Giornali chiusi, censure preventive: il carcere così silenzia i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2025 Dietro le sbarre di alcuni penitenziari si consuma un silenzio imposto: quello delle voci dei detenuti-redattori censurate con divieti e sospensioni “burocratiche”. Ultimo caso: la chiusura de “La Fenice”. Il 7 gennaio scorso, un comunicato ha annunciato la chiusura de La Fenice, il giornale scritto dai detenuti del carcere di Ivrea. Ma non si tratta di un episodio isolato: quello del carcere piemontese è l’ultimo di una lunga serie di casi che, da Nord a Sud, stanno mettendo a tacere le voci dei detenuti- redattori. Progetti nati per dare spazio a storie scomode e trasformare il carcere da luogo di esclusione a spazio di riscatto vengono spenti con metodi ricorrenti: divieti di firmare gli articoli, censure preventive, espulsioni di volontari, sospensioni mascherate da “questioni burocratiche”. Una strategia opaca, che nasconde una realtà scomoda: in molti istituti, scrivere diventa un atto di disobbedienza. A denunciare per primo questa tendenza è stato Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, in un testo pubblicato sulla rivista online di Ristretti Orizzonti - il più antico giornale realizzato da detenuti, attivo dal 1998. Nato nel 2018, il progetto de La Fenice aveva trasformato una stanza di reclusione in un laboratorio di idee, dove le parole diventavano strumento di riscatto. Ma le “questioni burocratiche” - un mantra oscuro e ricorrente - hanno spento l’ennesima luce in un sistema che preferisce l’opacità. Una decisione che non è un incidente, ma l’ultimo capitolo di una storia fatta di promesse tradite e diritti negati. Nei cinque anni di attività, La Fenice aveva sfidato l’indifferenza. Tra quelle pagine digitali, i detenuti avevano raccontato errori, speranze, ferite. Parlare di sé, in un luogo dove l’identità spesso si dissolve nel numero di matricola, era un atto rivoluzionario. “Un’urgenza di affermare che anche dietro le sbarre battono cuori”, commenta oggi un ex redattore. La Direzione del carcere e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno giustificato la sospensione con motivazioni vaghe, replicando un copione già visto: nel marzo 2023 il giornale era stato bloccato, per poi riprendere grazie a un protocollo firmato ad aprile. Ma quel patto, come molti altri, si è rivelato fragile. “Dietro queste chiusure c’è la paura della verità”, afferma Francesco Lo Piccolo, giornalista e direttore di Voci di dentro, trimestrale scritto da detenuti ed ex detenuti, intervistato da Professione Reporter. “Quando i detenuti denunciano il sovraffollamento, le celle fatiscenti o la mancanza di acqua calda, alcune Direzioni vedono un’immagine “negativa” da censurare. Ma quei problemi sono reali, e tacere non li risolve”. Ma la vicenda di Ivrea non è isolata. A Lodi, la Direzione ha imposto una lettura preventiva degli articoli scritti dai detenuti per Altre storie, vietando temi come l’emigrazione (“in contrasto con la linea del governo”) o la sessualità, nonostante i pronunciamenti della Corte Costituzionale. A Rebibbia, come ricordato da Lo Piccolo, è stato chiesto di non firmare i pezzi e di ottenere liberatorie. A Trento, dopo dieci anni di attività, il volontario Piergiorgio Bortolotti è stato dichiarato “non gradito” per aver raccontato l’inefficienza del sistema. “Sono violazioni palesi dell’articolo 21 della Costituzione e dell’Ordinamento penitenziario”, accusa Lo Piccolo. L’articolo 18 di quest’ultimo stabilisce che ogni detenuto ha diritto a “esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione previsti”. Eppure, in molti istituti, i direttori - spesso alle prime esperienze - preferiscono il silenzio al rischio di critiche. “Si considerano i detenuti come “reati che camminano”, privi di diritti”, aggiunge il giornalista. Nonostante gli ostacoli, una rete di testate resiste. Ristretti Orizzonti, nato a Padova nel 1998, è il più antico: con redazioni a Venezia, Parma e Genova, pubblica una rassegna quotidiana e organizza convegni. Carte Bollate, bimestrale milanese, coinvolge 25 detenuti affiancati da giornalisti professionisti. A San Vittore, L’Oblò dà spazio a riflessioni sul recupero dalla tossicodipendenza; a Napoli, Parole in Libertà collabora con Il Mattino. Voci di dentro, diretto da Lo Piccolo, è un caso emblematico: 72 pagine mensili, 2.000 copie, diffuso in tutta Italia. “Non è il giornale del carcere, ma il nostro giornale”, sottolinea. “Scriviamo ciò che non va, per cambiare le cose. Rispettando il codice deontologico, dalla parte di chi non ha voce”. La chiusura de La Fenice non è solo la fine di un progetto, ma un sintomo. “Il carcere dovrebbe rieducare, non annientare”, ricorda Lo Piccolo, citando l’articolo 27 della Costituzione. Per questo, è in corso un tentativo per creare il “Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere” promosso da Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. Lo stesso sta preparando un documento per denunciare le violazioni al Dap: “Chiederemo un incontro. Il silenzio non è un’opzione”. Intanto, nelle redazioni carcerarie sopravvissute, si continua a scrivere. Perché ogni articolo è un atto di resistenza: contro l’oblio, contro lo stigma, contro l’idea che un errore cancelli l’umanità. Anche perché, in carcere, le parole sono l’unico modo per ricordare che l’esistenza dei detenuti con la loro voglia di riscatto e denuncia. Spegnerle significa rinchiuderli due volte. Governo al lavoro sulle carceri. Nordio: “Allo studio soluzioni per il problema sovraffollamento” di Felice Manti Il Giornale, 8 aprile 2025 Che sia arrivato davvero il momento di svuotare le carceri? Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato un provvedimento di legge per allentare l’emergenza carceraria. Di cosa si tratta? “Stiamo cercando di rimediare nei limiti del possibile in tre direzioni: un terzo dei detenuti sono stranieri e stiamo cercando di contrattare con alcuni paesi l’espiazione della pena nei paesi di origine”, sottolinea Nordio aggiungendo che quanto ai detenuti “tossicodipendenti sono malati da curare e stiamo pensando a una detenzione differenziata e attenuata: stiamo lavorando con le comunità perché ci diano disponibilità di accoglienza”. C’è poi “un 20 per cento di detenuti in attesa di giudizio”, conclude sottolineando che “lavoriamo a una revisione dei criteri per cui si applichi la custodia cautelare”. Quella dei detenuti in attesa di giudizio è una piaga antica, che ogni anno costa milioni di euro alle casse dello Stato per ingiusta detenzione, senza contare i dolorosi errori giudiziari dei quali si duole anche Margherita Cassano, prima Presidente della Suprema Corte di Cassazione, che la definisce “la situazione più tragica che possa verificarsi nella vita di ogni persona” e verso cui serve “una grande umanità”, ma anche rigore, sobrietà e attenzione al linguaggio”. Il secondo troncone di detenuti che andrebbe portato fuori dai penitenziari sono i tossicodipendenti e in generale le persone con dipendenza da psicofarmaci, che in carcere hanno grandi difficoltà a sopravvivere e che sono spesso e volentieri, come raccontano le cronache recenti, vittime di episodi di bullismo da parte di detenuti più forti più arroganti che molto spesso ma non sempre vengono disinnescati dagli agenti penitenziari che però non sempre possono arrivare in tempo. Quanto ai detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria (pari a circa 62mila detenuti in totale su meno di 50mila posti disponibili) potrebbe espiare la pena nel proprio Paese di origine grazie a serie di accordi bilaterali. Lo svuotamento della galassia detentiva consentirebbe da un lato di rispettare maggiormente la funzione rieducativa del carcere, prevista dalla Costituzione, dall’altro limitare il più possibile la terribile piaga dei suicidi dietro le sbarre. La costruzione di nuove mini carceri annunciata dal governo va nella stessa direzione, il governo potrebbe costruire delle piccole e smontabili celle da 24 persone, una offerta detentiva in grado di ospitare proprio i detenuti più fragili senza le difficoltà di una detenzione vera. Per la sinistra queste sarebbero semplicemente degli slogan, come sappiamo c’è una parte dell’opposizione che invece spinge molto per l’alleggerimento della detenzione, con celle aperte di giorno circa 8 ore per anche per i detenuti in alta sicurezza. Nei giorni scorsi è stata una stretta su questa misura che ha scatenato le ire dei reclusi considerati molto pericolosi, che hanno mandato delle vere e proprie minacce al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che ha la delega alle carceri. Un segnale che non può essere certamente sottovalutato, perché è evidente che nel momento in cui dalle carceri entra di tutto, dalla droga ai telefonini, dovesse passare il messaggio che è questo governo va messo nel mirino, anarchici e insurrezionalisti o antagonisti sarebbero pronti a trasformare queste minacce in attentati. Il limite costituzionale travolto dal decreto “sicurezza” di Mauro Palma Il Manifesto, 8 aprile 2025 Malgrado il ricorso alla legislazione di urgenza sia ormai prassi consolidata, non era immaginabile che lo strumento diventasse un mezzo per superare il dibattito parlamentare. Un provvedimento di “controllo” che muta il paradigma della penalità: da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di soggettività pericolose. Forse bisognerebbe ricordare le perplessità di Costantino Mortati nel corso della discussione che avrebbe portato alla formulazione dell’articolo 77 della Costituzione, quello che prevede la possibilità per il governo di adottare decreti-legge in caso di necessità e urgenza. Il grande costituzionalista intervenne nel settembre del 1947 nel dibattito che si era aperto con la constatazione che il Progetto predisposto dal Comitato ristretto dell’Assemblea costituente non li prevedeva e che, secondo quanto suggerito da Pietro Calamandrei, un qualche spiraglio andava lasciato, per esempio, per provvedere urgentemente in caso di terremoti o simili situazioni: “Bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla”. Mortati metteva in guardia rispetto al rischio estensivo di quel concetto di urgenza e di necessità, negando a quest’ultima la possibilità di esondare dal normale procedere legislativo, quasi configurandola come “fonte autonoma di diritto”. E, proprio per questo ammoniva: “L’esperienza ha infatti dimostrato come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del governo di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del parlamento, il quale tende a scaricarsi dei compiti di sua spettanza”. Il testo poi adottato nella Costituzione prevede una forma di “catenaccio” teoricamente volto a evitare il rischio di debordare. Certamente, però, quel dibattito non poteva prefigurare una situazione in cui allo strumento di legiferare per decreto, con successiva conversione, avrebbero fatto ricorso bulimico molti governi futuri - di vario orientamento politico - fino a svuotare il ruolo effettivo di almeno di una delle due camere, chiamata a ratificare a scatola chiusa quanto nell’altra si era dibattuto. Così come usualmente avviene ora. Soprattutto non poteva prevedere il ricorso al decreto-legge per superare un dibattito parlamentare attorno a un disegno di legge la cui approvazione fosse divenuta ardua proprio per le molte perplessità espresse da associazioni professionali, realtà sociali, esperti nonché da parlamentari stessi sul testo in esame. Ancor più nel caso in cui tale disegno di legge riguardasse quel bene che l’articolo 13 della Carta definisce come “inviolabile”: la libertà personale. Lorenza Carlassare si chiese anni fa se un decreto-legge potesse costituire quella tutela che la Costituzione richiede per tale bene. Invece, è proprio ciò che è avvenuto in questi giorni, con il disegno di legge cosiddetto “sicurezza” che era da più di un anno all’esame del senato, in maniera congiunta da parte della commissione per gli affari costituzionali e di quella per la giustizia e che ora si trasforma, con qualche attenuazione, ma con la stessa fisionomia, in decreto-legge. Non un testo qualsiasi, bensì un articolato che tocca vari aspetti e che sarebbe stato meglio definire di esteso “controllo” invece che non di “sicurezza”, perché i due termini non sono sinonimi e, al contrario, se il secondo esprime un valore da tutelare per la collettività nel contesto di garanzia dell’effettività dei diritti per tutti, il primo rappresenta un’inaccettabile intrusione nella espressione del dissenso. Un controllo che, nel testo del decreto-legge, muta anche il paradigma della penalità trasferendone la funzione da repressione di fatti costituenti reati a individuazione di soggettività di per sé assunte come potenzialmente pericolose. Non è possibile leggere altrimenti, per esempio, il mantenimento, pur attenuato rispetto al testo del discusso disegno di legge, della possibilità di restringere in dipartimenti detentivi donne incinte e madri di bimbi di età inferiore a un anno - nonostante sia per loro riservata la sistemazione in un Icam (Istituto a custodia attenuata per madri con bambini), considerato che ne esistono solo tre al Nord e uno in Campania e che così si porrà facilmente il problema della distanza dal proprio luogo familiare. Come pure è difficile leggere altrimenti le attenuazioni impresse all’originario nuovo reato di rivolta in carcere perché queste non risolvono la gravità di penalizzare l’inadempienza a ordini impartiti, soltanto col prevedere che tale passiva resistenza debba essere tale da incidere sul mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Come non cambia il senso del provvedimento, l’aver circoscritto le opere pubbliche o i servizi la cui interruzione determina, anche nel nuovo testo, forti aggravanti sul piano penale. Né incidono altre attenuazioni sul piano della facoltatività - e non l’obbligatorietà - per le università e gli enti di ricerca a collaborare con i Servizi di sicurezza per fornire informazioni e dati o, ancora, le attenuazioni nella politica repressiva nei confronti delle persone migranti irregolari. Sono attenuazioni che evitano il rischio di palese bocciatura e che sono state presentate enfaticamente, con anche lo sgarbo istituzionale di voler sottintendere l’intrinseca approvazione del Quirinale; ma che non mutano l’ambito paradigmatico del provvedimento. Che ruota appunto attorno a quella “necessità e urgenza” che il dibattito costituente aveva posto proprio per configurare un “catenaccio” che evitasse l’affermazione primaziale del potere esecutivo sulla produzione di norme da mantenere invece affidata al doveroso e libero dibattito parlamentare. Questo è il vulnus che tale modo di legiferare determina nell’ordinato sviluppo democratico centrato sul bilanciamento dei poteri e che è stato ed è l’asse centrale su cui la nostra Carta tesse il proprio filo. Perché di fatto - nonostante l’occhio vigile volto a far cadere le più palesi connotazioni poliziesche del provvedimento - si è azzerato un dibattito prolungato che aveva il segno di richiamare l’attenzione sul principio del limite che deve essere criterio regolatore dell’attività di governo e dello stesso potere legiferante. Qui il limite viene visto come un impaccio e per questo lo si supera forzando quello strumento che aveva costituito la lunghissima discussione nell’Assemblea costituente, protrattosi per più mesi, proprio per i rischi che si intravedevano. Anche molto inferiori a quelli che la realtà ci sta presentando. Obbrobrio sicurezza: le distorsioni giuridiche del Governo sono un atto autoritario di Vitalba Azzollini* Il Domani, 8 aprile 2025 Nella conferenza stampa sul provvedimento del governo in tema di sicurezza, trasformato da disegno di legge in decreto legge, Nordio e Piantedosi hanno provato a “normalizzare” talune distorsioni nell’uso della decretazione di urgenza, delle norme penali e di una certa prassi legislativa. Nella conferenza stampa sul provvedimento in tema di sicurezza, che il governo ha trasformato da disegno di legge in decreto legge, si è verificato un evento singolare. I ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi hanno provato a “normalizzare” talune distorsioni nell’uso della decretazione di urgenza, delle norme penali e di una certa prassi legislativa. Siccome questo è molto grave, può essere utile un chiarimento. Va premesso che il disegno di legge Sicurezza (ddl) era stato approvato dal Consiglio dei ministri nel novembre 2023, e la discussione in parlamento era iniziata il 27 febbraio 2024. Lo scorso marzo, dopo due letture, la Ragioneria generale dello stato aveva rilevato un errore: le coperture finanziarie erano state previste a partire dal 2024, anziché dal 2025. Ciò avrebbe richiesto una correzione, e quindi un’ulteriore lettura del provvedimento, con un allungamento dei tempi. Necessità e urgenza - Il governo ha l’onere di provare i presupposti di “necessità e urgenza” previsti per i decreti legge dall’articolo 77 della Costituzione. “Abbiamo pensato di dare una data certa di approvazione a un provvedimento che era stato preannunziato con grande importanza dal governo”, ha detto Piantedosi. Il decreto legge si è reso necessario perché il parlamento era andato “già troppo per le lunghe”, “si era perso troppo tempo”, e “questa è la necessità e l’urgenza” che il governo ha ravvisato. Ma tale motivazione non legittima l’uso del decreto. O si dimostra, ad esempio, che i reati contemplati dal decreto stesso hanno subito un’impennata, o che comunque nuove circostanze hanno mutato la situazione esistente al momento della presentazione del ddl e richiedono un intervento immediato, oppure il requisito dell’urgenza resta privo di fondamento. È vero che il decreto legge è l’unico strumento legislativo che consente una data certa di approvazione, in ragione del termine costituzionale di sessanta