Lettera aperta del Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2025 Al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Lina Di Domenico Al Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, Ernesto Napolillo Al Direttore Generale del personale, Massimo Parisi   All’amministrazione penitenziaria chiediamo rispetto della libertà di espressione, autorizzazione all’uso di tecnologie, tempi rapidi nelle risposte, adeguata considerazione dell’attività svolta dai volontari operatori della comunicazione.   L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, dando concreta applicazione all’art. 21 della Costituzione, così recita al comma 8: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”. Ma le cose non sono così semplici, e questo diritto delle persone detenute a esprimere le proprie opinioni è tutt’altro che rispettato. In questi anni di vita dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione dalle carceri, noi che in numerose realtà lavoriamo da tempo, ci siamo presi l’impegno di raccontarle con onestà, e non abbiamo mai taciuto le difficoltà, le criticità, i percorsi finiti male, le ricadute, le sconfitte. Abbiamo cercato con senso di responsabilità e professionalità di fornire una informazione attenta, precisa, documentata sulla realtà carceraria, proprio perché la sfida è rispondere con precisione e sincerità a una informazione spesso imprecisa e menzognera che arriva dal mondo “libero”. Ma ci scontriamo ogni giorno con ostacoli e barriere che in vario modo condizionano pesantemente il nostro lavoro.   Chiediamo al DAP e al Ministero della Giustizia chiarimenti sui seguenti punti: * Se l’Ordinamento penitenziario riconosce alla persona detenuta il diritto a esprimere le proprie opinioni, è ammissibile che sulle pagine dei giornali di alcune carceri quella persona non possa firmare, se lo desidera, i suoi articoli con nome e cognome visto che il suo diritto alla privacy è già assicurato dalla direzione del giornale? * Se la persona detenuta ha diritto a esprimere le proprie opinioni, e i giornali realizzati in carcere hanno un direttore responsabile che ne risponde anche penalmente, come si spiega che in alcuni istituti sia d’obbligo una “pre-lettura” degli articoli da parte delle direzioni dell’istituto e delle eventuali “Istanze superiori”? * Se i volontari e gli operatori che, insieme a tanti redattori detenuti, si occupano di informazione e comunicazione dal carcere sono persone autorizzate in base all’art. 17 O.P. che consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”, è possibile che queste stesse persone non siano considerate affidabili e responsabili di tutto il materiale informativo che i giornali e le altre realtà dell’informazione producono nelle carceri? * Com’è possibile effettuare il lavoro redazionale senza poter usare, almeno in presenza e sotto la responsabilità di operatori volontari, elementari strumenti tecnologici come registratore, macchina fotografica, connessione Internet? Si ricorda che la circolare del DAP del 2 novembre 2015 prevede espressamente la “possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti”, e riconosce che “l’utilizzo degli strumenti informatici da parte dei detenuti ristretti negli Istituti penitenziari, appare oggi un indispensabile elemento di crescita personale ed un efficace strumento di sviluppo di percorsi trattamentali complessi. (…) L’esclusione dalla conoscenza e dall’utilizzo delle tecnologie informatiche potrebbe costituire un ulteriore elemento di marginalizzazione per i ristretti”. Queste parole così chiare e inequivocabili possono finalmente tradursi in concrete autorizzazioni ai nostri giornali e gruppi di lavoro a usare questi indispensabili strumenti tecnologici per dare valore e qualità alle nostre attività? * L’attività di redazione ha comunque necessità di tempi di risposta adeguati da parte dell’amministrazione penitenziaria. Articoli che parlano del caldo asfissiante nelle celle e vengono autorizzati alla pubblicazione a Natale, richieste di permessi di ingresso di ospiti significativi che arrivano a volte con lentezza esasperante, attese snervanti per introdurre materiali indispensabili per il nostro lavoro, sono tutte situazioni che oggettivamente finiscono per vanificare il lavoro delle nostre redazioni. Se l’attività giornalistica nei penitenziari è ritenuta una risorsa importante per il dialogo tra realtà detentiva e società esterna, perché le Istituzioni non semplificano le procedure e accorciano i tempi di tante estenuanti attese? Giornali, podcast, trasmissioni radio-TV, laboratori di scrittura sono una ricchezza culturale che va salvaguardata e facilitata: per questo chiediamo che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ci riceva e affronti con noi i temi che abbiamo sottoposto alla sua attenzione. SOTTOSCRIVONO: Ristretti Orizzonti, periodico dalla Casa di reclusione di Padova, direttrice Ornella Favero, giornalista Ristretti Parma, periodico dalla Casa di reclusione di Parma, responsabile Carla Chappini, giornalista Cronisti in Opera, periodico della Casa di Reclusione di Milano-Opera, direttore Stefano Natoli, giornalista professionista Voci di dentro, direttore Francesco Lo Piccolo, giornalista professionista Non tutti sanno, periodico della Casa circondariale di Roma Rebibbia, responsabile Roberto Monteforte, giornalista professionista Carte Bollate, periodico dalla Casa di reclusione di Milano Bollate, direttrice Susanna Ripamonti, giornalista professionista Web radio http://www.caffeitaliaradio.com, responsabili Davide Pelanda e Dario Albertini, Liberi dentro Eduradio&TV, responsabile Antonella Cortese, giornalista Salute inGrata 2 CR Milano Bollate, responsabile Nicola Garofalo Sito www.laltrariva.net, responsabile Francesca de Carolis, giornalista Non solo Dentro, inserto dal carcere di Trento di Vita Trentina a cura di APAS, direttore Diego Andreatta, giornalista professionista Mondo a quadretti, periodico dalla Casa di reclusione di Fossombrone (PU), responsabile Giorgio Magnanelli Ristretti Marassi, responsabile Grazia Paletta coordinatrice con Arci Genova Altre Storie, Inserto dalla Casa circondariale Lodi, pubblicato all’interno del giornale Il Cittadino di Lodi, referente Andrea Ferrari.  Astrolabio, periodico della Casa Circondariale di Ferrara, curatore Mauro Presini Ponti, periodico dalla Casa circondariale maschile “Santa Maria Maggiore” di Venezia, supervisore Maria Voltolina Presidente de Il Granello di Senape OdV Gazzetta dentro, periodico dalla Casa di reclusione di Quarto d’Asti, referente Domenico Massano NeValeLaPena, periodico dalla Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna, referente Federica Lombardi Operanews, periodico dalla Casa di reclusione di Milano Opera, direttore responsabile Renzo Magosso, giornalista professionista Itaca, periodico dalla Casa circondariale di Verona Montorio, referente Anna Corsini, volontaria Suicidi, incidenti, malattie: perché la strage dei detenuti marcia verso un macabro record di Lorenzo Zacchetti milanotoday.it, 7 aprile 2025 Youssef Mokhtar Loka Barsom è morto a soli 18 anni, bruciato vivo all’interno di un carcere nel quale non sarebbe nemmeno dovuto entrare. Risale allo scorso settembre la tragica fine del giovane egiziano, giunto in Italia come minore non accompagnato, dopo essere passato per il calvario della Libia e dei trafficanti di esseri umani. Un ragazzo, peraltro, affetto da problematiche psichiche conclamate che lo rendevano non pericoloso per gli altri, ma certamente per sé stesso. La sua condizione avrebbe dovuto evidenziare l’inopportunità della detenzione a San Vittore, dove l’incendio di un materasso, probabilmente dovuto a un tentativo di rivolta, gli è costato la vita. Non si tratta di un macabro scherzo del destino e nemmeno di un caso isolato. L’assurdità della morte di Youssef si iscrive in uno scenario nel quale le carceri per adulti finiscono per ospitare persino i minorenni. È il caso della Dozza di Bologna che, già sovraffollata di suo, dallo scorso 24 marzo accoglie anche 50 ragazzi provenienti da istituti minorili di tutta Italia. Una scelta dovuta alla mancanza di spazi alternativi e quindi fatta in blocco, nonostante la normativa che prescrive che i trasferimenti debbano sempre essere individuali. Non è servita a nulla la vibrata protesta della A.I.M.M.F. (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), la quale ha stigmatizzato una decisione in netta antitesi anche con la territorialità della pena, elemento fondamentale per la rieducazione del soggetto. Tra i magistrati, è altrettanto critico sulla scelta Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale della Città Metropolitana di Milano. Nel corso di una audizione presso la Commissione Carceri di Palazzo Marino, ha sciorinato una serie di dati raggelanti, riguardanti tanto i detenuti adulti quanto i minorenni. Il tratto comune a entrambe le fasce di età sta in quelle “condizioni inammissibili” di detenzione che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha citato come causa primaria dei suicidi tra i detenuti. Nel 2024 se ne sono verificati addirittura 90, un dato molto più alto rispetto alla media dell’ultimo trentennio. E il 2025 potrebbe chiudersi con un bilancio persino più tragico: solo nel primo trimestre si sono già uccisi 25 detenuti e di questo passo il record sarà inevitabilmente da aggiornare. A questo dato vanno aggiunti quattro decessi per malattia, 18 per cause ancora da accertare e un’impennata dei casi di autolesionismo, dei quali è persino difficile tenere il conteggio. Il più recente dei 25 suicidi ha colpito profondamente Maisto. Si è trattato di Francesca Brandoli, 52 anni, che per l’omicidio del marito stava scontando l’ergastolo a Bollate. La donna aveva ottenuto l’accesso ad alcuni benefici, tra cui quelli lavorativi, e già nel 2015 aveva collaborato ad Expo, per poi prestare servizio anche fuori dal carcere. Quest’ultimo privilegio le era stato recentemente revocato, ma la sua reazione rabbiosa nei confronti di una punizione che le pareva ingiusta aveva rassicurato il Garante, che l’aveva incontrata 15 giorni prima del suo suicidio. Nulla gli aveva fatto pensare di trovarsi di fronte a una persona così depressa da essere in procinto di togliersi la vita. Sarà l’inchiesta a fare luce sulle cause, ma lo sconcerto di un magistrato che ne ha viste davvero tante non può lasciare indifferenti. Non solo. Impressiona il fatto che tali tragedie si verifichino anche in un carcere per molti versi considerato un modello come quello di Bollate, mietendo vittime anche tra persone inserite in percorsi rieducativi strutturati, come nel caso in questione. Lo sconcerto diventa angoscia se si allarga lo sguardo ai tre carceri milanesi e ai rispettivi dati di sovraffollamento: Chi sono i detenuti nelle carceri di Milano Il 57% delle persone ristrette nelle carceri meneghini è composto da cittadini italiani. A livello lombardo la percentuale di stranieri sale al 45% (4.039 detenuti su 8.890), ma comunque rimanendo molto più bassa rispetto a regioni come Trentino e Val d’Aosta. È molto rilevante la percentuale di tossicodipendenti, che si attesta al 40,14% nella popolazione complessiva dei tre istituti meneghini per adulti (50,5% a San Vittore; 38,3% a Opera e 33,72% a Bollate). A fronte di questi numeri in preoccupante crescita, colpisce il fatto che la Polizia Penitenziaria sia nettamente sotto organico. A livello regionale mancano 800 agenti, pari al 14% del totale. A San Vittore tale carenza sale al 29,5%. Allargando lo sguardo alle altre figure professionali che compongono il personale carcerario, la logica conseguenza è che il tempo che si può dedicare a ciascun detenuto sia molto ridotto, rispetto al passato. Tale dicotomia spinge Maisto a porre un tema di indirizzo politico: “È fondamentale adeguare il numero degli addetti all’aumento dei detenuti. Se si vuole continuare ad avere un numero così alto di persone in carcere bisogna fare delle scelte conseguenti, altrimenti si va al massacro”. Tuttavia, il Garante non ne fa una questione di parte, ricordando che l’ultimo condono, voluto nel 2006 dal Governo Prodi, fu votato anche da Berlusconi, allora capo dell’opposizione. Edilizia carceraria e paradossi - La questione è di pura logica: se non si adottano provvedimenti per ridurre l’affollamento carcerario, ma anzi si continuano a introdurre nuovi reati nel Codice penale, quantomeno bisogna edificare spazi degni per un’esecuzione della pena che rispetti i diritti umani. Il Governo Meloni ha preso posizione aprendo un bando finalizzato all’aumento di 384 posti detentivi, attraverso misure di ampliamento da realizzare in nove istituti distribuiti sul territorio nazionale, Lombardia compresa. Ma in cosa consistono questi interventi? Nella messa in opera di “blocchi detentivi” prefabbricati, ognuno dei quali composto da 24 posti letto, per un esborso complessivo di 32 milioni di euro, ovvero circa 83.000 euro a posto. Due blocchi saranno destinati al carcere di Opera, aggiungendo così 48 posti che purtroppo non basteranno a risolvere il sovraffollamento sopra descritto. E non è tutto: le stanze di pernottamento per quattro detenuti misurano 30 metri quadri, dai quali però vanno sottratti i tre metri quadri destinati al bagno, nonché lo spazio occupato da letti, tavoli monoblocco e sedie, tutti fissati al pavimento per ragioni di sicurezza, con limitazioni di movimento che Maisto giudica “peggiorative rispetto a qualsiasi carcere”. Occorre sottrarre anche lo spazio riservato all’angolo di preparazione dei pasti, sul quale il Garante rileva anche l’assenza di indicazioni in merito all’uso di piastre a induzione per le cucine. Tale scelta consentirebbe di evitare l’uso di fornelletti a gas e altri strumenti di uso comune, che in caso di rivolte e disordini si trasformano facilmente in armi. Conti alla mano, il consigliere del Pd Alessandro Giungi evidenzia il rischio di scendere sotto i tre metri quadri che rappresentano lo spazio minimo di movimento da garantire a ciascun detenuto, secondo normative che nel nostro Paese sono state frequentemente violate. In merito a Opera, inoltre, l’esponente Dem (vicepresidente della Commissione) rileva come l’arrivo dei blocchi detentivi impedirà la prosecuzione dei lavori di ampliamento predisposti dall’apposito progetto dell’Università Statale. Un intervento, peraltro, che a sua volta aveva interdetto l’uso del campo di calcio in precedenza destinato ad attività sportive e di socialità: anche la squadra del Comune vi ha preso parte a diverse iniziative pensate per far sentire i detenuti più inseriti nel tessuto sociale. Il libro nero delle case circondariali Un paradosso kafkiano? Sì, ma c’è persino di peggio. Nella lunghissima lista delle problematiche rilevate dal Garante durante le sue visite alle carceri milanesi si trovano anche allagamenti, campanelli di allarme non funzionanti nelle zone mediche, cibo di scarsa qualità o comunque non corrispondente agli ordini, prodotti acquistati da parte dei detenuti regolarmente pagati e mai consegnati, oppure - massima beffa - arrivati a destinazione dopo che gli interessati erano stati scarcerati. L’elenco è ancora molto lungo, al punto da rendere necessario un focus specifico per ciascuna casa circondariale, Beccaria compreso. In sede di Commissione si è ribadita la necessità di organizzare una seduta del Consiglio comunale a San Vittore. In realtà, sono ben due anni che si sta cercando di organizzare la seduta, ma l’uscita di scena del direttore, sostituito da una reggente, ha complicato il percorso. Una considerazione che spiega molto del problema, ma non certo tutto: il nostro viaggio nell’infermo delle carceri milanesi è appena cominciato. Carcere e salute, Simspe: malattie in aumento tra detenuti sempre più giovani di Roberta Barbi vaticannews.va, 7 aprile 2025 In occasione del Giubileo del mondo della sanità, la Società italiana di medicina penitenziaria (Simspe) che ha da poco festeggiato i 25 anni dalla fondazione, lancia la sua proposta: un protocollo d’intesa tra i due Ministeri competenti per migliorare le condizioni dei detenuti con problemi di salute o di dipendenza. I detenuti sono cittadini con pari diritti degli altri, compreso quello, universale, alla salute: bisogna sempre tenere presente questo quando si parla di carcere dove, stando ai dati consegnati nel corso dell’ultimo convegno sul tema organizzato dalla Società italiana di Medicina penitenziaria, sono in aumento molte patologie, a partire da quelle psichiatriche, come purtroppo documenta anche la drammatica impennata dei casi di suicidio negli ultimi due anni. Ma non solo: malattie infettive, diabete, obesità, tumori e tossicodipendenza sono compagni di cella per molti ristretti. “Purtroppo non esistono dati raccolti a livello centrale - testimonia ai media vaticani il dottor Sergio Babudieri, direttore scientifico del Simspe - noi li raccogliamo privatamente con un team multidisciplinare composto da psichiatri, odontoiatri, cardiologi ecc. perciò abbiamo una visione abbastanza globale”. La salute in carcere, una questione di competenze Dal 2008 la competenza in materia di sanità in carcere è stata trasferita dal Ministero della Giustizia al Ministero della Sanità, quindi, in pratica, alle Asl regionali: “In alcuni casi ci sono stati dei benefici grazie al più diretto rapporto con ambulatori e ospedali, penso allo snellimento di pratiche come le radiografie o modelli virtuosi come l’Emilia Romagna - afferma Babudieri - altre volte non è così: ci sono attese lunghissime e poi tutti i problemi connessi. Le faccio un esempio: io ho sempre offerto le mie consulenze al carcere di Sassari; ci sono colleghi che hanno richiesto per detenuti anziani colonscopie per le quali c’era disponibilità a Cagliari! Si immagina cosa significa dover organizzare una traduzione per 200 km ad andare e 200 a tornare, magari di un detenuto anche con una condanna pesante?! Insomma, i problemi sono spesso legati al territorio”. Condizioni di vita e malattie - Il peggioramento delle condizioni di vita negli istituti di pena, ha inevitabilmente causato un incremento delle patologie tra le persone private della libertà personale: il sovraffollamento, le strutture fatiscenti, le violenze, le proteste, sono tutte problematiche che stanno anche - ma non solo - alla base della crescita del tasso di suicidi. “Bisogna tenere presente che abbiamo una popolazione penitenziaria molto giovane - continua il direttore scientifico del Simspe - fatta eccezione per l’alta sicurezza e il regime speciale del 41 bis in cui ci sono anche anziani, i detenuti, soprattutto quelli stranieri, hanno un’età media che non supera i 40-50 anni”. Dipendenze e malattie infettive - Nodo mai definitivamente sciolto sul tema salute e carcere è quello delle dipendenze da stupefacenti: ne sono affetti migliaia di detenuti e questo problema è alla base della quasi totalità dei reati connessi alla droga. In molti casi, inoltre, la dipendenza è strettamente legata al disagio mentale e la fragilità che affliggeva questi soggetti prima della carcerazione, “dentro” non può che acuirsi: “Quando siamo in presenza di doppia diagnosi anche psichiatrica, riusciamo a gestire bene la situazione in quei territori in cui esistono anche servizi specifici per le dipendenze che così non restano solo un problema del carcere - spiega ancora Babudieri - serve un coordinamento, anche perché molti di questi ristretti sviluppano patologie come l’epatite C e quindi richiedono anche altri tipi di cure”. Dalla pandemia di Covid in poi, inoltre, il tema delle malattie infettive è tornato alla ribalta: “Abbiamo molti detenuti, specie provenienti da alcune zone del mondo in cui non è stata debellata, che sono reattivi alla tubercolina - prosegue - essendo il carcere una comunità chiusa esiste un rischio potenziale di trasmissione multipla, non solo tra detenuti, ma anche verso gli agenti, il personale, gli operatori ecc.”