Toghe contro il dl sicurezza: “Messaggio inquietante” di Mario Di Vito Il Manifesto, 6 aprile 2025 Il segretario dell’Anm Maruotti: “Reprimono il dissenso”. Il silenzio dei conservatori. Da Gasparri a Ostellari, la destra carica contro i magistrati: “Non interferite”. Il parlamentino respinge il divieto a partecipare alle iniziative dei partiti. Il blitz del governo sul decreto sicurezza diventa un nuovo capitolo del romanzo dello scontro tra politica e toghe. Con appendice di tensione anche all’interno dell’Associazione nazionale magistrati, che ieri in Cassazione ha svolto il suo comitato direttivo centrale. La sicurezza e le nuove misure varate in fretta e furia dall’esecutivo, scavalcando il parlamento dove pure da mesi giaceva un testo impermeabile a ogni rilievo delle opposizioni, non erano all’ordine del giorno dell’assemblea delle toghe, ma il dibattito è inevitabilmente arrivato anche in quei territori. “È inquietante il messaggio del dl sicurezza, che sembra avere solo un duplice obiettivo: da un lato, creare nella collettività un problema che non esiste, non mi pare che ci sia alcun allarme sociale o alcuna questione emergenziale legata all’ordine pubblico; dall’altro, tentare di porre le basi per la repressione del dissenso”, queste le parole del segretario Rocco Maruotti, esponente di Area democratica per la giustizia. Gli applausi sono arrivati solo dalle altre correnti progressiste, mentre la destra di Magistratura indipendente ha reagito senza fare cenni di approvazione né di disapprovazione. È una prassi consolidata più che una strategia: Mi raramente interviene sul merito delle questioni e gran parte del suo sforzo correntizio riguarda le questioni sindacali. Fedele a questa linea, anche il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, esponente dell’area meno conservatrice di Mi, si è esibito in una notevole prova di equilibrismo quando gli è stato domandato un parere sul tema. “Si tratta di un provvedimento che riguarda moltissimi aspetti e che sarà destinato ad avere il consenso da parte di alcuni cittadini anche molto forte e un forte dissenso da parte di altri - ha detto -. È un documento che non ha mezze misure, nel senso che interviene su alcuni settori di ordine pubblico quindi accontentando un po’ il desiderio di una parte della cittadinanza. Ma è un progetto che per certi aspetti ha misure molto restrittive, punitive quasi e che quindi ovviamente susciterà sentimenti opposti. E credo che porterà a non pochi problemi interpretativi anche applicativi”. Fuori dalla Cassazione, la destra ha attaccato duramente le parole di Maruotti. La batteria di interventi dettati dalle agenzie, dai forzisti Gasparri e Calderone fino al leghista Ostellari, si è mossa sui soliti binari, rilanciando il coro delle “interferenze” e delle “ingerenze” dell’Anm. Da quelle parti, del resto, è convinzione diffusa non solo che la magistratura non debba “fare politica” ma neanche debba in generale aprire bocca se non nelle aule dei tribunali. E magari neanche lì. Il tema della libertà d’espressione dei giudici, peraltro, era il punto più importante all’ordine del giorno del comitato direttivo di ieri. Il parlamentino ha passato la mattinata e buona parte del pomeriggio a discutere una proposta, guarda caso, di Magistratura indipendente secondo cui i magistrati non dovrebbero avere la possibilità di partecipare alle iniziative di partito. La polemica era partita dopo la partecipazione del pm romano Eugenio Albamonte (Area) a un dibattito in una sezione del Pd, con grave scandalo dei giornali vicini al governo. Nessuno, in quella sede, ha ricordato ad esempio che l’ex presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia non molte settimane fa è andato ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, a parlare della riforma della giustizia e nessuno aveva avuto molto a che ridire. Alla fine, comunque, il comitato direttivo centrale ha votato a larga maggioranza (Area, Magistratura democratica, Unicost e Articolo 101) un documento opposto rispetto a quello di Mi. “Non è necessario - si legge nel testo approvato - rivolgere alcun invito ai magistrati ad osservare regole di comportamento già evidentemente esistenti né tanto meno immaginarne ulteriori, né offrire il fianco per disegnare illeciti disciplinari di nuovo conio che vorrebbero impedire anche la mera possibilità di offrire un contributo tecnico sulle riforme in atto”. Questo perché “l’autorevolezza ed il bagaglio di conoscenze di tutti i magistrati non possano essere dispersi e debbano essere messi a disposizione dei cittadini per consentire loro di formarsi un libero pensiero critico sui contenuti e sui temi della giustizia”. Il prossimo 15 aprile la giunta dell’Anm sarà in via Arenula per incontrare il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Sul tavolo ci saranno le proposte già presentate dalle toghe durante l’incontro con Meloni avvenuto a palazzo Chigi a inizio marzo, il trattamento economico dei magistrati in caso di malattia e il recentemente istitutito reato di femmincidio. Resta sospesa la questione delle questioni, e cioè la riforma della separazione delle carriere e dello sdoppiamento del Csm. Non mancheranno occasioni per tornarci sopra. L’Anm si ricompatta sul decreto sicurezza: “Norma inquietante” di Conchita Sannino La Repubblica, 6 aprile 2025 Maruotti: vogliono mettere le basi per reprimere il dissenso. Ostellari: invasione di campo. Lega: critiche sciagurate? L’Anm non abbassa la testa, anzi rincara la dose. E anche la piazza si fa sentire, dopo Roma ieri tocca a Milano. È il giorno dopo l’approvazione del decreto Sicurezza. “Inquietante”, lo stroncano - chi più, chi meno - i vertici dell’associazione nazionale magistrati. Parole messe all’indice dalla destra che imputa loro “l’ennesima sciagurata invasione di campo”. Ma non è l’unico fronte che emerge ieri, dopo la riunione-fiume in Cassazione del comitato direttivo centrale dell’Anm, in cui si decide a maggioranza sia di accettare il prossimo incontro con il ministro Nordio, il 15 aprile; sia di partecipare a “tutti i dibattiti”, anche quelli “promossi dai partiti politici, per portare ovunque il no alla separazione delle carriere. Cesare Parodi, lo stesso presidente dell’Anm, pone un’altra grana, pacatamente, sul tavolo del governo: “Diremo a Nordio che il disegno di legge sul femminicidio è utile in astratto, ma rischia il corto circuito. Perché impone nuovi obblighi, ma non fa i conti con la carenza di magistrati, produrrà un mega ingorgo. Temo che non riuscirà a mantenere ciò che promette in termini di rapidità di misure e di processi”. Ma a tenere banco sono innanzitutto le conseguenze della Sicurezza targata governo Meloni. Che, di punto in bianco, ha cancellato 17 mesi di iter parlamentare e varato il decreto in 25 minuti di Consiglio di ministri: con aumento di reati, inasprimento di pene, tutele legali per forze dell’ordine e militari. Un pacchetto su cui piovono - con sfumature diverse - le forti critiche dell’Anm. “È un provvedimento che manda un messaggio inquietante - è la bocciatura del segretario Rocco Maruotti, di Area, gruppo progressista dell’Anm - Da un lato pone le basi per la repressione del dissenso, dall’altro crea agli occhi della collettività un’emergenza che non esiste, visto che anche da pm non mi pare si rilevi un allarme sociale tale da giustificare i presupposti per un decreto”. Meno severo, ma preoccupato, Parodi, di Mi, la corrente più vicina al governo. “Il provvedimento è senza mezze misure, una parte della popolazione sarà contenta perché si interviene su aspetti di ordine pubblico - concede il presidente - Ma il progetto contiene misure per certi aspetti quasi punitive, molto restrittive. E susciterà sentimenti opposti. In più, porterà a non pochi problemi: interpretativi e applicativi”. Per la Lega, nuove inaccettabili ingerenze. “Siamo di fronte all’ennesimo sciagurato attacco alla politica: i magistrati rispettino l’autonomia di governo e Parlamento”, tuona il vicesegretario Andrea Crippa. Dal Carroccio anche il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Un’altra invasione di campo. I cittadini chiedono sicurezza e tutele, e le toghe non hanno alcun potere di veto”. Ma l’Anm tira dritto. E ritrova l’unità dopo il lungo dibattito, denso di temi, a tratti aspro. Come quando il vicesegretario Stefano Celli, di Md, punge i colleghi di Mi: “Se non volete che si partecipi a incontri con i partiti, perché non dite ad Alfredo Mantovano di lasciare la magistratura mentre fa il sottosegretario a Palazzo Chigi?”. Poi si torna compatti. Prima tappa del viaggio italiano del comitato Anm, in vista della campagna referendaria: a Palermo, prossimo maggio. “Nel nome di Falcone”. L’Anm contro il dl sicurezza: il Comitato direttivo all’attacco, ira del centrodestra di Felice Manti Il Giornale, 6 aprile 2025 L’Anm si spacca sull’incontro con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, dilaniata al suo interno tra le pulsioni correntiste di chi considera il Guardasigilli “uno che ti mette le dita negli occhi”, chi è disposto a sacrificarsi “in nome dei diritti dei migranti” e chi invece, più ragionevolmente, capisce che non è più il momento delle barricate ma non può dirlo. Eppure in mattinata l’atmosfera sembra sulfurea, quando nel corso del suo intervento al Comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe il segretario generale Anm Rocco Maruotti, alla gragnuola di strali contro la riforma della giustizia e la separazione delle carriere tra pm e giudici, ipotizza pesantissime ombre sul Decreto sicurezza, dietro cui si sarebbe “un inquietante messaggio con un duplice obiettivo: creare nella collettività un problema che non esiste e tentare di porre le basi per la repressione del dissenso”. Non una critica più o meno legittima ma una vera e propria invasione di campo, tanto che tocca al leader Anm Cesare Parodi smorzare i toni e ricondurre i distinguo sul provvedimento a possibili “problemi interpretativi e applicativi” perché “molto restrittivo e punitivo” laddove interviene “senza mezze misure” su alcuni settori dell’ordine pubblico, dalle occupazioni alle carceri, “accontentando un po’ il desiderio di una parte della cittadinanza” e rimarcandone alcuni aspetti positivi “come l’attenzione alle truffe per gli anziani”. “Dall’Anm arriva l’ennesimo sciagurato attacco alla politica, si rispetti l’autonomia di governo e Parlamento”, dice il vicesegretario della Lega Andrea Crippa, l’azzurro Maurizio Gasparri si spiega così certe sentenze “buoniste” su ladri e scippatori che vanno contro carabinieri, poliziotti e finanzieri, “l’Anm disprezza il desiderio di sicurezza dei cittadini” mentre il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari bacchetta chi “sottovaluta le istanze sociali senza proporre soluzioni”. D’altronde, impossibile non vedere il problema sicurezza viste le periferie farcite di clandestini. Alle piccate e doverose repliche del centrodestra, che vagheggia possibili procedimenti disciplinari l’Anm si nasconde dietro la legittima necessità di “offrire un contributo tecnico sulle riforme in atto, in nome del pluralismo delle idee ha sempre contribuito a realizzare i valori del nostro ordinamento democratico”. Nei giorni scorsi un altro pesantissimo affondo era arrivato dalla presidente di Magistratura democratica Silvia Albano, che aveva accusato il governo in materia di immigrazione di non agire nei limiti della legalità. “Chi è eletto non può fare come vuole: ci sono diritti fondamentali che sono inviolabili, e la magistratura sta lì a garantirli”, aveva detto il magistrato che siede nella Corte d’Appello di Roma e autrice di una delle sentenze che ha vanificato gli effetti del Protocollo Albania nella lotta all’immigrazione clandestina. Un tema, quella della difesa dei migranti “in nome di tutti” destinato a essere travolto dalla nuova legislazione europea in tema di rimpatri e respingimenti alla frontiera, in nome di un diritto Ue diverso rispetto al 2013 e contro il quale per la giurisprudenza più ideologica non ci sono margini. Sul tavolo del 15 aprile ci saranno gli otto punti già concordati con il premier Giorgia Meloni ma anche la