrare gli affari del Corpo”. Per chiudere in bellezza, l’annuncio dell’acquisto di 18.700 scudi antisommossa, 2400 nuovi sfollagente, 10.200 caschi antisommossa: così ci si prepara alla guerra. Non varrebbe la pena di commentare siffatti impegni al Governo, se non quello di “continuare a lavorare per contrastare e prevenire il grave fenomeno dei suicidi in carcere, proseguendo il cammino intrapreso di potenziamento della rete di assistenza psicologica e di reclutamento di adeguato personale specializzato sia per i detenuti che per il Corpo di Polizia penitenziaria”. I 27 morti dall’inizio di quest’anno fino a oggi ringraziano (o maledicono) dall’aldilà per questa offensiva ipocrisia. Oltre 120 anni fa, nel 1904, il deputato socialista Filippo Turati pronunciava una dura requisitoria contro lo stato delle carceri, pubblicata con un titolo assai evocativo: “il cimitero dei vivi”. Oggi possiamo parlare di un cimitero e basta. Che dire delle mozioni dei 5Stelle e delle opposizioni unite? Contenuti deprimenti e ripetitivi con richieste di assunzioni a tappeto di personale e addirittura - nella mozione dei 5Stelle - la richiesta di implementare la capienza e il numero delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), dando fiato alla nostalgia da parte del ministero della salute per il manicomio. Per fortuna, nella mozione delle opposizioni si valorizza la richiesta di Papa Francesco in occasione del Giubileo a favore di “forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità”, si denuncia la non applicazione della sentenza n. 10 del 2024 sul diritto alla affettività e a colloqui segnati dalla riservatezza. Tuttavia, è un po’ poco, diciamo la verità. La situazione è intollerabile e non possiamo affidare la protesta ai soli detenuti, poiché, dopo l’approvazione del decreto sicurezza, rischieranno anni di carcere anche per le forme di resistenza passiva e di atti nonviolenti per affermare i propri diritti. Quando non sopportano il vuoto e la mancanza di senso e di speranza offrono il loro corpo come testimonianza dei senza voce. Fuori dal carcere si deve allora manifestare, in forme anche nuove e originali, con presenze davanti alle carceri delle famiglie dei detenuti, con digiuni giornalieri di massa e a staffetta in una sorta di ramadan laico, con il boicottaggio di alcol e tabacchi come nel Risorgimento e nella Resistenza al fascismo, con richieste di intervento ai vigili del fuoco per verifiche della sicurezza di strutture che hanno il doppio delle presenze regolamentari o alle ASL per le condizioni di igiene e profilassi, e così via. È così folle pensare a uno sciopero delle associazioni di volontariato e a lanciare l’invito agli agenti di Polizia penitenziaria di sottoscrivere un appello per l’indulto (garantendo l’anonimato)? Sarebbe davvero straordinario se il venerdì prima di Pasqua le campane di tutte le chiese suonassero a morto per richiamare al bisogno di una resurrezione a cominciare dagli ultimi. Suicidi in carcere, il Codacons presenta un esposto a 104 Procure della Repubblica di tutta Italia agenparl.eu, 9 aprile 2025 “Il sovraffollamento delle carceri alimenta il fenomeno dei suicidi. Accertare possibili responsabilità del Ministero della giustizia”. Sul fenomeno dei suicidi in carcere registrati in Italia il Codacons ha presentato un esposto a 104 Procure della Repubblica di tutta Italia chiedendo di aprire indagini sul territorio di competenza, alla luce dei possibili reati di omissione di atti d’ufficio e aiuto al suicidio “Dal Report sui suicidi e decessi in carcere relativo all’anno 2024 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è emerso un dato agghiacciante: il 2024 è stato l’anno record di eventi critici in carcere, con 83 suicidi (603 negli ultimi 10 anni), più 20 morti per cause da accertare - scrive il Codacons nell’esposto - Al 25 novembre 2024, secondo i dati pubblicati nel rapporto, il numero delle persone in carcere risulta di 62.410, su una capienza di 51.165, ma 46.771 posti effettivi. Cifre che portano l’indice nazionale di sovraffollamento al 133,44%”. “Dunque, se le condizioni inammissibili e invivibili delle carceri italiane hanno contribuito ai suicidi, come peraltro riconosciuto dal Presidente della Repubblica Mattarella, allora non si può non valutare la configurazione di una corresponsabilità del Ministero della Giustizia che detiene precipui obblighi in punto di garanzia dei diritti dei detenuti. A tal uopo si ritiene che, attesa la piena consapevolezza della attuale situazione in cui imperversano le carceri italiane, potrebbe sussistere in capo al Ministero della Giustizia l’elemento soggettivo del dolo eventuale nella misura in cui ha accettato il rischio del verificarsi di tali tragedie annunciate”. Per tali motivi il Codacons ha chiesto a 104 Procure di tutta Italia “di predisporre tutti i controlli necessari per accertare la possibilità di configurarsi di fattispecie quali il reato p.e.p. dall’ art. 580 c.p. ed il reato p.e.p. dall’art. 328 c.p. e ogni fattispecie criminosa che venisse individuata, chiedendo l’esercizio dell’azione penale a carico di coloro che risulteranno eventualmente responsabili”. Detenute madri, non c’è limite al peggio di Giulia Melani Il Manifesto, 9 aprile 2025 “Una grande spregiudicatezza nell’inventare norme. Un’inventiva che sconfina direttamente nell’illegalità”. Questa è la cifra delle politiche penali della destra al Governo - tra norme sulle droghe, reato universale di maternità surrogata e disegno di legge sicurezza - che Grazia Zuffa individuava durante l’assemblea della Società della Ragione il 18 gennaio. Una spregiudicata inventiva che si estende oggi anche ai metodi, travolgendo i rapporti tra Governo e Parlamento in modo del tutto inedito. Non siamo più “soltanto” di fronte al ricorso alla decretazione d’urgenza come strumento ordinario di legiferazione in barba ai requisiti costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza, ma assistiamo ad un’ulteriore torsione autoritaria: la sottrazione alla discussione parlamentare di un disegno incardinato in Parlamento da oltre un anno. La volontà di “dare una data certa ad un provvedimento che era stato preannunziato con grande importanza” nelle parole del Ministro Piantedosi equivarrebbe al caso straordinario di necessità ed urgenza. La rete nazionale contro il Ddl Sicurezza “A pieno Regime” parla giustamente di “golpe burocratico”. Il decreto approvato il 4 aprile dal Consiglio dei ministri imprime una svolta autoritaria tanto nei metodi quanto nei contenuti, già duramente criticati dall’Osce, in un parere dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una lettera del 16 dicembre 2024, e da sei Special Rapporteurs delle Nazioni Unite, in una lettera sempre del dicembre 2024. Coerentemente con il panpenalismo rivendicato dal ministro Nordio, il decreto introduce ben quattordici nuovi reati e numerose circostanze aggravanti, per reprimere con maggior vigore ogni forma di dissenso e punire poveri e migranti. Si introduce il reato di resistenza passiva in carcere e nei Cpr, si trasforma il blocco stradale da illecito amministrativo in delitto, si inserisce una nuova fattispecie per l’occupazione di immobile destinato a domicilio, si prevedono aggravanti per i reati di resistenza, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, quando commessi a danno di un agente di polizia giudiziaria o pubblica sicurezza. Il decreto, nel testo che sta circolando, lungi dall’avere accolto le numerose osservazioni provenienti dagli organismi internazionali e dal Presidente della Repubblica, ricalca il testo del ddl con ben poche variazioni e non sempre migliorative. Per quanto riguarda, in particolare, le detenute madri e il diritto dei bambini a nascere fuori dal carcere, su cui la Società della Ragione ha avviato una campagna da maggio del 2023, il decreto conserva la cancellazione dell’obbligo del rinvio dell’esecuzione della pena per le detenute incinte o con prole inferiore ad un anno, già prevista, con la conseguente apertura delle porte del carcere - e poco cambia se si tratta di un “Istituto a custodia attenuata per detenute madri” (Icam) - alle madri e ai propri bambini, anche di età inferiore ad un anno. A questa previsione, il nuovo testo aggiunge una serie di disposizioni relative alla custodia cautelare per le detenute madri, introducendo, tra l’altro, uno specifico provvedimento per l’evasione, commessa o tentata in Icam da detenute madri in custodia cautelare, e per la commissione di atti che compromettono l’ordine o la sicurezza pubblica o dell’istituto: la conduzione della madre in un istituto ordinario e la separazione dal bambino, salvo il preminente interesse del minore a seguirla. In sostanza, una gravissima punizione al bambino e alla madre. La campagna Madri Fuori non si ferma, continuerà la nostra opposizione a questo decreto nella sua interezza e grideremo ancora più forte “ogni bambina e ogni bambino ha il diritto di nascere in libertà”. Mattarella firmerà questo attacco alla democrazia? Alzeremo la bandiera dello stato di diritto anche con il referendum. “Ristretti”, le parole che non hai sentito italiacaritas.it, 9 aprile 2025 Il progetto “Ristretti”: il podcast della Caritas di Ancona-Osimo racconta dal carcere un pezzo di comunità. Lo ha realizzato il regista e sceneggiatore Claudio Pauri. Breve, solo tre episodi di poco meno di quindici minuti ciascuno. Ma quanta vita dentro! La vita che non può essere solo attesa da parte delle persone che devono scontare una condanna nel carcere di Ancona - Montacuto, la vita dei volontari che decidono di fare un pezzo di strada con loro, quella del personale dell’istituto penitenziario, chiamato anche a gestire le conseguenze del sovraffollamento. E la vita di chi il podcast lo ha realizzato: Claudio Pauri, 26 anni, studi alla Scuola Holden, sceneggiatore, regista del film “La spiaggia dei gabbiani”, assistente alla regia di Sergio Rubini per la miniserie “Leopardi. Il poeta dell’infinito”. È suo il progetto di “Ristretti”, il podcast frutto di una lunga serie di interviste e testimonianze. Dentro il carcere. Due anni e mezzo tra richieste di permessi, incontri, registrazioni, montaggio. “Sono sempre stato interessato - ci dice Pauri - a come le istituzioni si occupano delle persone che fanno più fatica. Quando la Caritas mi ha coinvolto nel suo progetto con il carcere di Montacuto, ho subito pensato a un podcast, sicuramente un mezzo che coltiva l’intimità, dunque una modalità interessante per dare voce a chi il carcere lo vive, ma anche perché i detenuti dell’alta sicurezza non possono essere ripresi”. Il podcast ci dice del percorso delle persone detenute con la Caritas diocesana di Ancona-Osimo. “Dalle loro parole - continua Pauri - emerge quanto si sentano abbandonati. Se li ascolti si capisce… che non c’è ascolto. Alcuni sono in attesa di giudizio, non hanno ancora la condanna. Eppure trascorrono mesi, anche anni, aspettando un processo, in spazi ristretti. Hanno bisogno di elaborare, parlare, avere un sostegno”. La nostra Costituzione all’articolo 27 ci ricorda che le pene devono tendere alla rieducazione. Gli istituti di pena sarebbero dunque luoghi da dove le persone escono migliori. “Sarebbero - sottolinea Pauri -, ma di fatto non è così. I detenuti possono uscire solo peggio di come sono entrati. In una giungla di convivenza obbligata, cattive condizioni igieniche, pagano tutto e non hanno prospettive di inserimento nel mondo del lavoro. Tante le lacune colmate da Caritas, ma non è la Caritas che dovrebbe farlo. O almeno non in prima battuta”. Il carcere di Ancona - Montacuto - Nel podcast le voci delle persone detenute e di chi gravita intorno al pianeta carcere in fin dei conti riflettono le contraddizioni di questo Paese. Sono voci che Pauri ha ascoltato evitando qualsiasi giudizio nei confronti di chi aveva davanti. “Una predisposizione essenziale quando si entra in contatto con le esperienze degli altri. E poi il giudizio - e tantomeno il pregiudizio - non servono ai fini della storia”. Allora ascoltiamo il lavoro di Claudio Pauri e della Caritas diocesana di Ancona-Osimo nei tre episodi di “Ristretti”, disponibili su Spreaker: https://www.spreaker.com/podcast/ristretti--6502904 Il Decreto Sicurezza fa di tutta l’erba un reato di Pino Corrias Vanity Fair, 9 aprile 2025 A dispetto delle carceri strapiene, il Governo ha votato 34 articoli che mettono viti e bulloni al nuovo ordine sociale, dall’arresto per resistenza passiva ai detenuti che protestano pacificamente alla cannabis light. Introdotto il reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, che comprende anche la resistenza passiva. Il governo a stelle e strisce gioca col mondo, moltiplicando i dazi. Noi giochiamo coi codici, moltiplicando i reati. Li distribuiamo a pioggia, corredati di nuove aggravanti. E pazienza per le carceri strapiene di detenuti, per i tribunali intasati di processi che non camminano, per i codici che invece di dimagrire diventano labirinti di nuove norme. All’ultimo Consiglio dei ministri, in 25 minuti, è stato varato il cosiddetto decreto Sicurezza, che in realtà era un disegno di legge così controverso che galleggiava in Parlamento da 17 mesi. Si tratta di 34 articoli che mettono viti e bulloni al nuovo ordine sociale che punisce con l’arresto la resistenza passiva di chi protesta intralciando una strada, una piazza, un cantiere. Compresi i lavoratori in sciopero, pena da 6 mesi a due anni. O chi imbratta un monumento. Che manda a processo i detenuti che protestano pacificamente nelle carceri, magari rifiutando il cibo, o gli immigrati segregati nei centri di permanenza per i rimpatri. Che prevede la detenzione delle madri in stato di gravidanza, specialmente le borseggiatrici rom oggetto di una campagna televisiva senza precedenti, anche se con figli piccoli. Che consente lo sgombero forzato e immediato per chi occupa una casa sfitta e prevede pene fino a 7 anni di carcere. Che senza tante storie mette fuori legge la cannabis light, e a rischio tutte le coltivazioni destinate al tessile e alla cosmesi, dopo avere rifiutato di incontrare aziende e agricoltori che fino a ieri erano in piena regola con agevolazioni fiscali e contributi europei. Persino i magistrati hanno protestato per il cosiddetto “panpenalismo” che trasforma ogni timore sociale in un allarme generale, ogni caso di cronaca in un temporale giudiziario. Ogni reato, purché abbia avuto ampia ridondanza mediatica, in un aggravamento della pena o in una nuova fattispecie di crimine, come l’omicidio nautico o le aggravanti per i femminicidi, già ampiamente previsti e sanzionati dal codice penale. “Il decreto è inquietante”, ha scritto l’Associazione nazionale magistrati. “Ha due obiettivi, creare nell’opinione pubblica un allarme sicurezza che non è giustificato da alcuna emergenza, e rafforzare la strategia penale contro il dissenso”. Tanto più che il decreto Sicurezza aumenta le pene per la resistenza a pubblico ufficiale e stabilisce “maggiori tutele anche legali a donne e uomini delle forze dell’ordine”, come recita il comunicato ufficiale del governo. Persuaso sempre dall’idea che la via più breve per affrontare i conflitti sociali - ignorando ragioni e torti, diritti al dissenso e legittime rivendicazioni - passi sempre per l’arresto, la pena, il carcere. Anche