. La proposta del Simspe - A voler allargare il discorso, ci sarebbe da parlare anche degli screening in carcere, sempre difficili da ottenere, come quelli odontoiatrici o quelli specifici della medicina di genere. Esami come la mammografia o una visita ginecologica che “fuori” sono gesti di prevenzione semplici da compiere, “dentro” diventano un ostacolo insormontabile e spesso si arriva troppo tardi. La proposta del Simspe è allora quella che la medicina penitenziaria venga riconosciuta come una specificità: “Bisogna mettersi in testa che la salute dei detenuti è un affare connesso con la sicurezza di tutto il Paese - conclude il dott. Babudieri - noi chiediamo che si colloqui tra Ministero della Giustizia e Ministero della Salute per arrivare a un accordo che garantisca l’omogeneità delle cure e dell’erogazione delle prestazioni su tutto il territorio nazionale”. Paola Severino: “Chi esce dal carcere e ha un mestiere si salva” di Paolo Bricco Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2025 “La mia tesi di laurea riguardava la responsabilità penale del presidente della Repubblica. Era un argomento su cui non era stato scritto molto. Il mio relatore era Giuliano Vassalli. Un grande maestro. Mi aveva invitato a superare ogni forma di timidezza intellettuale: se non fossi stata d’accordo con il poco che era stato scritto sul tema, avrei dovuto esprimere il mio punto di vista. E così feci. Desunsi gli elementi di responsabilità astratta del presidente dal diritto costituzionale e non dal diritto penale. Era ancora aperta, nel corpo della nazione, la ferita delle dimissioni, nel 1964, di Antonio Segni. Segni era rimasto al Quirinale per due anni. Aveva lasciato per ragioni di salute. Ma si erano allungate delle ombre per la sua presunta conoscenza di parti del Piano Solo, il progetto di golpe del generale dei carabinieri Giovanni de Lorenzo. La discussione della tesi si trasformò in un vero e proprio dibattito con lo stesso Vassalli, i costituzionalisti Vezio Crisafulli e Aldo Sandulli, il titolare di Procedura penale Giuseppe Sabatini e Tullio Delogu, professore di diritto penale che aveva da poco affiancato Vassalli, impegnati per quasi un’ora a misurarsi su quel tema che, da freddo e astratto, si era fatto concreto e incandescente”. C’è molto della futura Paola Severino - avvocato, fra i maggiori esperti italiani di diritto penale societario, presidente della Luiss School of Law, presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (Sna), primo ministro della Giustizia donna in Italia e tante altre cose - nel racconto di quel pomeriggio di un giorno del 1971 alla Sapienza di Roma: l’argomento in apparenza astratto e freddo che si fa concreto e incandescente, la studentessa che sviluppa una tesi non convenzionale su un argomento poco studiato, la giovane donna già ben strutturata che si muove con agio e senza sottomissioni fra uomini maturi di grande autorevolezza e autorità che hanno il controllo della situazione e della discussione, ma la discussione l’ha attivata lei scegliendo un tema che - come le capiterà nel corso della vita - è sul confine fra il pensiero e la prassi, fra il potere e la responsabilità, fra quello che si vede e quello che non si vede, fra la passione privata e l’impegno pubblico. Siamo nello Studio Severino di Piazza della Libertà a Roma. Nella stanza destinata ai pranzi, da una finestra si vede un’ansa del Tevere e da un’altra la Basilica di San Pietro. Il cibo è stato preparato dal ristorante il Moro, un classico per l’alta borghesia romana. Il vino è suggerito da Franco Maria Ricci, l’inventore di Bibenda amico di Paola e di suo marito Paolo Di Benedetto: “Sono orgogliosa di essere stata insignita da lui del titolo di sommelier onoraria”, dice sorridendo mentre ci sediamo a tavola. Su una parete si trova un quadro di Giulio D’Anna, pittore siciliano che riesce a mescolare la grammatica del futurismo con le luci e i colori del Mediterraneo: “Il primo quadro che io e mio marito abbiamo comperato è stata un’opera incompiuta del Seicento, una testa di monaco la cui tonaca non era stata dipinta e che poi venne attribuita dal critico Maurizio Fagiolo dell’Arco, nostro amico e mentore, al Cavalier d’Arpino. Il primo futurista che acquistammo fu Antonio Marasco, con una opera su una gara di ciclismo in cui la scomposizione e la velocità si fondevano in una visione bellissima. Mi sono interessata fin dagli anni Settanta al futurismo. Nessuno acquistava le opere di quel movimento culturale. Tutti ne davano una lettura politica per le connessioni con il fascismo. Io, da italiana nata e cresciuta fino ai tredici anni a Napoli, ho imparato da Benedetto Croce ad assegnare all’arte una condizione di autonomia dalla politica. Ho due opere ancora figurative di Giacomo Balla in studio e un quadro del suo periodo futurista a casa”. Entrambi mangiamo con gusto gli antipasti. La scarola romana, le melanzane, i funghi, la frittata. Il vino bianco è uno Chardonnay del Friuli-Venezia Giulia Jermann del 2019, buono anche a temperatura ambiente. La vita di Paola Severino compone una geografia dell’anima professionale, culturale e politica dell’Italia. Napoli, Roma e Milano. Racconta mentre beve il suo bicchiere di bianco: “Io sono di Napoli. Mio nonno paterno, Cesare, era un impiegato delle Poste. I suoi tre figli e le sue tre figlie hanno frequentato il liceo classico. Avevano un vocabolario di latino e uno di greco. Si sono laureati tutti. Uno dei figli, Marcello, dava ripetizioni a una ragazza, Anna Maria. Anna Maria aveva nove anni in meno. Era molto bella. Quando si sono innamorati Marcello, che voleva fare l’avvocato, chiese la mano al padre di Anna Maria, Giuseppe. Giuseppe era un ingegnere del Genio civile. La casa di famiglia era nel quartiere di Pignasecca, un mondo tutto miseria e nobiltà alla Eduardo Scarpetta, i bassi e poi in fondo alla via la casa costruita da mio nonno, la prima ad avere un frigorifero importato dagli Stati Uniti, le donne del quartiere venivano a farvi custodire il burro. Quando c’erano i bombardamenti gli abitanti si infilavano nel rifugio che nonno Giuseppe aveva fatto scavare nella collina del Vomero, a cui l’abitazione era appoggiata. Era appena finita la guerra. Giuseppe disse di sì. Ma, per la sicurezza economica della figlia, avrebbe preferito che lui facesse il concorso da magistrato. Lui acconsentì. Prima pretore a Intra, in provincia di Verbania, e poi giudice del lavoro a Napoli. In età matura, sarebbe diventato avvocato a Roma. Ho trascorso l’infanzia in quel rione di Napoli. Da bambina calavo il cesto in strada e le donne lo riempivano di pane, frutta e verdura. Mi sono trasferita da ragazza a Roma: al pomeriggio, finite le lezioni al liceo Dante, andavo in studio da mio zio Massimino, consigliere di Cassazione, che mi raccontava i primi casi di corruzione nei Monopoli dei tabacchi e delle banane. Ma, di Napoli, ho sempre conservato, nella mia parte più intima, l’armonia nella diversità e il mescolare armonico dell’alto con il basso, dell’elitario con il popolare, nella idea di una loro sostanziale uniformità. La nostra forma geometrica è il prisma. Chi è di Napoli ama la prima del San Carlo e l’orchestra Scarlatti, il percussionista Tullio De Piscopo e le canzoni di Pino Daniele”. L’arrosto cucinato dal Moro è molto buono. Ed è perfetto con il rosso scelto dalla Severino: un Langhe Sito Moresco di Angelo Gaja del 2014 che è notevole. Il vino di Gaja è insieme elitario e popolare, severo e astuto, simile a una Italia che è, nella cultura e nel potere, assai più omogenea di quanto si pensi. Paola è di Napoli, vive e si identifica con Roma, conosce bene Milano: “Amo molto Milano. Ho aperto lo studio a Milano subito dopo Mani Pulite. Il potere economico è al Nord. Le multinazionali, le grandi imprese e le banche. Hanno un grande ruolo, in tutto il Nord, i capitalisti silenziosi delle imprese famigliari. A Roma esistono il potere della politica e la struttura delle istituzioni. Ho svolto con spirito di servizio, da tecnico, il ruolo di ministro della Giustizia, quando il presidente del Consiglio Mario Monti e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano me lo chiesero. Ma, poi, ho rinunciato a successivi incarichi in cui la cifra politica era più marcata. Ho detto no ad una ipotesi di candidatura a sindaco di Napoli”. Facciamo entrambi un secondo giro di cibo. La verdura ben cucinata è la cosa che distingue una ottima cucina da una buona cucina. E il Langhe Sito Moresco di Gaja reclama un secondo passaggio. Il vino porta a galla il racconto, anche, delle emozioni. Le quali, nel suo caso, sono uno strano impasto di esperienza istituzionale e di sensibilità personale, quasi dolorosa. Esistono i luoghi in Italia. Ma esistono anche i non luoghi, come il carcere. Racconta Paola: “Quando ero ministro, nel 2011 un giorno di dicembre a Roma arrivò la notizia che, nel carcere del Buoncammino di Cagliari, si era tolta la vita una donna. Si chiamava Monia. Si era impiccata all’alba usando una maglietta. Io partii subito. Mi sentivo piena di colpa. Arrivai in Sardegna e fui circondata dallo strazio e dal dolore delle compagne del penitenziario e delle poliziotte. La famiglia non reclamò il corpo. Il rumore delle porte e delle inferriate che per sette volte si chiudono alle tue spalle quando entri ti rimane dentro anche quando sai che, poi, uscirai”. La Severino ha costituito una fondazione che si occupa del dopo carcere. Il ricordo da ministro è intenso: “Andai in visita a Poggioreale. In una piccola cella lontana da tutto, trovai un signore che, in napoletano, mi disse che voleva essere trasferito alla Gorgona. La Gorgona è un penitenziario su una piccola isola toscana. Io gli chiesi perché. Di solito chi è in carcere desidera stare vicino alla famiglia. Lui mi mostrò la foto di un bambino. Era suo figlio. Lui voleva andare alla Gorgona perché, là, c’era un corso per imparare a fare il cuoco. Inoltre, alla Gorgona i reclusi sono impegnati nella cura dei vigneti della famiglia Frescobaldi. Lui voleva dire a suo figlio che avrebbe imparato un mestiere. E che così non sarebbe più tornato in carcere. Posso avere fatto tutto bene o tutto male nella mia vita. Ma avere facilitato quel trasferimento alla Gorgona è stata una cosa giusta. Chi esce dal carcere e non trova il lavoro ha il 75% di probabilità di commettere di nuovo un reato. Chi torna libero e ha una occupazione stabile ha una probabilità di sbagliare di nuovo pari al 2 per cento contro il 75% della media. Ne vale la pena”, conclude Paola Severino, avvocato penalista e appassionata di vini, amante dell’arte e attratta dal magnete nero e bianco del carcere e della redenzione, strano caso di italiana che racchiude in sé Napoli, Milano e Roma. Giustizia, Bongiorno spinge sulle carriere separate: “Nessuna punizione, ma regole chiare” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 7 aprile 2025 La presidente della Commissione Giustizia al Senato difende il ddl Nordio al congresso della Lega: “Ricordiamo le chat di Palamara per costruire il futuro”. “Abbiamo presentato una mozione sulla riforma costituzionale della giustizia, perché forse non tutti ne hanno compreso l’importanza”. Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato, ha preso la parola stamani al congresso della Lega che rinnoverà il mandato da segretario a Matteo Salvini, per illustrare la mozione che ha presentato assieme al deputato e compagno di partito Jacopo Morrone per chiedere a tutto il Carroccio di sostenere con forza e senza esitazioni il ddl costituzionale presentato dal Guardasigilli Carlo Nordio, che prevede - tra le altre cose - la separazione delle carriere per giudici e pm e l’introduzione del sorteggio per la composizione del Csm. “Quando sento dire che la riforma sulla giustizia è punitiva - ha spiegato Bongiorno -, si dimentica una cosa: se è vero che nessuno della Lega si è mai sognato di punire la magistratura, posso dire che, da alcune chat, emerge che non è vero il contrario”. Tra gli applausi scroscianti della platea e dello stesso Salvini, seduto in prima fila, Bongiorno ha quindi letto alcune delle intercettazioni delle chat dell’ex-presidente dell’Anm Luca Palamara, nelle quali alcuni magistrati convenivano sulla necessità di attaccare l’allora ministro dell’Interno. “Ricordatevi il passato”, ha detto Bongiorno dal palco, “che è la torcia che ci permette di vedere il presente e programmare il futuro. E nel passato è stata scolpita una chat che va tenuta sempre in tasca in cui un magistrato dice: “Mi dispiace dover dire che non vedo dove Salvini stia sbagliando, illegittimamente si cerca di far entrare persone in Italia e il ministro interviene perché questo non avvenga. Cosa sta sbagliando? Palamara, hai ragione ma ora bisogna attaccarlo”. Non fate cadere in prescrizione questi ricordi”, ha aggiunto Bongiorno, che ha difeso Salvini nel processo Open Arms. “In queste chat si vede quello che vogliamo cambiare: attaccare Salvini anche se ha ragione anche se difende i confini - ha sottolineato -. Ma il confine non è uno strumento razzista, è qualcosa che dobbiamo difendere perché è lo scudo della pace. Senza controlli e senza confini ci sarebbe caos e violenza”. Bongiorno è stata anche incaricata, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, di difendere lei e gli altri esponenti del governo per i quali è stato aperto un procedimento presso il tribunale dei ministri per la vicenda Almasri. Il testo Nordio è stato approvato in prima lettura alla Camera e ora è in esame in commissione a Palazzo Madama. Giuliano Vassalli, avvocato della Resistenza e maestro del diritto: una vita al servizio della libertà di Giovanni Maria Flick Il Dubbio, 7 aprile 2025 Da partigiano a ministro, la storia di un giurista che ha segnato la storia italiana. Giovanni Maria Flick ne ricorda l’impegno civile e costituzionale. Giuliano Vassalli, con la sua vita e con la sua testimonianza istituzionale, culturale, professionale e civile, è stato protagonista del percorso che il nostro Paese ha compiuto dalla Resistenza alla Liberazione, alla Costituzione e alla sua attuazione, fino ai nostri giorni. Vassalli - che a vent’anni aveva partecipato, nel 1935, ai Littoriali della cultura, come tanti - ricordava di aver “scoperto le ragioni dell’antifascismo al momento dello scoppio della guerra civile spagnola… fu allora che mi accorsi che Mussolini aveva fatto una scelta di campo definitiva contro la libertà”. Quella presa di coscienza non fu soltanto un’operazione intellettuale; fu la premessa di un impegno politico e civile che lo portò a schierarsi dalla parte giusta in modo attivo e a partecipare alla Giunta militare centrale del Comitato di liberazione nazionale, dal settembre 1943, come rappresentante del Partito socialista. In tale veste organizzò e attuò con altri, nel gennaio 1944, la liberazione di due futuri presidenti della Repubblica, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Quell’operazione gli valse la medaglia d’argento al valor militare e la croce di guerra; ma, prima, la cattura da parte delle Ss il 3 aprile 1944, la tortura e la reclusione a via Tasso. Fra l’impegno di partigiano e quello di giudice costituzionale, il percorso istituzionale, politico, civile e professionale di Giuliano Vassalli è ricchissimo, ma sempre coerente e unitario. Docente universitario, accademico dei Lincei e maestro del diritto penale, in cattedra a ventisette anni, ha insegnato in diverse Università, per concludere nel 1990 la sua carriera accademica alla “Sapienza” a Roma. Il suo percorso di studioso è testimoniato da una messe ricchissima di contributi, tuttora attuali, sui temi del diritto penale sostanziale e processuale. Fra i primi, quel percorso spazia dalla analisi dei principi fondamentali di teoria generale del reato al diritto penale internazionale, a quello umanitario, alla repressione dei crimini di guerra; fra i secondi, esso esprime la ricerca costante del difficile equilibrio fra accusa e difesa e la preoccupazione di superare le logiche dell’emergenza. Al percorso culturale si salda strettamente quello di avvocato penalista, a partire dal 1945, sino al 1981, quando lasciò l’avvocatura per impegnarsi a tempo pieno nell’insegnamento universitario “che amava sopra ogni cosa”, come ricordava nelle due cartelle di sua autobiografia che scrisse quando venne eletto giudice costituzionale. Protagonista dei processi penali fra i più salienti e noti del Dopoguerra, Vassalli fu la dimostrazione vivente della sinergia che vi deve essere tra la teoria e la pratica del diritto penale, fra l’approfondimento dei diritti fondamentali nelle aule universitarie e la loro difesa concreta nelle aule giudiziarie: perché - come Vassalli credeva e spiegava - il diritto di difesa è anch’esso un diritto fondamentale fra i più significativi, nel quadro costituzionale e