giorni per la conversione. Ma allora ci si chiede perché, invece di distorcerne l’uso, il governo non abbia avanzato, ad esempio nell’ambito della riforma del premierato, proposte per velocizzare l’iter parlamentare, come “corsie privilegiate” per il varo di determinate leggi o il monocameralismo. Il panpenalismo - Per il Guardasigilli Nordio, l’accusa di panpenalismo spesso rivolta al governo è infondata: è vero che il decreto introduce nuovi reati e inasprimenti di sanzioni, ma il fine è quello di garantire “certezza della pena e soprattutto certezza anche della sicurezza dei cittadini”. Peccato che certezza della pena significhi punire i colpevoli in modo effettivo e tempestivo, cosa che può essere assicurata solo da una giustizia che funzioni bene. E se la giustizia non funziona bene, come in Italia, l’aumento di reati, pene e aggravanti non garantisce ai cittadini maggiore sicurezza. Il ministro ha giustificato tale aumento anche affermando che “il diritto penale si deve evolvere secondo le necessità di tutela evidenziate dallo svolgersi degli eventi”. Nordio ha omesso di dire che le fattispecie previste dal decreto erano comunque già sanzionate. E soprattutto non ha spiegato perché, nell’ottobre 2022, dopo il giuramento come ministro della Giustizia, aveva affermato che “la velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati”, mentre ora agisce in senso opposto. La chiarezza delle leggi - Il Guardasigilli ha infine detto che si tratta di un “corposissimo decreto legge di 34 articoli”, che “è complicato anche leggerlo”, ma “la tecnica legislativa è questa”. Al ministro andrebbe ricordato che questa è la “tecnica” - parola con cui Nordio nobilita una pessima prassi - che esperti in tema di qualità della regolamentazione criticano da tempo. E l’hanno fatto, da ultimo, presso i Comitati per la legislazione di Camera e Senato, durante l’indagine su profili critici della produzione legislativa, stigmatizzando il ricorso sistematico ai decreti legge; l’adozione di norme frammentate che contengono rinvii, richiami e riferimenti ad altre norme contenute in fonti diverse, con conseguente “illeggibilità e difficoltà interpretativa”. Alla “chiarezza dei testi normativi” è intitolata una disposizione (l. n. 400/1988, art. 13-bis, introdotto nel 2009), che detta principi generali tesi ad assicurarne la “chiara comprensione” e impone al governo di attenervisi. Se il ministro ammette che è complicata addirittura la lettura del nuovo decreto legge, figuriamoci capirlo, si sta autodenunciando per la violazione della disposizione citata? *Giurista Contro la dittatura del vittimismo: un antidoto alla bulimia punitiva di Cristiano Cupelli Il Foglio, 8 aprile 2025 La severità dello strumento penale viene percepita come la risposta più immediata e confortante a problemi complessi. Ma bisogna studiare, comprendere e superare il dogma vittimistico che dalle viscere del senso di fallimento individuale arriva ormai a condizionare le scelte politico-criminali. La proposta di introdurre nel codice penale un’autonoma figura di reato di femminicidio e il dibattito che ne è scaturito, ravvivato dai drammatici fatti di cronaca delle ultime ore, offrono l’occasione per chiedersi se davvero il troppo (e male) punire rappresenti esclusivamente il frutto di spregiudicati calcoli elettorali e vada pertanto ricondotto alle sole responsabilità del decisore politico o se, sullo sfondo, si possano intravedere matrici ulteriori. Con la consueta profondità di analisi, Giovanni Fiandaca sta denunciando ormai da tempo, anche su queste pagine, il dilagare, apparentemente inarrestabile, di una coazione ad ampliare la sfera del penalmente rilevante attraverso la frenetica introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, mossa dall’obiettivo di inseguire continue emergenze e placare discutibili ansie securitarie. Il fenomeno, efficacemente ribattezzato “bulimia punitiva”, si traduce in una produzione normativa schizofrenica, ancorata non a effettivi bisogni di tutela ma alla ricerca spasmodica di rendite politico-elettorali: nuovi reati e aumenti di pena quali strumenti di acquisizione del consenso, diretti a massimizzare l’impatto simbolico del loro annuncio per sedare bisogni emotivi di sicurezza, offrendo all’opinione pubblica la rassicurante sensazione di tenere tutto sotto controllo. La severità dello strumento penale viene così percepita come la risposta più immediata e confortante a problemi complessi, a prescindere dall’effettiva idoneità a risolverli e dalle concrete ricadute di ordine sistematico (ingolfamento del catalogo dei reati, sovraccarico della macchina giudiziaria, drammatica moltiplicazione dei costi economici e umani di indagati destinati a sofferenze preventive inutili e sproporzionate). Al cospetto di questo scenario - e tutto ciò condiviso - occorre provare a fare un passo avanti, guardando al di là del comodo refrain delle colpe della politica e dello scadimento del modello rappresentativo. Sia chiaro: il panpenalismo è un fenomeno degenerativo serio e attuale delle società contemporanee, alimentato dalla combinazione tra l’istinto verso una pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali, la pulsione emotiva e la fascinazione verso la creazione di nuovi reati; come ben sappiamo, si tratta di fattori che possono prendere il sopravvento sulla preliminare considerazione dell’esistente e sulla serena disamina della realtà fattuale e legislativa, alimentando la proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive. Senonché, allontanandoci dalle contingenze e ricordando che i rappresentanti non sono altro che lo specchio dei rappresentati - e dunque le rispettive responsabilità non possono essere disgiunte - non si può fare a meno di considerare come questa moderna passione punitiva corrisponda a un sentimento radicato nella società di oggi, nella quale - ammettiamolo - il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta e la ricerca della verità diviene una formula vuota e stereotipata dietro la quale si cela la ricerca di un capro espiatorio da consegnare quanto prima alla dittatura del vittimismo; un’imperante tirannia, quest’ultima, che, abbondantemente enfatizzata dalla proiezione mediatica, pervade la quotidianità in nome del deresponsabilizzante canone per cui se qualcosa non è andata per il verso giusto è sempre colpa di qualcun altro, che va (quanto prima) individuato e (penalmente) sanzionato. Se davvero si vuole provare ad arginare la deriva, prendendo sul serio l’esortazione di Giovanni Fiandaca a una “pedagogia collettiva” che apra alle ragioni psicosociali, occorre allora che studiosi e tecnici del diritto si confrontino anzitutto sull’esatta dimensione del fenomeno, indagando a tutto tondo le cause di questa inflazione penalistica. Non basta la semplice presa d’atto che punire troppo non rende la società più sicura, puntando il dito solo verso gli opportunismi della politica. La prospettiva, da cui muovere e su cui investire, è più ampia; certamente impone di diffondere i limiti dello strumento penale e di chiarire alla politica e ai cittadini, al di fuori della contrapposizione ideologica, i termini effettivi della capacità preventiva e orientativa delle fattispecie incriminatrici. Ma per non risultare vano, l’impegno deve essere accompagnato da uno sforzo ulteriore: studiare, comprendere e superare il dogma vittimistico che dalle viscere del senso di fallimento individuale arriva ormai a condizionare le scelte politico-criminali e la stessa fisionomia del processo penale. Richiamare il potere legislativo e giudiziario a non assecondare l’ansia collettiva di individuare - sempre e comunque - un responsabile rappresenta solo il primo passo. “L’ipocrisia delle correnti sull’imparzialità del magistrato”. Parla il giudice Andrea Reale (Anm) di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 aprile 2025 Lo sfogo del rappresentante del gruppo Articolo 101: “Nel corso del tempo le correnti si sono avvicinate apertamente a partiti politici e non hanno mai smentito la vicinanza ideologica a quelle fazioni, appannando così l’immagine di imparzialità della magistratura”. “Stiamo discutendo se partecipare a eventi organizzati da partiti possa appannare o meno l’immagine di imparzialità della magistratura, ma la nostra immagine di imparzialità è stata intaccata dal modo in cui abbiamo vissuto l’associazionismo giudiziario. In questi anni noi stessi abbiamo macchiato la nostra immagine apparendo più vicini alla sinistra (con le correnti Area e Magistratura democratica), oppure più alla destra (con Magistratura indipendente), oppure al centro (Unicost). Ma di che parliamo? Questa è la fiera della grande ipocrisia delle correnti”. Con queste parole il giudice Andrea Reale, esponente del gruppo anti-correnti Articolo 101, lo scorso fine settimana ha fatto calare il gelo durante la riunione dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Uno sfogo che ha generato un silenzio imbarazzato. “Nel corso del tempo le correnti si sono avvicinate apertamente a partiti politici e non hanno mai smentito la vicinanza ideologica a quelle fazioni”, spiega Reale al Foglio. “Il giudice deve essere e apparire imparziale innanzitutto nell’attività giurisdizionale, ma se nell’ambito dell’associazionismo le correnti si avvicinano ai partiti, per ragioni di collateralismo, viene appannata l’immagine di imparzialità della magistratura. Questo fenomeno si rispecchia anche sulla collocazione fuori ruolo dei magistrati. C’è uno spoil system continuo: il governo di centrodestra assume fiduciariamente i magistrati vicini al gruppo di Mi, quando c’è un governo di centrosinistra questo assume quelli di Area o Md. Unicost è al centro e si presta sia agli uni che agli altri”, aggiunge Reale, giudice a Ragusa e uno dei due esponenti di Articolo 101 al comitato direttivo centrale dell’Anm. Durante la riunione dell’Anm, Reale ha anche fatto riferimento alla tendenza dei cittadini, quando si ritrovano nelle aule di giustizia, a chiedere “a quale corrente appartiene il giudice”, invitando i colleghi a interrogarsi sui motivi per i quali ciò avviene. “Si tratta di un dato di fatto - spiega al Foglio - Su questo purtroppo una grande corresponsabilità ce l’hanno gli organi di informazione e la politica, che spesso rimproverano ai magistrati un atteggiamento ideologico nell’esercizio della loro funzione, ad esempio di fronte a decisioni non gradite in tema di immigrazione. Ma a questa perdita di fiducia da parte dei cittadini ha contribuito anche la palese vicinanza di alcune correnti ai partiti. Peraltro tanti degli appartenenti alle correnti utilizzano questo collateralismo per fulgide carriere”. Anche il gruppo Articolo 101 è contrario alla riforma costituzionale della magistratura elaborata dal ministro Carlo Nordio, ma da sempre si dice favorevole all’introduzione del sorteggio temperato per l’elezione dei togati al Csm. “Ho letto con grande interesse l’intervista al Foglio del consigliere del Csm Andrea Mirenda. Ecco, Mirenda è la testimonianza migliore che non sono necessarie quelle competenze speciali che le correnti evocano sempre per i consiglieri del Csm. Le correnti propugnano un modello di magistrato migliore da eleggere soltanto per giustificare la loro esistenza”, dice Reale. Secondo Mirenda, le correnti non hanno svolto alcuna vera autocritica al loro interno dopo lo scandalo Palamara. “Lo confermo pienamente, anzi al 101 per cento”, risponde Reale. “È questo che ha fatto perdere ulteriormente credibilità alla categoria. Dopo lo scandalo nessuna delle istituzioni della magistratura, Anm e Csm, ha adottato un’autoriforma efficace per evitare ulteriori degenerazioni. Questo è confermato dal fatto che le correnti continuano a fare anche al Csm ciò che facevano prima. Continua, ad esempio, la prassi del voto per blocchi: i magistrati di Mi votano un certo candidato, quelli di Area un altro e così via. A dimostrazione plastica che c’è un’occupazione dei partiti politici della magistratura all’interno del Csm”. Questo ha inciso sul modo con cui la maggioranza di governo ha elaborato la riforma costituzionale, cioè andando dritta sulla propria strada? “Sì - replica Reale - Sicuramente noi avremmo dovuto essere maggiormente coinvolti. Se lo avessimo fatto fin dall’inizio con proposte serie probabilmente la politica avrebbe usato meno bastone e non avrebbe scritto una riforma che appare punitiva nei confronti della magistratura”. Mantovano: “Giudici contro la volontà popolare. Il rischio è che si percepiscano establishment” di Lorenzo Stasi L’Espresso, 8 aprile 2025 Il Sottosegretario: “Riduttivo parlare di toghe rosse, è un cronico sviamento della funzione giudiziaria. Spesso deragliano dai propri confini per decidere le politiche sui temi più sensibili”. Nel suo discorso di fronte agli avvocati del Consiglio forense per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il registro linguistico scelto da Alfredo Mantovano è da addetti ai lavori. Ma il senso del suo messaggio è chiaro - la magistratura spesso fuoriesce dai suoi confini e si percepisce come un potere intoccabile - e si trasforma inevitabilmente nell’ennesimo capitolo del continuo scontro tra governo e toghe. C’è “la tendenza delle corti a negare spazi regolativi al legislatore”. Una tendenza, ha spiegato il potentissimo sottosegretario e tra i principali consiglieri di Giorgia Meloni, “che erode gli spazi di diretta espressione della sovranità popolare. Pensiamo, per riportare un esempio di leggi sistematicamente disapplicate, a quelle in materia di immigrazione”. Il riferimento, per rimanere sulla cronaca più recente, è ai mancati trattenimenti dei richiedenti asilo nei centri per migranti in Albania che, in attesa della pronuncia della Corte di giustizia europea sulla definizione di “Paese sicuro”, sono stati trasformati dal governo in “semplici” Cpr. Per Mantovano è riduttivo parlare semplicemente di “toghe rosse in azione”, termine usato più volte da esponenti di centrodestra, perché è un fenomeno “più complesso e più grave. È un ormai cronico sviamento della funzione giudiziaria - ha continuato - perché quest’ultima deraglia dai propri confini e decide, insieme alle norme, le politiche sui temi più sensibili. Ed è uno sviluppo che attraversa tutte le giurisdizioni a prescindere dalle appartenenze correntizie”. Il rischio, per l’ex magistrato “prestato” alla politica al fianco di Meloni, “è che la magistratura percepisca se stessa non già come chi è chiamato a esercitare l’arte regale dello ius dicere nel caso concreto, bensì come parte di un establishment che ha la funzione di arginare la ‘pericolosa’ deriva della coerenza fra la manifestazione del voto, la rappresentanza politica e l’azione di governo”. Il tema della “giurisprudenza creativa non è nuovo - ha proseguito Mantovano -. La novità oggi è il suo carattere non più eccezionale, bensì diffuso tra tutte le giurisdizioni, con riferimenti alle fonti internazionali ed europee, dando una lettura estensiva, per non dire arbitraria, delle norme costituzionali, attingendo al cosiddetto multilivello - ha sottolineato il sottosegretario - una sorta di shopping fra le disposizioni di altri ordinamenti nazionali”. Con che finalità? “Per costruire discipline che il parlamento non ha mai approvato o perché non le condivide o perché non ritiene di trattarle”. L’intervento prendeva spunto dalla recente sentenza contro Marine Le Pen e dall’incandidabilità della leader del partito di destra francese Rassemblement National. “Va scongiurato lo spettro del reciproco sospetto che avanza con l’avanzare fra le Corti e le istituzioni politiche. Va scongiurato, in particolare, il sospetto che il perseguimento dell’insindacabilità del soggetto politico visto come ostile condizioni il merito della decisione giudiziaria, perché questo sospetto mina in modo irreparabile la fiducia dei cittadini nella giustizia e nella politica. Non aiuta che talune forze politiche - ha continuato Mantovano - paiano ancora liete degli azzoppamenti giudiziari dell’avversario, pur di ottenere chance nella competizione elettorale. Non entro nel merito delle accuse a lei rivolte all’interno della giurisdizione di un altro Stato europeo. Mi limito a constatare che commentatori di parti politiche contrapposte a Marine Le Pen, in Francia come in altre nazioni, Italia inclusa, hanno espresso forti dubbi sulla proporzione fra i reati posti a base della condanna, l’entità di quest’ultima, e soprattutto l’applicazione anticipata della sanzione accessoria. Non entrare nel merito non impedisce però di riflettere sul criterio di proporzione, e quindi sul bilanciamento operato”. Ma è proprio parlando sul caso Le Pen che, secondo Mantovano, quel che è accaduto Oltralpe si tocca con l’erosione (italiana) degli “spazi di sovranità”. Sono tre, per il sottosegretario, “le tipologie di aggiramento della volontà popolare attraverso la strada giudiziaria: la creazione delle norme per via giurisprudenziale; la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo; la selezione per sentenza di chi deve governare”. “I giudici erodono la sovranità popolare”, le toghe insorgono contro Mantovano Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 8 aprile 2025 “Ormai lo scenario è più grave della macchiettistica questione delle toghe rosse. C’è un cronico sviamento della funzione giudiziaria che deraglia dai propri confini e decide le norme, le politiche sui temi più sensibili e chi le deve applicare. Attraversa tutte le giurisdizioni a prescindere da appartenenze e collocazioni”. Scatena la reazione dell’Anm la critica del sottosegretario di Stato, Alfredo Mantovano, alla magistratura che “erode la sovranità popolare” e si fa “establishment”. Un’analisi condivisa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Non è più una questione di toghe rosse o nere”, dice al Consiglio nazionale forense, ma “obbedisce, nella degenerazione