La crisi del sistema penitenziario in Italia: sovraffollamento, suicidi e soluzioni contestate di Eugenio Cardi* kulturjam.it, 4 aprile 2025 Il sovraffollamento carcerario in Italia è una vera e propria crisi umanitaria. Celle fatiscenti, condizioni disumane, perdita di dignità e diritti. Il sistema punisce senza riabilitare. Ignorarlo è abdicare ai principi di civiltà. La pena non deve mai negare l’umanità. Probabilmente nessuno di voi ha mai provato la terribile spiacevole sensazione claustrofobica di dover dormire al terzo livello di un letto a castello con il soffitto a 5 centimetri dal viso o su un materasso gettato in terra in uno stanzone malmesso e trascurato dove anziché sei persone ve ne sono dieci o dodici. Io l’ho visto, si può dire che lo abbia vissuto, da volontario delle carceri italiane (art. 17 Legge sull’ordinamento penitenziario), e devo dirvi che è qualcosa di assolutamente disumano, disagevole e lesivo della dignità umana. Non a caso siamo perennemente multati dalla UE per via del sovraffollamento delle carceri italiane, spesso, oltretutto, inserite in edifici del tutto superati, vecchi e fatiscenti e che andrebbero assolutamente chiusi, come Regina Coeli, Poggioreale o Ucciardone. Tali strutture sono esempi emblematici di un sistema penitenziario che porta ancora i segni di un’altra epoca, inadeguato non solo nelle dimensioni ma nella stessa concezione architettonica. Sono edifici che comunicano punizione piuttosto che riabilitazione, isolamento piuttosto che reintegrazione. Le continue sanzioni dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia non sono semplici richiami burocratici, ma il riconoscimento di un fallimento sistemico che ha conseguenze reali sulle vite umane. Quando parliamo di celle container come soluzione, dobbiamo chiederci: stiamo davvero affrontando il problema o semplicemente spostando corpi da uno spazio angusto a un altro? Il paradosso del sistema carcerario italiano si manifesta nella sua più evidente contraddizione: istituzioni che dovrebbero riabilitare e reintegrare finiscono per disumanizzare ulteriormente. Le condizioni alle quali ho accennato sopra non sono semplicemente scomode, sono psicologicamente devastanti. La privazione dello spazio personale, quella che gli psicologi chiamano “densità sociale eccessiva”, porta a livelli cronici di stress, aggravando problemi mentali preesistenti e creandone di nuovi. Nelle celle sovraffollate che ho avuto modo di osservare e di “frequentare” da volontario (dato che tenevo corsi di scrittura creativa esattamente in un braccio del carcere, proprio di fianco alle celle), si sviluppa una microfisica del potere dove anche i gesti più elementari - sdraiarsi, camminare, utilizzare i servizi igienici - diventano oggetto di negoziazione costante. Questa erosione dell’autonomia personale rende quasi impossibile mantenere un senso di identità e dignità. Va considerato anche l’impatto sul personale penitenziario, costretto a gestire situazioni esplosive con risorse inadeguate. Gli agenti di polizia penitenziaria diventano, loro malgrado, amministratori di una crisi permanente invece che facilitatori di un percorso riabilitativo. La mia esperienza come volontario solleva anche interrogativi sul nostro sguardo collettivo: quanto siamo disposti a vedere? Le carceri rappresentano l’angolo cieco della nostra democrazia, spazi dove i diritti costituzionali sembrano affievolirsi. La scarsa attenzione mediatica al tema, salvo in occasione di tragedie o rivolte, perpetua questa invisibilità. Forse dovremmo ricordare che il grado di civiltà di una società si misura osservando la condizione delle sue carceri, come sosteneva Dostoevskij. In questo senso, le strutture fatiscenti che ho menzionato non sono solo un problema logistico, ma uno specchio inquietante della nostra capacità di riconoscere (o per meglio dire, di non riconoscere) l’umanità in ogni persona, anche in chi ha sbagliato. Così come infatti ho avuto modo di dire nel mio intervento nell’ambito del Convegno “La scrittura in carcere, esperienze a confronto” (tenutosi presso la Casa Circondariale di Rebibbia - Nuovo complesso - il 27 febbraio 2007), ferma la giustezza della pena comminata al reo, e quindi la “certezza del diritto” insegnataci già tanti anni fa da Cesare Beccaria nel suo libretto “Dei delitti e delle pene”, la stessa pena deve sempre necessariamente salvaguardare la dignità del detenuto, non infliggendo allo stesso una pena suppletiva attraverso modalità di detenzione che nulla hanno a che vedere con norme di civiltà. Il sistema carcerario italiano (che conosco bene anche per essere stato membro della Consulta Permanente del Comune di Roma per le problematiche penitenziarie) sta attraversando una fase di emergenza strutturale che ha ormai assunto i contorni di una crisi umanitaria. I numeri parlano chiaro: gli istituti penitenziari della penisola ospitano attualmente 62.132 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 46.910 posti, con un tasso di occupazione che ha raggiunto il 132,4%. Una situazione che i Garanti regionali per i diritti dei detenuti definiscono ben oltre “i livelli di guardia”, richiedendo interventi immediati e risolutivi. Non dimentichiamo che dietro ogni statistica sul sovraffollamento ci sono esseri umani che, indipendentemente dalle loro colpe, mantengono il diritto fondamentale a condizioni di vita dignitose. È una verità scomoda che la società preferisce non vedere, ma che non possiamo più permetterci di ignorare. La geografia del sovraffollamento - La distribuzione del sovraffollamento non è omogenea sul territorio nazionale. Le regioni più colpite sono la Lombardia, la Puglia, il Veneto e il Molise. Particolarmente critica è la situazione nel carcere di San Vittore a Milano, che detiene il primato negativo con un tasso di occupazione del 214%, seguito dalla casa circondariale di Foggia e da quella di Brescia Canton Mombello. Anche il carcere romano di Regina Coeli presenta condizioni allarmanti, con un tasso di sovraffollamento del 185%. Le conseguenze umane della crisi - Le conseguenze di questa situazione non si misurano solo in percentuali e statistiche, ma si traducono in un tragico bilancio umano. Nei primi due mesi del 2025 sono già 54 i detenuti deceduti nelle carceri italiane, mentre nel 2024 il numero totale aveva raggiunto quota 248. Particolarmente allarmante è il dato sui suicidi: 13 solo nei primi due mesi dell’anno, per un totale di 361 negli ultimi cinque anni. Un’emergenza nell’emergenza che testimonia il livello di disperazione che pervade gli istituti penitenziari italiani. La soluzione controversa: celle container - Di fronte a questa