Circolare del Dap, stretta sull’Alta Sicurezza. Ma c’è il rischio rivolte di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2025 Nella circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si legge che “tutti gli operatori penitenziari dovranno porre ogni sforzo esigibile per evitare che le celle rimangano aperte” nei regimi di Alta Sicurezza in carcere. Evitare “contatti e aggregazione tra la popolazione carceraria” in modo da scongiurare “il rischio dell’espandersi della supremazia criminale dei detenuti con maggiore caratura criminale”, come ad esempio “capi ed esponenti delle consorterie mafiose e terroristiche”. È l’obiettivo con cui il Dap ha disposto, in una Circolare del 27 febbraio scorso, una stretta per i detenuti in regime di Alta Sicurezza stabilendo “l’assoluta necessità della custodia chiusa”. Il rischio rivolte - Una iniziativa però criticata dalle sigle sindacali della polizia penitenziaria secondo cui questo inasprimento del regime detentivo potrebbe portare a reazioni violente all’interno delle carceri, comprese anche vere e proprie rivolte, come è emerso da alcune intercettazioni nel carcere di Sulmona da parte di due esponenti della camorra. Per il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, la strada intrapresa è comunque quella giusta. “Le minacce dei mafiosi dal carcere di Sulmona confermano una cosa: stiamo colpendo nel segno. Se ci attaccano, significa che la strada che abbiamo scelto è quella giusta - afferma l’esponente di FdI -. Abbiamo sempre detto che il 41 bis e l’ergastolo ostativo non si toccano. Lo Stato non tratta con chi ha fatto della violenza e dell’illegalità il proprio metodo di vita. Nessuno pensi di piegarci con minacce e intimidazioni”. La circolare del Dap - Nella circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si legge che “tutti gli operatori penitenziari dovranno porre ogni sforzo esigibile per evitare che le celle rimangano aperte” nei regimi di Alta sicurezza in carcere. Secondo il documento, “fuori dalle camere detentive sarà consentito quindi esclusivamente la partecipazione allo svolgimento per un arco di tempo individuato ed organizzato, di determinate attività in comune o attività trattamentale” e quindi si chiede che “i detenuti rimangano ubicati all’interno delle camere di pernottamento nell’arco della giornata sotto il diretto controllo del personale”. Lo sciopero del carrello dei detenuti - Dal canto suo il segretario dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci ricorda che le celle di Alta sicurezza nelle carceri “sono aperte quasi dappertutto, ad esempio a Prato, ad Avellino, a Torino: a Terni le hanno chiuse da due giorni” e i detenuti hanno iniziato “subito lo sciopero del carrello, che sarebbe rifiutare il cibo fornito dall’amministrazione”. I sindacati di categoria spiegano che “la chiusura dei detenuti in Alta sicurezza è una storia ormai vecchia”. Si era “cominciato ad aprirle - aggiunge Beneduci - nonostante le disposizioni dicessero il contrario, ai tempi del Covid. Dopodiché, siccome lo strapotere in certi istituti è proprio legato alla presenza di questi soggetti criminali di alta caratura criminale, non si è più riusciti in molte realtà a chiuderle”. E ancora: “per vigilare sulle disposizioni di chiusura delle celle di Alta sicurezza vengono inviati reparti speciali che restano due giorni, ma poi questi se ne vanno e la gestione resta in mano a personale inesperto”, prosegue Beneduci, per il quale “è inutile chiuderli se poi è la stessa amministrazione a fornire i mezzi per i contatti all’esterno, ovvero i telefonini”. Nessun dietrofront: donne incinte e madri finiranno in carcere di Susanna Ronconi* L’Unità, 5 aprile 2025 Irrisa la parola di Mattarella. La mossa autoritaria del governo mantiene nel decreto il contenuto securitario e forcaiolo del ddl. Con la campagna “Madri fuori” non smetteremo di lottare. Non c’è niente da fare: i contrappesi democratici, per la destra di governo, vanno elusi e sabotati, e il confronto in parlamento imbavagliato. Questa, alla fin fine, è la lezione appresa dall’iter del Ddl Sicurezza, su cui il Presidente Mattarella è intervenuto, ponendo - pur con i limiti istituzionali previsti - la sua ipoteca etica e costituzionale su alcuni articoli. La decisione è quella di aggirare il parlamento ricorrendo alla decretazione di urgenza. Questo non solo non dà alcuna garanzia che vengano in effetti lasciati fuori gli articoli al centro della critica presidenziale, ma salva il DDL nel suo complesso, sottraendolo a un ampio confronto parlamentare. E infatti la lettura del testo del decreto elaborata dal governo suona come una irrisione della parola del Presidente. Una mossa autoritaria, che mantiene nel decreto il contenuto securitario e forcaiolo del DDL. Questo vale anche per gli articoli che riguardano il carcere. Non si ripristina affatto buon senso e diritto sulla punizione delle lotte non violente in carcere, ma si inserisce solo una postilla secondo cui si considera reato di rivolta solo un gesto commesso “in presenza di violazioni di ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”, cosa che in carcere può significare tutto e il contrario di tutto, a completa discrezione dei carcerieri. E per le donne incinte o madri di bimb3 al di sotto di un anno non va meglio: la norma che evita la custodia cautelare non viene affatto ripristinata, ma la detenzione preventiva può essere prevista negli ICAM, istituti a custodia attenuata per le madri. Cioè: carcere! La Campagna ‘Madri fuori. Dallo stigma e dal carcere’, avviata dall’associazione La Società della Ragione con l’adesione e il sostegno di centinaia di singol3 cittadin3 e associazioni, ha lottato in particolare contro uno degli articoli al centro delle critiche del Presidente: quello che revoca la norma secondo cui le donne incinte o madri di bimb3 fino a un anno di età non devono essere recluse, ma possono accedere alle diverse misure alternative che le leggi prevedono. Un diritto che già il codice fascista garantiva, confermato dalle successive legislazioni, e che la furia punitiva, razzista e classista del DDL trasforma invece in una eccezione affidata alla discrezionalità del giudice. Norma razzista e classista: non solo per la dichiarata intenzione, soprattutto leghista, di colpire in primo luogo le donne Rom, ma anche per i suoi stessi dispositivi. L’articolo infatti abroga la garanzia di partorire libere, e il diritto dei bamin3 di nascere liber3, non certo in nome di una supposta pericolosità delle donne, e men che meno della gravità del reato, bensì in nome del rischio di recidiva: un rischio che è soprattutto delle donne più povere e escluse, e tipico dei reati minori, soprattutto contro il patrimonio. Una norma, dunque che impone il carcere alle madri che sono innanzitutto le più svantaggiate, e che si trovano a pagare il prezzo della loro povertà in termini di umiliazione e sottrazione della loro maternità. Per loro, la negazione di una maternità rispettosa di se stesse e dei loro figl3 diventa parte della punizione. Un dispositivo odioso, disumano e degradante. Stessa disumanità punitiva insita nel negare a un migrante di poter usare un cellulare per restare in contatto con i suoi cari e con il mondo, o a chi è reclus3 di poter aprir bocca e manifestare in modo nonviolento: norme su cui non a caso si estende l’ombra della incostituzionalità sottolineata da Mattarella. La campagna ‘Madri fuori’ è indubbiamente servita: a informare e sollecitare le opposizioni in parlamento, che anche su questo hanno ingaggiato battaglia, e a farlo anche nel paese, portando il grido delle donne recluse nelle tante mobilitazioni locali, incentivando le visite nelle sezioni femminili per conoscerne la realtà, e nella campagna nazionale ‘A pieno regime’ contro il DDL. Ed è certamente servita anche a sollecitare la nota critica del Presidente. Ma questa decretazione d’urgenza non accoglie affatto le nostre proteste né i rilievi del quirinale: le donne incinte e madri di figl3 piccoli finiranno in carcere, sebbene ICAM: ma gli ICAM hanno le sbarre, sono reclusione. Un vero atto di guerra contro le donne, dentro una cultura patriarcale che non rinuncia a erodere diritti e rispetto, e farlo ai danni soprattutto delle più vulnerabili. Lo scenario che questa destra così rapidamente e aggressivamente va definendo minaccia tutte le donne detenute, con una tenaglia fatta di un diritto penale sempre più punitivo verso le fasce sociali più deboli e verso chi lotta, un carcere sempre più vendicativo e, insieme, un arrogante revanscismo patriarcale. Non possiamo, allora, smettere di lottare. Anche ‘Madri fuori’, come le altre campagne, ha sempre sostenuto che il DDL dovesse essere rigettato in blocco, era ed è per noi inemendabile. Lo è anche questo decreto: l’opposizione più dura deve continuare, in parlamento e fuori. Ddl sicurezza approvato “senza” il Parlamento: “Urgente tutelare la polizia” di Simona Musco Il Dubbio, 5 aprile 2025 Meloni: “Nessuna scorciatoia”, solo “una scelta per rispettare gli impegni presi con i cittadini e chi difende la nostra sicurezza”. Punita anche la resistenza passiva in carcere e Icam obbligatorio per detenute incinte o con figli piccoli. Nessuna “scorciatoia”, nessun “blitz”, ma “semplicemente una scelta che il Governo legittimamente” ha fatto “per rispettare gli impegni presi con i cittadini e con chi ogni giorno è chiamato a difendere la nostra sicurezza”. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni risponde direttamente da Palazzo Chigi a chi, negli ultimi due giorni, ha denunciato il “golpe liberticida” con il quale il governo ha trasformato il ddl Sicurezza in decreto, di fatto esautorando il Parlamento. L’urgenza, ha dichiarato Meloni in Consiglio dei Ministri, convocato appositamente per questa misura, stava nella necessità di garantire “una specifica tutela legale” ad agenti di polizia e militari “che dovessero essere indagati o imputati per fatti inerenti al servizio”, che “potranno continuare a lavorare e lo Stato sosterrà le loro spese legali, fino ad un massimo di diecimila euro per ogni fase del procedimento”. Una norma pensata partendo dal caso di Luciano Masini, il maresciallo che ha sparato e ucciso un uomo che aveva ferito quattro persone la notte di Capodanno. “Una norma sacrosanta - ha sottolineato Meloni - che le nostre forze di polizia aspettano da molto tempo, e che è nostro dovere assicurare loro”. Da qui la scelta, “d’accordo con Antonio Tajani e Matteo Salvini”, di trasformare il testo del pacchetto sicurezza in un decreto-legge, “che quindi sarà immediatamente operativo ed entrerà subito in vigore”. Il decreto, che conta 39 articoli, prevede introduzione di nuovi reati e inasprimenti di pena, motivo per cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto in anticipo alle polemiche: “Siamo sempre stati accusati di contraddizione, perché da un lato abbiamo predicato il garantismo e dall’altro abbiamo introdotto il panpenalismo - ha sottolineato il guardasigilli -. Voglio ancora ribadire che garantismo, per noi, vuol dire enfatizzazione della presunzione di innocenza, ma anche certezza della pena e certezza della sicurezza dei cittadini”. Per quanto riguarda la presunzione d’innocenza, dati i numeri elevati di persone in carcere in attesa di processo, “ci muoveremo sui presupposti della custodia cautelare”. Sul fronte della sicurezza, invece, la risposta starebbe nel decreto approvato oggi. Nessuno scudo penale, ma solo tutela legale per le forze di polizia, ha assicurato, “una novità estremamente importante”, dal momento che fino ad oggi chi veniva indagato e poi magari assolto “nel frattempo doveva pagare costose spese legali”. “Saremo sì accusati di panpenalismo - ha concluso Nordio - ma il diritto penale si deve svolgere secondo le necessità di tutela che vengono evidenziate dallo svolgersi degli eventi”. In conferenza stampa anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, secondo cui “la centralità del Parlamento non è stata, in qualche modo, violata - ha assicurato - tenendo presente che abbiamo recepito, in 6 o 7 punti del provvedimento, anche questioni importanti che erano emerse dal dibattito parlamentare. Poi il decreto torna in Parlamento, che ha due mesi di tempo per la conversione, e sarà sempre il giudice ultimo di questo provvedimento”, che “è andato già troppo per le lunghe”. Sulle modifiche “non tiriamo in mezzo il Colle”, ha aggiunto: gli interventi di limatura verrebbero dalla discussione fatta in aula. E l’urgenza, a suo dire, era dare “tempi certi” a provvedimenti come “tutela legale dei poliziotti, degli anziani, delle categorie vulnerabili e degli immobili”, elementi “molto importanti” per “un governo come il nostro”, per il quale “si era perso troppo tempo”. Ammorbidite, dunque, ma non troppo le misure più criticate - sulle quali anche il Colle aveva espresso perplessità -, di fatto togliendo la palla al Parlamento. Decisione che ha spinto le opposizioni a scendere in piazza, davanti al Pantheon (dove sono andati in scena scontri e cariche delle forze di polizia, mentre i manifestanti tentavano di raggiungere Palazzo Chigi), per denunciare il “golpe liberticida del governo”, come dichiarato dal segretario di Più Europa Riccardo Magi. Un “decreto Ungheria”, per il capogruppo di Avs Peppe De Cristofaro, e un esempio di “populismo penale” che “piega il Parlamento”, per Francesco Boccia, presidente dei senatori del Pd, secondo cui la destra, divisa e a suo dire preoccupata dal congresso della Lega, porta avanti un testo che “umilia la Costituzione”. Intanto nella piazza di Roma contro il decreto ci sono stati dei momenti di tensione e scontri tra i manifestanti e lo schieramento delle forze di polizia. Al grido di “corteo, corteo”, i manifestanti hanno provato a rompere il cordone e dirigersi verso piazza Montecitorio, ma sono stati fermati e riportati all’ordine. I rilievi del Quirinale e le modifiche - Uno dei punti sui quali il Quirinale aveva espresso perplessità riguardava l’obbligo per le pubbliche amministrazioni, i gestori di servizi pubblici, le università e gli enti di ricerca di collaborare con i Servizi di sicurezza, cedendo informazioni anche in deroga alle normative sulla riservatezza. La norma è stata cancellata, ha spiegato Piantedosi, ma “non perché ci sia un’ammissione di valore negativo”, dal momento che “voleva dare copertura legislativa a ciò che già succede, a volte, col mondo scientifico e le istituzioni. Ma visto che c’è stata una discussione l’abbiamo espunta”. Un altro aspetto che il Colle aveva chiesto di correggere riguarda la definizione del reato di rivolta in carcere. Il decreto specifica ora che tale reato si configura solo in caso di violazione di ordini per mantenere la sicurezza e l’ordine, escludendo ordini di natura disciplinare, come quelli relativi all’igiene o alla pulizia della cella. Le stesse modifiche si applicano ai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), mentre il reato di rivolta è stato escluso dai centri di accoglienza, considerati strutture di natura diversa dagli istituti penitenziari. Per quanto riguarda le detenute madri, il decreto prevede l’obbligo (e non più la facoltà) di eseguire la custodia cautelare per le donne incinte o con figli minori di un anno presso un istituto di custodia attenuata. Tuttavia, il giudice avrà la possibilità di valutare l’interesse preminente del minore anche in caso di condotte gravi da parte della madre. “Non vogliamo penalizzare le donne incinte - ha dichiarato Piantedosi - ma l’utilizzo strumentale della condizione di maternità per commettere reati, come nel caso delle borseggiatrici”. “Una presa in giro”, ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: i detenuti potranno essere trattati come “rivoltosi” anche per una resistenza passiva, senza violenza, senza specificare nulla sul fatto che gli ordini debbano essere legittimi. Inoltre, le detenute incinte o con figli piccoli finiscono “obbligatoriamente negli Icam”, che restano carceri, e “rimane la trasformazione del differimento obbligatorio della pena in facoltativo”. Il testo originale prevedeva anche un’aggravante generica per chi ostacola la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture strategiche, senza definire chiaramente quali opere fossero meritevoli di protezione. Il nuovo decreto restringe l’aggravante alle infrastrutture essenziali, come impianti energetici, trasporti, telecomunicazioni e altri servizi pubblici. Ma sostanzialmente la norma resta immutata e mira a punire i contestatori di opere pubbliche come il ponte sullo Stretto. Una modifica riguarda anche l’accesso ai servizi telefonici per i migranti sbarcati in Italia. Inizialmente, era necessario un permesso di soggiorno per ottenere una sim telefonica. Dopo la revisione, sarà sufficiente un documento d’identità, per evitare che i migranti siano impossibilitati a comunicare con familiari o avvocati. Per quanto riguarda le aggressioni e la resistenza a pubblico ufficiale, il testo originario prevedeva la prevalenza automatica delle aggravanti sulle attenuanti generiche, impedendo al giudice di valutare caso per caso. Il Quirinale ha ritenuto questa disposizione non conforme ai principi di equità del diritto penale e ha richiesto una modifica. Ora il giudice potrà considerare anche eventuali attenuanti, garantendo un equilibrio più giusto nella determinazione della pena. Le misure introdotte dal decreto - Il decreto punta a rafforzare il contrasto al terrorismo, introducendo il reato di possesso di materiali utili alla preparazione di attentati. Chi viene trovato in possesso di manuali, istruzioni o strumenti utilizzabili per atti terroristici rischia da 2 a 6 anni di carcere, mentre la diffusione di tali contenuti, anche online, comporterà una condanna fino a 4 anni. Per limitare l’uso improprio del noleggio auto da parte dei terroristi, il decreto introduce controlli più severi sui noleggiatori, con sanzioni fino a 206 euro o l’arresto fino a tre mesi per chi non rispetta le nuove regole. Sul fronte della lotta alla mafia, viene ampliata la possibilità di effettuare controlli antimafia sui contratti di rete tra imprese. Tuttavia, il Prefetto avrà il potere di valutare caso per caso se un’azienda a rischio mafia possa continuare a operare. Per contrastare le occupazioni abusive, il decreto introduce una pena da 2 a 7 anni di carcere per chi occupa un’abitazione privata con violenza o minaccia, e la polizia potrà intervenire immediatamente per sgomberare gli occupanti. Inoltre, il decreto prevede pene più severe per chi commette reati nelle stazioni ferroviarie e sui mezzi pubblici, come furti e aggressioni. Una novità riguarda la tutela legale per le forze dell’ordine: il decreto aumenta le pene per chi aggredisce poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco, con sanzioni da 2 a 5 anni per lesioni semplici, da 4 a 10 per lesioni gravi e da 8 a 16 per lesioni gravissime. Viene introdotto anche un finanziamento di 10 milioni di euro per l’uso delle bodycam da parte degli agenti e un rimborso fino a 10.000 euro per le spese legali degli agenti indagati per fatti di servizio. Se l’agente