quando si tratta di reati commessi da minori, come insegna il decreto Caivano. La scuola e le tutele sociali possono aspettare. Meglio investire in punizioni. Ignorando che quasi sempre la forza esibita dallo Stato finisce per ridurre il bene prezioso della tolleranza che avrebbe bisogno della libera circolazione, senza manette, senza dazi. La giustizia e la riforma “blindata” dal Governo di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 9 aprile 2025 Con poco rispetto per i drammi delle guerre il termine “blindatura” si è diffuso. Un Ddl che ha incontrato difficoltà nel dibattito parlamentare viene clonato nel Decreto Legge sicurezza e blindato. La “blindatura” attinge al livello di guardia rispetto alla correttezza istituzionale quando la si impone per una revisione costituzionale. Il saggio Costituente ha invitato a ben riflettere, a pensarci non due, ma quattro volte, con un ulteriore spazio temporale di riflessione. “Separazione delle carriere tra giudici e Pm”, si dice, ma è una frode di etichette. Di ben altro si tratta: titolo del Ddl governativo “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale…” e nella relazione si parla di “rivisitazione della forma di autogoverno”. Il nuovo art. 104 Cost. ribadisce l’indipendenza dei giudici e dei Pm, ma il Csm, l’organo che la Costituzione ha posto a garanzia dell’indipendenza della magistratura, viene ridotto alla quasi irrilevanza. È spezzettato in due istituzioni non comunicanti, gli si sottrae la competenza disciplinare e, soprattutto, attraverso il sorteggio dei componenti se ne affida il funzionamento al caso. Il Ministro Nordio sostiene che “la separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio”, scomodando un termine teologico del Concilio di Nicea del 325 d.C. Se si evocano dogmi, il confronto diventa difficile, ma almeno non evocarli a sproposito. I modelli di accusatorio sono disparati nel mondo ed ancor più differenziati ruolo e struttura del Pm anche in quei sistemi. Nulla poi si può trarne a mo’ di sillogismo sul modello Csm, come garante dell’indipendenza della magistratura tutta. Negli ultimi mesi si sono succeduti dibattiti e seminari: le valutazioni sono state impietose. Nessuno difende la pseudo Alta Corte Disciplinare, sgangherata nella costruzione e che per di più, a fronte del preteso “lassismo” della gestione disciplinare del Csm (peraltro smentito dai dati) introdurrebbe lentezze e incongruità nel procedimento. Nessuno difende i due Csm non comunicanti, al punto che una proposta di emendamento era stata avanzata da esponenti della stessa maggioranza, prontamente rintuzzata dalla “blindatura”. Il metodo del sorteggio, per laici e togati, umiliante per il Parlamento non meno che per la magistratura, è sostenuto solo da coloro che accetterebbero questo prezzo assurdo pur di distruggere le correnti della magistratura. Ma l’analisi dei sistemi elettorali dimostra che, fin quando l’associazionismo dei magistrati (con il suo valore di espressione del pluralismo e con i suoi limiti) è radicato, il sorteggio sommerebbe tutti i difetti. Allineando le critiche avanzate su questi aspetti centrali, della proposta di riforma non rimarrebbe pressoché nulla da salvare. Ed allora un appello ai “consustanzialisti”, soprattutto agli avvocati e ai professori/avvocati aderenti all’Unione delle Camere Penali. Sostenete la separazione, ma, per favore, basta chiamare in causa Giovanni Falcone, Giuliano Vassalli e Giovanni Conso. Falcone, in un libro intervista, si espresse per il Pm “avvocato della polizia”, ma con tutto il rispetto per la sua luminosa figura si può dissentire. Scorrettissimo, nella sterminata produzione scientifica, saggi e volumi, di Conso e di Vassalli enucleare, in tutto, le poche righe di un intervento convegnistico del primo e di un’intervista a un settimanale inglese del secondo. Non è onesto, sulla base di quelle poche righe, pretendere di portare i due grandi studiosi a sostegno di tutto il “pacchetto” di questa riforma. Dubito proprio che Conso, che fu anche vicepresidente del Csm, ne avrebbe approvato il drastico ridimensionamento, dubito che un raffinato intellettuale come Vassalli avrebbe sostenuto l’umiliazione del sorteggio. Ed allora cari “consustanzialisti” la domanda che vi si può rivolgere è molto semplice. Per avere l’agognata separazione siete disposti ad ingoiare tutto il resto, che non è affatto contorno, ma piuttosto piatto forte? Palazzo del Quirinale 18 luglio 1959. Ministro della Giustizia Guido Gonella per l’insediamento del primo Csm: “Con ciò si effettua il trapasso dei poteri che la Costituzione attribuisce al Consiglio superiore e che il Governo e il ministro della Giustizia hanno finora esercitati. Lo stato di diritto, mentre afferma questo primato della legge, vuole che sia garantita l’imparziale giustizia per tutti e perciò avverte che la magistratura ha bisogno di indipendenza, di guarentigie della sua indipendenza. Ora l’indipendenza dei giudici è corroborata da nuove garanzie costituzionali e istituzionali. Un fondamentale precetto costituzionale trova oggi adempimento”. Quelle fondamentali guarentigie che il Ministro Gonella tanto enfatizzava come assicurate da una istituzione “forte” come il Csm oggi sarebbero messe a grave rischio. Forzare le leggi e piegare i giudici di Stefano Iannaccone Il Domani, 9 aprile 2025 La metamorfosi del ddl Sicurezza in decreto è la nuova frontiera degli strappi istituzionali. Preoccupano il tentato blitz sui ballottaggi, l’attacco alla Corte dei Conti, il Def in versione ridotta. Un disegno di legge controverso, contestato con veemenza dalle opposizioni e dalla società civile, che si trasforma in un decreto mentre l’emergenza vera sarebbe l’introduzione dei dazi. Un blitz per provare a stravolgere la legge elettorale delle comunali, che è una delle poche ad aver resistito a decine di cambi di maggioranza. E ancora: una modalità anomala di portare avanti il nuovo Def, accorciando i tempi di previsioni diventati biennali e non più triennali. Benvenuti nell’Italia di Giorgia Meloni in cui le procedure democratiche vengono piegate a piacimento in un processo di trumpizzazione quotidiana. Per informazioni rivolgersi alla magistratura contabile: la proposta di legge - in esame alla Camera - che riduce il margine di azione della Corte dei conti sembra una misura forgiata ad hoc contro chi viene individuato come un nemico della destra. Almeno in questo caso l’iter è quello solito. E che qualcosa stesse andando in una direzione anomala, era emerso fin dalle prime battute della legislatura quando la maggioranza ha usato uno stratagemma per affossare la proposta del salario minimo, portata avanti dalle opposizioni unite. Al posto di bocciare il testo delle opposizioni, la maggioranza ha inglobato il testo trasformandolo in una legge delega. Che a oltre un anno è ferma nei cassetti. Forzatura Sicurezza - La differenza con gli Stati Uniti di Donald Trump non è così forte in termini di azione. Ma se il presidente degli Usa è legittimato dal ricorso ai decreti esecutivi e al potere di veto, il governo Meloni si muove sul crinale con sprezzo del bon ton istituzionale. Fino a rischiare di far crescere le tensioni con il Quirinale. Perché è in corso una riforma della Costituzione di fatto. La decisione più clamorosa è stata la metamorfosi del ddl Sicurezza, diventato un decreto nel corso del Consiglio dei ministri della scorsa settimana. Un fatto più unico che raro. “Il governo passa sopra il lavoro fatto dalle due camere in due lunghissimi anni. Confidiamo che il presidente della Repubblica indichi all’esecutivo le enormi criticità che questo intervento normativo presenta”, dice a Domani Riccardo Magi, segretario e deputato di +Europa, che rilancia la necessità di “un referendum per abrogare questo decreto Schifezza”. Del resto con un gioco di prestigio, le norme dibattute per oltre un anno tra Camera e Senato sono state avvolte da un carattere di urgenza che ha richiesto l’emanazione di un apposito decreto. Solo che l’unica urgenza era quella comunicativa di Meloni. Ma non giustifica la scelta di abbandonare il ddl come un brutto anatroccolo, facendolo rinascere un cigno nelle fattezze di decreto. E c’è di più nel gorgo bulimico di strappi, si riscrive una parte del codice penale a colpi di decreti. Era stata fatta un’operazione simile con il decreto Anti-rave, primogenito tra i decreti meloniani. La portata in quel caso è stata ridotta e ricondotta alla ragionevolezza costituzionale, grazie alla mediazione del capo dello stato. Ora il presidente Sergio Mattarella si ritrova di fronte a un provvedimento amplissimo con una marea di materie interessate dal provvedimento. Aveva già fatto moral suasion su alcuni articoli del ddl, quelli più controversi, per espungerli. È vero che il governo da un lato ha recepito con correttivi minimali, ma dall’altro ha sfidato il Quirinale con una prova di forza. I tempi sono contingentati. Prima dell’estate il testo deve diventare legge, approvata dal parlamento, pena la decadenza e la crisi totale con la Lega di Matteo Salvini che si è intestato il provvedimento. Blitz elettorale - La trasformazione del disegno di legge è solo la nuova frontiera degli strappi istituzionali. Nell’ultima settimana la destra è scatenata nel mancato rispetto delle procedure istituzionali. Al Senato c’è stato un altro affronto: il tentativo di riformare la legge elettorale delle elezioni comunali con un singolo emendamento indebolendo l’istituto del ballottaggio. Per la maggioranza basta il 40 per cento al primo turno per evitare il secondo. Zero discussione, niente confronto in parlamento: la proposta dei capigruppo Lucio Malan (Fratelli d’Italia), Maurizio Gasparri (Forza Italia), Massimiliano Romeo (Lega) e Micaela Biancofiore (Noi moderati) è stata infilata nel decreto elezioni, che dovrebbe fissare le regole minime del prossimo voto, non stravolgere quelle condivise. L’operazione è stata forse sventata con l’intervento di Ignazio La Russa, secondo cui l’emendamento è inammissibile. Le opposizioni, dopo le garanzie fornite dal presidente del Senato, “danno per scontata l’inammissibilità perché una decisione diversa sarebbe clamorosa”, si apprende da fonti del Pd. La settimana è andata avanti con la vicenda del nuovo Def, che è il contrario della condivisione con il parlamento. Il testo è in dirittura d’arrivo, ma il governo ha deciso di fornire i numeri solo su base biennale. Il motivo? “L’unico è che ci sono delle cose da nascondere sull’anno 2028”, è la tesi in voga nelle opposizioni. La pietra angolare delle forzature è l’abuso delle questioni di fiducia. A oggi se ne contano già 81: in media sono 2,8 al mese che significa una delle più alte di sempre, in scia agli esecutivi tecnici di Mario Monti e Mario Draghi che, però, per la natura eterogenea delle loro maggioranze, erano chiamati a blindare i provvedimenti. Il ritmo è destinato a salire: altri voti di fiducia sono in arrivo, basti pensare proprio al decreto Sicurezza che, in virtù delle forzature compiute, sarà osteggiato dalle opposizioni. Lo sbocco della fiducia appare scontato. In assenza dei poteri di Trump, una specialità di Meloni trumpizzata. Perché il Decreto Sicurezza mi fa temere un ritorno al mix esplosivo della strategia della tensione di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2025 Caos, paura, terrore indotti ma controllati sono un ottimo viatico per la continuità dell’esercizio del potere e al contempo sono un potente fattore di distrazione. La repentina trasformazione del ddl “Sicurezza” in decreto legge non è stata soltanto un pegno d’amore offerto al tripudio di Salvini che andava a congresso con qualche fastidio; è anche un tassello decisivo all’interno di una strategia più ampia, spregiudicata e pericolosa, che ha come obiettivo, banale a dirsi, la conservazione dell’attuale assetto di potere ben oltre la fine “naturale” di questa Legislatura. Non alludo a tutto ciò che ogni maggioranza di governo fa, con differente eleganza, per fidelizzare le simpatie di coloro che intende rappresentare, cercando di assicurarsene voti e sostegno: se fosse soltanto questo alla destra degli eredi-al-quadrato (del Duce e di Berlusconi) basterebbe il disprezzo per la fiscalità e le casse dello Stato (dalle tasse che per Meloni sono “pizzo di Stato”, fino alla mortificazione della Corte dei Conti). Non alludo nemmeno alle prove muscolari ed intimidatorie con le quali si pavoneggiano pezzi di questo sistema di potere: se fosse per questo, basterebbero cose tipo l’attacco portato a reti unificate da Angelucci contro Cairo, reo secondo Angelucci e i suoi “bravi” di “riciclare” notizie dossierate prodotte dalla famigerata ditta DeBenedetti-Domani-Striano, con tanto di attacco personale al buon Formigli, novello Giletti. Manco Angelucci fosse Berlusconi. Alludo a qualcosa di più profondo e preoccupante che ha a che fare con la vecchia e indimenticata “strategia della tensione”. Caos, paura, terrore indotti ma controllati sono un ottimo viatico per la continuità dell’esercizio del potere e al contempo sono un potente fattore di distrazione rispetto a nodi irrisolti, risposte mancanti, fallimenti conclamati. Cosa del decreto legge “sicurezza” mi fa temere un ritorno a questo mix esplosivo? Il possibile combinarsi tra ciò che prevede il decreto all’articolo 31, soltanto parzialmente emendato in ossequio pare ai rilievi del Quirinale, con la stretta nelle carceri e la stretta nelle piazze imposte dal medesimo decreto. Il congegno così ottenuto ricorda il caricando degli archibugi: bisognava premere, premere, premere dentro la stretta canna, polvere da sparo con biglie di ferro e poi far scattare la scintilla esplodente tirando il grilletto. ?Prendete le carceri: le condizioni di vita sono generalmente indegne e rappresentano di per sé una violazione della Costituzione. Il governo non soltanto non prende alcun provvedimento per affrontare questo dramma, ma alza la tensione istituzionale con il Quirinale lasciando incancrenire la nomina del nuovo capo del Dap; poi alza la tensione dentro gli Istituti di pena (esponendo estremamente il personale penitenziario) ordinando la chiusura delle celle nell’alta sicurezza da ottenere ad ogni costo (l’alta sicurezza è un “colabrodo”, il che però ha poco a che fare con la gestione delle porte) e infine da oggi con il Decreto Sicurezza criminalizza in maniera mai vista prima ogni forma di protesta, persino quella nonviolenta che si limita a disobbedire ad un ordine, con una condotta passiva. Fin qui la “stretta”. E la “scintilla”? Se ce ne fosse ancora bisogno e c’è da dubitarne, potrebbe essere proprio contenuta nell’art 31 che prevede che i Servizi di Sicurezza dello Stato possano fare un ricorso ampio proprio alla licenza di commettere certi reati che invece per i comuni mortali sono stati aggravati dal medesimo decreto. Quali? L’istigazione a delinquere e l’apologia di reato (art. 302 e 414 cp). Detto altrimenti: licenza a fare gli agenti provocatori che è cosa ben diversa dal fare gli agenti infiltrati, che in quanto tali non possono che favorire condotte criminali decise e poste in essere da altri. Tutti avvertiti! Nelle carceri (come nelle piazze) ci vorranno prudenza e sangue freddo, meglio diffidate di “camorristi” furiosi e bellicosi, per dire. I neri al governo potrebbero