situazione, il Ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio ha proposto una soluzione che ha immediatamente acceso il dibattito politico e sociale: l’installazione di celle container nei cortili di alcuni istituti penitenziari. Il progetto prevede la realizzazione di moduli prefabbricati in calcestruzzo, di dimensioni sei metri per cinque, ciascuno destinato ad ospitare fino a 24 detenuti suddivisi in sei celle da quattro posti. Il piano, affidato al commissario straordinario all’edilizia penitenziaria Marco Doglio, prevede l’installazione di 16 di questi moduli in nove carceri italiane, per un totale di 384 nuovi posti letto. L’investimento complessivo ammonta a 32 milioni di euro, con un costo medio per posto letto di circa 83.000 euro. La gara pubblica per la realizzazione del progetto è prevista per il 10 aprile. Ad ogni modo che il dibattito sulle celle container (soluzione da brividi, a mio modo di vedere) rischia di distrarci dalla questione fondamentale: l’eccessivo ricorso alla detenzione come risposta quasi automatica. Mentre altri Paesi europei esplorano alternative come la giustizia riparativa, pene alternative, o la depenalizzazione di reati minori, l’Italia continua a concepire il carcere come soluzione predefinita. Le critiche alla proposta governativa - La soluzione proposta dal governo ha suscitato forti critiche da più parti. Le opposizioni, i sindacati e le associazioni per i diritti umani hanno espresso preoccupazione per un intervento che, a loro avviso, non affronta le cause strutturali del problema ma si limita a tamponare l’emergenza con misure temporanee che rischiano di compromettere ulteriormente la dignità delle persone detenute. La posizione istituzionale e le alternative possibili - Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto sulla questione, definendo il sovraffollamento carcerario un “grave fenomeno” e riconoscendo le difficili condizioni in cui opera la Polizia penitenziaria. Tra le proposte alternative emerse nel dibattito pubblico, c’è anche quella di utilizzare l’intelligenza artificiale per gestire in modo più efficiente il sistema penitenziario e individuare percorsi alternativi alla detenzione, soprattutto per i reati minori. La crisi del sistema penitenziario italiano richiede interventi strutturali che vadano oltre le soluzioni temporanee. Il sovraffollamento non è solo un problema logistico, ma una questione che tocca i diritti fondamentali delle persone detenute e la capacità del sistema di assolvere alla sua funzione rieducativa, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Le celle container possono rappresentare una risposta emergenziale, ma il dibattito rimane aperto sulla necessità di ripensare complessivamente il sistema della giustizia penale, promuovendo misure alternative alla detenzione e investendo in strutture adeguate che rispettino la dignità umana. *Scrittore La “Porta della Speranza” e i giorni terribili delle carceri italiane di Antonio Lovascio ilmantellodellagiustizia.it, 4 aprile 2025 Statistiche tragiche, che parlano da sole: nel 2024 ben 91 suicidi e dall’inizio del 2025 altri venticinque. Sono anni terribili per le carceri italiane, dove ogni giorno per il sovraffollamento viene calpestata la dignità umana dei detenuti e sono rese inaccettabili le condizioni di lavoro del personale penitenziario. Con i richiami del Presidente Mattarella, che invoca il rispetto della Costituzione, la scossa più forte alle coscienze è venuta da Papa Francesco, che durante il suo pontificato ha visitato, portando parole di conforto, non meno di sedici istituti di pena dimostrando una sensibilità particolare che deriva da un’esperienza profonda, personale. C’è una frase stupenda che dice sempre. “Ogni volta che entro in un carcere mi domando perché loro e non io”. E poi c’è la sua visione del mondo, che è nel suo nome, Francesco. Non ci siamo certo stupiti quando, all’inizio del Giubileo, aprendo una Porta Santa a Rebibbia (eretta a “Basilica”) ha chiesto al governo di assumere iniziative che restituiscano speranza. In concreto - non è difficile individuarle - forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi. A Bergoglio si è unita la Cei, sottolineando che “è necessario mettersi in ascolto e dare dignità al grido degli ultimi: come Chiesa in Italia continuiamo a camminare con i fratelli che hanno sbagliato, con amore, perché questo ci fa riconoscere nell’altro la persona che è sempre degna della nostra compassione”. Sull’onda delle morti in cella che registra la cronaca, anche i singoli vescovi hanno rivolto appelli alle istituzioni, nelle situazioni più drammatiche delle loro Diocesi. In Toscana più volte è sceso in campo e fatto sentire la sua voce il neo arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli, che fino a pochi mesi fa è stato cappellano di Sollicciano (per i magistrati andrebbe chiuso e rifatto), quindi conosce bene la situazione carceraria fiorentina e del nostro Paese. L’emergenza principale riguarda sempre il sovraffollamento: al 28 febbraio scorso erano 62.165 i detenuti presenti in 190 istituti, circa 11mila in più rispetto alla capienza regolamentare e addirittura 15mila in esubero se si considerano i posti letto effettivamente disponibili. Ci sono celle di quattro persone dove vivono in 7 o 8, come accade, per esempio a Foggia. E anche il sistema minorile, un tempo fiore all’occhiello dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei, è andato in tilt: strutture senza più posti disponibili, dove i ragazzi dormono per terra, assumono psicofarmaci come fossero caramelle, protestano spesso con azioni violente. Nei 17 carceri, al 15 marzo scorso erano ospitati 611 minori e giovani adulti, i più affollati risultano il Cesare Beccaria di Milano e Nisida. “Di fronte a una popolazione detenuta composta prevalentemente da persone vulnerabili - afferma il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella - la risposta istituzionale è stata la chiusura generalizzata nelle celle. I detenuti sono così costretti a stare in luoghi malsani sino a venti ore al giorno”. Fin dall’inizio del suo insediamento (22 ottobre 2022) il governo ha detto di voler intervenire sul sovraffollamento aumentando le strutture detentive, cioè costruendo nuove carceri o convertendo spazi già esistenti per creare altri settemila posti nei prossimi tre anni e assumendo nuovo personale in un organico che attualmente conta 17 mila addetti. Lo ha ribadito la premier Meloni alla conferenza di “fine anno” 2024, tenuta il 9 gennaio del 2025: “Secondo me il modo serio di risolvere il problema non è l’amnistia o l’indulto, ma è un altro: ampliare la capienza delle carceri, e poi rendere più agevole, ad esempio, il passaggio dei detenuti tossicodipendenti nelle comunità”. È un’idea dispendiosa, che richiede molto tempo, come lo è quella di riutilizzare le caserme dismesse. Ecco perché le Associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e la stessa Cei insistono nel suggerire soluzioni che siano vere alternative alla detenzione in carcere, anche perché in questo modo si riduce il tasso di recidiva. D’altra parte l’obiettivo costituzionale della pena è la rieducazione della persona condannata per favorire il suo reinserimento in società. “Rieducare” è proprio il termine usato da Papa Francesco con l’invito “a spalancare le porte del cuore anche nelle situazioni più difficili”, nel lanciare a tutti i detenuti, in questo Giubileo, “l’ancora della speranza”. “La speranza non delude mai!”