prima ancora sovranazionale di quei diritti. Infine, l’attività politica, vissuta come espressione coerente di una passione civile e da Vassalli definita una serie di “rilevanti parentesi”. A Liberazione avvenuta, nel gennaio 1947, fu uno dei protagonisti della scissione di Palazzo Barberini fra i socialisti, quando seguì Saragat, divenendo poi segretario del Partito socialista dei lavoratoti italiani e direttore del giornale “l’Umanità”. Vassalli ritornò all’impegno politico nel 1962, in Consiglio comunale a Roma; dal 1968 al 1972 alla Camera dei Deputati; dal 1983 al 1987 al Senato. Dal luglio 1987 al gennaio 1991 fu Ministro della Giustizia e in tale veste firmò il nuovo Codice di procedura penale, predisponendo le misure organizzative per la sua entrata in vigore. Sono di tale periodo anche numerose e importanti sue proposte di legge sul Codice di procedura civile, sul patrocinio dei non abbienti nei giudizi penali, sulla riforma della legge antimafia e di quella contro la droga. Mi sembra giusto concludere il ricordo, oggi e qui, di Giuliano Vassalli - uno “tra gli ammiratori sinceri della Costituzione”, come amava definirsi (in un intervento del 2004 intitolato “Riformare la Costituzione”) - con le sue parole: “Mi è sempre sembrato che, nata e fondata su un più che legittimo ripudio delle esperienze di un recente passato di guerre e dittature, guardasse al tempo stesso avanti verso la meta di un ricordo rivolto alla preservazione della pace, al progresso sociale, alla creazione di una reale democrazia”. Anche se - come osservava ancora, con il suo equilibrio e la sua serenità - “questo non significa che la Costituzione vigente debba essere considerata in ogni sua parte intangibile”. Il Pm contro il riesame deve motivare su gravità indiziaria e attualità delle esigenze cautelari di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2025 L’interesse del pubblico ministero a impugnare la cancellazione della misura cautelare deve essere sostenuto dalla possibilità che questa venga ripristinata. Quindi - di regola- il ricorso per cassazione della parte pubblica deve contenere sia rilievi in ordine alla gravità indiziaria che alla sussistenza, cioè all’attualità, delle esigenze cautelari. Ciò vale anche se implicitamente quando operi la presunzione codicistica dell’adeguatezza della misura carceraria, che comunque non può essere disposta in presenza di segni negativi dell’esistenza delle esigenze cautelari. La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso del pubblico ministero che contestava la decisione di riesame che aveva ravvisato esplicitamente solo l’assenza dei gravi indizi di colpevolezza e di conseguenza escluso che operasse la presunzione di cautela in carcere, ma senza proporre alcun argomento in tema della non attualità della necessità della restrizione cautelare in carcere della persona indagata, in quanto tema assorbito dall’assenza del primo elemento. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 13200/2025 - risponde soprattutto alla memoria avanzata dalla difesa dell’indagato dove sosteneva l’assenza di interesse del ricorso presentato dal Pm in quanto contrastava solo il giudizio di insussistenza della gravità indiziaria senza nulla dire in ordine alle esigenze cautelari. La Corte nel rigettare il ricorso del Pm ciò nondimeno esclude che in tal caso il motivo sull’attualità delle esigenze cautelari fosse una carenza dell’atto impugnatorio, in quanto si versava in un caso dove l’accoglimento dell’istanza di disapplicazione della misura personale restrittiva si fondava esclusivamente sulla carenza indiziaria, ma in un caso come quelli elencati dall’articolo 275, comma 3, del Codice penale dove la gravità degli indizi presuppone di per sé la necessità della carcerazione cautelare a meno di insussistenti attuali esigenze cautelari. Per cui non era affetto da inammissibilità il ricorso del Pm dove non faceva alcun riferimento all’attualità di tali esigenze - come invece lamentato dalla difesa dell’indagato - in quanto l’impugnazione della decisione di riesame che abbia solo affermato l’esclusione della gravità indiziaria, la questione dell’insussistenza di elementi di segno contrario, cioè la non attualità delle esigenze cautelari, è argomento assorbito e superato dall’esclusione del primo presupposto. Invece, va precisato che quando non opera una tale presunzione “cautelare” restrittiva il Pm non può impugnare solo sotto il profilo della gravità indiziaria la decisione del giudice che abbia escluso non solo la sussistenza dei gravi indizi ma anche l’attualità delle esigenze cautelari. In tal caso vanno impugnati e argomentati entrambi i profili in caso di ricorso. Violenza sessuale di minore gravità, rigidità della pena alla Consulta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2025 Con gli inasprimenti stabiliti dal Codice rosso, irragionevole il divieto di tagliare la pena oltre i due terzi nei casi più “lievi”. “È opportuno e, anzi, doveroso sottoporre alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 609-octies del Codice penale nella parte in cui non prevede che, nei casi ritenuti di minore gravità, la pena possa essere dal giudice diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Il Tribunale dei minorenni di Milano ha messo nero su bianco, in un’ordinanza di rinvio alla Consulta, i suoi dubbi in merito alla rigidità, che impedisce al giudice di ridurre la pena nel caso di violenza sessuale di gruppo di minore gravità. Un tema già affrontato in passato dalla Corte costituzionale, che aveva bollato come manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, difendendo il maggior rigore sanzionatorio rispetto alla violenza sessuale messa in atto da una sola persona, per la lesione particolarmente grave e traumatica della sfera di autodeterminazione della libertà sessuale della vittima. Il caso esaminato e il Codice rosso - Il giudice del rinvio ha però i suoi argomenti. Il caso trattato riguarda il giudizio penale a carico di un minore, accusato di aver avvicinato sul bus un ragazzo e di averlo indotto a seguirlo, con il pretesto di compiere atti sessuali consenzienti. Arrivati in uno stabile abbandonato, dove c’erano altri due minori, il giovane adescato era stato rapinato del suo telefono cellulare, dietro la minaccia di un coltello, e poi palpeggiato. La vittima si era allontanata ed era tornata sul posto con le forze dell’ordine. Per l’imputato era scattata l’accusa di rapina e di violenza sessuale di gruppo, nella forma di minore gravità. L’elemento nuovo - spiega il giudice minorile - sta nell’inasprimento delle pene, messe in atto dal Codice rosso che, con la legge 69/2019, punisce la violenza sessuale di gruppo con una forbice che va dagli otto anni di reclusione ai quattordici, rispetto ai precedenti sei e dodici. Un trattamento troppo aspro, ad avviso del giudice del rinvio, considerato l’automatismo che impedisce al giudice di ridurre oltre i due terzi. Nel caso esaminato, avverte il Tribunale dei minori, la vittima aveva prestato un consenso iniziale all’incontro, era uscito dall’edificio per chiedere immediatamente aiuto, ci era tornato con le forze dell’ordine per recuperare il cellulare e lì aveva trovato gli autori del fatto che non si erano allontanati. “Non ha avuto necessità di cure mediche e non risulta dagli atti del fascicolo - si legge nell’ordinanza - che abbia avuto in seguito necessità di cure mediche”. Per il Tribunale la gravità della sanzione sarebbe in contrasto con il diritto al pari trattamento e con la funzione rieducativa della pena, perché eccessivamente vessatoria. E il termine di paragone viene fatto con le condotte per le quali è possibile, nei casi di minore gravità, abbattere il “muro” dei due terzi. Una possibilità che c’è ad esempio per gli atti sessuali, consenzienti, con soggetti di giovanissima età o addirittura impuberi, che difficilmente hanno, nell’immediato, piena consapevolezza di ciò che sta loro accadendo. Scopri di più Osserva il Tribunale che, “nel caso di una violenza sessuale ritenuta di minore gravità e tenendo quindi conto dell’attenuante di cui all’articolo 609-bis, comma 3, del Codice penale, il giudice, muovendo dal minimo edittale (sei anni di reclusione) e operando la diminuzione massima, potrebbe comminare la pena di due anni di reclusione; un identico fatto di minore gravità, ma commesso da due persone riunite - scrivono i giudici - sarebbe sanzionato con una pena di otto anni di reclusione (pena quadruplicata). La differenza di pena minima edittale per un fatto non di minore gravità è due anni (sei anni ex articolo 609-bis, del codice penale; otto anni ex articolo 609-octies, del codice penale; trattasi del 33%); allo stato, la differenza di pena minima edittale per un fatto di minore gravità è sei anni (due anni ex articolo 609-bis del Codice penale con la diminuzione massima per l’attenuante; comunque otto anni ex articolo 609-octies del Codice penale; trattasi del 300%, percentualmente quasi dieci volte tanto l’aumento rispetto ai casi non di minore gravità)”. La “provocazione” del giudice del rinvio. La conclusione del giudice del rinvio è “provocatoria”. “Con il paradossale effetto - si legge nel provvedimento - che, in punto pena, diventerebbe proporzionalmente più conveniente - ammesso che possa parlarsi di convenienza - commettere una violenza sessuale di gruppo di sicura rilevanza rispetto a una violenza sessuale di gruppo potenzialmente di minore gravità”. Considerazioni - conclude l’ordinanza - che consentono anche di dubitare della costituzionalità della norma alla luce della previsione contenuta nell’articolo 27 della Costituzione: una pena che, nei fatti, non è proporzionale è certo contraria alla finalità rieducativa. E questo perché non consente al giudice di comminare una pena che sia adeguata al concreto e oggettivo disvalore del fatto. E questo “è tanto più vero in quanto qui si procede nell’ambito di un giudizio minorile, tenuto anche conto che il principio costituzionale espresso dall’articolo 31, secondo comma della Costituzione, richiede l’adozione di un sistema di giustizia minorile caratterizzato […] dalla prevalente esigenza rieducativa”. Sicilia. Si dimette il Garante regionale dei detenuti: “Voglio dedicarmi ad altro” di Paola Pottino La Repubblica, 7 aprile 2025 Si è dimesso Santi Consolo, garante regionale per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. L’ex magistrato e capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, classe 1951, succeduto al professore Giovanni Fiandaca, è stato nominato nel 2023 fa con decreto del presidente della Regione. “Mi sono dimesso perché, alla mia età, ho altri interessi a cui voglio dedicarmi”, dice Consolo. Esprime rammarico per le dimissioni Pino Apprendi, garante dei diritti dei detenuti di Palermo: “Il dottore Consolo non mi ha mai fatto mancare la sua competenza e conoscenza in materia carceraria - dice Apprendi - ed è certamente una grave perdita per il ruolo che esercitava per i detenuti di tutta la Sicilia, soprattutto in questo momento che la politica rimane sorda e insensibile ad ogni appello; lo dimostra, infatti, proponendo uno scandaloso piano carceri dispendioso e irrispettoso della dignità delle persone. Mi dispiace tanto che si esaurisca un percorso virtuoso che avevamo intrapreso in favore di chi, per quanto colpito da un provvedimento di restrizione, non ha voce”. Milano. Dentro le quattro carceri della città, dove la pena aggiuntiva è una sofferenza inumana di Lorenzo Zacchetti milanotoday.it, 7 aprile 2025 Nelle carceri dell’area metropolitana convivono problemi raccapriccianti e riconosciute eccellenze riabilitative. Nel mezzo di questi estremi ci sono gli esseri umani che, a ogni età, vengono travolti da conseguenze drammaticamente ingiuste, talvolta persino più aberranti dei reati commessi. Il sovraffollamento arriva al 148%. Sulla scia di recenti casi di cronaca, torna di attualità la crisi carceraria. Per la verità, il problema è endemico: non è cambiato praticamente nulla dopo le condanne che la Cedu (Corte europea per i diritti dell’uomo) ha comminato all’Italia per le condizioni di vita a cui sottopone i detenuti. Va però segnalato un timido accenno di risveglio da parte della politica, con i consiglieri milanesi che tornano a proporre di spostare una seduta consiliare da Palazzo Marino a San Vittore, come tangibile segno di attenzione e vicinanza nei confronti di chi si trova privato della libertà e spesso anche della dignità. La Commissione Carceri del Comune ha inoltre recentemente audito il garante dei detenuti Francesco Maisto, il cui report ha fatto sobbalzare sulla sedia diversi rappresentanti dei cittadini. Vediamo ora, istituto per istituto, quali sono i problemi che in alcuni casi persistono da decenni. Benvenuti a San Vittore, il carcere più sovraffollato d’Italia È considerato il paradigma di tutto ciò che non funziona nel settore carcerario e persino la sua collocazione fisica, ai confini del centro cittadino, rappresenta un problema di difficile soluzione. Da tempo si discute dell’opportunità di spostarlo in periferia, idea che si incrocia con il progetto di realizzare una cittadella della Giustizia a Porto di Mare, ma non mancano gli elementi critici. Oltre alla non semplice ridefinizione della destinazione d’uso dell’area prospiciente Piazza Filangeri, molti temono che spostare la casa circondariale fuori dalla Cerchia dei Navigli significhi nascondere la polvere sotto il tappeto, allontanando l’evidente vulnus dagli occhi di residenti e visitatori. E le problematiche di San Vittore sono davvero tante, anche perché l’edificio risale al 1879, come si evince anche dalla scelta architettonica del panopticon: secondo il modello affermatosi nel ‘700, la realizzazione di più “raggi” che si diramano dalla piazza centrale consente di sorvegliare contemporaneamente tutti i detenuti nelle varie sezioni, senza permettere loro di sapere quando il controllo nei loro confronti sia attivo o meno. La vetustà della struttura comporta una serie di pesanti disagi, dal caldo torrido in estate al gelo in inverno, condizione ancora più gravosa in ragione del fatto che molti detenuti versano in condizioni economiche difficili e, senza l’aiuto dei volontari, non avrebbero nemmeno abiti pesanti a sufficienza da reggere le temperature rigide. La stratificazione della popolazione carceraria è decisamente complessa anche per altri parametri. La maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio, tipologia nella quale rientra una varia umanità che, nel caso specifico, comprende un’elevata percentuale di stranieri e circa 200 persone con disturbi psichici diagnosticati, da sommare a coloro che - pur avendo quadri clinici analoghi - non sono mai giunti a una certificazione. Il disagio mentale si incrocia inoltre con la dipendenza da sostanze stupefacenti, farmaci e/o alcool, che causa situazioni di ulteriore aggravamento delle condizioni. Gli abusatori dichiarati di sostanze sono circa 600, ovvero oltre la metà della popolazione complessiva, cosa che lascia intuire come la quota effettiva sia sensibilmente maggiore. Sono più di 280 i giovani adulti (fascia 18/25 anni), molti dei quali proprio all’ingresso in carcere hanno avuto il loro primo contatto con medici e psicologi, provenendo da situazioni che definire di fragilità è persino eufemistico. Il mix di problematiche è quindi allarmante e il team di psicologi chiamato a gestirlo si è clamorosamente ridotto da 9 a 5 unità. Tra chi è rimasto si nota un certo timore nell’espletare le proprie funzioni e in particolare nel diagnosticare disturbi psichici, visto anche il recente caso-Pifferi: diversi professionisti sono stati indagati con l’accusa di aver falsato dei test per alleggerire la posizione della donna, condannata all’ergastolo per aver lasciato morire la figlia di appena 18 mesi. Lo scorso 17 marzo, inoltre, una psicologa ha subito abusi sessuali da parte di un detenuto che, dopo averla attirata in una stanza con una scusa, ha minacciato di tagliarle la gola con una lametta da barba. Prima ancora di queste terribili vicende, Maisto aveva segnalato il problema rappresentato dal fatto che il numero degli operatori fosse stabilito sulla base della capienza ufficiale e non sulla quantità di detenuti effettivamente presenti. Eppure, il lavoro di questi esperti sarebbe fondamentale anche per la prevenzione dei suicidi, funzione che si espleta già a partire dal colloquio di ingresso con chi entra per la prima volta in carcere. Sul piano sanitario c’è un presidio medico-infermieristico attivo 24 ore al giorno e un consistente numero di specialisti, ma è vacante la direzione sanitaria, affidata a un coordinatore facente funzioni. Lo stesso, peraltro, riguarda la direzione generale dell’istituto, recentemente affidata a Elisabetta Palù quale reggente. Tra i problemi rilevati personalmente da Maisto si annoverano prodotti acquistati all’esterno e non conformi rispetto agli ordini eseguiti, oppure giunti a destinazione in grave ritardo. Piuttosto esplicativo l’esempio della visita in dispensa, nella quale si sono trovate delle patate già germogliate. Perché si muore anche nel carcere modello di Bollate Diretto da Giorgio Leggieri, è il più moderno delle carceri milanesi, essendo stato costruito nel 2000. Specialmente durante la direzione di Lucia Castellano (dal 2002 al 2011, anno in cui è stata nominata assessora nella Giunta Pisapia) si è affermato come modello di riabilitazione, grazie allo sviluppo di attività che proseguono ancora oggi, in un panorama che spazia dall’asilo nido - che accoglie tanto i figli delle donne ristrette quanto i bambini del territorio - fino al ristorante InGalera, così raffinato da essere segnalato nelle guide culinarie e raccontato nel documentario “Benvenuti in galera”, disponibile su RaiPlay. Decisamente interessante anche il giornale dei detenuti, chiamato “Carte Bollate” con un efficace calembour. Tendenzialmente, i detenuti godono di un’ampia libertà di movimento all’interno della struttura e le celle vengono chiuse quasi esclusivamente durante la notte. Il modello della “vigilanza dinamica”, come viene chiamata in gergo una quota di libertà di movimento riconosciuta ai detenuti, talvolta comporta il rischio di fughe, come avvenuto la scorsa estate, ma è utile ad abbassare i tassi di recidiva. Circa la metà dei detenuti e delle detenute ha un impiego lavorativo (con