questione della malattia dei magistrati e le ricadute della legge sul femminicidio, nel corso della riunione del Comitato direttivo centrale si è discusso per valutare se vi fossero o meno le condizioni per un vertice con il titolare di via Arenula e alla fine si è votato favorevolmente, con 11 astenuti e nessun contrario. Non andare sarebbe stato “un regalo enorme sul piano della comunicazione, questo regalo non glielo voglio fare”, ha detto Parodi. Via libera alle toghe che “fanno campagna” coi partiti: l’Anm abbatte il tabù (a maggioranza) di Valentina Stella Il Dubbio, 6 aprile 2025 Si spacca il “parlamentino”: la corrente moderata Magistratura Indipendente aveva presentato una mozione in senso contrario. L’Anm si divide sulla “regolamentazione della partecipazione dei magistrati alle iniziative organizzate dai partiti politici”. A prevalere, alla fine, è il fronte formato dalle correnti progressiste AreaDg e Magistratura democratica insieme con la “centrista” Unicost e Articolo CentoUno favorevole senza se e senza ma agli interventi in qualsiasi tipo di consenso. Minoritaria dunque la posizione di Magistratura indipendente, che aveva chiesto di inserire il tema all’ordine del giorno del Comitato direttivo centrale dell’Anm, il cosiddetto “parlamentino”, in corso a Roma: il gruppo “di centrodestra”, da cui proviene il neopresidente dell’Associazione magistrati Cesare Parodi, era propenso ad un self-restraint dei colleghi. Secondo Gerardo Giuliano “la magistratura deve essere più vicina ai cittadini e ai lavoratori del settore giustizia e più lontana dai partiti politici, sia che si tratti del Pd sia che si tratti di Fratelli d’Italia. Non vogliamo essere tacciati di collateralismo. Frequentiamo meno i circoli di partito e di più, ad esempio, i sindacati di polizia giudiziaria e il personale amministrativo”. L’esponente di “Mi” vuole evitare strumentalizzazioni e puntare il dito contro qualche collega in particolare. Ma da settimane nelle chat delle toghe non si fa che commentare due episodi. Primo: la partecipazione dell’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte a un dibattito, organizzato da un circolo romano del Pd, insieme con la responsabile Giustizia dem Debora Serracchiani sulla separazione delle carriere. Secondo “caso”, un’iniziativa del partito di Giorgia Meloni , organizzata a fine marzo a Napoli e incentrata proprio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario: erano previsti gli interventi dei magistrati Giuseppe Cioffi e Luigi Bobbio che alla fine, senza spiegazioni, hanno dato buca. Gerardo Giuliano aveva poi presentato, per “Mi”, un documento in cui si leggeva: “L’Anm auspica che i colleghi declinino l’invito a partecipare ad eventi organizzati in via esclusiva da partiti politici. La partecipazione a siffatti incontri danneggia l’immagine della magistratura tutta davanti all’opinione pubblica. Chiaramente l’Anm non mancherà di esprimere la propria posizione in convegni, incontri con la cittadinanza ed in eventi organizzati dai gruppi parlamentari, nazionali o regionali, ai quali è opportuno che partecipino magistrati che ricoprono ruoli nell’ambito dell’Anm o delegati”. A dare manforte al collega è intervenuto Stefano Ammendola: “È riprovevole” per un magistrato “andare in un circolo di partito: come disse Rosario Livatino ‘Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili’”. Il tema è tra quelli più caldi della discussione del parlamentino dell’Anm: la questione, benché posta come primo punto dell’odg, viene congelata all’inizio della mattinata. I gruppi si riuniscono nei corridoi del Palazzaccio per tentare di arrivare ad una mozione unitaria. Nulla da fare: alla ripresa dei lavori si presentano spaccati dinanzi al Cdc. Passa a maggioranza la linea delle toghe progressiste - Area, Md - insieme anche ai centristi di Unicost e agli indipendenti dei CentoUno. Nel loro documento, invece, viene richiamata più volte la Corte Costituzionale, in particolare le sentenze n. 224/2009 e n. 170/2018 in cui la Consulta “è tornata ad affermare che il cittadino-magistrato gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. L’esercizio di questi ultimi diritti gli consente di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica”. Viene poi richiamato il codice etico dell’Associazione: “Il magistrato garantisce e difende, all’esterno e all’interno dell’ordine giudiziario, l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza. Evita qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici o affaristici che possano condizionare l’esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l’immagine. Non accetta incarichi né espleta attività che ostacolino il pieno e corretto svolgimento della propria funzione o che per la natura, la fonte e le modalità del conferimento, possano comunque condizionarne l’indipendenza” ed ancora all’art. 9, ove si prevede che “il magistrato assicura inoltre che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita”. La conclusione a cui si giunge è che dunque “non è necessario rivolgere alcun invito ai magistrati ad osservare regole di comportamento già evidentemente esistenti né tanto meno immaginarne ulteriori, né offrire il fianco per disegnare illeciti disciplinari di nuovo conio che vorrebbero impedire anche la mera possibilità di offrire un contributo tecnico sulle riforme in atto”. Negli interventi dei favorevoli alla mozione di maggioranza è poi emersa la necessità di non potersi tirare indietro proprio in questo momento: bisogna poter occupare tutti gli spazi di discussione se si vuole vincere il referendum promosso dal governo e in primis dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Al termine del dibattito è giunta la critica di Stefano Celli, di Magistratura Democratica: “credo che oggi il gruppo di Mi si sia presa la responsabilità di dividere, seppur in minoranza l’Anm. Ne prendo atto con rammarico. Capisco che uno tenga a certi punti però nel momento in cui c’è un bene più grande da preservare si rinvia la battaglia per quel punto a quando le acque saranno più tranquille”. Il bene superiore è quello dell’unitarietà dell’Anm, la sua compattezza nel momento in cui va affrontata la campagna referendaria, durante la quale non si può, a detta della maggioranza dell’Anm, offrire alla politica un pretesto per spaccare il fronte della magistratura, indebolire dinanzi ai cittadini, accusarla di essere politicizzata agli occhi degli elettori. Celli ha poi concluso con un riferimento all’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “un collega che faceva notoriamente parte di Mi - e mi riferisco all’onorevole Mantovano - dopo essere stato in Parlamento provenendo dai ranghi della magistratura è tornato in Puglia e ha fatto per anni il responsabile politico di Alleanza Nazionale. E poi è tornato a fare il magistrato ed è andato anche in Cassazione e nessuno ci ha trovato niente da ridire e io non ci trova nulla da ridire, però cari amici di Mi voi avreste dovuto trovare qualcosa da ridire e dovevate dire ‘vattenè e invece ho controllato: Mantovano Alfredo risulta in aspettativa fuori-ruolo, quindi è ancora magistrato Per me il problema non c’è, il problema è per voi ed è di coerenza”. Giustizia, quando e perché l’avvocato difensore può rimettere il mandato di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2025 Il rapporto fra difensore e difeso ha natura negoziale e fiduciaria. Ciò significa che ciascuno è libero in qualunque momento di farlo cessare. È diventata una notizia il fatto che il difensore di una persona arrestata con l’accusa di avere ucciso una ragazza ha comunicato che intende rinunciare al mandato, dopo avere assistito il proprio cliente durante l’udienza di convalida e l’interrogatorio di garanzia. Qualche giornale ha affiancato nel titolo il dato della confessione del ragazzo con quello dell’abbandono della difesa da parte del legale. Questo accostamento ha prodotto una ridda di commenti sui social network da parte di chi applaudiva la scelta dell’avvocato di lasciare l’incarico, interpretandola come una presa di distanza dal fatto di reato o addirittura come una censura sulla persona del proprio cliente, come a dire: “rinuncio al mandato perché chi ha commesso un fatto talmente odioso non merita di essere difeso”. Naturalmente, le cose non stanno così. Come pure è stato da pochi precisato, il legale incaricato dalla famiglia ha deciso di non seguire più la vicenda, stando a quanto si è compreso, perché è un civilista e quindi è specializzato in una materia diversa da quella di cui si tratta, ovvero quella penale. D’altra parte, vale a questo punto forse la pena puntualizzare un principio e qualche regola. Anzitutto la obbligatoria presenza nel processo penale di una difesa tecnica per l’imputato. Nel corso dei processi alle Brigate Rosse ai difensori era revocato il mandato, con la minaccia a quelli nominati d’ufficio di non assumere la difesa. Il gesto aveva un significato politico: il rifiuto di sottoporsi alla giustizia di uno Stato la cui autorità i terroristi non riconoscevano. La Corte costituzionale ritenne che la presenza del difensore fosse non soltanto un diritto per la persona accusata, ma anche uno strumento per garantire il buon funzionamento di un meccanismo complicato come il processo penale, effetto che è di interesse generale. Il presidente dell’ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce, assunse la difesa d’ufficio di molti e per questo fu ucciso. Il rapporto fra difensore e difeso, invece, ha natura negoziale e fiduciaria. Ciò significa che ciascuno è libero in qualunque momento di farlo cessare. Più precisamente, il difensore di fiducia può non accettare o rinunciare al mandato anche senza una “giusta causa”. Quello d’ufficio, invece - indicato dallo Stato tra coloro che sono iscritti in appositi elenchi, quando la parte non vi ha provveduto - ha l’obbligo di prestare la propria assistenza e può essere sostituito solo per giustificato motivo. La libertà che contraddistingue l’attività professionale, tuttavia, “figlia” della indipendenza del professionista, non deve pregiudicare il buon funzionamento del processo e deve limitare al massimo le proprie conseguenze eventualmente negative sul cliente. Per questa ragione, ad esempio, la non accettazione dell’incarico produce effetti non appena comunicata all’assistito e all’autorità giudiziaria, mentre la rinuncia al mandato non fa venire meno l’obbligo della prestazione professionale finché non ne è nominato un altro di fiducia o d’ufficio. È preciso dovere deontologico, poi, quello di assumere soltanto incarichi per cui si dispone di un bagaglio professionale adeguato. Non stupisce, quindi, la rinuncia al mandato da parte di chi non ritiene di possedere una formazione nella materia oggetto della causa. Insomma, per tornare al fatto di cronaca, non è mai un giudizio negativo sul fatto di cui è accusato il cliente a determinare la rinuncia al mandato o il suo rifiuto. L’avvocato è chiamato a curare gli interessi del proprio cliente usando gli strumenti della logica e del diritto; non è un fiancheggiatore che condiziona la propria opera alla intima adesione al fatto commesso dall’imputato. Se la sua sensibilità è urtata dalla condotta di cui si dovrebbe occupare, l’avvocato fa bene a non assumere la difesa, non perché il cliente non la merita, ma perché, viceversa, non merita un legale che lasciasse condizionare la propria prestazione professionale dalla emotività. Un altro cambio di difensore ha fatto poi notizia in questi giorni. Un ministro della Repubblica, infatti, ha nominato a processo in corso un secondo penalista, proprio in prossimità dell’udienza. E questi ha chiesto e ottenuto un rinvio per prendere conoscenza degli atti e svolgere il proprio compito in modo consapevole e bene informato. A prescindere dalla specificità del caso, si tratta di accadimenti piuttosto frequenti nelle aule di giustizia. Di regola, una richiesta di rinvio viene accettata, tranne qualora sia assente qualunque menomazione all’esercizio effettivo del diritto di difesa e se sorge quindi il sospetto che cambi di difensore siano condotte meramente dilatorie per ritardare la celebrazione del