obiettare che la licenza a provocare la commissione di delitti, così come la licenza a dirigere organizzazioni criminali, anch’essa prevista dall’art. 31 e dal vago sapore “pacificatorio” (avendo le norme penali più favorevoli valore retroattivo), saranno sottoposte a severi e rigorosi giudizi di necessità per la sicurezza nazionale. Bene! Sarò disposto a crederlo quando Meloni e Mantovano avranno aperto gli archivi dei Servizi segreti facendo luce sulla Falange Armata a cominciare dal delitto Mormile (che proprio in carcere faceva l’educatore) e quando avranno detto tutta la verità sull’utilizzo di Graphite il programma di captazione di Paragon. Perché non basta, come già avvenuto, che Mantovano ammetta che i Servizi lo abbiano usato contro gli attivisti di Mediterranea, fatto di per sé gravissimo (dove sta la minaccia alla sicurezza nazionale?), bisogna che spieghi chi e perché lo abbia usato contro Francesco Cancellato, il direttore di Fanpage. Perché questa precisa questione è così dirimente? Perché l’articolo 17 della legge sui Servizi di Sicurezza (la 124 del 2007) proibisce esplicitamente che attività del genere vengano realizzate verso partiti rappresentati in Parlamento, sindacati e giornalisti professionisti. Fuori i nomi! *Articolo 21 Piemonte, Deputato Partito Democratico nella XVII Legislatura Carriere separate, arriva al Csm la proposta per arginare le “propaganda” delle toghe di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 aprile 2025 Una pratica per la definizione di “linee guida in ordine alla partecipazione dei magistrati ad eventi pubblici e per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione nel rispetto dell’interesse costituzionale alla garanzia del prestigio, della credibilità, dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura”. A proporla al Csm è stato, due giorni fa, il professor Felice Giuffré, componente laico eletto a Palazzo Bachelet su indicazione Fratelli d’Italia: il consigliere ha inviato la richiesta al Comitato di presidenza dell’organo di autogoverno delle toghe dopo giorni di aspre polemiche fra politica e Anm. “Sempre più spesso negli ultimi mesi è stato posto all’attenzione, sia del Csm e sia nel dibattito pubblico, il tema del corretto bilanciamento tra le libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione del magistrato, e i limiti che alle stesse situazioni giuridiche derivano in considerazione del suo particolare status di appartenente all’ordine giudiziario e, dunque, in ragione delle delicatissime funzioni che l’ordinamento gli assegna”, puntualizza Giuffrè. La Corte costituzionale, va ricordato, con diverse sentenze, la prima già nel 1976, ha fissato dei limiti anche impliciti alla libertà di manifestazione di pensiero, di riunione e di associazione dei magistrati, nell’esigenza di tutela del prestigio e della credibilità dell’ordine giudiziario e quindi dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giurisdizionale. “A bilanciamento tra istanze di libertà individuale e altri interessi di pregio costituzionale sono del resto poste anche le previsioni normative di rango primario che valgono a sanzionare talune condotte extra-funzionali del magistrato o a considerare, in sede di valutazione di professionalità, i prerequisiti di equilibrio e indipendenza”, ricorda il professore. “Il tema”, aggiunge, “assume un rilievo particolarmente delicato in considerazione dell’enorme ampliamento di canali e, quindi, di opportunità comunicative “senza filtri” che le nuove tecnologie e, in particolare, i social network offrono ai singoli, e perciò anche agli appartenenti all’ordine giudiziario”. Come evidenziato da Giuffrè, ci sono state diverse discussioni all’interno del Csm in merito al rilievo delle esternazioni di magistrati che erano intervenuti su temi della attualità politica, esprimendo critiche aspre in ordine agli indirizzi di politica giudiziaria del governo di centrodestra e anche nei confronti degli esponenti politici o dei singoli partiti che se ne erano fatti sostenitori. “In taluni casi, tali critiche sono state espresse da magistrati all’interno di sedi di partito o, comunque, nell’ambito di manifestazioni di partito e anche senza alcun contradditorio”, sottolinea ancora Giuffrè. Uno degli ultimi casi aveva riguardato il segretario di Magistratura democratica, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Stefano Musolino, che, per aver partecipato a un dibattito in un centro sociale e aver criticato alcuni provvedimenti del governo, era stato oggetto di un procedimento per incompatibilità ambientale presentato (e poi archiviato) al Csm su richiesta delle componenti laiche Isabella Bertolini (anche lei indicata da FdI) e Claudia Eccher (di “area” Lega). Che il tema, dunque, sia quanto mai attuale, lo ha evidenziato anche la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano proprio nel corso della discussione sul caso “Musolino”, durante la quale aveva auspicato l’apertura di una pratica per la formulazione di apposite linee guida a tutela del prestigio dell’ordine giudiziario. A tal riguardo, Magistratura indipendente, la corrente conservatrice, nel corso dell’ultima riunione del Comitato direttivo centrale (il cosiddetto parlamentino) dell’Associazione nazionale magistrati, si era fatta promotrice di una mozione, non approvata, che invitava i colleghi a declinare l’invito a partecipare ad eventi “organizzati in via esclusiva da partiti politici in occasione della prossima campagna referendaria”. “La credibilità della magistratura è un valore essenziale in uno Stato democratico: si custodisce e si coltiva tanto nell’esercizio delle funzioni, quanto con i comportamenti pubblici dei singoli”, avevano scritto le toghe di “Mi”, ponendo l’accento sul principio per cui il magistrato non solo deve essere ma anche “apparire” imparziale e indipendente. “È necessario definire delle linee guida in ordine alla partecipazione dei magistrati in contesti pubblici o aperti al pubblico (interviste, programmi televisivi, convegni, dibattiti, social network, etc.) al fine di precostituire un valido parametro di bilanciamento tra le libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione con l’interesse costituzionale alla tutela del prestigio e della credibilità dei magistrati e dell’ordine giudiziario nel suo complesso”, ha quindi concluso Giuffrè. Considerate, però, le diverse sensibilità presenti al Csm, e l’atavica ritrosia da parte dei gruppi progressisti della magistratura a mettere “paletti” su questa materia, difficilmente si troverà un punto d’incontro. È ufficiale il dietrofront sulla Giornata per le vittime di errori giudiziari di Valentina Stella Il Dubbio, 9 aprile 2025 Il Governo rinvia la discussione sul ddl, priorità alla separazione delle carriere e alla riforma della custodia cautelare. Tensioni in vista dell’incontro tra Nordio e l’Anm. Il calendario di ieri della commissione Giustizia di Montecitorio poteva trarre in inganno: c’era infatti scritto che ci sarebbero state delle votazioni in merito alla proposta di legge per l’istituzione di una giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari. Tuttavia non si è riusciti né a dare il mandato ai relatori per riferire all’Aula né si sono votati gli emendamenti. Mancava il parere del governo. La norma dunque dovrebbe arrivare nell’emiciclo di Montecitorio il 15 aprile solo per consentire al presidente della stessa commissione, il deputato di FdI Ciro Maschio, di comunicare la situazione di stallo e formalizzare il ritorno della pratica nell’organismo da lui guidato. Da quanto si è appreso, il congelamento durerà addirittura qualche mese perché, come già più volte raccontato su queste pagine, l’intenzione del governo e della maggioranza è concentrarsi sulla modifica costituzionale della separazione delle carriere (ora in discussione nella commissione Affari costituzionali del Senato), sulla riforma della Corte dei Conti (ieri sono state respinte le pregiudiziali delle opposizioni nell’aula di Montecitorio), sulle modifiche al codice di rito per il sequestro degli smartphone (approvato in Senato e incardinato in commissione Giustizia alla Camera qualche giorno fa). Fine dei programmi, anzi del programma “realisticamente attuabile” nel campo della giustizia, nessuno spazio per dossier come la giornata sugli errori giudiziari. La logica è duplice: abbassare i toni nello scontro con l’Anm, ed evitare che riforme dalle sembianze troppo ostili alla magistratura possano “indisporre” quella parte dell’elettorato di destra comunque favorevole alle toghe. Se è vero che le parole pronunciate lunedì da Alfredo Mantovano alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario del Cnf hanno riacceso le polemiche con la magistratura, il governo non devia dalle decisioni assunte in una recente riunione di maggioranza con il guardasigilli. Non è un caso che la legge sulla giornata per le vittime degli errori giudiziari vada a finire su un binario morto proprio in questi giorni. Il 15 aprile infatti l’Anm incontrerà il ministro Nordio. È una pura coincidenza che il testo arriverà quel giorno in Aula, ma non lo è il suo inevitabile ritorno in Commissione. Necessario proprio per gettare acqua sul fuoco: l’Anm arriva all’incontro con Nordio con animo già poco sereno, quasi rassegnato, proprio a causa di recenti dichiarazioni del ministro. Come ha sottolineato il segretario del “sindacato”, Rocco Maruotti, nell’ultimo parlamentino delle toghe, “siamo da un lato invitati al dialogo, cosa che del resto abbiamo sempre chiesto e proposto anche noi, dall’altro in occasioni pubbliche veniamo accusati di dire sciocchezze colossali e petulanti litanie (si riferisce a un evento delle Camere penali del Friuli, ndr): si pone un tema di affidabilità, perché un guardasigilli che vuole dialogare con chi pensa dica sciocchezze colossali ci fa pensare che l’incontro potrebbe risolversi in un nulla di fatto, seppure riguardi molte questioni importanti in tema di efficienza della giustizia”. Tra le riforme lasciate ai box dalla maggioranza c’era anche quella sulla custodia cautelare. Eppure, proprio all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf Nordio ha sottolineato l’urgenza di rivedere i criteri per la sua applicazione. Per questo il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone, ci dice: “Stiamo valutando la possibilità di chiedere un incontro al ministro per rappresentargli la nostra urgenza affinché si discuta quanto prima la nostra proposta di legge che punta a modificare l’articolo 299 del codice di procedura penale, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze cautelari, il rischio di reiterazione del reato. Sono ovviamente esclusi i reati di maggiore allarme sociale, come mafia e terrorismo, e quelli a sfondo sessuale. Visto che il ministro Nordio in ogni incontro pubblico e anche in Parlamento lancia spesso l’allarme sull’abuso della custodia preventiva, abbiamo fiducia che al più presto farà qualcosa”. Secondo il primo firmatario della proposta, “tre sono gli obiettivi di questa norma: scongiurare che presunti innocenti vengano ristretti, evitare che le ingiuste detenzioni gravino poi sulle casse dello Stato, ridurre il sovraffollamento”. Risarcimento per violazione dello spazio minimo individuale del detenuto in cella Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2025 Giustizia - Violazione art 3 CEDU - Letto a castello - Spazio disponibile - Movimento del detenuto in cella - Compromissione - Risarcimento Dal punto di vista dell’accertamento della compromissione della possibilità di movimento del detenuto nella cella rileva allo stesso modo lo spazio occupato dal letto singolo, così come di quello occupato dal letto a castello. L’ingombro del letto singolo, pur se amovibile, deve essere scomputato dalla superficie della cella a disposizione del detenuto. Si tratta, infatti, di arredo, che, sebbene non fissato sul pavimento, non è suscettibile, per il suo ingombro o peso, di facile spostamento da un punto all’altro della cella e, pertanto, compromette il movimento del detenuto al suo interno. Corte di Cassazione, pen., sez. I, Sentenza del 03 aprile-2025, n. 12849 Carceri e sistema penitenziario - Libertà personale - Detenzione in condizioni inumane e degradanti - Spazio individuale minimo intramurario - Modalità di computo - Arredi fissi - Rilevanza - Necessità di considerare anche il letto singolo. (Legge 26 luglio 1975 n. 354, articolo 35-ter; Cedu, articolo 3). In tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati, previsti dall’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario, con specifico riferimento al profilo di lesione integrato dalla ristrettezza dello spazio all’interno della camera di pernottamento, in caso di spazio a disposizione pro-capite inferiore ai tre metri quadri, esiste per vincolo convenzionale una forte presunzione di disumanità del trattamento, superabile dalla compresenza di fattori compensativi che (costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività), se congiuntamente ricorrenti, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’articolo 3 della Cedu derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore ai tre metri quadrati; mentre, nel caso di disponibilità di uno spazio individuale compreso fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi concorrono, unitamente ad altri di carattere negativo, alla valutazione unitaria delle condizioni complessive di detenzione (cfr. sezioni Unite, 24 settembre 2020, ministero della Giustizia in c. Commisso). Al riguardo, per la determinazione dello spazio a disposizione, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano non solo i letti a castello, ma anche il letto singolo del soggetto ristretto, in quanto anch’esso arredo tendenzialmente fisso al suolo, non suscettibile, per il suo ingombro o peso, di facile spostamento da un punto all’altro della cella e tale da compromettere il movimento agevole del predetto al suo interno. Corte di Cassazione, pen., sez. I, Sentenza del 18 marzo 2024, n. 11207 Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Divieto di trattamenti inumani o degradanti - Spazio individuale minimo intramurario - Modalità di computo - Arredi fissi - Rilevanza. Nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. Corte di Cassazione, pen., sez. U, Sentenza del 19 febbraio 2021, n. 6551 Sospensione condizionale preclusa a chi abbia riportato due precedenti condanne di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2025 La Cassazione rammenta che la concessione della sospensione condizionale della pena è preclusa a chi abbia riportato due precedenti condanne. La sospensione condizionale è preclusa a chi abbia riportato due precedenti condanne per delitti. Lo ha rammentato la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 12361/2025 pronunciandosi sul ricorso di un imputato condannato (per i reati di cui agli articoli 497 bis, co. 1 e 2, e 495 c.p.) a un anno e quattro mesi di carcere, con esclusione del beneficio della sospensione condizionale della pena. La vicenda - L’uomo adiva la Cassazione, lamentando vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza degli elementi costitutivi dei reati contestati, mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex articolo 131-bis c.p., e soprattutto diniego di concessione della sospensione condizionale della pena. In merito, adduceva che la Corte territoriale aveva ritenuto non sussistere i presupposti di cui agli articoli 175 e 165, comma 2, cod. pen., per avere lo stesso riportato una precedente condanna a pena sospesa. Secondo il ricorrente, tuttavia, si era di fronte ad una motivazione “carente e meramente assertiva, in quanto non espliciterebbe le ragioni di una prognosi negativa in ordine all’astensione da future condotte delittuose”. Senza contare che “l’esistenza di una precedente condanna non costituirebbe di per sé ostacolo alla concessione del beneficio, alla luce del disposto dell’art. 164, comma 4 cod. pen. il quale indica quale causa ostativa il superamento, nel complesso del limite di due anni, che nella specie non sarebbe stato superato”. Presupposti sospensione condizionale - Ritenuti infondati gli altri motivi, la S.C. si è concentrata sulla mancata concessione della sospensione condizionale della pena ritenendo la doglianza fondata. Ai sensi del comma 4 dell’articolo 164 cod. pen., rilevano preliminarmente i giudici, “la sospensione condizionale della pena può essere concessa a chi ne abbia già fruito una volta, qualora la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna, non superi i limiti stabiliti dall’art. 163 cod. pen.”