tendenza alla crescita, viste le nuove opportunità recentemente introdotte), contro una media nazionale di poco superiore al 30%. Si tratta di una policy in perfetta linea con i dati raccolti dal Cnel, secondo i quali i detenuti avviati a un impiego hanno una possibilità di recidiva criminale post-scarcerazione pari ad appena il 2%, contro il 70% dei loro compagni di cella. Recentemente, però, si è manifestato un notevole problema con il servizio di money transfer utilizzato dagli stranieri per inviare alle famiglie i compensi guadagnati: alcune criticità connesse alle norme antiriciclaggio hanno spinto al cambio di fornitore, ma quello nuovo si è rivelato poco funzionale. Sono notevoli anche le opportunità di formazione e il supporto garantito per sei giorni alla settimana da uno staff composto da educatori e operatori esperti in psicologia e criminologia. Sul piano sanitario, c’è stato da poco un cambio nella direzione, che ha comportato una riorganizzazione del lavoro, attraverso l’attribuzione di incarichi e l’individuazione di referenti che rappresenta un unicum rispetto agli altri istituti. I risultati sono molto soddisfacenti: il presidio medico e infermieristico è garantito 24 ore su 24, così come un adeguato numero di prestazioni specialistiche, sia interne che esterne. Un buon esempio di adattamento a una realtà che vede una presenza sempre più numerosa di malati cronici, oltre che di giovani adulti. Ovviamente, però, i problemi rimangono e l’inatteso suicidio di Francesca Brandoli ha fatto drammaticamente capire come il disagio sia giunto a livelli preoccupanti anche negli istituti più evoluti. Dal calcio al 41 bis: gli occhi dell’Europa sul carcere di Opera È una delle più grandi case di reclusione italiane, nonché una delle più note a livello continentale, a causa dell’elevatissima presenza di definitivi e della complessità delle situazioni accolte. Al suo interno sono infatti presenti reparti dedicati a tutti i regimi previsti dal nostro ordinamento: AS (alta sicurezza), Eiv (elevato indice di vigilanza) e 41 bis. Per queste sue caratteristiche, sono stati destinati qui numerosi detenuti famosi: in primo luogo i condannati per reati di mafia come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Benedetto “Nitto” Santapaola, Giuseppe Morabito e Graziano Mesina, ma anche il più famoso dei rapinatori italiani, Renato Vallanzasca, il parricida Pietro Maso e il politico Primo Greganti durante la stagione di Mani Pulite, per citarne solo alcuni. Il carcere è regolarmente monitorato da più associazioni: sia Nessuno Tocchi Caino, che qui ha realizzato il docufilm “Spes Contra Spem”, sia Antigone. Un altro documentario, “Fino all’ultimo pallone”, è stato pubblicato giusto vent’anni fa per raccontare l’originale esperienza del Free Opera Brera. Si è trattato di una sorta di /joint-venture/ con quella che il giornalista Alessandro Aleotti aveva fondato con l’ambizione che divenisse la terza squadra calcistica di Milano e che in quella stagione si concentrò sul sociale, permettendo ai detenuti di prendere parte al campionato di Eccellenza. Ancora più risalente nel tempo è l’esperienza del Gruppo della Trasgressione, che tuttora lavora sulla auto-percezione di chi commette reati e sulle ragioni affettive che anche nelle persone comuni possono portare ad atti di violenza sugli altri o di autolesionismo. Ben più recente è l’apertura del laboratorio della scuola edile, in collaborazione con Assimpredil Ance, Fondazione Don Gino Rigoldi e diverse sigle sindacali, che ha lo scopo di favorire il reinserimento lavorativo. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal fenomeno dei pestaggi denunciato la scorsa estate da Maisto, al quale si erano rivolti diversi detenuti in cerca di aiuto. Sul piano strutturale si registrano infiltrazioni di acqua sia nella palestra che in diversi uffici, mentre rispetto alla governance si segnala l’assenza di un direttore stabile (al momento l’incarico è affidato una reggente) e il cambiamento sia del comandante della Polizia Penitenziaria, sia della Direzione Sanitaria. Tanto il presidio medico-infermieristico quanto le prestazioni specialistiche sono comunque nei parametri. IPM Beccaria: altro che “Mare fuori” Anche qui non c’è un direttore, bensì un reggente. La diffusa situazione è stata stigmatizzata in sede di Commissione consiliare da Valerio Pedroni (Pd), il quale si è detto “allibito”, perché per affrontare i drammatici problemi dei nostri istituti di pena bisognerebbe semmai istituire doppie direzioni. Maisto ha rilevato che il nuovo personale della Polizia Penitenziaria ha un’età media troppo bassa, soprattutto in relazione alla rilevante presenza di giovani adulti, dei quali il 60-65% è composto da stranieri. Ancora più grave è la “perenne” presenza di lavori di ristrutturazione all’interno dell’IPM (Istituto Penale per Minorenni). Già negli scorsi anni il Garante aveva segnalato la sua perplessità rispetto all’installazione di strutture in metallo su pareti fragili (invece che su quelle in calcestruzzo), così che durante le rivolte diventa facile sfondare i muri usando il peso dei letti. L’incremento della presenza media negli ultimi due anni è dovuto all’aumento dei giovani in custodia cautelare, in particolare in attesa di primo giudizio, in quanto il numero dei definitivi è restato invariato. Sono in crescita anche i casi di assuntori di sostanze illecite, per i quali è attivo lo Spazio Blu, servizio per le problematiche di dipendenza nato in via sperimentale nel 2000 come funzione interna e poi diventato una struttura territoriale che si occupa anche di giovani non sottoposti a restrizioni. Al momento, gli utenti in carico sono ben 183. Il tema dei tossicodipendenti in carcere è molto delicato e, spiega Maisto, riguarda tanto i minori quanto gli adulti. Per il trasferimento di questi ultimi nelle comunità specializzate il Governo Meloni ha approntato un piano specifico, ma solo poche settimane fa la Corte dei Conti ha raffreddato gli entusiasmi, spiegando che i fondi a disposizione basteranno solo per 236 persone. Meno di una goccia nell’oceano. Per quanto riguarda i minori, il Garante segnala che la tipologia degli attuali ospiti del Beccaria (soprattutto gli stranieri) richiede una detenzione più lunga, perché le comunità non li accettano facilmente. “È per questo motivo - sottolinea Maisto - che ho parlato della necessità di avere una maggiore capienza all’IPM. Non è che io abbia una mentalità arretrata legata solo alla detenzione: il fatto - conclude il Garante - è che il trasferimento in comunità è davvero un grosso problema”, chiosa. Secondo Diana De Marchi (Pd), è un errore progettare nuovi carceri, senza preoccuparsi di coloro che sono già detenuti, ma anzi rendendo la loro vita sempre peggiore. In particolare per quello che riguarda i giovani, “l’enorme disagio psicologico che si rileva anche tra chi è in libertà fa capire come negli istituti di pena si stia costruendo una vera e propria bomba sociale”, aggiunge la consigliera. Anche sul piano della sicurezza, la situazione è tutt’altro che sotto controllo. Le recenti rivolte (ben due nello scorso mese di marzo) hanno visto i giovani detenuti dare fuoco ai materassi, scatenando fiamme e fumi nocivi, che hanno intossicato sia due di loro che due agenti. Alessandro Giungi, vicepresidente della Commissione Carceri del Comune di Milano, suggerisce in proposito di fare ricorso a materassi ignifughi, ricordando anche il rogo che la scorsa estate è costato la vita a Youssef, 18enne detenuto a San Vittore. Maisto invece ribadisce la necessità di adeguare gli spazi a disposizione dei detenuti, ma anche di evitare trasferimenti in carceri per adulti o lontani da Milano, scelte “in contrasto con l’ottica della giustizia penale minorile”. A scatenare l’ultima rivolta, infatti, era stata proprio la notizia che due ragazzi sarebbero stati presto trasferiti a Catania. Bergamo. “Giovani detenuti in aumento, oggi ne abbiamo 60 ma cresceranno” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 7 aprile 2025 L’allarme della direttrice del carcere. Antonina D’Onofrio ha parlato all’inaugurazione della Cascina dell’Agro, il progetto della Fondazione Don Fausto Resmini. Saranno accolti ragazzi usciti dal carcere o in difficoltà: “Bisogna lavorare sulla prevenzione”. Il vento soffia su Redona. Questa mattina (6 aprile) ha accompagnato l’inaugurazione della nuova Cascina dell’Agro, dove si incrociarono i destini di due sacerdoti che hanno lasciato un segno indelebile a Bergamo, forse più fuori che dentro la Chiesa: don Roberto Pennati, che la fondò e a cui è intitolata, morto di Sla a 73 anni il 17 maggio 2019, e don Fausto Resmini, che il Covid strappò dalla “sua” comunità di Sorisole a 67 anni, il 23 marzo 2020. Entrambi preti di strada e del Patronato San Vincenzo, proprietario dell’immobile e del terreno, su cui già da tre anni sono attivi i laboratori e la parte agricola, all’imbocco della Val Seriana, in via Correnti, Bergamo. Ora ci sarà anche la casa, per l’accoglienza di un massimo di dieci ragazzi usciti dal carcere oppure dalla stessa comunità Don Lorenzo Milani di Sorisole. Il senso è dare loro l’opportunità di costruirsi un futuro. Un futuro vero. È in questa cornice che la direttrice del carcere Antonina D’Onofrio ha posto l’accendo in maniera molto marcata sul tema dei giovanissimi, “spesso con problemi psichiatrici”, tema venuto alla ribalta con la vicenda dei due minorenni armati di coltello bloccati fuori dalle medie Camozzi, in città, e con il disperato racconto del padre di uno dei due. “Abbiamo più di 60 giovani adulti, tra i 18 e i 25 anni, attualmente in carcere - dichiara D’Onofrio -. Un anno fa, quando arrivai, erano 44. In futuro, ne avremo ancora di più. La domanda che dovremmo porci è: se un ragazzo arriva in carcere appena maggiorenne, ha fallito lui o abbiamo fallito noi come società? “. Da qui l’invito ad insistere sulla prevenzione: “Se si aiutano le famiglie, la scuola, le comunità, forse riusciremo ad avere meno ragazzi nelle comunità minorile in carcere”. L’assessore alla Sicurezza Giacomo Angeloni, presente in rappresentanza del Comune, rimarca lo stesso concetto: “Sono molto contento - afferma - che sia l’assessore alla Sicurezza a essere qui, oggi, perché sono questi i servizi che fanno sicurezza, il nostro lavoro quotidiano è evitare che si arrivi alla forza”. E poi aggiunge un aneddoto personale, di quando fece l’obiettore di coscienza a Sorisole, a 21 anni: “Don Fausto era un po’ restio a rilasciare ferie o permessi - sorride Angeloni -. Così, quando andavo da lui perché mi sentivo stanco, il lavoro con i ragazzi era faticoso, mi rispondeva sempre: “Vai a fare due parole con don Roberto, vai all’Agro, che ti rigeneri. Questa immagine speso che resti, che l’Agro continui a “rigenerare”“. Forse, oggi, don Fausto e don Roberto “vedrebbero” proprio i ragazzini. L’omelia di don Davide Rota, altra colonna del Patronato, è stata incentrata sulla capacità dei due sacerdoti di cogliere il nuovo. “Tanti anni fa, quando un’albanese alta così di nome Madre Teresa è andata a Calcutta a insegnare in un collegio, è uscita per le vie della città e ha visto quello che tutti vedevano, ma nessuno vedeva. Lo disse anche Pasolini quando la incontrò: “Tutto quello che lei guarda, lo vede”. Ed è la stessa storia di don Pennati e don Resmini”, dice don Rota. Il primo si impegnò nel recupero di tossicodipendenti, l’altro sui fronti della comunità di Sorisole, della grave marginalità in stazione, dei detenuti. La Cascina dell’Agro è stato l’ultimo progetto messo in pista da don Resmini, che s’impuntò perché il Patronato acquisisse la proprietà. Dopo la sua morte è stato portato avanti dalla Fondazione Don Fausto Resmini, con quelli che di don Fausto erano gli inseparabili collaboratori, l’attuale presidente Luigi “Zucchi” Zucchinali, il coordinatore degli spazi a Lurano Oliveto Salvatore, don Dario Acquaroli, che nel 2000 ne raccolse il testimone, il presidente della coop Mosaico Luca Ronzoni e la coordinatrice delle comunità educative per minori Elena Romano. La casa è strutturata su tre piani, tutti rimessi a nuovo, con camere da letto colorate e spazi comuni circondati dal verde. I primi due ospiti sono già pronti per ripartire dall’Agro. Milano. Dropcity in via Sammartini, creatività per il carcere di Anna Giorgi Il Giorno, 7 aprile 2025 All’interno dei sottopassi ferroviari le mostre e gli eventi del Fuorisalone. Dagli arredi funzionali per i detenuti, alle idee radicali dello studio Bruther. La città cambia e Dropcity sta al passo mettendo un altro tassello al progetto di Andrea Caputo che trasformerà i sottopassi di via Sammartini (gli ex Magazzini Raccordati delle ferrovie) in un centro di architettura e design permanente. Dropcity apre 18 stalli nella settimana del Fuorisalone con le mostre “Prison Times” e “Bruther.fbx” (fino al 31 maggio) e poi installazioni, conferenze e workshop. Il tema centrale dell’esposizione, che punta ad essere più di un fuorisalone, più di luogo dedicato soltanto alla cultura del progetto, è quello delle carceri, della vita dentro i peniteziari e di come il design può interpretare anche il percorso di recupero dei condannati. Distribuita su un’area di oltre 1.500 metri quadrati, la mostra esplora prima di tutto il tempo e lo spazio nei penitenziari: attraverso oggetti ed elementi di arredo progettati e prodotti per le carceri di tutto il mondo, invita a interrogarsi e a riflettere su quanto e come l’architettura e il design possono incidere sull’ambiente carcerario. Il progetto mette in connessione le persone, gli oggetti, gli spazi e i significati che questi assumono nel contesto penale con l’architettura e gli aspetti legali, burocratici e sociali. Bruther.fbx invece, al tunnel 56-142, (fino a sabato 31 maggio) racconta, per la prima volta in Italia, il lavoro di Bruther, lo studio parigino di architettura e sperimentazione fondato nel 2007 da Stéphanie Bru e Alexandre Theriot. L’esposizione indaga i temi, le tecniche e l’approccio alla pratica dello Studio e ne illustra il lavoro di architettura sperimentale radicale. Attraverso l’integrazione fra manufatti fisici, scansioni 3D e installazioni audio e video, va in mostra un archivio digitale di spazi “reali”, in un progetto di ricerca immersivo che porta a una riflessione sul rapporto fra architettura e vita contemporanea. Alle mostre sono collegate due serie di incontri pubblici che, fino a martedì 10 giugno, animeranno l’Auditorium di Dropcity (tunnel 40). Reform Trust: Ideas on Penal Environments, a cura di Federica Verona e Valeria Verdolini è un programma di cinque dibattiti previsto, fino al 28 maggio, in parallelo alla mostra Prison Times: Spatial Dynamics of Penal Environments. Ogni sessione analizza la funzione esistenziale delle prigioni, affrontando tematiche legali, politiche, amministrative e sociali, con particolare attenzione al populismo penale, al sovraffollamento nelle carceri, al lavoro carcerario e alla privazione economica, oltre che alla riforma e alla trasformazione degli istituti penitenziari. Beautiful Mistakes - Architecture Dialogues, a cura di Benjamin Gallegos Gabilondo, è invece una serie di talk che, fino al 10 giugno, coinvolge architetti e designer, emergenti e affermati, chiamati a condividere i progetti e le esperienze più significative. Ancona. Dal carcere alla vigna. Il Rosso di Montacuto presentato al Vinitaly Il Resto del Carlino, 7 aprile 2025 Un rosso Conero che profuma di libertà sarà presentato oggi alla rassegna Vinitaly. Lo hanno prodotto i detenuti del carcere di Montacuto, grazie a uno dei progetti di formazione avviato con il garante delle Marche Giancarlo Giulianelli. Un altro progetto consentirà invece ai detenuti di partecipare al festival di Musicultura a Macerata, cucinando per gli ospiti e lo staff della manifestazione. “Si tratta di una attività avviata l’anno scorso - racconta il garante Giulianelli - con i detenuti, l’agronomo e la direzione del carcere, l’assessorato alla sanità e l’Amap. Abbiamo potuto usare uno spazio esterno con i detenuti formati nella cura del vigneto. Il progetto sul vino è molto significativo, parla di rinascita, di trasformazione, il detenuto deve riappropriarsi del tempo e dello spazio, partecipare ai ritmi naturali della vigna, attendere le varie fasi. A Montacuto si sta realizzando qualcosa di importante, così come al Barcaglione di Ancona: grazie a fondi messi a disposizione dalla giunta Acquaroli si è consolidato il corso per aiuto cuoco, 600 ore per la durata di circa dieci mesi. Quest’anno 13 detenuti hanno potuto fare stage in aziende quasi tutti saranno assunti, una volta espiata la pena. Inoltre, i partecipanti al corso per aiuto cuoco saranno utilizzati a Musicultura a Macerata: saranno loro a occuparsi della mensa all’Ostello Ricci per ospiti e maestranze, un plus che si aggiunge ai detenuti coinvolti nella giuria del premio”. Il garante ringrazia l’area trattamentale e la direttrice degli istituti penali anconetani, Emanuela Ceresani, “per la lungimiranza con cui ha gestito queste progettualità. E ringrazio il personale della polizia penitenziaria, la Regione e la giunta Acquaroli, che ha messo a disposizione somme non secondarie per i corsi. Ora poi il governo ha stanziato oltre cento milioni di euro, di cui poco meno di quattro per le Marche, sui progetti per la formazione dei detenuti, e tra questi rientra la cantina a Montacuto. Vorremmo avere tutto il necessario per produrre il vino”. A Vinitaly, oggi alle 14 sarà presentato il rosso Conero di Montacuto. L’etichetta è stata realizzata dall’Accademia di belle arti di Macerata. A Verona saranno il garante, l’assessore Andrea Maria Antonini, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche Silvio Di Gregorio, il presidente Amap Marco Rotoni e la direttrice degli istituti penitenziari di Ancona Ceresani. “È molto positiva la possibilità di acquisire competenze in questo settore, realizzando un prodotto di qualità - aggiunge quest’ultima. E Vinitaly è una vetrina importante per far capire che cosa si può fare in carcere: dare competenze da usare al momento dell’uscita, per evitare la recidiva. Al vino hanno lavorato quattro detenuti. Abbiamo fatto una prima, piccola raccolta, e grazie alla cantina dell’Amap abbiamo realizzato il vino. Pochissime bottiglie per adesso, ma vogliamo realizzare una nostra cantina e aumentare la