correntizia, a criteri di potere”. L’Anm replica dura con il vicesegretario Stefano Celli: “In un sistema democratico, accanto al potere legislativo ed esecutivo, ce ne sono altri che, per legge, effettuano controlli e tutelano diritti. È fisiologico che i provvedimenti della magistratura talvolta non vadano nella direzione auspicata del governo. Se si ritiene che un magistrato abbia esercitato un potere non suo, si può ricorrere alla Consulta e sollevare conflitto di attribuzione”. Proprio questo è il punto sollevato dal sottosegretario magistrato. La “tendenza pericolosa” a “disapplicare le leggi (anche annunciandolo prima)”, piuttosto che impugnarle. Mantovano fa due esempi per chiarire che cosa causi le “tensioni fra poteri dello Stato che rendono l’equilibrio tracciato nelle Costituzioni più precario”: le leggi “sistematicamente disattese sull’immigrazione” e, in Francia, la sanzione di ineleggibilità di Marine Le Pen. Parte dal “ruolo centrale assunto dal diritto sovranazionale”, anche se precisa: “Non desideriamo delegittimare l’Ue, bensì che la nostra Repubblica continui a preservare il suo fondamento: il principio della sovranità popolare”. Ora, dice, è aggirato in tre modi. Con sentenze creative che fanno “shopping negli altri ordinamenti dando vita a norme mai approvate dal Parlamento”. Con la “sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo”. E con la “selezione per sentenza di chi deve governare”. E rincara: “C’è il rischio che la magistratura si percepisca come establishment con la funzione di arginare la “pericolosa deriva” della coerenza con il voto. Anche nelle riforme costituzionali”. Quindi, avverte: “Ritrovare l’equilibrio è indispensabile” Zaccaro: “Contro di noi accuse infamanti, pensino piuttosto a far funzionare la giustizia” di Niccolò Carratelli La Stampa, 8 aprile 2025 Giovanni Zaccaro, giudice a Roma e segretario di AreaDg, secondo il ministro Nordio voi magistrati obbedite a “criteri di potere”. “Mi pare che ormai il Ministro si dedichi più alle esternazioni che a garantire il funzionamento dei servizi della Giustizia, come la Costituzione gli impone. Lancia accuse tanto infamanti quanto generiche. Se Nordio conosce persone ed episodi specifici, dovrebbe esercitare l’azione disciplinare come la legge gli impone. Se non li conosce, dovrebbe essere più sobrio nei giudizi nei confronti di un potere dello Stato”. Per il sottosegretario Mantovano, invece, “deragliate”, da parte vostra c’è un “cronico sviamento della funzione giudiziaria”… “Parlare di magistrati che deragliano offende tutti quelli che, a migliaia, sono chiamati a dare risposta di giustizia anche quando mancano i mezzi, che il governo deve assicurare. E anche quando il Parlamento è inadempiente su temi sensibili, basti pensare al fine vita. Mantovano è legato a una cultura giuridica superata da decenni. Certamente le norme penali devono essere decise dal Parlamento, ma lui sottovaluta la forza espansiva dei diritti fondamentali, tutelati e promossi dalle fonti sovranazionali, a prescindere dalle pulsioni contingenti delle maggioranze di turno”. Si conferma, da parte dei due più autorevoli esponenti del governo in tema di Giustizia, un’aperta ostilità nei confronti dei magistrati, oltre a una certa allergia alla separazione dei poteri. Si ricorda periodi così complicati per chi fa il vostro lavoro? “Io sono entrato in magistratura in piena epoca berlusconiana, ma in quei tempi l’obiettivo di certa politica era salvare persone e aziende da indagini. Nell’epoca del populismo, invece, chi vince le elezioni si sente legittimato a governare senza limiti e vede le Corti e i Parlamenti come ostacoli da ridimensionare. Da qui l’avversione verso la magistratura, chiamata a un ruolo di garanzia e controllo. E assurdo che chi cerca di tutelare i diritti è accusato di essere nemico dell’interesse nazionale”. Nel mondo ideale del ministro della Giustizia, “avvocati, pm e giudici sono intercambiabili”: siamo già oltre la separazione delle carriere? “Io penso che un periodo di comune esperienza di tutti i laureati nelle funzioni della giurisdizione (giudice, pubblico ministero, avvocato) servirebbe a tutti, soprattutto ora che le professioni legali sono in crisi. Ma la riforma di Nordio non mira a questo, anzi porta a una deleteria contrapposizione fra magistratura e avvocatura penale”. La prossima settimana l’Anm incontrerà Nordio per parlare del decreto Sicurezza appena approvato dal governo: qual è l’aspetto più preoccupante? “Il pacchetto sicurezza è il manifesto della politica della maggioranza in materia di giustizia: forti con i deboli e deboli con i forti. Mentre si depenalizzano i reati dei colletti bianchi, si promettono misure di favore agli evasori, si limitano le intercettazioni, si aumentano le pene verso i delinquenti di strada e si usa la minaccia della pena per combattere il dissenso”. Bongiorno: “La riforma non punisce i magistrati ma le degenerazioni correntizie” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 8 aprile 2025 La presidente della commissione Giustizia del Senato ha fatto approvare a congresso leghista una mozione di sostegno al ddl sulla separazione delle carriere. “Anche nella magistratura ci sono voci autorevoli a favore della riforma”. Giulia Bongiorno, avvocato e presidente della commissione Giustizia del Senato, è convinta che una parte significativa delle toghe, in cuor suo, condivida l’impianto e le finalità del testo Nordio sulla separazione delle carriere, ma non possa dirlo apertamente. Dopo essere salita, domenica scorsa a Firenze, sul palco del congresso leghista per illustrare la mozione di cui era firmataria assieme al deputato Jacopo Morrone, nella quale si chiede al partito di Matteo Salvini di adoperare ogni sforzo per sostenere il cammino della riforma dell’ordinamento giudiziario, ha affidato al Dubbio qualche riflessione supplementare. “Noi”, afferma Bongiorno, “sosteniamo con grande convinzione la riforma e ricordo che alcuni temi erano oggetto di un referendum portato avanti dalla Lega. La mia mozione”, prosegue, “si sofferma su vari profili della giustizia e nel mio breve intervento mi sono limitata a ricordare che la riforma è necessaria ed è assolutamente fuorviante parlare di riforma punitiva della magistratura”. “Punirà”, prosegue la senatrice, “le degenerazioni delle correnti e premierà i magistrati meritevoli che magari sono stati penalizzati dal fatto di non essere iscritti alle correnti”. “Unico obiettivo”, conclude, “è l’indipendenza e terzietà dei giudici”. Non a caso Bongiorno, parlando alla platea congressuale, aveva sottolineato che a suo avviso “forse non tutti hanno compreso l’importanza di questa riforma” e non aveva lesinato delle stoccate a certi settori delle toghe che si sono resi protagonisti di vicende poco edificanti dal punto di vista della terzietà e dell’indipendenza della categoria, citando alcuni stralci delle ormai famigerate intercettazioni delle chat dell’ex- presidente dell’Anm Luca Palamara nelle quali alcuni magistrati sostenevano la necessità di colpire politicamente l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini (poi difeso dalla stessa Bongiorno nel vittorioso processo Open Arms). L’iter della riforma, come è noto, è solo agli inizi: trattandosi di un ddl costituzionale, necessita di una doppia lettura e per il momento è stato approvato in prima lettura a Montecitorio e attualmente è all’esame della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Un cammino lungo, che culminerà quasi certamente in un referendum confermativo, ed è in quell’ottica che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha già iniziato ad insistere sui benefici più tangibili per i cittadini della riforma. “Spero che i tempi siano rapidi”, dice al Dubbio Bongiorno, “ma non sono in grado di fare previsioni”. “A prescindere dal referendum”, prosegue, “è un bene spiegare i contenuti perché ho sentito critiche totalmente disancorate dal testo. Sostenere ad esempio come fanno molti che la riforma colloca la magistratura sotto il potere esecutivo significa criticare una riforma che non c è. È auspicabile dibattere su ciò che c’è nel testo non su questioni inesistenti”. Tra le questioni drammaticamente esistenti e che sono connesse al sistema giustizia e alla sua amministrazione, c’è quello del sovraffollamento carcerario, col conseguente degrado delle condizioni di detenzione. Il numero dei suicidi, negli ultimi anni, è in aumento e la tendenza non sembra poter essere invertita, almeno per il momento. Interpellata su questo, più nelle sue vesti di avvocato che di parlamentare, Bongiorno osserva che “si tratta di un problema grave, anzi direi gravissimo”. “Ne siamo tutti consapevoli”, aggiunge, “a partire dal ministro. Naturalmente è un problema antico che non si risolve in pochi mesi”. “Servono nuove strutture”, conclude, “perché altre soluzioni si sono rivelate inutili”. Caso Moussa Diarra, la Procura ricorre al segreto istruttorio sulle immagini delle telecamere di Giulio Cavalli Il Domani, 8 aprile 2025 La famiglia del 26enne originario del Mali, ucciso alla stazione di Verona il 20 ottobre 2024, ha nominato Fabio Anselmo come avvocato, secondo cui ci sono “motivi di dubbio che meritano di essere approfonditi”. Il pm ha dato parere negativo all’accesso agli atti perché quei filmati che mostrerebbero cosa è successo avrebbero potuto essere dati alla stampa. È una storia che ne contiene molte, quella di Moussa Diarra, il ventiseienne ucciso alla stazione di Verona Porta Nuova all’alba del 20 ottobre 2024. Di certo, per ora, ci sono quei tre fori sul suo giubbotto: uno vicino al polso, uno sul cappuccio e uno all’altezza del cuore. Sono i proiettili sparati dall’agente della Polizia ferroviaria. “Con tutto il rispetto, non ci mancherà”, ha scritto poco dopo la notizia della morte di Moussa il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini. Con il corpo di Moussa ancora caldo, la procura e la questura di Verona vergano un comunicato stampa che ha già il sapore della sentenza: aggressione con coltello, danneggiamenti pregressi, reazione armata inevitabile. Il giorno dopo, sul quotidiano veronese L’Arena, Moussa viene descritto come “rifugiato in fuga da un paese in guerra”, poi “diventato facile manovale nell’ambito dello spaccio”. “Tutti parlano del giovane che sembrava indemoniato, non era contenibile”, scrive lo stesso giorno Il Giornale. Nero, spacciatore, drogato, armato, con un poliziotto che non poteva fare altro che difendersi e che, per di più, ha tentato di salvarlo. Il caso aperto è già pronto per essere chiuso. Poi tutto cambia. L’avvocato Fabio Anselmo, già difensore dei familiari di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, nota come “nel secondo comunicato della procura si fa riferimento a notizie scorrette e si dice che il fatto non è inquadrato in un problema di sicurezza nei pressi della stazione”. Il drogato spacciatore “era in una situazione di confusione e agitazione, disagio fisico”, “spariscono i termini violenza e danneggiamento”, osserva Anselmo, mentre la procura dichiara “fiducia incondizionata nella questura per le indagini”. “Perché dirlo pubblicamente?”, si chiede l’avvocato, che da qualche giorno ha deciso di assumere la difesa di Diarra. “Il ruolo di un pubblico ministero e la fiducia incondizionata è un ossimoro, perché deve verificare tutto e tutti”, spiega a Domani. “Questi comunicati trasmettono un’ansia che un po’ mi imbarazza”. L’avvocato Anselmo non vuole puntare il dito contro nessuno, ma ricorda come la Cedu imporrebbe di affidare le indagini ad altri corpi rispetto a quelli degli indagati. “Nella mia carriera ho trovato professionisti positivi e imparziali, ma mi sono imbattuto anche in veri e propri depistaggi per spirito di corpo. Nei casi Aldrovandi e Cucchi, nuove inchieste autonome sono finite in condanne e processi”. Non c’è traccia, per ora, nemmeno delle immagini delle telecamere che avrebbero “cristallizzato” gli eventi. “Quando le mie colleghe hanno chiesto le immagini, il pm ha dato parere negativo all’accesso agli atti perché avrebbero potuto essere date alla stampa. Ma il segreto istruttorio dovrebbe garantire l’efficacia delle indagini, garantisce anche l’indagato, anche perché la vittima qui non c’è più”. Gli amici di Moussa bisbigliano un sospetto. “Se le telecamere mostrassero chiaramente che si tratta di legittima difesa del poliziotto, quelle immagini sarebbero state rese pubbliche fin da subito”. Di sicuro, oltre alle pallottole e al corpo morto, ci sono le ferite di Moussa, quelle che non hanno sanguinato e che si è portato addosso prima di morire. Nato a Kita, in Mali, “a Moussa piaceva molto la scuola e nostro padre voleva che proseguisse gli studi, ma purtroppo mancavano i soldi per pagare. Ricordo mio fratello insistere tanto per restare a scuola, ma alla fine il direttore l’ha mandato via”, racconta Djemagan Diarra, che da cinque mesi è a Verona per chiedere giustizia e “per riportare a casa il corpo di mio fratello”. Nel 2014 Moussa ha viaggiato verso la Libia, che l’Italia ha trasformato nell’imbuto violento del Mediterraneo. Due anni di violenze e poi la partenza per l’Italia. Nonostante il riconoscimento dello status di rifugiato, i decreti sicurezza di Salvini nel 2018 lo hanno relegato nel Cas Costagrande di Verona, un limbo di instabilità. “A Verona lavorava tanto e mandava regolarmente i soldi a nostra madre”, racconta il fratello. “È stato lui a prendersene sempre cura, a occuparsi di tutte le cose necessarie e di tutte le cure mediche per nostra madre, che purtroppo è paralizzata da un lato del corpo”. Oltre alla Libia, all’incertezza italiana e alla famiglia lontana, Moussa qualche mese fa ha dovuto affrontare anche la morte del padre. Forse è stato lì che ha cominciato a sprofondare. “Lo sentivo molto sofferente - dice Djemagan -. In quel periodo non lavorava e così è stato costretto a farsi prestare i soldi da alcuni amici per pagare il funerale”. Fino a quel 20 ottobre. “Sono qui da cinque mesi e mio fratello è dentro a un congelatore. I medici hanno confermato che non faceva uso di droghe. Nessun documento parla di lui come spacciatore. Chiedo che la giustizia faccia il suo lavoro, io non posso fare molto di più di quello che sto facendo. Mio fratello Moussa era un africano nero. E la sua pelle non è niente su questa terra, non vale nulla su questa terra. Come ci sono bianchi cattivi ci sono neri cattivi. A me hanno aiutato bianchi e neri, sostenendomi fisicamente, mentalmente, con la loro presenza e con la loro forza. Io non posso fare altro che fidarmi della giustizia”. L’avvocato Anselmo ricorda come all’inizio “Sandri fosse morto per un colpo sparato in aria, Aldrovandi per overdose e Cucchi per morte naturale”. “Non ho la verità in tasca - dice - ma ci sono motivi di dubbio che meritano di essere approfonditi”. Di certo, per ora, ci sono quei tre fori sul suo giubbotto, le immagini che nessuno ha ancora visto e l’odore di razzismo che si annusa tutto intorno. “Sequestro di persona”. Gli ecoattivisti denunciano la polizia a Roma e Brescia di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 aprile 2025 Gli ecoattivisti avviano azioni legali contro le modalità di fermo e identificazione durante due recenti proteste. “Perquisizioni degradanti e arbitrarie”, “violenza privata” e soprattutto “sequestro di persona”. Sono le accuse contenute in due denunce presentate dagli attivisti di Extinction rebellion (Xr) contro le questure di Roma e Brescia. Secondo gli ecoattivisti, e i legali che li rappresentano, le autorità avrebbero “apertamente violato le procedure previste dalla legge” nei fermi e identificazioni per le proteste realizzate il 22 novembre 2024 e il 13 gennaio 2025 nelle due città. Nella prima un centinaio di manifestanti ha scaricato cinque quintali di letame davanti alla sede del ministero dell’Interno, nella capitale, per protestare contro “le politiche inquinanti del governo e la promozione di misure volte a reprimere il dissenso”. In 75 sono stati portati con la forza negli uffici della questura di via Teofilo Patini e, denuncia Xr, “privati degli effetti personali, sottoposti a rilievi biometrici e trattenuti per dieci ore senza la redazione di alcun verbale”. Nella seconda mobilitazione, in Lombardia, gli ecoattivisti hanno preso di mira la fabbrica bellica della Leonardo affermando che l’azienda ha responsabilità nel massacro in corso a Gaza e nella crisi climatica. Dopo lo sgombero del presidio 17 manifestanti sono stati portati in questura e trattenuti per nove ore. Alle donne è stato “ordinato di spogliarsi completamente ed eseguire degli squat”. In entrambi i casi si è trattato di proteste pacifiche e tutti i partecipanti hanno immediatamente fornito alle autorità i propri documenti. È questa la ragione che ha dato il via alle azioni legali. “Abbiamo contestato il sequestro di persona perché non era necessario trattenere le persone per identificarle - afferma Gilberto Pagani, uno dei difensori di Xr - Dai video si vede benissimo che tutti erano già stati identificati al momento dell’azione. Dagli stessi atti emerge che le perquisizioni sono state arbitrarie. Parliamo poi di violenza privata perché gli attivisti sono stati costretti a rimanere molte ore in questura senza motivo”. Per i fatti bresciani l’accento è anche sul trattamento riservato alle donne. La questura ha dichiarato che tutto si è svolto nel rispetto delle procedure salvaguardando “riservatezza e dignità delle persone” e che i piegamenti sulle gambe sono stati ordinati “al fine di rinvenire eventuali oggetti pericolosi”. Per Pagani, però, “quel tipo di perquisizioni fisiche sono assolutamente incompatibili con i reati contestati”. L’azione legale arriva, non a caso, a poche ore da ciò che gli ecoattivisti definiscono un “golpe antidemocratico”: il varo per decreto di quello che sarebbe dovuto essere un ddl sicurezza. “Il