processo. Ma ciò lo può comprendere solo il giudice del caso, certo non i due scrivani di queste poche righe. Detenuto malato tenta 18 volte il suicidio, Italia condannata dalla Cedu di Manuela D’Alessandro agi.it, 6 aprile 2025 Simone, detenuto di 28 anni, tossicodipendente con ritardo mentale, affetto da un disturbo della personalità per il quale è in cura dall’infanzia e riceve una pensione di invalidità, ha tentato 18 volte di suicidarsi, anche tramite impiccagione, tra il 2016 e il 2022 e ha compiuto “atti di automutilazione almeno 45 volte”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nei giorni scorsi ha condannato, su istanza degli avvocati milanesi Antonella Calcaterra, Antonella Mascia e Davide Galliani, lo Stato italiano a risarcirgli 9mila euro di danni non patrimoniali per la “mancanza di un adeguato trattamento medico e di una presa in carico da parte delle autorità competenti nonostante la gravità accertata dei suoi disturbi psichiatrici”. La Corte ha inoltre accertato la violazione del diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6 della Convenzione, a causa della mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento di Simone in una struttura penitenziaria più adatta alle sue condizioni. Dai diari clinici del carcere risulta che, in occasione dei tentativi di suicidio e di automutilazione, Simone “viene generalmente descritto come in uno stato di grande agitazione, confusione o sconforto e, a volte, gli atti coincidono con le sue richieste di cambiare cella o carcere, di avere farmaci o col semplice rifiuto di seguire le istruzioni del personale carcerario”. Dopo questi eventi, “viene generalmente trasferito in una ‘cella liscia’ (senza oggetti) per periodi non specificati o, per lo meno, privato di oggetti pericolosi e sottoposto a stretta sorveglianza”. Tra le diverse pronunce dei tribunali di Sorveglianza delle carceri in cui è stato recluso (in Sardegna e ora a Torino) e ai quali sono state richieste misure alternative alla cella, ce n’è una di quello di Sassari secondo il quale “il disagio e gli atti di automutilazione del ricorrente sono probabilmente causati dal suo rifiuto di assumere i farmaci prescritti ma non è possibile stabilire se tale rifiuto sia finalizzato a ottenere una misura alternativa alla detenzione o se fosse semplicemente espressione di una patologia psichiatrica”. Lo stato di salute è stato quindi sempre dichiarato compatibile col carcere. “Non è contestato che il ricorrente soffra di gravi disturbi mentali - scrivono i giudici della Cedu nelle conclusioni -. Sebbene le relazioni mediche rilasciate dai servizi carcerari concludessero, per la maggior parte, che egli potesse essere curato in carcere, una serie di fattori ha sollevato seri dubbi al riguardo. Gli stessi tribunali nazionali hanno espresso dubbi sul fatto che potesse essere curato. Questi dubbi erano corroborati dai numerosi atti di automutilazione e dai tentativi di suicidio del ricorrente. Certo, questi gesti a volte coincidevano con richieste da parte sua; ciò non toglie che testimoniassero un significativo malessere del ricorrente che, lungi dal diminuire in seguito al suo graduale adattamento all’ambiente carcerario, sembrava al contrario aggravarsi con il passare del tempo”. Per questo, “alla luce dei numerosi fattori che sollevano dubbi sulla compatibilità del suo disturbo mentale con la detenzione, la Corte ritiene che le autorità nazionali avrebbero dovuto esaminare la questione con particolare rigore in considerazione della vulnerabilità del ricorrente in quanto detenuto affetto da disturbo mentale. Avrebbero quindi dovuto esaminare in modo approfondito - se necessario attraverso una nuova perizia medica - la possibilità di mantenerlo in carcere e di fornirgli cure adeguate in tale ambiente”. “Il caso di Simone è anche un fallimento nostro, di un sistema che non riesce a dare una prospettiva di vita diversa a un ragazzo problematico che non sia il carcere” è il commento dell’avvocata Calcaterra. Reggio Emilia. Carcere, detenuto picchiato: “Sentenza preoccupante” di Francesca Chilloni Il Resto del Carlino, 6 aprile 2025 L’associazione Yairaiha sulla decisione per i dieci agenti di polizia penitenziaria “Tenere incappucciato qualcuno che è in posizione di vulnerabilità è disumano”. L’Associazione Yairaiha esprime “profonda preoccupazione per la sentenza del Tribunale di Reggio, che ha escluso la configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto incappucciato e picchiato mentre si trovava in una posizione di totale vulnerabilità”. Il riferimento è al processo nei confronti di dieci agenti penitenziari del carcere di via Settembrini, condannati per il pestaggio di un detenuto tunisino di 41 anni avvenuto ad aprile del 2023, che è stato filmato anche delle telecamere interne del carcere. Agli agenti non sono stati riconosciuti i reati di tortura e di lesioni. La pena più alta è stata di due anni, contro i quasi sei chiesti dal pubblico ministero Maria Rita Pantani. “Privare una persona della vista, del respiro e della capacità di orientarsi non è una semplice irregolarità procedurale - considera l’associazione - si tratta di un atto disumanizzante, pensato per annullare psicologicamente il soggetto”. Nel caso del detenuto reggiano, “le violenze non si limitano all’incappucciamento - prosegue -. È stato inizialmente fatto cadere con uno sgambetto, colpito con schiaffi e calci, e sottoposto a costrizioni fisiche, tra cui la torsione del braccio e il sollevamento di peso dopo essere stato spogliato. Poi è stato trascinato nella cella di isolamento, dove è stato colpito di nuovo con pugni e calci, questa volta mentre si trovava nudo dalla vita in giù. È rimasto in questa condizione per oltre un’ora, visibilmente sanguinante a seguito di atti autolesivi e senza ricevere assistenza sanitaria. Il tutto giustificato dal sospetto, mai confermato, che potesse possedere delle lamette”. La sentenza, pur riconoscendo l’incappucciamento come una misura non autorizzata, “sottovaluta gravemente l’impatto psicologico e fisico” di tale atto. “Riteniamo che il riconoscimento della tortura non debba essere limitato a forme estreme o spettacolari di violenza. Anche un singolo gesto, in un contesto di totale assoggettamento, può costituire tortura se lesivo della dignità e dell’integrità psicofisica di una persona”. Il rischio è quello “di legittimare pratiche disumanizzanti sotto l’ombrello dell’esecuzione del servizio” conclude l’associazione. Vasto (Ch). Suicidio Trotta, il 25 giugno la sentenza sulla morte in carcere dello psichiatra di Paola Calvano ilnuovoonline.it, 6 aprile 2025 Il prossimo 25 giugno, dopo la requisitoria del pm e le arringhe dei difensori, è attesa la sentenza per l’agente di custodia Antonio Caiazza, al quale viene contestato l’omicidio colposo e la violazione dell’Articolo 40 del Codice Penale e di norme in materia di prevenzione di suicidi oltreché di sorveglianza dei detenuti nella sezione in cui si trovava Trotta. Sarà una lunga udienza e la sentenza è prevista nel tardo pomeriggio. Caiazza è difeso dagli avvocati Arnaldo Tascione e Marisa Berarducci, mentre il fratello e i genitori di Trotta sono assistiti dall’avvocato Ernesto Torino Rodriguez. Stiamo parlando del suicidio in carcere del noto psichiatra pescarese Sabatino Trotta avvenuto il 7 aprile del 2021, nel giorno del suo arresto nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Pescara su presunte tangenti legate a una Cooperativa di Lanciano per una serie di appalti con la Asl. Due giorni fa, al cospetto del giudice monocratico, Stefania Izzi, sono stati ascoltati l’infermiera che il giorno dell’arresto dello psichiatra aveva somministrato al medico le terapie richieste e il dottor Francesco Paolo Saraceni, responsabile e coordinatore dello staff medico della medicina penitenziaria del carcere di Torre Sinello. Entrambi hanno dichiarato che Trotta quel giorno appariva sereno. Nulla fece presagire che avesse deciso di suicidarsi. Non ne sono convinti i due consulenti medici parti civili Adriano Tagliabracci e Vittorio Fineschi, ascoltati nell’udienza precedente. Per loro è mancato qualcosa. Entrambi hanno posto in evidenza l’assoluta assenza di controllo del detenuto durante la permanenza all’interno della cella. Nella loro perizia hanno specificato che lo psichiatra pescarese ha impiegato 20 minuti per morire a seguito dell’impiccamento. “Se si fosse intervenuti in quel lasso temporale non è escluso che il detenuto avrebbe potuto essere salvato”. L’escussione dei testimoni è finita. La discussione, prima fissata al 23 aprile 2025 è stata spostata al 25 giugno alle ore 15. Padova. “Cella troppo stretta”. Fa causa al Due Palazzi e la vince di Roberta Polese Corriere del Veneto, 6 aprile 2025 Massimo La Bua, padovano di 62 anni, famoso per le truffe e i raggiri con le auto di lusso, ma anche per una rapina molto violenta, ora potrebbe diventare celebre per aver ottenuto giustizia anche in nome di molti detenuti. La Bua ha infatti vinto un ricorso in Cassazione contro il tribunale di Sorveglianza che gli ha negato un risarcimento per detenzione “inumana e degradante” nel carcere di Padova nel quale si è trovato ad espiare una delle sue pene tra il 28 agosto 2021 e il 15 dicembre del 2022. La Bua, che era finito anche nella trasmissione Striscia La Notizia, aveva rilevato che mentre si trovava al Due Palazzi, la cella in cui si era trovato detenuto con un altro carcerato, formalmente ampia 9 metri quadrati, era in realtà più piccola perché nella stanza c’erano anche due letti. Tolto l’ingombro dei letti, i 5.90 metri quadrati a disposizione non sono sufficienti a garantire lo spazio vitale e di movimento di tre metri quadrati che dovrebbero essere garantiti non solo dall’ordinamento giuridico italiano ma anche dalle norme comunitarie. Il tribunale di Sorveglianza ha respinto due volte le istanze di La Bua, sostenendo che i detenuti avrebbero potuto mettere un letto sopra l’altro, in modo da garantirsi più spazio di movimento. Negata ogni possibilità di avere il risarcimento chiesto, La Bua è ricorso in Cassazione, e gli Ermellini gli hanno dato ragione, disponendo un nuovo giudizio per lui presso il tribunale di sorveglianza di Venezia “che dovrà valutare l’eventuale esistenza dei fattori compensativi che comportino la possibilità di superare la forte presunzione di violazione dell’articolo 3 della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) che deriva dalla costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a 3 metri quadrati in una cella collettiva”. I giudici della Suprema Corte infatti hanno fatto riferimento a un pronunciamento delle sezioni unite del 2020, che ha fissato il principio generale secondo cui nel calcolo dello spazio individuale minimo deve essere considerata soltanto la superficie che assicura il normale movimento nella cella. “La superficie utile a scongiurare il rischio di trattamenti violativi dell’articolo 3 della Cedu è quella direttamente o agevolmente funzionale alla libertà di movimento del recluso all’interno della cella: è la superficie libera, perché non altrimenti occupata, ed agevolmente calpestabile”. È vero che la superficie del letto singolo è usufruibile per il riposo e l’attività sedentaria, ma non lo è per il movimento. E i letti nelle celle, fa notare la Cassazione, non si possono muovere a piacimento. La parola passa ora al tribunale di Sorveglianza di Venezia. Se la Bua dovesse spuntarla potrebbe prendere 8 euro di risarcimento per ogni giorno di detenzione in condizioni inumane, moltiplicato per 474 giorni, danno circa 3.792 euro. E altri detenuti potrebbero seguire il suo esempio. Verona. Carcere e lavoro, la “seconda chance” che ha convinto sindacatogiornalistiveneto.it, 6 aprile 2025 Carcere e lavoro, un appuntamento voluto da Ateneo Veneto e condiviso dal Sindacato giornalisti Veneto, cui ha partecipato, tra gli altri il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. L’incontro, che si è svolto a Verona ha avuto anche l’adesione del Comune scaligero. Davanti a un folto pubblico si è parlato della legge Smuraglia, introdotta nel 2001, che promuove il lavoro come strumento di