produzione. L’agricoltura è interessante in carcere perché insegna a rispettare regole e tempi, un insegnamento utilissimo fuori dal carcere”. Brescia. Progetto Verziano, per i detenuti danza ed emozioni sotto la Loggia di Francesca Marmaglio Giornale di Brescia, 7 aprile 2025 La leggerezza del corpo che danza, si muove e dimentica il peso di errori che la mente trasforma in colpe, spesso difficili da sostenere. Il tema è quello scelto per la performance di danza contemporanea “Istantanea #09” del Progetto Verziano che ha visto protagonisti detenuti e detenute del carcere bresciano e liberi cittadini soci di compagnia Lyria. Lo spettacolo, che è andato in scena sotto il portico di palazzo Loggia ieri pomeriggio, ha visto la partecipazione di 20 danzatori: “Abbiamo cominciato il progetto, che è alla sua 14esima edizione, l’ottobre scorso e finiremo il 10 giugno al cinema Eden con la proiezione del racconto di questi mesi - ha detto Giulia Gussago, direttrice artistica della compagnia Lyria e ideatrice del progetto Verziano. Ci siamo visti una volta a settimana e un sabato al mese. È uno spettacolo di danza contemporanea, l’abbiamo scritto attingendo alle memorie, ai ricordi e alla storia di ognuno dei partecipanti”. L’esperienza - Dietro le quinte, pochi minuti prima dell’inizio, l’emozione era palpabile: “Siamo molto emozionati” dice qualcuno. “È stato bello poter raccontare la mia storia attraverso la danza, senza parlare e senza vergognarmi” racconta un altro. Due ragazze spiegano: “Non avevamo mai ballato prima di questa esperienza. È stato difficile. All’inizio eravamo imbarazzate poi, con il sostegno del gruppo, siamo riuscite a superare un po’ di reticenza. Ci è piaciuto molto, lo rifaremmo subito”. Un’altra giovane donna: “Abbiamo proposto questa performance, la prima volta, nel carcere e una persona si è avvicinata per ringraziarci, perché in quei minuti si è sentita libera, leggera, lontano”. Il progetto dura ormai da 14 anni e ha coinvolto negli anni centinaia di detenuti e detenute: “Abbiamo l’occasione di offrire la possibilità alle persone detenute di rientrare in contatto con le persone esterne - ha continuato Gussago -, è importante questa riconnessione con il tessuto esterno perché alla fine della pena dovranno ritornare lì e dovranno sentirsi accolte. Abbiamo una serie di elementi in più: la percezione e la consapevolezza dello spazio e del tempo, importanti da traferire nella quotidianità per avere la capacità di rispettare il tempo e lo spazio dell’altro”. Perché “Mare fuori” fa bene al dibattito sulle carceri (nonostante tutto) di Chiara Del Zanno rollingstone.it, 7 aprile 2025 "Volevo abbandonare il progetto, mi sembrava ridicola la rappresentazione che si faceva", ci ha detto il regista della quinta stagione Ludovico Di Martino. Che ci ha accompagnato da Antigone, l'associazione per la tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario: "C’è una realtà che cerca di specchiarsi nella finzione. E questa è la responsabilità della serie". Quando Ludovico Di Martino è andato per la prima volta all’Ipm di Nisida ha pensato di rifiutare la regia di Mare fuori 5. "Non lo racconto, non ce la faccio. Volevo abbandonare il progetto perché mi sembrava eccessivamente ridicola la rappresentazione che si faceva di questo mondo. Percepivo quasi una mancanza di rispetto nei confronti di ragazzi difficilissimi da comprendere. Quando sono entrato c’erano due ragazzi che fumavano su un muretto, in questo cortile immenso: era l’opposto della rappresentazione che avevo visto nella serie. Sono calati in un ambiente vastissimo e sono piccoli, soli e immobili nel tempo che non passa. Ho riletto un libro, Dentro di Sandro Bonvissuto, con una parte ambientata nel carcere in cui gli orologi sono fermi. Quindi tutti elementi che nella serie non c’erano: il silenzio, il tempo bloccato, e poi la violenza". Da qui la sua volontà di provare a restituire a Mare fuori una dimensione più cruda e autentica, parallela agli aspetti inevitabilmente romanzati della vita in carcere. Che comunque lui oggi comprende, o quantomeno digerisce: "Mare fuori non è una serie Netflix, è una serie Rai. E la Rai è la tv di Stato, offre il cosiddetto servizio pubblico e quindi ha delle responsabilità superiori rispetto a una piattaforma privata, che produce serie di intrattenimento per cui la gente sceglie di pagare un abbonamento. La rappresentazione passa attraverso una semplificazione, è necessaria al racconto. Io ho giocato tanti anni a rugby e ho sempre criticato i film sul rugby, così come un musicista può criticare Whiplash che per me è invece un capolavoro. Ma come mi hai detto tu, se oggi tutti sanno cos’è un Ipm è perché c’è stato Mare fuori". Da qui anche il desiderio di farci una chiacchierata con Antigone, associazione italiana indipendente con sede a Roma, che dal 1991 lavora per la tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario. Insieme incontriamo il Presidente Patrizio Gonnella e la Coordinatrice Nazionale Susanna Marietti, e la serie diventa il pretesto per riflettere sulla situazione carceraria attuale, su quanto un progetto di massa come Mare fuori faccia bene al dibattito, su quanto – scopriremo proprio grazie ad Antigone – un certo tipo di storytelling abbia fatto storcere il naso a pubblico e stampa, ma non agli operatori del sistema penitenziario. "Negli ultimi anni Mare fuori ci ha accompagnato nel discorso pubblico", spiega subito Patrizio Gonnella, "e non c’è stata volta in cui abbiamo fatto un convegno, una discussione, la presentazione di rapporto, un’intervista o una lezione universitaria senza parlare anche della serie. La sua forza è stata quella di stimolare una visione di massa, soprattutto tra i giovani. L’altro giorno all’università volevo aprire un dialogo partendo da Adolescence, ma non l’aveva vista ancora nessuno dei ragazzi. Invece Mare fuori viene visto da almeno la metà degli studenti di Giurisprudenza. Io sono stato addirittura invitato dalla Mostra del Cinema di Venezia a parlare di giustizia minorile, cosa che non era mai accaduta prima. Perché? Perché adesso c’è Mare fuori. Questo per noi è importante. Significa che anche quando è fiction pura, la serie entra nel discorso e lo condiziona, rivolgendosi anche agli operatori. C’è una realtà che, in qualche modo, cerca di specchiarsi nella finzione, e questa è la responsabilità di Mare fuori". La realtà, neanche a dirlo, per Gonnella e Marietti al momento è criticissima e non è spiegabile "se non con fuoco, dolore, sofferenza e mancanza di visione". La loro preoccupazione cresce dall’entrata in vigore del chiacchieratissimo Decreto Caivano, convertito in legge nel novembre 2023 per contrastare la criminalità minorile, l’abbandono scolastico e il disagio giovanile. "È la prima volta nella storia di Antigone che ci troviamo in questa situazione", spiega Susanna Marietti. "Di solito le nostre posizioni, che sono di garantismo e di un uso mite del diritto penale, sono sempre state minoritarie ma culturalmente rispettate. Tutti dovevamo farci i conti, invece da parte di questo governo c’è una rivendicazione totale e sfacciata. C’è una sorta di sovranismo penale che li porta a dire: sono affari nostri, decidiamo noi chi punire e come punirlo. Il Decreto Caivano va contro le regole di Pechino o delle Nazioni Unite? Ma chi se ne frega". Qualche esempio concreto: "Una ventina di giorni fa il sottosegretario Andrea Ostellari è andato in Lombardia a inaugurare tre nuove comunità socio-rieducative per minori ad alta intensità terapeutica, che in sostanza diventeranno i manicomietti in cui mettere tutti i ragazzi cattivi anziché potenziare le strutture già esistenti. Mentre la retorica del sistema minorile è sempre stata quella per cui i ragazzi vanno educati e non puniti, Ostellari si è vantato che quando sono arrivati al governo c’erano solo 400 ragazzini in galera e adesso ce ne sono già più di 600. La violenza è uno dei temi centrali, inutile negarlo. Nel caso di Ludovico Di Martino, anche questa era una responsabilità da assumersi nei confronti della serie: "Se vuoi raccontare un carcere racconti anche gli orrori, che era quello che si erano un po’ scordati nelle stagioni precedenti. Quindi il bene e il male: se sfrutti il carcere come amplificatore di sentimenti positivi come l’amore o l’amicizia, devi fare la stessa cosa con i sentimenti negativi come l’odio e la rivalità". Nella quinta stagione la violenza subita da Cardiotrap (a cui le new entry Samuele e Federico spezzano le dita, e quindi anche la prospettiva di un futuro nella musica) ricorda quella subita da Pino ’o Pazzo nella prima stagione (nell’agghiacciante scena della pasta al ragù di cane) o la violenza sessuale agita dallo stesso Pino: "Naturalmente era tutto in scenaggiatura, ma ho voluto girare quella scena nel modo più violento possibile, anche rispetto alla dipendenza di Dobermann. I due personaggi milanesi che sono entrati in questa nuova stagione per me sono stati il miglior modo per introdurre la violenza che vige nelle carceri. Loro arrivano e dicono: “Ma chi sono ’sti coglioni?”, e certe volte mi sembravano quasi il mio punto di vista sulla serie, per il modo in cui criticavano certe morbidezze. In Mare fuori mancavano dei personaggi insalvabili, perché non è che salvi tutti. Alcuni non ce la fanno, muoiono o peggiorano". L’obiettivo principale, però, è sempre stato quello di salvarli, educarli, reinserirli. E se fino a poco fa il discorso era condiviso, Patrizio Gonnella spiega quanto sia cambiato lo scenario all’interno: "Che fosse il capo della giustizia minorile o il direttore del singolo istituto, anche se dentro di noi potevamo avere delle idee diverse, pubblicamente sostenevamo gli stessi obiettivi. Ora si è rotto il patto comune. Pensiamo al Beccaria di Milano, che è paradigmatico: inchiesta per tortura, violenza e abuso di potere nell’aprile 2024, esce la notizia e da allora nessuno si è davvero rimesso in discussione. Si lascia che i ragazzi facciano quello che vogliono, “perché se li tocchiamo ci incriminano”. Siamo andati a visitare il Beccaria qualche settimana fa e abbiamo trovato una situazione in cui ognuno fa quello che vuole. Non va bene, non è il modello educativo, non può essere un luogo in cui uno si alza a mezzogiorno fatto di chissà cosa. Il sistema è andato così: gente che vive nelle celle che ha bruciato, in luoghi non agibili. Non era mai accaduto che a turno dessero fuoco a tutte le carceri minorili d’Italia (insieme al Beccaria, al centro del caos soprattutto l’Ipm di Casal Del Marmo a Roma, nda). E non c’è dietro una regia criminale, ma c’è l’incapacità di gestire un’utenza che è molto cambiata nel tempo". Susanna Marietti parla di un sistema immobile, che addirittura sta agendo al contrario: "L’atteggiamento è: “Se il minore riesce ad adeguarsi a noi, allora si salva. Altrimenti chi se ne importa, va a morire”. Il codice di procedura penale minorile entrato in vigore nel 1988 ha codificato una cultura profonda e radicata, che aveva preceduto la norma, e che era frutto di una grande riflessione nella società italiana. Sono molto turbata dal fatto che in così poco tempo stiano riuscendo a distruggerlo con cambiamenti rapidissimi. L’arrivo dei primi ragazzi nel carcere di Bologna è qualcosa che mai ci saremmo immaginati" (risale a pochi giorni fa la notizia del trasferimento di oltre 50 detenuti under 25 dall’Ipm del Pratello alla Dozza, carcere per adulti che oggi conta un indice di sovraffollamento tra i più alti in Italia, nda). La legge Caivano subentra in uno scenario sfiancato da una carenza strutturale di fondi e risorse, da una scelta culturale precisa, quella della tolleranza zero, dalla difficile gestione di ragazzi che entrano in carcere con storie e dipendenze già importanti, dal pugno di ferro con i minori e dal problema delle baby gang che si presta ad un’ottima retorica per far leva sulla paura e sullo sdegno pubblico. Antigone ci spiega quali sono, a detta di Susanna Marietti, i punti più critici di Caivano: "Innanzitutto la possibilità di allargamento della custodia cautelare: oggi siamo di fronte ad un’impennata, ci sono il 60% in più dei ragazzini che c’erano prima e sono praticamente tutti in custodia cautelare. Questo è quello che ha creato il problema numerico". Poi c’è la questione dell’aggravamento della misura cautelare: "Stando al codice di procedura penale minorile, significa che se il magistrato ti dava il collocamento in comunità aspettando il processo e ti comportavi male, potevano mandarti in carcere a scopo punitivo per un massimo di un mese. Di per sé non è solo una risposta esclusivamente punitiva, ma crea anche dei problemi al carcere, gravandolo di un’utenza indiretta e rapsodica di difficile gestione. Ti arriva questo ragazzo per due settimane, non sai che attività fargli fare, lo chiudi in cella e comprometti anche il gruppo che si è formato. Nella fase in cui il decreto non era ancora stato convertito in legge, parlando privatamente con Sangermano ci disse che l’avrebbero tolto in fase di conversione, “Vedrete quando esce la legge”. Sai cos’hanno fatto? Hanno tolto il massimo di 30 giorni e adesso ti possono mandare in carcere per sempre. Adesso sono presenze che rimangono là". Sull’introduzione della diretta responsabilità della famiglia per abbandono scolastico, che prevede la reclusione per i genitori negligenti, Gonnella è lapidario: "È la morte di ogni ipotesi di rinascita dentro quel contesto. Se gli togli i genitori, lo Stato sarà considerato il nemico. E di fronte al nemico sai che penseranno? Che tra due anni di carcere per dispersione scolastica e due anni per spaccio, a questo punto conviene spacciare. Almeno faccio un po’ di soldi, almeno faccio il criminale vero". Per Di Martino stiamo girando attorno a una parola chiave, una parola mancante: empatia. "A che servono i film o la musica? La cultura non c’entra, quello che bisogna fare continuamente è sviluppare empatia, altrimenti prende il sopravvento una fredda visione punitiva. In questo ’sto governo è un fenomeno, perché fa come cazzo gli pare e ha una platea di gente che non si fa più certe domande. C’è un metodo di accanimento nel cercare delle soluzioni, un po’ come fosse un fast food: cibo subito e a basso prezzo. Eppure esiste una possibilità concreta che una serie, un film, un libro, un disco possano influenzare la realtà. È meraviglioso e forse ce lo siamo scordati. Trovo commovente il fatto che il cambiamento passi dalle persone, dalla nostra responsabilità. Non abbiamo il potere di cambiare una legge, ma abbiamo quello di cambiare un gruppo di persone, e a grappolo una società". Patrizio Gonnella piazza un’osservazione lucida e bellissima: "Nella storia dei diritti umani l’empatia ha funzionato più delle rivoluzioni". Il meccanismo di immedesimazione nell’altro, il fatto di non standardizzare le biografie ma individualizzarle. "Ecco perché ho sempre difeso l’operazione culturale Mare fuori. Perché restituisce una visione agli operatori – direttori, psicologi, cappellani, preti, tutto il mondo dei procuratori, i giudici, i tutori – e l’ipotesi di sentirsi dentro una storia. Dagli studenti mi è arrivata una domanda frequente: “Ma è vero che esiste anche un direttore che non sia aguzzino?”. Pensiamoci, chi va in galera? Lo scugnizzo, lo straniero senza strumenti, il ragazzino che ha compiuto un reato efferato. Ecco perché l’empatia dev’essere il motore dell’offerta pedagogica". Certo che con cinque stagioni di serie tv individualizzare le biografie è una passeggiata: episodi dedicati, flashback, focus sui background familiari, laboratori creativi in cui innamorarsi e ritrovare speranza, oltre alla necessità drammaturgica di sviluppare conflitti fino a comprendere un personaggio e, quindi, umanizzare il detenuto. Mare fuori – nel bene e nel male – è un’operazione che parla alla pancia dello spettatore, lo stesso che in veste di cittadino si limita a condannare senza interrogarsi. "È questa la grande sfida della pedagogia penitenziaria", prosegue Patrizio, "pensare che dietro quei dieci ragazzini che bruciano la cella non ci sono dieci storie identiche, ma ci sono dieci diverse biografie familiari. Lo scugnizzo non è sempre uguale". "Non è che ignoriamo il libero arbitrio degli esseri umani", fa eco Susanna, "perché è chiaro che a parità di condizioni e di contesto c’è chi sceglie di compiere il reato e chi no. Non è tutto frutto della società, però la società conta. E di fronte allo stesso reato, chi è che verrà colpito di più?". In questo senso ha ragione Di Martino, quando sostiene che il personaggio più riuscito della serie sia Pino ’o Pazzo (interpretato da Artem Tkachuk), il più forte tra i salvati, tra i rieducati, i reinseriti: "Rappresenta al meglio il racconto che Mare fuori dovrebbe fare. Di base i protagonisti commettono dei reati senza volerlo e dal punto di vista drammaturgico vengono trattati come degli innocenti, al contrario di Pino. Un paradosso? Lui nella quinta stagione ha la messa in prova, quindi durante il giorno esce un tot di ore e va a lavorare per un canile. Con Caivano hanno tolto la possibilità di messa in prova per i minori che commettono determinati reati, perciò questa è una stortura nella serie, perché oggi Pino ’o Pazzo non avrebbe la possibilità di essere reinserito. Non si parla di scuola, figuriamoci se si parla di istituti di pena minorile. Io invece credo che la costruzione del futuro dei giovanissimi sia l’argomento più importante di oggi. Perché Mare fuori piace tanto e comunica ai ragazzi? Perché parla di seconde possibilità, in un momento storico in cui il problema dei giovani è la disillusione rispetto al futuro, ai propri sogni, ai propri obiettivi. Anche un ragazzo di 15 anni fortunato, che va a scuola, con una buona famiglia e una bella casa può sentirsi ispirato. La cosa che ho capito grazie a voi è che quest’opera di sensibilizzazione – di quello che noi chiamiamo pubblico – è fondamentale e fuoriesce dal tema di cui stiamo parlando". Dentro al carcere di “Mare fuori” di Marta Impedovo ilpost.it, 7 aprile 2025 Per certi aspetti la vita nel carcere minorile di Nisida è simile a quella mostrata nella serie della Rai: per altre affatto. Fuori dalle finestre dell’istituto penale minorile di Nisida il mare c’è davvero. Il carcere a cui si ispira Mare fuori, serie tv della Rai di grande successo di cui è appena uscita la quinta stagione, si trova