senso delle nostre denunce - fa sapere Xr - non è identificare delle mele marce. Non ci interessa trovare singoli “poliziotti cattivi”. Questi abusi sono strutturali e seguono ordini che vengono dall’alto con l’obiettivo di reprimere il dissenso. Dei movimenti climatici e di tutti gli altri”. Cassazione: lo spazio vitale in cella non può includere i letti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2025 La decisione ridisegna i confini della dignità in prigione. La Cassazione ha stabilito che lo spazio vitale minimo garantito a un detenuto non può includere l’area occupata dai letti, anche se amovibili, ribaltando una sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia che aveva rigettato il ricorso di un detenuto recluso nel carcere di Parma e riaccendendo così il focus sul confine tra legalità e dignità umana nelle carceri italiane. Parliamo di sovraffollamento e delle inevitabili conseguenze risarcitorie. Con la sentenza n. 728/2025, depositata lo scorso 3 aprile, i giudici della Prima Sezione Penale hanno annullato un’ordinanza che negava il risarcimento a un detenuto del carcere di Padova, costretto per oltre un anno in una cella che formalmente misurava quasi 9 metri quadrati, ma che nella realtà era condivisa con un altro recluso e, tolti i due letti, non garantiva lo spazio minimo vitale. Per il periodo compreso tra il 28 agosto 2021 e il 15 dicembre 2022, il ricorrente ha denunciato condizioni di detenzione “disumane e degradanti” nella struttura padovana. Secondo il Tribunale di Sorveglianza, la cella misurava 9,28 m² (escluso il bagno), con due letti singoli non fissati al pavimento. Senza considerare l’ingombro dei letti, lo spazio pro capite sarebbe stato di 4,64 m², superiore ai 3 m² richiesti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma si tratta di un dato solo apparente. Nei fatti - come ha fatto notare l’avvocato difensore nel ricorso alla Cassazione - sottraendo l’area occupata dai letti (3,38 m² totali), lo spazio libero scendeva a 5,90 m² per due persone (2,95 m² a testa). Quindi, sotto la soglia minima. Senza contare che, sempre secondo il reclamo originario presentato dal detenuto al magistrato di sorveglianza, il tutto era aggravato dalla presenza di muffe sulle pareti della cella, da carenze nel riscaldamento e da infiltrazioni di pioggia provenienti dalla finestra. Il Tribunale aveva respinto il reclamo, sostenendo che i detenuti avrebbero potuto “incastellare” i letti (sovrapporli) per liberare spazio, ma che avevano scelto di non farlo. Inoltre, aveva sottolineato che l’uomo godeva del regime aperto (10 ore al giorno fuori dalla cella) e di servizi essenziali (bagno separato, acqua calda, riscaldamento). La Cassazione ha demolito questa logica. Secondo i giudici, l’ingombro dei letti deve essere sempre scomputato, poiché ostacola il movimento, anche se i mobili sono teoricamente spostabili. La motivazione è chiara: lo spazio “libero” è solo quello effettivamente calpestabile, non quello nominale. Anche se i letti offrono una superficie per sedersi o dormire, non contribuiscono alla libertà di movimento, tutelata dall’articolo 3 della Convenzione Europea. Di conseguenza, i 2,95 m² pro capite costituiscono una forte presunzione di trattamento inumano, come stabilito dalla Corte di Strasburgo nel caso Mursic vs. Croazia (2016). Per questo motivo, i giudici supremi hanno annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Se sarà sancito che, di fatto, celle così sono fuori regola, vorrà dire che il problema riguarda non solo l’intero carcere Due Palazzi di Padova, ma anche il resto dei penitenziari italiani. Dl Cutro, la Cassazione limita le espulsioni come forma alternativa alla detenzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2025 Per la Prima sezione penale vanno comunque valutati i legami familiari e affettivi che seppure non più tipizzati dalla norma costituiscono ormai principi sovraordinati. La Cassazione frena sulle espulsioni degli stranieri irregolari previste dal Dl Cutro, richiamandosi ai superiori principi della Cedu in materi di diritti umani. La Prima sezione penale, sentenza n. 13514 depositata oggi, ha così accolto il ricorso di un cittadino del Senegal arrivato in Italia da bambino e con forti legali familiari nel Paese, contro l’ordinanza di espulsione, alternativa alla detenzione, emessa dal Tribunale di sorveglianza di Ancona. Secondo la decisione impugnata non ricorrevano cause ostative all’espulsione, per come indicate dall’articolo 19 Dlgs n. 286 del 1998, nel testo riformulato dal Dl 20 marzo 2023, n. 20, conv. dalla legge 5 maggio 2023, n. 50. Il tribunale rimarcava poi la “natura tassativa delle medesime e il carattere sotto ogni altro aspetto obbligato della misura espulsiva”. Nel ricorso, l’imputato ha ribadito l’esistenza di legami sociali, familiari e affettivi con l’Italia che, “seppur - ammetteva - non formalmente inquadrabili nelle fattispecie tipizzate dall’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, andavano espressamente considerati nell’ambito del diritto al rispetto della vita personale e familiare dell’individuo, ancorché immigrato”. E la Suprema corte gli ha dato ragione affermando che nonostante le finalità di revisione della disciplina sull’immigrazione illustrate nella Relazione illustrativa del Dl Cutro, “è però da escludere che quest’ultima abbia la forza e rivesta il significato di scongiurare l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato - che, come osservato, avevano cittadinanza nell’ordinamento a prescindere dalla formale vigenza delle norme soppresse - e quindi di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 Cedu”. Per la Cassazione va dunque riaffermato il principio di diritto, secondo cui - pur dopo l’approvazione del Dl 10 marzo 2023, n. 20, conv. dalla legge 5 maggio 2023, n. 50, al cui art. 7 si deve, tra l’altro, la riscrittura dell’art. 19, comma 1.1, d.lgs. n. 286 del 1998 e l’abrogazione del suo terzo e quarto periodo - l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, stesso d.lgs., non può essere disposta, al pari di ogni altra forma di espulsione di natura penale, quando tale misura si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo” (n. 43082/2024). Prima dell’adozione del Dl Cutro la giurisprudenza di legittimità vietava il respingimento o l’espulsione di una persona qualora esistessero fondati motivi di ritenere che l’allontanamento comportasse una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. E sul punto si richiamavano la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, il suo effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine. Tali precetti normativi, spiega la Corte, sono stati tuttavia abrogati dall’articolo 7, comma 1, Dl 10 marzo 2023, n. 20, conv. dalla legge 5 maggio 2023, n. 50, “(n)ella prospettiva di una complessiva rivisitazione della disciplina della protezione speciale”. L’abrogazione, prosegue la Corte dopo una dettagliata analisi di articoli e commi sopravvissuti, assume però una “portata riduttiva, incidendo solo e piuttosto sulla selezione dei criteri di valutazione che presiedono al bilanciamento (imposto dall’art. 8 Cedu) degli interessi in gioco, posto che quelli esplicitati dal legislatore del 2020 (durata della presenza dello straniero sul territorio nazionale, effettività dei vincoli familiari, suo effettivo inserimento sociale, esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine) sono stati espunti dal sistema”. Quest’ultimo perde così, in proposito, i tratti di tipicità, ma anche di inevitabile rigidità, che era venuto ad assumere. L’interprete dovrà, allora, d’ora innanzi, fare diretto riferimento ai criteri - largamente sovrapponibili, ma soggetti alla flessibile mediazione giudiziale - elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale. Non è inutile allora ribadire, prosegue la Cassazione, che, secondo la Corte di Strasburgo, se l’art. 8 della Convenzione non prevede un diritto assoluto di non espulsione per nessuna categoria di stranieri, esistono circostanze in cui l’espulsione medesima si dimostra non necessaria in una società democratica e non proporzionata al legittimo obiettivo perseguito, comportando così la violazione di tale disposizione. E tra i criteri, considerati dalla Corte EDU pertinenti per valutare se una misura di espulsione sia lecita rispetto al parametro convenzionale, vanno annoverati, tra l’altro, la natura e la gravità del reato, la durata del soggiorno, la situazione familiare, la gravità delle difficoltà che il richiedente potrebbe incontrare nel paese verso cui deve essere espulso. E allora, tornando al caso specifico, per la Suprema corte il Tribunale di sorveglianza ha omesso ogni approfondimento in merito nonostante le allegazioni contenute nell’atto di opposizione, e cioè che lo straniero “avrebbe fatto ingresso in Italia sin da bambino, qui avrebbe compiuto l’intero suo percorso scolastico, qui vivrebbero la figlia minorenne cittadina italiana nonché tre fratelli, regolarmente soggiornanti e a lui fortemente legati, mentre non esisterebbero più suoi legami di alcun tipo con il Senegal”. Ricorso accolto e giudizio da rifare davanti al tribunale di Ancona. Sardegna. Formaggi, miele e conserve dalle mani dei detenuti: i sapori del riscatto di Lara De Luna La Stampa, 8 aprile 2025 Più di cento persone formate e oltre trecento quintali di formaggi prodotti ogni anno nel progetto “Galeghiotto”: pecorino, creme stagionate e ricotta, oltre ai prodotti dell’orto. Tra le colline silenziose della Sardegna, lontano dai riflettori, esiste una rete poco conosciuta di luoghi in cui il tempo ha un altro passo. Sono le colonie penali agricole, istituzioni nate tra Ottocento e Novecento con l’intento di unire detenzione e lavoro, rieducazione e terra. In queste aree, dove il confine tra pena e riscatto si misura con la fatica delle mani, il progetto “Galeghiotto” sta riscrivendo una storia diversa. Isili, Is Arenas, Mamone: tre nomi che in Sardegna evocano non solo strutture detentive, ma anche paesaggi di pascoli, arnie e serre. Qui, oltre trecento detenuti sono coinvolti quotidianamente nella produzione di formaggi, miele, conserve. Ma Galeghiotto non è solo un marchio: è il risultato concreto del progetto C.O.L.O.N.I.A., che punta al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti attraverso attività agroalimentari e percorsi formativi. “Il progetto delle colonie è un progetto molto antico che affonda le radici addirittura all’epoca dell’Unità d’Italia, e attraverso il quale si può leggere anche in controluce la storia del nostro Paese”, ha dichiarato Domenico Arena, direttore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna. “A partire dagli anni 2005-2006, con il progetto Galeghiotto si è cercato di incrementarlo coniugando un aspetto importante di reintegrazione sociale delle persone detenute, che vengono chiamate a utilizzare il periodo della loro detenzione non in modo passivo, ma lavorando, reintegrandosi con il territorio e imparando un mestiere, con una produzione obiettivamente di eccellenza, perché può sfruttare territori incontaminati e metodi assolutamente naturali e biologici”. Un punto cruciale è rappresentato dalla trasformazione dei prodotti. Come spiega Mauro Pusceddu, tecnico agrario responsabile delle attività produttive nelle colonie: “Le filiere produttive all’interno della colonia sono varie: dagli allevamenti zootecnici alle coltivazioni ortofrutticole. Ma la vera svolta è nella possibilità di trasformare queste materie prime: non più solo produrre latte o coltivare ortaggi, ma arrivare a realizzare formaggi freschi e stagionati, conserve, oli. Questo permette di formare detenuti non solo come allevatori o contadini, ma come operatori completi della filiera agroalimentare. Una competenza spendibile nel mondo del lavoro, che restituisce dignità e rafforza l’autostima”. Le cifre raccontano l’impegno: più di cento persone formate, oltre trecento quintali di formaggi prodotti ogni anno, tra pecorino, creme stagionate e ricotta, insieme a decine di tonnellate di miele, ortofrutta e trasformati. Le colonie producono inoltre insaccati, carne fresca (anche equina), e coltivano prodotti spontanei in territori riconosciuti come siti di interesse comunitario, tutelati per la loro biodiversità. “Le colonie sono anche luoghi di estrema bellezza ambientale”, ricorda ancora Pusceddu, “e proprio il modello di coltivazione estensiva adottato, unito al rispetto degli ecosistemi locali, consente di preservare questi habitat mentre si lavora sulla formazione”. I prodotti, oggi destinati principalmente al consumo interno, hanno l’ambizione di entrare nei circuiti della grande distribuzione e dei negozi specializzati. Un passaggio che richiede competenze, visione, ma anche fiducia. “Ci sono ancora nodi critici da superare”, ha spiegato Arena, “come la selezione delle persone giuste, perché coinvolgere in questo lavoro significa stringere un patto di fiducia. E poi c’è il tema della commercializzazione, che oggi è ancora interna. Ma contiamo entro il 2025 di rendere il marchio Galeghiotto disponibile anche sul mercato esterno”. In quest’ottica, recentemente, il progetto è stato anche presentato pubblicamente in occasione del “Formaggi & Sorrisi, Cheese & Friends Festival”, tenutosi a Cremona negli ultimi giorni di marzo 2025, dove sia Domenico Arena sia Mauro Pusceddu sono intervenuti per raccontare il valore educativo e produttivo dell’iniziativa. Un’occasione importante per far conoscere al grande pubblico la portata e le potenzialità di Galeghiotto, anche in ottica di futura commercializzazione esterna. Un marchio, quello di Galeghiotto, in fase di registrazione, che già include una gamma ampia di prodotti: pecorini, caprini, formaggi stagionati e freschi, insaccati, carne fresca e anche olio. Oggi, più di 300 detenuti partecipano a queste attività nelle tre colonie, ma le strutture ristrutturate potrebbero arrivare a ospitarne fino a 800. “In un panorama penitenziario caratterizzato dal sovraffollamento, questa può essere un’alternativa credibile, dignitosa, che restituisce significato alla pena”, ha sottolineato Arena. Ciò che rende Galeghiotto un progetto speciale è l’equilibrio tra dimensione produttiva e valore umano. Il lavoro in campagna, il contatto con gli animali, i ritmi della natura restituiscono ai detenuti un senso di responsabilità e appartenenza. Ogni etichetta, ogni vasetto, racconta un pezzo di questa seconda possibilità. In Italia, esperienze simili non mancano. Sull’isola di Gorgona, i detenuti producono vino in collaborazione con la famiglia Frescobaldi. A Carinola, in Campania, il progetto C.R.eA. ha trasformato sette ettari di terreno in un laboratorio agricolo aperto alla formazione. A Poggioreale, “Agrumi in libertà” coltiva arance e limoni nel cuore di Napoli. E oltre i confini nazionali, la prigione di Witzwil in Svizzera è la più grande azienda agricola del paese, la norvegese Åna alleva suini e coltiva cereali, mentre in Portogallo si sperimenta l’agricoltura verticale dietro le sbarre. Progetti diversi, uniti dallo stesso principio: rendere il tempo della detenzione un tempo utile. Galeghiotto, in questo panorama, è la voce sarda di una sinfonia europea che unisce terra, dignità e speranza. Milano. Il Comune chiede l’amnistia o l’indulto contro il sovraffollamento delle carceri di Massimiliano Melley milanotoday.it, 8 aprile 2025 Dati sul sovraffollamento peggiori del 2013, quando la Cedu condannò l’Italia. Polemiche in aula sulla giustizia riparativa. Promuovere un’amnistia o un indulto, depenalizzare alcuni reati e sostenere le misure di pena alternative al carcere. È il contenuto di un ordine del giorno approvato ad ampia maggioranza dall’aula di Palazzo Marino lunedì 7 aprile, proposto da Alessandro Giungi (Pd), Daniele Nahum (Azione) e da diversi altri Consiglieri dei gruppi di maggioranza. Attualmente, nelle carceri italiane, sono recluse quasi 62mila persone, con un indice di sovraffollamento del 123,02% che, a San Vittore, tocca però il 214% e, considerando i tre istituti (quindi anche Bollate e Opera), il sovraffollamento milanese è del 128,78%. Non si sta meglio all’istituto minorile Beccaria, con 69 detenuti su 48 posti (143,75% di sovraffollamento). Non è tutto. Anche nel 2025 continua la tristissima conta dei suicidi in carcere: già 15 al 7 aprile. E sono carenti anche le forze di polizia penitenziaria e il personale amministrativo, educativo e sanitario. Le condizioni delle carceri italiane sono già state “oggetto” di interventi da parte della Cedu (Corte europea dei diritti umani), che ha condannato l’Italia già nel 2013 per “trattamenti inumani o degradanti” subiti da un gruppo di detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. “Siamo tornati a una condizione di sovraffollamento peggiore del 2013”, si legge nell’ordine del giorno. Toni accesi sulla giustizia riparativa - Durante il dibattito in aula, da registrare la posizione favorevole dei gruppi di maggioranza a cui si è aggiunta Forza Italia, mentre Noi Moderati si è astenuta e il resto del centrodestra ha votato contro. La Lega (con Alessandro Verri) e Fratelli d’Italia (con Riccardo Truppo) hanno sottolineato l’esigenza, semmai, di realizzare nuove strutture per rendere più dignitose le condizioni dei detenuti. Polemiche accese quando Truppo ha ricordato la richiesta di FdI di aderire, come Comune di Milano, alla giustizia riparativa per le inchieste sull’urbanistica, e ha affermato che nell’ordine del giorno le “misure di pena alternative al carcere” ci sono ma non vengono sfruttate dalla stessa amministrazione milanese. Firenze. Il carcere di Sollicciano è sempre peggio, se fosse una scuola lo avremmo già chiuso di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 8 aprile 2025 Giorni fa è andata in scena la solita farsa parlamentare sullo stato delle nostre carceri. Una seduta straordinaria, appunto, per