sarà riconosciuto colpevole con dolo, dovrà restituire l’importo ricevuto. In merito alle rivolte carcerarie, il decreto introduce un nuovo reato specifico: chi partecipa a una sommossa rischia fino a 5 anni di reclusione, mentre per chi la organizza la pena può arrivare a 8 anni. Se la rivolta provoca feriti o coinvolge armi, le sanzioni saranno ancora più severe. Le stesse disposizioni si applicano ai Cpr. Tra le misure più discusse, spicca il divieto di vendita della cannabis light: il decreto vieta la commercializzazione di infiorescenze di canapa e derivati come oli e resine, chiudendo il dibattito sulla legalità di questi prodotti. Infine, il provvedimento introduce un inasprimento delle sanzioni per chi non si ferma all’alt della polizia: oltre alla multa, si rischia ora la sospensione della patente fino a un anno. Blitz sul decreto Sicurezza, Meloni: “Non potevo rinviare”. Scontri e cariche in piazza di Niccolò Carratelli La Stampa, 5 aprile 2025 Accolti i rilievi del Quirinale su donne incinte in carcere e sim card ai migranti irregolari. Salta anche la norma sulle informazioni agli 007. Solo tutele legali per militari e polizia. Secondo Giorgia Meloni “sono norme necessarie, non più rinviabili”. Per le opposizioni e le tante associazioni scese in piazza ieri in varie città italiane (con scontri a Roma), invece, siamo di fronte a un provvedimento “liberticida e repressivo”, oltre che “incostituzionale”. L’unica certezza è che le nuove norme sono immediatamente operative, perché il disegno di legge Sicurezza, in attesa della seconda lettura in Parlamento da oltre un anno, è stato approvato ieri dal Consiglio dei ministri sotto forma di decreto. “Nessun blitz, è una scelta legittima, di cui ci assumiamo la responsabilità - ha spiegato la premier durante la riunione a Palazzo Chigi - consapevoli del fatto che non potevamo più aspettare e che era prioritario dare risposte ai cittadini e assicurare a uomini e donne in divisa le tutele che meritano”. Il più soddisfatto è Matteo Salvini, che voleva sventolare la bandiera securitaria al congresso della Lega, oggi a Firenze: “Un’altra promessa mantenuta - esulta il vicepremier sui social -. Il governo è e sarà compatto e la Lega è il collante della maggioranza”. In realtà, i leghisti hanno dovuto differire diverse modifiche, rispetto alla versione originaria presentata alla Camera, su tutte le questioni su cui si sono concentrati i rilievi del Quirinale. La detenzione per donne incinte o madri di bambini con meno di un anno potrà avvenire solo in istituti di custodia attenuata. Per i migranti che sbarcano in Italia sarà sufficiente presentare un documento d’identità (e non più il permesso di soggiorno) per ottenere una sim telefonica. Poi, altro punto monitorato dal Colle, nessun obbligo per le pubbliche amministrazioni, le università, le società controllate e partecipate e gli enti di ricerca di collaborare con i servizi di intelligence e condividere informazioni riservate: questa norma “è stata espunta, perché aveva indotto a fraintendimenti”, precisa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Inoltre, vengono rese meno stringenti le norme sulle rivolte in carcere e nei centri per il rimpatrio dei migranti e sulle proteste contro opere e infrastrutture strategiche. Restano le attenuanti per i resti di aggressione o resistenza a pubblico ufficiale. D’altra parte, viene prevista una specifica tutela legale per gli agenti delle forze dell’ordine e i militari, finiti indagati o imputati per fatti inerenti al servizio: lo Stato sosterrà le spese fino a 10 mila euro per ogni grado di giudizio. “Questo non significa immunità”, sottolinea Piantedosi, cioè nessuno scudo penale, come pure si era ipotizzato. “Abbiamo recepito le questioni emerse, il Parlamento sarà sempre il giudice ultimo, visto che ci sono ora due mesi per approvare il decreto”, assicura il ministro dell’Interno provando a smorzare le polemiche. Tentativo fallito, perché la protesta di piazza è montata, con manifestazioni ieri e altre in programma oggi. A Roma, momenti di tensione e brevi scontri tra polizia e studenti che puntavano a Palazzo Chigi. In mezzo a loro c’erano i rappresentanti di Avs, con Angelo Bonelli che parla di un “vero e proprio golpe” da parte del governo e Peppe De Cristofaro che lo definisce “decreto Ungheria”. Per Francesco Boccia, capogruppo Pd al Senato, “siamo di fronte al populismo penale che piega il Parlamento”. Dal M5s vedono una “giustizia classista contro i cittadini”. Forti perplessità anche dal presidente dell’Associazione magistrati, Cesare Parodi, convinto che il decreto “avrà ricadute sulla gestione comune della giustizia nel Paese” Sicurezza, l’urgenza di Salvini diventa decreto legge di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 aprile 2025 A passo di carica In mezz’ora il Consiglio dei ministri vara la legge che assorbe il vecchio ddl e alcune delle modifiche richieste dal Colle. I motivi della fretta di Meloni: i nuovi reati richiesti dalla forze dell’ordine e dalla polizia penitenziaria. Raramente un ministro dell’Interno era mai stato così trasparente nell’ammettere che il suo governo ha usato uno strumento destinato solo ai casi straordinari come la decretazione d’urgenza al solo fine di ottenere un risultato squisitamente politico. “Volevamo dare tempi certi a provvedimenti per noi molto importanti e in parlamento, con la terza lettura, i tempi del ddl Sicurezza si sarebbero prolungati troppo”, ha spiegato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi nella conferenza stampa tenuta insieme al Guardasigilli Carlo Nordio dopo il breve Consiglio dei ministri di ieri che ha varato il decreto legge nel quale è confluito tale e quale il pacchetto Sicurezza, corretto soltanto in piccole parti, perlopiù quelle indicate dal Quirinale e dalla Ragioneria dello Stato. “Ma non tiriamo in ballo il Colle: c’è stata una discussione democratica in Parlamento e tra forze politiche”, ha replicato a domanda il titolare del Viminale, malgrado in Senato la maggioranza non abbia mai concesso alcunché alle critiche delle opposizioni. In ogni caso, “il Parlamento sarà sempre il giudice ultimo di questo provvedimento”, chiosa Piantedosi. Bisogna però dare atto ai due ministri, ai quali è toccato difendere l’operazione davanti ai giornalisti, che il trucchetto governativo a cui si sono prestati è andato tutto a beneficio di altri. “Più poteri e tutele a donne e uomini delle forze dell’ordine, norma anti-Salis per sgomberare più rapidamente le case occupate, borseggiatrici in carcere anche se sono in gravidanza. Sono solo alcune delle misure fortemente volute dalla Lega e inserite nel decreto Sicurezza appena approvato dal Consiglio dei ministri. Un’altra promessa mantenuta!”, posta su Instagram un trionfante Matteo Salvini pronto a capitalizzare il risultato oggi stesso al congresso di Firenze. Era dunque sostanzialmente questa, la contropartita richiesta dalla Lega per accettare i rilievi sollevati dall’ufficio giuridico del Quirinale e sempre rifiutati quasi come un’ingerenza. Le norme contenute nel ddl Sicurezza varato un anno e mezzo fa dal Consiglio dei ministri e a poche settimane dalla conclusione dell’iter parlamentare (senza possibili intoppi, visti i numeri della maggioranza) sono diventate improvvisamente “necessarie e urgenti”. Intercettata nei corridoi di Palazzo Chigi, anche la premier Giorgia Meloni nega il “blitz”: sono norme “necessarie che non possiamo più rinviare per rispettare gli impegni presi con i cittadini e con chi ogni giorno è chiamato a difendere la nostra sicurezza”. In effetti, nei “34 articoli sostanziali del testo”, come li ha chiamati Nordio, sono confluiti quasi tutti i nuovi reati e le aggravanti che erano state introdotte con il ddl Sicurezza. Salvo l’aggiornamento delle date per assicurare la copertura finanziaria, come da modifiche approvate in commissione Bilancio, e le sei correzioni segnalate dal Quirinale per le norme particolarmente a rischio di incostituzionalità: nell’articolo 32 del nuovo provvedimento scompare il divieto di vendere le carte Sim ai migranti irregolari; ora, senza permesso di soggiorno basta un documento. Cade (art. 31) l’obbligo delle pubbliche amministrazioni e delle società controllate o partecipate (università, ospedali ecc.) di collaborare con i servizi segreti, anche se rimane la possibilità per gli agenti sotto copertura di presiedere associazioni sovversive, terroristiche o mafiose. Le donne incinte o madri di bambini piccoli devono (non più facoltativa) essere sottoposte a pene detentive solo in istituti di custodia attenuata (art. 15). Si delimita, poi, meglio il perimetro dell’aggravante “No Ponte” pensata per chi protesta contro le grandi opere e si riduce il suo peso rispetto alle attenuanti, ma le pene vengono aumentate rispetto al Ddl, da un terzo alla metà (art. 19). Allo stesso modo, riprendono peso le circostanze attenuanti per tutti i reati di aggressione o resistenza a pubblico ufficiale. E infine - ultimo punto segnalato dagli uffici del presidente Mattarella - quasi nulla cambia negli articoli 26 e 27 che configurano il nuovo reato di rivolta nelle carceri, nei Cpr e negli hotspot anche in caso di resistenza passiva. Nel decreto, esattamente come nel ddl, la pena da uno a 5 anni è prevista in caso di rivolta o resistenza anche passiva all’esecuzione di ordini impartiti se questa “impedisce il compimento degli atti necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. “È una tutela ulteriore per la polizia penitenziaria” che l’aveva richiesta, ammette Nordio in conferenza stampa. “Non si specifica che l’ordine debba essere legittimo”, fa notare Antigone. Per il resto tutto uguale, anche se il ministro Piantedosi annuncia una piccola variazione dell’articolo 18 che, “pur mantenendo il divieto assoluto delle infiorescenze, apre allo sviluppo della filiera industriale della canapa”. Un’apertura che è solo “un pannicello caldo che non cancella il vergognoso impianto proibizionista e oscurantista sulla cannabis light”. “Nulla di rilevante è cambiato sulla criminalizzazione della disobbedienza civile”, commenta Patrizio Gonnella che definisce l’annuncio delle modifiche “una presa in giro”. Ddl Sicurezza: quel “travaso” di norme e il ruolo delle Camere di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 5 aprile 2025 Pur senza mutuare le espressioni di sdegno delle forze politiche di opposizione, che qualificano la mossa del governo come un “furto” che “umilia per l’ennesima volta il Parlamento”, bisogna ammettere che il travaso di gran parte del contenuto del controverso ddl Sicurezza in un decreto legge suscita qualche perplessità. Al netto delle presunte motivazioni politiche (l’evidente pressing della Lega, col vicepremier Matteo Salvini intenzionato ad esibire il risultato nell’imminente congresso di partito) che possono aver contribuito a far accelerare sul provvedimento, non manca qualche interrogativo. Com’è noto, secondo l’articolo 77 della Carta, i “provvedimenti provvisori con forza di legge” vengono adottati dal governo “in casi straordinari di necessità e di urgenza”. Un’urgenza che l’anno passato, quando l’esecutivo affidò il pacchetto a un disegno di legge ordinario incardinato in Parlamento, evidentemente non sussisteva. Ma che ora invece si è palesata: “Nessuna scorciatoia, nessun blitz, sono norme necessarie che non possiamo rinviare”, argomenta la premier Giorgia Meloni. “Volevamo dare tempi certi all’approvazione”, aggiunge il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ritenendo che “la centralità del Parlamento” non sia stata lesa, perché “il testo tornerà alle Camere per la conversione in legge” e perché, accanto alle correzioni dopo i rilievi di incostituzionalità segnalati dal Colle, sono stati “recepiti alcuni aspetti emersi nel dibattito parlamentare”. Sia come sia, la modalità appare inedita: non si ricorda presso gli uffici legislativi di Palazzo Madama e Montecitorio (che pure hanno visto di tutto: dall’abuso di “reiterazioni” di decreti, stoppato dalla Consulta nel 1996, alle correzioni per decreto di leggi appena approvate, fino alle “trasfusioni” di norme da un testo all’altro) un tale trasferimento di misure da un ddl (approvato da un ramo del Parlamento e pronto ad andare in Aula nell’altro, ma ormai destinato a un binario morto) a un decreto legge. Un unicum, dunque. Ma che, se dovesse ripetersi in futuro, finirebbe per rosicchiare un altro spicchio della funzione legislativa delle Camere, già infiacchita in questi anni dall’uso continuo della decretazione d’urgenza e dello strumento della fiducia. Qual è l’urgenza di approvare il ddl Sicurezza? Il Parlamento è esautorato, protestiamo! di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2025 Di fronte al freno di Mattarella, la discussione parlamentare era rallentata e rischiava di arenarsi. Ecco allora la mossa del Governo. Esplicita e palese carta straccia di ogni procedura costituzionale. Ma possibile che siamo arrivati a questo? E senza che vi sia un’indignazione di popolo? Vorrei qui proporre un banale ragionamento. Il disegno di legge governativo sulla sicurezza stava seguendo il proprio iter parlamentare da oltre un anno. Le norme lì contenute - quelle che criminalizzano le proteste che bloccano il traffico e i movimenti per l’abitare, quelle a protezione dei poliziotti, quelle che vietano la cosiddetta cannabis light e tutte le altre - sono state votate dalla Camera dei Deputati ed erano attualmente in discussione al Senato. Tra queste, le tre norme che, come trapelato da fonti di stampa, non sarebbero state viste di buon occhio dal Quirinale. E ben si capisce il perché. Vi è innanzitutto l’introduzione del divieto di acquistare una sim card per chi è presente irregolarmente sul territorio nazionale. Una norma ispirata a pura cattiveria. Un minore straniero non accompagnato che arriva in Italia dopo un viaggio estenuante non potrebbe, secondo il governo, avvisare i genitori di essere vivo. Una norma sciocca, se la scusa per introdurla è quella della tracciabilità al fine di garantire sicurezza: è evidente che ci si rivolgerà al mercato nero, rendendo del tutto non tracciabile l’acquisto della sim, laddove un acquisto in bianco con documenti stranieri avrebbe comunque permesso di abbinare un nome al numero telefonico. La seconda norma che sarebbe contestata dal Colle è quella che apre alla possibilità del carcere per donne incinte o con bambini sotto un anno di età. Una possibilità che neanche il codice Rocco, emanato in piena era fascista, aveva immaginato. Infine, la norma che introduce il reato di rivolta penitenziaria, nella parte in cui lo configura anche in caso di resistenza passiva a un ordine impartito. Punire una persona - e con pene niente affatto lievi: si arriva fino a otto anni di carcere aggiuntivi - per non aver fatto niente (questo significa resistenza passiva), punire forme di dissenso del tutto pacifiche non è pensabile in uno stato democratico. ?Di fronte al freno di Mattarella su questi punti, la discussione parlamentare è rallentata e rischiava di arenarsi. I tempi del Senato si andavano allungando. Ecco allora che nelle scorse ore il governo ha pensato la seguente mossa: abbandonare il disegno di legge su un binario morto, raccogliere le norme del testo al di fuori degli aspetti problematici, aggiungerne di nuove e inserirle in un decreto legge da emanare al più presto. L’accordo tra le varie anime del Consiglio dei Ministri pare sia stato già trovato. E veniamo adesso al ragionamento che volevo proporre. Un ragionamento ovvio, che difficilmente si può non seguire: quale motivazione di urgenza - che la Costituzione italiana prevede come indispensabile nell’emanazione di un decreto legge - potrà mai esserci per una raccolta di norme che stavano seguendo un tranquillo e lento iter parlamentare da oltre un anno? Siamo talmente abituati a un Parlamento esautorato e scavalcato dall’esecutivo che una considerazione così banale non si impone immediatamente. Tra l’altro, le norme del ddl volevano regolamentare campi eterogenei e lontani tra loro, là dove una previsione costituzionalmente orientata prevede che il decreto legge abbia una propria unità di contenuti. Un ragionamento intellettualmente onesto e giuridicamente fondato ci dice che mancano le basi per procedere a una decretazione di necessità e urgenza sulle norme del ddl sicurezza. Protestiamo in massa contro tutto questo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Il Governo ha fretta di affossare libertà e diritti di Pasquale Prencipe L’Unità, 5 aprile 2025 Le notizie emerse finora sulla riforma sulla “sicurezza” del governo Meloni approvata dal Consiglio dei ministri, se confermate, sarebbero una presa in giro, contenendo il testo stesso modifiche irrilevanti rispetto al disegno di legge, che lascerebbero invariato l’impianto repressivo e illiberale, producendo un sovraffollamento carcerario ingestibile. I tempi ordinari della democrazia parlamentare sono troppo lunghi per l’attuale Governo che, utilizzando un decreto legge, ha l’intenzione di rimpiazzare il disegno di legge in discussione al Senato. Il d.d.l. “sicurezza”, ex n. 1660 alla Camera, ora n. 1236 al Senato, avrebbe potuto concludere il suo iter nei prossimi giorni, ma un errore sulla copertura finanziaria, rende necessario il suo ritorno alla Camera. Il d.d.l. era stato presentato proprio in questo ramo del Parlamento a novembre 2023, e discusso per un anno e mezzo, sino a questo aprile 2025, comprendendo anche il passaggio al Senato dove tutt’ora si trova. Un tempo lungo, come sono i tempi parlamentari, che consentono però anche di approfondire le materie oggetto di legiferazione, di confrontarsi con la società civile e ascoltare pareri e critiche. I tempi della democrazia che, evidentemente, però per il governo equivalgono a del tempo perso a fronte della possibilità di utilizzare un decreto legge per introdurre l’ennesima riforma securitaria nel nostro ordinamento. Tuttavia, il decreto legge è un atto normativo che si fonda su determinati e chiari presupposti. Come si intende giustificare la straordinaria necessità ed urgenza a fronte di un iter parlamentare in corso sulle medesime norme? Come è possibile considerare omogenee le norme di una riforma che spazia dalla distruzione della filiera della Canapa legale ai reati in materia di terrorismo? Si ricorda che l’adozione di un decreto in mancanza dei suoi presupposti configura un vizio di legittimità costituzionale. Si sta tentando quindi di forzare l’adozione di un provvedimento, seppur, va riconosciuto, con una visione coerente: all’infondatezza e illegittimità sostanziale e di contenuto, si persegue l’infondatezza e l’illegittimità procedurale. L’Associazione Antigone ha alzato la propria voce sin dalla fine del 2023, evidenziando con documenti, approfondimenti e un testo (“Il più grande attacco alla libertà di protesta” edito da Momo Edizioni), il perché questa possibile riforma sia il più grande attacco alla libertà di protesta nella storia della Repubblica. Da quello che si evinceva nelle dichiarazioni dei giorni scorsi sembrava che il decreto avrebbe accolto le