riabilitazione, permettendo ai detenuti di acquisire una nuova opportunità di vita una volta scontata la pena. All’evento ha partecipato l’associazione Seconda Chance, che ha come obiettivo quello di dare una nuova prospettiva a chi si è trovato in difficoltà, offrendo formazione professionale e opportunità lavorative per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. E sia la presidente nazionale Flavia Filippi che la sua referente per il Triveneto Giovanna Pastega, entrambe giornaliste, hanno evidenziato quanto sia importante dare lavoro ai detenuti e veicolare una informazione corretta. Al riguardo, a breve partirà un accordo già siglato con la nota catena di fast food McDonald’s: “Tutti possono assumere un detenuto”, ha detto Filippi, “tre mesi, poi se non va bene, non se ne fa niente. Non ci sono legami definitivi, non si deve aver paura di dare una seconda chance”. La legge Smuraglia è poco conosciuta, ma è “un’opportunità per le aziende e non è beneficenza”, come ha sottolineato Ostellari che ha ribadito come avere un lavoro impedisca recidive, considerato che il 70% dei detenuti entrano in carcere per la seconda volta. Il sottosegretario ha citato ad esempio Bollate, Opera, Due Palazzi, dove grazie al lavoro è diminuita la conflittualità. La legge Smuraglia, finanziata ancora dal governo (ha un avanzo di tre milioni), consente ai detenuti di svolgere lavori dentro e fuori le strutture carcerarie, con l’intento di riabilitarli e prepararli ad affrontare la vita al di fuori del carcere una volta che la pena sia scontata. Secondo questa legge, infatti, il lavoro rappresenta uno dei principali strumenti per la rieducazione e il reinserimento sociale delle persone che hanno commesso reati, dando loro appunto una “seconda chance” di redimersi. L’occasione formativa si è chiusa con una tavola rotonda tra i rappresentanti delle varie categorie: Confindutria, Confartigianato, Ance, Confcommercio. Da più parti è stato ribadito come si dovrebbero far coincidere le necessità dei due mondi, quello carcerario e quello “fuori”: orari di lavoro compatibili con i rientri in carcere, possibilità di trasferimenti agevoli per chi dal carcere va al lavoro. Ma anche lavoro in carcere, a Montorio veronese, per esempio ci sono grandi capannoni che possono essere utilizzati dalle aziende a costo zero che potrebbero impiegare personale detenuto, per dare così modo, una volta espiata la pena di essere formati. Tra i relatori Rosella Santoro, provveditrice regionale del Veneto-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige, Lina Di Domenico, capo dipartimento organizzazione penitenziaria, Carlo Trestini, presidente Ance Verona, Daniele Minotto, vicedirettore Associazione Veneziana Albergatori, Giorgia Speri, segretaria provinciale Confartigianato Imprese Verona, Liana Laiti, referente ufficio Affari Speciali Confindustria Verona, Alessandro Tapparini per Federalberghi Verona, Paolo Artelio, presidente Fipe Confcommercio Verona, tutti moderati da Antonella Magaraggia presidente Ateneo Veneto. A portare i saluti di sgv, la consigliera Alessandra Vaccari. Roma. “Non dimenticherò mai l’abbraccio di suor Paola quando il mondo mi voltò le spalle” di Gianni Alemanno Il Dubbio, 6 aprile 2025 L’impegno negli istituti di pena, tra gli ultimi, e le iniziative di solidarietà a Roma: il ricordo di Gianni Alemanno. “Suor Paola non apparteneva certo a quella categoria di opportunisti che ti esaltano quando sei potente e ti abbandonano discretamente quando sei in disgrazia”. Suor Paola è morta, questa dolorosa notizia è rimbalzata anche nelle nostre celle, coinvolgendo non solo laziali ma anche tanti romanisti. Ma fa un po’ impressione che i giornali riportino questa notizia nelle pagine sportive, rimandando all’intensa tifoseria sportiva che ha caratterizzato questa donna eccezionale. Certo, questo è quello che l’ha fatta conoscere al grande pubblico, rendendola un “personaggio mediatico”, ma per Lei è stata la leva per lanciare una grande attività sociale e una sincera opera di evangelizzazione. Lo disse con la sua consueta franchezza: “lo ho pensato che (andare in televisione a parlare di calcio) potesse essere una porta aperta per far crescere progetti di volontariato”. Perché Suor Paola è stata la fondatrice e la guida della So.Spe (Solidarietà e Speranza), un’organizzazione di volontariato fondata nel 1998 che ha aperto - letteralmente lavorando con le sue mani, raccogliendo i finanziamenti senza sussidi pubblici - centri di solidarietà e di accoglienza dove, nel corso degli anni, hanno trovato rifugio donne maltrattate con i loro bambini, immigrati, anziani, padri separati e persone senza fissa dimora. Perché Suor Paola, insieme a Padre Vittorio, è stata un sostegno e una guida spirituale per i detenuti di Regina Coeli. Perché Suor Paola ha promosso centinaia di tour di solidarietà nelle periferie romane portando generi alimentari e aiuti materiali agli indigenti, organizzando ogni anno il più affollato spettacolo di solidarietà - quasi sempre condotto dal suo amico interista Paolo Bonolis - della nostra Capitale. E, per quasi quindici anni, seduto in prima fila al suo fianco c’ero io. Non solo quando ero Sindaco - e la potevo aiutare (come avevano fatto prima di me i miei predecessori Rutelli e Veltroni) ad aprire i suoi centri di solidarietà nella Città - ma anche quando non avevo nessuna carica istituzionale e, ancor di più, quando era cominciato il lungo calvario giudiziario che mi ha portato in questa cella di Rebibbia. Capite? Io ero accusato delle cose più gravi e assurde, quelle da cui sono stato prosciolto o assolto molti anni dopo, ma proprio per questo Lei mi voleva al suo fianco, mentre magari dall’altro lato c’erano Maria Elena Boschi, o Carlo Calenda o qualche assessore del Partito Democratico. Insomma, Suor Paola non apparteneva certo a quella categoria di opportunisti che ti esaltano (magari anche con qualche finalità positiva) quando sei potente e ti abbandonano discretamente quando sei in disgrazia. Non è certo un caso che sono stato nelle sue strutture, quando ho voluto o dovuto fare volontariato sociale. Ma ancora non ho detto tutto, anzi ho detto pochissimo. Suor Paola sprigionava nella sua massima intensità quel carisma cristiano che porta gli umili a diventare forti, i semplici a sfidare i dotti e i potenti. Ti guardava in faccia e ti chiedeva, ogni giorno, cosa stavi facendo per essere una persona umana degna di questo nome. Te lo chiedeva anche senza parlare, semplicemente guardandoti in faccia, ed eri “costretto” a rimboccarti le maniche per metterti a costruire o a lottare. Poi scoppiava a ridere come una bambina dispettosa, perché il suo Cristianesimo non è mai stato un cristianesimo triste, nei talk show televisivi come in mezzo ai drammi dell’umanità. Con lei la retorica buonista e melensa non attaccava, contavano solo i fatti e la gioia di vivere in mezzo alla gente. Quindi Suor Paola, al secolo Rita D’Auria, ragazza calabrese diventata suora a vent’anni contro la volontà della famiglia, morta esattamente nel ventennale di San Giovanni Paolo II di cui era una granitica seguace, è una Santa. Non solo sui campi di calcio, ma nelle carceri e per tutta Roma. Ieri glielo dicevo fingendo di scherzare, oggi ne sono assolutamente sicuro. Il suo sguardo non ha cessato di trafiggermi. Padova. “Il teatro mi ha dato l’opportunità per cercare la mia umanità” di Claudia Maria Iannello ilsussidiario.net, 6 aprile 2025 Donato Bilancia, il famoso serial killer dei treni, si è trovato ad affrontare qualcosa di inaspettato tra le mura del carcere di Padova: il teatro, un’esperienza profondamente formativa che, anche se provata nella solitudine della sua desolante condizione di detenuto, gli ha permesso di realizzare un doloroso ma importante tentativo di riscatto personale. Donato Bilancia, condannato per diciassette omicidi commessi con una freddezza agghiacciante e spaventosa, sembrava un uomo profondamente turbato dalla sua stessa ferocia, ma nel laboratorio teatrale diretto dalla regista Cinzia Zanellato nel 2017, sembra che qualcosa in lui si sia improvvisamente trasformato: come racconta la stessa Zanellato, l’ingresso di Donato Bilancia nel gruppo non fu per niente una scelta facile da fare, tanto che la regista dichiara che le venne chiesto esplicitamente di non diffondere la sua partecipazione nel laboratorio, in quanto il clamore che ne sarebbe scaturito avrebbe potuto determinare danni inevitabili al lavoro del resto dei protagonisti. Quello del carcere è un contesto particolare quanto surreale, dove ogni attore - innocente o colpevole che sia - ha l’opportunità di sperimentare ed esplorare nuove forme di comunicazione, di espressione, e forse di autopercezione. Donato Bilancia, che tra il 1997 e il 1998 scatenò il panico in Liguria con una lunga scia di omicidi dalla spaventosa brutalità, si trovava nel pieno di un percorso di rieducazione e riabilitazione che, per quanto difficile da comprendere a pieno, rappresentava uno sforzo di redenzione per un uomo dall’animo inquieto, tanto che, proprio in quel laboratorio, lontano dalle cronache spietate, cercava di confrontarsi con una realtà che sembrava lontanissima da lui. Zanellato ricorda poi la complessità nel rapportarsi con lui: era un uomo già in età avanzata, con una salute fragile, che faticava a mantenere il contatto con sé stesso, ma in quelle ore di laboratorio il killer dei treni stava facendo qualcosa che mai si sarebbe immaginato: guardarsi dentro. Donato Bilancia stava disperatamente cercando di riscoprire la sua parte più intima e profonda, e il teatro rappresentava un passo capace di tracciare una via d’uscita da un baratro di buio e di violenza; nonostante la sua nomina di “serial killer” incancellabile, iniziava a rendere visibili segni di vulnerabilità e fragilità, anche se non definibili come una vera e propria conversione a Dio, anche se spesso si lasciava andare a gesti sconvolgenti per lui, come quando chiese di intonare le note dell’Ave Maria. Il cammino di Donato Bilancia nel laboratorio teatrale a Padova ha generato riflessioni e domande sull’importanza delle attività culturali in carcere e sulla loro funzione nel processo di recupero dei detenuti: il teatro, in particolar modo, è stato un mezzo di espressione fondamentale, che permette anche a chi ha commesso i crimini più atroci di confrontarsi con la propria parte più privata e, forse, di aprirsi a una nuova forma di salvezza. Il caso di Donato Bilancia, anche se indissolubilmente legato a un passato di omicidi, non può essere ricondotto a una semplice cronaca di follia e violenza: dietro la sua figura di assassino c’è un uomo che, pur avendo perso tutto, cercava ancora una via di comunicazione con sé stesso e con il mondo. Questo percorso tortuoso, non esente da difficoltà e contraddizioni, va inquadrato in un contesto più vasto di riflessioni sulla giustizia riparativa, una filosofia non tanto punire quanto, piuttosto, scoprire un punto di riappacificazione tra il colpevole e la società: un processo complesso che, come nel caso di Donato Bilancia, richiede uno sforzo immane, ma che può, in alcuni casi, generare sorprese inattese. L’idea che la cultura e l’arte possano servire da strumento di cambiamento anche in coloro che sono macchiati da un passato criminale è un concetto che non trova sempre una risposta positiva e favorevole da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica, ma la storia di Donato Bilancia è la prova indiscutibile di come la riabilitazione, se supportata e aiutata da programmi culturali ed educativi adeguati, possa essere una strada percorribile e fruttuosa non solo per il detenuto, ma per l’intera comunità. Milano. Camilla Fanelli, alfiere per il volontariato: “Con i detenuti parlo come con gli amici” di Lucia Landoni La Repubblica, 6 aprile 2025 La 21enne milanese ogni sabato mattina allena i detenuti della Casa circondariale di Monza sul campo da volley. Da quando giovedì mattina è squillato il telefono e dal Quirinale le hanno comunicato che il presidente Sergio Mattarella l’ha nominata Alfiere della Repubblica, la 21enne milanese Camilla Aurora Fanelli, studentessa di Fisioterapia in Statale, si