parlare del dramma dei penitenziari. Che sorpresa! Dopo tutto ciò che abbiamo visto e sentito negli ultimi anni, ci si potrebbe aspettare almeno un briciolo di partecipazione e sensibilità da parte dei parlamentari. Invece, in un’aula semivuota, tutto è filato via in fretta, senza patemi d’animo. La maggioranza era assente. Ma sarebbe ingenuo pensare che le opposizioni - peraltro sempre divise - potessero davvero ottenere un dibattito su un tema che, ormai, è chiuso a doppia mandata. Come una cella penitenziaria. Blindato da due parole: disciplina e repressione. E cos’è successo? Nulla di straordinario, ovviamente. Parte delle opposizioni ha chiesto misure per rendere il carcere un luogo più vivibile. Tutte, tranne il solito M5, che si è dissociato dalla proposta della liberazione anticipata speciale. Dopo aver ascoltato le richieste delle opposizioni, la maggioranza è rientrata in aula e le ha respinte in blocco. E, per non farsi mancare nulla, ha approvato un proprio documento, su misura per sé. La solita minestra riscaldata: nuove carceri, più controlli per i reclusi. Con una ciliegina sulla torta: “Potenziare le misure contro le rivolte penitenziarie, completando l’organizzazione del gruppo di intervento operativo”. Il mitico “Gio”, tanto desiderato dal sottosegretario Delmastro. Il ministro della Giustizia Nordio, ovviamente, era assente. E tutto si è concluso nel battito d’ali di una farfalla. A conclusione di un sopralluogo a Sollicciano, una delegazione di Magistratura democratica ha dichiarato che l’istituto andrebbe chiuso: le condizioni di detenzione sono inaccettabili per detenuti e lavoratori. Anche l’Osservatorio Antigone Toscana, dopo un nuovo sopralluogo il 7 marzo, ha riscontrato un peggioramento rispetto alla già critica situazione rilevata a dicembre. Attualmente, la struttura ospita 534 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 497 posti, ulteriormente ridotta dall’indisponibilità di 136 posti. Il sovraffollamento ha portato all’uso di letti a castello a tre piani, con celle stipate fino al limite massimo. Secondo Antigone Toscana, Sollicciano è un carcere in cui le condizioni di detenzione violano i principi di dignità e legalità, sia per i detenuti che per il personale. L’Osservatorio ribadisce la necessità di interventi urgenti per risanare una situazione ormai insostenibile. Nell’ultimo anno, circa 15 delegazioni hanno visitato Sollicciano, e tutte ne sono uscite con la stessa dichiarazione: Sollicciano deve essere chiuso. Eppure è sempre lì, aperto e invivibile, per detenuti e lavoratori. Cosa dire in conclusione? Sollicciano rischia di diventare un paradosso. Se un ospedale o una scuola pubblica fosse ridotto in quelle condizioni - mi chiedo - sarebbe ancora aperto? Certamente no. Evidentemente, la dignità di chi sta scontando una pena è considerata sacrificabile rispetto ad altri valori. I suoi diritti vengono limitati e affievoliti. Non ho soluzioni pronte per una terapia d’urto che curi questo carcere. So solo che, se fossi un giudice, nel momento in cui emettessi una condanna che prevede la detenzione, aggiungerei una clausola sospensiva di “decarcerazione”: finché l’istituto non torna in condizioni dignitose, il condannato resta in custodia alternativa presso un domicilio. A mali estremi, estremi rimedi. *Associazione Progetto Firenze Bologna. Nessuna attività, poco spazio: i 18 giovani detenuti “ingannati” alla Dozza di Maurizio Papa dire.it, 8 aprile 2025 Giudizio negativo degli eurodeputati Pd che ieri hanno visitato la nuova sezione per giovani detenuti allestita alla Dozza: “Erano state promesse loro tante attività, spazi consoni, una palestra: tutte cose che non ci sono”. Spazi inadatti, niente attività educative, perfino cibo di scarsa qualità tanto che alcuni ragazzi segnalano di aver perso diversi chili nel giro di poche settimane. È quanto emerge dalla visita che una delegazione di parlamentari, europarlamentari, consiglieri regionali e comunali di centrosinistra ha effettuato stamattina nella sezione per detenuti giovani adulti aperta all’interno del carcere della Dozza di Bologna. Presenti anche il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri e quello comunale Antonio Ianniello. Ad oggi nella sezione speciale “ci sono 18 ragazzi che non dovrebbero stare in un carcere per adulti. Dovrebbero avere magari delle misure alternative o dovrebbero stare nei circuiti minorili”, afferma il parlamentare Marco Grimaldi (Avs) incontrando la stampa al termine dell’ispezione: a guidare le politiche del Governo è “un’idea sbagliata che ha aumentato le pene per questi minori e non c’è stato nessun effetto deterrente. L’unica cosa che abbiamo visto in questi mesi è che le carceri sono strapiene. La Dozza tra l’altro potrebbe avere 400 detenuti, ce ne sono più 700 e invece di trovare delle misure alternative sono arrivati questi ragazzi che non dovrebbero stare qui”. Tramite ispezioni come quella di oggi “vogliamo verificare che sia fatto tutto il dovuto. A oggi- segnala il parlamentare Virginio Merola (Pd)- mancano tutte le attività didattiche e il cibo è molto discutibile. Ci sono situazioni che vogliamo monitorare costantemente in modo che quello che è stato detto”, cioè che la sezione resterà aperta al massimo per tre mesi prorogabili di altri tre, “non si trasformi in un’operazione definitiva aggirando completamente le leggi”. La situazione vista alla Dozza “è molto grave”, avverte l’europarlamentare Annalisa Corrado (Pd). Alcuni ragazzi hanno dovuto interrompere i percorsi scolastici mentre altri “hanno anche le famiglie lontanissime che non riescono a venirli a trovare adeguatamente. Insomma- continua Corrado- come pensiamo che queste persone possano avere un’opportunità per essere reinserite in società, in queste condizioni? È davvero difficile da pensare. Quindi quando si parla di sicurezza non si parla certamente di questo, dobbiamo provare a fare in modo che il numero delle recidive si abbassi, non che si alzi, perché qui la condizione è totalmente disumana”. I ragazzi presenti alla Dozza vengono “da tutta Italia con l’effetto di diminuire il sovraffollamento solamente di poche unità per ogni Istituto penale minorile. Non riusciamo a capire - afferma la consigliera regionale Simona Larghetti (Avs) - la ragione logistica di organizzare una sezione ad hoc che non ha servizi e continuità trattamentale per togliere due o tre persone da Ipm che ne hanno decine. Sembra un’operazione ideologica che non ha alcuna altra funzione che criminalizzare i destini di questi ragazzi”. La scelta di trasferire i giovani adulti nel carcere bolognese si conferma “ingiusta se non crudele”, afferma poi il consigliere comunale Detjon Begaj (Coalizione civica) intervenendo dopo la visita dall’aula di Palazzo D’Accursio. Le preoccupazioni espresse in vista del trasferimento “erano fondate perché quel luogo ad oggi, ma non credo purtroppo che lo sarà mai, non è adatto alla detenzione di questi ragazzi”, continua Begaj: le celle sono “ristrette” e, visto che in precedenza la sezione era dedicata all’alta sicurezza, “di fatto i muri della cosiddetta ora d’aria mostrano proprio l’immagine che siamo abituati a vedere di un carcere di massima sicurezza e con il 41 bis. Davvero inaccettabile”. Inoltre, i ragazzi “lamentano che il cibo è di qualità scarsissima se non pessima. Alcuni ci hanno raccontato di aver perso cinque chili in due settimane a causa del cattivo cibo che non riescono a mangiare”, riferisce il consigliere. Anche le possibilità di avere colloqui sono ridotte e in tutto ciò i ragazzi “si sentono raggirati - continua Begaj - perché erano state promesse loro tante attività, spazi consoni, una palestra: tutte cose che non ci sono”. Insomma, “davvero mi vergogno di quello che ho visto oggi”, conclude Begaj. I giovani detenuti sono stati “di fatto ingannati”, afferma il consigliere comunale Giacomo Tarsitano (Lepore sindaco), perché “hanno firmato loro una richiesta di trasferimento dietro promesse che logicamente non sono state mantenute e si ritrovano in un contesto peggiore di quello da cui provenivano”. Anche gli spazi ricreativi “non sono adatti, due delle stanze che dovrebbero essere dedicati alle attività sono ancora vuote. La stanza per la musica ha solo una batteria buttata lì in mezzo e forse rotta”, segnala Tarsitano, mentre gli spazi per l’aria “sono tipici di una sezione di alta sicurezza e non si addicono a un percorso trattamentale per giovani adulti”. La situazione è “gravissima e disumana. La struttura è inadeguata e non sono ancora partite le attività educative”, riporta la consigliera comunale Antonella Di Pietro (Pd), aggiungendo che “se aumenteranno i trasferimenti l’operazione non potrà reggere perché il personale è già sotto stress”. Alla visita, infine, ha partecipato anche un’altra consigliera comunale dem, Mery De Martino, che evidenzia: “È urgente ritirare il provvedimento di trasferimento oppure far partire delle attività perché i ragazzi non possono più aspettare, il clima è già molto teso e ogni giorno di ritardo ci porta verso una situazione esplosiva”. Biella. Si è dimessa la Garante dei diritti dei detenuti ilbiellese.it, 8 aprile 2025 Marisa Boccadelli era stata eletta a ottobre dal Consiglio comunale in una seduta a porte chiuse tra le polemiche. Marisa Boccadelli si è dimessa dal ruolo di garante dei diritti dei detenuti. Aveva assunto l’incarico a ottobre, dopo un voto del consiglio comunale di Biella che si era svolto non senza polemiche, in una seduta a porte chiuse e con le telecamere della registrazione video rimaste spente e con parte delle opposizioni (Pd, Biella c’è e Movimento 5 Stelle) che abbandonò l’aula al momento del voto. La comunicazione delle dimissioni è arrivata ai componenti del tavolo carcere che era stato convocato per una riunione a cui la garante, normalmente, è presente. Da qualche giorno l’attività di Boccadelli, che era stata referente biellese del Fai e prima ancora insegnante volontaria proprio in carcere con l’associazione Gufo Re, si era ridotta per motivi di salute: convalescente dopo un intervento chirurgico, aveva visto il garante di Ivrea partecipare agli incontri in via dei Tigli in sua vece. A norma di regolamento, una volta formalizzate e accettate le sue dimissioni, dovrebbe subentrare l’altra candidata che ha preso voti, ovvero la tesoriera di Europa Radicale ed ex candidata alle elezioni europee per Azione Federica Valcauda. Se anche lei non accettasse, bisognerebbe ripartire da zero. Foggia. Annunciata l’istituzione del Garante comunale per i detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 8 aprile 2025 “Esprimo profondo dispiacere e forte preoccupazione per l’ennesima tragedia avvenuta all’interno del carcere di Foggia”. Lo afferma l’assessore alla Legalità e Sicurezza del Comune di Foggia, Giulio De Santis. “La notizia di un nuovo suicidio tra i detenuti, sebbene non sembri direttamente collegata al sovraffollamento della struttura, non deve distogliere l’attenzione dalle condizioni critiche dell’istituto penitenziario. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sorveglianza restano problemi strutturali del sistema carcerario, e la casa circondariale di Foggia ne è un esempio emblematico. Di fronte a questa grave situazione - dichiara l’assessore - riteniamo necessario un intervento concreto per ridurre il sovraffollamento. A tal fine, abbiamo richiesto un incontro con il Provveditorato Penitenziario di Puglia e Basilicata per affrontare in maniera diretta e risolutiva le problematiche del carcere. Oltre a sollecitare un intervento del Governo centrale, responsabile del sistema penitenziario - sottolinea -, l’amministrazione comunale ha compiuto un passo storico inserendo, per la prima volta nel Documento Unico di Programmazione, l’istituzione del Garante Comunale dei detenuti. Su mia proposta, il DUP prevede la creazione di questa figura, con il compito di monitorare e tutelare i diritti delle persone ristrette. Tale garante si affiancherà a quello regionale e, per conferirgli maggiore autorevolezza, sarà scelto dal Consiglio Comunale e disporrà di una dotazione finanziaria che ne garantirà il funzionamento. Stiamo già lavorando alla fase di elaborazione del bando per individuare questa figura - spiega De Santis -, la cui nomina non sarà un atto unilaterale della Sindaca, ma avverrà attraverso una deliberazione del Consiglio Comunale. Questo percorso garantirà maggiore rappresentatività, indipendenza e autorevolezza al ruolo, evitando personalismi e rafforzando il valore istituzionale della carica. Pertanto, pur avendo la possibilità di procedere con una nomina diretta da parte della Sindaca, abbiamo scelto di adottare un metodo condiviso con tutte le forze dell’amministrazione comunale, affinché la persona individuata goda di un mandato ampio e rappresentativo. In questo momento di dolore e riflessione - conclude -, respingiamo con forza ogni tentativo di strumentalizzazione politica della tragedia. Gli atti di sciacallaggio e le speculazioni su una morte per meri fini politici sono inaccettabili e qualificano chi li attua. L’amministrazione è impegnata in un’azione responsabile per affrontare i problemi, senza lasciarsi trascinare in sterili polemiche”. Ad accusare l’assessore alla legalità di aver fatto poco o nulla per il Garante dei detenuti era stato il consigliere comunale Angiola del movimento Cambia: “Noi insistiamo affinché siano garantiti idonei investimenti alle strutture del carcere di Foggia, che non consentono livelli accettabili di vita soprattutto in certe stagioni; affinché si investa su nuovi spazi per combattere il sovraffollamento che ha superato ogni limite di decenza; affinché il carcere sia messo nelle condizioni di assicurare forme di relazione e assistenza nel pieno rispetto del dettato costituzionale; affinché ai tanti uomini e alle tante donne che lavorano nel carcere di Foggia sia consentito di prestare il loro servizio in ambienti e condizioni adatti alla missione che lo Stato si propone di svolgere; affinché sia potenziato il personale che opera nel carcere di Foggia, non solo riguardo agli agenti di polizia penitenziaria preposti a mantenere l’ordine e la sicurezza, soprattutto in situazioni di emergenza o di conflitto tra detenuti. Chiediamo con insistenza, per ultimo ma non perché meno importante, la nomina del Garante Comunale per i Diritti dei Detenuti e da questo punto di vista siamo stanchi delle bugie dell’assessore De Santis che promette e non fa”. Cagliari. Progetto “Seconda Chance”, detenuti al lavoro fuori dal carcere ansa.it, 8 aprile 2025 Dalla ristorazione alla logistica per reinserirsi nella società. Un’altra opportunità nelle cucine del fast food o in un magazzino per chi è in carcere e sta cercando un futuro dopo aver scontato una pena. I detenuti, grazie alla collaborazione tra casa circondariale di Uta, imprese, Fipe Confcommercio e associazione Seconda chance, di giorno timbrano il cartellino fuori dal penitenziario per provare a reinserirsi anche nel mercato del lavoro. “In alcuni casi - ha spiegato il direttore reggente del carcere di Uta Marco Porcu - sono state esperienze entusiasmanti”. Un progetto con datori di lavoro esterni che operano sul mercato utilizzando le formule previste dall’ordinamento penitenziario. Per ora i detenuti impegnati sono cinque nel settore della logistica più altri tre nella ristorazione. “Il nostro auspicio - ha continuato Porcu - è che possa essere esteso ad altri detenuti proprio per la valenza trattamentale importante che assume un lavoro vero condotto con criteri aziendalistici rispetto al lavoro all’interno delle mura del carcere che rischia di essere un po’ autoreferenziale”. I vantaggi? “La specializzazione, l’assunzione di responsabilità, la consapevolezza da parte del detenuto di confrontarsi con il mercato del lavoro esterno in un avvio di quella libertà che verrà concessa al termine della carcerazione. È chiaro che la posta in gioco per il detenuto è sicuramente maggiore rispetto a quella di un lavoratore esterno: ci sono di mezzo la libertà e la possibilità di reinserirsi con dignità nella società esterna”. Il protocollo è stato firmato dalla Fipe a livello nazionale. “Un progetto - ha detto Emanuele Frongia, presidente della Fipe Confcommercio Sud Sardegna - che sta ottenendo buoni risultati anche nella nostra regione e che ribadisce non solo il valore economico delle aziende sarde ma anche il loro ruolo sociale”. Buona risposta delle imprese: “La richiesta c’è - ha detto la referente Seconda Chance Sardegna Donatella Gallistru - spesso di fa fatica a trovare lavapiatti, aiuto cuochi, manovali, operatori della logistica. Noi cerchiamo di favorire questo incontro, accompagniamo l’imprenditore dentro il carcere a fare i colloqui e anche nelle fasi successive. Ad oggi, questo ultimo anno, in Sardegna abbiamo già dieci detenuti che stanno lavorando: speriamo di averne molti di più”. Milano. “Un errore non è per sempre”, la lezione di Sbarbaro per i giovani detenuti di Francesco Crippa vita.it, 8 aprile 2025 Daniele Mencarelli e Alessio Boni leggono il poeta ligure ai ragazzi del carcere minorile Beccaria di Milano. Tra disperazione e desiderio, una riflessione sull’umano per trovare una nuova occasione nella società. L’iniziativa fa parte di Liberi Libri, la rassegna promossa da Fondazione De Sanctis per per portare i classici della letteratura italiana negli istituti di pena. “Sta a voi ma anche a noi, come società civile, offrirvi una possibilità per dimostrare chi siete davvero ed evitare che vi accada quello che è successo a Camillo Sbarbaro, che per tutta la sua vita artistica ha pagato per un solo sbaglio”. A parlare è il poeta, scrittore e sceneggiatore Daniele Mencarelli. “Voi” sono i giovani detenuti dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano. Il “solo sbaglio” di Sbarbaro è quello di aver pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Pianissimo, sul giornale La Voce, reputata al tempo (1914) un foglio di basso livello, quasi scandalistico. Un errore, spiega Mencarelli, che lo ha costretto a “vivere un pregiudizio” per il quale è rimasto ai margini della vita artistica del suo tempo, esattamente come troppo spesso accade ai detenuti, che per un solo sbaglio rimangono vittima di un pregiudizio che li tiene ai margini della vita sociale. Un poeta di nicchia vicino all’anima dei giovani - Sbarbaro, un poeta di nicchia che nella raccolta Pianissimo ha messo in versi una “melanconia struggente che è molto vicina a quello che vivono questi ragazzi”, il commento dell’attore Alessio Boni, che ha incontrato i giovani detenuti assieme a Mencarelli il 4 aprile in occasione del quarto appuntamento di Libri Liberi, l’iniziativa promossa da Fondazione De Sanctis col patrocinio del ministero della Giustizia e la collaborazione del Centro per il libro e la lettura del ministero della Cultura per portare i classici della letteratura italiana nelle carceri. L’obiettivo è quello di usare la letteratura e la poesia come veicoli per stimolare nei detenuti una riflessione su se stessi e sull’umano. Quattro testi, quattro sentimenti - I testi, scelti da Mencarelli e interpretati da Boni, esprimono sentimenti ed emozioni che accomunano a un secolo di distanza i giovani detenuti a Sbarbaro. Così, la disperazione che Sbarbaro manifesta in “Taci, anima stanca di godere”, trasmessa dall’incapacità del poeta di trovare significato in un mondo che per lui è solo “quello che è”, è la stessa che si possono trovare a vivere i ragazzi in carcere - ma in realtà vale tutti noi. Una situazione, questo l’ammonimento di Mencarelli, da cui per venirne fuori e ritrovare speranza occorre “scendere a patti col proprio giudice interno e scoprire un po’ di tenerezza verso se stessi”. L’ascolto di se stessi ritorna in “Taci, anima mia”, ma l’accento su cui ha voluto battere Mencarelli è l’attesa. “Voi vivete nell’attesa”, ha detto ai ragazzi. “Chi meglio di voi sa come si sente “l’albero ignudo a mezzo inverno” di cui parla Sbarbaro?”