. In ogni caso, aggiungono, la concessione della sospensione condizionale è “preclusa a chi abbia riportato due precedenti condanne a pena detentiva per delitto, anche quando il beneficio non è stato applicato in relazione alla prima condanna, ed indipendentemente dalla durata complessiva della reclusione come determinata per effetto del cumulo di tutte le sanzioni irrogate e da irrogare (cfr. Cass. n. 41645/2014)”. Invece, la presenza “di una sola precedente condanna a pena non sospesa non impedisce la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena in sede di nuova condanna intervenuta in epoca successiva alla prima, purché la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la condanna precedente, non superi il limite (cfr., tra le altre, Cass. n. 8367/2023). Inoltre, proseguono da piazza Cavour, “secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della seconda concessione del beneficio, non deve tenersi conto, nel computo della pena complessiva rilevante ai sensi dell’art. 163, comma primo, ultima parte, cod. pen., anche della pena pecuniaria inflitta e dichiarata sospesa nella prima condanna, ragguagliata a quella detentiva (cfr. Cass. n. 42640/2024)”. Ad ogni modo, “presupposto per l’operatività del limite posto dall’art. 164 comma 2, n. 1 cod. pen., è che la precedente condanna inflitta attenga ad un delitto”. La decisione - Nel caso in esame, a fondamento della mancata concessione del beneficio, il giudice di merito ha addotto unicamente la circostanza che il ricorrente aveva riportato una precedente condanna, la quale tuttavia, concernendo un reato contravvenzionale, “non era di per sé ostativa al riconoscimento della sospensione condizionale della pena, omettendo di svolgere quel giudizio prognostico di non recidiva che costituisce il fondamento per il riconoscimento della sospensione condizionale della pena”. Per cui, concludono gli Ermellini, la sentenza impugnata va annullata con rinvio limitatamente alla questione concernente la sospensione condizionale della pena, mentre il ricorso va rigettato nel resto. La “non menzione” non può essere negata per “mera opportunità” di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2025 La Cassazione rammenta che ai fini della non menzione, in una prospettiva di risocializzazione, è precluso il riferimento alla natura del reato. Non si può negare la “non menzione” per ragioni di mera opportunità. In una prospettiva di risocializzazione, infatti, è precluso, il riferimento alla natura del reato. Lo ha rammentato la sesta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 13263/2025, decidendo il ricorso di un imputato avverso la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro che riqualificava l’originario reato ex articolo 355 c.p., rideterminava la pena e negava il richiesto beneficio della non menzione. La vicenda - L’uomo adiva, tramite il proprio difensore, il Palazzaccio, lamentando l’esclusione della punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis cod. pen., visto che, a seguito della riqualificazione del reato inizialmente contestato, ne ricorrevano tutti i presupposti. Deduceva, inoltre, mancanza e vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, posto che gli era stata irrogata una pena incongrua, nonostante la riqualificazione del reato in uno punito assai meno gravemente. E, soprattutto, lamentava la mancanza di motivazione in ordine al diniego del beneficio della non menzione. Nell’atto d’appello erano stati chiesti entrambi i benefici di legge, mentre la Corte, “senza motivazione, che tenesse conto della ratio del beneficio e dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., aveva negato la concessione della non menzione, che peraltro - a dire dell’imputato - avrebbe potuto essere riconosciuto direttamente dalla Corte di cassazione”. La decisione - Gli Ermellini ritengono il primo motivo di ricorso manifestamente infondato, mentre concordano sulle altre doglianze. In ordine al profilo di incongruità della pena irrogata, “solo di poco inferiore a quella determinata in primo grado alla luce dell’originaria contestazione di un reato assai più grave e comunque calcolata muovendo da una base di anni due, più elevata della linea mediana tra il minimo e il massimo - affermano infatti - in assenza di una specifica motivazione, non può dirsi infondato e men che mai inammissibile”. Fondato, è altresì il terzo motivo, con il quale si contesta la mancata concessione del beneficio della non menzione, “in relazione ad una valutazione di mera opportunità rispetto alla tipologia di reato, giudizio disancorato dal dato normativo che impone di tener conto anche ai fini della non menzione dei canoni di cui all’art. 133 cod. in una prospettiva di risocializzazione, essendo precluso il riferimento alla natura del reato (cfr. Cass. n. 46826/2024)”. Da qui l’annullamento della sentenza impugnata, senza rinvio perché il reato, nelle more, si è estinto per intervenuta prescrizione. Emilia Romagna. Sì unanime dell’Assemblea legislativa alle Comunità Educanti per Carcerati di Giorgio Paolucci Avvenire, 9 aprile 2025 Non capita spesso che maggioranza e opposizione votino allo stesso modo, specialmente su argomenti controversie divisivi come il carcere. Viene da pensare che in questi casi l’oggetto del confronto e la preoccupazione per il bene comune prevalgono sulle logiche di schieramento che sovente impediscono la soluzione dei problemi. È accaduto all’assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna con la votazione all’unanimità di un ordine del giorno al Documento economico finanziario regionale in cui si impegna la giunta a sopportare economicamente i percorsi di esecuzione penale esterna promossi dalle Comunità educanti con i carcerati (CEC) presenti sul territorio emiliano-romagnolo, e a proporre nella Conferenza unificata Stato-Regioni il modello delle CEC come soluzione alternativa al sovraffollamento carcerario. La proposta è arrivata dalla consigliera regionale Valeria Castaldini (Forza Italia), da tempo impegnata su questi temi, ed è frutto di un percorso che ha coinvolto l’Assemblea legislativa regionale dalla scorsa legislatura. Il tasso di sovraffollamento nelle carceri dell’Emilia-Romagna è del 111,1%, il 35% dei detenuti ha un residuo di pena ridotto e tale da permettere l’accesso a misure alternative alla detenzione. La Comunità Papa Giovanni XXIII da anni sperimenta in varie sedi della Regione il progetto CEC, un percorso educativo per detenuti che beneficiano di una misura alternativa al carcere e che concepisce la pena come occasione rieducativa, in ossequio a quanto stabilito dalla Costituzione. I numeri sono eloquenti: a livello nazionale il 70% dei detenuti dopo la dimissione dal carcere commette nuovamente un reato, mentre la recidiva precipita al 15% per le persone ospitate in queste comunità. Le quali peraltro finora non hanno ricevuto nessun contributo per l’accoglienza dei detenuti. Da notare che il costo per ogni detenuto ospitato è di 35 euro al giorno contro i 140 euro spesi dall’amministrazione penitenziaria. Valentina Castaldini evidenzia che l’approvazione all’unanimità del documento “è il risultato di un percorso intrapreso tempo fa con l’approdo in Assemblea legislativa della mostra “Dall’amore nessuno fugge. Apac dal Brasile all’Emilia - Romagna”, che ha visto il coinvolgimento di Giorgio Pieri, responsabile del progetto CEC, e del garante regionale dei detenuti della Regione Emilia-Romagna”. La mostra ha presentato il modello delle Apac, un’associazione della società civile nata in Brasile che ha come obiettivo l’umanizzazione della pena e che è stata riconosciuta come modello di eccellenza dall’Unione Europea, un modello che in Italia ha trovato espressione nel progetto CEC. tappa di questo percorso è stata la recente visita fatta dalla giunta regionale, accompagnata dalla consigliera Castaldini, alla comunità CEC di Montefiore (Rimini) per farle conoscere da vicino queste realtà. L’inserimento delle persone provenienti dal sistema detentivo rappresenta una sfida cruciale per il loro futuro. Sebbene il tema del carcere venga spesso considerato una questione esclusivamente statale, i territori giocano un ruolo determinante nella costruzione di percorsi di reinserimento. Ora l’Emilia-Romagna può diventare apripista in un ambito strategico. E questo segnale di unità oltre gli schieramenti può indicare strade nuove alla politica. Cuneo. In carcere da pochi giorni, si toglie la vita di Giulia D’Aleo La Repubblica, 9 aprile 2025 Era entrato in carcere a fine marzo, in attesa di giudizio per maltrattamenti in famiglia e stalking. Ma nella sua cella ha resistito poco più di una settimana. Ieri mattina Daniele Triglia, 44 anni, si è tolto la vita con un cappio rudimentale. La Polizia penitenziaria se n’è accorta troppo tardi: per un po’ hanno tentato di rianimarlo, ma non c’era già più nulla da fare. “Il personale di polizia penitenziaria è prontamente intervenuto tentando ogni possibile manovra di soccorso, in attesa dell’arrivo del medico di turno e, successivamente, del personale del 118. Purtroppo, ogni tentativo si è rivelato vano”, ha raccontato Vicente Santilli, segretario per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Non è più solo un problema di sovraffollamento carcerario, con cifre che raggiungono in alcuni penitenziari oltre il 70% in più delle capienze consentite e non è neanche una questione solo di organici (mancano il 20% degli agenti con punte in alcune sedi di oltre il 35%) o di fatiscenza delle infrastrutture nonostante che il 70% degli istituti penitenziari sia in condizioni disastrose e necessiti di urgenti ristrutturazioni, ma l’emergenza riguarda l’assenza di una politica penitenziaria nazionale e in grado di produrre risultati concreti”. Interviene con una nota Leo Beneduci segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, commentando il suicidio di un detenuto a Cuneo. Per il sindacalista il “problema gravissimo e inaccettabile dei suicidi in carcere e che sta raggiungendo cifre mai viste è la riprova di un sistema che fa acqua da tutte le parti”. “È sempre doloroso, per chi lavora nel mondo penitenziario, trovarsi di fronte a simili tragedie che lasciano un senso di impotenza e di profonda amarezza - aggiunge Santillli - Ma ancora una volta, siamo costretti a sottolineare quanto la questione del disagio psichico e del rischio di suicidio all’interno degli istituti penitenziari rappresenti una vera emergenza nazionale”. “Non possiamo più limitarci alla conta delle tragedie - aggiunge - Occorre un cambio di passo concreto e immediato: non si può parlare di sistema penitenziario senza tutelare realmente la dignità e la sicurezza, tanto dei detenuti quanto del personale che ogni giorno vi lavora”. “Questo ulteriore suicidio avvenuto nel carcere di Cuneo deve far riflettere sulla condizione in cui vivono i detenuti e su quella in cui è costretto a operare il personale di Polizia Penitenziaria”, commenta. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe “questi drammatici eventi, oltre a costituire una sconfitta per lo Stato, segnano profondamente i nostri agenti che devono intervenire - prosegue - Si tratta spesso di agenti giovani, lasciati da soli nelle sezioni detentive, per la mancanza di personale”. Taranto. Detenuto in coma dopo aver tentato il suicidio: richieste di condanna per due agenti di Alessandra Cannetiello Gazzetta del Mezzogiorno, 9 aprile 2025 Doveva essere controllato h24 ma i poliziotti intervennero solo 25 minuti dopo. La procura ha chiesto per entrambi la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Sono due le condanne richieste dalla procura di Taranto nei confronti dei due agenti di polizia penitenziaria coinvolti nell’inchiesta nata dopo il tentato suicidio di un detenuto all’interno dell’ospedale Santissima Annunziata. È stato il sostituto procuratore della Repubblica Marzia Castiglia, al termine della sua requisitoria, a chiedere una pena di 3 anni e 6 mesi per ciascuno dei due imputati. I fatti risalgono a marzo 2018 quando il detenuto, ancora oggi in coma, era stato trasferito per problemi di salute dall’istituto “Carmelo Magli” nella cella sanitaria all’interno del nosocomio ionico. I due poliziotti, difesi dagli avvocati Gianluca Mongelli e Gianluca Sebastio, erano dotati “di una postazione con sistema di videosorveglianza” che inquadrava la stanza con l’obbligo di tenere l’uomo sotto stretta osservazione: il 25 marzo di 7 anni, però, il detenuto aveva dapprima legato un’estremità del maglione alla cerniera della porta del bagno della stanza e poi aveva stretto l’altra estremità intorno al collo nel tentativo di farla finita senza che i due agenti, secondo il quadro accusatorio, se ne accorgessero. L’uomo era rimasto in quella posizione “per circa 25-30 minuti”: la prolungata mancanza di ossigeno aveva così causato una serie di danni all’organismo al punto che da quel giorno l’uomo versa in uno stato vegetativo permanente. In quell’intervallo di tempo, secondo gli inquirenti coordinati all’epoca dal pubblico ministero Giovanna Cannarile, i due poliziotti “pur essendo obbligati a intervenire con assoluta urgenza, si portavano - si legge negli atti dell’inchiesta - all’interno della stanza in soccorso del detenuto solamente dopo un lungo lasso di tempo”. Ed è per questo che la procura, al termine delle attività investigative, ha contestato agli imputati le ipotesi di reato di omissione di atti d’ufficio, lesioni in conseguenza di altro delitto, falso materiale e soppressione e distruzione di atto pubblico. Quest’ultima accusa, infatti, è legata al tentativo secondo la procura di far sparire il video di quei momenti catturato dalle telecamere di video sorveglianza. La scena era stata ovviamente ripresa dagli obiettivi dei dispositivi di controllo: secondo l’accusa con l’aiuto di un tecnico, il file video era stato trasferito in un hard disk che gli imputati hanno portato via “provvedendo a eliminare il suddetto filmato”. Ieri mattina, tuttavia, il pm