indicazioni del Capo dello Stato su alcune norme, estromettendo, nello specifico, le norme riguardanti l’eliminazione del rinvio obbligatorio della pena per donne madri con prole inferiore ad un anno di età o in stato di gravidanza, l’obbligo del permesso di soggiorno per l’acquisto di una Sim e il neo delitto di rivolta penitenziaria, che introduce tra le condotte penalmente rilevanti la resistenza passiva. Mentre proprio le bozze delle ultime ore sembrano invece confermate molte di queste disposizioni. Nulla di rilevante è cambiato sulla criminalizzazione della disobbedienza civile. I detenuti sono trattati come rivoltosi anche se resistono passivamente a qualsiasi ordine dato da un poliziotto; non si specifica che l’ordine debba essere legittimo. Ugualmente anche sulle detenute incinte o con bimbi con meno di un anno si dispone la custodia cautelare obbligatoriamente negli Icam, che comunque sono a tutti gli effetti carceri, ma rimane la trasformazione del differimento obbligatorio della pena in facoltativo. Dunque un impianto che mantiene l’obiettivo di punire le forme di opposizione sociale e culturale. Punire il dissenso attraverso l’inserimento nel nostro ordinamento di reati e aggravanti che hanno come destinatari: eco-attivisti, migranti, movimenti contro le grandi opere, Ong, Rom e gli stessi detenuti. Una riforma che potrebbe produrre anche un cambio di paradigma, perché oltre a criminalizzare le categorie suddette, si appresta a delineare le basi per l’affermazione di uno Stato di Polizia. Sono vari gli articoli che riguardano le forze dell’ordine: la concessione di armi senza licenza per gli agenti di pubblica sicurezza non in servizio, con un inevitabile ed esponenziale rischio di aumento di armi in circolazione, anche se limitate nella tipologia; un aumento ingiustificato del potere di azione conferito alle agenzie dei servizi segreti; la dotazione di videocamere alle forze di polizia, che restano una fondamentale garanzia per il cittadini e per gli stessi agenti, ma nell’articolo non vengono specificate le modalità esecutive, se sarà un obbligo o una facoltà, chi sarà a detenere i filmati e in che modo, in quali circostanze potranno essere attivate e disattivate, mutandone così la loro efficacia di tutela. Per concludere, la riforma introdurrà il divieto di coltivazione, produzione e commercializzazione dei fiori di canapa legale, distruggendo il mondo della Canapa light e l’occupazione di migliaia di lavoratori. A nulla, dunque, sembrano valse le prese di posizione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dell’Osce, di sei Relatori Speciali delle Nazioni Unite, del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e delle tante realtà della società civile che hanno espresso preoccupazioni per il colpo durissimo che questo provvedimento potrebbe infliggere allo Stato di Diritto. Resta di fondo una domanda: quale è la sicurezza che si intende perseguire? Non sicuramente la sicurezza di poter esprimere in forma pacifica il proprio dissenso dinanzi a chiari attacchi alla nostra Costituzione. La via del panpenalismo rischia di investire i principi del diritto penale liberale in maniera irreversibile. Repressione senza alternativa di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 aprile 2025 “Non funziona più così”, risponde l’agente di polizia al professore arrestato perché appoggia le proteste contro il collasso climatico, quando chiede il rispetto delle garanzie costituzionali. Siamo nel 2030 negli Usa e in Diluvio, romanzo di Stephen Markley, ma la scena potrebbe ripetersi in una qualsiasi città italiana. E non tra qualche anno ma già domani, perché il governo ha trasformato in decreto il disegno di legge “sicurezza” che limita i diritti e aumenta le pene. Meloni stringe i bulloni della repressione, guarda caso - dalla finzione alla realtà - anche contro gli attivisti del clima. Lo fa con un provvedimento immediatamente in vigore che dovrebbe, per Costituzione, essere di “straordinaria necessità e urgenza” e invece è diventato prassi per il governo. A domanda su dove diavolo sia l’urgenza, il ministro Piantedosi ha risposto candido: “In parlamento si è perso troppo tempo”. Un anno e mezzo di discussioni, “tempo perso” durante il quale tutti gli emendamenti delle opposizioni sono stati respinti, quindi è falsa la spiegazione del ministro per cui il decreto “recepisce il dibattito parlamentare”. E poi l’iter di approvazione era ormai quasi concluso, dunque le motivazioni di questa ennesima umiliazione delle camere sono evidentemente altre. Essenzialmente due. La prima è far digerire alla Lega qualche modifica richiesta dal Quirinale, offrendo in cambio un’approvazione immediata. Il congresso della Lega che comincia oggi è il vero motivo di urgenza del decreto. Salvini ha rivendicato tutto postando immediatamente e pieno di gioia le foto di tutti i corpi di polizia. La legge è infatti un omaggio delle destre ai sindacati delle Forze dell’ordine, che avranno le mani più libere e soprattutto diecimila euro di soldi pubblici per ogni grado di giudizio per difendersi se accusati, come capita, di reati commessi in servizio. Questo nel paese dove non ci sono i fondi per risarcire le ingiuste detenzioni e un’elementare misura di garanzia come le body cam sulle divise degli agenti è ridimensionata (in questo stesso decreto) a “possibilità” e finanziata con fondi insufficienti. Ma il messaggio è chiaro: la premier (certo non solo Salvini) sta con le divise, del resto non si era fatta scrupolo di correggere persino il presidente della Repubblica quando aveva criticato le botte agli studenti di Pisa. Le divise ricambiano e da un po’ di tempo i sindacati hanno preso l’abitudine di commentare l’attualità a colpi di comunicati stampa come un Gasparri qualunque, l’altro giorno anche per criticare una sentenza, quella su Askatasuna. La seconda ragione che ha spinto il governo a lasciar morire uno dei rari disegni di legge per sostituirlo in corsa con l’ennesimo decreto è che in questo modo ha potuto accogliere, evitando le insidie degli emendamenti, una parte delle osservazioni del Quirinale. Il presidente della Repubblica dunque lo firmerà - malgrado sui requisiti costituzionali i dubbi siano tanti - avendo ottenuto lo stralcio di alcune norme di pura crudeltà o degne di Minority report. Il bicchiere però resta mezzo vuoto. In cambio di una legge pessima al cubo che avrebbe dovuto superare le spaccature nella maggioranza per essere approvata definitivamente tra qualche mese, ne abbiamo adesso una subito in vigore pessima al quadrato. Qualche giorno fa Meloni ha detto di essere invidiosa di Trump che con i suoi ordini esecutivi può fare deportazioni e cose del genere e così ha voluto anche lei il suo executive order. “Ma il decreto andrà comunque per la conversione in parlamento”, ha concesso bontà sua il ministro Piantedosi. In parlamento dove i decreti vengono abitualmente approvati con la fiducia. Il bicchiere resta vuoto per metà, se non di più, perché piccole modifiche al testo non bastano a renderlo potabile. A che serve dire che la mano pesante contro chi si oppone ai cantieri, che prima valeva per tutte le grandi opere che indicava il governo, adesso vale solo per i lavori relativi ai “trasporti, energia, telecomunicazioni e servizi pubblici”? È lo stesso, una norma su misura contro chi protesta per il ponte di Messina o per la Tav era prima e tale resta adesso. Oppure a che serve precisare che l’osceno divieto di resistenza passiva, con il quale si vogliono rendere le carceri ancora più infernali di quanto non siano già, prima valeva contro tutti gli ordini delle guardie penitenziarie e adesso solo contro quelli destinati al “mantenimento dell’ordine e della sicurezza”? La definizione è così vasta da comprendere facilmente tutto quello che accade in un universo inaccessibile come quello di un carcere. O di un Cpr, perché la novità è estesa anche ai migranti che non possono fare altro che resistenza passiva contro le inumane e folli detenzioni amministrative alle quali sono condannati senza aver commesso reato. Adesso anche oltremare, grazie guarda un po’ a un decreto legge. Giorgia Meloni, va detto, individua i problemi. Vede bene che montano rabbia a proteste per condizioni di vita che peggiorano, anche prima che la spesa sociale sia ulteriormente ridotta per comprare armi. Ma il governo non sa offrire risposte al problema e si concentra dunque sulla repressione degli effetti. Vale lo stesso per le manifestazioni che aprono gli occhi sulla catastrofe del riscaldamento globale. Meglio chiuderli, gli occhi, prevedendo fino a tre anni di carcere per un imbrattamento. Fino a ieri si rischiava al massimo una multa di 300 euro, ora “non funziona più così”. Roma e le altre piazze: “Ora un corteo nazionale contro il decreto sicurezza” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 5 aprile 2025 A centinaia nella capitale, con qualche manganellata e i palazzi blindati: mix tra politici e attivisti. Cortei da Bologna a Napoli contro la “deriva ungherese”. “La loro sicurezza serve soltanto a giustifica leggi liberticide. Non vogliamo un paese che ci obbliga a stare in silenzio di fronte alle ingiustizie e che invece di proteggerci ci minaccia”. Le parole di una studentessa media al microfono piazzato davanti al Pantheon sintetizzano alla perfezione i motivi della protesta, convocata last minute, che ha visto centinaia di persone ritrovarsi al centro di Roma, a un tiro di schioppo dai palazzi in cui il Ddl sicurezza è rimasto impigliato, per l’opposizione parlamentare, le urla che in questi mesi sono arrivate dalle piazze e i bisticci dentro la maggioranza. Nel frattempo si manifesta in diverse città d’Italia. E dove non si è manifestato in questo pomeriggio, mentre la presidente del consiglio cerca le parole per giustificare la forzatura del decreto che sostituisce il Ddl, è soltanto perché le piazze si erano già riempite nel giorno precedente. Funziona così, in forme rapide e a volte quasi informali ma con una solidarietà che si è costituita nelle assemblee degli ultimi mesi, questo movimento che si è raccolto attorno all’idea che si dovesse bloccare in tutti i modi la svolta autoritaria. E non sono pochi, nei capannelli di attivisti che pian piano si sovrappongono alle file indiane dei turisti, quelli che fanno notare che questo “golpe istituzionale” arriva insieme alla tentata spallata della maggioranza sulla legge elettorale dei comuni. Le città e i movimenti, le istituzioni di prossimità e il dissenso, costituiscono una minaccia per questa destra al governo. Peppe De Cristofaro, capogruppo al senato di Avs che è stato probabilmente il principale regista della pioggia di emendamenti che è caduta sul Ddl in commissione imbrigliando la maggioranza e facendo guadagnare il tempo necessario a far montare ancora di più la protesta, la mette così: “Quando si tocca il codice penale non si agisce per decreto. È in gioco la libertà delle persone, vogliono davvero trasformare l’Italia nell’Ungheria”. Gli fa eco Ilaria di Amnesty international: “Questo governo è sordo alle voci della società civile ed è sordo alla voce dei diritti”. Le voci della società civile si alternano a quelle dei politici: tocca a Riccardo Magi di +Europa promettere che la partita non è affatto chiusa: “Noi faremo un’opposizione durissima - scandisce - visto che a questo punto ricomincerà l’iter di conversione di questo nuovo decreto schifezza e insicurezza per gli italiani”. Quelli della Rete dei numeri pari fissano i paletti: “Non possiamo permetterci di perdere la libertà”. “Vogliono reprimere il dissenso, perché il governo non sa gestire i problemi complessi e si rifugia nelle risposte rozze - sostengono le parlamentari M5S Valentina D’Orso e Ada Lopreiato - Adesso arriva l’ulteriore aberrazione del decreto legge, con ventuno condotte penalmente rilevanti per decreto. È una giustizia classista contro i cittadini comuni”. Maurizio Acerbo di Rifondazione parla di “un atto eversivo per il merito e increscioso nel metodo: per scansare le osservazioni del Quirinale circa la patente incostituzionalità di parti del disegno di legge si aggira il parlamento”. Il Forum Disuguaglianze e diversità invoca una “risposta all’altezza della sfida” avanzata dall’esecutivo. Parla di “populismo penale” il capogruppo del Partito democratico al senato Francesco Boccia, che ringrazia le reti che dalla piazza hanno consentito che l’opposizione in parlamento al Ddl diventasse più forte: “Calpestano la Costituzione solo perché sono divisi e Salvini deve fare il congresso domenica”. E quando ad alcuni studenti viene impedito di entrare in piazza (ogni via verso palazzo Chigi è letteralmente sbarrata da camionette e uomini con manganello alla mano) in molti notano che siamo già di fronte a una restrizione del diritto di manifestare. È a questo punto che, quasi come se avessero bisogno di farsi spazio per respirare meglio, in tanti e tante vanno a fare pressione su uno dei varchi bloccati, ne deriva qualche minuto di spingi-spingi e qualche manganellata di troppo. A questo punto soprattutto i più giovani si sono guadagnati il diritto di partire in corteo per il centro di Roma, in zone di solito vissute come parco turistico. Le luci pastello della serata primaverile cozzano con i cordoni degli uomini in divisa che hanno impedito che la protesta arrivasse fino a Palazzo Chigi. Tra i manifestanti circola una certezza: non è ancora detta l’ultima parola. La proposta di una manifestazione nazionale, contro la deriva ungherese e per la protezione collettiva delle libertà, rimbalza dalle altre piazze del resto d’Italia. Decreto sicurezza, l’allarme dell’Anm: “Avrà ricadute sulla giustizia” di Conchita Sannino La Repubblica, 5 aprile 2025 Il presidente Cesare Parodi sospende il giudizio ma conferma i rischi di possibili conflitti sulle conseguenze del decreto legge che, nelle stesse ore, è sul tavolo del Consiglio dei ministri. “Il decreto legge sulla sicurezza? Lo vedremo nel dettaglio quando sarà approvato, ma certamente avrà ricadute sulla gestione comune della giustizia nel Paese, sulla percezione del significato della giustizia, nel momento in cui si fa una scelta di criminalizzare ulteriori condotte. Ovviamente ci sarà una parte del Paese che approverà questa stretta, un’altra che la vivrà come una forma di ingerenza nelle libertà di cittadini. A noi sta il compito di verificare l’impatto nell’applicazione dei singoli casi, e questo sicuramente faremo”. Cesare Parodi, presidente dell’Anm, sospende il giudizio ma conferma i rischi di possibili conflitti sulle conseguenze del decreto legge che, nelle stesse ore, è sul tavolo del Consiglio dei ministri. Quanto agli attacchi della politica, Parodi - che oggi, a Palazzo Grazioli, ha risposto a tutte le domande della stampa estera, insieme al vicesegretario generale Stefano Celli - ascolta e spesso scuote la testa: “Mi rendo conto che il ministro Nordio usa frasi quasi insultanti, vedo che parla di “sciocchezze colossali” rispetto ad argomentate tesi di dissenso da noi espresse soprattutto in sedi istituzionali, e so anche che secondo alcuni colleghi sarebbe inutile tornare a dialogare”. Lo stesso numero 2 dell’Anm Rosso Maruotti, in un’intervista a Repubblica, si è mostrato scettico sull’utilità di un nuovo incontro con il Guardasigilli: ci andrete? “Vedremo. Anche di questo discuteremo domani, in Anm, con il comitato direttivo centrale. Certo, non deve essere una chiacchierata ma qualcosa di costruttivo: dove parliamo non dico di soluzioni ma di prospettive. Ma io penso sempre che, purtroppo, non abbiamo altra scelta che dire “prendo atto” di frasi sprezzanti e sbagliate e, se possibile, continuare a discutere. La politica può usare un linguaggio brutale, come spesso fa. Noi no”. A questo proposito, Parodi aggiunge: “C’è stato un tempo orribile, feroce, in cui i giudici venivano ammazzati. Oggi questo non accade, i magistrati non vengono più uccisi, ma sono molto spesso ‘uccisi’ o perlomeno feriti, a livello di immagine personale: bersaglio di valutazioni che esulano dalla loro stretta attività professionale, lesi nella loro immagine, attaccati a livello personale, e questo è un meccanismo perverso”. E nel solco di una trincea quasi parallela, tra Roma e Parigi, dove la giudice Benedicte de Perthuis che ha emesso la condanna per la leader Le Pen è appena finita sotto scorta per minacce, Parodi traccia un’amara analogia. “Sicuramente la magistratura francese - spiega - corre alcuni dei rischi che stiamo correndo noi e quindi un condizionamento della politica ci può essere”. Il vicesegretario Celli allarga lo sguardo a Budapest per parlare di “contraddizioni” e “convenienze sospette” . “A Roma un collegio di giudici condanna in primo grado il sottosegretario Delmastro e la premier attacca: la magistratura vuole sostituirsi alla politica. A Parigi, una giudice condanna la signora Le Pen e tutta la destra protesta: le toghe vogliono sostituirsi alla politica. Ma se questo è vero, se è legittima questa rivendicazione, perché a Istanbul viene arrestato il sindaco e nessuno fiata? Significa che la questione è davvero minima: se mi dai ragione, sei un buon giudice, che sa applicare le leggi”. C’è spazio anche per il caso migranti e Albania: altro terreno di aggressione da parte della politica. “Sulla gestione dei Cpr in Albania c’è un’incomprensione. Alcuni colleghi hanno dato interpretazione della legge che andava in contrasto con la volontà del governo, che l’ha letto come atto oppositivo. Ma noi crediamo nella buona fede dei colleghi, tra l’altro ci sono state pronunce della Cassazione che non erano lontane da quella interpretazione. Noi dobbiamo interpretare e applicare le norme, non ci possiamo certo fare interpreti di una volontà governativa astratta”. Mossa di Palazzo Chigi per difendere il referendum sulla giustizia: evitare nuove liti con le toghe di Francesco Verderami Corriere della Sera, 5 aprile 2025 Avanti solo con le carriere separate: non facciamole apparire vittime. Lo stop imposto da Meloni in concomitanza con il cambio ai vertici Anm. Fermi tutti. La presidente del Consiglio ha chiesto che sulla giustizia la maggioranza si concentri in Parlamento sulla separazione delle carriere e metta in stand by tutti gli altri provvedimenti. Fino al referendum. C’è la prova di questo orientamento, deciso a Palazzo Chigi e attuato dai gruppi di centrodestra. Mercoledì scorso è stata bloccata a Montecitorio una proposta di legge di iniziativa parlamentare che mira a istituire la giornata in memoria delle vittime degli errori giudiziari: per quanto fosse evocativa, non appariva politicamente rilevante. Il testo - scritto dai renziani insieme a Lega e Forza Italia - non avrebbe incontrato difficoltà a essere approvato. Ma durante le audizioni in commissione l’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati Santalucia aveva criticato il progetto, interpretato come l’ennesima forma di aggressione della politica nei riguardi delle toghe. Se la premier ha chiesto alla sua maggioranza di fermarsi anche su questo provvedimento, c’è un motivo: secondo Meloni bisogna evitare che nella pubblica opinione passi