. Circolare Dap: “Celle chiuse per i detenuti nelle Sezioni di Alta Sicurezza” di Antonio Massari e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2025 La circolare Dap del 27 febbraio scorso agli istituti penitenziari. Regolarizzare la gestione dei detenuti nelle sezioni di Alta sicurezza, con celle chiuse se non durante la partecipazione a determinate attività. Il 27 febbraio scorso, con una nota, la direzione generale dei detenuti del Dap ha chiesto agli istituti penitenziari di seguire tutti la stessa regola per la gestione dei carcerati più pericolosi. In una parola “custodia chiusa”, celle sbarrate se non per svolgere una particolare attività e non per oltre otto ore. Si ripristina dunque la stretta per i detenuti nelle sezioni di Alta sicurezza. Non parliamo dei reclusi al 41-bis, ma di condannati ritenuti particolarmente pericolosi per aver commesso reati come ad esempio associazione mafiosa o terrorismo. Un inasprimento che ovviamente non è stato gradito dai detenuti. Il Dap nella sua nota chiede di ripristinare “l’assetto tradizionale del circuito dell’Alta sicurezza, secondo il modello organizzativo conforme alle circolari”. E cosa prevedono le circolari? Celle chiuse tranne (e non per oltre 8 ore al giorno) nei seguenti tre casi: “Fruizione della socialità esclusivamente in appositi locali comuni”, “permanenza all’aria aperta”, “partecipazione ad attività trattamentali”, ossia la frequentazione di corsi scolastici o professionali. Il punto, si legge sempre nella nota, è che alcune carceri hanno adottato finora “modalità organizzative disallineate rispetto alle circolari”. In altre parole: ognuno organizza la permanenza nelle celle un po’ come crede, col rischio che i carcerati continuino a mantenere contatti con la criminalità all’esterno. “Quest’ufficio, in più occasioni, - è scritto nella nota del 27 febbraio scorso - ha invitato le direzioni penitenziarie ad adeguarsi, con solerzia, alle circolari in vigore, evitando di adottare modelli organizzativi impropri di ‘apertura’ delle camere detentive, in quanto ontologicamente inconciliabili con i principi che fondano il circuito di Alta Sicurezza. Ciò nonostante, si registrano solo adempimenti formali, ai quali, tuttavia, in taluni casi, non ha fatto seguito una sostanziale applicazione delle circolari vigenti. Tale situazione appare francamente singolare”. Da qui la stretta. Che il sottosegretario alla Giustizia, con delega al Dap, Andrea Delmastro Delle Vedove, rivendica al Fatto con queste parole: “Abbiamo raccolto un’eredità pazzesca sull’Alta sicurezza, come denunciato dagli stessi procuratori Ardita, Gratteri e Melillo. Abbiamo posto rimedio alla fragilità del suo sistema perché i mafiosi non possano mai più considerare il carcere come un incidente di percorso, pensando di poter continuare a comunicare con l’es terno. La lotta alla mafia è una nostra priorità e non faremo sconti: ripristineremo ogni prassi volta a impedire che possano ancora nuocere alla società”. Circolare Dap. “Vi accanite: adesso organizziamo una rivolta”. “Scoppierà la guerra” di Antonio Massari e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2025 Una rivolta dei carcerati per rispondere alla nuova Circolare del Dap che ha ripristinato la chiusura delle celle dei detenuti in regime di Alta sicurezza. S.D.L., palermitano, all’indomani della stretta, dal padiglione “blu” del carcere di Sulmona, lancia l’avvertimento. O almeno questo scrive un agente della Polizia penitenziaria che, in una relazione “riservata” inviata agli uffici del Dap, riporta le reazioni di alcuni detenuti. Dal resoconto dell’agente emerge che S.D.L. gli dice: “Appuntato, perché vi state accanendo con questa chiusura delle carceri? Così facendo voi fate scoppiare le rivolte in tutte le carceri. Lo sapete che negli istituti ci sono i telefonini e se vogliamo ci mettiamo d’accordo in un attimo e in contemporanea facciamo in modo che in tutte le carceri d’Italia scoppiano le rivolte contemporaneamente”. L’agente stava controllando che le celle fossero chiuse “e non accostate, come spesso si verifica” quando S.D.L., prima di tornare a giocare a carte con il compagno di cella, commenta: “Lo Stato, se continua così, vuole fare scoppiare le rivolte”. E questo, a detta dello stesso agente, non sarebbe un caso isolato. Al suo comandante di Reparto l’agente deposita un’altra relazione di servizio. Classificata come “riservata urgente”, ha come oggetto “Gravi esternazioni proferite da alcuni detenuti” e porta la data del 29 marzo scorso. In questo caso si fa riferimento a un attacco ad Andrea Delmastro Delle Vedove. È lo stesso sottosegretario alla giustizia che, alla presentazione di una nuova auto per il trasporto di detenuti al regime di alta sicurezza, finì nelle polemiche per aver utilizzato l’infelice espressione: “Non lasciamo respirare chi è dietro quel vetro”. Polemiche che lo hanno travolto di nuovo, di recente, stavolta per gli attriti con il Quirinale sulla nomina del futuro capo del Dap, poltrona da tre mesi vacante. A parlare di Delmastro, secondo la relazione di servizio, è D.P., classe 1990, napoletano “appartenente alla Camorra - clan Ascione-Papale” condannato per associazione mafiosa con fine pena nel 2027. Anche stavolta l’agente stava controllando che le celle fossero chiuse quando, passando davanti al reparto denominato “Oro”, D.P. gli dice: “Appuntato questo governo di destra si sta accanendo con la chiusura dei detenuti, e in particolare questo Delmastro, pezzo di m***a bastardo, deve venire lui qua, deve saltare in aria, io vi schifo a voi e a tutte le divise”. Il giorno prima, il 28 marzo scorso, l’agente dice di aver sentito qualcosa di simile, ma in un altro padiglione e da altri carcerati. Si trovava nella sezione 1A del padiglione “blu”, verso le 15.30, quando, davanti alla stanza numero 