Castiglia ha depositato il video che inizialmente era considerato scomparso. Rieti. Rissa fra detenuti stranieri, uno è in coma di Emanuele Faraone Il Messaggero, 9 aprile 2025 Una violenta aggressione è avvenuta nel primo pomeriggio di ieri nel carcere di Rieti, dove un gruppo di detenuti di origine nordafricana ha dato vita a un feroce scontro all’interno della propria cella. L’incidente ha coinvolto un gruppo di detenuti ristretti al 2 piano G1, portando a un violento regolamento di conti. La rissa, scatenata da motivi legati a contrasti interni, ha visto i detenuti utilizzare armi improvvisate e oggetti contundenti come sgabelli di legno. Uno dei detenuti coinvolti, gravemente ferito, è stato soccorso e trasportato d’urgenza all’ospedale di Rieti. Le sue condizioni sono molto critiche: il detenuto è stato ricoverato in coma, con prognosi riservata. Non accenna a placarsi la tensione nella struttura penitenziaria di Rieti, da mesi al centro delle cronache per il reiterarsi di diversi eventi critici. Poiché nessuno è profeta in casa propria, quello che è accaduto oggi nella Casa di circondariale di Rieti conferma quanto denunciato in questi giorni sulle criticità che stanno attanagliando la serenità lavorativa dei poliziotti penitenziari, che ogni giorno devo garantire ordine e disciplina all’interno dei reparti detentivi della struttura penale”. Lo afferma Maurizio Somma, segretario per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, che da notizia di quanto avvenuto nelle ultime ore. “Una violenta aggressione ha scosso questo pomeriggio il carcere di Rieti, dove un gruppo di detenuti di origine nordafricana ha dato vita a un feroce scontro all’interno della propria cella. L’incidente, che si è verificato nelle prime ore del pomeriggio, ha coinvolto un gruppo di detenuti ristretti al 2 piano G1, portando a un violento regolamento di conti. La rissa, scatenata da motivi legati a contrasti interni, ha visto i detenuti utilizzare armi improvvisate e oggetti contundenti come sgabelli di legno. La violenza della scena ha sorpreso gli altri detenuti e messo a serio rischio l’incolumità di tutti i presenti”. Il sindacalista evidenzia che “il tempestivo intervento del personale della Polizia Penitenziaria ha evitato una tragedia ancora più grave. Grazie alla prontezza dei poliziotti penitenziari, uno dei detenuti coinvolti, gravemente ferito, è stato immediatamente soccorso e trasportato d’urgenza all’ospedale di Rieti. Le sue condizioni sono molto critiche: il detenuto è stato ricoverato in coma, con prognosi riservata”. “Ancora una volta, ci troviamo a denunciare un episodio che non può essere considerato un fatto isolato, ma che si inserisce in un contesto ormai ben noto: le carceri italiane, e in particolare quelle laziali, sono da tempo teatro di eventi critici e aggressioni che mettono a rischio l’incolumità del personale - rimarca Somma - Gli agenti della Polizia Penitenziaria continuano a operare in condizioni di costante tensione, spesso in solitudine operativa e senza gli strumenti adeguati che il Sappe ha più volte richiesto con forza alle istituzioni competenti. È inaccettabile che la sicurezza degli operatori venga sistematicamente sottovalutata”. “Per questo - conclude - chiediamo un intervento concreto e non più rinviabile da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, affinché si adottino misure urgenti per tutelare chi, ogni giorno, garantisce la legalità e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari. Il lavoro della Polizia Penitenziaria merita rispetto, ascolto e risposte”. Appello che raccoglie e condivide Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “Grazie al tempestivo intervento, al grande spirito di collaborazione e professionalità di tutto il personale di Polizia Penitenziaria di Rieti la situazione si è subito normalizzata senza ulteriori problemi per l’ordine e la sicurezza del carcere e degli altri ristretti, ma sono stati attimi di violenza assurda e gratuita. Plauso del Sappe al personale di Polizia Penitenziaria di Rieti, il cui organico si auspica che possa essere incrementato al fine di poter operare in condizione di maggior sicurezza e benessere, che, nonostante i turni e le numerose ore lavorative al giorno, riesce a svolgere quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici”. Bologna. Diritti dei detenuti trans: “Negate terapie ormonali” di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 9 aprile 2025 La situazione della minoranza transgender in carcere è al centro del convegno promosso dal Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, in programma oggi, dalle 14 alle 18, nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione, a Bologna e che vuole anche essere un momento introduttivo alle tante iniziative collegate alla Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia che si celebra il 17 maggio. “Il transgender in carcere è soggetto a una situazione di doppia difficoltà, in quanto limitato della libertà e per la sua appartenenza a una particolare minoranza. Viene considerato di frequente parte ‘divisiva’ del sistema penitenziario e per questo servirebbe attivare percorsi personalizzati che tengano conto di questa condizione particolare e che non trascurino l’aspetto del disagio psichico che queste persone spesso manifestano”, spiega Cavalieri. Durante il convegno, dal titolo “Carcere, transessualità e limitazione della libertà personale. Dall’esperienza di Reggio Emilia all’Italia”, è previsto anche uno specifico approfondimento sulla sezione dedicata ai transgender nel carcere di Reggio Emilia, l’unica in Emilia-Romagna. Nella sezione reggiana (attiva dal 2018), denominata Orione, sono presenti una decina di transgender. Il problema per questa particolare categoria di detenuti, a Reggio Emilia come nel resto d’Italia (una settantina nelle carceri italiane), riguarda l’offerta di servizi rientranti nel trattamento in carcere, decisamente più carente rispetto ai detenuti maschi. L’istruzione, la formazione professionale e l’accesso al lavoro, elementi essenziali nel percorso rieducativo rivolto ai detenuti, non vengono ancora garantiti ai transgender detenuti a Reggio Emilia. Situazione che si traduce per queste persone in un vero e proprio isolamento, con la conseguenza della violazione di un diritto fondamentale. L’assistenza sanitaria è un altro diritto inviolabile che deve essere garantito alle persone detenute. Nel caso dei transgender deve essere assicurata la fruizione delle terapie ormonali e della psicoterapia a supporto del percorso di transizione. Un aspetto che, però, non trova piena attuazione a Reggio Emilia, a causa della carenza in struttura di personale sanitario. I relatori al convegno, oltre allo stesso Garante Roberto Cavalieri, sono Elena Carletti (presidente della commissione Parità dell’Assemblea legislativa), Marco Bedini (magistrato di sorveglianza a Reggio Emilia), Silvio Di Gregorio (provveditore dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche), Giovanni Torrente (docente dell’Università di Torino), Giulia Fabini (presidente dell’associazione Antigone in Emilia-Romagna), Sofia Ciuffoletti (direttrice dell’associazione Altro Diritto), Samuele Ciambriello (garante dei detenuti della Campania), Bruno Mellano (garante dei detenuti del Piemonte), Annalisa Rabitti (assessora al Welfare nel Comune di Reggio Emilia), Antonietta Cozza (avvocata del Movimento identità transessuale), Cecilia Di Donato (responsabile della scuola di teatro MaMiMò di Reggio Emilia), Christian Cristalli (responsabile nazionale politiche trans per l’Arcigay), Maria Di Palma (funzionaria giuridico-pedagogica del Prap Emilia-Romagna e Marche) e Carmela Gesmundo (funzionaria giuridico-pedagogica degli Istituti Penali di Reggio Emilia). Venezia. “Inferno CPR”, conferenza sulle condizioni degli immigrati detenuti di Stefano Camilloni stranieriinitalia.it, 9 aprile 2025 Giovedì 10 aprile, alle ore 14.00, il Polo Didattico San Basilio di Venezia ospiterà la conferenza “Inferno CPR”, dedicata a un approfondimento sulle condizioni di vita e di detenzione degli immigrati nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). L’evento, organizzato dal Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari in collaborazione con il progetto europeo MORE (Motivations, experiences and consequences of returns and readmissions policy), vedrà la partecipazione di importanti esperti del settore. Durante l’incontro, moderato dalla ricercatrice Francesca Cimino (Università Ca’ Foscari Venezia), interverranno Nicola Cocco, medico umanitario della Società di Medicina delle Migrazioni, e Lorenzo Figoni, autore del libro “Gorgo CPR”. Al centro della discussione ci saranno in particolare le condizioni di salute fisica e mentale degli immigrati detenuti, descritte nelle interviste raccolte dalla ricerca del progetto MORE come spesso estremamente critiche e problematiche. La conferenza nasce infatti dai risultati preliminari di una ricerca internazionale, coordinata dal professor Fabio Perocco e dalla stessa Francesca Cimino, che ha analizzato per oltre un anno le politiche europee e italiane di rimpatrio e riammissione, inclusi gli accordi con paesi terzi, la detenzione amministrativa, i programmi di rimpatrio volontario assistito e il delicato tema degli immigrati definiti “inespellibili”. Presentata recentemente al Parlamento Europeo, la ricerca ha coinvolto numerose istituzioni internazionali, fra cui l’Università di Barcellona, la Libera Università di Bruxelles, l’Università di Oxford e il Centre for European Policy Studies. Tra i punti critici emersi figura proprio la natura “patogena” dei CPR, evidenziata dalle testimonianze di operatori sociali, sanitari e agenti di custodia coinvolti nelle varie fasi della cosiddetta “catena dei rimpatri”. L’incontro del 10 aprile rappresenterà un momento importante per portare alla luce le problematiche legate ai CPR e sensibilizzare ulteriormente opinione pubblica e istituzioni sul tema delicato e urgente delle condizioni di vita e trattamento riservato agli immigrati detenuti in attesa di rimpatrio. Taranto. Progetto di sport e inclusione nel carcere, coinvolti 50 detenuti ansa.it, 9 aprile 2025 La Casa circondariale di Taranto apre le porte allo sport e ad altre attività inclusive con il progetto “Tutti i colori dello sport-carceri”. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di promuovere, attraverso la pratica dell’attività sportiva, ma anche con il teatro e la poesia, un percorso di sostegno e un’opportunità di recupero dei soggetti fragili inseriti in contesti difficili. Le attività in programma della durata di 18 mesi, che inizieranno a maggio, prevedono l’alternarsi di attività sportive e di carattere sociale. ‘Tutti i colori dello sport-Carceri’ è rivolto a 50 detenuti della casa circondariale di Taranto. Il progetto è stato presentato nel salone del carcere Carmelo Magli alla presenza del direttore Luciano Mellone, dal comandante Bellisario Semeraro, del dottor Vitantonio Aresta dell’area Trattamentale dell’istituto, del coordinatore regionale Sport e Salute Francesco Toscano, e da Francesca Pirillo, presidente dell’Asd Teknical Sport Massafra (campionato serie D di basket). Quest’ultima è la società capofila che promuove il progetto ‘Tutti i Colori dello Sport-Carceri’ replicando attività già portate avanti da diversi anni nelle scuole. La società Scia’ Massafra Aps Ets si occuperà delle attività teatrali e il cantautore e scrittore Leo Tenneriello del laboratorio di poesia e scrittura. Hanno partecipato anche gli altri partner: l’Asd Pallavolo Massafra, l’Asd Ets Phonix, l’Asd Volley Massafra, l’Asd Scuola Sport Massafra e la Federazione Italiana Pallacanestro - Comitato Regionale Puglia. Il progetto è finanziato nell’ambito dell’avviso ‘Sport di tutti-Carceri’, piano nazionale integrato per lo sport in carcere realizzato da Sport e Salute in collaborazione con il dipartimento per lo Sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Gino Cecchettin. L’impegno contro la violenza di genere è l’unico modo per far rivivere Giulia di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 aprile 2025 La decisione di mettersi a disposizione degli altri, per guardare avanti. Una fondazione creata un anno dopo l’uccisione di sua figlia con l’obiettivo, un giorno, di arrivare a zero femminicidi a fine anno. L’esperienza con i detenuti del carcere di Padova. In dialogo con “il padre di Giulia”. Giulia, una figlia uccisa a 22 anni, dall’ex fidanzato Filippo Turetta. La decisione di “trovare un barlume di senso in quanto è accaduto” con l’impegno contro la violenza e per la parità di genere. La nascita della Fondazione Giulia Cecchettin ad un anno dalla sua morte. L’enorme sofferenza per ogni femminicidio: “La scorsa settimana, quando ci sono stati i casi di Ilaria e di Sara, che erano due studentesse entrambe di 22 anni come Giulia, mi sembrava come se fosse successo nuovamente a mia figlia”. L’incontro con i detenuti nella Casa circondariale di Padova per “vedere altre prospettive di vita e imparare tanto”. Il racconto di Gino Cecchettin, per tutti il “padre di Giulia”. “Quando leggevo storie di femminicidi ne rimanevo colpito, scosso, ma poi egoisticamente giravo pagina”, dice nel libro, scritto insieme a Marco Franzoso, Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia (Rizzoli). Adesso cosa prova ogni volta che legge o sente la notizia di un femminicidio? Non posso che ritornare indietro nei giorni della mia vita, a quel famoso 11 novembre. Soprattutto la scorsa settimana, quando ci sono stati i casi di Ilaria e di Sara, che erano due studentesse entrambe di 22 anni come Giulia. Nel primo sono rimasto stupito, per come possa succedere ancora e ancora… Con il secondo stavo proprio male, non avevo voglia di fare nulla, di lavorare, di ricevere telefonate. Mi sembrava come fosse successo a Giulia nuovamente. A dire la verità, sei anche un po’ disarmato perché pensi che dopo un anno di attività nel quale ti spendi per parlare di violenza, di femminicidi, due casi così ti mettono ko. Poi sono un combattivo, mi dico che il lavoro non è andato perduto, mi rimbocco le maniche e riparto con più forza di prima. Quale forza interiore l’ha portata ad essere un uomo, sicuramente sofferente, ma non arrabbiato, concentrato sul bello e sulle cose positive, e nell’impegno? È un po’ difficile da dire, forse è un po’ l’ispirazione che mi dà mia figlia. Giulia si spendeva per il prossimo, rappresentava l’altruismo con un esempio veramente cristallino, esemplare. Ho fatto una considerazione della mia vita. Ho lavorato tantissimo per il benessere della mia famiglia, ma non mi ero mai speso più di tanto per gli altri, non avevo mai impiegato ore della mia vita per il volontariato. E allora mi sono ispirato a Giulia, forse è lei che mi dà la carica e mi dà l’ispirazione a fare questo. Cerco un po’ di assomigliare a lei. A novembre 2024 è nata la Fondazione Giulia Cecchettin voluta da lei e dai suoi figli Elena e Davide per onorare la memoria di Giulia, figlia e sorella. Uno degli obiettivi della fondazione è fare formazione nelle scuole. Ce ne vuole parlare? L’ora di affettività è un desiderata che abbiamo tutti, non è detto che ci si arrivi in tempi brevi e il decorso dipende anche dal consenso che si riuscirà a avere e dai