la tesi, sostenuta dal sindacato delle toghe, secondo cui l’azione di governo è volta a umiliare la magistratura. Va tolto di mezzo perciò ogni pretesto per impedire che questa narrazione finisca per far breccia nel corpo elettorale in vista del referendum sulla riforma costituzionale. Che poi è quanto ha spiegato il ministro della Giustizia durante una riunione con i gruppi del centrodestra avvenuta a marzo: “Limitiamoci ad alcuni interventi chirurgici e accantoniamo per ora progetti che possano alimentare polemiche”. Da allora le norme che riguardano nodi strutturali come le intercettazioni, la custodia cautelare e la prescrizione sono in stand by. Proprio sulla prescrizione raccontano che al Senato, ogni settimana, parlamentari di centrodestra si rivolgono alla presidente della commissione Giustizia per sapere quando metterà all’ordine del giorno l’esame del testo che è stato approvato dalla Camera ormai più di un anno fa. E la leghista Bongiorno risponde sempre allo stesso modo: “Non ancora. Ho ricevuto questa indicazione”. “Le nostre priorità - ha spiegato Nordio su mandato di Meloni - devono essere la separazione delle carriere e la riforma del Csm”. Sarà solo una coincidenza, ma non c’è dubbio che lo stop sia avvenuto in concomitanza con il cambio della guardia ai vertici dell’Anm, dove Parodi ha sostituito Santalucia. La valutazione politica che ha prodotto la mossa di Palazzo Chigi non è però dovuta a una “marcia indietro” rispetto alla linea del governo. Se oggi Meloni ritiene opportuno “evitare nuovi conflitti con i magistrati” è perché sulla riforma costituzionale è convinta di avere il vento in poppa, cioè il consenso della maggioranza degli italiani. All’inizio della legislatura era opinione diffusa nei partiti e nella magistratura che il provvedimento sulla separazione delle carriere sarebbe rimasto nel cassetto. Quando le toghe hanno capito che il governo sarebbe andato fino in fondo, sono entrate in sciopero. Ed è solo l’inizio del conflitto, che si concluderà con la battaglia referendaria. Nell’incontro di un mese fa con Meloni, il nuovo presidente dell’Anm ha annunciato che “noi andremo convintamente a parlare con i cittadini per spiegare come questa riforma sia contro il ruolo dei magistrati, le garanzie e i diritti”. La premier si è mostrata dialogante. E siccome è consapevole di quale sia la portata dello scontro, ha bloccato il cantiere giustizia in Parlamento: l’intento è quello di impedire - come spiega una fonte di governo - “che i magistrati passino per vittime”. Vuole insomma evitare passi falsi fino alla consultazione popolare. E se il Senato licenzierà la riforma questo mese, la seconda lettura parlamentare - prevista dalle materie costituzionali - potrebbe concludersi entro l’estate. Con il referendum a inizio 2026. I sondaggi concordano su un’affermazione della riforma nelle urne, anche se il governo dovrà prestare attenzione al mood del Paese che sull’onda dei dazi potrebbe mutare. Il precedente della riforma costituzionale di Renzi - che fu bocciata anche per ragioni di contingenza dell’epoca - sta lì a ricordarlo. Meloni ce l’ha presente. E se il referendum darà disco verde al progetto, grazie all’investitura popolare il governo riaprirà il cantiere Giustizia e darà corso agli altri provvedimenti, al momento fermi. Per motivi tattici, non per problemi politici. “Sì al sorteggio, unica soluzione al correntismo”. Parla Andrea Mirenda (Csm) di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 aprile 2025 Il membro del Csm: “Solo un Consiglio di sorteggiati è in grado di assicurare la reciproca indipendenza dei consiglieri. La magistratura associata non ha mai formulato la benché minima proposta riformista per chiuderla con il correntismo”. “Si dice che il sorteggio per l’elezione dei consiglieri togati al Csm sarebbe incostituzionale ma mi domando cosa ci sia di più democratico e inclusivo che riconoscere a ogni singolo magistrato, espressione di un’élite distinta al suo interno solo per funzioni, l’astratta possibilità di essere chiamato al governo autonomo senza prima doversi genuflettere a una corrente”. Lo dichiara al Foglio il consigliere del Csm Andrea Mirenda, riferendosi a uno dei punti cruciali della riforma costituzionale della magistratura in corso di approvazione in Parlamento: il sorteggio per l’elezione dei togati al Consiglio superiore della magistratura. Nel 2022 Mirenda venne eletto dai suoi colleghi al Csm proprio dopo essere stato sorteggiato come candidato, come era previsto dalla legge Cartabia qualora non si fosse raggiunto un numero sufficiente di candidati. Insomma, è il primo consigliere sorteggiato nella storia del Csm. Eppure il metodo del sorteggio è fortemente criticato dai magistrati e dall’Anm. “Per come stanno le cose, solo un Consiglio di sorteggiati sembra in grado di assicurare la reciproca indipendenza dei consiglieri, conformemente al dettato del Codice etico dei Consigli di giustizia europei”, replica Mirenda. Nei giorni scorsi l’ex pm Gherardo Colombo ha affermato polemicamente: “Come si fa a pensare che lo svolgimento di una funzione che richiede competenze particolari sia determinata per sorteggio?”. E’ così, consigliere Mirenda? “Vede, se davvero fossero necessarie ‘competenze particolari’, allora dovremmo attenderci un esame volto a verificarle preventivamente. Esame di cui, tuttavia, non v’è ombra né mai è stato fatto dalle correnti ‘designatrici’, in tutt’altre faccende affaccendate”, risponde Mirenda. “Escludo, poi, per la prestigiosa storia del dott. Colombo, che egli possa aver pensato alle turpitudini lottizzatorie che, almeno dal 2006, hanno segnato duramente la vita del governo autonomo della magistratura. Storie di marcata ‘modestia etica’, come le definì il presidente della Repubblica. Storie a cui va ascritta la caduta verticale di prestigio del corpo giudiziario”. Come si è trovato a svolgere l’attività di consigliere dopo essere stato scelto proprio tramite un sorteggio temperato? “Per esperienza ‘sul campo’, posso dire che per assolvere con onore alle funzioni di Alta amministrazione del Consiglio, anche nelle rare ipotesi caratterizzate da discrezionalità tecnica (da esercitarsi pur sempre nel perimetro della legge), bastano e avanzano la cultura della legalità e la specifica competenza giuridica di ogni magistrato, senza necessità di chissà quali visioni programmatiche, riservate invece alla funzione politica”. Nei giorni scorsi il senatore Pd Alfredo Bazoli ha criticato il sorteggio ricordando che nel 1971 a tentare di introdurlo fu Giorgio Almirante. “Di fronte a queste argomentazioni provo disappunto e profondo dispiacere. L’argomento ‘ad personam’ tradisce sempre, come è noto, la resa della ragione. Quando si attacca la persona e non ciò che essa dice, si confessa implicitamente la propria debolezza dialettica. E così non va bene. Voglio, allora, ricordare al senatore Bazoli come assai dopo il leader missino, e precisamente nel 2020, Magistratura indipendente - nei cui ranghi milita l’odierno presidente dell’Associazione nazionale magistrati - avesse indicato proprio nel sorteggio l’unico rimedio decisivo per stroncare la deriva lottizzatoria delle correnti. Mi aspetterei, a questo punto, altra risposta ‘ad personam’ del senatore Bazzoli. Temo, tuttavia, che il suo compito non sarà agevole…”. “Diciamolo chiaro - prosegue Mirenda - il sorteggio è, né più né meno, che la conseguenza dell’ostinato rifiuto della magistratura associata di formulare la benché minima proposta riformista per chiuderla con il correntismo. Troppo comodo pensare di aver risolto la questione etica con la defenestrazione di Palamara: lui non creò nulla né fece tutto da solo. Chi afferma il contrario offende l’intelligenza propria e altrui”. Cosa pensa della separazione delle carriere, elemento centrale della riforma Nordio? “In tutta sincerità, il tema non mi appassiona più di tanto. Ancora una volta, e qui convengo con il procuratore Giovanni Melillo, si tratta del frutto del prolungato arroccamento difensivo della magistratura, sorda a ogni forma di confronto. Ed è massima di comune esperienza che chi non sa riformarsi… viene riformato. Ciò detto, non sono pregiudizialmente contrario alla separazione delle carriere, a condizione che siano preservati, come del resto emerge dai disegni di revisione costituzionale in corso d’opera, i capisaldi dell’indipendenza del pubblico ministero e dell’obbligatorietà dell’azione penale, magari anche con l’apprezzabile atto indirizzo parlamentare a maggioranza qualificata”, dice Mirenda. “Per come la vedo io, ma posso sbagliare, la separazione - lungi dall’essere la paventata Fine del Mondo o, tutt’all’opposto, l’agognato Natale della Giustizia Giusta - mi pare operazione di prevalente natura estetica, un make-up coerente, sul piano dogmatico, con la vigente ‘separazione delle funzioni’. Sarà danneggiata la giustizia? Non credo. Ne verrà migliorata l’efficienza? Neppure, essendo purtroppo ben note le diverse ed endemiche cause della sua disfunzionalità”, conclude Mirenda. Emilia Romagna. In carcere si impara a lavorare nei cantieri e nelle imprese edili di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 5 aprile 2025 “Il carcere come opportunità” per le aziende di trovare manodopera qualificata difficile da reperire, per i detenuti come occasione di riscatto sociale. Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche Silvio Di Gregorio spiega così il protocollo d’intesa firmato tra Prap Emilia-Romagna e Marche, Ance Emilia-Romagna, la principale associazione di categoria che rappresenta i costruttori edili, il consorzio Formedil Emilia-Romagna, che coordina a livello regionale le attività delle scuole edili territoriali e l’associazione del Terzo Settore Seconda chance, impegnata a procurare opportunità di formazione e di lavoro a detenuti, affidati ed ex detenuti nell’ambito di un accordo con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo scopo del protocollo è favorire percorsi di reintegrazione sociale e professionale per le persone detenute negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, in particolare quelle in semilibertà o a fine pena, formandole e poi impiegandole nei cantieri edili. Avverrà attraverso il loro inserimento lavorativo nei cantieri delle imprese edili associate ad Ance Emilia-Romagna, dopo una formazione. Grazie all’intesa, le ditte edili della regione riceveranno dall’associazione Seconda chance il supporto necessario per l’organizzazione e lo svolgimento dei colloqui di lavoro nelle carceri. E anche dopo l’avvio del rapporto tra azienda e detenuto rappresenteranno per l’imprenditore un anello di collegamento con l’amministrazione penitenziaria. “Si cercherà di mettere in connessione - prosegue Di Gregorio - la domanda di manodopera del mercato edile con il bisogno di creare occupazione per i detenuti, in una fascia di mercato che di solito non è appetibile per la cittadinanza comune, perché c’è una grande domanda di manovali e carpentieri, ad esempio”. Al contrario dei corsi professionalizzanti che di solito si svolgono negli istituti di pena senza interpellare il mercato, in questo caso invece si chiederà prima alle aziende di quali qualifiche professionali hanno bisogno, per poi formare le risorse umane in basi ai criteri e le competenze di cui le imprese hanno bisogno. Il protocollo firmato in Emilia-Romagna con Ance non è il primo: ce ne sono stati altri in Lombardia con la scuola di Ance, che ha permesso di codificare delle buone prassi. Dopo quel progetto pilota, adesso il modello viene esportato in Emilia-Romagna. Il provveditorato regionale, con sede a Bologna, è l’organo periferico del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che coordinala gestione dei 16 istituti penitenziari presenti nel distretto, 10 in Emilia-Romagna e 5 nelle Marche. Le ditte edili della regione riceveranno dall’associazione Seconda chance tutto il supporto necessario per l’organizzazione e lo svolgimento dei colloqui di lavoro nelle carceri. “Non si tratta di manodopera per spirito di carità - sottolinea il provveditore - ma il lavoro sarà pagato a condizioni di mercato e con la garanzia del rispetto dei contratti, dei diritti e delle norme sulla sicurezza, visto che in Formedil sono presenti anche le organizzazioni sindacali. È un progetto che produce valore sociale e una riduzione evidente del rischio di recidiva. Le persone avranno la possibilità di diventare contribuenti attivi della società, che lavorano e pagano le tasse”. Napoli. Secondigliano, suicida in carcere il figlio del boss che si era pentito di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 5 aprile 2025 È il terzo caso nei padiglioni della Campania, sos del Garante: “Intervenire subito al fianco dei deboli”. Poco più di un mese fa aveva deciso di iniziare un percorso di collaborazione con la giustizia, e per questo dal carcere di Santa Maria Capua Vetere era stato trasferito in quello di Secondigliano. Giovedì mattina Pietro Ligato - 53enne di Pignataro Maggiore, figlio del boss Raffaele (morto nel 2022 nel carcere di Milano Opera) e di Maria Giuseppa Lubrano sorella dell’altro capoclan Vincenzo Lubrano) - è stato trovato morto nella sua cella di isolamento: aveva una busta di nylon stretta al collo con una striscia di lenzuolo. A scoprirlo sono stati gli agenti della Polizia penitenziaria, che nulla hanno potuto fare per rianimarlo: il suo cuore aveva cessato di battere alcune ore prima. La direzione dell’Istituto penitenziario diretto da Giulia Russo ha immediatamente informato la Procura distrettuale antimafia di Napoli, che ha disposto il sequestro della salma e dato incarico al medico legale di eseguire l’autopsia. Dai primi rilievi effettuati sul cadavere i segni di una evidente asfissia per soffocamento: da quando, circa un mese fa, Ligato era a Secondigliano il regime imposto ai collaboratori di giustizia prevedeva l’isolamento in una cella. Dunque si tende ad accreditare la pista del suicidio, non essendo presenti terze persone nella stanza. A quanto si è appreso, l’uomo solo il giorno prima era comparso davanti ai magistrati inquirenti della Dda che seguono le vicende di Terra di Lavoro per essere ascoltato. Non era ovviamente il primo appuntamento, Ligato aveva avuto già altri incontri con i pubblici ministeri. Le sue possibili rivelazioni sulla trama di rapporti tra economia imprenditoriale, politica locale e camorra avrebbero potuto determinare un nuovo terremoto in provincia di Caserta. Ora si attendono i risultati dell’esame autoptico, dai quali dovrebbe arrivare la conferma del suicidio. Le reazioni - “Dall’inizio dell’anno in Italia sono già 27 i suicidi tra le persone private della libertà personale, 457 i tentativi di suicidio - dichiara il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello - In Campania quello di Ligato è il terzo suicidio, dopo i due che ci sono stati nel carcere di Poggioreale. Non c’è una sola motivazione che porta al suicidio ma ci sono più concause: credo che il gesto di Pietro non sia dato da un’unica causa. Non parliamo di una logica lineare causa-effetto ma di un sistema complesso. I suicidi in carcere sono un tema scabroso e cruciale. Il tema carcere non può essere ristretto a pochi o connotato ideologicamente, ma riportato sull’utilità della pena. Serve un’effettiva presa in carico delle persone con professionisti dell’ascolto (assistenti sociali, psicologi, psichiatri, ndr), non con soluzioni temporanee e provvisorie”. “In Italia siamo al 27esimo suicidio dall’inizio del 2024 - aggiunge Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria - Nelle cause in corso di accertamento di solito rientrano casi di inalazione di gas, di uso di stupefacenti o mix di farmaci e decessi avvenuti successivamente in ospedale. Forse questo sistema di classificazione delle morti in carcere può servire ad abbassare il numero dei suicidi: resta il fatto che è certamente indegno che gli accertamenti per le cause di morte negli istituti penitenziari durino all’infinito, e in troppi casi senza esito”. Modena. Suicidi e affollamento, il ministro risponde e conferma la tragica realtà di Gianni Galeotti lapressa.it, 5 aprile 2025 Sovraffollamento al 155%, ma due dei tre detenuti morti negli ultimi mesi erano stati trasferiti da altri carceri sovraffollati. Aperta un’indagine interna. Il ministro Nordio: “Il governo sta intervenendo”. La deputata Ascari: “Basta annunci, servono fatti. Il carcere non può continuare ad essere visto come discarica sociale”. Il Ministro della Giustizia ha risposto all’interrogazione dell’onorevole Stefania Ascari del Movimento 5 Stelle riguardo alla situazione delle carceri, in particolare alla Casa Circondariale di Modena, che ha registrato una tragica sequenza di morti tra i detenuti negli ultimi tre mesi. Stando ai dati del Ministro, sono stati registrati tre decessi nella struttura, di cui due per cause da accertare e uno per suicidio. Il ministro entra nel merito degli ultimi tragici eventi, che abbiamo riportato sotto, ma il dato che fino ad ora non era emerso è quello dei tentati suicidi. Nel corso del 2024, nella casa circondariale di Modena, si sono verificati 48 tentativi di suicidio e 352 atti di autolesionismo. Uno Al giorno. Al 27 febbraio 2025, la Casa Circondariale di Modena ospitava 574 detenuti (30 donne e 544 uomini), contro una capienza regolamentare di 372 posti, con un tasso di affollamento del 155,56%. “Per far fronte alla situazione - ha affermato il ministro nella risposta - la Direzione Penitenziaria ha già preso provvedimenti per trasferire detenuti in altre strutture del distretto, con l’intervento del Provveditorato Regionale di Bologna che ha approvato la richiesta di sfollamento’. Il Ministro ha sottolineato che ‘il fenomeno suicidario è un problema complesso che non si può affrontare solo con statistiche, ma che necessita di un intervento sistematico e concreto. Il Governo ha ereditato una situazione delicata e ha lavorato per migliorare il sistema carcerario, intervenendo sia a livello normativo che finanziario. Un esempio di questo impegno è l’aumento delle risorse dedicate all’assistenza psicologica, con progetti specifici per tutelare la salute mentale dei detenuti, in particolare quelli con problemi di tossicodipendenza o disagio psichico”. In replica alla risposta del Ministro, l’onorevole Stefania Ascari ha dichiarato che ‘le carceri non possono e non devono essere considerate discariche sociali, luoghi in cui abbandonare ciò che la società non vuole vedere. Il carcere, secondo la nostra Costituzione, ha una funzione rieducativa, non punitiva fine a se stessa. Ma perché questa funzione sia reale e non solo enunciata, servono scelte concrete, investimenti seri, una visione a lungo termine. Occorrono risorse per garantire la presenza stabile di personale sanitario, educatori, mediatori culturali, figure indispensabili per accompagnare i detenuti in un percorso di consapevolezza e cambiamento. È necessario offrire opportunità lavorative vere, attività sportive, laboratori teatrali, occasioni di studio e formazione professionale: strumenti attraverso cui una persona può ricostruire la propria dignità. E, soprattutto, dobbiamo restituire umanità al carcere. Le relazioni, gli affetti, gli incontri - anche intimi - sono parte integrante del percorso di reinserimento, di rieducazione, di rispetto per la persona. Una società che rinuncia a rieducare, è una società che sceglie la paura. Una società che investe nella dignità, anche in carcere, è una società che costruisce sicurezza vera e giustizia autentica. Prendo atto della risposta del Ministro Nordio, ma insisto nel sostenere che c’è ancora tanto da fare.’ - ha concluso Stefania Ascari. Approfondimento sui casi dei detenuti deceduti negli ultimi tre mesi Rispondendo nel merito dei quesiti posti dell’onorevole Ascari, il ministro ha elencato i tre casi. Il 17 dicembre 2024, il detenuto L.Y. che aveva fatto ingresso presso la Casa circondariale di Modena il 4 dicembre 2024, a seguito di sfollamento dalla Casa circondariale di Ferrara disposto dal Provveditorato regionale, aveva posto in essere un gesto anticonservativo: si era legato alle sbarre della finestra con una corda rudimentale stretta intorno al collo. Prontamente trasportato in ambulanza all’ospedale, è ricoverato in prognosi riservata presso il reparto rianimazione e il 4 gennaio, dove è deceduto “in seguito a collasso cardiocircolatorio in disfunzione multiorganica”. L’altro decesso verificatosi presso la Casa circondariale di Modena concerne un detenuto di media sicurezza D.E, entrato in carcere il 12 ottobre 2024 a seguito di sfollamento disposto dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento dalla Casa circondariale di Roma Regina Coeli, il 31 dicembre 2024. L’uomo è stato trovato privo di sensi all’interno della camera di pernottamento dove si trovava con altro detenuto. Dopo le prime le prime manovre di soccorso il medico di guardia ha richiesto l’intervento del personale del 118 che, giunto in istituto, ha constatato il decesso. Il terzo caso porta al 7 gennaio 2025. Il detenuto P.A., entrato in carcere nel giugno del 2024, e stato trovato sdraiato sul letto e coperto completamente dalle lenzuola, con il volto all’interno di un sacco utilizzato per il pattume che conteneva un fornellino con una bomboletta di gas aperta di cui si avvertiva un forte odore nella camera. Nel corso della perquisizione sono stati rinvenuti alcuni manoscritti indirizzati alla madre del detenuto e a un ex detenuto che era stato poi collocato presso una Comunità e che aveva condiviso per un periodo la camera presso altra sezione; inoltre un messaggio in cui preannunciava il gesto estremo. “Per tutti e tre gli eventi - ha specificato il ministro Nordio - la Direzione generale dei detenuti e del trattamento ha provveduto a dare mandato al competente Provveditorato di svolgere un’indagine ispettiva interna, volta ad accertare circostanze, modalità e cause dei gesti anticonservativi posti in essere dai tre nonché per verificare se siano state attivate tutte le procedure operative per cogliere i possibili rischi suicidari. Allo stato - ha concluso il ministro - si è in attesa di ricevere i relativi esiti”. Reggio Emilia. Incappucciato, denudato e preso a calci, ma per il tribunale non è violenza gratuita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 aprile 2025 Depositate le motivazioni della sentenza che ha escluso il reato di tortura per il pestaggio di un detenuto. Le immagini delle telecamere erano state chiare. Alcuni agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia, come un branco, hanno incappucciato il detenuto con una federa stretta al collo. Denudato, lo hanno colpito con calci e pugni. Ma non era finita lì: lo hanno trascinato in cella, ferito e sanguinante, e lasciato lì dentro, sempre denudato, per un’ora. In quel lungo lasso di tempo, lui ha spaccato il lavandino e compiuto gesti di autolesionismo. Tutto il corridoio è stato inondato di acqua e sangue. Pur essendo innegabili i comportamenti violenti e degradanti messi in atto dagli agenti, la sentenza ha escluso il reato di tortura sulla base di una valutazione della giudice - non convincente per le parti civili - che si può evincere dalle motivazioni da poco depositate. Parliamo dell’esito del processo in primo grado, con rito abbreviato, ai dieci agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia, accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso in relazione al pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023. Il processo per il pestaggio del detenuto tunisino Khelifi Lotfi - assistito dall’avvocato Luca Sebastiani del Foro di Bologna - ha visto un ampio schieramento di parti civili, segnale della rilevanza simbolica del caso. A sostenere l’accusa, oltre al Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà Personale (rappresentato dall’avvocato Michele Passione di Firenze) e al Garante Regionale emiliano (con gli avvocati Daniele Vicoli e Lorenzo Carsetti di Bologna), sono intervenute anche due associazioni in prima linea per i diritti dei detenuti: Antigone Onlus, con l’avvocata Simona Filippi di Roma, e Yairaiha ETS, affiancata dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta di Marsala. Un fronte unitario che ha denunciato non solo le violenze subite da Lotfi, ma un modello sistemico di abusi. La vicenda si inquadra nell’esecuzione di una sanzione disciplinare (15 giorni di isolamento) inflitta al detenuto tunisino vittima del brutale pestaggio, per minacce alla direttrice del carcere. La giudice ha riconosciuto che gli agenti agivano per dare seguito a un ordine legittimo, seppur in un contesto di elevata tensione. L’incappucciamento e il denudamento vengono giudicati come parte di una perquisizione straordinaria, motivata dal sospetto che il detenuto nascondesse lamette in bocca (ipotesi sollevata dalla direttrice). Nonostante la gravità dell’azione - come l’uso della federa annodata al collo e il denudamento nel corridoio - il tribunale ha ritenuto che tali atti rispondessero a esigenze di sicurezza, seppur mal gestite. Sebbene nessuna lametta sia stata rinvenuta, il timore è stato considerato “non infondato” in relazione alla storia del detenuto e alla percezione degli agenti. I fatti sono chiari, ed è “difficile” non ravvisare una tortura nel senso pieno del termine. In fondo, la stessa giudice riporta dettagliatamente le condotte contestate: l’incappucciamento del detenuto con una federa annodata e stretta al collo, che gli impediva di vedere e gli rendeva difficile respirare; il farlo cadere a terra a seguito di uno sgambetto; la serie di percosse, schiaffi, calci e manipolazioni fisiche - come l’afferrargli il braccio, torcerlo e sollevarlo di peso dopo averlo denudato; infine, trascinarlo e colpirlo all’interno della cella di isolamento, una volta che non era più incappucciato, nuovamente e ripetutamente con pugni e calci, lasciandolo completamente nudo dalla cintola in giù, in una condizione non dignitosa, per oltre un’ora, malgrado nel frattempo si fosse autolesionato e sanguinasse vistosamente. Ma per l’identificazione del reato c’è la legittima interpretazione della giudice. Le violenze, secondo le motivazioni, non sarebbero state “gratuite”, ma vanno contestualizzate. Pur riconoscendo la gravità degli atti, la giudice ritiene che essi siano stati compiuti nell’ambito di una misura disciplinare e non come manifestazioni di violenza gratuita, il che esclude la qualificazione di tortura. Sostanzialmente, secondo la legittima interpretazione del tribunale, gli atti, seppur violenti, sarebbero stati ricondotti a una logica di contenimento, non a sadismo o umiliazione premeditata. Inoltre, le lesioni riportate (ematomi, contusioni) sono state classificate come guaribili in 20 giorni, dunque non sufficienti a integrare il dolo specifico, mentre le ferite da autolesionismo (tagli alle braccia) sono state attribuite esclusivamente a Khelifi. Quindi, secondo le motivazioni, la mera realizzazione di condizioni degradanti, senza che siano provate sofferenze di livello acuto o un trauma psichico marcato, non è sufficiente a inquadrare il fatto nella fattispecie del reato di tortura. Per questi motivi, la giudice ha stabilito che la condotta degli agenti non corrisponde ai reati di tortura e lesioni, ma a quelli di abuso d’autorità e percosse aggravate, per i quali sono previste pene più basse. Il reato di falso è stato invece confermato per i tre imputati a cui era stato contestato. Inevitabilmente, la sentenza solleva interrogativi sulla soglia che separa la “continenza operativa” dall’abuso. Se da un lato gli agenti agivano per eseguire un isolamento disciplinare, dall’altro è sconcertante la normalizzazione di pratiche come l’incappucciamento con nodi al collo, il denudamento e le percosse. La giustificazione basata sulla “percezione del rischio” - fondandosi su un’ipotesi (la presenza di lamette in bocca) mai confermata - evidenzia un problema da affrontare, a partire dalla gestione arbitraria (eufemismo) della perquisizione e del contenimento dei detenuti. Infine, come ci ricorda la domanda retorica posta dall’Associazione Antigone, di fronte alle violenze oggettive subite dal detenuto, “se non è tortura questa, quale comportamento lo può essere?”. Ivrea (To). La “cella liscia” era usata per punire i detenuti di Andrea Scutellà La Stampa, 5 aprile 2025 Emerge da un verbale di un consiglio di disciplina presieduto dalla direttrice (non imputata), durante uno degli episodi oggetto del processo sui fatti del 2016. Alcuni feriti passarono la notte nella sala d’aspetto dell’infermeria senza letto. Dal verbale del consiglio di disciplina del carcere di Ivrea del 10 giugno 2016, presieduto dall’allora direttrice Assuntina Di Rienzo (che sarà sentita come testimone assistita alla prossima udienza), emerge con chiarezza: “Tenuto conto delle dichiarazioni del detenuto si dispone l’isolamento in cella liscia”. Cosa aveva dichiarato il detenuto? Secondo il verbale di “aver bruciato il materasso” e di “voler essere trasferito oggi stesso altrimenti compirà atti che causeranno molti problemi”. Quando il medico del carcere chiamato a testimoniare legge la parola cella liscia, sul documento che gli mostra l’avvocato Enrico Scolari, trasale. “Evidentemente allora si poteva”, commenta. Scolari gliela mostra con uno scopo preciso: ricostruire la giornata del detenuto. Inizia alle 11, quando prendendo per il collo un agente di penitenziaria, che sarà sentito in aula, lo manda in infermeria. “Mi stava soffocando”, testimonierà l’agente. Alle 14.21 ci andrà a lui in infermeria, riferendo al medico di aver “preso a testate il muro”. Alle 17.48, però, quando finirà di nuovo in infermeria cambierà versione, dicendo: “Mi hanno picchiato gli agenti”. E nel frattempo la storia processuale ci racconta di due medici, che hanno già testimoniato e si sarebbero rivolti all’educatrice del carcere con la frase: “Stanno massacrando il detenuto”. Si parla di un detenuto con una storia complessa, uno di quelli che il comandante Paolo Capra, sentito in video collegamento, definirà “incontenibili”. Con un passato di atti autolesionistici, dipendenze e altro ancora. Che, però, non poteva essere recluso, soprattutto per finalità di contenimento, in una cella come quella descritta dal rapporto del 2016 dell’allora Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, costituito parte civile attraverso l’avvocata Maria Luisa Rossetti, redatto sulla base della visita della Garante Emilia Rossi. Rapporto che collocava quella stanza “molto al di sotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano”. Appariva, cioè, “fornita soltanto di un letto collocato al centro della stanza, ancorato al pavimento, dotato del solo materasso, peraltro strappato e fuori termine di scadenza”, “priva di fonti di riscaldamento”, “scarsamente illuminata”. Ecco, già secondo un parere del ministero della giustizia sulle “camere di detenzione prive di suppellettili” del 2014 dice che “la gestione di situazione di emergenza non può risolversi nell’ubicazione in camere prive di suppellettili” e che le celle di isolamento devono avere come previsto dalla legge “accorgimenti atti ad evitare il compimento di gesti autolesivi (senza spigoli, con suppellettili murati, lavabo e water in acciaio, termosifone e televisore incassati e protetti)”. Anche per quanto riguarda i fatti dell’ottobre 2016, quando i detenuti misero in scena una protesta, il comandante Capra ammette che i detenuti furono collocati “in celle prive di suppellettili”. In particolare i due sudamericani giudicati appunto “incontenibili” e che il giorno dopo sarebbero stati trasferiti. Uno si trovava nella cella liscia, l’altro, vista l’indisponibilità di una cella liscia, nella sala d’attesa dell’infermeria, a quanto pare per tutta la notte. Alle domande dell’avvocato Celere Spaziante, poi, risponderà di non aver “mai disposto l’utilizzo di manganelli, che sono custoditi in armeria”. Uno dei capi d’imputazione, infatti, riporta un pestaggio con l’uso di manganelli. Capra sostiene, inoltre, che fu trovata una bottiglia di alcol fatto con frutta macerata, oltre ad acqua per terra. La tesi difensiva, sostenuta anche da certificazioni, è che i detenuti fossero ubriachi e siano scivolati sulle scale bagnate. Viterbo. Andrea Di Nino, romano morto in cella: ipotesi omicidio di Federica Pozzi Il Messaggero, 5 aprile 2025 Un testimone: ucciso da 3 agenti. Era stato trovato impiccato nel carcere Mammagialla. Nuove indagini dopo un primo processo (in corso) contro 2 medici e un poliziotto. “Andrea è stato ucciso”, ne sono sempre stati convinti i familiari di Andrea Di Nino, morto nel carcere Mammagialla di Viterbo il 21 maggio 2018. E ne è convinto anche un testimone, vicino di cella della vittima, grazie al quale la procura di Viterbo ha riaperto le indagini sul caso, questa volta con l’ipotesi di omicidio volontario a carico di ignoti. Per la morte del detenuto romano, infatti, già è in aula un procedimento per omicidio colposo a carico dell’allora responsabile dell’Uos Medicina penitenziaria territoriale dell’Asl di Viterbo, di un assistente capo della polizia penitenziaria, del medico di guardia del Mammagialla e del direttore della casa circondariale (quest’ultimo assolto in primo e secondo grado dalle accuse). Nella prossima udienza di maggio però, l’avvocato di parte civile Nicola Triusciuoglio, che ha condotto le indagini difensive su richiesta della famiglia di Di Nino, vista l’apertura del nuovo fascicolo d’indagine, chiederà la sospensione del processo. Il racconto del testimone è inequivocabile, parla di tre agenti della penitenziaria, conosciuti dai detenuti perché soliti picchiare chi dava fastidio, che entrano nella cella, Andrea urla, chiede aiuto, poi viene portato via a spalla. “Questo è morto”, dice uno dei tre. Ma anche prima del racconto del testimone, diverse erano le incongruenze riscontrate dalla famiglia rispetto all’ipotesi di suicidio. Andrea viene trovato impiccato, nella cella di isolamento in cui era da giorni, con un lenzuolo incastrato nello stipite della finestra - almeno questa è la versione ufficiale - ma secondo i suoi fratelli che hanno sporto denuncia “non si sarebbe mai suicidato”. All’epoca aveva 36 anni, era detenuto per un cumulo di pene e di lì a poco avrebbe finito di scontare la sua condanna. “Non vedeva l’ora di tornare dai suoi figli e non li avrebbe mai privati della sua figura per tutta la vita”, sostengono i familiari. Sospetta anche la modalità del suicidio. La corporatura di Andrea “non gli avrebbe consentito di procurarsi la morte da un’altezza, come quella della finestra nella quale è stato rinvenuto il lenzuolo, così prossima alla sua, né tantomeno con un materiale che, considerata la sua corporatura, non avrebbe certo retto il suo peso morto”. La mattina del presunto suicidio poi, il 36enne aveva chiamato la madre e le aveva chiesto di farle avere vestiti nuovi con i quali sarebbe andato dopo poco meno di un mese all’udienza fissata per la concessione degli arresti domiciliari. Non solo. Andrea aveva raccontato più volte di essere preoccupato per la sua sicurezza all’interno del carcere. Aveva detto a uno dei fratelli di aver avuto una colluttazione con un agente che dopo averlo picchiato lo aveva minacciato: “Tu non esci vivo di qui”. In particolare, alcuni dei detenuti avevano parlato di un gruppo di agenti della penitenziaria noti e temuti da chi si trovava in carcere perché parte di un “plotone punitivo” che picchiava e minacciava i detenuti “fastidiosi”. È da loro, secondo alcune testimonianze e secondo i racconti di Andrea, che il 36enne era stato preso di mira. La sua colpa sarebbe stata quella di chiedere, in maniera anche compulsiva, di poter sentire spesso la madre malata. Quindi il “plotone” avrebbe risposto con botte e calci, con una frequenza anche di tre volte a settimana. Fino ad arrivare al giorno della morte. Andrea era in cella di isolamento per una lite avvenuta con un altro detenuto. Secondo il testimone avrebbe chiesto, intorno alle 14, un accendino, urlando che gli era stato sequestrato. È a quel punto che il testimone ha visto arrivare tre degli agenti della “squadretta”, così ha chiamato il temuto “plotone”. E, sentendo le urla dei poliziotti e di Andrea, avrebbe staccato uno specchietto dal muro della sua cella così da riuscire a vedere cosa accadesse nel corridoio. I tre agenti sarebbero entrati nella cella del 36enne e lì sarebbero rimasti per circa 20 minuti in cui ai pianti, lamenti, richieste di aiuto di Andrea, si sarebbero alternate le urla degli agenti: “Stai zitto”. Poi il silenzio. “Questo non si riprende più, questo è morto”. La “squadretta” avrebbe quindi portato via il 36enne, a spalle, con i piedi che strisciavano a terra. Era esanime, senza reazioni. Le celle degli altri detenuti a quel punto sono state oscurate, con la chiusura dei blindati. Dopo un paio di ore lo spostamento di tutti i detenuti in un altro reparto del penitenziario. Poi, il giorno dopo la notizia: Andrea era stato trovato impiccato a un lenzuolo della sua cella. Ancona. Visita al carcere, attraversando corpi e muri martoriati e cogliendo qualche promessa di Cesare Burdese L’Unità, 5 aprile 2025 Ho visitato la Casa Circondariale di Ancona Montacuto insieme a Nessuno tocchi Caino e alla Camera penale. In simili circostanze la mia attenzione si concentra sull’architettura che visito, spingendomi sino a misurare le dimensioni delle celle. Il mio intento è quello di registrare lo stato materiale dei luoghi e acquisirne le criticità. Tale attività mi consente di entrare a contatto con gli aspetti più intimi della nostra miseria carceraria, frutto di una progettistica mai all’altezza del monito costituzionale. Ancona Montacuto appartiene al gruppo di carceri del nostro Paese della seconda metà degli anni 70 del 900, concepiti per la massima sicurezza e la custodia di detenuti resi al massimo grado inermi. Questo carcere, come quasi tutti gli altri, oggi, appare disumano e inadeguato a svolgere la funzione risocializzante della pena. Tra le criticità spicca in primo luogo la localizzazione in aperta campagna del complesso che rimane distante da tutto e raggiungibile con difficoltà coi mezzi pubblici. Come ci è stato detto, la comunità