20 sentiva C.P. - “appartenente alla camorra” e in carcere per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio - esclamare: “Appuntato vi piace proprio chiuderci, da quando ci sta questo c***o di governo di destra, ci state opprimendo”. Addirittura, a detta dell’agente, C.P. si lascia andare a valutazioni sulla politica internazionale con comparazioni tra gli ultimi governi italiani: “Giorgia Meloni si è fatta la grande fino a poco fa e adesso l***a le p***e a Trump. Fino a quando c’era il governo di sinistra eravamo tutti aperti e facevamo quello che volevamo. E poi secondo lei appuntato questa estate come faremo a stare chiusi, con il caldo? Sicuramente scoppierà una guerra”. Il compagno di cella, G.M. gli fa eco: “Il sistema penitenziario è fallito da anni e adesso avete intenzione di ripristinarlo? Non ce la farete mai, le carceri sono troppo vecchie e non a norma”. Carceri, meglio subito i prefabbricati che aspettare anni per nuovi istituti di Domenico Alessandro De Rossi Il Riformista, 4 aprile 2025 Ben venga un intervento immediato, seppur temporaneo, contro l’emergenza. In molti si professano esperti per risolvere il problema del sovraffollamento. Dopo tanto sonno, anche coloro che si interessano di esecuzione penale hanno scoperto che le carceri con il governo Meloni scoppiano. Che in Italia il mondo penitenziario sia al collasso è cosa acquisita purtroppo da molto tempo. Già nel 2013 la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si era accorta del fallimento politico, amministrativo e tecnico, sanzionando l’Italia con la famosa sentenza Torreggiani. Ma nulla in questo lunghissimo periodo è stato compiuto per fare di meglio, corrispondendo alle precise indicazioni richieste dalla Corte. A parte i convegni con le relative passerelle dei vari maître à penser, i tavoli tecnici e gli autonominati esperti in materia di architettura penitenziaria, nulla è stato fatto per risanare il sistema. Oggi quegli stessi che in questi anni hanno taciuto o hanno proposto progetti sballati quanto costosissimi, d’un tratto si sono ripresi dal lungo letargo. Oggi si sono accorti che il governo, per il tramite del commissario Doglio, ha individuato rapide soluzioni per contrastare l’emergenza immediata dell’affollamento carcerario attraverso un bando per la costruzione di 384 moduli prefabbricati per disporre al più presto di nuovi posti da distribuire in vari istituti. A fare compagnia all’angosciato coro dei senatori Pd della Commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli e Walter Verini, la scelta della fornitura di prefabbricati ha scatenato anche la voce sdegnata di tecnici che hanno criticato alla radice l’intervento governativo, bollandolo come gabbie adatte nemmeno per un canile. È probabile che la presa d’atto dell’esclusione dai tavoli e dalle commissioni prestigiose, non avendo consultato costoro per il programma straordinario affidato al commissario, abbia risvegliato dal sonno l’opposizione che subito è scesa in campo contestando le soluzioni prescelte. Tra i critici più attivi, che si propongono come esperti del problema, emergono coloro che vorrebbero redigere oggi progetti per avere a disposizione nuovi istituti forse tra 10 o 15 anni. C’è da dire che in linea di principio tali osservazioni e critiche, seppur note ormai a tutti, nei tempi attuali di emergenza nelle carceri suonano più come una beffa che come una proposta seria. A fronte di questi giudizi di parte, che lasciano il sospetto di forti interessi non solo umanitari ma professionali, vengono in mente quelle situazioni in cui, a seguito di un evento emergenziale con delle vittime e persone senza tetto, si invocano immediate soluzioni che prevedano alloggi e servizi più confortevoli, criticando i prefabbricati e i vari elementi di primo soccorso. Questa miope lettura della criticità della situazione, oltre a denunciare la debole memoria di chi per anni ha partecipato senza nulla compiere di buono in merito ai problemi dell’edilizia penitenziaria, si compie di fatto in nome della retorica architettonica e dell’accademia, denotando una ben scarsa partecipazione nei confronti della realtà umanitaria che in questi tempi è costretta in carceri super affollate. Sotto la pressione dell’urgenza, con la scelta compiuta dal governo mediante la fornitura di elementi prefabbricati, anche se per un numero ancora insufficiente, per quanto affermato dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro Delle Vedove si è finalmente proceduto a un iniziale aumento del numero dei posti nelle carceri. In parallelo dovranno ovviamente seguire anche tipologie di intervento di media e lunga gittata per attuare una strategia destinata a un sistemico piano carceri. Con l’inserimento lavorativo e la formazione crolla la recidiva di Maurizio Carucci Avvenire, 4 aprile 2025 Sei condannati su dieci sono già stati in carcere almeno una volta. La media dei reati ascritti a ogni uomo detenuto è pari a 2,4 contro l’1,9 di ogni donna detenuta. Si stima che il dato della recidiva possa calare fino al 2% per i detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. Questi i dati evidenziati dal Cnel-Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nell’ambito del programma Recidiva Zero, un articolato piano di intervento sviluppato nel corso dell’anno in collaborazione con il ministero della Giustizia e volto a favorire studio, formazione e lavoro in carcere. Si registra un “trend positivo” di persone detenute occupate negli ultimi due anni (2022-2024), sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che di ditte esterne. A dirlo l’avvocata Irma Conti, componente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Nel confronto tra il mese di giugno del 2024 e lo stesso mese del 2022, risulta un aumento complessivo dell’11,3% delle persone detenute che lavorano, che passano da 17.957 a 20.240 (+ 2.283). Nello specifico c’è un aumento del 7,4% delle persone detenute che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (da 15.827 a 17.096, + 1.269 persone), e del +32,2% di quelle occupate in ditte esterne (da 2.130 a 3.144, + 1.014 persone). Conti ha poi ricordato come i corsi di istruzione e formazione professionale attivati siano passati da 148 del giugno 2022 a 310 del giugno dello scorso anno, con gli iscritti saliti da 1.545 a 3.716, con un aumento del 140%. Su una platea di oltre 60mila detenuti presenti negli istituti penitenziari, uno su tre è coinvolto in attività lavorative, ma tra questi non più dell’1% è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85%, lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, spesso per brevi periodi. Circa il 34% dei