risultati di alcuni progetti pilota, che stiamo iniziando adesso. Noi stiamo lavorando tantissimo, abbiamo messo insieme un comitato scientifico fatto da docenti universitari che studiano il problema da molto tempo, da tutta la loro carriera universitaria. Loro creeranno una proposta di valore che porteremo nelle scuole agli insegnanti e agli studenti. Grazie ai supporti telematici riusciranno a fare dei corsi che potranno far capire ai docenti che cos’è la rieducazione alla relazione, che cos’è la violenza di genere e come ci si difende. Probabilmente presenteremo questo corso all’inizio del nuovo anno scolastico 2025-2026, a livello nazionale, e proseguirà. Secondo i dati del rapporto delle Nazioni Unite i femminicidi nel mondo nel 2022 sono stati 8mila, quasi uno ogni cinque minuti. In Italia, nel 2024, sono state 115 le donne uccise, 99 in ambito affettivo e familiare... Purtroppo siamo assuefatti ai numeri. Il parlare di morti tutti i giorni non ci scandalizza più. Di ogni morte dovremmo pensare come se fosse un po’ un nostro fratello. Cosa succede quando ci manca un caro? Viene sconvolta tutta la comunità, la famiglia. Dovremmo fare lo stesso per gli altri, solo così si riesce ad empatizzare. Come si fa a stare accanto al dolore degli altri? Al mondo che le chiede risposte, come se la sua fermezza e la sua risposta al dolore possano essere un appiglio di fronte all’impotenza? Estraniandosi un po’ dalla propria storia e tenendo, però, fermi i mezzi che ti ha dato l’attraversare una storia del genere. Chiaramente ogni esperienza, allorché dolorosissima, qualcosa ti lascia, anche in termini di forza e di determinazione. Se tu tieni fuori per un attimo il tuo caro e ti concentri su quelle che sono le storie degli altri, riesci quantomeno a mettere la tua forza al servizio del prossimo. È solo così che si riesce perché, se continui a ripensare a quanto è successo a te, non sei utile neanche a te stesso. L’unico modo è quello. E poi ti permette comunque di riattraversare il dolore quando, in alcuni casi, non riesci a non ritornare indietro, che è un modo, di fatto, per rivivere e stare vicino alla persona che ti manca. L’impegno è l’unico modo per “trovare un barlume di senso in quanto è accaduto”, come scrive nel libro? Il mio impegno è l’unico modo che ho a disposizione per far rivivere Giulia. L’impegno della fondazione è un percorso lunghissimo, ne siamo coscienti, però bisogna pur iniziare, se non si inizia non si ottengono risultati. Io vedo che il fatto di parlarne, di esporsi, ha fatto sì che qualcosa succeda, quanto meno la sensibilità della gente è aumentata. Tutti mi dicono che c’è un “prima” e un “dopo” Giulia. Questo è potuto succedere perché mia figlia Elena si è esposta, ha parlato in un modo magari forte, però ha mosso la sensibilità di moltissime persone. Io con la fondazione mi sono adoperato, ma tantissimi altri hanno continuato a parlare, anche le associazioni stesse, e hanno trovato un po’ di energia in tutto questo. E dovremmo continuare ad andare avanti, finché quella famosa conta delle donne uccise, a fine anno, speriamo diventi zero. C’è stato un momento in cui lei ha capito che voleva fare qualcosa, che voleva impegnarsi per contribuire ad arrivare a zero donne uccise a fine anno? Oppure è stato un processo? Forse il giorno stesso che mi hanno dato la comunicazione del ritrovamento di Giulia. Penso sia stato lì perché in quella settimana avevo già vissuto tutto. E sapendo quello che avevo vissuto ho detto: “Mi metto a disposizione degli altri. Questo è il momento”. Qualche mese fa è andato nel carcere Due Palazzi di Padova, ad un incontro con i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti. Vuole raccontarci com’è andata? L’esperienza in carcere con la redazione di Ristretti Orizzonti è stata molto intensa. Non sapevo cosa aspettarmi. Pensavo, inizialmente, ci fossero carcerati con pene minime, non mi aspettavo di trovarmi persone che avevano anche pene severe, che avevano fatto reati molto gravi. E mi sono trovato davanti, per esempio, degli omicidi. Mi sono sentito subito un essere umano che aveva dei pregiudizi, però parlando con queste persone capisci che, a volte, nella vita si può sbagliare. Ho visto un percorso, chiaramente difficile, che stanno facendo tutti. Cosa le ha lasciato quell’incontro? Penso di aver avuto tanto da quell’incontro. Mi ha aiutato a eliminare alcuni pregiudizi che avevo raccolto da una vita, solo per sentito dire. Spero di aver lasciato un po’ della mia esperienza, del mio vissuto. So che hanno poi scritto un articolo, mi hanno invitato di nuovo. Sono felice di incontrare le persone detenute, sono gli incontri di questo tipo che ti fanno vedere altre prospettive di vita, altri punti di vista e ti fanno imparare tanto. In che modo si può aiutare la Fondazione Giulia Cecchettin? Il modo migliore per aiutarla, e soprattutto aiutare la causa, è aderire ai suoi valori e comportarsi di conseguenza. Quindi, continuare a parlarne e cercare di arruolare il più possibile persone che capiscano che c’è un modo nuovo di vivere, diverso, non basato sul possesso, sulla gelosia, soprattutto rivolto ai maschi. Ecco, quello è il modo migliore, perché solo così si riuscirà a fare sistema. E poi ci sono anche i modi pratici di aderire, mettendo a disposizione il proprio operato, facendo una donazione. Ma soprattutto si può aderire alla carta dei valori e non stare zitti. Giovani e smartphone, un business sulle fragilità di Riccardo Luna Corriere della Sera, 9 aprile 2025 I social network non hanno inventato l’adolescenza ma ne hanno amplificato a dismisura il lato oscuro. Instagram non ha creato il malessere dei giovani: l’anoressia, il mito del testosterone e il culto dei soldi facili erano parte della cultura di molti adolescenti ben prima che i social network arrivassero nelle nostre vite. E lo stesso discorso vale per la violenza e i femminicidi. Il massacro del Circeo, per citare un episodio fra i tantissimi, è del 1975 e non era evidentemente una challenge nata su TikTok. Del resto gli adolescenti americani descritti da Bret Easton Ellis nei suoi romanzi, ambientati negli anni Ottanta, non sembrano meno pericolosi di quelli che nella serie tv “Adolescence” ci hanno fatto scoprire che ci sono emoticon crudeli di cui non conosciamo il significato. E non avevano uno smartphone in mano. Non si tratta insomma di “dare tutta la colpa ai social network” per il dilagare di depressione, ansia e istinti suicidi fra i giovani. Del resto farlo è solo un modo per assolvere la società - il resto del mondo - dalle responsabilità che evidentemente ha. In questa vicenda purtroppo non ci sono assoluzioni ma sicuramente le famiglie e gli insegnanti pagano ogni giorno la pena per gli errori commessi. La pagano in termini di sofferenza e smarrimento: è un prezzo enorme. La Silicon Valley no. La Silicon Valley su questo malessere ci ha costruito degli imperi finanziari. Le grandi aziende tecnologiche che controllano i social network hanno orientato una parte importante del loro modello di business sulla vulnerabilità dei ragazzi. È stato dimostrato che gli algoritmi che decidono quali contenuti mostrarci in modo da massimizzare l’engagement impiegano meno di mezz’ora a capire cosa scegliere per tenere gli utenti inchiodati davanti allo schermo dello smartphone. Semplificando, la ricetta per i giovani è sempre quella: un corpo perfetto, magrissimo per le ragazze; i muscoli e i soldi per i ragazzi. Niente che non si sia già visto, ma quando dentro lo smartphone trascorri sei ore al giorno, le incertezze ti appaiono così grandi da paralizzarti; e i sogni possono diventare ossessioni. Passioni tristi, come le ha definite il filosofo Miguel Benasayag. Il record di suicidi fra i giovani è un dato che non si può minimizzare dicendo: è sempre stato così, anche al tempo di Socrate ci si lamentava della peggio gioventù, anche tra gli antichi egizi. I social network insomma non hanno inventato l’adolescenza ma ne hanno sicuramente amplificato a dismisura il lato oscuro e lo hanno fatto soltanto per guadagnare di più. A distanza di quasi venti anni dall’arrivo di Facebook nelle nostre vite (era il 2006 quando fu aperto a tutti), di quindici da quello di Instagram e di nove da quello di TikTok possiamo affermare con ragionevole certezza come sono andate le cose, perché siamo arrivati a questo punto. Per una serie di scelte imprenditoriali precise che non avevano come obiettivo diretto fare dei danni ai giovani e ai giovanissimi; avevano come obiettivo il profitto a tutti i costi. Oggi sappiamo quando e perché gli adolescenti e addirittura i bambini sono stati considerati un mercato da conquistare senza remore, sappiamo quali strategie sono state adottate e sappiamo anche che le ricerche interne condotte da queste aziende avevano avvertito che c’era un problema, che qualcosa stava andando storto. Ma nessuno si è fermato. Prima il profitto, poi la filosofia. E adesso che fare? Il 10 dicembre in Australia entra in vigore una legge controversa, approvata a larghissima maggioranza, che vieta l’uso dei social network per i minori di 16 anni. È la soluzione? Probabilmente no: sembra soltanto il sintomo del panico che abbiamo noi adulti alle prese con qualcosa che non conosciamo. Oggi levare lo smartphone (e i social) a un adolescente equivale a dichiarare guerra a una generazione. Dovremmo piuttosto non darlo ai bambini di nove e dieci anni, come accade ormai con una frequenza preoccupante e pretendere che la verifica dell’età degli utenti (13 anni minimo) sia vera ed efficace. E dovremmo pretendere - per legge - che gli algoritmi dei social network non sfruttino più le vulnerabilità dei ragazzi, che le loro bacheche siano neutre. Tutto questo accade mentre l’intelligenza artificiale generativa si diffonde sempre di più, in particolare fra gli studenti. Si tratta di uno strumento potentissimo che non si limita a dare risposte e dialogare ma che è in grado di manipolare e condizionare. Stiamo passando dall’economia dell’attenzione all’economia dell’intenzione: vince non chi conquista il nostro tempo, ma chi orienta le nostre scelte. Dietro i principali modelli ci sono le stesse aziende che hanno guidato la deriva dei social. Come possiamo ancora fidarci di loro? “Adolescence” e i femminicidi di questi giorni: una riflessione su fragilità e ruolo delle famiglie di Angela Corica Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2025 Cosa c’è che ancora sfugge sul comportamento di questi uomini che sembrano fragili, cosa scatta nella loro mente e che responsabilità hanno le famiglie? In questi giorni, come molti di voi, ho visto la miniserie di Netflix Adolescence. Già è stato detto e scritto molto sul successo della serie e sulla trama. Ne torno a parlare perché ci sono tanti punti interrogativi che si intrecciano con la nostra realtà. In queste ore si sono svolti i funerali di Sara Campanella, studentessa di 22 anni uccisa a Messina dal suo stalker, Stefano Argentino, il quale l’ha aspettata all’uscita dell’università, l’ha seguita e poi l’ha colpita con un coltello cinque volte fra il collo e la schiena. La mamma di Argentino ha voluto rilasciare dichiarazioni spontanee per giustificare l’aiuto che i genitori hanno dato al giovane assassino dopo il delitto. Lui ha immediatamente chiamato a casa e mamma e papà sono andati a prenderlo a Messina e lo hanno portato a Noto, sua città d’origine, facendolo sistemare nel b&b della mamma che in quel momento era vuoto. La donna si è difesa spiegando che temeva per la vita di suo figlio, il quale aveva minacciato di suicidarsi. Ma i fatti raccontano di un giovane che ha provato a nascondersi non ad uccidersi. Ad ogni modo le indagini faranno luce anche su questo aspetto. Nel caso del femminicidio di Ilaria Sula, invece, la madre di Marc Samson, l’assassino, si sarebbe spinta oltre, aiutando il figlio a ripulire l’appartamento di 50 metri quadri in cui è avvenuto il delitto. Impossibile pensare che nessuno in quella casa abbia sentito nulla. Impossibile non notare il sangue, i segni dell’orrore che si è consumato nella cameretta dello studente universitario. Gli inquirenti chiariranno modalità e ruoli, i contorni della vicenda non sono ancora del tutto noti. Ma abbiamo due storie diverse, avvenute in contesti, culture e situazioni differenti. Argentino non era neppure fidazato con Sara, ne era invaghito al punto tale da uccidere pur di rinunciare a quello che voleva. L’altra, invece, è la storia di chi non ha accettato la fine della relazione. La morte di queste due giovani donne ha provocato sdegno e rabbia in tutto il paese. Però, tornando alla serie, cosa c’è che ancora sfugge sul comportamento di questi uomini che sembrano fragili, i quali non riescono a metabolizzare un no o l’abbandono, cosa scatta nella loro mente e che responsabilità hanno le famiglie? È una domanda difficile su cui certamente non c’è una risposta netta ma su cui bisogna cominciare a indagare. Nella serie televisiva i genitori hanno sperato nell’innocenza di Jaime Miller, anche dopo che il padre ha visto le immagini della sera dell’aggressione e quel soggetto vestito come suo figlio che accoltellava la vittima. Era così incredibile per essere vero… La trama del film è più complessa, i genitori a un certo punto si interrogano su cosa hanno sbagliato; quel bambino con la faccia d’angelo che si trasforma in un assassino e affronta la psicologa in carcere con spavalderia. Come è possibile? Fuori tutto lo additano come un assassino e prendono di mira anche la famiglia. E poi ci sono dinamiche e termini nuovi, come Incel e le teorie misogine che si sono manifestate anche nel nostro Paese dopo la morte di Ilaria e Sara, come se fosse stata colpa loro. Nella serie non è chiaro se c’è stata o meno una “colpa”, il film lascia molte domande aperte, anche sulla vittima stessa. E allo stesso modo, forse, dovremmo approcciarci a questi casi di cronaca, con le stesse domande aperte, per affrontare quel che succede nelle famiglie, il senso di protezione delle madri, la reazione immediata di alcuni genitori che tendono a minimizzare delle volte. In alcuni casi può esserci un senso di colpa così profondo da parte dei genitori che porta addirittura a diventare complici, con ricostruzioni fantasiose. Prima del triste finale in queste storie ci sono ragazzi normali, come Jemie, fragili, fisicamente e psicologicamente, magari chiusi nella loro cameretta o nel loro microcosmo, con i pochi amici, e un mondo che non li comprende. Si parla tanto di prevenzione ma per prevenire bisognerebbe abbandonare ogni idea precostituita e guardare a una nuova realtà di cui ancora nessuno sembra sapere nulla. Ci sono tante zone d’ombra, posti della mente inaccessibili, per cui non servono reazioni di pancia o risposte semplici. Non basta gridare ergastolo per fermare il sangue. Migranti. “Richiedenti asilo, politiche restrittive negano diritti fondamentali” di Luca Liverani Avvenire, 9 aprile 2025 Rapporto 2025 del Centro Astalli: 24 mila assistiti nei centri di 8 città. Padre Ripamonti: troppi profughi intrappolati in un limbo giuridico. Il cardinale Reina: guardarli negli occhi per cambiare la prospettiva. Cresce la vulnerabilità tra i rifugiati. Politiche migratorie sempre più restrittive, in Italia e in Europa, rendono impervio l’accesso al sistema di