. E chi, se non loro, conosce bene il significato di “E, venuta la sera, nel mio letto/mi stendo lungo come in una bara”? Ma “da questa presunta morte si resuscita”, sottolinea Mencarelli. “Per questo, vi auguro di ricordare questo periodo che state vivendo come di un passaggio che, come arriva, allo stesso modo finisce”. Un invito, questo, a una presa di coscienza, a una prova di maturità, cioè, secondo Mencarelli, “l’unica cosa che può far ritornare la ‘volontà di viverè” che Sbarbaro menziona nell’ultimo verso di “Adesso che placata è la lussuria”. Un testo che parla di un desiderio che, appagato, non lascia più nulla e che per Mencarelli è un invito a tenersi alla larga dalle dipendenze. Infine, la scelta di “Padre, se anche tu non fossi il mio” è una scommessa ma anche, di nuovo, un’invito a non perdere la speranza. Nella poesia, Sbarbaro spiega come l’affetto verso il padre non dipenda dal rapporto biologico tra di loro, ma dalle qualità umane del genitore. “Io”, ha detto Mencarelli, “ho avuto fortuna, perché ho avuto in dono due genitori per cui i figli erano l’unico patrimonio, ma magari voi no, non lo so. Ma, se inseguite quella dolcezza di cui parla la poesia, questo non significa che non possiate trovare nel mondo un padre che non sia il vostro”. Libri Liberi continuerà fino a dicembre. La prossima tappa sarà all’Ipm Gian Paolo Meucci di Firenze l’11 aprile. Bisceglie (Bat). Due giorni di seminario: “Carcere: Professioni a Confronto” bisceglie24.it, 8 aprile 2025 Il 10 e 11 aprile, dalle 9.30 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.30, il Museo Diocesano di Bisceglie ospiterà il seminario “Carcere: Professioni a Confronto”, promosso dall’impresa sociale Terre Solidali e dal CSV San Nicola, con la collaborazione e il patrocinio del Comune di Bisceglie e del Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà in Puglia. L’evento sarà un’occasione di approfondimento e riflessione sulle tematiche legate alla detenzione, con particolare attenzione al lavoro e all’inserimento sociale come strumenti di rieducazione e reinserimento del condannato. Saranno inoltre affrontati temi come la condizione degli immigrati in carcere, la detenzione minorile, la realtà delle donne negli istituti di pena e le pari opportunità. Nel corso delle due giornate interverranno rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria e comunale, esperti delle realtà sociali attive nel settore carcerario, tra cui l’associazione “A Mano Libera” con Don Riccardo Agresti e la cooperativa “Pietra di Scarto” di Cerignola con il dottor Pietro Fragasso. Il seminario si avvale inoltre della collaborazione dell’Ordine degli Avvocati di Trani, della Camera Penale di Trani, di Movimento Forense - Dipartimento Carcere e del CROAS Puglia. L’iniziativa ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche del sistema penitenziario, evidenziando il valore delle buone pratiche in cui volontari, operatori sociali, avvocati e amministratori lavorano insieme per favorire la rieducazione e il reinserimento lavorativo delle persone detenute, quale strumento di prevenzione della recidiva. L’evento prevede il riconoscimento dei crediti per gli iscritti all’Ordine degli Avvocati e all’Ordine degli Assistenti Sociali. Torino. Dopo 22 anni chiude Opportulanda, centro diurno per senza dimora di Elisa Campisi Avvenire, 8 aprile 2025 Spazi e personale insufficienti rispetto ai bisogni: 27mila accessi nel 2024. Venerdì 11 festa d’addio e incontro con la cittadinanza per verificare la possibilità di un passaggio del testimone. Se ne va un pezzo di storia dell’accoglienza torinese con l’auspicio che sia un arrivederci e non un addio. Dopo 22 anni di accoglienza e reinserimento sociale per le persone senza dimora e a chi si trova in situazioni di grave marginalità, chiude il centro diurno Opportunanda di via Sant’Anselmo 28 a Torino, nel cuore del quartiere di San Salvario. Una struttura che ogni anno accoglie e riabilita circa 1.500 persone; una cifra stimata dal momento che non vengono registrati i nominativi, essendo un servizio a bassa soglia, dove l’accesso è libero e le persone possono fermarsi quanto vogliono senza alcuna formalità né documenti. Ciò che rende l’idea del servizio offerto sono i passaggi: dai 150 ai duecento, per un totale di 27mila nel 2024. I numeri descrivono anche una forte presenza di stranieri (quasi 19mila passaggi); le donne (circa 1.800) che accedono al centro invece sono soprattutto italiane (1.400 circa). La volatilità dei passaggi è molto elevata: ci sono persone che vengono abbastanza costantemente, altri che ritornano periodicamente, altri ancora del tutto saltuari. Persone alle quali vengono fornite ogni giorno servizi di primo ristoro: tè, caffè, biscotti o pizzette; possono usufruire dei servizi igienici, della Tv, ricaricare il cellulare in sicurezza. “Soprattutto - spiega il presidente dell’associazione Opportulanda, Carlo Saccani - possono ricevere ogni informazione sui servizi sociali (a partire da mense e dormitori), invio ai servizi stessi, assistenza ed accompagnamento per i percorsi di reinserimento sociale, a cominciare dalla carta d’identità (di cui, se necessario, l’associazione provvede al pagamento), per proseguire con prenotazioni, richiesta di chiarimenti e ogni altra attività che sia utile per un percorso di emancipazione. Inoltre è possibile infine il fermo posta, e il deposito bagagli”. Un luogo quindi connesso in rete con servizi sociali e con gli altri presidi di volontariato, e che si è rivelato sempre più utile per tantissimi italiani e stranieri (circa la metà dei frequentatori) privi di informazioni e di una rete sociale di sostegno; un luogo che nel tempo ha consolidato la sua affidabilità, diventando così un punto di riferimento sempre accessibile e ben noto alle persone senza dimora e senza stabile collocazione sociale. Il centro quindi chiude non per mancanza di attività, al contrario: perché nel corso degli anni all’accoglienza si è affiancato il lavoro di accompagnamento e di consulenza verso i bisogni e i percorsi delle persone senza dimora, mentre la struttura organizzativa e gli spazi non sono più adeguati alle richieste. “Questi locali sono diventati troppo piccoli con il crescere del bisogno, mentre il numero dei nostri volontari si è ridotto e siamo diventati più anziani” spiega Saccani. L’équipe del Centro è composta da sei persone: quattro operatori - due donne e due uomini - dipendenti dell’associazione Opportulanda e tre volontari. “Rispetto agli scorsi anni - scrive l’associazione nell’ultimo report - abbiamo dovuto aumentare di una unità il numero dei dipendenti, perché non è stato possibile rinnovare la presenza di volontari in servizio civile, a causa della drastica riduzione delle risorse da parte del Ministero, che ha colpito metà dei progetti presentanti a Torino. La novità di quest’anno riguarda l’inserimento - nel numero dei dipendenti -di un mediatore culturale di origine magrebina”. “Abbiamo dimostrato che un posto così è utile e speriamo di lasciare un testimone che qualcuno possa raccogliere”, spiega Saccani. Per salutare tutti l’11 aprile alle 17, in via San’Anselmo 28, l’associazione ha organizzato una festa d’addio (“Io C’entro”), con un incontro aperto alla cittadinanza: sono invitati gli ospiti e i sostenitori del progetto le realtà istituzionali e le altre organizzazioni di volontariato, con le quali verificare come e in quali termini poter proseguire l’attività del centro. Le paure dei genitori e l’importanza dell’ascolto dei giovani di Lucia Ori Il Domani, 8 aprile 2025 In occasione della Giornata nazionale dell’ascolto dei minori, istituita lo scorso anno e che verrà celebrata per la prima volta il 9 aprile, sono stati pubblicati i dati dell’indagine promossa dall’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e condotta dall’Istituto Demopolis. La ricerca Demopolis-Con i Bambini ha effettuato specifici focus di indagine sui genitori con figli tra i 14 ed i 17 anni. È il loro futuro la principale preoccupazione di quasi 8 genitori su 10; il 64 per cento cita anche la salute mentale e fisica dei figli. Poco più della metà segnala la “dipendenza da smartphone”, ma anche il rischio che atti di violenza, prevaricazione o bullismo possano coinvolgere i propri figli. Circa 4 su 10 esprimono invece timori relazionali: il 40 per cento teme che i giovani possono avere problemi con i coetanei, mentre il 39 per cento teme che patiscano la solitudine. I dati - Secondo i dati pubblicati dal report, la principale preoccupazione dell’83 per cento degli italiani in tema di adolescenti riguarda la dipendenza da internet, smartphone e tablet. Il dato è in aumento: nel 2019 il dato si fermava soltanto al 66 per cento. Ancora, il 75 per cento segnala la diffusione della violenza giovanile e delle baby gang, ma spaventano anche gli episodi di bullismo o cyberbullismo (72 per cento), con un incremento di 11 punti in cinque anni, ed il consumo di alcol e droga (67 per cento). Quest’ultimo dato presenta il trend più marcato in crescita dal 2019, con un incremento di 21 punti. Il quadro cambia se si chiede ai genitori di indicare i timori che provano quando i figli sono fuori casa. Il 73 per cento teme che, quando escono, possano essere vittime di episodi di violenza o bullismo; il 64 per cento esprime inoltre paura per possibili incidenti stradali. Preoccupano in dimensione significativa ma più ridotta gli eventuali problemi con i coetanei, la circolazione di droghe e il consumo di alcol, tutti attorno al 30 per cento. La povertà educativa - L’indagine segnala quanto la condizione dei minorenni meriti centralità nel dibattito pubblico e nelle priorità istituzionali del nostro paese, con un focus particolare proprio sul tema della povertà educativa. Questa viene definita come la privazione da parte dei bambini, delle bambine e degli adolescenti della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni. La povertà economica è strettamente legata a quella educativa: le due si alimentano reciprocamente e si trasmettono di generazione in generazione. Si tratta tuttavia di un fenomeno multidimensionale, frutto del contesto economico, sociale, familiare in cui vivono i minori: non è solo legata alle cattive condizioni economiche, ma investe anche la dimensione emotiva e quelle della socialità e della capacità di relazionarsi con il mondo. Oggi, appena il 13 per cento degli italiani dichiara di non aver mai sentito parlare di povertà educativa minorile. Il dato nel 2019 era di 20 punti più alto: questo anche grazie a uno specifico fondo istituito nel 2016 con l’obiettivo di sostenere interventi sperimentali per rimuovere gli ostacoli economici, sociali e culturali, che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Nel bilancio 2025 è stato approvato un taglio al Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile. Secondo la ricerca Demopolis-Con i Bambini, il 63 per cento individua la povertà educativa come “limitato accesso ad opportunità di crescita”. Il 57 per cento la assimila a bassi livelli di apprendimento scolastico, mentre il 56 per cento cita il disagio sociale intorno al minore. “I dati inediti dell’indagine fotografano un’Italia preoccupata sul futuro degli adolescenti e dai rischi e dal disagio che riguardano ragazzi e ragazze, ma al contemporaneo consapevole del fenomeno della povertà educativa e dell’importanza di intervenire in un’ottica di comunità educante”, dichiara Marco Rossi-Doria, presidente di Con i Bambini. “Per affrontare queste grandi sfide e ridare centralità ai giovani è necessario e indispensabile prestare il loro ascolto e dare fiducia e favorire il loro protagonismo”, afferma ancora. Una scuola non equa - L’analisi evidenzia come il 62 per cento dei genitori intervistati, pensando a bambini e ragazzi, si ritiene preoccupato lo scarso apprendimento scolastico; il 59 per cento teme per l’impoverimento del linguaggio. “Gli italiani - spiega il direttore dell’Istituto Demopolis, Pietro Vento - ritengono che oggi le opportunità dell’istruzione non siano garantite equamente per tutti nel nostro paese: spesso con livelli di qualità differenti e con forti divari, anche in seno ai medesimi contesti regionali ed urbani. Appena il 9 per cento crede che la scuola assicuri occasioni eque per tutti”. In un Paese che non riesce a dimostrarsi a misura di bambini e ragazzi, in assenza di adeguate politiche di perequazione sociale e di supporto allo sviluppo dei minori, si dilatano le distanze anche tra i ragazzi più piccoli. Non a caso, nella percezione del 77 per cento degli intervistati, le dinamiche di povertà educativa minorile, nel nostro paese, si sono esacerbate nell’ultimo triennio e unanime è la valutazione di quanto sia preoccupante oggi nel paese: la gravità attribuita dagli italiani alla diffusione del fenomeno della povertà educativa raggiunge oggi il 92 per cento. Coerentemente con questa percezione, per l’opinione pubblica si dimostrano fondamentali gli interventi di contrasto al fenomeno e il ruolo della comunità dei docenti: il 90 per cento degli intervistati ne afferma l’assoluta importanza. Così Instagram è diventato uno strumento di generazione di ansia negli adolescenti di Riccardo Luna Corriere della Sera, 8 aprile 2025 Mentre eravamo concentrati sul dilagare delle fake news su Facebook, l’algoritmo del social fotografico ha “imparato” ad attrarre l’attenzione di giovani e giovanissimi. La rabbia, su di loro, non funziona. Per conquistare quella generazione si doveva puntare sul corpo nel momento della vita in cui si trasforma ogni giorno. E la salute mentale è finita in secondo piano. Un algoritmo che ha come scopo principale, anzi assoluto, alzare l’engagement degli utenti, ha portato nel tempo a mostrare agli utenti più anziani solo contenuti che facessero leva sulla insicurezza e quindi sulla paura; mentre per il ceto medio impoverito si è puntato su rabbia e risentimento. E questo ha alimentato un populismo che altrimenti non avrebbe avuto tanta forza; ed ha creato un bisogno di protezione, una emergenza sicurezza, che è comprensibile ad una certa età ma non si basa su dati reali. La paura e la rabbia non funzionano però sui giovani e sui giovanissimi, serviva altro. Come alzare l’engagement degli adolescenti, come renderli dipendenti dalla piattaforma e attivare microdosi di dopamina ogni volta che ci ritornano esattamente come accade con una slot machine? Lo ha scoperto un algoritmo di intelligenza artificiale, ovviamente, analizzando il comportamento dei ragazzi online eppure era semplice: puntare sul corpo nel momento della vita in cui si trasforma ogni giorno, quando siamo crisalidi in attesa di diventare farfalle; puntare sul corpo facendo leva sulle nostre vulnerabilità, sulle nostre paure; e anche sul fatto che in quella età il cervello non è ancora del tutto sviluppato e questo rende gli adolescenti più dipendenti dal giudizio altrui. Il risultato è stato dare implicitamente, attraverso i post mostrati, l’obiettivo di un corpo magro, magrissimo, per le ragazze; e di un corpo muscoloso, ai limiti dei doping, per i ragazzi. Quando abbiamo capito che i nostri figli stavano male, anzi che stavano sempre peggio, quando li abbiamo visti isolarsi, deprimersi, spegnersi a volte, invece della luna abbiamo guardato il dito. All’inizio abbiamo pensato che fosse tutta colpa dello screen time. Ce la siamo presa con il troppo tempo che i ragazzi trascorrevano (e ancora trascorrono) fissando lo schermo del proprio smartphone invece di uscire, relazionarsi fisicamente con gli altri, giocare e, persino, parlare con noi. Intendo, parlarci un po’ di più del dialogo standard a cui molti genitori si sono rassegnati: “Come stai?” “Bene”. “Che hai fatto?” “Niente”. Amen. Del resto dopo il Covid - e i lockdown e la Dad (la