anconetana è poco partecipe alle vicende del suo carcere, che rimane quindi isolato anche socialmente. La configurazione architettonica della struttura non dimostra alcun segno di conoscenza più vasta e interdisciplinare dei problemi dello spazio edilizio in rapporto alla vita dei detenuti e di quanti ci lavorano, alle loro esigenze psicologiche e sociali. Il pessimo stato delle strutture per mancanza di manutenzione, sovraffollate e peraltro già all’origine di scarsa qualità, aggrava ulteriormente una condizione detentiva caratterizzata da molteplici criticità. Il rivestimento delle facciate dei fabbricati è precario e presenta numerosi stacchi, i serramenti dei locali detentivi non proteggono dall’acqua piovana e sono energeticamente insufficienti, le tubazioni idriche sono ammalorate e i rubinetti in alcuni bagni non sono a tenuta, causando infiltrazioni d’acqua sin sulle pareti e i soffitti delle celle, il riscaldamento presenta un mal funzionamento nelle celle che danno più verso l’esterno dell’edificio, gli impianti per la sicurezza e gli automatismi tecnologici sono in parte rotti e non vengono tempestivamente riparati. Il degrado coinvolge anche il misero arredo delle celle: armadietti sgangherati e sempre insufficienti, letti privi di ogni accorgimento per garantire un minimo di privacy, ripiani improvvisati, sgabelli inadeguati. La desolazione delle “stanze per la socialità” è sconfortante. In una cella del reparto “nuovi giunti” i detenuti sono cinque, ma gli armadi per i vestiti personali sono solo quattro, come pure gli sgabelli per sedersi a mangiare. Quando sono arrivati - dicono - gli hanno fornito solo un lenzuolo e una coperta, un cuscino di gommapiuma senza federa e a volte neanche il cuscino. Gli hanno detto che sarebbero stati lì solo 15 giorni, ma alcuni di loro ci stanno da più di tre mesi. Nella sezione ci sono detenuti che parlano e urlano in continuazione, anche di notte, tre di loro compiono sempre atti di autolesionismo. Un simile stato di cose, insieme all’abbandono dei corpi reclusi, sempre più con problemi psichiatrici e psicologici e malati cronici non curati come si dovrebbe, rende l’idea di un carcere disumano e dimenticato. Il personale di custodia lascia trasparire una inquietudine e una insoddisfazione per le condizioni lavorative svolte in un simile degrado e per i turni massacranti a causa della carenza di personale. È come se, a partire dalle istituzioni, non si credesse più alla funzione rieducativa della pena. Ogni nuova visita mi conferma cose già viste e sentite e mi lascia sempre un ricordo particolare, fatto di cose o di persone, che conservo gelosamente. La visita a Montacuto mi ha regalato una Rita Bernardini cara e commovente. Rita che nel frastuono generale in una sezione detentiva ascolta a uno a uno i detenuti e raccoglie puntigliosamente sul suo taccuino nero racconti soprattutto di malasanità, da inoltrare al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al magistrato di sorveglianza. Rita che all’ingresso del carcere, dolce e amorevole, si prodiga perché la voce di una anziana madre, impossibilitata a entrare, raggiunga il figlio per la prima volta detenuto. Rita che quel figlio ha cercato e raggiunto nella sua cella e da lui, in lacrime per il dolore arrecato, ha raccolto una promessa da riportare alla madre: “Le dica che ho sbagliato e che non lo farò mai più”. Latina. “Noi fuori”, le voci dei detenuti dal carcere di Rebibbia arrivano alla Curia vescovile studio93.it, 5 aprile 2025 Le voci dei detenuti dal Carcere di Rebibbia arrivano alla Curia vescovile di Latina. Oggi alle 18.00 ci sarà la presentazione del Libro “Noi fuori” a cura di Suor Emma Zordan, da anni volontaria alla casa di reclusione di Rebibbia dove tiene un laboratorio di scrittura creativa con le persone detenute. Modera l’incontro il giornalista vaticanista Roberto Monteforte. Il Vescovo di Latina, Monsignor Mariano Crociata, oggi ospiterà la presentazione del libro a cura di Suor Emma Zordan, della Congregazione delle Adoratrici del Sangue di Cristo, da anni volontaria alla casa di Reclusione di Rebibbia dove tiene un laboratorio di scrittura creativa con le persone detenute. Nell’incontro si affronteranno i temi posti dalle testimonianze raccolte nel volume e in particolare le difficoltà che trovano i detenuti che hanno scontata la loro pena a reintegrarsi nella società, della disperazione che si prova all’ingresso in carcere e, per assurdo, anche del terrore e dello smarrimento che si prova dopo anni di detenzione quando si è prossimi alla liberazione. Perché la parola libertà si associa al timore per ciò che li aspetta fuori, da “persone libere”, ma sole e spesso abbandonate dai loro familiari e dalle istituzioni, perché - come dice Suor Emma Zordan : “la società non si fida, respinge”. All’evento porterà la voce dell’amministrazione comunale di Latina l’Assessore all’Urbanistica, avvocatessa Annalisa Muzio. La serata si aprirà con la proiezione di un breve filmato che presenta il libro “Noi Fuori” mentre alcuni brani del volume saranno letti dalla giornalista Rosalba Grassi che darà voce ai detenuti Eduardo e Stefano, introducendo il tema della Giustizia riparativa e del perdono. Moderatore dell’evento sarà il giornalista vaticanista Roberto Monteforte, anche lui volontario alla Casa di reclusione di Rebibbia, dove con i detenuti realizza il notiziario Non Tutti Sanno. Oltre alla curatrice del libro, Suor Emma Zordan, interverranno l’ex detenuto Fabio Rocca che porterà la sua esperienza e le sue difficoltà da “uomo libero”, quindi la professoressa Maria Teresa Caccavale, che per 30 anni ha insegnato nell’istituto penitenziario romano di Rebibbia e poi, da volontaria nelle carceri, ha fondato l’Associazione Happy Bridge ODV di cui è presidente ed è attualmente ambasciatrice Erasmus/Epale per l’educazione degli adulti, impegnata tra l’altro nella formazione delle persone detenute. Porterà la sua testimonianza anche Gelsomina Rega, moglie di Cosimo, l’ex ergastolano, scrittore, attore e regista scomparso dopo aver scontato 46 anni di detenzione e che ha ottenuto la libertà anche grazie al suo impegno civile per la legalità. Gelsomina racconterà della sofferenza che patiscono anche le famiglie dei detenuti per la lontananza dei loro cari e per lo stigma sociale che subiscono, ma anche della speranza che ha saputo offrire a Cosimo con il suo amore e la sua fede. Castrovillari (Cs). Teatro-carcere, Aprustum porterà in scena “Finale di partita” di Beckett ecodellojonio.it, 5 aprile 2025 Per la prima volta il risultato di un laboratorio teatrale per reclusi verrà presentato sulle tavole del palco del Teatro Sybaris e non solo all’interno della struttura carceraria. Un’ulteriore barriera cade grazie al linguaggio universale del teatro. Sabato 5 aprile Aprustum porterà in scena lo spettacolo “Finale di partita” di Samuel Beckett, frutto di un percorso artistico e umano svoltosi all’interno della Casa Circondariale “Rosetta Sisca” di Castrovillari. Per la prima volta il risultato di un laboratorio teatrale per i detenuti verrà presentato sulle tavole del palco del Teatro Sybaris e non solo all’interno della struttura carceraria. Un’ulteriore barriera cade grazie al linguaggio universale del teatro. Finalmente sarà possibile far vedere al pubblico della cittadina che il carcere non è solo un luogo di pena, di dolore e di espiazione, ma un luogo che fornisce anche occasioni in cui sia possibile rielaborare le proprie esperienze negative, vivere emozioni positive che proiettino i detenuti verso un futuro meno buio, una volta tornati alla vita fuori dalle mura del carcere. I primi laboratori teatrali di Aprustum all’interno dell’Istituto Penitenziario “Rosetta Sisca” sono stati realizzati agli inizi del nuovo millennio. Dopo una pausa, Aprustum ha ripreso la collaborazione nel 2022 con il progetto “Senza telefono”, in cui la prima fase è stata dedicata agli esercizi di base per conoscere il linguaggio del teatro e stimolare la creatività di ognuno; la seconda invece, mirata all’elaborazione del proprio vissuto, divenuto poi testimonianza in scena, integrato da stralci della grande drammaturgia italiana. La collaborazione è proseguita nel 2024 con il nuovo progetto “Un lungo silenzio si fece udire. Viaggio nel mondo di Beckett”. Anche questa volta si è iniziato con un percorso laboratoriale dedicato allo spazio scenico, alla respirazione, improvvisazione, ecc. per poi arrivare a Beckett. Autore che ci ha permesso di concentrarci e approfondire la condizione del detenuto, costretto a vivere nei pochi metri quadrati della cella e i cui rapporti col mondo sono filtrati dalla televisione e dai racconti dei familiari. Proprio interrogandoci sul rapporto tra il dentro e il fuori, sulla staticità e ripetitività della vita quotidiana all’interno del carcere, sulla vita fatta di attese e di conteggi di giorni tutti uguali, attesa di qualcosa che non arriva mai, siamo alla fine giunti ad individuare in “Finale di partita” il testo che potesse permetterci di portare alla luce questi temi. “Finale di partita” è ambientato in una camera spoglia, una sorta di bunker, dove ci sono solo due bidoni della spazzatura. I personaggi sono un cieco su una sedia a rotelle, un servitore-figlio che si muove in continuazione e i due genitori decrepiti del cieco che vivono nei bidoni. Un mondo desolato in cui la farsa e la tragedia si mescolano continuamente. Lo spettacolo verrà messo in scena sabato 5 aprile al Teatro Sybaris e vedrà due detenuti nelle parti di Hamm e Nagg, e Katia Sartore e Fedele Battipede, due attori della compagnia di Aprustum, nelle parti di Nell e Clov. La regia è di Casimiro Gatto. Secondo il Dirigente dell’Istituto Giuseppe Carrà, ancora una volta i detenuti del Carcere di Castrovillari sono posti al centro di attività scientifico-trattamentali tese alla riscoperta di valori mai conosciuti. Per questo la continua proposizione di progetti sperimentali di teatroterapia pone l’Istituto di Castrovillari in una posizione di avanguardia nell’ambito del trattamento rieducativo del detenuto e - al tempo stesso -questo tipo di attività viene sempre più apprezzata dai detenuti tanto che il corso non ha subito defezioni. Il teatro, pertanto, diventa strumento potente di aggregazione e di comunicazione, oltre che di espressione artistica, volto a superare la spersonalizzazione di quello che, Marc Augè, ha definito un non-luogo. Dunque, una battaglia tesa alla riappropriazione del concetto di persona quindi, una sorta di fuga da ruoli e dinamiche tipici della detenzione, per la sostituzione con meccanismi relazionali basati sull’autocontrollo, sulla sfida catartica con sé stessi, con quelli legati alla collaborazione, allo scambio e alla condivisione. È stato possibile realizzare questo percorso grazie alla sensibilità e alla disponibilità del Direttore dott. Giuseppe Carrà, dei responsabili dell’area educativa, dott. Luigi Bloise e dott.sa Elisabetta Grisolia, e alla preziosa collaborazione del personale della polizia penitenziaria e del comandante dott. Carmine Di Giacomo. Fondamentale per la realizzazione del progetto è stato il contributo economico dato dalla Fondazione Carical. Contro i femminicidi, ripartiamo dalla scuola di Anna Ascani Il Domani, 5 aprile 2025 Una nuova grammatica dei rapporti, una nuova consapevolezza della necessità del rispetto dei diritti di tutte e tutti richiedono uno sforzo educativo che non stiamo promuovendo. La classe politica - tutta intera, maggioranza e opposizione - deve interrogarsi su quale sia il modo giusto per rendere l’educazione affettiva e sessuale strutturale nei percorsi scolastici. “Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, molti di noi hanno sentito ripetere spesso questi versi di dolore e lotta di Cristina Torres-Cáceres. Riaffiorano sulle nostre labbra anche in queste ore in cui facciamo i conti con la rabbia e la sofferenza per la morte di due giovani donne, Sara Campanella e Ilaria Sula. Uccise da uomini che pensavano di poterle possedere. Come si decostruisce un sistema patriarcale fondato sulla disuguaglianza? Come si elimina un fenomeno che corrode le nostre comunità, che agisce quotidianamente anche al di là degli episodi violenti? Partire dalla scuola - Non possono bastare reati e pene più severe - che pure servono. Intervengono quando è troppo tardi. Limitarsi a questo vuol dire ammettere di aver fallito, di non aver saputo trovare il vaccino per prevenire la manifestazione dei sintomi. E una politica responsabile non può arrendersi. Deve impegnarsi - al di là di divisioni partitiche - a trovare una soluzione che non può che essere culturale. E quindi non può che partire dalle scuole. Il mondo di oggi è molto diverso rispetto a quello di appena 50 anni fa. Anche le relazioni sono cambiate, si sono evolute come si sono evoluti donne e uomini. Perché ignorare questa trasformazione? Perché dare per scontato che l’affettività sia una questione esperienziale, al massimo affidata all’educazione familiare, quando ci accorgiamo che non è così, che non può bastare? Una nuova grammatica dei rapporti, una nuova consapevolezza della necessità del rispetto dei diritti di tutte e tutti richiedono uno sforzo educativo che non stiamo promuovendo. E che anzi spesso viene bloccato da propaganda e spauracchi, come quello dell’ideologia gender. Sono gli stessi genitori a chiedere sostegno. Un’indagine di Save The Children e Ipsos certifica che 9 genitori su 10 ritengono utile fare educazione affettiva e sessuale a scuola. Il 91 per cento degli intervistati la vorrebbe come materia obbligatoria. Le famiglie stanno dicendo di non avere strumenti sufficienti per affrontare la questione, stanno riconoscendo il valore della scuola. La classe politica - tutta intera, maggioranza e opposizione - non può ignorare questo segnale, deve interrogarsi su quale sia il modo giusto per rendere l’educazione affettiva e sessuale strutturale nei percorsi scolastici, senza delegarla alla buona volontà di dirigenti scolastici e docenti sensibili al tema. Educare all’uguaglianza - La riforma della scuola che come Partito democratico abbiamo voluto nel 2015 andava proprio in questa direzione: prevedeva percorsi di educazione alla parità, fondamentali per la crescita completa di ogni studente. Negli anni successivi il ministero dell’Istruzione ha promosso un piano di educazione al rispetto che dava corpo a questa convinzione, perché la cultura del possesso si sradica educando all’inclusione e all’uguaglianza. Non possono bastare azioni isolate, serve il coraggio di convergere anche da punti di vista molto distanti per costruire nelle scuole solide impalcature educative per far fronte alle trasformazioni in atto, al disorientamento dei più giovani, alle difficoltà degli adulti nel sostenerli. Occorre rendere l’educazione affettiva e sessuale parte organica del percorso formativo, investire risorse adeguate per lo sviluppo di competenze ad hoc degli insegnanti. È il grande piano di cui la scuola ha bisogno oggi. La rivoluzione non la fanno le leggi securitarie, ma le persone. La rivoluzione l’ha fatta una donna francese, Gisèle Pelicot, che con coraggio ha fatto conoscere le terribili violenze subite dal marito per spostare l’asse della vergogna dalla vittima al carnefice. La sua vicenda ha generato una nuova sensibilità ed è stata determinante per favorire anche una modifica al codice penale: proprio nelle scorse ore l’Assemblea nazionale francese ha inserito la nozione di “consenso” nella definizione di stupro e aggressione sessuale. Nella conoscenza, nella cultura diffusa, risiede l’antidoto al dramma che stiamo vivendo. È su questo, sulla scuola, che dobbiamo investire. Quanto servirebbe un’educazione all’affettività dei ragazzi di Laura Onofri Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2025 E invece i progetti sono solo extrascolastici. Due nuovi femminicidi di giovani ragazze in queste ultime ore hanno colpito profondamente l’opinione pubblica. Perché alcuni femminicidi scuotono le nostre coscienze più di altri? Per tante ragioni: la giovane età delle due ragazze, le modalità quasi identiche, l’ambiente culturale in cui vivevano, l’università frequentata da entrambe. Ma soprattutto il movente: avevano respinto la ossessiva, assillante e prepotente intromissione nella loro vita di due ragazzi che sono stati i loro assassini e non erano, o non erano più, legate a loro da una relazione. Dall’analisi dei femminicidi del 2024 eseguita dall’Uil risulta che le vittime sono in prevalenza donne adulte, in particolare nella fascia di età 31-50 anni, circa il 50%, mentre in quella fra i 21 e i 30 anni la percentuale è del 16%. Questo dato però deve essere letto pensando che la maggior parte dei femminicidi avviene o all’interno di una convivenza, durata magari parecchi anni con episodi, a volte gravi, di violenza, o dopo una separazione non accettata dal partner, quindi con dinamiche e situazioni molto diverse rispetto ai femminicidi di giovani donne. Quello che infatti colpisce in questi casi è che spesso queste ragazze non avessero mai dimostrato interesse per il loro persecutore, come nel caso di Sara Campanella, o che avessero avuto relazioni più o meno brevi ma ormai finite, come nel caso di Ilaria Sula o Giulia Cecchettin. È su questo punto che noi dovremmo interrogarci: perché giovani uomini non accettano il rifiuto o la fine di una relazione? Che cosa li spinge ad uccidere, a pensare “se non puoi essere mia non devi essere di nessuno?”