accoglienza, per di più non sempre all’altezza. Fino all’esclusione, per non pochi profughi, dalla possibilità di accedere al diritto d’asilo, solennemente affermato sulla carta all’articolo 10, comma 3, della nostra Costituzione, prima che nelle convenzioni internazionali, a cominciare da quella di Ginevra. E cresce, anche coloro ai quali è riconosciuto formalmente il diritto di asilo, la richiesta di bisogni primari. È il quadro che emerge, con più ombre che luci, dal Rapporto annuale 2025 del Centro Astalli, che nelle sue strutture di 8 città - Roma, Bologna, Catania, Grumo Nevano, Vicenza, Padova, Palermo, Trento - e grazie a 800 volontari ha aiutato oltre 24 mila persone in fuga da guerre, violenze, miseria. A presentarlo oggi nella Curia generalizia della Compagnia di Gesù, accanto a San Pietro, il presidente del Centro Astalli - membro della rete del Jesuit Refugee Service - padre Camillo Ripamonti assieme al cardinale Vicario di Roma Baldassarre Reina. Nel 2024 sono stati 65 mila i pasti nelle mense (42 mila in convenzione con Roma Capitale) a oltre 2.500 persone, 10 mila i farmaci distribuiti, in collaborazione col banco Farmaceutico, oltre 1.000 le persone accolte nella rete territoriale, 900 solo a Roma passate per lo sportello di orientamento al lavoro, 1.100 quelle che hanno ricevuto un accompagnamento sociale. “L’implementazione del Patto sulla migrazione e l’asilo adottato nel 2024 dal Consiglio europeo a maggio - spiega Ripamonti - può portare a un arretramento del diritto d’asilo per l’aumento delle procedure accelerate alla frontiera e un conseguente aumento del numero delle persone detenute in modo arbitrario”. E allo stesso modo la proposta dell’11 marzo scorso della Commissione europea di un regolamento volto a creare un sistema “equo e fermo” per il rimpatrio in Paesi terzi secondo gli uffici europei del JRS “porterà a significative violazioni dei diritti umani, aumentando la sofferenza di coloro che cercano una vita migliore”. I Centri in Albania sono giudicati come “un artificio legale” che sostiene “il principio di deportabilità”. Dal cardinale Baldo Reina un invito: “Guardare negli occhi queste persone cambia la prospettiva, nutriamo grande preoccupazione per il clima che si respira e le scelte politiche. Avevamo sognato un’Europa grande quella dei padri fondatori, assistiamo ad altro. Ma non possiamo rassegnarci, sarebbe un peccato contro la speranza”. Il Rapporto segnala come “amministrazioni nazionali e locali continuano ad alzare barriere nei confronti delle persone migranti, imponendo requisiti discriminatori nelle leggi e nei regolamenti per l’accesso a beni essenziali, servizi e sussidi, nonostante numerose sentenze di tribunali e organismi internazionali abbiano dichiarato illegittimi questi ostacoli: pratiche discriminatorie, come il requisito di una lunga residenza ininterrotta, che impedisce a molti l’accesso alle case popolari (pur se respinto dalla Corte Costituzionale)”. Il Rapporto 2025 stigmatizza le “omissioni” nell’accoglienza dei richiedenti asilo, lo “stigma criminalizzante” nei loro confronti, le conseguenti criticità legate al “percorso abitativo” complicato dal “fenomeno degli affitti brevi”. “Inaccettabili esclusioni - si legge nel Rapporto - cui si aggiungono i ritardi cronici della Pubblica Amministrazione nella gestione di pratiche di soggiorno, di richiesta di asilo e di tutti quei documenti che gli immigrati faticano a ottenere a causa di una lenta macchina amministrativa, pur avendone diritto. Questi intollerabili disservizi, che paralizzano l’esercizio dei diritti fondamentali, danneggiano la vita dei migranti”. “Le sfide che i migranti forzati affrontano nel loro percorso di inclusione - spiega ancora il Rapporto - sono molteplici e complesse. Tra le principali il diritto all’abitare, che rimane per molti rifugiati una chimera. I percorsi abitativi una volta usciti dal sistema di accoglienza si rivelano, infatti, sempre più ardui; una criticità su cui pesa l’inflazione e la conseguente marginalità economica e sociale, ma che è spesso aggravata dall’assenza di reti di comunità solide sul territorio. Lo stigma criminalizzante che accompagna i migranti nel discorso pubblico non facilita la loro integrazione abitativa”. “Il mancato accesso al mercato della casa finisce per costringere le persone a situazioni di disagio abitativo estremo, come la convivenza forzata o la vita per strada, situazioni registrate nelle sedi territoriali di Catania, Palermo e Vicenza. Il fenomeno degli affitti brevi a fini turistici, specialmente nelle grandi città, negli ultimi anni ha rappresentato un potenziale elemento di aggravamento del disagio abitativo delle fasce di popolazione più deboli, tra cui rientrano anche i migranti forzati. Anche nel 2024, la Rete territoriale del Centro Astalli ha cercato di affrontare le sfide abitative, che colpiscono richiedenti asilo e rifugiati, impegnandosi a favorire il raggiungimento di una stabilità abitativa e lavorativa e fornendo gli strumenti necessari per orientarsi nel mercato della casa”. Migranti. Sui Centri in Albania la Commissione Ue ha due posizioni incompatibili di Andreina De Leo Il Manifesto, 9 aprile 2025 Il protocollo Roma-Tirana. L’istituzione comunitaria ha usato la stessa argomentazione, “a Shengjin e Gjader si applica solo la legge italiana”, in due circostanze opposte: per i richiedenti asilo mai entrati in territorio europeo e per i migranti già presenti in uno Stato membro. Così mostra di rispondere più a esigenze politiche che a un’effettiva coerenza giuridica. “Si applica la legislazione nazionale”. Con questa formula la Commissione europea ha dato il via libera all’Italia per trasferire in Albania anche i migranti irregolari trattenuti nei Cpr sul proprio territorio, segnando un netto cambio di rotta rispetto alla posizione iniziale sull’accordo con Tirana. Una virata che, richiamando dichiarazioni precedenti, rischia di trarre in inganno. Di fronte all’iniziale intenzione del governo italiano di trasferire nei centri d’oltre Adriatico i richiedenti asilo provenienti da Paesi considerati “sicuri”, per sottoporli a procedure accelerate di frontiera, la Commissione aveva espresso un via libera condizionato: i trasferimenti sarebbero stati ammissibili solo a condizione che i migranti non fossero mai entrati nel territorio italiano, dunque nemmeno nelle acque territoriali. Bruxelles aveva infatti chiarito che le norme del sistema comune di asilo non hanno efficacia extraterritoriale e, di conseguenza, non trovano applicazione diretta in contesti al di fuori dell’Unione. Del resto, il sistema europeo di asilo è stato concepito per un’applicazione strettamente territoriale. A confermarlo è anche il costante scetticismo della Commissione verso la creazione di centri “offshore” per l’esame delle richieste d’asilo o per l’esecuzione dei rimpatri. Alla luce di ciò, la Commissione aveva considerato l’iniziativa italiana come una “estensione volontaria” del diritto Ue e, riconoscendo l’impegno unilaterale a garantire anche oltre confine gli standard europei, aveva escluso il rischio che tale iniziativa nazionale potesse interferire con l’obiettivo comunitario di armonizzare l’interpretazione e l’applicazione della normativa in materia di protezione internazionale e rimpatrio tra gli Stati membri dell’Unione. Proprio sulla base di questa posizione, la legge di ratifica del Protocollo prevedeva una disposizione specifica per limitare i trasferimenti in Albania alle sole persone “imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea”. Tuttavia, con il decreto del 28 marzo 2025, il governo ha esteso i trasferimenti anche ai migranti già trattenuti nei Cpr presenti sul territorio italiano. Una scelta che la Commissione ha giustificato richiamando nuovamente lo stesso principio dell’applicazione esclusiva del diritto nazionale, ma che risulta difficilmente conciliabile con la posizione assunta in precedenza. I migranti irregolari già presenti in territorio italiano ricadono pacificamente nell’ambito di applicazione della direttiva rimpatri: a loro non possono che continuare ad applicarsi direttamente le disposizioni del diritto Ue. Questo quadro sembra rispondere più a esigenze politiche che a un’effettiva coerenza giuridica. In ogni caso - sia assumendo l’applicabilità diretta della direttiva rimpatri, sia ipotizzando un’estensione unilaterale da parte dell’Italia degli standard previsti dalla normativa Ue in un Paese terzo - permangono seri dubbi di compatibilità. Sebbene il centro di Gjader, in Albania, venga presentato come equivalente ai Cpr italiani e quindi formalmente conforme agli standard europei, le garanzie previste dalla direttiva risultano difficilmente applicabili in un Paese terzo, anche se fittiziamente qualificato come “zona di frontiera o di transito”, come fatto dal governo italiano. Il monitoraggio condotto nei centri di Shengjin e Gjader, tra ottobre e novembre 2024 e gennaio 2025, dal Tavolo Asilo e Immigrazione (Tai) - che riunisce quasi 50 associazioni - ha già evidenziato numerose violazioni degli standard previsti dalle direttive europee in materia di asilo e accoglienza. È evidente che queste criticità, tra cui l’assenza di un accesso effettivo alla difesa, sono destinate a persistere anche nel caso di trattenimento dei migranti irregolari. Ulteriori dubbi di compatibilità si pongono rispetto alle garanzie sulle condizioni di trattenimento previste dalla stessa direttiva: il diritto al contatto con familiari e associazioni, l’accesso alle cure mediche, la possibilità di una liberazione immediata in caso di trattenimento illegittimo. Tutti elementi che rendono difficile sostenere l’equivalenza tra il centro di Gjader e quelli situati sul territorio nazionale, rischiando così di compromettere l’applicazione uniforme degli standard previsti dal diritto Ue. Migranti. L’Asgi: “Decreto Albania, proveremo che è incostituzionale” di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 aprile 2025 L’associazione di giuristi pubblica un’analisi dettagliata sulle nuove norme che estendono l’uso delle strutture d’oltre Adriatico ai migranti “irregolari” già presenti sul territorio nazionale. In Albania è tutto pronto per i primi trasferimenti di cittadini stranieri “irregolari” dal territorio italiano. Potrebbero partire dal Cpr di Brindisi, sicuramente dalla Puglia. Gli operatori Medihospes sono nei centri e il Tavolo asilo e immigrazione, con i parlamentari d’opposizione, lancia un nuovo monitoraggio. Mentre nella Commissione affari costituzionali della Camera si stanno svolgendo le audizioni sul decreto del governo che amplia la destinazione d’uso delle strutture: dai richiedenti asilo agli “irregolari”. Oggi interverrà anche l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che sul tema ha pubblicato una dettagliata analisi giuridica. Ne parliamo con l’avvocata Nazzarena Zorzella. “Un laboratorio autoritario delle politiche migratorie”. Così Asgi definisce il dl, perché? Perché segna un cambio di paradigma sulla questione migratoria. Finora abbiamo assistito all’esternalizzazione delle frontiere e poi dei richiedenti asilo, il salto ulteriore è l’esternalizzazione dei corpi di migranti già trattenuti sul territorio nazionale, di persone che nella stragrande maggioranza dei casi vivono in Italia da tempo e sono destinatarie di un’espulsione. Il governo è stato eletto con il mandato di contrastare l’immigrazione irregolare. Se ritiene che i centri in Albania siano uno strumento utile perché dovrebbe abbandonarli? Ho contato 21 nuovi provvedimenti legislativi in materia. Vanno tutti in direzione opposta al contrasto dell’immigrazione irregolare. Pensiamo alla protezione speciale: secondo il ministero ora si può riconoscere solo all’interno della protezione internazionale, un modo per chiudere la possibilità di regolarizzazione a fronte dell’avvenuta integrazione. Oppure alla finta riforma del decreto flussi che rende un meccanismo complesso ancora più farraginoso con una serie di step amministrativi alla fine dei quali anche se il lavoratore è arrivato con un regolare visto potrebbe non avere il permesso di soggiorno per mancanza di requisiti mai verificati prima. Il governo non vuole combattere l’immigrazione irregolare, vuole criminalizzare le persone straniere. Ma l’accordo con Tirana punta a scoraggiare le traversate... Una tesi priva di senso. Anche perché non si parla più di trasferire richiedenti asilo prima dello sbarco, ma migranti dall’Italia. Dove sta l’effetto deterrente? Tra le possibili illegittimità costituzionali sottolineate il fatto che nessun giudice si pronuncia sul trasferimento in Albania. Ma non succede nemmeno per gli spostamenti da un Cpr all’altro sul territorio nazionale. Perché in questo caso dovrebbe esserci? Infatti crediamo sia illegittimo anche quando il trasferimento avviene da un Cpr italiano a un altro. Sulle modalità di trattenimento in queste strutture si esprimerà a giugno la Corte costituzionale. Nel caso albanese, però, l’illegittimità è ancora più eclatante. Troveremo l’occasione per sollevare l’eccezione di incostituzionalità per violazione della riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sostiene che il Cpr di Gjader sia equivalente a quelli di Trapani o Milano... Questa corrispondenza non c’è. Intanto perché è fuori dal territorio nazionale. E qua si pone il tema della compatibilità con il diritto Ue che per definizione si applica solo sul territorio degli Stati membri. L’Albania non lo è e il fatto che nel luogo fisico di Gjader o Shengjin si eserciti la giurisdizione italiana non è sufficiente a legittimare l’applicazione e le garanzie previste dalle norme comunitarie. Da un punto di vista giuridico saranno possibili i rimpatri direttamente dall’Albania? Equivarrebbe a farli da un paese terzo e non c’è alcuna legittimazione di legge che lo consenta. Anche perché il protocollo è chiaro nel dire che la giurisdizione italiana si esercita solo nei centri. Nel momento stesso in cui metti il piede fuori da quelle strutture sei sul territorio albanese, soggetto alla legislazione di Tirana. Se nel trasporto dal Cpr all’aeroporto di Tirana succedesse qualcosa o la persona si opponesse al rimpatrio sarebbe sottoposta alla legge albanese, senza che ciò sia previsto dal protocollo, oppure a quella italiana? Nel secondo caso si applicherebbe il recente “decreto sicurezza” che punisce duramente simili condotte... La norma rende reato anche la resistenza passiva in Cpr e carceri. Per questo parliamo di “stretto dialogo” tra il decreto Albania e quello “sicurezza”. È la chiusura del cerchio: le persone trattenute che resisteranno a ordini della pubblica amministrazione non meglio definiti saranno soggette a una normativa durissima. Finiranno nel carcere adiacente al Cpr, sempre a Gjader, dove l’esercizio del diritto di difesa sarà inevitabilmente compromesso. La preparazione alla guerra nega la democrazia di Marco Bascetta Il Manifesto, 9 aprile 2025 Tra manifestazioni di piazza e crepe che attraversano gli schieramenti politici, tra sottili distinguo e spericolati equilibrismi converrà mettere a fuoco l’essenziale della partita che si sta svolgendo in Europa intorno alla “minaccia russa”. In primo luogo non esiste né si intravede all’orizzonte alcun riarmo europeo, alcun concreto progetto di una