sente un po’ come in un frullatore: “Non credo di aver ancora metabolizzato del tutto la notizia - sorride - Andrò a Roma il 15 maggio a ritirare il riconoscimento e spero che per allora mi sarò resa pienamente conto di quello che significa. Per il momento posso solo dire che mi sento molto felice”. Hanno reagito allo stesso modo anche i 12 detenuti della casa circondariale di Monza che Camilla allena ogni sabato mattina sul campo di volley insieme a suo padre Francesco, alla sorella maggiore Alice, 25enne, e ad altri due coach del Csi: “Questa mattina l’ho detto all’inizio dell’allenamento ed erano increduli, esattamente come me - prosegue - Quella in carcere è un’esperienza che mi sta dando moltissimo. Ho iniziato tre anni fa e ho tutte le intenzioni di continuare”. A coinvolgerla in quest’avventura - promossa nell’ambito del progetto “Liberi di giocare” del Csi, sulla valenza educativa dello sport - è stato suo padre, che “allenava già con Alice i ragazzi dell’Asd Samz Milano. Il Csi ha inviato una mail a tutti gli allenatori chiedendo chi fosse interessato ad aderire all’iniziativa in carcere. Papà ha subito detto sì e ha chiesto a me e a mia sorella se volessimo seguirlo. Io amo la pallavolo, la pratico da sempre, e quindi ho colto al volo l’opportunità di giocare una volta di più”. All’inizio, in realtà, “ho dato la mia disponibilità, ma non credevo che avrebbero davvero chiamato proprio noi - ricorda - Invece è andata così. I detenuti con cui lavoriamo sono sia italiani sia stranieri, soprattutto marocchini e albanesi, e l’età media va dai 30 ai 40 anni, ma ci sono anche ragazzi della mia età. Parliamo tanto, di tutto, proprio come faccio con i miei amici. Sono persone che potresti tranquillamente incontrare per strada”. Conoscendoli, Camilla si è resa conto del fatto che “non basta una singola azione sbagliata a definire una persona - sottolinea la 21enne - Hanno commesso un errore, ma non si riducono certo a questo. Insomma, frequentare l’ambiente del carcere e allenarli mi sta aprendo la mente”. Settimana dopo settimana, la giovane allenatrice li vede “impegnarsi molto. Per loro questa è un’opportunità preziosa per sottrarsi alla routine della vita carceraria e la sfruttano appieno - garantisce - Sono entusiasti di giocare e vogliono farlo bene. Abbiamo molte richieste da parte di squadre del Csi che vogliono partecipare alle partite amichevoli che organizziamo all’interno della casa circondariale. Oggi per esempio abbiamo giocato contro un team di Cormano: è stato bello. Fino a quando il programma ‘Liberi di giocarè continuerà, io ci sarò”. Torino. Ciak al carcere Lo Russo e Cutugno per il regista Paolo Sorrentino di elisa sola La Stampa, 6 aprile 2025 L’autore premio Oscar gira a Torino il suo nuovo film, “La grazia”: le riprese nel padiglione E. C’è fermento nel carcere di Torino. Questa volta non per l’ennesima rivolta dei detenuti contro il sovraffollamento o le condizioni di vita, definite disumane. Ma per un evento che non ha nulla a che fare con il crimine: l’inizio delle riprese di un film. Un film vero, all’interno del penitenziario solitamente inaccessibile per i non addetti ai lavori. E non si tratta di un film qualunque, secondo quanto raccontano i poliziotti penitenziari e gli avvocati che sabato mattina sono entrati nel Lorusso e Cutugno. Ma della nuova opera di Paolo Sorrentino. Il celebre regista è già stato visto in città da qualche giorno, intento a girare le riprese della sua nuova opera “La grazia”. E sabato, le sue troupe e gli attori, sono stati visti anche in carcere. L’entourage del regista mantiene il massimo riserbo sull’evento. Non commenta. Ma gli agenti della penitenziaria non avrebbero dubbi. “È proprio il film di Sorrentino!”, racconta uno di loro. E un collega precisa: “Hanno montato i camper e allestito le macchine da presa e anche il camion che dà da mangiare e da bere agli attori nel cortile interno al carcere, davanti al reparto dove i detenuti fanno il pane. Gli attori, o le comparse, erano vestiti da persone che sembrano povere, forse non del nostro stesso secolo, ma non saprei dire”. Un altro poliziotto garantisce: “Torneranno lunedì e martedì, ma questa volta non staranno solo nel cortile. Entreranno nel padiglione E, dove ci sono i detenuti. Si dice che arriverà Toni Servillo in persona. I detenuti sono emozionati. Ma anche noi”. Il padiglione E, va precisato, è considerato uno dei “migliori” reparti del carcere di Torino. Non in senso estetico, ma di “popolazione detenuta”. Sarebbe, in sostanza, il padiglione dove i rischi di rivolte sono meno probabili. Qui ci sono i detenuti che studiano, anche all’università. Qui ci sono i carcerati che, per la loro buona condotta, fanno parte della squadra di rugby e che quotidianamente si allenano. Tutti i poliziotti e tutto il personale del carcere sarebbe stato allertato e preparato da giorni per l’evento. Nella massima riservatezza. Ma ieri, le troupe e gli attori sono stati inevitabilmente notati anche dagli avvocati che sono entrati in carcere per i colloqui con i loro assisiti detenuti. “Il cortile del Lorusso e Cutugno sembrava un set - racconta un legale - ho visto gli attori in un momento di pausa. Si stavano rifocillando. Chissà che scene gireranno”. Sul nuovo film di Sorrentino vige il segreto più assoluto, riguardo a contenuti e programmi di regista e attori. Ma in carcere è impossibile passare inosservati. Soprattutto in un istituto, quello di Torino, dove le proteste sono all’ordine del giorno. Cercare le radici della conflittualità: soltanto così capiremo questo tempo di Raffaele Simone Il Domani, 6 aprile 2025 Il mondo giovanile europeo è tendenzialmente contrario al riarmo. Ma le voci che reclamano il recupero urgente di una “mentalità guerriera” sono sempre di più. Due libri (“La guerra e la natura umana” di Gianluca Sadun Bordoni e “Fare la guerra con altri mezzi”, di Alfio Mastropaolo) aiutano a leggere questo momento storico. “Se l’Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra”: è la frase, che diventerà forse storica, con cui Ursula von der Leyen ha annunciato qualche settimana fa il massiccio programma europeo di riarmo. Mentre le élite politiche cominciano a muoversi per dar corpo a questo programma, da varie parti si levano segnali di allarme: come può l’Italia riarmarsi se la Costituzione prevede che “ripudi la guerra”? A che serve riarmarsi se ormai i giovani non vogliono più saperne di guerra? Perfino in paesi che con la guerra non hanno mai rotto, come la Russia, ogni volta che si annunciano nuove coscrizioni i giovani espatriano o si danno alla macchia. Le manifestazioni che si sono svolte in tutt’Europa in risposta al programma di riarmo parlano da sole: alimentato da decenni di battaglie pacifiste, il mondo giovanile è contro la guerra: non la vuole e ancora meno la vuol combattere. I “guerrieri” - Dall’altro lato, crescono le voci che reclamano il recupero urgente di una “mentalità guerriera”. La più tonante è quella di Pete Hegseth, il rozzo segretario alla Difesa Usa, che ha nel curriculum accuse di molestie sessuali e alcolismo, a cui si aggiungono un passato di veterano e la stesura di libri nei cui titoli risuonano rumori di armi: si passa da Crociata americana a Guerrieri moderni, da Battaglia per la mente americana al più recente, Guerra ai guerrieri (War on Warriors). Quest’ultimo è una incessante invettiva contro gli americani per aver perso lo “spirito guerriero”, soprattutto a causa dell’ammissione di donne e trans nelle forze armate, e un’incitazione a recuperare lo “spirito guerriero” e allentare le regole di ingaggio, in modo che le azioni militari abbiano un incremento di “letalità” (sic). Non mancano le espressioni di fastidio per le norme internazionali create dopo la Seconda guerra mondiale per governare i conflitti armati, come la Convenzione di Ginevra. Chi trova delirante un simile modo di pensare, e distopico il fatto che il termine “guerriero” sia ormai usuale al posto di “soldato”, non troverà conforto nei discorsi che il segretario della Nato Mark Rutte (ex primo ministro olandese), ormai platealmente trumpizzato, ha fatto a proposito del programma europeo di riarmo. Secondo Rutte, è urgente un “cambiamento di mentalità verso la guerra” per evitare che i paesi dell’Ue siano impreparati ai rischi posti dalla Russia, così come occorre dare una “turbocarica” (sic) alle spese per la difesa per adattarle alla nuova situazione. Libri per capire - In questa grezza prosa da film di Batman, o forse da propagandisti di armi letali, è difficile ritrovarsi. Invece del motto di von der Leyen, sarebbe più opportuno dire: “Se vuoi evitare la guerra, anzitutto studiala”. La guerra è infatti tornata tra noi, non solo come evento che si abbatte su tutti gli angoli del Pianeta, ma come questione di dottrina e issue teorica. In questo compito soccorrono due libri importanti particolarmente ben scritti, animati entrambi da un esplicito spirito hobbesiano (“Homo homini lupus”), che gettano luce con argomenti diversi sul fenomeno della guerra e il suo radicamento nella politica, nelle istituzioni e nella nostra stessa natura. Data la ricchezza di entrambi, sarò costretto a ridurre all’osso le molte idee che contengono. Il primo è “La guerra e la natura umana”, di Gianluca Sadun Bordoni (il Mulino, euro 29), che si propone di illustrare (è il sottotitolo) “le radici del disordine mondiale”. Sadun Bordoni, professionalmente un filosofo del diritto, si muove con grande maestria tra le idee dei filosofi, la storia delle relazioni internazionali, la storia militare, l’antropologia storica e varie altre discipline, con una foltissima gamma di riferimenti e angolazioni. La sua tesi centrale è la seguente: “La guerra è uno dei tratti profondi della natura umana”, anche se la modernità occidentale ha preferito adottare il “dolce sogno” kantiano di una impossibile “pace perpetua”. Perfino sui resti umani delle più antiche fasi dell’ominazione si ritrovano indizi di massacri, spiegabili solo come effetto di guerre. (Sadun Bordoni avanza l’interessante idea che anche lo sviluppo del linguaggio, permettendo “maggiore concertazione e coordinamento delle azioni”, abbia contribuito a rendere mirata l’aggressività nella caccia e nella guerra.) La storia intera sta a mostrare che la guerra “è comunque sempre con noi”, quale che sia il motivo usato per scatenarla: conflitti etnici, lotte per il controllo delle risorse naturali, conflitti religiosi e dispute territoriali. Se la guerra è umana ab origine, è semmai la pace “un’invenzione moderna”. Il secondo libro è “Fare la guerra con altri mezzi” di Alfio Mastropaolo, insigne scienziato politico torinese (il Mulino, euro 34). È una serrata analisi di sociologia storica, anche questa fittissima di riferimenti storici e dottrinali, che, riprendendo nel titolo il celebre motto di von Clausewitz, esamina i modi che la politica e l’economia hanno inventato per fare guerra (e farsi la guerra) senza apparentemente lasciare vittime sul campo. Secondo Mastropaolo, tutte le istituzioni più astratte e nobili sono in effetti strumenti per la presa del potere e del controllo da parte di gruppi organizzati. Lo stato, anche quando si presenta benefico, protettivo e terzo, coi suoi apparati gestisce di fatto “un ristretto numero di monopoli della coercizione”. Allo stesso modo, la rappresentanza politica, nata come espressione di democrazia, si è convertita in professione e in business, fino a creare le sue “imprese” (i partiti e i sindacati) per trarre benefici. Il mercato, infine, soprattutto nei nostri tempi di rampante neoliberismo multinazionale, esibisce senza posa i tratti di una guerra permanente. Inutile dire che il trumpismo nella sua attuale forma pienamente dispiegata esemplifica con evidenza plastica molti dei tratti che sia Sadun Bordoni sia Mastropaolo ravvisano nella guerra: licenziamenti di massa, tagli di finanziamenti, odio contro le università, minacce, ritorsioni, ricatti, vendette personali, espulsioni, contrasto alla magistratura, insulti e propositi di annessione fanno tutti parte dell’arsenale, sintetizzato in un paio di raggelanti motti del trumpismo, come “Shock and awe” (“Prendi di