didattica a distanza) - nella nostra parte di mondo lo screen time degli adolescenti si era moltiplicato di due o tre volte arrivando a superare le otto ore al giorno negli Stati Uniti (nell’Unione Europea siamo attorno a sei). Anche il malessere dei giovani sembrava peggiorato in egual misura e come al solito, quando notiamo una correlazione fra due fenomeni, abbiamo concluso che ci fosse un rapporto di causa ed effetto. Allora abbiamo reagito: dobbiamo ridurre lo screen time!, abbiamo detto, salvare i nostri figli dalla tecnologia che gli abbiamo dato in mano troppo presto. E sono iniziate estenuanti battaglie in casa e nelle scuole: spegni quel cellulare, dammi il cellulare, se non vai bene a scuola te lo levo per sempre, ora basta, è vietato! Come se il problema, la causa della “generazione ansiosa” documentata dallo psicologo americano Jonathan Haidt nei suoi libri, fosse il tempo passato davanti allo schermo. E non cosa ci guardano in quello schermo. Diciamolo meglio: quello che l’algoritmo decide che guardino per far sì che non facciano altro nella vita. E alcuni hanno invocato, o preteso, il divieto degli smartphone ai ragazzini come se, a volte, quello spazio digitale non fosse diventato contemporaneamente il loro veleno quotidiano ma anche - una sorta di balsamo lenitivo, uno spazio protetto, qualcosa che serve a tenere lontano un mondo che deve apparire loro, non senza ragione, sempre più ostile, sempre meno accogliente. Un mondo che per la prima volta, forse, sembra aver perso una delle tre dimensioni temporali che danno un senso alla vita: il futuro. Ma se il mondo appare senza futuro, meglio infilarsi dentro uno smartphone, no? Di chi è davvero la colpa di questa “epidemia di tristezza”? Dei genitori che non sono stati capaci di resistere all’obiezione “tutti i miei amici ce l’hanno” posta dal figlio, a volte di nove o dieci anni, quando pretende il primo smartphone? O degli insegnanti che non sentono di avere l’autorità per farlo spegnere in classe e che fanno lezione cercando invano di conquistare l’attenzione di ragazzi che sono fisicamente lì ma sono anche altrove? Oppure dei ragazzi stessi? A giudicare dagli scontri, a volte anche fisici, che si sono registrati nelle famiglie e nelle scuole, gli adulti tendono a dare la colpa ai ragazzi ma è un errore. Durante un’intervista all’emittente tv Cnn, Vivek Murthy, ai tempi Surgeon General, la più alta autorità sanitaria degli Stati Uniti dopo il ministro della Salute, ha descritto perfettamente la partita che si gioca ogni giorno, in ogni istante, dentro lo smartphone di ogni adolescente: “Da una parte abbiamo i migliori designer e i migliori sviluppatori del mondo che hanno realizzato prodotti digitali in modo da essere certi che le persone passino sempre più tempo su queste piattaforme. E dall’altra, abbiamo i ragazzini. E se diciamo a un ragazzino: “Usa la tua forza di volontà per limitare il tempo che passi sui social media”, stiamo mettendo quel ragazzino da solo contro i più bravi progettisti e sviluppatori del mondo”. Morale: non potrà vincere mai. E infatti il Surgeon General, peraltro un giovane progressista illuminato, aveva concluso: “That’s just not a fair fight”, è una partita truccata. Era il 23 gennaio 2023. Qualche giorno prima il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva preso una iniziativa sorprendente: aveva scritto una lettera aperta al quotidiano Wall Street Journal per chiedere ai democratici e ai repubblicani di unirsi “per fermare gli abusi di Big Tech” e, in particolare, il fatto di “promuovere contenuti che minacciano la salute mentale e la sicurezza dei nostri bambini”. “Io sto facendo il possibile”, aveva scritto il presidente, ma tocca a voi fare le leggi. Tre i problemi citati: l’abuso sistematico dei dati personali degli utenti; la responsabilità per i danni causati dagli algoritmi; e la straordinaria concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di pochi. Era una dichiarazione di guerra che puntava a smontare il modello di business divenuto ormai tossico della Silicon Valley. Quando ci siamo meravigliati perché quasi tutti i capi di quelle grandi aziende tecnologiche si sono schierati con Donald Trump in campagna elettorale - e perché erano al suo fianco il 21 gennaio scorso, il giorno del giuramento - avremmo dovuto ricordarci di quando Joe Biden provò a sfidare Big Tech e nessuno nel Congresso lo prese sul serio. Ma neanche noi, in fondo. Chissà perché. Dovette sembrarci la tirata di un anziano signore incapace di capire “le meraviglie della rete”. Una cosa a cui rispondere: Ok boomer. Ai tempi eravamo tutti, anche in Europa, concentrati a contrastare le fake news, ovvero la disinformazione che viaggia indisturbata sui social network in qualche caso con il contributo dei russi, il che rendeva la cosa più allarmante. Ci sembrava l’effetto più urgente da combattere anche perché non erano ancora uscite le moltissime ricerche che mettono in relazione diretta il malessere di una generazione con la vita digitale; e soprattutto non erano usciti i documenti interni di TikTok, Facebook e Instagram in cui si dimostra come e quando era partita la “caccia” ai ragazzini - e a volte ai bambini - per renderli dipendenti da una di quelle piattaforme (alla faccia del divieto per i minori di 13 anni, sistematicamente aggirato con un clic). Ma chi queste cose le capiva davvero non aveva bisogno di attendere le prove. Per esempio nel 2018 l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, era volato in Gran Bretagna per andare in una scuola elementare e lanciare un grande programma per insegnare ai bambini a programmare software e - spiazzando tutti - aveva detto: “Non ho figli ma ho un nipote e gli ho imposto regole precise sull’uso della tecnologia… C’è una cosa che non consentirei mai ai ragazzini: non devono usare i social network”. Lo stesso concetto era stato espresso in maniera più brutale anche da un ex vice presidente di Facebook, Chamath Palihapitiya, che era stato assunto nel 2007 per occuparsi della “crescita degli utenti”. Aveva lasciato quattro anni dopo e nel 2017 aveva detto di sentirsi “terribilmente in colpa” per quello che aveva contribuito a creare e di aver vietato ai suoi figli di usare “quella merda”. That shit, letterale. Erano piuttosto numerosi in quei mesi gli ex dirigenti di Facebook che esprimevano rincrescimento e preoccupazione per la deriva che aveva preso un progetto che doveva “connettere il mondo e renderlo migliore”. Il più noto era Sean Parker: era stato il “fratello maggiore” che aveva affiancato Mark Zuckerberg quando “thefacebook” aveva appena cinque mesi e, forte della sua esperienza a Napster (la piattaforma pirata che per un po’ consentì a chiunque di scaricare musica illegalmente), lo aveva aiutato a trasformare il progetto di uno studente di college in una vera azienda (prima di lasciare nel 2005 in circostanze abbastanza misteriose). Ecco, in quei giorni del 2017 anche Sean Parker era emerso dall’oblio dorato in cui viveva per dire una frase spaventosa: “Solo Dio sa quello che i social stanno facendo al cervello dei nostri figli”. Solo Dio e Mark. C’era da rabbrividire. Tutti questi discorsi non avevano però intaccato minimamente la crescita tumultuosa dei social network; nè avevano indotto qualcuno a pretendere che ci fosse una maggiore cautela verso i giovanissimi. La reazione ufficiale era stata: sopire, troncare, minimizzare. Gli ex dirigenti di Facebook, ci dissero, erano mossi dal rancore per non far più parte di un progetto di enorme successo. Quanto a Tim Cook, la sua uscita era facile da spiegare: Apple ha un modello di business diverso dai social, vende smartphone e personal computer, non si alimenta dell’engagement degli utenti; ecco perché Tim Cook li attacca e sbandiera la privacy ad ogni occasione. Se lo può permettere. In realtà anche la Apple aveva avuto un ruolo, sebbene involontario, in questa vicenda della dipendenza dei giovanissimi dai social network. Secondo i dati citati dal professor Jonathan Haidt infatti, l’epidemia di ansia negli Stati Uniti ha inizio in un momento preciso: attorno al 2010. Le cause del disagio sono anche sociali (in breve: un nuovo assetto familiare con due genitori che lavorano e i figli affidati ai nonni da cui discende un desiderio eccessivo di protezione che ha ridotto l’autonomia e il gioco dei bambini). Ma restando al fronte tecnologico nel 2010 accaddero due cose importanti che ebbero effetti che nessuno lì per lì poteva immaginare. La prima fu l’introduzione di una fotocamera anteriore negli smartphone: ispirandosi a quanto fatto nel 1999 in Giappone su un oscuro telefonino (il Kyocera Visual Phone VP-210), Steve Jobs aveva portato questa innovazione sull’iPhone 4 che, anche grazie a questa novità, ebbe subito un enorme successo (nei primi tre giorni ne vennero venduti quasi due milioni di esemplari). L’idea di Jobs era consentire di fare videochiamate con Facetime ma la tecnologia, come spesso accade, prese una strada diversa. A cosa serviva davvero quella seconda fotocamera lo capimmo un paio di anni più tardi, quando l’Oxford Dictionary scelse la parola del 2013. Erano nati i selfie. La seconda novità fu un nuovo piccolo social network che metteva al centro di tutto non le parole ma la condivisione delle foto: Instagram. Su quella app i selfie, con o senza filtri, dilagarono. All’inizio Instagram era abbastanza innocuo e rispetto alla comunicazione scritta e verbosa di Facebook, era bello e solare (infatti di solito condividiamo infatti solo momenti di felicità, albe e tramonti, cose così). Ma nel 2012 le cose cambiarono: Instagram venne comprato da Facebook per una cifra che a molti parve clamorosa viste le dimensioni ridotte della startup, un miliardo di dollari. L’affare si era chiuso in appena due mesi: Mark Zuckerberg si era deciso a farlo perché pensava che, crescendo, “Instagram ci può fare molti danni”; il principale fondatore, Kevin Systrom, era contrario a vendere ma aveva deciso di sedersi a trattare perché temeva che altrimenti “Mark” sarebbe entrato “in modalità distruttiva” e li avrebbe fatti a pezzi. E così nel giro di qualche settimana aveva ceduto il controllo della società restando formalmente in sella fino al 2018. Allora tutta l’azienda stava dentro un appartamento: aveva appena tredici dipendenti, trenta milioni di utenti e non faceva un solo dollaro di fatturato. Ma Zuckerberg aveva la vista lunga: quello era il social perfetto per il mercato dei giovani e dei giovanissimi al quale puntava. Nei primi tre anni gli utenti decuplicarono, passando a 300 milioni, ma la vera svolta ci fu nel 2016. Come sappiamo quello fu l’anno dell’arrivo di TikTok e del suo potente algoritmo di raccomandazione dei contenuti. Temendo di perdere terreno fra i giovani, Zuckerberg decise di portare a compimento l’integrazione di Instagram con il “modello Facebook” che aveva in mente fin dal primo giorno ma sul quale Systrom opponeva resistenza. Assieme ad un nuovo logo e ad un nuovo design della app, venne introdotto il “feed algoritmico”: gli utenti da allora non avrebbero più visto i post degli amici in ordine cronologico, e quindi neutrale, ma in base ad un ordine che, ormai lo sappiamo, punta ad alzare l’engagement, l’interazione con i contenuti. Questo passaggio va spiegato bene perché può sembrare banale o addirittura opportuno (“guardo quello che mi interessa, che male c’è”) e invece non lo è. Un algoritmo che ha come scopo principale, anzi assoluto, alzare l’engagement degli utenti, ha portato nel tempo a mostrare agli utenti più anziani solo contenuti che facessero leva sulla insicurezza e quindi sulla paura; mentre per il ceto medio impoverito si è puntato su rabbia e risentimento. E questo ha alimentato un populismo che altrimenti non avrebbe avuto tanta forza; ed ha creato un bisogno di protezione, una emergenza sicurezza, che è comprensibile ad una certa età ma non si basa su dati reali. La paura e la rabbia non funzionano però sui giovani e sui giovanissimi, serviva altro. Come alzare l’engagement degli adolescenti, come renderli dipendenti dalla piattaforma e attivare microdosi di dopamina ogni volta che ci ritornano esattamente come accade con una slot machine? Lo ha scoperto un algoritmo di intelligenza artificiale, ovviamente, analizzando il comportamento dei ragazzi online eppure era semplice: puntare sul corpo nel momento della vita in cui si trasforma ogni giorno, quando siamo crisalidi in attesa di diventare farfalle; puntare sul corpo facendo leva sulle nostre vulnerabilità, sulle nostre paure; e anche sul fatto che in quella età il cervello non è ancora del tutto sviluppato e questo rende gli adolescenti più dipendenti dal giudizio altrui. Il risultato è stato dare implicitamente, attraverso i post mostrati, l’obiettivo di un corpo magro, magrissimo, per le ragazze; e di un corpo muscoloso, ai limiti dei doping, per i ragazzi. Il ragionamento è inevitabilmente schematico ma è sostanzialmente corretto. Come funziona lo ha dimostrato nel 2021 un senatore americano, Richard Blumenthal il quale, senza saperlo, ha ripetuto un test che a Instagram avevano già fatto e che poi avevano nascosto in un cassetto hai visto mai che qualcuno ci ripensasse. Blumenthal ha creato un profilo falso di una ragazzina di 13 anni e ha cliccato su un contenuto che parlava di diete estreme e disturbi alimentari. “Nel giro di un giorno tutti i contenuti raccomandati parlavano di questo. Una tempesta perfetta”. Parentesi. Lo stesso meccanismo si applica a tutto: nel febbraio del 2019 un dipendente di Facebook in India creò un profilo finto che doveva seguire automaticamente solo le pagine e i gruppi raccomandati dall’algoritmo; nel giro di tre settimane la sua bacheca era piena di immagini violente e notizie false. “Ho visto più persone morte in quelle tre settimane che in tutta la mia vita”, racconterà il dipendente. Fine della parentesi. Ma torniamo ad Instagram. Il giorno esatto in cui abbiamo scoperto ufficialmente che aveva un impatto negativo su adolescenti e bambini; e che Mark Zuckerberg lo sapeva e che, nonostante l’evidenza, è andato avanti per la sua strada, è stato il 14 settembre 2021. Quel giorno il Wall Street Journal ha pubblicato una serie di documenti interni forniti dall’ex dipendente Frances Haugen nei quali fra le altre cose si asseriva che Instagram faceva stare male tre adolescenti su dieci mentre più di una su dieci diceva che contribuiva ai disturbi alimentari (anoressia) o addirittura peggiorava gli istinti suicidi. Sul tema nel quartiere generale di Menlo Park c’erano state ben cinque ricerche in diciotto mesi e le conclusioni erano state sempre le stesse: il meccanismo della “social comparison” innescato da Instagram, il confronto estetico continuo con gli altri, stava facendo danni: “Aumenta ansia e depressione”, dicevano gli adolescenti intervistati, consapevoli del problema ma incapaci di spegnere tutto perché, lo sappiamo, “it is not a fair game”, è una partita impossibile da vincere. E Zuckerberg che ha detto? Lo sapeva? Lo sapeva. Le carte dimostrano che quelle ricerche sono arrivate sul suo tavolo. Eppure nel marzo 2021, parlando ad una commissione parlamentare del Congresso degli Stati Uniti, dirà esattamente il contrario: “Le nostre ricerche dimostrano che l’uso di app sociali per connettersi con gli altri può avere un impatto positivo sulla salute mentale degli utenti”. Paradossalmente era vero: certo che può averlo, un effetto positivo; certo che su moltissimi utenti lo ha avuto e lo avrà. Ma il lato oscuro, il fatto di aver sempre messo il profitto davanti alla salute mentale dei più giovani, era totalmente nascosto, negato. Qui va tutto benissimo, era il messaggio urbi et orbi. E dal suo punto di vista era vero anche questo. In fondo la sua filosofia da sempre è “move fast and break things”, muoviti in fretta e pazienza se si rompe qualcosa, dopo puoi sempre chiedere scusa. La prima volta che Zuckerberg spiegò questo motto, che da sempre era stampato a caratteri cubitali sulle pareti del quartier generale, era il 2012; stava quotando in Borsa l’azienda e nella lettera ai potenziali investitori disse che lo stile hacker di fare le cose (“the hacker way”), era farle in fretta e sperimentare senza troppe cautele perché “se non rompi mai nulla vuol dire che non ti stai muovendo abbastanza in fretta”. Con il tempo questo motto è stato accantonato, ammorbidito, ma è rimasto nel modo di vedere le cose del fondatore. Attenzione: Zuckerberg non ci dice di muoverci in fretta e riparare le cose, migliorare le cose, aggiustare le cose, prendersi cura delle cose. No, dice proprio di romperle; i cocci sono effetti collaterali di un progetto più grande. Nel 2023 Meta, nonostante le tempeste affrontate, registrerà l’ennesimo record, oltre 130 miliardi di dollari di fatturato con quasi 40 miliardi di profitti, un dato che probabilmente nel 2024 sarà di nuovo battuto. Va davvero tutto benissimo a Menlo Park. Certo qualcosa strada facendo si era rotto anche questa volta e puntuali - si fa per dire - sono arrivate “le scuse di Mark”, ormai un genere letterario per la frequenza con cui si sono ripetute. Il 31 gennaio 2024, durante un’audizione alla Commissione Giustizia del Senato dedicata alla sicurezza dei bambini online, Zuckerberg si è rivolto alle famiglie presenti in aula che avevano raccontato i danni inflitti ai loro figli dai social network, e ha detto: “Sono dispiaciuto per tutto quello che avete dovuto passare, è terribile. Nessuno dovrebbe passare attraverso le sofferenze che le vostre famiglie hanno subito”. Ma non si stava davvero scusando. Era di una calamità naturale che stava parlando, non dell’effetto di un modello di business straordinariamente profittevole ma altamente tossico. Sembrava si riferisse ad una popolazione colpita da un uragano o un terremoto non alle vittime dei suoi algoritmi. Intanto una “generazione ansiosa” era sempre più