infatti su una piccolissima isola vulcanica collegata al quartiere di Bagnoli, nella parte sud ovest di Napoli, da una sottile striscia di terra. A differenza della serie però l’istituto non è un casermone al livello del mare, ma un insieme di edifici posti sulla parte più alta dell’isola e circondati dal verde. Sono due piccoli esempi di come in Mare Fuori convivano elementi molto aderenti alla realtà di Nisida e altri completamente inventati: a volte così tanto che chi ci lavora parla di “fanta-penitenziario”. La prima differenza tra la serie e la realtà che salta all’occhio se si visita Nisida oggi è che non ci sono ragazze. Quando uscì la prima stagione, nel 2020, il reparto femminile c’era ancora, ma le detenute sono sempre state molte meno dei maschi, tra le 2 e le 10 su una cinquantina in totale, valore che nel frattempo è molto aumentato. Silvia Vigilante, educatrice di Nisida da quindici anni, racconta che la chiusura del reparto femminile nel 2023 è stata una grossa perdita perché era “un reparto d’eccellenza” e la convivenza tra maschi e femmine era un valore per la vita comunitaria. “Ovviamente ragazzi e ragazze non potevano appartarsi sul terrazzo come si vede in una scena della serie. Anche perché non abbiamo un terrazzo”, racconta Vigilante. “Ma si incontravano durante i laboratori e nelle ore di scuola: erano sempre momenti molto attesi da tutti. Nascevano amori che diventavano corrispondenze epistolari, quello sì. In generale, con loro la popolazione dell’istituto era un po’ più simile a quella che c’è fuori”. Sulla chiusura del reparto femminile ha un’opinione un po’ diversa Margherita Di Giglio, magistrata di sorveglianza del tribunale per i minorenni di Napoli, cioè la giudice che si occupa delle pene dei detenuti di Nisida. Di Giglio ricopre questo ruolo dal 2022 e dice di aver preso la decisione di chiudere il reparto femminile perché “il primo obiettivo con chi ha commesso un reato da minorenne è il reinserimento nella società”. Proprio per via dei loro percorsi positivi, alle ragazze di Nisida sono state concesse misure alternative al carcere. E tenere aperto il reparto era diventato, secondo lei, inutile. Secondo i dati dell’associazione Antigone che risalgono a fine 2023, in Italia su 425 detenuti delle carceri minorili solo 13 erano ragazze. Oggi i detenuti di Nisida sono un’ottantina: un numero che gli educatori definiscono “altissimo”, circa il doppio di quello ideale per la struttura. A Nisida il rapporto tra detenuti ed educatori è buono, circa un educatore ogni quattro ragazzi. Il problema è piuttosto il numero di agenti penitenziari, che è ritenuto insufficiente anche perché, spiega Vigilante, “violenze, risse e disordini ci sono, come in tutte le realtà carcerarie”. I detenuti sono aumentati negli ultimi anni in tutta Italia: alla fine del 2022 gli istituti minorili ospitavano 381 ragazzi e a febbraio del 2024 erano 532. Sono aumentati soprattutto nelle carceri minorili del nord Italia e per via del sovraffollamento alcuni sono stati distribuiti negli istituti del sud. Nell’ultima stagione della serie ci sono in effetti due nuovi personaggi che arrivano dal carcere Beccaria di Milano. Un altro detenuto milanese era stato il protagonista della prima stagione: Filippo detto Chiattillo, cioè figlio di papà. Questi personaggi non rispecchiano però le storie dei detenuti che davvero arrivano a Nisida dal nord Italia, che sono per la quasi totalità giovani italiani di seconda generazione, con famiglie provenienti dal nord Africa, o stranieri arrivati in Italia da poco. Gli educatori di Nisida raccontano che questa contaminazione ha portato molte tensioni e disordini: “eravamo abituati ad avere una cinquantina di detenuti napoletani e magari 10 detenuti dal nord che venivano integrati. Poi improvvisamente sono diventati metà e metà ed è stato più difficile: i primi si sentivano invasi, i secondi vittime di razzismo, ed era uno scontro continuo. Non avevamo un mediatore culturale, che ora invece è interno. Abbiamo incontrato degli operatori degli istituti del nord Italia che avrebbero dovuto farci formazione ma si sono trovati a loro volta davanti a una situazione nuova e ingestibile”. Spiegano che i detenuti della zona di Napoli vengono da contesti difficili, poveri, degradati e dove c’è la camorra, ma sono comunque più facili da gestire rispetto agli altri che hanno problemi più profondi, per esempio perché compiono atti di autolesionismo o hanno gravi dipendenze da psicofarmaci: due cose che tra i napoletani non avevano mai visto. Sono intervenuti prima dividendoli del tutto, poi poco alla volta facendo conoscere quelli più collaborativi di ciascun gruppo. “È stato un lavoro enorme che ha dato piccoli frutti. La situazione ora è un po’ migliorata ma devo essere sincera: un equilibrio non l’abbiamo trovato”, dice Vigilante. Cristiana Farina, l’ideatrice di Mare fuori, cominciò a lavorare a una serie ispirata al carcere di Nisida già agli inizi degli anni Duemila. “Mentre lavoravo come sceneggiatrice di Un posto al sole, il direttore mi invitò ad assistere a uno spettacolo teatrale fatto dai detenuti”. Farina passò poi alcuni mesi a fare la volontaria nell’istituto, annotandone storie e funzionamenti: Ignazio Gasperini, educatore e vicedirettore di Nisida, dice che se lo ricorda bene. I diritti della sua sceneggiatura allora furono acquistati dalla Rai, che però abbandonò il progetto. Farina lo riprese soltanto dopo molti anni, quando i diritti della Rai scaddero, solo che nel frattempo molte cose erano cambiate. Il personaggio di Naditza, giovane proveniente da una famiglia rom che commette piccoli reati solo per poter stare in carcere e sfuggire dai genitori che vogliono farla sposare, era realistico per i primi anni Duemila ma oggi non esiste. “Oggi non si entra più in custodia cautelare per piccoli furti reiterati”, spiega Vigilante. Più in generale però chi lavora o vive a Nisida riconosce che le storie dei protagonisti di Mare fuori sono molto vicine a quelle dei detenuti veri. I reati commessi sono vari: contro il patrimonio, quindi rapine, e contro la persona, quindi lesioni, omicidi o tentativi di omicidio, oltre che spaccio. Dalle imputazioni non risulta che facciano parte della criminalità organizzata (anche perché i giudici minorili cercano di evitare di “etichettare” in questo modo ragazzi così giovani), ma se si approfondisce spesso il legame c’è. Anche “il rapporto che si crea tra i detenuti e chi lavora all’interno è realistico”, dice Alessio (nome di fantasia), che ha 21 anni e vive nell’istituto da quando era minorenne. “A Nisida c’è sempre qualcuno pronto a darti una mano facendoti capire i tuoi errori e aiutandoti ad andare avanti”. “Quello che non è realistico”, chiarisce Vigilante, “è la connivenza che si crea tra il personale del carcere e i detenuti: qui se un ragazzo scappa lo andiamo a cercare, non potrebbe mai succedere che qualcuno “chiude un occhio” per concedergli qualche giorno di libertà”, come succede invece in un episodio di Mare fuori. Sulle evasioni Vigilante dice che tra i detenuti non napoletani di recente qualcuno ha provato a scappare dal carcere, cosa che non succedeva da anni. Non è così difficile visto che le mura non sono alte: l’isola però è piena di scogli e può essere pericoloso fare un inseguimento. Un’altra cosa che non potrebbe mai succedere è che la direttrice del carcere prenda in affido la figlia di un detenuto. “Però devo dire che il personaggio del comandante in Mare fuori (interpretato da Carmine Recano, ndr) è ricalcato molto fedelmente sul nostro ex comandante”, racconta l’educatrice. Nelle carceri minorili italiane entra chi ha commesso un reato tra i 14 e i 18 anni, ma dal 2018 si può rimanere fino ai 25 anni. A Nisida i maggiorenni sono la maggior parte. Questo un po’ risponde ai dubbi di chi guardando la serie si chiede come sia possibile che ragazzi minorenni si sposino e abbiano figli così spesso. Gli educatori di Nisida però confermano che è effettivamente molto frequente, anche tra i più giovani: “c’è in generale una diffusa ricerca della paternità precoce: in alcuni casi avviene per un semplice discorso di ignoranza sui metodi contraccettivi, ma in tanti casi è cercata. C’è l’idea che essere padre significa essere adulto”. Dei detenuti di Nisida la maggioranza è in attesa di giudizio: vuol dire che è in carcere in custodia cautelare ma che il processo non si è ancora concluso e che non è quindi non c’è stata una condanna definitiva. La stessa cosa vale a livello nazionale: sempre secondo il rapporto di Antigone sulla giustizia minorile di un anno fa solo il 5,7% dei detenuti è in carcere per espiare una pena, il 27% ha una posizione giuridica mista, con almeno una condanna definitiva e altri processi in corso, e il resto, circa due terzi, è in carcere in custodia cautelare. La permanenza media dei ragazzi è di 6 o 7 mesi, ma alcuni restano anche 4 o 5 anni. Gasperini sottolinea che il tempo è un fattore importante: “paradossalmente chi sta dentro più a lungo riesce a fare un percorso migliore su di sé, che è quello che poi ti porta a decidere di non tornare a delinquere quando uscirai”. Dalla serie non è mai troppo chiaro chi sia in attesa di processo e chi abbia già una sentenza definitiva: per la vita nell’istituto però fa una grossa differenza, perché chi è in custodia cautelare non può ottenere permessi per uscire (salvo in casi eccezionali) e non può accedere a misure alternative al carcere, magari cominciando a lavorare all’esterno (il cosiddetto articolo 21, con riferimento alla legge sull’ordinamento penitenziario). In questo senso alcune scene di detenuti che vengono fatti uscire in permesso senza aver mai fatto un’udienza in tribunale sono definite dagli educatori “da fanta-penitenziario”. “I primi permessi cominci ad averli dopo un bel po’”, spiega Vigilante. A Nisida ci sono cinque ragazzi che con una buona condotta sono riusciti a ottenere di vivere in un piccolo edificio all’esterno delle mura, in un regime cosiddetto attenuato, meno controllato dagli agenti, e da cui possono uscire per andare a lavorare. Con loro vive anche un cane: Libero. Si occupano della manutenzione del verde dell’isola e per l’altra metà della giornata studiano da privatisti per fare la maturità. Uno di loro ha raccontato al Post che lavorare sull’isola è comunque un po’ limitante e che gli piacerebbe avere “più possibilità per lavorare all’esterno e sentirmi più introdotto nella società moderna, per aver tempo di ambientarmi e prepararmi a quando la pena finirà”. L’isola infatti si estende su meno di un chilometro quadrato e oltre all’istituto ospita solo una chiesa e il comando logistico della marina militare di Napoli. I detenuti sono i suoi unici abitanti. Dentro le mura del carcere ci sono edifici spesso fatiscenti che ospitano la mensa, le aule scolastiche, un laboratorio di ceramica, uno di pasticceria, un teatro attualmente abbandonato, una zona dedicata alla scuola edile, e naturalmente le stanze. Ci vivono in due o tre e hanno letti singoli (non sono quindi stipati nei letti a castello come nelle prime stagioni della serie), la televisione - su cui guardano tra le altre cose anche Mare fuori - e bagni privati. Non ci sono i bagni pubblici che si vedono in varie scene della serie, e dove solitamente scoppiano risse e si consumano vendette. I laboratori e i campi sportivi per fare attività ci sono e sono molto utilizzati: “sono una delle cose vere della serie”, dice Vigilante. Il pianoforte invece non c’è. C’è generale accordo però sul fatto che i laboratori non sono sufficienti per creare percorsi di reinserimento davvero efficaci. Lo pensa anche Di Giglio, che dice che negli ultimi anni, da quando è arrivata, “la mia intenzione è favorire il più possibile le misure alternative: dare più articoli 21 per lavorare all’esterno”. Il magistrato di sorveglianza è un personaggio che nella serie viene spesso citato ma non si vede mai. È una figura però abbastanza fondamentale in un carcere, e a Nisida in particolare si fa vedere e sentire parecchio da quando è arrivata Di Giglio, che dice di essere da subito intervenuta sulla vita dei detenuti in modo forse più decisivo di quanto avessero fatto i magistrati prima di lei. I detenuti a Nisida passano buona parte della giornata fuori dalle celle, ma hanno comunque degli orari molto rigidi. Gasperini dice in generale che a Nisida non c’è il libertinaggio che si vede nella serie e che questo aspetto colpisce sempre molto sia gli operatori che i ragazzi che vivono a Nisida. Per esempio “è assolutamente inverosimile che i ragazzi si spostino da una parte all’altra dell’istituto di sera”, come si vede spesso nella serie. La giornata solitamente inizia alle 9 e fino alle 12 si fanno scuola o altre attività, poi si pranza e fino alle 15 si sta in stanza. Nel pomeriggio si fanno attività divisi in gruppi, alcuni dalle 3 alle 5 e altri dalle 5 alle 7, quando si cena. Dalle 19:30 si torna tutti in stanza fino alla mattina. Nella serie ci sono anche alcune storie di detenuti che dopo aver avuto l’opportunità di uscire e scontare la pena con misure alternative al carcere decidono di tornare dentro. “Ecco questa è una cosa che penso che possa succedere solo in tv”, dice Alessio, “per quanto ci si possa trovare bene, è pur sempre un carcere e si vive ogni giorno con l’aspettativa di uscire”. “Adesso arrestateci tutti”: il decreto sicurezza non spegne il dissenso di Chiara Sgreccia Il Domani, 7 aprile 2025 Le associazioni, i sindacati, i movimenti studenteschi e della società civile che si oppongono al pacchetto di norme sulla sicurezza si appellano al presidente della Repubblica e all’opposizione in Parlamento per fermare “un golpe burocratico messo in atto per bypassare a democrazia”. Da disegno di legge in discussione al Parlamento a decreto avente forza di legge emanato direttamente dal governo. Così il pacchetto di norme sulla sicurezza, che dopo aver ricevuto l’ok alla Camera era bloccato in Senato da mesi, ha cambiato natura venerdì 4 aprile. Perché, “non potevamo più aspettare e era prioritario dare risposte ai cittadini e assicurare ai nostri uomini e alle nostre donne in divisa le tutele che meritano”, ha spiegato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Si è scelto “di non rispettare i tempi della democrazia”, commenta, invece, Paolo Notarnicola, coordinatore del sindacato Rete degli studenti medi che insieme alla Rete “No ddl-A pieno Regime” era in piazza del Pantheon, a Roma, nel pomeriggio di venerdì, quando è arrivata la notizia dell’approvazione del decreto legge a conclusione del Consiglio dei ministri, poco prima che le cariche delle forze dell’ordine colpissero i manifestanti che si sarebbero voluti dirigere verso Palazzo Chigi, per protestare contro “un baratto folle. Sono stati scambiati libertà e dignità di tantissime persone per tutelare gli equilibri politici”, spiega ancora Notarnicola, convinto che se la strategia del governo è quella di fare paura, con un provvedimento che vuole bloccare il dissenso “sia preventivamente, cercando di spegnerlo, sia aggravando le pene per chi manifesta, la risposta dei cittadini non può essere quella di lasciarsi spaventare. Organizzeremo nuove mobilitazioni e continueremo a fare informazione nei luoghi del sapere”. A pensarla allo stesso modo c’è anche Alessandro Bruscella, coordinatore dell’Unione degli universitari, preoccupato per il futuro dell’Italia e per quello che la sua generazione dovrà affrontare: “Abbiamo assistito all’ennesima manovra per bypassare i sistemi democratici. Non è la prima volta che succede: svuotare il Parlamento del suo ruolo è diventata una pratica comune messa in atto ogni volta che il governo ha il sentore che la maggioranza dei cittadini non condivide i provvedimenti che intende portare avanti”, spiega il coordinatore del più grande sindacato universitario che, insieme con la Rete degli studenti, subito dopo l’approvazione del decreto sicurezza ha scritto: “La svolta autoritaria e repressiva sognata dal governo più a destra della storia repubblicana oggi si concretizza con l’approvazione di un decreto liberticida. Adesso dovete arrestarci tutt3: continueremo a essere marea di dissenso e opposizione da nord a sud del Paese”. Senza nessuna intenzione di fermare le mobilitazioni sono anche le associazioni, i sindacati, le organizzazioni politiche, i movimenti della società civile che hanno dato forma alla rete nazionale “No ddl-A pieno Regime”, che da mesi prova a porre un freno alla deriva autoritaria del governo Meloni riempiendo piazze e strade non solo di Roma ma di tante altre città italiane: “È successa una cosa molto grave: un vero e proprio golpe burocratico”, dice Luca Blasi, tra i promotori della Rete, prima di ricordare che affinché l’atto normativo approvato dal Consiglio dei ministri diventi legge il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrà firmarlo e poi il Parlamento avrà 60 giorni di tempo per la sua conversione. “Penso che da oggi siamo uno Stato diverso, molto più simile all’Ungheria. In cui le pene inflitte a chi dissente sono spropositate per poterci definire democrazia. Per questo non intendiamo fermarci. Organizzeremo nuove proteste sotto il Quirinale per appellarci al Presidente della Repubblica e affinché ci sia battaglia in Aula”, spiega ancora Blasi convinto che nonostante le modifiche apportate al testo sulla sicurezza per recepire i punti su cui Mattarella aveva esposto dei rilievi, il pacchetto di norme approvate resti un manifesto autoritario che il presidente della Repubblica non dovrebbe avallare, né per contenuti, né per metodi: “Pensiamo che trasformare il ddl in un decreto legge sia stato un atto di arroganza burocratica. Che, oltre a rappresentare un pericolo per la democrazia, mette in ginocchio un settore di eccellenza del made in Italy” quello della produzione e commercializzazione delle inflorescenze di canapa light. “Una filiera in grado di rilanciare le aree rurali fragili del Paese. E di offrire un’opportunità di crescita alle nuove generazioni, con un indotto di quasi 2 miliardi di euro, senza contare derivati e export, che ha generato più di 20 mila posti di lavoro, come dimostra l’ultimo studio condotto da Davide Fortin e Maria Paola Liotti”, spiega Chiara Lo Cascio, del direttivo di Canapa sativa Italia, già all’opera insieme a Mattia Cusani, presidente dell’associazione che unisce tutti gli operatori