sorpresa e spaventa”) e “Flood the zone” (“Allaga il territorio”). Guerra permanente - Per completare l’orizzonte delineato da questi due libri, ne occorrerebbe un terzo da dedicarsi alla “cultura di guerra permanente” che domina una porzione importante della vita media contemporanea. Con il contributo essenziale dei social media e della rete, la modernità ha infatti rimesso in onore il senso del conflitto ininterrotto. Da un lato stanno le guerre in corso, a bassa e ad alta intensità, che sono oggi (secondo il Global Peace Index) ben 56, il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale, e coinvolgono direttamente o indirettamente almeno 92 Paesi (sui circa 250 esistenti). Tra le regioni più colpite, il Medio Oriente, l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale. Ma alle guerre “in grande” vanno aggiunte le mille forme di guerre “in piccolo”. Autentica invenzione moderna, le guerre “in piccolo” contrappongono persone e gruppi: baby gang, coltelli o armi in tasca, challenge e provocazioni, giochi pericolosi, stupri di gruppo, bravate criminali... Se le guerre in grande derivano dallo scontro dei macrosistemi analizzati da Mastropaolo, quelle in piccolo crescono e si nutrono nel malsano brodo di violenza creato dalla fusione del mondo mediatico col mondo reale. Sorprende, per esempio, vedere quanti dei film e serie dei potentati dello streaming (Netflix, Prime, Paramount ecc.) si basino su storie di violenza. Nelle loro trame non si contano le adolescenti violentate e uccise, gli ammazzamenti con tecniche estreme, i massacri di gruppo, le storie di killer, le autopsie, le mutilazioni e gli sventramenti portati sotto gli occhi di tutti. Nella miniserie televisiva Adolescence, che sta creando discussioni in vari paesi, si raccolgono come in un manuale le forme di microviolenza tipica delle guerre “in piccolo”. Tutto inizia con una foto intima che Katie manda via Instagram a un’amica. L’immagine diventa virale nella scuola e risveglia un’ondata di odio social contro le donne. Il tredicenne Jamie, umiliato per essere stato rifiutato da Katie e quindi deriso su Instagram, è vittima anche lui della spirale di odio misogino e la uccide a coltellate. I temi estremi ci sono tutti: il cyberbullismo, la “maschiosfera”, gli adolescenti col coltello in tasca, l’indifferenza dei genitori o la loro incapacità di controllo. Come non sospettare che le guerre in grande siano la versione ingigantita e mortifera di quelle in piccolo, e che la loro base comune sia la propensione umana alla violenza? E come non temere che le une e le altre siano politicamente incontrollabili? Un Paese che si identifica con ordine e polizia di Alessandra Algostino Il Manifesto, 6 aprile 2025 Decreto sicurezza L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia costituzionale. C’era un disegno di legge in discussione in parlamento, detto “sicurezza”, espressione del peggiore populismo penale, incostituzionale nell’anima e nelle disposizioni; il governo, con un golpe bianco (…invero nero), lo ha trasposto in un decreto legge. Al contenuto eversivo si aggiunge l’eversione nei rapporti fra governo e parlamento. Troppo forte il termine eversione? Il passato non si ripresenta allo stesso modo, ma la mutazione della democrazia in regime autoritario attraverso vie legali non è un pericolo astratto; il suo progressivo svuotamento sostanziale sotto l’involucro è un percorso in atto. Il parlamento discute, o tenta di farlo, vista la scarsa disponibilità alla mediazione politica (nel senso di effettivo processo di integrazione politica), ma “i tempi si sarebbero prolungati troppo” (citazione del ministro Piantedosi). E allora interviene il governo, “nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi” (Mussolini, dibattito sulla legge Acerbo). Iniziamo da qui: quali sono i motivi di necessità e urgenza? Leggendo la bozza compare solo un elenco tautologico di “considerata” e “ritenuta” “straordinaria necessità e urgenza”: mere clausole di stile, nulla di più. Come la Corte costituzionale ha ricordato più volte (da ultimo, sentenza 146 del 2024), il decreto legge è “uno strumento eccezionale”, “la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza… costituisce un requisito di validità costituzionale”: in gioco sono gli “equilibri fondamentali della forma di governo”. Con quanto ne consegue sulla forma di stato. L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia costituzionale. È l’ennesimo atto di asservimento e annichilimento del parlamento. Ennesimo, e “pesante”: per i diritti su cui incide il provvedimento, per il suo essere oggetto di una forte contesa politica, perché si tratta di materia in discussione nelle aule parlamentari, per l’insussistenza palese della necessità e urgenza (a meno che non le si voglia ridurre al meschino mercanteggiamento di interessi tra le forze di maggioranza). Veniamo al contenuto. Lo schiaffo al parlamento - in violazione della Costituzione e inaccettabile in ogni caso - salvaguarda almeno dalle innumerevoli incostituzionalità del disegno di legge? Dalla bozza che è dato leggere, no. I rilievi del Quirinale sono recepiti al minimo possibile. Alcune norme sono semplicemente ammorbidite, come nel caso delle madri detenute o della richiesta di documento per la vendita della Sim agli stranieri (non è necessario il permesso ma c’è l’obbligo di un documento di identità). Altre sono oggetto di interventi di plastica facciale, come nelle ipotesi della punizione degli atti di resistenza anche passiva: si specifica che gli ordini la cui disobbedienza è punita riguardano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, concetti passepartout. Sfiora il ridicolo la modifica della norma che riguarda l’aggravante “grandi opere”, dove il riferimento alle opere pubbliche o infrastrutture strategiche è sostituito con “infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”. Di maggior rilievo, e indubbiamente positivo, lo stralcio della collaborazione di pubbliche amministrazioni e università con i servizi segreti, in deroga al diritto di riservatezza. Restano, immutati, il reato di blocco stradale, la ridondante punizione dell’occupazione di immobili, l’ampliamento del daspo urbano, etc. La cappa illiberale e repressiva del provvedimento non muta: criminalizzazione e repressione del dissenso, stigmatizzazione e punizione del disagio sociale e della solidarietà, neutralizzazione del conflitto sociale. E restano il diritto penale dell’amico, i privilegi per la polizia, con il sotteso di uno stato che si identifica con le forze dell’ordine e l’obbedienza. È sufficiente il restyling per tacitare - ed esautorare - l’opposizione e giustificare il silenzio calato sulla notizia? Il presidente della Repubblica, come garante della Costituzione, non dovrebbe domandare - cito Matteotti - “alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto”? Lungo la china del male minore, si scivola nel baratro. Ancora una volta è dalla piazza, che si vuole chiudere in una zona rossa del dissenso e del pensiero, che può venire una risposta. Così l’odio è diventato la risposta immediata di Anna Foa La Stampa, 6 aprile 2025 Fra tutti i significati della parola “risposta” - la risposta ad una domanda, la risposta ad una lettera, quella ad una terapia medica, e via discorrendo - la risposta come reazione aggressiva sta diventando sempre più diffusa, con l’aiuto anche dei social in cui i commenti si caratterizzano sempre più ostili e intolleranti. E così l’odio divampa, nessuna discussione è più civile, pacata, sia che si tratti di faccende private che di politica, sia che si guardi al mondo che al cortile della propria casa. L’odio è sempre visto come una risposta, però, una risposta all’altrui comportamento. Non necessariamente, però, un comportamento davvero aggressivo, ma anche soltanto tale da essere così percepito. In modo tale che la colpa dell’aggressione sia sempre data a colui contro cui si reagisce, come nella favola di Esopo del lupo e dell’agnello, in cui il lupo uccide “ingiustamente” l’agnello accusandolo di intorbidargli l’acqua a cui entrambi bevevano. Ne sono un esempio calzante i femminicidi che si moltiplicano ai nostri giorni: chi uccide è quasi sempre convinto che la libertà della sua vittima gli arrechi un grave torto, gli impedisca cioè di esercitare il suo potere. L’idea di rispondere, soltanto rispondere, giustifica ai suoi occhi il suo comportamento, lo rende nella sua aberrante convinzione quello di una vittima, invece che di un colpevole. Ancora più grave è la situazione che si determina quando ad esercitare un simile genere di risposte sono le collettività, non gli individui. Così, vittima vuole presentarsi Putin, nel momento in cui attacca uno Stato sovrano, in cui compie atti indiscutibili di crimini contro i civili presentandosi come colui che vuole soltanto rispondere all’accerchiamento della Nato. Di nuovo, il lupo e l’agnello. Una risposta in questo senso è la rappresaglia. Un istituto che non è certo solo di oggi, ma ha dietro di sé a una lunga storia, nel mondo classico e poi in quello medioevale. Deriva dal latino, represalia, diritto di riprendere con la forza ciò che si è perso in conseguenza di un danno patito. Nel diritto internazionale la rappresaglia è invece la reazione di uno Stato a un comportamento illecito e lesivo di un suo diritto, posto in essere da un altro Stato. In teoria, è sempre quindi una risposta. La Convenzione dell’Aja del 1907 vieta già l’uso della rappresaglia contro una popolazione per fatti di cui essa non è responsabile. Il fatto che sia contemplata nel diritto di guerra non vuol dire che essa sia sempre lecita. Ha delle grosse limitazioni nella norma che la rappresaglia deve essere proporzionata al danno subito e soprattutto, in quella, sancita dal diritto internazionale, che non può essere esercitata sui civili. I nazisti compirono in tutta Europa terribili rappresaglie in risposta alla guerra partigiana. È durante questi episodi che si è consolidata l’idea che la proporzionalità, in una rappresaglia, fosse di uno a dieci: dieci giustiziati, civili o meno, per ogni tedesco ucciso. Ma questa fu solo la decisione tedesca nel caso delle Fosse Ardeatine, in rappresaglia per l’attentato della Resistenza romana a via Rasella, in cui furono uccisi 32 nazisti. Altrove, come a Marzabotto, a Lidice o a Oradour e in tanti altri luoghi, furono distrutti interi villaggi e assassinati tutti i loro abitanti. Possiamo domandarci anche se la rappresaglia ha dei punti in comune con la vendetta. Anche la vendetta è una risposta, ti vendichi di qualcosa che, a torto o ragione, ritieni ti sia stato fatto. È una risposta però che coinvolge non il diritto di guerra, ma le percezioni, le emozioni di individui e collettività. Di tutte le emozioni dell’essere umano, il desiderio di vendetta è forse la più inutile: non placa il dolore, acuisce l’odio, rende chi la cerca, da innocente, colpevole a sua volta. Riflettere oggi sulle risposte, dalle più innocue, quelle degli insulti sul web che normalmente si arrestano alle tastiere, alle peggiori, le rappresaglie naziste, non può non richiamarci alla mente quello che in questo momento è il caso più clamoroso e noto di rappresaglia, la guerra di Gaza. Quando alla terribile mattanza del 7 ottobre si è risposto, da parte del governo israeliano, con la distruzione di Gaza e l’uccisione di migliaia di palestinesi, molti dei quali civili, si è detto all’inizio che si trattava non di una rappresaglia ma di colpire i responsabili del 7 ottobre. Quando si è detto che tutti i palestinesi erano colpevoli, che tutti erano fautori di Hamas, si è tentato di far rientrare la rappresaglia a Gaza in un presunto diritto di rappresaglia, smentito dalla presenza dei civili e dal numero sproporzionato delle vittime. Intanto sempre più saliva nella destra religiosa il richiamo alla vendetta, mentre quella che si era voluta rappresentare come un’operazione di polizia, l’uccisione dei responsabili del 7 ottobre, diveniva una vendetta contro un intero popolo. Così oggi il conflitto israelo-palestinese, da pochi giorni nuovamente divampato con maggior violenza, è il caso più evidente in cui risposta, rappresaglia, vendetta