. È chiaro che in una società patriarcale la donna è vista e percepita come un’esclusiva proprietà e la negazione a intraprendere o a continuare un rapporto diventa per molti uomini inaccettabile. Ma il rifiuto, che sfocia nella violenza e nel femminicidio, è anche vissuto come un fallimento, specialmente dai più giovani e dai più fragili, e può avere un impatto significativo sulla loro autostima e lasciare spazio ad un senso di inadeguatezza personale sino a far diventare violento il rapporto con l’altro sesso. Dall’altra parte le ragazze frequentemente sottovalutano i segni di un’eccessiva gelosia, di attenzioni soffocanti, di un continuo controllo sull’abbigliamento, sul trucco, sulle frequentazioni e le amicizie, indizi che fanno capire che una relazione non è sana, ma tossica; indizi che vengono troppo spesso scambiati per “amore”. Tutte queste ormai ben note analisi, non vengono prese in sufficiente considerazione dai decisori politici. Ci accorgiamo di quanto sia importante a quell’età comprendere le emozioni, esprimere i sentimenti che fanno parte della vita sociale degli e delle adolescenti, insegnare che il rispetto per l’altro e per l’altra non è sintomo di debolezza, ma anzi di forza, tutte le volte che avviciniamo gli adolescenti, entriamo nelle classi per parlare con loro, e capiamo quanto sia fondamentale che qualcuno li ascolti e nello stesso tempo trovi il modo più adatto per dialogare con loro, far emergere le loro idee, il loro vissuto e risolvere le inevitabili contraddizioni di quell’età. E’ ormai chiaro quanto sia essenziale che gli e le adolescenti si avvicinino al tema dell’affettività e della sessualità precocemente e che le relazioni che stabiliscono diventino per loro un esercizio in vista di legami più rilevanti e stabili. “Se Non Ora Quando” di Torino, come tante altre associazioni in tutta Italia, lo sperimenta ormai da 13 anni con un progetto dal titolo eloquente “Potere alla parola” che coinvolge ogni anno circa 400 ragazzi e ragazze del territorio e che si svolge nel corso di tutto l’anno scolastico per concludersi al Salone internazionale del libro che collabora a questa iniziativa. È una piccola goccia nell’oceano, come tante altre iniziative sporadiche da parte di singole e singoli insegnanti, associazioni o amministrazioni locali lungimiranti, consapevoli dell’assoluta necessità di affrontare questi temi. Ma sappiamo bene che servirebbe un’educazione all’affettività proposta in tutte le scuole a partire da quelle di primo grado, organica, strutturale, che preveda il coinvolgimento di diverse figure professionali competenti e adeguatamente formate. Ma tant’è, queste richieste e le norme contenute anche nella Convenzione di Istanbul, che è legge dello Stato, sono disattese. Come ci ricorda il Rapporto Grevio 2024 coordinato da D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza, e che ha visto, nella sua stesura, la collaborazione di 14 associazioni, la Direttiva Ministeriale “Educare alle Relazioni” e il Protocollo d’Intesa “Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica - Iniziative rivolte al mondo della scuola”, propongono un intervento limitato nel tempo, solo per gli Istituti di istruzione secondaria superiore, quasi esclusivamente nelle ore extrascolastiche, basato sull’adesione volontaria di docenti e classi, e senza fornire formazione agli stessi, se non per sessioni individuali incentrate esclusivamente su attività di animazione. Progetti che devono avere il consenso dei genitori e che sono extracurricolari. Molto lontano da quello che sarebbe necessario per iniziare a produrre un cambiamento culturale che necessita sì di tempo per restituire risultati, ma che non potrà sicuramente produrli se si pensa di contrastare la violenza contro le donne e i femminicidi solo con misure securitarie, così come prevedono gli ultimi provvedimenti del governo o affermando, come fa il ministro della Giustizia, che il problema sta nei “comportamenti ormai radicati che riguardano giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne” dimostrando di non sapere quali siano le vere cause di questo fenomeno e di non conoscere i dati reali sugli autori dei femminicidi. Educazione all’affettività, le domande senza risposta di Marco Balzano Il Domani, 5 aprile 2025 L’offerta formativa degli istituti scolastici del Paese tra ritardi e stalli. Mentre il numero di femminicidi aumenta, ecco cosa succede nelle aule dove siedono le giovani generazioni. Giulia Cecchettin è stata uccisa quasi un anno e mezzo fa. Il giorno dopo il ministro Valditara aveva promesso di intervenire istantaneamente per far entrare nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione all’affettività, così battezzata per il disagio che a chi governa mette la parola “sessualità”. Nelle linee guida Unesco si chiama semplicemente Sexuality education, mentre il percorso alla conoscenza del corpo e alla relazione in base a un paradigma olistico si chiama Comprehensive sexuality education. Sappiamo che l’inserimento dell’educazione all’affettività non è stato affatto tempestivo, sia perché non era chiaro come impostare la nuova materia, sia perché, al di là delle dichiarazioni a favor di telecamera, le idee e le modalità di gestione non erano state ancora perfezionate. Da vent’anni la politica italiana si rivela incapace di portare nelle classi questa disciplina, limitandosi ad attivare percorsi a macchia di leopardo, con una forte discrepanza tra Nord e Sud, molto più indietro nell’avviare iniziative simili. Ancora oggi meno del 50% degli studenti affronta un percorso di educazione all’affettività, in Meridione soltanto il 37%. Nell’Unione Europea sono rimasti pochissimi paesi a non includerla nell’iter formativo di bambine e bambini e di ragazze e ragazzi e l’eccezione più vistosa è senz’altro l’Italia. Fa così una certa impressione sapere che in Svezia la disciplina è presente dal 1955, in Germania dal 1968. E lascia l’amaro in bocca constatare che tanto i bambini quanto i ragazzi giudicano l’educazione affettiva e sessuale un argomento che suscita voglia di imparare e che il luogo ideale dove apprendere sia ritenuto la scuola, ben più della famiglia e di un informale dialogo tra pari. Mesi fa, sulle colonne del Corriere della Sera, cercavo di analizzare lo stato dei lavori chiedendo indirettamente al ministro dell’Istruzione a che punto eravamo con l’educazione all’affettività. La situazione di stallo mi fa credere che valga la pena insistere. Questa volta lo faccio partendo da un episodio personale, che però rispecchia bene la situazione generale. Mio figlio ha otto anni, frequenta il terzo anno di scuola primaria. La sua classe non è coinvolta nelle ore di educazione all’affettività: è troppo presto, mi hanno risposto docenti ed esperti esterni, senza che però nessuno sapesse dirmi perché è troppo presto. Le indicazioni Unesco e dell’Oms, infatti, dicono esattamente il contrario: bisognerebbe iniziare addirittura in età prescolare perché una sessualità sana, una capacità di relazione appropriata e i valori del rispetto e dell’ascolto si radicano subito nell’essere umano e non è pensabile abbattere gli stereotipi né i pregiudizi né ambire a una parità di genere, se non si comincia dall’infanzia. Invece ancora troppi bambini della primaria sono ancora esclusi dall’educazione all’affettività. Mia figlia, invece, ha dieci anni e frequenta la quinta nello stesso istituto di suo fratello. Ha appena finito il percorso, che ha cominciato soltanto poche settimane fa: 4 ore dedicate alla gravidanza, 2 allo sviluppo femminile e maschile e 2 all’amicizia. Il tempo dedicato alla materia, ad oggi, pare pressappoco di questa entità: 8 ore in 5 anni, “concentrate” a tre mesi dalla fine del ciclo scolastico. Gli incontri sono stati tenuti da personale esterno alla scuola, rispettivamente un’ostetrica, un’educatrice e due psicologhe. Nessuna di loro sa in che modo continuerà il percorso alla scuola media, affermazione che fa capire come, se da un lato si punta a creare una disciplina trasversale, dall’altro i cicli scolastici restano compartimenti stagni: non si parlano e ciascuno si organizza per sé. Se penso ancora all’esperienza di mia figlia non ho nulla da obiettare sui contenuti. Ma strutturare una materia scolastica è una cosa diversa dall’offerta di quattro brevi incontri. L’educazione all’affettività, così predisposta, assume una dignità ibrida: sembra un percorso che la scuola offre piuttosto che una disciplina che accompagna lo studente fino alla fine. Che status vogliamo darle? Esiste un programma o solo generiche linee guida? Sono previste delle modalità di restituzione? Non per un desiderio di valutazione col sistema canonico - proprio no - ma perché si potrebbe utilizzare la restituzione secondo modalità pedagogiche innovative, per rimuovere ostacoli o stimolare comportamenti migliorativi, ad esempio. Un’ultima domanda: abbiamo garanzie che l’educazione all’affettività resterà nell’offerta formativa della scuola italiana o, visto che ha dei costi, è a rischio di essere ridotta o cancellata alla prima manovra economica? È importante saperlo perché parlare di sessualità e affettività - soggetto o percorso che sia - influisce sul contrasto alla violenza di genere, coinvolge i servizi educativi di una comunità e gli insegnanti curricolari, che meriterebbero una formazione a riguardo. Solo con più formazione pedagogica, infatti, avranno la piena possibilità di entrare in sintonia e stabilire un rapporto di fiducia con lo studente. Senza investimenti resteremo al solito stadio primordiale di iniziative più improvvisate che meditate, lamentandoci che non hanno ricadute sulla media e lunga distanza, fatto non imputabile alla scuola ma esclusivamente a scelte politiche pericolose. Se per queste domande ci sono risposte varrebbe la pena condividerle e comunicarle meglio. Se le risposte, dopo così tanto tempo, ancora non ci sono, bisognerebbe avere l’onestà di non fare proclami né di imbastire soluzioni affrettate né di stare alla finestra mentre, come accade in questi giorni, il numero dei femminicidi continua drammaticamente a salire. In questa materia che parla di conoscenza del proprio corpo e di rispetto dell’altro, delle proprie pulsioni e dei propri desideri, della decostruzione di pregiudizi e di pari dignità, non possiamo permetterci altro che risultati eccellenti per ogni singolo alunno. Uccidere il padre per salvare la madre, quei ragazzi cresciuti nella violenza di Raffaella Romagnolo La Stampa, 5 aprile 2025 Quando racconto la storia di Edipo che sulla strada verso Tebe incrocia il padre Laio e, non riconoscendolo, lo ammazza, in classe si fa silenzio. Succede ogni volta, è una specie di magia, però nera. Io adulta e loro ragazzi dimentichiamo le pareti spoglie, i banchi sbreccati, le sedie scomode per le loro gambe lunghe di quindicenni, dimentichiamo persino le distrazioni dei Social e ci troviamo di colpo alle prese con un’angoscia che travalica i millenni, primigenia, fondativa. Non si uccide il padre. Non perché lo dice la legge, non si fa e basta. La legge, i tribunali, vengono dopo. È un tabù, spiego, e infrangere un tabù distrugge l’individuo e fa saltare in aria la società. Edipo patricida pagherà duramente, e con lui i suoi figli, per generazioni. Di qui, credo, lo sgomento a leggere i fatti di Mezzolombardo. Perché ciò che è accaduto nella notte tra giovedì e venerdì a Simeun Panic e a suo figlio Bojan, e alla madre, e a tutti i loro famigliari e amici, non è semplice, amarissima cronaca: è tragedia. Nel tempo a venire, l’iter processuale chiarirà sperabilmente i dettagli, la dinamica, le cause prossime e remote. I giudici daranno a tutti i protagonisti un ruolo, carnefice o vittima. Intanto mi torna in mente la vicenda di Alex Pompa, meno di vent’anni anche lui, che nel 2020 a Collegno uccise il padre a coltellate. Con il poco che ho in mano, e quindi con mille cautele, intuisco il ripetersi di uno schema: un matrimonio violento, il patriarcato al suo peggio, il padre che picchia, la madre che subisce, e un ragazzo che si ribella. Ma, per uscirne, non sembra possedere altro strumento che la violenza stessa. Nel ripetersi dello schema, la tragedia antica come il mondo s’incardina nella contemporaneità, anzi nella quotidianità di un Paese con una donna ammazzata ogni tre giorni. Da scrittrice, provo allora, e ancora con mille cautele, a entrare nella testa del ragazzo. C’è un mondo domestico duro, cattivo, profondamente squilibrato nei rapporti. Poi c’è un mondo fuori casa che organizza cortei, agita chiavi, pretende sacrosanto rispetto. È un bel mondo, quello fuori, c’è un’idea di pace, le donne che ami (tua madre, tua sorella, tua figlia, tua moglie, la tua ragazza) non devono nascondere i lividi perché non hanno lividi. Ed è sicuramente un bel mondo a vent’anni, quando tutto è ancora intero (Guccini), cioè tutto è possibile, persino il cambiamento. Ma “intero” significa che non puoi stare contemporaneamente in due mondi: o dentro o fuori. In questa tragedia antica del tempo presente, il coltello (la lacerazione) mi sembra un messaggio cristallino. Non hanno visto, né Alex Pompa né (presumibilmente, cautela, cautela) Bojan Panic, alternative alla violenza. Che intorno sia mancata una rete di supporto è evidente. Certo ci sono vicini di casa, colleghi di lavoro, scuola, associazioni, servizi sociali, forze di polizia, ma la rete non ha funzionato. Viene allora in mente Adolescence, la serie Netflix che tanto fa discutere. Anche lì, la rete intorno ai protagonisti non salva nessuno. Su questa cosa, credo, bisogna ragionarci, inventarsi qualcosa, agire. Fare cioè in modo che l’alternativa alla violenza sia visibile e praticabile. Succede anche un’altra cosa interessante, in Adolescence, cioè che i ruoli non sono chiari ma sfumati: il carnefice è anche vittima, e viceversa, tutti gli altri sono innocenti ma, in qualche modo, colpevoli (di non aver visto, di non essere intervenuti per tempo). Una fiction che è un bel bagno di realtà. Edipo assassino, Edipo innocente. Ai tribunali, ai giudici, il compito di assegnare i ruoli giusti. Non li invidio “Abbiamo fallito. Quando non hai futuro hai solo presente e il presente può essere drammatico” di Silvia M.C. Senette Corriere del Trentino, 5 aprile 2025 Lo psichiatra Crepet sull’omicidio in Trentino: “Nuove invasioni barbariche. Mi preoccupa questa ondata che attraversa l’Italia e i giovani che lavano nel sangue le beghe, come i loro trisavoli”. Paolo Crepet, psichiatra di fama indiscussa, non usa mezzi termini nell’analizzare la tragedia familiare avvenuta a Mezzolombardo. Un’analisi lucida e senza sconti, la sua, che si allarga alla società contemporanea. Professor Crepet, cosa la inquieta maggiormente di questa storia di violenza? “Mi preoccupa in generale questa ondata che attraversa l’Italia; poi le storie singole, le cronache, vanno lasciate a chi indaga e ai criminologi. Quello che mi fa spavento è questo: non so se si possa definire recrudescenza dal punto di vista statistico, però è impressionante che in quattro giorni il coltello sia “volato” da Trento a Messina, passando per l’Umbria. Siamo davanti alle nuove “invasioni barbariche” in cui la nostra cultura evidentemente è rientrata per una ragione abbastanza semplice: quando non hai futuro hai solo presente, e il presente può essere drammatico. È il futuro che ti salva, non è certo il presente. Però noi da decenni abbiamo osannato il qui ed ora. E oggi siamo finiti così”. Lei parla di un disagio più ampio, quasi sistemico… “Faccio una riflessione più ampia anche pensando alle ore che stiamo vivendo: dazi inclusi. “Noi Europa” siamo passati da una dipendenza a un’altra dipendenza, siamo tossicodipendenti: da una parte dipendenti dal petrolio, dal gas, e dall’altra parte da un’economia tecnologica. E questo fa sì che noi viviamo di “io speriamo che me la cavo”. Questo credo che sia oggi l’inno europeo, non più quello di Beethoven. È una grande metafora, quello che sta accadendo: sembra che riguardi solo il quadro macroeconomico, ma si riflette poi sulle micro realtà familiari”. Colpisce che il protagonista di questa vicenda sia un ragazzo di 19 anni... “È peggio, perché vuol dire che non abbiamo insegnato niente. È evidente. Se i giovani si comportano come i loro trisavoli, per cui le dispute vanno lavate nel sangue, e si ragiona come nel ‘600, ci sarà un motivo, no? Vuol dire che abbiamo fallito. Abbiamo fallito qualsiasi approccio educativo. Il fatto che ci siano giovani che non hanno altri strumenti, se non quello del coltello, mi fa rimanere di sale nel 2025. E non facciamo discorsi di etnie, per favore: Giulia Cecchettin era stra-veneta come il suo assassino” Il ragazzo avrebbe agito d’impulso, per difendere la madre dalla violenza del padre. “Questo non lo so, ma non è che ogni volta che ti arrabbi guardi con lussuria il coltello di cucina. Esistono modi diversi di reagire: la civilizzazione vuol dire questo. Io non credo che uccida solo chi ha sempre ucciso. È chiaro che a 19 anni è molto probabile che nella tua vita tu non abbia già usato un coltello, ma questo vuol dire qualcosa dal punto di vista giuridico; non vuol dire nulla dal punto di vista psicologico. A Novi Ligure, Erika e Omar non credo che avessero mai ucciso nemmeno una mosca ma abbiamo capito quello che è successo. Nemmeno la Franzoni. I delitti sono nella stragrande maggioranza dei casi compiuti da persone che non avevano mai agito, ma questo non significa che non avessero dentro di loro un certo istinto. Certo, vivere all’interno di una famiglia in cui le botte sono la grammatica quotidiana è chiaro che porta a riprodurla. Un padre e una madre che ascoltano Mozart non finiranno uccisi”. Quale percorso sarebbe opportuno, ora, per questo ragazzo? “Una strada complessa di ricostruzione. Come il lavoro che fa un ortopedico sopraffino per rimettere a posto le ossa: un lavoro al millimetro. Se invece si fa un lavoro dozzinale, butti dentro input e speri che col tempo gli passi, non otterrai niente”. Cosa le resta dopo aver appreso dell’ennesima tragedia familiare? “La convinzione che abbiamo perso l’idea dell’amore. Sono stato chiamato troppe volte in questi anni per commentare cose accadute nella vostra terra meravigliosa. Ho parlato di solitudine, perché c’è: tante monadi, persone che vagano per le nostre strade, la ricerca di essere qualcuno. A volte si intravede la possibilità di vendicarsi di un destino uccidendo qualcun altro, metaforicamente o no. Non parlo solo del Trentino, ma di una civiltà che ha la testa china e non riesce a vedere oltre un orizzonte, oltre un futuro che sembra finito. Siamo al kit di sopravvivenza; ognuno accumula sale grosso non perché arriva chissà quale esercito armato, ma perché non crediamo più in quello che avverrà. Non sorridiamo più a ciò che verrà, abbiamo paura. Ecco la sindrome dell’invasione barbarica” A Verona in piazza contro i maranza. “A difesa del veronese bianco” di Marco Colombo Il Domani, 5 aprile 2025 Dalla pagina Instagram “emargina il maranza”, creata nelle scorse settimane, arriva l’invito a scendere in piazza il 12 aprile “contro un fenomeno sociale ormai fuori controllo”. Ma se finora questi movimenti avevano tentato di mascherare la propria tendenza politica, stavolta emerge chiaramente il legame con Forza Nuova. Questa volta la matrice è chiara. Se nelle scorse settimane i movimenti “anti-maranza”, nati dalla pagina Articolo 52, avevano sempre tentato di rivendicare, goffamente, una piena autonomia rifiutando l’accostamento a qualsiasi area politica, a Verona è l’estrema destra neofascista a intestarsi questa battaglia. Senza nascondersi più di tanto, come spesso accade nella città scaligera, e anzi chiamando a raccolta tutti i propri sostenitori per una manifestazione anti-maranza indetta per sabato 12 aprile. “Nasce a Verona la prima organizzazione aggregativa anti-maranza contro un fenomeno sociale ormai fuori controllo nella nostra città, per il quale i nostri giovani devono subire aggressioni, violenze, rapine e bullismo di ogni genere”. Si apre così il comunicato, postato sulla neonata pagina Instagram, del comitato “emargina il maranza”. Criticano la gestione della città sia da parte dell’attuale sindaco Damiano Tommasi, con cui “il degrado nella nostra città non è diminuito”, sia da parte della precedente amministrazione di centrodestra, sotto cui “questo fenomeno è nato e questa corrente politica (oggi al governo) non è stata in grado di gestire la situazione”. Nelle grafiche postate sui social il nome del gruppo compare tra due persone raffigurate con vestiti neri, tipiche del mondo ultras a cui è fortemente legata la destra veronese, e le bandiere della città e dell’Italia. I toni, in vari passaggi del comunicato, lasciano intendere un indirizzo politico chiaro. Ma a togliere ogni