detenuti frequenta corsi di istruzione e il 6% percorsi di formazione professionale. Il numero complessivo dei detenuti iscritti all’Università non raggiunge il 3%. Il 32% degli istituti penitenziari dispone di aule didattiche utilizzate per corsi di istruzione di I e II grado e per l’istruzione terziaria, di cui oltre la metà cablato. Il 65% dispone solo di aule per istruzione primaria e secondaria, mentre il 3,5% non dispone affatto di aule. Circa uno su quattro degli istituti dispone di spazi non utilizzati, sebbene siano cablati e possano essere impiegati per percorsi formativi. La mancata offerta di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul Pil-Prodotto interno lordo fino a 480 milioni di euro. L’86% degli istituti penitenziari hanno locali all’interno adibiti ad attività di tipo lavorativo e formativo, ma quattro su dieci sono inattivi. “Su 100 detenuti che seguono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo in carcere nelle cooperative sociali torna a delinquere meno del 10%, un abbattimento della recidiva importante rispetto a chi è sottoposto a trattamenti standard. E di margine per far crescere l’impegno della cooperazione sociale in quest’ambito, ce n’è”. Lo dice Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà. “Un detenuto su tre, tra quelli occupati nel privato, è assunto da una cooperativa sociale associata a Confcooperative Federsolidarietà. E sono oltre 1.500 i detenuti ed ex detenuti impegnati in percorsi di formazione, tirocini e borse lavoro. Mentre sono 3mila gli ex detenuti che, intrapreso il percorso di lavoro in una cooperativa sociale, vi restano anche al termine della pena. Come è emerso anche dalla proposta del Cnel - continua Granata - è importante far diventare la pubblica amministrazione un committente stabile delle prestazioni erogate attraverso un piano di acquisti sociali della pubblica amministrazione così da rendere più efficaci i servizi e la connessione con il territorio”. L’impegno della cooperazione sociale si rinnova per rendere tangibili sia la finalità rieducativa della pena, sia la funzione sociale della cooperazione, come indicato dall’articolo 45 della Costituzione. Considerando che un detenuto costa oltre 150 euro al giorno al nostro Paese, investire in questi strumenti per il reinserimento socio lavorativo, premia. I lavori al Cnel rappresentano un’occasione per mettere in luce le esperienze e il contributo che le cooperative sociali danno alle politiche di inclusione e di inserimento lavorativo dei detenuti all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari come richiesto dall’articolo 27 della Costituzione con “le pene che devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una riabilitazione sociale che punta molto sulla formazione e il lavoro. Sono circa 110 le cooperative sociali aderenti a Confcooperative che assumono regolarmente (con retribuzioni previste dal Ccnl delle cooperative sociali siglato con Cgil, Cisl e Uil) persone svantaggiate nell’ambito della giustizia, sia in lavorazioni intramurarie che all’esterno delle carceri, per un totale di circa 1.107 persone tra detenuti, ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno. Oltre 4mila persone usufruiscono dei servizi residenziali per detenuti ed ex-detenuti, in particolare con problemi psichiatrici e di dipendenze, e di altri servizi di reinserimento socio lavorativo una volta finita la detenzione. La cooperazione sociale rappresenta un importante fattore di congiunzione tra il carcere ed il mondo esterno. Il disegno di legge del Cnel Nel maggio del 2024 l’assemblea del Cnel ha approvato all’unanimità il primo disegno di legge della XI Consiliatura, recante “Disposizioni per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà personale emanate dall’autorità giudiziaria”, poi trasmesso formalmente alle Camere. È stato così dato seguito al lavoro istruttorio svolto a decorrere dalla data di sottoscrizione dell’Accordo interistituzionale con il ministero della Giustizia del giugno 2023. L’obiettivo di fondo è gettare un ponte tra il carcere e la società, portando il lavoro e l’istruzione al centro di un grande progetto di inclusione sociale, che veda protagonisti le imprese, i sindacati, il volontariato, il sistema scolastico e universitario e gli enti locali, secondo una logica win-win-win. Presso il Cnel è stato anche insediato un Segretariato per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale, al fine di promuovere la cooperazione interistituzionale e concorrere, in stretto raccordo con il Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e attraverso il coinvolgimento sistematico delle parti sociali, delle forze economiche e delle organizzazioni del terzo settore, alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio-lavorativo e l’inclusione delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale. Il ddl è volto a migliorare l’attuale sistema di governance in materia, favorire le migliori progettualità esistenti e al tempo stesso attivare progetti nei territori meno attrezzati. Attraverso una rivisitazione complessiva dell’attuale quadro normativo e regolamentare, il Cnel vuole concorrere alla strutturazione di una rete interistituzionale integrata in grado di: gestire il problema dell’inclusione lavorativa nella sua globalità sia in carcere che nella fase post-rilascio; attrarre stabilmente risorse esterne in termini economici e di competenze; implementare interventi ad alto impatto su scala nazionale che coinvolgano un numero significativo di detenuti. Il ddl innanzitutto equipara lavoratori liberi e lavoratori ristretti, prevedendo l’applicazione del contratto collettivo nazionale e la parità di trattamento economico e normativo complessivo. Tra gli altri punti rilevanti del ddl, la valorizzazione del ruolo delle Commissioni regionali per il lavoro penitenziario, il miglioramento delle misure previste dalla Legge Smuraglia e l’istituzione del collocamento mirato per i giovani che escono dagli Istituti penali per minorenni, dopo un percorso certificato di formazione. Inoltre si è svolta al Cnel la giornata di lavoro Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere, ulteriore tappa del programma ideato d’intesa con il ministero della Giustizia e volto all’inclusione socio-lavorativa dei detenuti, avviato lo scorso anno ed elemento centrale della XI Consiliatura. È stato un importante momento di confronto, a porte chiuse, che ha coinvolto circa 150 rappresentanti delle istituzioni, del sistema penitenziario, di associazioni datoriali ed enti del Terzo settore. Un incontro tecnico-operativo in vista di un evento pubblico che si terrà nel mese di giugno. Intanto