sono tutt’uno. E le voci di chi cerca di manifestare il suo rifiuto a questo miscuglio micidiale, a Gerusalemme come a Gaza, sono offuscate dall’odio e dall’idea che alla violenza si risponde con pari o superiore violenza, e che bisogna distruggere l’altro da te perché responsabile, appunto, soprattutto di essere altro. “Portare in classe l’educazione alle relazioni”: lo chiedono 8 genitori su 10 di Giulia Tavani Corriere della Sera, 6 aprile 2025 Non solo piccole lezioni di anatomia, servono incontri per prevenire e combattere fenomeni di odio, emarginazione e violenza di genere. Per il 70% delle famiglie la frequenza dovrebbe essere obbligatoria, quasi la metà degli italiani sostiene l’importanza di cominciaregià dalle primarie. I dati nello studio di Coop con Nomisma. Introdurre l’educazione sessuale e alle relazioni a scuola è un dibattito che in Italia tiene banco da almeno cinquant’anni. Nonostante sia l’Oms a indicare la fascia d’età tra i 3 e i 5 anni come quella adeguata per iniziare a parlarne, nessuna delle sedici proposte di legge avanzate è mai riuscita a passare. Eppure, analizzando la reale posizione degli italiani sul tema, emerge una sentita necessità di adeguarsi alla maggior parte dei Paesi europei, che ha reso l’educazione sessuale e alle relazioni una disciplina obbligatoria. Sono quasi otto su dieci i genitori che ritengono fondamentale che gli istituti promuovano programmi di questo tipo, premendo perché vengano affidati a figure specializzate. “L’autonomia scolastica prevede che ogni istituto possa scegliere di dedicarsi a queste questioni con attività spot” precisa Enrico Galiano, scrittore, insegnante e comunicatore sociale, “ma di solito si traduce con la presenza di psicologi per sei o dieci ore in un intero anno scolastico. Gli studenti nemmeno se ne accorgono”. A riportare questi dati è stata Coop attraverso l’indagine “La scuola degli affetti”, realizzata in collaborazione con Nomisma, per la nuova campagna “Dire, fare, amare”, a sua volta parte della campagna ombrello “Close the Gap”, arrivata alla quinta edizione, per combattere la disparità e ridurre le differenze di genere. Dati che Coop, a partire da aprile, tradurrà in azioni concrete attraverso la vendita di un’edizione speciale di fazzoletti il cui packaging è stato ridisegnato con le informazioni relative alla campagna. Lo scopo è informare e avviare un percorso di sensibilizzazione più diffuso. In Italia, solo quattro persone su dieci si ritengono pienamente soddisfatte dell’educazione che hanno ricevuto, riconoscendo l’importanza che quelle nozioni potevano avere una volta cresciuti. Per esempio, coloro che hanno dichiarato di essere “poco” o “per niente” soddisfatti del dialogo instaurato con il partner, sono gli stessi che si sono detti insoddisfatti dell’educazione avuta sulle modalità di relazione con il compagno/a. Questo perché l’educazione proposta non riguarda solo la sfera anatomica, ma serve per combattere fenomeni di odio, emarginazione, e violenza di genere. Lo stesso sentimento di insoddisfazione per la propria educazione e, di conseguenza, per il dialogo instaurato con i figli, lo vive il 23% dei genitori. E se dalla scuola non c’è modo di ricevere insegnamento, ecco che il ruolo più importante nell’educazione lo ha la madre. Al secondo posto c’è il partner, al terzo gli amici, e solo al quarto il padre. E laddove si riesce a parlarne, il tema più comune è quello dei rapporti interpersonali come il rispetto o la parità di genere. Tutto ciò che riguarda la sessualità (dall’anatomia del corpo ai metodi contraccettivi) viene toccato “spesso” solo dal 19% dei genitori, “qualche volta” dal 46%, “raramente” dal 22% e “mai” dal 13%. Il timore è di mettere ansia ai propri figli. Da qui l’esigenza di personale qualificato nelle scuole. Secondo Elisabetta Camussi, docente di Psicologia Sociale presso l’Università Milano Bicocca e Presidente della Fondazione Ossicini, questa esigenza di un personale qualificato evidenzia “la richiesta di un accompagnamento nel corso del tempo, che allontana anche le teorie che certi gesti siano frutto di raptus o episodi singoli”. Quasi la totalità del campione è convinto dell’importanza della formazione alle relazioni. L’88% chiede anche che a trattare temi relativi alle relazioni con il partner siano esperti dei centri antiviolenza. “L’obiezione che di solito viene fatta è che l’educazione si deve fare a casa” sottolinea Galiano, “ma mi chiedo, sia se i genitori siano davvero competenti in questo, sia, a quel punto, che fine farebbe il ruolo di livellatore sociale della scuola”. Quindi la questione è di rendere l’educazione sessuale una disciplina. I temi in questo caso sono molteplici. Il primo riguarda l’obbligatorietà. Per sette italiani su dieci le lezioni di educazione alle relazioni dovrebbero prevedere l’obbligo di frequentazione, per il 21% dovrebbe essere facoltativa. Il secondo tema riguarda il grado scolastico. Quasi la metà degli italiani (il 40% delle donne e il 49% degli uomini) sostiene l’importanza di introdurla dalle scuole primarie, ma c’è anche un 33% delle donne (contro il 15% degli uomini) che sostiene di doverne parlare già dall’infanzia. “Questa ricerca” conclude Linda Laura Sabbadini, ex dirigente del Dipartimento per le Statistiche Sociali dell’Istat e oggi editorialista, che con Camussi e Galiano forma il Comitato Scientifico che ha guidato i lavori “ci dice anche che la polemica che ne consegue è più ideologica che espressione di un’opposizione ampia nel Paese”. Sono solo tre su dieci, infatti, le persone che credono possa esserci il rischio di una sessualizzazione precoce dei bambini. Mentre per il 49% la paura maggiore è che il tema possa essere trattato con superficialità. L’importante, in ogni caso, per nove italiani su dieci, è parlarne. “Violenza sulle donne, le norme ci sono ma nessuno le applica” di Simone Alliva L’Espresso, 6 aprile 2025 Al numero 1522 arrivano in media 7.500 telefonate al mese. Parla Elisa Ercoli, presidente di Differenza donna. “Ok il rigore ma il codice rosso non viene messo in atto”. L’otto di luglio 2024 il contatore di morte di Non Una Di Meno registra 56 donne vittime di “femminicidio”, cioè la morte di una donna progettata da un uomo perché si rifiutava di agire secondo le sue aspettative. Una parola che illumina e dice due cose: che è morta una donna e il perché è stata uccisa. Elisa Ercoli, presidente dell’associazione Differenza donna, da trent’anni al fianco delle donne vittime di violenza, rivela alcuni dati che raccontano l’abisso: “Al numero antiviolenza e stalking 1522 riceviamo al mese 7.500 contatti. Di questi il 90% sono casi che necessitano di un reale intervento. Donne che hanno subito direttamente una violenza. Siamo però consapevoli che questo è solo il 10% del fenomeno. Se emergesse tutto saremmo sconvolte”. I centri antiviolenza sembrano i soli dentro questo tempo a prendere sul serio la paura delle donne ancora vive. Quello che serve si sa da tempo, spiega Ercoli: corsi di formazione scolastica contro gli stereotipi di genere che ancora costruiscono il maschile possessivo ed esigono il femminile remissivo. Educare anche le istituzioni. Progetti strutturali che questo governo, come i precedenti, sottovaluta. Presidente Ercoli si può dire soddisfatta dell’azione del governo Meloni sul fronte del contrasto alla violenza di genere? “Le nuove norme messe in campo da questo governo come il dl Roccella, approvato all’unanimità il 24 novembre 2023, rafforzano il codice rosso. Sono specificati i metri di distanza rispetto all’applicazione delle misure cautelari, un’altra specifica che non si possono sospendere le misure cautelari perché un uomo è entrato in un percorso di elaborazione rispetto a un comportamento violento. Sono tutte iniziative positive, mi fermerei però qui: abbiamo norme bellissime ma non le applichiamo”. Perché? “Abbiamo un problema culturale enorme e trasversale che ha a che vedere con quella famosa cultura patriarcale che spesso viene beffata. Chiunque di noi ha stereotipi e pregiudizi che tendono a banalizzare la violenza maschile sulle donne fino a non vederla. È il tabu più antico che ci sia. Noi come centro antiviolenza abbiamo il compito di togliere questo velo che copre la violenza maschile e renderla visibile”. Quindi cosa fa lo Stato? “Non riconosce la gravità e i tre cardini della Convenzione di Istanbul, prevenzione, protezione, persecuzione, non sono ancora veramente applicati. La questione dell’educazione è ignorata. Bisognerebbe sgomberare il campo da ogni stereotipo e mettere a sistema politiche che facciano formazione nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nei servizi sociali, sanitari. Serve arginare anche la violenza secondaria e istituzionale che viene messa in atto quando non si riconoscono le gravità dei crimini di genere subiti e quindi facendo una differenziazione netta tra chi ha agito e subito il reato”. Le risorse sono state aumentate da 27 a 40 milioni... “Il problema del governo è la capacità di spesa. Abbiamo aumentato questi soldi, spendiamoli. Ma bene. Più case rifugio, per esempio. Abbiamo una copertura di case rifugio che è solo del 5% rispetto a quello che è il tetto stabilità dall’Ue. Un posto letto ogni diecimila abitanti. Le case rifugio non devono essere a retta ma pagate dal fondo nazionale. Se sono a retta gravano sui singoli comuni, diventano responsabili i servizi sociali e non sono più la protezione immediata di cui abbiamo bisogno”. A proposito di fondi. Ha fatto molto rumore negli ultimi mesi un comitato promotore contro la violenza sugli uomini che ha lanciato un numero verde e si distingue dal vostro per una cifra. C’è stata anche una richiesta di fondi. Che idea si è fatta? “Sarei molto felice di incontrarlo e mettere in fila quali sono state le lotte delle donne italiane a partire dal 1948 fino a oggi per ottenere una cittadinanza piena. Sappiamo che per gli uomini è difficile abbandonare i privilegi che hanno avuto fino a poco tempo fa, questi tentativi lo dimostrano. Non amo entrare in un campo di confronto. È antiscientifico. I dati sulla violenza delle donne sugli uomini sotto forma di osservatorio permanente non esistono perché il fenomeno non è strutturale quanto lo sono invece i numeri vertiginosi della violenza maschile sulle donne”. Cosa la colpisce di questa storia? “Che il numero non esiste. Penso che dovrebbe rispondere legalmente chi diffonde un numero di pubblica utilità che non esiste. Conosciamo bene le risposte sovraniste di chi attacca le politiche di affermazione della liberazione delle donne. Bisogna relegarle nella falsità dei principi che portano. I centri antiviolenza agiscono dentro una metodologia sperimentata, monitorata, riconosciuta e scientifica. Agiamo su un fenomeno sociale così importante da influire sulla sopravvivenza. Assistiamo a femminicidi e figlicidi, donne che rimangono vittime di schiavitù per anni. In Italia va diffusa un po’ di più la cultura dei diritti umani e in particolare dei diritti umani delle donne e dei bambini che attraverso la violenza maschile sono la violazione più diffusa in tutta Italia. Esiste il numero 1522 per indicazione dell’Ue: serve risposta generale 24 ore su 24. C’è tanto da lavorare. Dentro questo tempo non tutte riescono a chiedere aiuto, perché non si sentono accolte. Le donne devono potersi fidare”. Italia-Libia, nessun compromesso sulla tortura di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 6 aprile 2025 La tortura è una pratica vecchia come il mondo. Ha radici millenarie ed evolve parallelamente alla storia delle società. I metodi e gli strumenti per infliggerla sono cambiati nei secoli, ma l’esito di disumanizzazione rimane lo stesso. Il toro di bronzo, la bollitura, l’impalatura, l’aquila di sangue, la damnatio ad bestias, il ratto: altrettante torture che risalgono alle sevizie dell’antichità, ai supplizi medievali e alle punizioni dell’età moderna. Ma, come denuncia Amnesty International, certi appellativi evocativi riguardano anche tecniche contemporanee applicate in molti sistemi dispotici, come in Siria: la festa di benvenuto, lo pneumatico, l’impiccato, il pollo allo spiedo, il tappeto