della canapa, dalla coltivazione alla vendita, per studiare le azioni da intraprendere affinché la filiera resista all’ennesimo urto. Ddl Sicurezza. “Se la società è violenta, i giovani non possono essere da meno” di Elena Coatti estense.com, 7 aprile 2025 Il recente passaggio del Ddl Sicurezza a decreto legge apre scenari allarmanti sulla gestione delle carceri e delle fasce più vulnerabili della popolazione in Italia. L’incontro organizzato da “La città che vogliamo” sull’ossessione securitaria italiana cade a pennello. A parlare di “regime di massima sicurezza” sono intervenuti Vincenzo Scalia, sociologo della devianza e docente Unifi, e Sofia Ciuffoletti, direttrice de l’Altro Diritto. Scalia non ha esitato ad evidenziare come questa scelta governativa rappresenti l’ennesima fuga dal confronto parlamentare e dalla società civile. “Il carcere torna al centro del dibattito, non come strumento di rieducazione, ma come apparato di controllo e repressione, sempre più selettivo e ideologico”, ha commentato. Uno degli aspetti più inquietanti messi in luce dal sociologo è la crescente criminalizzazione delle nuove generazioni. I giovani, soprattutto quelli delle periferie, diventano il nuovo bersaglio di un discorso pubblico che li rappresenta come “classe pericolosa”, sospinta da una narrazione mediatica “priva di fondamento empirico”. È il caso delle cosiddette ‘baby gang’, “spesso dipinte come cellule di sofisticate trame criminali, ma in realtà costituite da adolescenti marginalizzati che vivono in contesti privi di supporto educativo e sociale”. La risposta? Un impianto penale che privilegia l’inasprimento delle pene e la costruzione di nuove carceri minorili, mentre quelle già esistenti patiscono il sovraffollamento. Secondo Scalia, il carcere italiano ha ormai abbandonato qualsiasi vocazione rieducativa. I numeri parlano chiaro: 28 suicidi nei primi mesi del 2025, oltre il 30% dei detenuti affetti da dipendenze e il 25% con gravi patologie. “Ma non si tratta di un’anomalia del sistema, esso stesso ha costruito questa marginalità come pretesto per rafforzare la propria legittimità. Si penalizzano i poveri, i migranti, i tossicodipendenti: la produzione della devianza, come l’ha definita Massimo Pavarini, è ormai scientificamente provata”. “La crescente povertà, la disuguaglianza educativa e l’abbandono dei giovani nelle periferie si traducono in una repressione preventiva che mira a contenere, piuttosto che risolvere - continua Scalia -. Se i giovani sono violenti, è perché la società è violenta”. È poi intervenuta Ciuffoletti rispetto al decreto Caivano e alla detenzione minorile, mettendo in luce che “l’introduzione di misure amministrative come l’ammonimento del questore, o il daspo minorile, oltre a rappresentare un grave vulnus al principio di legalità, segna una deriva securitaria in netto contrasto con lo spirito del nostro codice di procedura penale minorile”. E prosegue: “Ciò che dovrebbe costituire un’occasione di presa in carico educativa si trasforma in un atto di controllo, affidato per di più a soggetti (come le forze dell’ordine) che non hanno ricevuto alcuna formazione specifica in ambito minorile”. Ancora più grave è ciò che ha generato il decreto Caivano, secondo Ciuffoletti, perché “non solo ha inciso sull’inasprimento delle pene per reati legati agli stupefacenti ampliando il ricorso alla custodia cautelare, ma ha anche contribuito in maniera decisiva al sovraffollamento degli Istituti penali per minorenni. Stati Uniti. Assalto agli avvocati, il trucco degli autocrati per reprimere il dissenso di Errico Novi Il Dubbio, 7 aprile 2025 I grandi studi “militarizzano” la giustizia, dice Trump. E cancella così i diritti di chi a quegli studi si è affidato. il bersaglio vero sono i cittadini. In Italia l’avvocatura si batte per un principio, soprattutto in campo penale, spesso travolto dagli eventi o, per meglio dire, dalla volgarità del mainstream: si tratta del principio per cui non si può confondere l’avvocato con i reati contestati al suo assistito. Ma l’attacco a un così naturale assioma, sul quale di fatto si regge la stessa libertà nelle democrazie, è diventato un’odiosa abitudine, coltivata dalla parte della società del tutto indifferente alla Costituzione così come dai più populisti dei leader politici, e persino dalla stampa. Nonostante la stampa dovrebbe sentirsi unita proprio all’avvocatura nella difesa dei diritti inviolabili. È una deriva grave. Che sembrava affliggere solo settori poco attenti dell’opinione pubblica, certo non marginali in termini “numerici”, ma almeno poco impegnati politicamente. Ma negli ultimi dieci anni, in Italia, la degenerazione si è estesa, in modo graduale, subdolo, e intollerabile, al potere, alla politica, a volte addirittura al legislatore: basti pensare all’ex presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra che voleva distinguere con un “bollino blu” i penalisti “puliti”, non assimilabili, per qualche imprecisato sospetto o per qualche scelta professionale, ai criminali che, come prevede la Costituzione, hanno diritto alla difesa al pari di chiunque altro. E fin qui siamo in Italia. In America, negli Stati Uniti, e con forme decisamente più degradate in altri Paesi - che d’altronde nessuno pretenderebbe di assimilare alla “più grande democrazia del mondo” -, avviene qualcosa di diverso, almeno in apparenza. Ci si scaglia contro la cosiddetta “militarizzazione del sistema giudiziario e della professione legale”, secondo la formula coniata nelle scorse settimane all’atto di regolare i conti (letteralmente...) con alcune grandi law firm, con i colossi della difesa. In particolare, la “militarizzazione dell’avvocatura” è stata contestata a Willkie Farr & Gallagher, il super brand dei servizi legali la cui sede californiana è diretta dal marito di Kamala Harris, Doug Emhoff. La contestazione di “The Donald” è impegnativa, iperbolica, forse paradossale ma anche inquietante, come riferisce in modo più dettagliato l’articolo firmato da Gennaro Grimolizzi: un vero e proprio “partisan lawfare”, un “uso strumentale e fazioso della legge per danneggiare qualcuno”. Siamo, evidentemente, al corto circuito cognitivo. Ma in fondo anche alla sofisticazione di una deriva, descritta, in queste pagine, pure in riferimento a Ungheria, Turchia e Iran, secondo una progressione discendente di tenuta dello Stato di diritto. La difesa legale come “attacco”, come abuso “strumentale e fazioso”. L’avvocato come potentissimo manipolatore. Come potere occulto, eminenza grigia. Insidia della sovranità popolare, minaccia per chi, come Trump, è democraticamente eletto. Ribaltamento giudiziario della volontà espressa nelle urne, insomma. Vi ricorda qualcosa? Non sfuggirà, forse, come slogan simili assomiglino terribilmente alle accuse che, solo una quindicina d’anni fa, Silvio Berlusconi ancora rivolgeva ai magistrati italiani. Con una differenza, per fortuna dell’Italia, rispetto a Trump: il Cavaliere non riuscì in alcun modo a limitare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati italiani. Trump invece ha colpito la libertà degli avvocati americani. Con forme in apparenza, o forse anche nella sostanza, meno cruente di quanto abbiano fatto Erdogan con gli avvocati turchi e gli ayatollah con chi in Iran esercita (esercitava) la professione legale, a cominciare da Nasrin Sotoudeh. Oltreoceano l’abilità consiste anche nel nascondere l’intimidazione dietro i “memorandum”. Dopodiché il business dei servizi legali non può reggere a questa forma di criminalizzazione, e “patteggia”. Si accorda. Regala a Trump milioni di dollari in consulenze e assistenza assicurate gratuitamente, pro bono, all’amministrazione. Non sfuggirà però, si diceva, che la criminalizzazione dell’avvocatura c’è comunque, ed è appena, malamente mascherata con l’ipocrita pretesto di volontà popolare minacciata da chi cerca, o ha cercato, come sostiene Trump a proposito di Willkie Farr & Gallagher, di ostacolare la volontà sovrana degli elettori. Non è che Berlusconi dicesse cose diverse ma, appunto la Costituzione italiana e l’ordinamento giudiziario non ne hanno patito attacchi sostanziali. D’altra parte, l’insidia delle insinuazioni rivolte dal potere politico a chiunque, magistrati o avvocati, eserciti un potere o una funzione giudiziaria, fa parte di una polemica diffusa, di squilibri sistemici in parte reali, e che hanno scosso il dibattito pubblico anche in Paesi assolutamente immuni da rappresaglie alla Trump come la Francia. Ma non si può tacere un punto chiave: la polemica nei confronti di chi, come l’avvocatura, assume un mandato su impulso dei cittadini è diversa dal caso della magistratura, che esercita una funzione per conto dello Stato. Con l’attacco agli avvocati “nemici del popolo” si realizza un ipocrita, capzioso attacco alla libertà dei cittadini. Dietro la scusa della volontà popolare minacciata dalla “militarizzazione” della professione forense, dal “partisan lawfare” appunto, si nasconde il più stomachevole degli inganni: perché, in realtà, si arriva semplicemente alla privazione - inflitta ai cittadini, alle persone - della libertà di far valere i propri interessi, di difendere i propri diritti. È una deriva del populismo, una forma sofisticata, evoluta, ma non per questo meno ingannevole. E siamo costretti a tornare al principio, all’Italia. Agli insulti e alle minacce rivolte ai penalisti, soprattutto, che osano assumere la difesa di persone accusate per reati particolarmente odiosi, come la violenza sessuale. Si tratta di un pattume indistinto, che si accumula essenzialmente in quella terra di nessuno a cui si riducono spesso i social network. Ma appunto, siamo sicuri che la politica, il potere, non c’entrino nulla, con queste degenerazioni? Siamo sicuri che i “bollini blu” di cui sopra non siano sostanzialmente analoghi alla logica di Trump? Davvero le liste degli avvocati “immuni” o la fatwa emessa da Luigi Di Maio contro i giudici autori della sentenza sui vertici di Autostrade per la tragedia del bus precipitato da un viadotto della Napoli-Bari sono semplici abusi della propaganda, e non piuttosto limitazioni del diritto di difesa e, quindi, in ultima analisi, attacchi alla libertà dei cittadini? E soprattutto, cosa c’è di così lontano fra la maliziosa associazione operata, dai media ma anche dai politici, degli avvocati italiani ai mafiosi loro assistiti, con i siluri di Trump all’avvocatura “militarizzata”? Nel secondo caso, c’è solo la differenza, non così decisiva, che anziché confondere i delitti presunti degli imputati con la professione dei loro difensori, si calpestano i diritti dei cittadini attraverso gli ostacoli agli avvocati che quei cittadini difendono. Ma la distinzione fra i due casi è davvero fragile. L’ipocrisia, e la sostanziale violenza consumata sui principi democratici, sono molto simili. L’Avvocatura dunque è, sì, in pericolo nei Paesi scivolati in dittature conclamate. Lo è certamente in contesti come quello turco o nel regime degli ayatollah, in cui le libertà sono apertamente soppresse. Ma l’Avvocatura è in pericolo anche in una grande democrazia come quella degli Stati Uniti d’America. In forme diverse, con effetti e conseguenze meno cruente. Ma il pericolo esiste. E può non essere un caso che a Washington, come a Budapest, per non parlare di Ankara, ci si trovi di fronte ad assetti istituzionali in cui la concentrazione del potere è forte, pur in un quadro di indiscussa (come negli Usa) o almeno formale (come in Turchia) coerenza costituzionale. I sistemi presidenziali possono essere - anche se non lo sono in modo ineluttabile, come dimostra la Francia - più esposti a una limitazione delle prerogative dell’avvocatura? Sembra di sì. La professione forense diventa un ostacolo per chi aspira a un esercizio del potere il meno controllato possibile, a scolorire la democrazia in forme più o meno inquinate di “democratura”. È un allarme diverso dal solito. Nuovo, per diversi aspetti. Risolto con compromessi milionari, almeno per ora. Ma non per questo meno inquietante rispetto al valore per cui l’avvocatura, da sempre e in tutto il mondo, esiste: la libertà dei cittadini. Stati Uniti. L’ultima battaglia di Trump contro l’aristocrazia forense di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 aprile 2025 Culla della democrazia, patria dei diritti e delle libertà. Sono ancora definizioni calzanti, per gli Stati Uniti? Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha subito provocato degli scossoni e spazzato via alcune certezze. In tanti si chiedono se le distanze tra le due sponde dell’Atlantico rimarranno le stesse o saranno sempre maggiori. L’eloquio del tycoon è crudo, aggressivo, al limite dell’abrasività, tanto sui temi interni quanto su quelli che guardano oltre gli oceani. E alle parole stanno seguendo i fatti. Con il ritorno alla Casa Bianca, il presidente americano pare voglia regolare una serie di conti rimasti in sospeso durante i quattro anni di permanenza a Washington di Joe Biden. Ogni volta che The Donald apre bocca sono bacchettate - è un eufemismo - per tutti. Compresi gli avvocati americani. Trump ora sembra non amarli, così come diffida di molti giudici che considera responsabili della propria mancata rielezione di quasi cinque anni fa. Il rapporto con gli avvocati lo possiamo definire di amore-odio. Prima del giuramento solenne come 47° presidente degli Stati Uniti, Trump ha proiettato, alla presenza anche di Giorgia Meloni, nella sontuosa residenza di Mar-a-Lago, il docufilm “The Eastam Dilemma: lawfare or justice”. Un gesto di vicinanza nei confronti di un suo ex avvocato, John Eastman, ingiustamente perseguitato per aver difeso il tycoon e, quindi, per essere stato dalla “parte sbagliata”. L’avvocato è stato radiato dallo Stato della California nel tentativo di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020 con Trump candidato per la seconda volta. A Mar-a-Lago si trovava pure un principe del foro, Alan Dershowitz, che in una intervista al Corriere della Sera ha offerto una chiave di lettura interessante: “Il film riguarda gli abusi della giustizia in tutto il mondo, e ci si muove sempre di più verso quello che chiamo lawfare, termine che ho inventato molti anni fa. È un concetto molto pericoloso, usato da regimi repressivi per anni, Stalin nell’Urss, dittatori sudamericani, Mussolini ovviamente, per servirsi del sistema legale a scopi politici di parte. E ho visto Meloni scuotere la testa più volte. Mi sembra che le sia piaciuto, senz’altro era interessata”. Ora la situazione si è ribaltata. Se qualcuno confidava in un atteggiamento un pochino garantista, si è sbagliato di grosso. A marzo Donald Trump ha iniziato la priopria personale crociata contro l’avvocatura, tanto da suscitare le preoccupazioni dell’American Bar Association (Aba), che ha parlato di attacco allo Stato di diritto. Il primo passo è stato un memorandum per “prevenire gli abusi del sistema legale e della Corte federale”, considerato intimidatorio nei confronti della classe forense, con l’obiettivo di impedire agli avvocati di intentare cause contro l’amministrazione Usa. È di questi giorni la notizia di una serie di ordini esecutivi del presidente americano che prendono di mira alcuni degli studi legali più prestigiosi. Una modalità per intimidire gli oppositori politici, che, oltre a minare lo Stato di diritto, fa temere - per i destinatari di alcuni provvedimenti - una “fuga” della clientela, il calo dei fatturati e, soprattutto, un esercizio del diritto di difesa con minor convinzione. Le “attenzioni” trumpiane hanno interessato le law firms Perkins Coie, Paul Weiss, Wilmer Cutler Pickering Hale and Dorr LLP e Jenner & Block. Un provvedimento che ha interessato Paul Weiss è stato revocato dopo che Trump ha raggiunto un’intesa in base alla quale, tra le varie garanzie, lo studio ha accettato di fornire 40 milioni di dollari in servizi legali pro bono per cause sostenute dall’amministrazione. Altri accordi con l’amministrazione Trump sono stati raggiunti da Covington & Burling e Skadden, Arps, Slate, Meagher & Flom. La scorsa settimana è stato il turno di Willkie Farr & Gallagher. Lo studio legale è stato fondato nel 1888, è tra i dieci più importanti degli Stati Uniti con uffici su tutto il territorio nazionale, a partire da New York, e in altri 15 Paesi (per un totale di 1.200 professionisti). A capo dell’ufficio di Los Angeles c’è Doug Emhoff, marito di Kamala Harris, candidata democratica alle presidenziali dello scorso mese di novembre. La law firm ha raggiunto un accordo con l’amministrazione Trump per destinare almeno 100 milioni di dollari in servizi legali gratuiti a cause che hanno come oggetto, ad esempio, il sostegno ai veterani e la lotta all’antisemitismo. La “pace” è stata annunciata da “The Donald” sul social Truth. Alla base dell’intesa c’è l’impegno dello studio legale a non perseguire intenti dannosi, dentro o fuori i tribunali, per l’amministrazione guidata nuovamente dal tycoon. La Casa Bianca ha riferito che Willkie Farr & Gallagher si impegna a “porre fine alla militarizzazione del sistema giudiziario e della professione legale”. In un passaggio si enfatizza un’espressione che sarà sempre più ricorrente quando si parlerà di giustizia, il “partisan lawfare”, con riferimento all’uso strumentale e fazioso della legge per danneggiare qualcuno. “Il presidente - è scritto nella nota della Casa Bianca - sta mantenendo le sue promesse per sradicare il Partisan Lawfare in America e ripristinare la Libertà e la Giustizia per tutti “. Thomas Cerabino, presidente di Willkie Farr & Gallagher, ha detto che “l’accordo con il presidente Trump e la sua amministrazione riguarda questioni di grande importanza per il nostro studio. La sostanza di tale accordo - ha commentato - è coerente con le opinioni del nostro studio sull’accesso alla rappresentanza legale in favore dei clienti, compresi quelli pro bono, con il nostro impegno a rispettare la legge in relazione alle pratiche che ci riguardano e in riferimento alla nostra storia di collaborazione con clienti con un ampio spettro di opinioni politiche. Lo studio non vede l’ora di avere un rapporto costruttivo con l’amministrazione Trump e continua ad impegnarsi per soddisfare le esigenze dei nostri clienti, dei nostri dipendenti e delle comunità di cui facciamo parte”. Per il momento, dunque, meglio essere acquiescenti con il presidente