il progetto di ampliamento della piattaforma Siisl va verso un sistema sempre più esteso, attraverso il coinvolgimento di nuovi target, come appunto i detenuti. Questa idea progettuale (denominata Esperienze lavorative negli istituti penitenziari) potrà essere realizzata con il coinvolgimento di enti, istituzioni, cooperative, professionisti, soggetti pubblici e privati, integrando in ottica sinergica l’attività e il ruolo di ciascuno e valorizzando le migliori esperienze già condotte presso gli istituti penitenziari. Attualmente in Italia si contano circa 60 mila detenuti, 90 mila condannati con esecuzione esterna della pena e 80 mila persone in attesa di esecuzione della pena. Per ciascuno di loro è necessario un percorso personalizzato. Siisl può già da ora garantire per questa platea l’utilizzo immediato delle potenzialità della piattaforma. Seguirà lo sviluppo di funzionalità dedicate, per favorire ulteriormente il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, anche attraverso il programma Gol-Garanzia di occupabilità dei lavoratori. Siisl è una piattaforma digitale istituita dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e gestita dall’Inps, con l’obiettivo di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Nato nel settembre 2023 per supportare l’attuazione delle misure che hanno sostituito il reddito di cittadinanza, il Sistema è stato poi allargato alle persone che hanno perso il lavoro e, dallo scorso dicembre, a tutti i cittadini. La piattaforma facilita l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, fornendo percorsi di formazione e supporto all’inserimento lavorativo. È anche prevista l’implementazione di strumenti basati sull’Intelligenza Artificiale, per la compilazione del curriculum e l’autovalutazione delle proprie competenze. Il Siisl è complementare a Gol, un ampio programma di politiche attive, orientamento e formazione per lavoratori con difficoltà occupazionali, gestito dalle Regioni e coordinato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Un programma che è parte integrante del Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilenza. Le buone pratiche Nelle cooperative sociali di tipo B aderenti a Confcooperative Federsolidarietà sono più di 3mila gli occupati nell’agricoltura sociale, di cui almeno 350 sono i detenuti ed ex detenuti. Un legame forte, quello tra agricoltura, inclusione e percorsi di riabilitazione sociale. “Nell’ambito agricolo, in particolare, si segnalano investimenti in crescita nella cooperazione sociale: nel florovivaismo e nell’agricoltura biodinamica e biologica. E sono molte quelle impegnate nel lavoro con detenuti ed ex detenuti, con risultati importanti. E c’è ancora molto margine per far crescere l’impegno della cooperazione sociale in questo ambito, forte anche del lavoro che si sta portando avanti nel settore agricolo”, sottolinea Granata. Ecco altre buone pratiche da segnalare: A&I (Milano) Dal 1992 realizza progetti in ambito psicologico e socio-educativo, con particolare attenzione all’area del disagio e della marginalità. Agenzia per il lavoro, realizza anche corsi di formazione per detenuti, beneficiari di misure alternative e operatori delle Forze dell’Ordine. Tra le iniziative: il Servizio Puntoacapo; il progetto E.T. - Evoluzioni Territoriali; Libera Scuola di Cucina. Alternativa Ambiente Carbonera (Treviso) È una cooperativa sociale di tipo plurimo che oggi coinvolge oltre 400 soci e collaboratori impegnati in servizi molto diversificati nelle province di Treviso e Belluno. Offre percorsi abilitativi-occupazionali e ospita, nei tre centri in cui gestisce i servizi sociosanitari, persone in condizione di marginalità sociale. Da oltre 20 anni coordina il polo occupazionale interno al carcere di Treviso nel quale promuove attività formative e produttive. Accoglie detenuti in misura alternativa alla detenzione impiegandoli in agricoltura e nei laboratori della sede di Vascon di Carbonera. L’Arcolaio (Siracusa) Nata nel 2003 avviando un panificio nel carcere di Siracusa. Vent’anni e numerosi progetti dopo, i prodotti dolci e salati con il marchio “Dolci Evasioni” raggiungono tutta Europa e le loro oasi didattica accoglie visitatori da tutto il mondo. Con il progetto di agricoltura sociale Frutti degli Iblei coltivano, nel cuore dei Monti Iblei, raccolgono e trasformano erbe aromatiche mediterranee e ortaggi di Sicilia coinvolgendo giovani migranti, ex detenuti e altre persone in difficoltà. e-Team (Roma) Nasce nel 1999 all’interno del carcere di Rebibbia - Nuovo Complesso. Nell’avvio con la creazione di un Laboratorio Informatico Multimediale per realizzare una piccola lavorazione d’intesa con il Ministero di Giustizia e con Telecom Italia. In questi 25 anni ha gestito tante lavorazioni differenti spaziando in settori diversificati e accompagnando nel mondo del lavoro, fuori e dentro il carcere, centinaia di uomini e donne. Attualmente la Cooperativa conta 27 Soci lavoratori tutti, rigorosamente, detenute e detenuti, persone in misura ed ex-detenuti. Giotto (Padova) Nata nel 1986, la cooperativa inizia il suo lavoro nel carcere Due Palazzi di Padova nel 1991 con un corso di giardinaggio. Nel 2005 avvia un laboratorio di pasticceria per lavorare con i detenuti: fino a oggi più di 200 sono stati guidati in un percorso formativo e professionalizzante nell’arte pasticceria e non solo. Ormai celebri e pluripremiati i panettoni artigianali sfornato all’interno del laboratorio nel carcere di Padova da una squadra di pasticceri detenuti guidati da maestri professionisti. Glievitati (Cuneo) Nata nell’aprile 2023, opera nell’ambito dell’economia carceraria impiegando detenuti della Casa Circondariale di Cuneo e della Casa di Reclusione di Fossano nella realizzazione di prodotti da forno artigianali di alta qualità con l’obiettivo di venderli ad aziende dei settori Ho.Re.Ca. e Food Service. Gusto Libero (Roma) Dall’idea del Cappellano del carcere minorile di Roma “Casal del Marmo”, la cooperativa ha avviato, con un progetto nato nel 2015, un pastificio che conta di tenere occupati circa 20 ragazzi per un totale di 2 tonnellate di pasta prodotta al giorno. In cantiere un percorso formativo con gli studenti delle scuole romane. Lazzarelle (Napoli) Fondata nel 2010, è un’impresa femminile che ha impiegato oltre 70 donne del carcere femminile di Pozzuoli. Con il progetto Caffè delle Lazzarelle unisce donne detenute e piccoli coltivatori di caffè del sud del mondo, con chicchi dalla cooperativa Shadhilly che sostiene progetti per piccoli produttori. Dopo la produzione di caffè artigianale (50.000 confezioni di caffè all’anno), sono passate al tè e alle tisane e