volante, la sedia tedesca. Amnesty International da decenni si occupa di tortura e oggi, insieme ad altre organizzazioni, tra cui A Buon Diritto, Antigone e la Società italiana di medicina delle migrazioni, è tra gli osservatori della Rete di Supporto per le persone Sopravvissute a Tortura (controlatortura.it), promossa da Medici Senza Frontiere, Medu, Caritas e numerose realtà che operano in Italia per la riabilitazione di sopravvissuti a tortura e altre forme gravi di violenza intenzionale. Una neonata rete che nasce dall’esigenza di affrontare le conseguenze della tortura, una pratica pressoché universalmente vietata ma ancora presente in oltre 140 paesi. Il 10 dicembre del 1984 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione contro la tortura. Nel nostro paese il reato di tortura è stato introdotto nell’ordinamento solo nell’estate del 2017. Più di trent’anni di ritardo in un contesto ancora più sensibile: l’Italia è un paese di arrivo per i migranti e tra essi la percentuale di vittime di violenze e abusi è assai alta, dal momento che comprende anche persone sottoposte a tortura nei paesi di transito, in Libia e lungo la rotta balcanica. Bastonate, pugni, calci, bruciature; piegamenti del corpo innaturali, gambe e braccia costrette in posizioni dolorose, asfissia e annegamento; privazioni sensoriali e assenza di cibo e acqua, ambienti accecanti e gelidi oppure celle buie e bollenti. Efferatezze finalizzate a estorcere confessioni, infliggere punizioni, contrastare una resistenza, incutere terrore. In altre parole, abusi di potere attuati da parte di appartenenti ad apparati dello Stato e che, legalmente o illegalmente, detengono la custodia di un essere umano. Il crinale che separa la legalità e l’illegalità della custodia è spesso accidentato e muta in base al contesto nel quale si attua una tortura. Un esempio: in termini generali, quanto accade nelle carceri italiane non è accostabile a quel che avviene nei centri di detenzione libici. Non si tratta di classificare le sofferenze inflitte in base a un parametro di minore o maggiore acutezza (l’Italia è responsabile degli atti di tortura eseguiti nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001 e, a oggi, vi sono quasi trenta procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, maltrattamenti o decessi avvenuti in vari istituti penitenziari), ma di non perdere di vista il sistema dentro il quale si verificano certi abusi. Nel caso dell’Italia si tratta di violenze esercitate da pubblici ufficiali e da chi eserciti pubbliche funzioni e da chi, oltrepassando i limiti dell’autorità, compie atti illegali e infligge pene e maltrattamenti alle persone sotto custodia. Il tutto all’interno di uno Stato di diritto che ancora sembra tenersi in equilibrio. La Libia, al contrario, è uno Stato attraversato dalla guerra civile e privo di stabilità politica, dove le carceri sono gestite dal governo di Tripoli e controllate da miliziani che seviziano, violentano e torturano i migranti al fine di estorcere denaro alle loro famiglie e di avere il controllo sui reclusi, ridotti a merce per i trafficanti. La Libia non riconosce il diritto di asilo, non ha una costituzione e le sue stesse leggi in materia di immigrazione irregolare prevedono la detenzione e in vari casi la sottoposizione a lavoro forzato. Inoltre è uno dei pochi Stati a non aver ratificato la convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati. È di poche ore fa la notizia dell’espulsione dell’Unhcr e di nove ong dal territorio libico. L’agenzia di sicurezza interna (Asi) di Tripoli accusa le organizzazioni umanitarie di essere parte di un “progetto internazionale ostile alla Libia, che mira a insediare nel paese immigrati illegali”, a favorire un “cambiamento demografico” e a incoraggiare “valori contrari all’identità libica, come il cristianesimo, l’ateismo, la promozione dell’omosessualità e della decadenza morale”. L’ennesima prova, manifestatasi come teoria del complotto, del fatto che gli accordi tra Italia e Libia andrebbero stracciati e che continuare a sostenere, economicamente e politicamente, quel paese che tortura i migranti in fuga verso l’Europa è una responsabilità troppo grande. La stessa responsabilità che si fa così pesante e insostenibile ogni volta che ci troviamo di fronte alle immagini che rivelano la crudeltà di tutto ciò, come nel caso del video diffuso da Refugees in Libya, nel quale un bambino o una bambina di circa quattro anni vaga in solitudine a piedi nudi nel deserto del Sahara, senza che intorno si scorga altro che la sabbia. In Tunisia scatta la caccia ai migranti subsahariani di Alessandra Fabbretti Il Manifesto, 6 aprile 2025 Sgomberate le tendopoli vicino Sfax. Tra gli ulivi, in condizioni igienico-sanitarie critiche, vivono 20mila persone. Arresti e rimpatri. “Vi prego aiutateci, non sappiamo dove andare e, se ci prendono, non sappiamo che fine faremo”. L’appello arriva da Yahya, un migrante originario della Guinea, che ci chiama da una zona remota della Tunisia, tra gli uliveti di Sfax: da giovedì è in atto una maxi operazione per distruggere le piccole tendopoli informali che si estendono per chilometri, tra Chebba e Sfax. Molte persone sarebbe state arrestate e attualmente in corso di rimpatrio. Nelle località di Al-Amra e Jebniana, a pochi passi dalla costa orientale, da tempo si sono costituite tendopoli di migranti e rifugiati dell’Africa sub-sahariana, tra cui vivono anche donne e bambini. In totale sono circa 20mila, secondo le stime delle autorità di Tunisi. Fino a tre giorni fa gli sgomberi avvenivano saltuariamente, ma ora le cose sono cambiate. Sono state prese di mire soprattutto le tendopoli al “chilometro 19” e al “chilometro 24”. Il portavoce della Guardia nazionale tunisina, Houssem El Din Jebabli, ha rivendicato l’operazione: “Gli sgomberi avvengono pacificamente”, ha detto giovedì ai media locali, aggiungendo che le oltre 4mila persone residenti “saranno trasferite in centri d’accoglienza. La maggior parte di loro ha chiesto volontariamente di essere rimpatriata”. La scorsa settimana il presidente Kais Saied - noto per la sua politica anti-migranti - ha fatto appello all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) affinché acceleri “i rimpatri volontari”. Questo aggettivo è contestato da giuristi e ong, che ritengono non sia possibile scegliere liberamente nelle condizioni in cui versano i migranti nei paesi nordafricani. In ogni caso mercoledì scorso il governo Meloni ha stanziato a favore di quello di Tunisi un programma di 20 milioni per riportare a casa 3mila migranti. Yahya racconta: “Nei giorni precedenti agli sgomberi gli agenti ci hanno chiesto se volevamo tornare nei nostri paesi. Ieri abbiamo scoperto che chi ha accettato è stato abbandonato nel deserto, tra Algeria e Tunisia”. Notizie difficili da verificare, ma una conferma arriva da Majdi Karbai, ex deputato e attivista tunisino in esilio in Italia: “Riceviamo resoconti secondo cui la Garde nationale lascia i migranti nel deserto, oltre i confini di Algeria e Libia”, un’accusa che da tempo pende sul governo di Tunisi, che per la gestione del fenomeno migratorio percepisce decine di milioni di euro dall’Unione europea e dal governo Meloni, il quale ha fornito anche motovedette alla Guardia costiera tunisina per fermare le partenze. A fronte di questo sostegno economico, come avverte ancora Karbai, “non esiste un piano per accogliere e integrare” i cittadini stranieri già residenti in Tunisia: “Ad esempio, non è vero che ci sono centri d’accoglienza per le persone che stanno sfollando e lasciando senza un tetto. Intanto vietano a giornalisti e attivisti di avvicinarsi per evitare che escano notizie”. Al telefono raggiungiamo Hassan, che sta fuggendo insieme a Yahya tra le campagne. Racconta: “Stamattina tantissimi agenti sono arrivati con una trentina di ruspe. Hanno sparato colpi d’arma da fuoco in aria e poi lacrimogeni per allontanare la gente. Poi hanno abbattuto la tendopoli con le ruspe e dato alle fiamme il resto. Hanno distrutto persino una piccola clinica medica informale”. Chiediamo se abbiano visto osservatori internazionali o operatori umanitari oltre agli agenti: “No”. “Abbiamo fame e sete - riprende Yahya - e qui non c’è niente. Presto i nostri smartphone si scaricheranno”. Le politiche del presidente Saied hanno imposto limitazioni ai migranti subsahariani nell’accesso a lavoro, casa e servizi di base. Al contempo sono state varate leggi che limitano la libertà d’azione delle ong e dei difensori dei diritti umani. Mohammad, che vive in un campo informale dove le ruspe non sono ancora arrivate, lamenta: “Se ci cacciano non avremo altro posto dove andare. Ci sono anche dei neonati qui. Noi migranti non possiamo lavorare né avvicinarci a città e villaggi, neanche per fare la spesa perché rischiamo di essere picchiati e rapinati. Paghiamo a caro prezzo l’acqua di alcuni pozzi dei contadini, ma è contaminata e abbiamo continuamente problemi intestinali e alla pelle”. Gaza. Strage delle ambulanze, un video smaschera l’esercito israeliano di Lucia Capuzzi Avvenire, 6 aprile 2025 I militari israeliani avevano detto che i veicoli erano “privi di segnali indicativi”. Però, dopo le immagini in cui si vedono lampeggianti e sirene in funzione, hanno dovuto ammettere tutto. “La sirena e le luci erano accese”. Tre settimane dopo, un video e una testimonianza rivelano la verità sul “massacro di Rafah”. All’alba del 23 marzo, quindici soccorritori, a bordo di un’ambulanza e di un camion dei pompieri, sono stati uccisi dal battaglione Golani nel sud di Gaza. I militari di Tel Aviv avevano subito precisato che i veicoli viaggiavano “senza segnali di identificazione” e per questo erano stati ritenuti “sospetti”. Un video, recuperato dal cellulare di una vittima e inviato al New York Times da un diplomatico Onu che ha chiesto l’anonimato, mostra, però, i lampeggianti in funzione. A questo si è aggiunta la testimonianza di Munther Abed, operatore della Mezzaluna Rossa palestinese e, secondo quest’ultima, unico sopravvissuto. “Ci hanno sparato direttamente e deliberatamente. Poi hanno aperto la portiera e sono entrate le forze speciali. Mi hanno trascinato fuori e picchiato. Subito dopo è arrivato un veicolo della protezione civile e i soldati hanno sparato pesantemente contro di loro”. I militari l’avrebbero interrogato e trattenuto per 15 ore: “Hanno detto che i palestinesi sono tutti terroristi”. Poche ore dopo, alla fine, anche le forze armate israeliane hanno dovuto ammetterlo. La prima versione - basata sui racconti dei soldati - era “errata”, ha detto il general maggiore Yaniv Asor che ha condotto l’inchiesta. Quest’ultimo, tuttavia, si è affrettato di aggiungere che almeno sei dei medici morti sono stati identificati dall’intelligence come “funzionari di Hamas”. E che gli spari non sarebbero stati esplosi da distanza ravvicinata. Per tanto non sarebbe stata un’esecuzione. La notizia ha aggiunto ulteriore tensione a quella già altissima per la ripresa dei combattimenti dopo quasi due mesi di stop. Le vittime, secondo il ministero della Sanità controllato dal gruppo armato, sono oltre 1.300 tra cui molti bambini. Addirittura l’Onu ha parlato di cento minori uccisi al giorno dal 18 marzo, in cui il governo Netanyahu ha ricominciato le ostilità nonostante l’opposizione della gran parte della società israeliana. Anche ieri in migliaia hanno manifestato a Tel Aviv contro il premier per avere abbandonato i 59 ostaggi ancora nelle mani del gruppo armato, di cui 24 ritenuti ancora in vita. Di due ieri Hamas ha diffuso un nuovo video di due sfumando i volti. I familiari li hanno, però, riconosciuti dalla voce: si tratta di Maksim Harkin, 36 anni, nato nella regione del Donbass in Ucraina. e Bar Kupershtein, 23 anni, sequestrati al Festival Nova. In questo contesto, domani, Netanyahu andrà a Washington per cercare di negoziare con Trump un accordo anti-dazi, limitati per Israele al 17%. Sarà il primo leader straniero a farlo. Per il viaggio, il premier ha chiesto di rinviare la testimonianza di fronte alla corte della settimana prossima, contrariamente al parere della procuratrice generale, Gali Baharav-Miara.