americano e non sfidarlo. Russia. Dietro le sbarre anche molti avvocati, è l’ora più buia dell’avvocatura di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 aprile 2025 L’aggressione ai danni dell’Ucraina sta impegnando economicamente e militarmente la Russia. I riflessi del conflitto sono ben visibili nel Paese governato da venticinque anni da Vladimir Putin. Dal 24 febbraio 2022 le misure per reprimere il dissenso contro la guerra in Ucraina sono ancora più stringenti. Pensiamo ad alcuni interventi legislativi: l’articolo 207.3 del codice penale sui cosiddetti “falsi militari” è stato inserito frettolosamente nel marzo di tre anni fa. Sono stati tanti i cittadini russi che per aver criticato le forze armate impegnate nell’occupazione del territorio ucraino hanno subito processi farsa, finendo in carcere. Tra questi gli avvocati Alexei Gorinov e Dmitry Talantov. Alexei Gorinov è stato il primo cittadino russo a finire dietro le sbarre per aver contestato le scelte del Cremlino del febbraio 2022. Deve scontare in tutto dieci anni in una colonia penale; la prima condanna inflitta è stata di sette anni alla quale se ne è aggiunta un’altra di tre anni nello scorso autunno (si veda Il Dubbio del 29 novembre 2024). Il motivo di tale accanimento? Aver criticato l’operazione militare speciale, chiamandola con il suo vero nome: guerra. Una parola vietata nella Russia di Putin. L’opinione pubblica è tenuta sotto lo schiaffo e alcune leggi liberticide, che hanno sotterrato le libertà di opinione e di pensiero, servono al boss del Cremlino per avere un controllo pressoché totale sulla società russa ed evitare, per il momento, la nascita di una opposizione politica. Analogo destino per Dmitry Talantov, presidente dell’Ordine degli avvocati della Repubblica dell’Udmurtia, arrestato nel 2022 per aver criticato la guerra di aggressione e condannato a novembre a sette anni di carcere. Talantov ha difeso in passato il giornalista economico Ivan Safronov, accusato a sua volta di alto tradimento, e in alcuni post su Facebook non solo ha commentato alcune anomalie del processo che stava seguendo come difensore, ma ha pure criticato le autorità russe per aver avviato la guerra in Ucraina. Dichiarazioni che gli hanno rovinato la vita. Prima l’arresto, poi l’inizio del processo durato oltre due anni. Sei mesi fa la condanna a sette anni di carcere con l’applicazione dell’articolo 207.3 del codice penale, che punisce i cosiddetti “falsi sull’esercito”. A Talantov è stato assegnato a marzo il “Premio internazionale Ludovic Trarieux”. In questo contesto molto spesso l’avvocato è assimilato al proprio assistito, soprattutto quando si parla di diritti umani e casi giudiziari riguardanti dissidenti. A tal proposito, ricordiamo anche le vicissitudini affrontate dagli avvocati di Alexey Navalny, principale oppositore di Putin. Navalny è morto nella colonia penale di “Polar Wolf” il 16 febbraio 2024. I suoi avvocati, Vadim Kobzev, Alexei Liptser e Igor Sergunin, sono finiti in carcere in nome dell’aberrazione giuridica appena ricordata, che identifica il difensore alla persona difesa. Kobzev sconterà la pena più lunga (5 anni e 5 mesi), Liptser è stato condannato a 5 anni, mentre per Igor Sergunin c’è stato un lieve sconto di pena (dovrà scontare 3 anni e 5 mesi), poiché ha collaborato con l’autorità giudiziaria dichiarandosi colpevole. Poco prima di morire, Alexey Navalny definì l’arresto dei suoi difensori “una punizione per l’eccellente lavoro svolto” e “una intimidazione nei confronti della società e, soprattutto, dell’avvocatura”. Per solidarizzare con Liptser, Kobzev e Sergunin alcuni colleghi tentarono di organizzare uno sciopero nelle aule giudiziarie per sensibilizzare l’avvocatura russa e la comunità internazionale, ma non ottennero risultati significativi. Oltre alle condanne dei tre avvocati, è stato disposto l’arresto in contumacia di altri ex difensori di Navalny nel frattempo fuggiti all’estero, Alexander Fedulov e Olga Mikhailova. L’avvocatura istituzionale russa, rappresentata dalla Camera federale degli avvocati della Federazione russa (l’equivalente del nostro Cnf), non ha mai solidarizzato con i legali perseguitati. Uno degli avvocati più famosi in Russia, Henry Reznik - è vicepresidente della Camera federale -, auspicò, dopo le prime manifestazioni di piazza per protestare contro l’aggressione ai danni dell’Ucraina, trattamenti rispettosi nei confronti dei legali impegnati nell’esercizio del diritto di difesa. Una timida reazione di fronte alla repressione del dissenso diventata sempre più dura. Da quel momento in poi non è stato fatto più alcun commento sui numerosi casi di avvocati arrestati o ostacolati nell’esercizio delle loro funzioni. Il momento triste che sta vivendo la Russia è documentato da un report di Ovd-Info. Il team legale dell’organizzazione che si occupa di diritti umani ha redatto uno studio a tre anni dallo scoppio della guerra in cui si lancia un allarme rivolto alla comunità internazionale. “Il terzo anno di guerra su vasta scala della Russia contro l’Ucraina - si legge nel documento - è accompagnato da una continua repressione politica all’interno del Paese. Nonostante il calo del numero di proteste contro la guerra su larga scala e l’aumento della censura, la pressione sulla società civile, compresi attivisti, avvocati, giornalisti e organizzazioni indipendenti, prosegue incessantemente. Le autorità continuano a utilizzare l’intero arsenale di strumenti repressivi: dai procedimenti penali per i “falsi” sull’esercito russo per screditare le forze armate alle punizioni extragiudiziali, tra cui licenziamenti, pressioni sui parenti dei responsabili delle contestazioni e rifiuto di rilasciare documenti. Inoltre, vengono adottate nuove leggi che ampliano i poteri delle forze di sicurezza e consentono un maggiore controllo sui dissidenti”. Svuotare le piazze e riempire le galere è il metodo imposto da Putin. Il boss del Cremlino ha condotto la Russia in un tunnel, nonostante continui a mostrare al mondo intero i muscoli. Turchia. La guerra di Erdogan agli avvocati mira a smantellare il diritto di difesa di Ezio Menzione* Il Dubbio, 7 aprile 2025 La volontà politica che il governo ha espresso in sede sia penale che civile è chiara: attaccare gli ordini delle grandi città turche. Eravamo al natale 2013 e si apriva il processo contro 18 avvocati progressisti da mesi incarcerati, appartenenti all’organizzazione progressista CHD, accusati genericamente di filoterrorismo per avere difeso, fra i molti altri, anche alcuni terroristi curdi. Il solito paradigma che confonde l’avvocato con l’assistito. Erdogan non era ancora presidente, ma solo premier, ed era ingaggiato in uno scontro politico col presidente in carica Gul sull’abolizione dell’obbligo per le donne di non portare il velo negli uffici e nei luoghi pubblici. Le aspettative di poter entrare in Europa, che avevano comportato, all’inizio degli anni 2000, una riscrittura dei due codici penali, con annessa abolizione della pena di morte, erano ormai tramontate da un quinquennio. Erdogan ostentava se non disprezzo almeno disinteresse per l’ingresso nell’EU, mentre si concentrava sull’area mediorientale e centroasiatica: l’antica area d’elezione del vecchio impero ottomano preAtataurk. Quella ventina di avvocati, rei di avere difeso bene i propri assistiti, vengono poi rilasciati nel marzo successivo, ma il loro permanere in libertà dura poco: entro l’autunno 2017 sono di nuovo in carcere con le stesse accuse di prima, e un pesante quanto generico e privo di elementi probatori, capo di imputazione. Quando il processo viene affidato a una nuova corte, ottengono la rimessione in libertà, ma il beneficio dura solo poche ore: nuovo mandato di cattura e cambio della corte giudicante che convalida i nuovi arresti. Il processo, anzi i processi, perché il primo e il secondo si mescolano in un ne bis in idem inestricabile, durerà fino al 2023, quando tutti questi legali saranno condannati con pene che vanno da tre anni e mezzo a 21, nella maggioranza comunque pene superiori ai 10 anni. Una delle imputate intanto mancava all’appello perché morta a fine agosto 2021: era Ebru Timtik, deceduta per uno sciopero della fame intrapreso e continuato per 238 giorni richiedendo con fermezza e tenacia un giusto processo per se’ e i suoi coimputati. A questi 20 avvocati dell’associazione CHD processati, detenuti e definitivamente condannati, molti altri se ne aggiungono negli anni: talora della stessa CHD, costantemente presa di mira, oppure di un’altra associazione progressista, la OHD; o anche non affiliati ad associazione alcuna, ma rei di essere scomodi per avere difeso posizioni scomode, sia in sede penale che in sede di diritto del lavoro o altro; magari per avere sostenuto di fronte alla CEDU la posizione di ricorrenti contro provvedimenti governativi. Basta scorrere i report di Lawyers for Lawyers e si avrà, anno per anno, le statistiche di quanti avvocati nel paese sono stati imputati, detenuti e condannati: ma non a pene infrabiennali che, a certe condizioni, possono essere sospese anche in Turchia, bensì ad anni ed anni di galera. Sono molte centinaia ogni anno. Colpisce il fatto che numerosissimi di questi siano presidenti o componenti di consigli dell’ordine (quando non consigli interi), specialmente di quelli del territorio sudorientale dell’Anatolia, vale a dire del Kurdistan turco. E ciò al netto di quelli finiti in carcere per il tentato colpo di stato del luglio 2016: la loro supposta appartenenza all’organizzazione gulenista, che avrebbe messo in pratica il coup, li omologa alle migliaia di magistrati, militari o pubblici funzionari che furono ammanettati, riportarono condanne fino all’ergastolo oppure sono ancora detenuti in attesa di giudizio definitivo. È importante porre attenzione a questa pratica governativa di attaccare giudizialmente o anche amministrativamente i consigli dell’ordine perché rivela come, in questi casi, l’obbiettivo del governo non sia mettere a tacere il singolo avvocato per le sue idee politiche di opposizione, ma è la intera magistratura di una regione o di un distretto o di una provincia che si vuole colpire e tacitare. È impossibile o comunque assai raro, infatti, che un consiglio dell’ordine sia, nella sua interezza, all’opposizione e quindi sia considerato in toto “nemico”. Se è l’insieme ad essere attaccato, è lo stesso ordinamento che presiede al diritto di difesa che si vuole attaccare. I consigli vengono fatti così decadere, talora vengono commissariati dal governo per poi passare a nuove elezioni e se si ricompone la stessa maggioranza è certo che prima o poi - più prima che poi - si cercherà di abbattere anche il nuovo consiglio. Così si è proceduto alla incriminazione del presidente del consiglio dell’ordine di Istanbul: un anziano avvocato esponente del maggiore partito di opposizione e difensore sensibile dei diritti civili e politici, il quale, pur eletto solo di recente nell’autunno del 2024, era evidentemente sgradito a Erdogan. Insieme a lui sono stati chiamati in causa anche altri dieci componenti del consiglio (fra cui uno detenuto perché aveva vinto un ricorso davanti alla CEDU per un suo assistito). L’imputazione: avere preso posizione chiedendo un’inchiesta seria e indipendente sull’uccisione di due giornalisti da parte di un drone turco al confine con la Siria. Il processo penale su tale imputazione avrà i tempi non brevi della giustizia turca, ma intanto ciò ha consentito di portare gli 11 legali davanti ad un giudice civile che, su richiesta del procuratore generale, disponesse la loro decadenza da componenti del consiglio e così, numeri alla mano, si procedesse alla elezione di un consiglio nuovo. La decisione, presa in 2 sole udienze ravvicinate e senza raccogliere prove, è fortunatamente appellabile e non immediatamente esecutiva, per cui la battaglia è ancora aperta. Ma la volontà politica che il governo ha espresso in sede sia penale che civile è chiara: attaccare gli ordini, specialmente quelli delle grandi città, che in genere non si allineano con le scelte governative o comunque intendono tutelare prima di tutto il diritto di difesa. Si noti che, in questa chiave, il governo nel 2019 aveva già tentato di colpire tali ordini “disubbidienti”, consentendo che nelle tre maggiori città del paese si creasse un secondo ordine alternativo, purché espresso da almeno 2.000 esercenti la professione (su 65.000 nella sola Istanbul). Un tentativo di procedere ad un secondo consiglio, messo in pratica nel 2021, non diede alcun risultato concreto. Gli avvocati di Istanbul il loro ordine lo vogliono unitario e il loro consiglio se lo tengono caro, anche quando è un po’ più conservatore, come fu quello che precedette l’attuale, in quanto espressione della loro autonomia e libertà. L’intento è chiaro: decapitare l’ordine degli avvocati per togliere loro l’autonomia nell’esercizio del diritto di difesa. Prima si colpivano gli avvocati scomodi, sia singolarmente che a gruppi, oggi si è passati a colpire l’intera categoria e così il diritto di difesa nei suoi presupposti e nella sua interezza. È questa la novità. *Co-responsabile Osservatorio Avvocati Minacciati Ucpi Iran. Nasrin Sotoudeh e la resistenza degli avvocati finiti nel mirino degli Ayatollah di Simona Musco Il Dubbio, 7 aprile 2025 In Iran, difendere i diritti umani è un atto di coraggio estremo. l’avvocata per i diritti umani, simbolo di questa lotta, paga il prezzo della libertà con la sua stessa vita. Difendere i diritti umani in Iran è diventato un atto di eroismo. Chi sceglie di stare dalla parte della giustizia si espone al rischio di persecuzioni, condanne assurde, carcere e persino torture. Gli avvocati e gli attivisti che alzano la voce contro il regime pagano un prezzo altissimo: lunghi anni dietro le sbarre, isolamento, frustate e privazioni. Eppure, nonostante tutto, non si fermano. Il volto di questa resistenza ha un nome: Nasrin Sotoudeh. Un nome che incarna il coraggio, la determinazione e il sacrificio. Da anni, questa avvocata ha dedicato la sua vita alla difesa dei diritti umani, lottando per le donne, i prigionieri politici, i minorenni condannati alla pena di morte. “Per me, rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è un’opzione”, dice ogni volta che il regime la pone davanti alla scelta: piegare la testa o resistere. Per il regime, la sua battaglia per la libertà è una delle minacce più grandi. Nel 2018 è stata condannata a 33 anni e mezzo di carcere e 148 frustate, con accuse infami come “propaganda sovversiva” e “incitamento alla corruzione e alla dissolutezza”. Il suo “reato”? Difendere le donne che si sono tolte il velo in pubblico, sfidando la legge islamica imposta dal 1979. Nasrin ha rinunciato a presentare ricorso contro una sentenza ingiusta e persecutoria, trasformando la sua condanna in una denuncia vivente contro il sistema repressivo iraniano. Ma la sua storia non è un’eccezione. Ma Nasrin Sotoudeh non è sola. Il regime iraniano ha trasformato la professione forense in un campo di battaglia, perseguitando chiunque osi difendere i diritti fondamentali. Decine di avvocati sono stati incarcerati con accuse pretestuose, molti dei quali per aver difeso prigionieri politici, manifestanti, donne vittime di violenza o minoranze perseguitate. Per loro non esiste giustizia, solo processi farsa in tribunali controllati dal regime. Mohammad Najafi, ad esempio, è in carcere dal 2016 con undici condanne a suo carico per aver denunciato abusi sui detenuti. Soheila Hejab sta scontando 18 anni per aver difeso donne vittime di violenza. Arash Keykhosvari è stato arrestato per il suo impegno in favore dell’ambiente. Nasser Sargaran è detenuto dall’ottobre 2023 senza accuse formali, per aver assistito persone con disabilità. Amir Salar Davoodi, membro della Commissione per i diritti umani dell’Ordine forense iraniano, è stato condannato a 30 anni di carcere e 111 frustate per “insulti al Leader supremo” e “propaganda contro il sistema”. Anche gli attivisti culturali e le minoranze etniche sono nel mirino del regime. Mentre gli avvocati vengono incarcerati per aver difeso i diritti umani, scrittori, artisti e difensori della cultura vengono perseguitati per aver difeso la propria identità. Non è sufficiente ridurre al silenzio gli avvocati e gli attivisti: il regime colpisce anche chi li sostiene. Reza Khandan, marito di Nasrin Sotoudeh e attivista contro le leggi sull’hijab obbligatorio, è stato condannato a tre anni e sei mesi di carcere solo per aver creato delle spille contro il velo obbligatorio. Nel 2023, il Parlamento iraniano ha approvato una legge che mette gli Ordini forensi sotto il controllo dello Stato. Ora è il ministero dell’Economia, insieme alla magistratura e al ministero della Giustizia, a decidere chi può esercitare la professione legale, trasformando gli avvocati in meri strumenti del potere. Solo gli avvocati considerati “affidabili” dal regime possono lavorare senza ostacoli, mentre chi difende i diritti umani viene incarcerato o esiliato. Dietro questa repressione c’è un solo uomo: la Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. Concentra nelle sue mani un potere assoluto, controlla la magistratura, le forze di sicurezza e i tribunali rivoluzionari, strumenti con cui schiaccia il dissenso e soffoca ogni speranza di giustizia. Ogni condanna inflitta agli avvocati e agli attivisti è un tassello di un sistema che risponde solo a lui, un regime teocratico che si regge sulla paura e sulla violenza. Una parte dell’Avvocatura iraniana emigrata all’estero ha denunciato la corruzione e il carattere dispotico della Magistratura iraniana, che usa la sicurezza nazionale come pretesto per reprimere ogni forma di dissenso. Ma, nonostante tutto, la resistenza non si spegne. Nasrin Sotoudeh, dalla sua casa o nei periodi in carcere, continua la sua battaglia. Ha intrapreso scioperi della fame, ha denunciato le torture e la corruzione del sistema giudiziario iraniano. Nel 2020, dopo quasi 50 giorni di digiuno per protestare contro le condizioni dei prigionieri politici, è stata ricoverata per un’insufficienza cardiaca. Dopo il ricovero, è stata immediatamente riportata in prigione. Ora si trova in libertà per motivi di salute. Ma si tratta di una libertà a tempo. Perché il suo messaggio è chiaro: il popolo iraniano è destinato a vincere. E la sua voce continua a risuonare nel mondo.