forza di difesa comune. Esiste invece un programma per spingere al riarmo gli stati nazionali dell’Unione attraverso l’indebitamento (per quelli che se lo possono permettere). Quanto a quelli già ultra indebitati, che trovino i soldi in qualche altro modo, e non è difficile intuire quale. Si richiede, insomma, che la spesa militare dei paesi europei si adegui alle pretese del socio di maggioranza della Nato, gli Stati Uniti. I quali non pensano minimamente di uscire dall’Alleanza atlantica e men che meno di rinunciare alla massiccia presenza militare nel Vecchio continente, la quale non consiste per l’essenziale nella paterna protezione dei cittadini europei ma in una leva irrinunciabile del dispositivo geopolitico americano. Ciò che preme al nuovo inquilino della Casa bianca è molto semplicemente scaricare il più possibile sui partner europei i costi dell’apparato militare occidentale. Tra i protagonisti del cosiddetto riarmo europeo, gli stati nazionali e gli Stati uniti, chi non figura proprio è l’Unione europea, se non per la retorica bellicista che ci mette, per qualche allentamento dei vincoli sul debito e la promessa di una ricaduta positiva del riarmo sull’industria europea. Di fatto l’Europa che si militarizza in questo modo assomiglia molto da vicino a quella “Europa delle nazioni” che le destre nazionaliste europee vagheggiano da tempo, almeno da quando la Brexit ha mostrato a tutti che l’uscita dall’Unione non è una scorciatoia per il paradiso. Poiché non esiste alcun riarmo europeo e la più grande capacità di indebitamento e di spesa è oggi appannaggio della Germania (che per l’occasione si è liberata dell’autoinflitta coazione al risparmio) quel che si prospetta sul più breve periodo è un massiccio riarmo della Repubblica federale tedesca del tutto sproporzionato rispetto ai risultati conseguibili su questo terreno dagli altri stati nazionali europei. I quali sembrano avere ormai convenuto con una ricorrente rivendicazione della destra tedesca, e cioè che le speciali responsabilità della Germania verso i popoli d’Europa e le conseguenti autolimitazioni siano ormai definitivamente prescritte. E che l’agibilità geopolitica e militare della Germania dentro e fuori dai suoi confini debba essere integralmente ripristinata. Tanto che non vi sono nemmeno più remore nel discutere se la Repubblica federale possa e debba dotarsi di un proprio armamento nucleare. Questa “svolta epocale”, già annunciata dall’ex cancelliere Olaf Scholz il 27 febbraio del 2022, si va compiendo ora in un paese nel quale una destra nazionalista e xenofoba è diventata la seconda forza politica, ha buone probabilità di conquistare il primo posto ed è già in grado di condizionare in molti modi il clima politico della Germania. Naturalmente anche Berlino si associa al coro di tutti quelli che, nel moltiplicare gli armamenti, giurano e spergiurano di dedicarsi esclusivamente a un’opera di deterrenza, di intendere prevenire le guerre e non certo di volerne creare la condizioni. Fatto sta che un siffatto sistema di deterrenze multipolari e nazionalizzate non figura proprio tra gli scenari più rassicuranti. Come si può parlare di una comune politica di difesa europea quando anche una scelta come quella di uscire dalla convenzione internazionale che mette al bando le mine antiuomo è lasciato all’arbitrio dei governi nazionali? La Finlandia ha fatto proprio ora questa scelta sciagurata. E se qualcun altro finisse invece col ritenere indispensabile alla propria sicurezza dotarsi di armi chimiche e batteriologiche? Mentre la sostanza resta nella disponibilità dei governi nazionali, la Commissione europea si cimenta nell’esibizione retorica di una trita cultura bellicista. Dall’immancabile richiamo ai valori di libertà democrazia e solidarietà, che bisogna aver la forza (militare) di difendere, allo spirito guerriero che difetterebbe alla gioventù europea, all’intera società civile cui si chiede di familiarizzare con l’idea della guerra e di prepararsi alle pratiche di autoconservazione che le si confanno. Ma non è difficile leggere, nelle modalità stesse cui la governance politica europea fa ricorso nella sua chiamata alle armi, quanto le decisioni che riguardano la pace e la guerra siano estranee alle forme della democrazia. Le dichiarazioni di guerra non sono sottoponibili a un pronunciamento popolare, non sono costituzionalmente materia di referendum. L’emergenza, reale o immaginaria che sia, implica sempre, a vari gradi, il restringimento o la sospensione delle procedure democratiche, fin dall’antico istituto della dittatura nella Roma repubblicana. Così la preparazione alla guerra già esercita l’intera società a fare a meno della democrazia o ad accettarne almeno il ridimensionamento a favore della ragion di stato. La leva obbligatoria, sulla cui reintroduzione si strepita in diversi paesi europei è la prova provata che combattere non è una scelta e che la guerra, anche la più sentita, la fanno per la maggior parte quelli che non l’hanno scelta. Più di 1.500 esecuzioni capitali nel 2024. Mai così tante negli ultimi 10 anni di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 aprile 2025 Il rapporto di Amnesty sulla pena di morte. Aumenta a livello mondiale il numero delle persone condannate a morte. Il dato del 2024 è il più alto dal 2015. In 15 Stati lo scorso anno sono state eseguite oltre 1.500 pene capitali. A dirlo è Amnesty International che ha appena pubblicato il rapporto annuale sulla pena di morte, intitolato “Condanne a morte ed esecuzioni 2024”. Gli Stati in cui si è registrato lo scorso anno il maggior numero di casi di pena di morte sono Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Yemen. Per la precisione le esecuzioni sono state 1.518, nel 2015 sono state 1.634. Il Medio Oriente si conferma l’area geografica con più casi di “uccisioni di Stato”. In merito alla Cina, dove recuperare dati ufficiali è sempre particolarmente difficile, Amnesty International rileva che il report non include il numero delle migliaia di persone che si crede siano state messe a morte. La Cina continua a essere lo Stato con il più alto numero di esecuzioni al mondo, così come la Corea del Nord e il Vietnam, dove la pena di morte è ancora ampiamente applicata. Situazione di incertezza per quanto riguarda i conflitti in corso in Palestina e in Siria. Per queste due realtà non c’è la possibilità di avere numeri precisi. Iran, Iraq e Arabia Saudita sono invece stati responsabili dell’aumento complessivo delle esecuzioni rese note. In totale in questi tre Paesi è stato registrato il numero totale di 1.380 esecuzioni. L’Iraq ha quasi quadruplicato il numero delle esecuzioni (da almeno 16 ad almeno 63), l’Arabia Saudita ha raddoppiato il suo totale annuo (da 172 ad almeno 345), mentre l’Iran ha messo a morte 119 persone in più rispetto al 2023 (da almeno 853 ad almeno 972), totalizzando il 64% di tutte le esecuzioni note. Non mancano alcune situazioni meno gravi. Anche se c’è stato un aumento delle esecuzioni, solo 15 Stati hanno effettivamente provveduto ad applicare le condanne a morte. “Si tratta - evidenzia Amnesty International - del numero più basso mai registrato per il secondo anno consecutivo. Ad oggi, 113 Stati hanno abolito completamente la pena di morte e in totale 145 l’hanno eliminata dalle leggi o dalla prassi. Il 2024 ha anche mostrato la forza della mobilitazione”. Dopo quasi mezzo secolo trascorso nel braccio della morte in Giappone, Hakamada Iwao è stato assolto nello scorso settembre. “La pena di morte - commenta Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International - è un crimine aberrante che non ha posto nel mondo di oggi. Sebbene in alcuni Stati la segretezza continui a ostacolare il monitoraggio internazionale, rendendo difficile valutare l’effettiva entità delle esecuzioni, è evidente che quelli che mantengono la pena di morte costituiscono una minoranza sempre più isolata. Con soli 15 Stati ad aver eseguito condanne a morte nel 2024, il numero più basso mai registrato per il secondo anno consecutivo, si conferma la tendenza all’abbandono di questa punizione crudele, inumana e degradante”. Non bisogna però abbassare la guardia. “Iran, Iraq e Arabia Saudita - aggiunge Callamard - sono Stati responsabili dell’aumento vertiginoso delle esecuzioni, portando a termine oltre il 91% di quelle documentate, violando i diritti umani e togliendo la vita per accuse legate alla droga e di terrorismo”. Capitolo a parte meritano gli Stati Uniti. Oltreoceano si stanno verificando alcune situazioni contrastanti. Un mese fa Rocky Myers, condannato a morte in Alabama, nonostante gravi irregolarità emerse nel processo, ha ottenuto la commutazione della condanna a morte in ergastolo grazie alle richieste della sua famiglia e del suo team legale, al sostegno di un ex giurato, di attivisti locali e della comunità internazionale. L’amministrazione Trump, come annunciato di recente, non intende invece retrocedere in merito alla punizione da infliggere per alcuni gravi reati. Donald Trump, poche ore dopo il suo insediamento, ha fatto pubblicare una lunga dichiarazione sul sito della Casa Bianca. Il testo presenta con chiarezza l’impostazione in materia di repressione dei crimini. “La pena capitale - si legge - è uno strumento essenziale per scoraggiare e punire coloro che commetterebbero i crimini più efferati e gli atti di violenza letale contro i cittadini americani. Prima, durante e dopo la fondazione degli Stati Uniti, le nostre città, i nostri Stati e il nostro Paese hanno fatto affidamento sulla pena capitale come deterrente definitivo e unica punizione adeguata per i crimini più vili. I nostri Fondatori sapevano bene che solo la pena capitale può portare giustizia e ristabilire l’ordine in risposta a tale male. Per questa e altre ragioni, la pena capitale continua a godere di un ampio sostegno popolare”. Secondo il presidente statunitense, occorre voltare pagina. Il suo predecessore, Joe Biden, il 23 dicembre 2024 ha commutato le condanne di 37 dei 40 - queste sono le definizioni della Casa Bianca - “più vili e sadici stupratori, molestatori di bambini e assassini nel braccio della morte federale”. Ecco perché “certi sforzi per sovvertire e indebolire la pena di morte sfidano le leggi della nostra nazione, prendono in giro la giustizia e insultano le vittime di questi crimini orribili”. Il nuovo corso aperto a Washington prevede che gli Stati Uniti garantiscano le leggi che autorizzano la pena di morte e che le stesse leggi siano “rispettate e fedelmente implementate”. In questo contesto vanno richiamati “i politici e i giudici che sovvertono la legge ostacolando e impedendo l’esecuzione delle condanne a morte”. La linea Trump potrebbe portare ad un incremento dei numeri fatti conoscere e analizzati da Amnesty International nel suo rapporto annuale. Il 1° aprile, il procuratore generale degli Stati Uniti, Pam Bondi, ha annunciato di aver ordinato al procuratore di Manhattan di chiedere la pena di morte per Luigi Mangione, autore dell’omicidio del manager Brian Thompson. Da quando Trump è diventato presidente degli Stati Uniti, per la prima volta il procuratore generale Bondi ha ordinato ai pubblici ministeri di chiedere la pena di morte. Stati Uniti. La Corte suprema: “Sì alla legge di guerra per velocizzare le espulsioni” di Valerio Benedetti La Verità, 9 aprile 2025 La Corte suprema legittima l’uso dell’Alien Enemies Act, una norma del 1798. Trump esulta e rilancia: “Mille dollari di multa al giorno agli irregolari”. “Questo è un grande giorno per la giustizia in America!”. È così che Donald Trump ha festeggiato la sentenza con cui la Corte suprema degli Stati Uniti ha dato ragione alla sua amministrazione in merito all’Alien Enemies Act. Si tratta di una legge, risalente al 1798, che consente al presidente di espellere più celermente i nemici della nazione in tempo di guerra. Invocata e applicata molto raramente, questa norma è stata utilizzata dal governo di Trump per cacciare dal territorio americano i membri della gang Tren de Aragua, una pericolosa organizzazione criminale venezuelana sospettata di avere legami con Nicolás Maduro e accusata di tratta sessuale, traffico di droga e numerosi omicidi sia in patria che nelle principali città degli Stati Uniti. Il massimo tribunale americano ha quindi annullato la sentenza di una corte inferiore che aveva bloccato le espulsioni di 238 venezuelani in un carcere di El Salvador. L’ordine di questo tribunale federale era stato emesso lo scorso 15 marzo, con l’amministrazione Trump che aveva subito presentato un ricorso d’urgenza. Di qui la grande soddisfazione espressa dal tycoon sul suo social Truth: “La Corte suprema ha confermato lo Stato di diritto nella nostra nazione, consentendo a un presidente, chiunque egli sia, di proteggere i nostri confini e le nostre famiglie, nonché il nostro stesso Paese”. Anche altri funzionari del governo, tra cui il procuratore generale, Pam Bondi, e il segretario per la sicurezza interna, Kristi Noem, hanno accolto con grande entusiasmo la sentenza, con la Bondi che l’ha definita “una vittoria storica per lo Stato di diritto”. In realtà, vista la delicatezza della questione, la Corte suprema si è divisa: i tre giudici democratici si sono detti contrari alla sentenza, mentre la giudice repubblicana Amy Coney Barrett si è limitata a un dissenso parziale. Alla fine, però, il massimo organo giudiziario americano ha comunque dato ragione al presidente degli Stati Uniti con 5 voti a favore e 4 contrari. È stato così revocato l’ordine del giudice distrettuale di Washington, James Boasberg, che aveva bloccato le espulsioni, portando Trump persino a chiedere l’impeachment. Tra le ragioni che hanno pesato sul verdetto della Corte suprema, ce n’è una anche di natura giurisdizionale: la causa doveva essere presentata in Texas, lo Stato in cui sono detenuti i venezuelani da espellere, e non in un tribunale di Washington. Al tempo stesso, tuttavia, la Corte suprema ha stabilito che, sebbene l’alien enemies act sia applicabile, agli immigrati deve essere notificata l’espulsione “entro un lasso di tempo ragionevole”, in modo da permettere ai loro legali di presentare ricorso. Cosa che il governo, in questo caso specifico, non aveva fatto. Ecco perché anche l’american civil liberties union (Aclu), la potente Ong per i diritti umani che aveva presentato ricorso per cinque venezuelani, ha tentato di rivendicare la sua presunta vittoria: “Siamo delusi dal fatto che dovremo riavviare il procedimento in altra sede”, ha dichiarato Lee Gelernt, l’avvocato capo dell’Aclu, “ma il punto dirimente è che la Corte suprema ha affermato che gli individui devono avere un giusto processo per contestare la loro espulsione ai sensi dell’alien enemies act”. Nel frattempo, sempre sul fronte dei rimpatri, Trump ha intenzione di far ricorso a un’altra legge, emanata nel 1996, che commina agli immigrati colpiti da ordine di espulsione una multa di 1.000 dollari al giorno se non lasciano il territorio degli Stati Uniti. Come rivelato da Reuters, il governo avrebbe intenzione di applicare le sanzioni in modo retroattivo, per un massimo di cinque anni, arrivando così, in alcuni casi, a multe da oltre un milione di dollari. In caso di mancato pagamento, inoltre, si procederebbe con il sequestro dei beni degli insolventi.