ansiosa, come se stesse vivendo con un terremoto permanente. Ma l’epicentro delle scosse non era Instagram. Era TikTok. La filiera industriale della canapa contro il Decreto Sicurezza di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 aprile 2025 Le proteste Confagricoltura, Filiera Italia e Coldiretti contro l’articolo 18 del provvedimento varato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri: “Equiparare l’uso delle infiorescenze della canapa a quello di sostanze illegali, anche in assenza di uso ricreativo, è una misura irragionevole”. Salvare la filiera industriale della canapa e contemporaneamente falciare - per pura ossessione proibizionista e antiscientifica - la produzione di cannabis light (quella senza Thc, il principio attivo psicotropo) non è possibile. Mentre molti Paesi come l’Olanda proseguono sulla via della legalizzazione della marijuana nell’ottica di combattere le vere droghe e il narcotraffico, in Italia organizzazioni come Confagricoltura, Coldiretti e Filiera Italia puntano il dito contro il decreto legge Sicurezza appena varato dal Consiglio dei ministri che non è affatto riuscito ed evitare di danneggiare il comparto industriale della canapa. E mette una toppa che è peggiore del buco provocato dal ddl che era all’esame del Senato ed era destinato ad una breve terza lettura alla Camera. In effetti l’articolo 18 del decreto legge Sicurezza, modificando la legge 242/2016 riguardante “la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”, consente la produzione dei semi e delle infiorescenze - contenenti Cbd, non Thc - solo se destinati al “florovivaismo professionale”, e non alla coltivazione casalinga. Tutti gli altri usi delle infiorescenze non dopanti sono vietati esattamente come nel caso della marijuana con alti valori di Thc (il limite è di 0,2% con tolleranze fino allo 0,6%), e puniti secondo il Testo unico degli stupefacenti 309/90. Nello specifico, la bozza di decreto legge varato dal Cdm il 4 aprile scorso prevede un comma aggiuntivo all’articolo 2 che esclude dai benefici della stessa legge 242/2016 “l’importazione, la lavorazione, la detenzione, la cessione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione, la consegna, la vendita al pubblico e il consumo di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, o contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. Condotte per le quali “restano ferme le disposizioni del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”. Ad equiparare la cannabis light ad una sostanza stupefacente e i suoi consumatori a “drogati”, ci aveva già provato il ministro della Salute Orazio Schillaci nel 2023 con un Decreto che però è stato sospeso dal Tar del Lazio. Nelle ordinanze di fine 2024 nelle quali si accoglie il ricorso di tre aziende produttrici di canapa, i giudici amministrativi scrivono che non esistono “accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica o psichica” da cannabidiolo (CBD) e che “non appaiano configurarsi, allo stato di fatto, imminenti rischi per la tutela della salute pubblica”. Secondo la Confagricoltura le nuove norme “aumentano le preoccupazioni degli agricoltori” perché, vietando “la maggior parte degli utilizzi della canapa”, rischiano di “paralizzare l’intero comparto, lasciando migliaia di aziende agricole nell’incertezza e impedendo la pianificazione delle attività per la stagione ormai imminente”. E di vanificare “tutti gli sforzi portati avanti finora per migliorare i contenuti dell’articolo 18 del ddl Sicurezza, nonostante l’apertura a un confronto registrata nelle ultime settimane in Parlamento, anche attraverso le numerose audizioni alle quali il settore ha partecipato”. Un grido d’allarme condiviso da Filiera Italia e Coldiretti secondo cui si rischia così di “paralizzare l’intero comparto, lasciando migliaia di aziende agricole nell’incertezza e impedendo la pianificazione delle attività per la stagione ormai imminente”. “Equiparare - scrivono - l’uso delle infiorescenze della canapa a quello di sostanze illegali, anche in assenza di uso ricreativo, è una misura irragionevole”. Contro l’intero decreto legge Sicurezza e il suo pacchetto di norme securitarie, +Europa ha deciso di indire un referendum abrogativo e ha lanciato un appello a tutti i partiti di opposizione affinché si coalizzino per raccogliere le firme. Migranti. Record di arrivi, naufragi fantasma, un cadavere: il dramma senza fine di Daniela Fassini Avvenire, 8 aprile 2025 La Ong Mediterranea, in navigazione dopo un soccorso, ha intercettato un corpo in mare. Era il “resto” di una tragedia dei giorni scorsi, di cui nessuno ha saputo nulla. Oltre 1.400 sbarchi nell’ultimo fine settimana, soccorsi in mare e un cadavere intercettato lungo la rotta del Mediterraneo centrale, quel che “resta” di un probabile naufragio fantasma dei giorni scorsi. Il dramma dei migranti si ripresenta puntuale con l’avvio della bella stagione. Ma a spingere i trafficanti a far viaggiare più persone verso l’Europa c’è anche l’ondata di violenze contro i migranti in Libia e Tunisia. Un’ondata di violenze “che ha provocato numerose partenze dalle coste nordafricane. Si sono così registrati, a partire dalla notte tra venerdì e sabato scorsi, una trentina di sbarchi a Lampedusa con l’arrivo di oltre 600 persone sabato e 830 domenica fino alla mezzanotte” conferma Mediterranea Saving Humans, che con la sua barca a vela Safira ha soccorso domenica pomeriggio 28 naufraghi, sbarcati nelle scorse ore sulla più grande delle Pelagie. Il soccorso è avvenuto in acque internazionali, in zona Sar di competenza maltese e tunisina, a 35 miglia a sud-ovest dell’isola. Tra loro ci sono anche 12 minori non accompagnati. I migranti, tutti in fuga dalla Libia, arrivano da Sudan, Egitto, Marocco e Bangladesh e, secondo quanto riferito ai soccorritori erano partiti 52 ore prima dalla costa libica di Sabrata. “Erano completamente stremati, con gravi problemi di disidratazione, per il lungo tempo trascorso in mare”, spiegano da Mediterranea, sottolineando che l’intervento si è reso necessario dopo che “il motore dell’imbarcazione, già in avaria, aveva preso fuoco”. L’equipaggio, dopo aver fornito a tutti giubbotti di salvataggio, ha contattato le autorità maltesi chiedendo un intervento - spiegano dall’ong -. Ma come spesso accade, “prima non hanno risposto alle chiamate e poi si sono rifiutate di intervenire”. Avvistato un cadavere e i resti di un’imbarcazione - Domenica mattina l’imbarcazione Safira di Mediterranea Saving Humans ha intercettato in mare “prima diverse tavole di legno di colore giallo galleggiare come se fossero i resti di un naufragio e qualche minuto dopo il nostro equipaggio scorgeva tra le onde un corpo senza vita, quello di un ragazzo nero della presumibile età compresa tra i 15 e i 25 anni, che indossava un giubbino di colore beige”. Non è stato però possibile recuperare il corpo, inghiottito poco dopo dal mare. Tre ore di successiva ricerca in zona non hanno dato alcun esito. La Life Support di Emergency a Napoli - Andrà a Napoli e non più ad Ancona come precedentemente indicato la nave Life Support di Emergency con 215 persone salvate nel corso di tre operazioni nel mediterraneo centrale. L’arrivo della nave è previsto per martedì 8 aprile, alle 8.30 circa. Centro Astalli: cresce la vulnerabilità tra i rifugiati - In Italia si registra un quadro di “crescente vulnerabilità tra i rifugiati”, in un contesto caratterizzato da “politiche migratorie sempre più restrittive e dalle difficoltà di accesso a un sistema di accoglienza adeguato, non sempre all’altezza del compito che è chiamato a svolgere; situazioni che rendono l’inclusione sociale un percorso a ostacoli”. Sottolinea Il Centro Astalli nel suo Rapporto Annuale che sarà presentato martedì mattina e che contiene una fotografia aggiornata sulle condizioni di richiedenti asilo e rifugiati che durante il 2024 si sono rivolti alla sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e hanno usufruito dei servizi di prima e seconda accoglienza offerti a Roma e nelle città di Bologna, Catania, Grumo Nevano, Palermo, Padova, Trento, Vicenza. Nel Rapporto emerge che aumentano i richiedenti asilo nei servizi di bassa soglia, e cresce la richiesta di bisogni primari. Migranti. Cpr in Albania: segreto di Stato sul sistema di video-sorveglianza di Nello Trocchia Il Domani, 8 aprile 2025 Il regolamento che norma il sistema di sorveglianza del carcere albanese è inaccessibile. Così ha deciso il ministero della Giustizia, rispondendo ai sindacalisti della Uil-pa. “Documenti inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali”. Con questa formula il ministero della Giustizia ha vietato la divulgazione di informazioni relative alla struttura penitenziaria di Gjader in Albania. Si tratta del carcere dove dovrebbero transitare i migranti responsabili di eventuali reati commessi nei Cpr costruiti in quel territorio, una struttura vuota che, come ha raccontato Domani, nel recente passato si era trasformata in un accogliente canile. Ora possiamo rivelare la nuova puntata di questa saga fatta di sprechi, inefficienza e assenza totale di trasparenza. Ma su cosa il ministero ha opposto motivi di sicurezza per evitare la trasmissione di documenti? Sulla domanda formulata da Gennarino De Fazio, segretario della Uil-pa, che aveva semplicemente chiesto copia del regolamento per la disciplina del sistema di video-sorveglianza della struttura penitenziaria, la data di emanazione, ma anche “copia del provvedimento con cui sono stati nominati il responsabile e gli incaricati del trattamento, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia”. Inaccessibili - Richieste che sembravano consuetudinarie e dovute, ma che, invece, sono diventate inaccessibili e segrete. “Si tratta di un ulteriore restringimento degli spazi democratici e anche del principio di trasparenza, ci chiediamo cosa ci sia di così segreto nelle immagini e negli eventuali audio che vengono registrati. Considerando che in quella struttura sono andati e andranno anche deputati e senatori della Repubblica, veramente non è possibile sapere come vengano usate quelle immagini? Di certo il precedente responsabile della polizia penitenziaria di quel carcere ne ha avuto accesso”, dice De Fazio. L’amministrazione ha eccepito la segretezza citando il decreto 115 del 1996 che disciplina i documenti del ministero sottratti al diritto di accesso, una disciplina applicabile anche all’accesso civico generalizzato (il cosiddetto Foia) secondo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la direttrice del carcere di Gjader, Silvana Salani. Il diniego è così stato disposto “in relazione alla esigenza di salvaguardare la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali”. Si legge ancora nel rigetto dell’istanza che “sono sottratti all’accesso i programmi per la collaborazione internazionale in materia penitenziaria e di giustizia quando la loro conoscenza comporti un pregiudizio concreto ed effettivo alla tutela degli interessi suindicati”. Doppio rigetto - Dopo la bocciatura, c’è stata la richiesta di riesame avanzata dal sindacato: che è stata respinta dal responsabile anticorruzione del ministero, Giuseppe Fichera. Il pronunciamento prende in esame la disciplina che norma la divulgazione degli atti facendo riferimento alle sentenze dei giudici amministrativi. “In sostanza, anche dopo l’entrata in vigore delle norme sull’accesso civico generalizzato permane un settore “a limitata accessibilità” se è vero che è consentito a chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto dalla pubblica amministrazione, nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, l’ostensione di quel dato e documento può essere consentita solo in favore di una ristretta cerchia di interessati”, si legge. In pratica resta inaccessibile la documentazione relativa perfino alla data di entrata in vigore del sistema di videosorveglianza così come l’atto di nomina dei responsabili. “Si tratta di una decisione incredibile e inaccettabile che arriva in un periodo nel quale il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha un capo, altro vulnus che racconta l’attenzione nei confronti del mondo carcerario e della polizia penitenziaria”, dice De Fazio. Da quattro mesi, infatti, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è senza un vertice, la ragione è stata svelata da questo giornale. Il nome della prescelta, Lina Di Domenico, ora facente funzioni, è stato prima fatto circolare alla stampa e poi è arrivato al Quirinale provocando lo stupore del Colle. Una sgrammaticatura che ha generato lo stallo. “Bisogna rimediare quanto prima, leggo sui giornali nomi di magistrati che non hanno i requisiti per ricoprire quell’incarico, c’è una diffusa disattenzione non solo delle forze di maggioranza, ma anche di opposizione. In questo momento l’assenza provoca ritardi anche nelle riunioni della commissione che si occupa della progressione delle carriere. Commissione che dovrebbe presiedere la numero due del corpo che, però, da settimane è impegnata nel doppio ruolo anche di capo facente funzioni. Un caos inaccettabile”, conclude De Fazio. Dopo il doppio diniego il sindacato valuta nuove iniziative, tra queste il ricorso al tribunale amministrativo. Gli immigrati in catene e la normalità del male di Viola Ardone La Stampa, 8 aprile 2025 Immigrati in catene costretti salire a bordo di un aereo diretto in Guatemala. Uomini in fila indiana caricati su un autobus per essere rimpatriati mentre sotto va in loop un allegro motivetto: “Na Na Hey Hey Kiss Him Goodbye” hit degli anni Sessanta degli Steam. La Segretaria alla Sicurezza Usa, Kristi Noem, che posa sorridente come in un Safari umano davanti a un gabbione pieno di venezuelani espulsi dagli Usa. Irregolari trattati alla stregua di terroristi, dileggiati ed esposti come trofei di una guerra parallela, quella dell’amministrazione statunitense contro i migranti. Espulsioni di massa riprese dai media di governo e pubblicate sul profilo Instagram ufficiale della Casa Bianca, come l’ormai virale video realizzato con l’Intelligenza artificiale in cui la terra ancora sanguinante di Gaza diventa un resort esclusivo per ultraricchi in cerca di svago. Oscenità instagrammabili del nuovo disordine mondiale, diffuse globalmente affinché raggiungano in maniera capillare tutti noi. Possono suscitare approvazione o sdegno ma in ogni caso hanno il potere, da un lato, di spostare l’attenzione del mondo dall’economia e dai problemi reali degli elettori ai parossismi delle iniziative trumpiane, e, dall’altro, di costruire un nuovo linguaggio, in cui la lancetta dell’etica vira implacabilmente verso un punto di non ritorno. Un punto che si trova al di là anche di quella “banalità del male” teorizzata da Hanna Arendt a proposito dei crimini nazisti. Le scene diffuse da Trump e dai suoi colleghi sovranisti, le frasi utilizzate, l’estetica disforica da esse costruita sono il terreno di coltura di una “normalità del male”, un male che perde la sua eccezionalità non solo perché perpetrato da persone ordinarie (come nel caso dei gerarchi nazisti) ma anche perché entra a far parte della vita quotidiana, ci contamina tutti, in qualche modo. Passa sui nostri telefonini con il sottofondo di musichette orecchiabili tra un contenuto pop, i consigli per la dieta, l’ultimo flirt di una star di Hollywood, il meteo del weekend. E, tra una scena e l’altra, l’uomo in catene, la donna in ginocchio, il migrante ingabbiato. È il Manifesto della Nuova Disumanità che passa davanti ai nostri occhi sempre più assuefatti, spostando di un fotogramma alla volta il confine dell’osceno, alzando di reel in reel l’asticella dell’indicibile, dell’inguardabile, dell’innominabile. In questo Manifesto della Nuova Disumanità, l’altro non esiste, è un ostacolo da eliminare, un problema da risolvere rispedendolo nel posto da cui è venuto, possibilmente. In questo Manifesto della Nuova Disumanità, il fine unico è il profitto, le regole sono non aver regole, se non quelle che massimizzano il risultato personale. In questo Manifesto della Nuova Disumanità, vige il monologo del capo o dei suoi fedelissimi, e anche i social network, nati originariamente per consentire lo scambio, la socializzazione, per l’appunto, dei contenuti, diventano dei “privat network”, come X, come Truth (il social di Trump dal nome evidentemente antifrastico), come i vari social di Meta, il cui fondatore con una giravolta opportunistica si è genuflesso ai voleri del nuovo padrone di Casa Bianca. Nel 1938 venne pubblicato in Italia il Manifesto della razza. Si trattava di un trattato con pretese scientifiche che aveva l’ambizione di dare fondamento a teorie razziste, antisemite e discriminatorie le quali avrebbero fatto da supporto alle leggi razziali emanate a partire dall’autunno dello stesso anno. Il Manifesto, redatto pare con il contributo dello stesso Mussolini e controfirmato da docenti universitari di comprovata fede fascista, contribuì ad alimentare il clima d’odio nei confronti degli ebrei, degli stranieri, degli esponenti di altre etnie. “È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”, si dichiara al punto 7 del documento. Il Manifesto della Nuova Disumanità propagandato da Trump e dai suoi omologhi nel mondo non è molto diverso, si basa sullo stesso principio: dare voce al tabù, legittimare il pregiudizio, rafforzare la paura, stigmatizzare l’estraneo come elemento di disturbo, eliminando il quale si eliminano i problemi del Paese. Non ci sarà bisogno, questa volta, di leggi razziali, di olio di ricino e di camicie nere. Le leggi che contano di più, oggi, sono quelle che passano attraverso i media, quelle che ci raggiungono sul telefonino mentre scorriamo i feed nella nostra timeline. Sono quelle, le leggi che ci convincono di giorno in giorno, in maniera subliminale, e che silenziosamente ci trasformano, mentre eravamo occupati a tenerci distratti.