dubbio è la firma: Riccardo Zanini, responsabile nazionale di Lotta Studentesca. La formazione giovanile di Forza Nuova si attesta così l’iniziativa veronese, e la campagna anti-maranza che da settimane tiene banco, e invita a scendere in piazza. “Con questo progetto - si legge ancora nel comunicato - vogliamo riportare la gioventù scaligera a rioccupare le vie, le strade e i quartieri di questa città, senza doversi preoccupare di guardarsi sempre le spalle. Vogliamo svegliare le menti di quei ragazzi italiani che seguono e purtroppo imitano questi soggetti. Vogliamo dire ciò che pensiamo, consapevoli che la soluzione a questo problema non può essere la politica”. E infatti, per lanciare la manifestazione del 12 aprile gli organizzatori ci tengono a precisare che “non sarà una manifestazione politica, ma una battaglia senza bandiere e senza età, senza correnti ideologiche o strumentalizzazioni partitiche”. L’annuncio di Castellini - Qualche settimana fa il vicesegretario nazionale di Forza Nuova, Luca Castellini, è intervenuto in un programma radiofonico per spiegare l’iniziativa lanciata dai giovani militanti del suo partito. “Mi sembra evidente che a Verona c’è uno scontro etnico tra bianchi e maranza - ha dichiarato ai microfoni di Alberto Gottardo - con i bianchi nel ruolo di vittime perché purtroppo non si raggruppano come fanno invece i figli degli immigrati”. Nel suo intervento, durato poco meno di dieci minuti, Castellini si è lanciato in invettive contro gli stranieri e a difesa dei “veronesi bianchi” che, a detta sua, sono ogni giorno sottomessi da baby gang con cui si è ormai instaurato un “rapporto di sudditanza”. “La strada da intraprendere - prosegue il vicesegretario - è quella dell’emarginazione in modo tale che questi soggetti stiano tra di loro”. E al giornalista che lo incalza chiedendo se ci saranno squadre di suoi militanti che controllano che i maranza vengano emarginati in un certo modo risponde piccato: “No, purtroppo no. Le cronache anzi ci raccontano il contrario. Non ci sono ragazzini veronesi bianchi che vanno a rincorrere e prendere a calci in culo i maranza, purtroppo succede sempre il contrario”. La cronaca delle ultime settimane, però, restituisce un’immagine diversa con le continue aggressioni legate al gruppo Articolo 52 in varie città italiane. L’ultima diffusa sui social si è verificata venerdì scorso a Milano quando un gruppo di ragazzini, “bianchi e italiani” come li definirebbe Castellini, hanno aggredito una persona in un parco zona San Siro vantandosene sui social. Intanto la procura di Milano prosegue l’inchiesta sulle ronde anti maranza organizzate da un gruppo di persone non ancora tutte identificate. Di certo gli investigatori stanno analizzando il materiale video e le chat del gruppo Telegram. Le paure invisibili in un mondo infantile di Gabriele Segre La Stampa, 5 aprile 2025 Dopo che la commissaria europea Hadja Lahbib ci ha mostrato come preparare il perfetto kit per sopravvivere alle emergenze, in rete spopolano i consigli in merito. È curioso, però, che si discuta più degli accessori indispensabili da infilare nello zaino (dalle barrette energetiche al coltellino svizzero) che da quale catastrofe dovremmo salvarci. Forse perché, in fondo, non ci importa davvero. Che si tratti di un attacco nucleare, di una nuova super-pandemia, del collasso delle reti informatiche o di un’invasione aliena, è da tempo che non riusciamo più a capire cosa ci spaventa maggiormente. In un presente incerto, in cui la cronaca assomiglia sempre più alla sceneggiatura di una puntata di Black Mirror, anche la nostra paura è diventata multipolare: frammentata, confusa, continuamente alimentata da minacce da ogni direzione. Kit d’emergenza o meno, si tratta di una nuova forma di inquietudine per la quale non siamo preparati. A differenza delle tante ansie che hanno accompagnato la nostra evoluzione, la “paura multipolare” ha qualcosa di radicalmente nuovo: non ci permette di identificare con chiarezza l’origine del pericolo. In un mondo senza più un centro, la prossima calamità può arrivare da qualsiasi direzione. O da tutte, contemporaneamente. E qui sta il vero rischio: per millenni, sono state proprio le minacce riconoscibili a orientare il nostro progresso. Sapevamo cosa temere e da lì iniziavamo a costruire. Oggi, in mancanza di un pericolo ben delineato, siamo ancora più disorientati. Forse, i primi segnali di questo spaesamento sono arrivati con il Covid: la prima pandemia della storia che non potevamo attribuire all’ira di una divinità o alla conseguenza di una guerra. Abbiamo temuto per il contagio, per la salute dei nostri cari, per il collasso economico, per gli effetti psicologici del lockdown, per i vaccini, per il controllo del governo…. Da allora, l’elenco delle paure che non riusciamo a gestire è diventato infinito, proprio come il numero di attori e variabili che oggi dominano la nostra realtà. Chi può dire cosa ci inquieta di più? L’invasione russa o i dazi di Trump? Una crisi finanziaria globale o un’Europa che si riarma? Il potere incontrollabile dell’intelligenza artificiale o il ritorno dell’autocrazia? Ma c’è persino di peggio: vista la rapidità con cui eventi impensabili ci sono piombati addosso, è più che lecito temere ciò che ancora non ha un nome. Quello che si nasconde oltre l’orizzonte. Un’oscurità che nessuna torcia nel nostro zaino d’emergenza può davvero illuminare. Alla fine, tutti questi timori si riassumono in uno solo: l’incertezza di un mondo che non sappiamo né prevedere, né governare. Ed è proprio su questo che la politica dovrebbe intervenire. Bene insegnarci come sopravvivere per 72 ore, ma forse, prima ancora, dovrebbe aiutarci a comprendere la situazione in cui ci troviamo. Prendere coscienza delle difficoltà sarebbe un gesto maturo, da adulti. Eppure, tra i tanti modi possibili per affrontare l’ignoto, la politica sembra scegliere troppo spesso quello opposto: l’approccio infantile. Da bambini, chiudiamo gli occhi sperando che il mostro sparisca. Oppure ci aggrappiamo ai genitori, fiduciosi che sapranno salvarci. È una forma di fuga dalla responsabilità che conosciamo - l’abbiamo già vissuta, più volte. Si pensi soltanto al cambiamento climatico: da un lato c’è chi lo nega, dall’altro chi crede che un protocollo firmato riuscirà a fermare l’innalzamento dei mari. Allo stesso modo, di fronte alle crisi che ci circondano, ci illudiamo che sia solo questione di tempo: che Trump e Putin non saranno eterni, come se i problemi dipendessero solo dai leader e non anche dal mondo che li ha prodotti. Oppure cerchiamo scorciatoie drastiche e definitive. Dipingere il Presidente Russo come il nuovo Hitler e dichiarargli guerra; boicottare gli Stati Uniti e abbracciare la Cina. O, al contrario, cedere al Cremlino tutto ciò che vuole purché ci lasci in pace, e liquidare Trump come un fanfarone senza sostanza. Va bene tutto, pur di tornare a respirare senza paura. Ma se la politica continua ad assecondare questa infantilizzazione della società, alimentando la frenesia nel tentativo di placare la nostra fame di certezze, finirà per ottenere l’effetto opposto: farci sentire ancora più soli di fronte alle prossime, inevitabili, tempeste. Il suo compito, invece, è quello di guidarci verso una consapevole maturità. Non assecondare i nostri capricci, ma spiegarci che non basta chiudere gli occhi e invocare mamma e papà perché vengano a salvarci. Gli adulti chiamati a intervenire siamo noi. E solo noi possiamo costruire, insieme, un grande “kit collettivo” per affrontare il futuro. Difficile dire se sapremo riempirlo con il pragmatismo del presente o con la visione di un nuovo ordine possibile. Di certo, dovrà contenere una provvista fondamentale: tanta, tanta pazienza Quella bimba nel deserto è una crepa nel muro della nostra rimozione di Emilio Minervini Il Dubbio, 5 aprile 2025 Una bambina cammina scalza sulle roventi dune del deserto. Affronta da sola il silenzio di una prigione senza sbarre o confini, rotto solo dall’ululato del vento. “I suoi genitori potrebbero essere crollati dietro di lei, disidratati, cacciati o scomparsi durante le ultime espulsioni di massa di neri africani da parte della Libia. Forse sono stati arrestati e gettati nelle buche di Gharyan o Sikka. O forse sono stati lasciati morire, come tanti altri, nella terra di nessuno che l’Europa paga per mantenere invisibile”, si legge nella nota della Ong Mediterranea che giovedì ha pubblicato sui suoi canali social il video, diffuso da Refugees in Libya, che ritrae la bambina vagare solitaria e senza meta nel deserto tra Libia e Ciad. “Non si tratta di un incidente. È un’epurazione razziale, istituzionalizzata e finanziata dalla stessa Europa che dà lezioni al mondo sui diritti umani”, conclude la nota. Nelle stesse ore in cui veniva divulgato il video, è arrivata la notizia che le autorità di sicurezza libiche hanno sospeso le attività di dieci organizzazioni umanitarie internazionali, accusate di essere parte di un “progetto per alterare la composizione demografica del paese attraverso l’insediamento di migranti africani”. Tra le ong accusate dall’Asi (Agenzia per la sicurezza interna) libica ci sono, tra le altre, l’italiana Cesvi, Medici senza frontiere, Terres des hommes, International medical corps. Salem Gaith, portavoce dell’Asi, ha puntato il dito anche contro l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sostenendo che lo stesso sarebbe coinvolto in attività illegali, ragione per cui sarebbe stato sanzionato dal ministero degli affari esteri libico. Gheith ha affermato che, con il pretesto dell’azione umanitaria le ong avrebbero condotto operazioni di traffico di migranti e riciclaggio di denaro. Pochi giorni prima dell’annuncio della sospensione da parte delle autorità libiche, il ministro libico degli affari esteri ha ricevuto una lettera, firmata da diciassette ambasciatori, tra cui quelli d’Italia, Spagna, Gran Bretagna, Francia e Unione Europea in cui veniva denunciata la convocazione di almeno diciotto membri del personale delle ong, alcuni dei quali sarebbero stati costretti a firmare impegni a non lavorare mai più per un’organizzazione internazionale mentre ad altri veniva sottratto il passaporto. Gli ambasciatori hanno chiesto che fosse permesso alle ong di riaprire i loro uffici e di riprendere le operazioni umanitarie il prima possibile, esprimendo preoccupazione per l’impatto che una simile decisione potrebbe avere sull’assistenza sanitaria di base nella regione. Il numero di migranti che oltrepassano i confini esterni per entrare in Europa, in base ai dati di Frontex, è sceso del 25%, con circa 24mila ingressi nel primo bimestre del 2025. Tutte le principali rotte usate dai migranti hanno registrato una diminuzione dei flussi, eccezion fatta per quella centro mediterranea. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno la rotta balcanica ha registrato una diminuzione del 64% con 1.400 ingressi, la mediterranea occidentale del 2% con 2.087 ingressi, quella africana occidentale del 40% con 7.182 ingressi e la mediterranea orientale del 35% con 6.465 ingressi. Come anticipato, la rotta mediterranea centrale, di cui fa parte la Libia, ha invece registrato un aumento del 48% arrivando a quota 6.863 ingressi. Il dato rappresenta un’inversione di tendenza rispetto all’anno precedente in cui si era registrata, rispetto al 2023, una diminuzione del flusso pari al 59% con 66.766 ingressi. I migranti che intraprendono il viaggio seguendo questa rotta provengono per la maggior parte dall’Afghanistan, dal Pakistan, dal Bangladesh, dalla Siria, dal Sudan e dal Mali. La Libia rimane il principale punto di partenza su questa rotta, ma se il costo del viaggio per arrivare in Libia sembra essere ancora contenuto, il prezzo per la traversata marittima varia dai 5mila agli 8mila euro a persona. Il Displacement Tracking Matrix dell’Organizzazione internazionale per i migranti (IOM) nel rapporto “Key findings - round 55” relativo al periodo compreso tra novembre e dicembre del 2024 ha identificato 824.131 migranti presenti in Libia. Il 79% era composto da maschi adulti, l’11% da donne adulte, il 10% da minori e circa il 3% da minori non accompagnati. Il 53% si trovava nella zona ovest della Libia, il 13% nel sud e il 34% nell’est del paese. Le nazionalità più numerose erano la sudanese, rappresentata dal 29% degli individui, nigeriana per il 23%, egiziana per il 20%, ciadiana per il 10% e nigeriana per il 4%. Il costo medio del viaggio varia in base alla regione di partenza; per chi parte dall’Asia si aggira sui 2800 euro, che scendono a 1230 per chi parte dal medio oriente, chi lascia il Nord Africa paga in media 40 euro per raggiungere la Libia, mentre per chi parte dall’Africa sub sahariana il costo è di circa 545 euro. Possono sembrare cifre irrisorie ma bisogna considerare che chi intraprende questo genere di viaggi in genere guadagna pochi euro al giorno. Per quanto riguarda i lavori svolti da queste persone, il 46% era costituito da operai edili, il 10% da operai di produzione, un altro 10% da lavoratori domestici, il 9% da lavoratori agricoli e il 7% da venditori. Al tempo del regime di Gheddafi la Libia era considerata un’importante destinazione per i lavoratori dell’Africa subsahariana. Prima della caduta del Raìs nel 2011, si stima che la presenza di immigrati africani regolarmente impiegati in Libia fosse tra 1,5 e 2 milioni di persone, rappresentando un terzo della popolazione libica del tempo. L’orientamento panafricano del Colonnello favoriva l’immigrazione proveniente dai paesi vicini e si stima che nei primi dieci anni del nuovo millennio circa un milione e mezzo di lavoratori stagionali attraversassero ogni anno i confini libici meridionali. “Insegnante e giornalista, così provo a raccontare la mia Gaza distrutta” di Marta Serafini Corriere della Sera, 5 aprile 2025 Ruwaida Amer, giornalista freelance di Khan Younis, è tra le finaliste del Premio Inge Feltrinelli. “Quando l’esercito ha spianato il cortile della scuola, i soldati hanno visto che l’edificio era in ricostruzione ma sono andati avanti lo stesso. È un posto vicino al mio cuore e piango ancora per il dolore. Ma resto orgogliosa di essere un’insegnante a Gaza”. Con la sua inchiesta pubblicata su +972 Magazine, è stata tra le finaliste del Premio Inge Feltrinelli, di cui si è da poco tenuta la cerimonia di premiazione a Milano. Via WhatsApp, dalla Striscia, Amer racconta al Corriere cosa vuol dire vivere e lavorare sotto i bombardamenti mentre tutto intorno a te viene distrutto. Ma anche del suo articolo dedicato ad un edificio a lei caro spianato dai bulldozer dell’Idf, la Rosary Sisters School, una scuola cattolica privata nella zona di Tal el-Hawa a Gaza City. Com’è stata la tua infanzia e la tua educazione a Gaza? “Sono nata nella Striscia di Gaza, nella parte meridionale, a Khan Younis, verso il mare. Ho trascorso nove anni nel campo profughi a ovest della città. È stata un’infanzia molto difficile con l’occupazione israeliana e la paura costante. Nel 2000, quando l’esercito israeliano ha lanciato un’operazione nella nostra zona zona, ho dovuto lasciare la mia casa d’infanzia, sfollando nel cuore della notte. Quando siamo tornati qualche giorno dopo, abbiamo trovato la casa completamente distrutta. Il ricordo dell’Eid al-Fitr (la festa che segna la fine del Ramadan, il mese sacro per i musulmani, ndr) per me è legato alla demolizione della nostra casa. Dopo due anni di sfollamento, abbiamo ottenuto una casa alternativa dall’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite che opera in West Bank e Gaza, ndr) a est di Khan Younis e abbiamo vissuto lì per cinque anni. Poi, nel 2007, è iniziata la guerra. Questa iniziata dopo il 7 ottobre è la più dura e difficile”. Prima di diventare giornalista cosa facevi? “Ho studiato biologia all’università per diventare insegnante ma già all’epoca avevo una grande passione per la scrittura e la produzione cinematografica. Dopo la laurea, ho lavorato contemporaneamente nel giornalismo. Cinque anni fa, ho iniziato a lavorare alla Rosary Sisters School, l’esperienza educativa più meravigliosa che abbia mai avuto. Nonostante lavorassi in decine di centri educativi, insegnare ai bambini a scuola era diverso e mi dava forza”. Perché la Rosary Sisters era diversa dalle altre scuole? “Scrivere della scuola e dei miei studenti mi ha fatto rielaborare l’accaduto. Ho imparato da loro e loro hanno imparato da me. Amavo il laboratorio scientifico e consideravo i miei studenti miei figli. Ogni volta che avevo preoccupazioni e dispiaceri nella mia vita personale, sparivano quando entravo a scuola e iniziavano le lezioni. Tutto era diverso in quelle aule: le lezioni di scienze e le loro attività educative, attività ricreative, lunghe conversazioni con i bambini. Questo grande amore per loro mi ha fatto sentire molto la loro mancanza e sento ancora un vuoto enorme. Durante la guerra, alcuni dei miei studenti e colleghi sono stati uccisi. Ed è a loro che dedico il premio: Issa, Salma, Habeeba e Abdullah, e dei miei colleghi Wasima, Wahiba e Lisa, la madre di Issa. Issa è stato ucciso con sua madre e suo padre. Un’intera famiglia che non c’è più”. Lo hai raccontato nella tua inchiesta: anche quella scuola, come molte altre, non c’è più... “La scuola era stata danneggiata dai bombardamenti del 2021, non avevamo ancora finito di ricostruirla. Quando l’esercito ha spianato il cortile hanno visto che era ancora in costruzione. È un posto vicino al mio cuore e piango ancora per il dolore di aver perso i momenti felici trascorsi in quel luogo. Quando mi hanno contattato per il premio, ero molto felice perché era legato alla scuola. Ho sentito di essere riuscito a combinare il mio lavoro di insegnante e giornalista”. Cosa significa essere una giornalista a Gaza? “Il mio lavoro in guerra non è mai stato facile. Ho attraversato molte esperienze difficili e ne ho scritto nei miei articoli, incluso il fatto di essere rimasta ferita in un bombardamento vicino a casa mia. Non piango e non parlo ma la scrittura mi ha aiutato a essere forte ed esprimere ciò che è dentro di me. Durante le guerre passate, non ho mai coperto le notizie perché lavoro come produttrice. Ma questa guerra è diversa, l’apprezzamento delle persone e il continuo supporto mi fanno sentire che devo andare avanti”. Dopo la fine del cessate il fuoco nella Striscia, sono ripresi i raid israeliani, cosa pensi succederà? Abbiamo visto anche Hamas scendere in piazza… “La situazione a Gaza è tragica, ho scritto decine di articoli e prodotto decine di video-racconti e documentari, ma è indescrivibile. Abbiamo perso più di 50.000 persone, tra cui una grande percentuale di bambini e donne. La distruzione è spaventosa: Gaza era un pezzo di paradiso prima della guerra, una Riviera molto più bella di quella che pensa di ricostruire Trump. Non c’è cibo né acqua, e anche in questo momento in cui parlo ho molta fame. Noi vogliamo solo che guerra finisca in modo da poter pensare al nostro futuro e ricostruire casa nostra. Gaza siamo noi, non esiste Gaza senza la sua gente. Ma siamo come l’araba fenice, rinasceremo dalle nostre ceneri”.