ad altre attività quali la preparazione di fooding box (cena a domicilio) e catering. Polo 9 (Ancona) Dal 2018 assistono e supportano le persone, in particolare quelle più fragili a rischio di emarginazione sociale. Con Campo Libero, progetto di agricoltura sociale, sostengono percorsi di integrazione socio formativa e lavorativa in favore di detenuti ed ex detenuti. Casa Paci, centro di ospitalità educativo e relazionale per detenuti ed ex detenuti, offre un appoggio a chi, uscito dal carcere, non ha una rete sociale di supporto. Cinque milioni di euro da Fondo per la Repubblica Digitale e Dap Sostenere progetti per il reinserimento sociale delle persone detenute attraverso la formazione digitale, per contrastare il fenomeno della recidiva. Questo l’obiettivo di Fuoriclasse, il bando promosso e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale, in collaborazione con il Cnel e il ministero della Giustizia - Dap. Il bando prevede un totale di cinque milioni di euro. Secondo le evidenze emerse nell’ambito dell’iniziativa Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema in carcere e fuori dal carcere, solo il 6% del totale dei detenuti risulta coinvolto in percorsi di formazione professionale. Tuttavia, in termini di corsi offerti, tra il 2021 e il 2023, è aumentato sia il numero di detenuti iscritti che i corsi attivati, le cui tipologie più frequentate includono settori quali cucina e ristorazione, giardinaggio e agricoltura, edilizia. Infatti, dal report della Fondazione Censis emerge che il digitale è oggetto di meno del 5% dei corsi di formazione professionale offerti in carcere. Per Martina Lascialfari, direttrice generale del Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale, “con Fuoriclasse, il Fondo prosegue nel suo impegno a sostenere iniziative su scala nazionale mirate a favorire l’inclusione digitale e il riscatto sociale delle fasce di popolazione più vulnerabili. Grazie alla collaborazione con il Cnel e il Dap, ci dedicheremo a potenziare le competenze digitali delle persone detenute, facilitando il loro reinserimento sociale e lavorativo: perseguire questo obiettivo deve essere al centro delle policy di uno Stato di diritto. Invitiamo quindi enti pubblici e soggetti privati non profit a presentare proposte progettuali per promuovere azioni formative e di orientamento digitale sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari”. Per Renato Brunetta, presidente del Cnel, “la formazione digitale è un elemento chiave nei processi di inclusione socio-lavorativa dei detenuti. Non solo in quanto ambito particolarmente ricco di opportunità occupazionali, ma anche perché può fungere da volano per una maggiore informatizzazione degli istituti penitenziari, contribuendo in modo rilevante a gettare un ponte tra carcere e società civile. Sono temi su cui il Cnel ha posto una grande attenzione, avviando d’intesa con il ministero della Giustizia e il Dap un programma specifico di attività. In questo contesto si inserisce anche la proficua collaborazione con Acri, coinvolta nel Fondo Repubblica Digitale in un ottimo esempio di partnership tra pubblico e privato”. Per Giovanni Russo, capo del Dap “i beneficiari diretti delle attività progettuali saranno detenuti con pena definitiva residua non superiore ai tre anni, in carico agli istituti penitenziari o agli uffici di esecuzione penale esterna. Con il Fondo abbiamo la possibilità di individuare buone pratiche utili all’orientamento delle politiche pubbliche”. Il bando Fuoriclasse intende sostenere progetti in grado di realizzare efficaci azioni formative in ambito digitale e di valorizzare le potenzialità, attitudini e ambizioni delle persone detenute tramite una presa in carico personalizzata e la costruzione di percorsi integrati che ne facilitino il reinserimento sociale e lavorativo, con il fine ultimo di contrastare il fenomeno della recidiva. I beneficiari diretti delle attività progettuali dovranno essere detenuti con pena definitiva residua non superiore ai tre anni intra o extra moenia, in carico ad istituti di pena o uffici di esecuzione penale esterna. Le proposte potranno essere presentate da partenariati formati da un minimo di due a un massimo di cinque soggetti. Il soggetto responsabile dovrà essere un soggetto privato senza scopo di lucro. I partner potranno essere enti pubblici o privati senza scopo di lucro. Inoltre, ciascun progetto dovrà prevedere la partecipazione di almeno una struttura penitenziaria. Oltre a tali tipologie di enti, potranno essere coinvolti in qualità di partner - nelle sole attività di formazione digitale e di accompagnamento nel percorso di inserimento lavorativo - anche soggetti for profit che potranno gestire una quota di budget complessivamente non superiore al 30% del contributo richiesto. Ogni progetto può essere sostenuto con un minimo di 150 mila e un massimo di 500 mila euro. Il supporto di Intesa Sanpaolo Il 2024 ha visto Intesa Sanpaolo impegnata in diversi progetti per il mondo del carcere. Condizioni di vita dignitose per le persone detenute e il reinserimento a fine pena sono cruciali per ridurre la recidiva e promuovere una società più coesa e sicura. Il 70% di loro invece cadrà nuovamente in errore: una sconfitta per la persona, che non riesce a costruirsi una nuova vita, e per la società, che ha reso vano il periodo di reclusione. Nell’ambito del programma di contrasto alle disuguaglianze voluto da Carlo Messina, che destina al sociale 1,5 miliardi di euro entro il 2027, inserito nel Piano di Impresa di Intesa Sanpaolo fin dal 2018, il sostegno al mondo del carcere è un’attività trasversale che impegna diverse strutture della Banca. Alcuni dei progetti del 2024: • Il Programma di Intesa Sanpaolo Aiutare chi Aiuta: un sostegno alle nuove fragilità nasce nel 2020 e si sviluppa con la Caritas Italia la quale, con la sua rete capillare, consente di raggiungere anche le comunità più periferiche. Nel 2024, il programma si è concentrato sul sostegno di giovani e adulti del circuito carcerario e sulle loro famiglie distribuendo beni primari e no, organizzando l’accoglienza esterna in fase di reinserimento, la formazione sia all’interno che all’esterno del carcere e il sostegno allo studio, progetti di occupabilità e di animazione su tutto il territorio nazionale. • Intesa Sanpaolo sostiene inoltre il progetto della Fondazione Don Rigoldi per l’avvio di una scuola di formazione edile interna per i detenuti di Milano Opera, sostenendoli poi nello svolgimento di un lavoro esterno. Sempre in questo Istituto, come in quello di Padova ‘ Due Palazzi’ la Banca sostiene percorsi di orientamento lavorativo e sulle competenze trasversali (PCTO). • Presso l’istituto penitenziario di Como, Intesa Sanpaolo si è resa capofila di un programma di lavoro e formazione che consente a undici detenuti di specializzarsi nella realizzazione di quadri elettrici complessi, con rilascio di un attestato di partecipazione al corso per tecnico cablatore elettricista. Un progetto della Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, guidata da Stefano Barrese, ispirato da Don Gino Rigoldi, storico cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore di Comunità Nuova, e realizzato con il Provveditorato regionale presso la Casa Circondariale di Como. • L’arte come aiuto, anche per ridurre i conflitti interni al carcere. Il progetto Rebibbia Festival Digital Arts è la prosecuzione, con apertura internazionale, del progetto Rebibbia on-line, entrambi sostenuti dal Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo. Il primo coniuga espressività artistica e tecnologia colmando l’analfabetismo digitale delle persone detenute con laboratori teatrali e di arti grafiche. Rebibbia on-line è nato in pieno lockdown quando la fibra ottica ha modificato le sorti del carcere ristabilendo con le video call in banda ultralarga i contatti interrotti fra i detenuti e i loro familiari. • Il carcere di Bollate (Milano) spicca per il modo di concepire e organizzare la detenzione in modo innovativo puntando sul pieno reintegro come cittadini anche attraverso il coinvolgimento di aziende del territorio. Il Fondo di beneficenza di Intesa Sanpaolo, in capo alla Presidenza della Banca, sostiene in questo istituto un progetto che favorisce il reinserimento sociale e lavorativo di detenuti ed ex detenuti accompagnandoli verso la ricostruzione dei legami familiari e comunitari e verso l’autonomia economica attraverso esperienze professionali dentro e fuori dal carcere coinvolgendo anche i territori di appartenenza. • Per la prima volta quest’anno la Santa Sede è stata presente alla Biennale di Venezia con un proprio Padiglione. Un Padiglione peculiare che ha sede nel carcere femminile della Giudecca dove la mostra “Con i miei occhi” ha coinvolto le persone detenute per lavorare con otto artisti affermati chiamati da tutto il mondo alla creatività, alla realizzazione delle opere, agli aspetti organizzativi. Papa Francesco ha visitato la mostra il 28 aprile scorso, la prima di un pontefice alla Biennale. Intesa Sanpaolo ha sostenuto l’iniziativa nell’ambito di un accordo triennale siglato con il Cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano. Anche le prossime i Padiglioni della Santa Sede alle prossime due edizioni della Biennale, Architettura nel 2025 e Arte nel 2026, saranno quindi sostenuti dalla Banca in questo programma ad alto valore umano che coniuga arte e sociale, diritto e fede; che chiede e offre comprensione; che sfida pregiudizi e voyeurismo. • Il 12 febbraio al Teatro alla Scala di Milano, grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo, si è tenuto un concerto davvero speciale, con il debutto dell’Orchestra del Mare, in cui i musicisti hanno utilizzato violini, viole e violoncelli costruiti nelle liuterie di alcune carceri italiane utilizzando il legno di 60 imbarcazioni con cui i migranti hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Il ricavato della serata ha sostenuto il progetto Metamorfosi, realizzato in collaborazione con Intesa Sanpaolo, che ha consentito la creazione dell’Orchestra del Mare, aiutando a finanziare i laboratori delle carceri dove sono stati realizzati gli strumenti musicali. • Inoltre, attraverso la Direzione Impact, all’interno della Divisione Banca dei Territori, Intesa Sanpaolo provvede a supportare l’economia carceraria e le sue imprese sociali con misure di credito agevolato. Un’aula multimediale al carcere di Bollate (Milano) Un’aula multimediale da cui accedere in tempo reale ai materiali del corso e, laddove disponibili, alle video-lezioni ma anche gestire autonomamente la propria carriera universitaria. È questo il nuovo passo avanti per gli studenti iscritti ai poli universitari penitenziari di Milano-Bicocca, Bocconi e Statale di Milano e detenuti presso la Casa di reclusione di Bollate, che potranno accedere alla piattaforma in tutta sicurezza. Grazie a un collegamento filtrato, usufruiranno infatti dei servizi didattici erogati attraverso le piattaforme online dall’ateneo, tra i quali, ove previsti, quelli di e-learning, e accederanno autonomamente a taluni servizi di segreteria, come ogni altro studente (anche se con le limitazioni del caso). Avranno altresì accesso alla piattaforma dei servizi bibliotecari, potendo quindi consultare in autonomia le fonti bibliografiche disponibili. L’Università di Milano-Bicocca si è fatta promotrice di questa iniziativa ed è capofila del progetto che ha coinvolto anche l’Università Bocconi e l’Università degli Studi di Milano, svolgendo tutti i test di sicurezza necessari: ora anche dal carcere si possono vedere i dettagli dei corsi universitari, compresi gli obiettivi formativi, eventuali video-lezioni, slide e materiale integrativo richiesto per gli esami, ma anche gli esiti delle prove e tutte le informazioni relative al percorso universitario. L’iniziativa è stata realizzata grazie al contributo della Universo Cooperativa Sociale, che ha fornito i computer e provveduto a collegarli a una rete filtrata da firewall. La cooperativa gestirà il servizio e si farà carico del filtraggio dei contenuti. Il progetto è stato presentato il 3 dicembre alla presenza del direttore della Casa di reclusione di Bollate Giorgio Leggieri, nonché del responsabile dell’area educativa Roberto Bezzi e di Lorenzo Lento, presidente della Universo Cooperativa Sociale. Erano presenti anche i rappresentati dei tre Atenei milanesi attivi con i loro Poli universitari penitenziari all’interno dell’istituto carcerario ovvero il professor Stefano Simonetta, prorettore ai servizi agli studenti e diritto allo studio dell’Università Statale di Milano, il professor Carlo Salvato, prorettore vicario dell’Università Bocconi, e la professoressa Maria Elena Magrin, delegata della rettrice per le attività del Polo universitario penitenziario di Milano-Bicocca. “Si tratta di un progresso dal punto di vista operativo, ma anche psicologico - sottolinea Magrin -. Lo studente detenuto potrà avere infatti una certa padronanza nella gestione della propria posizione e non avrà più bisogno di qualcuno che gli faccia da filtro con l’istituzione universitaria”. Il Polo universitario penitenziario di Milano-Bicocca fa parte di una rete nazionale di 44 Università e un centinaio di istituti di pena: attualmente gli studenti detenuti iscritti al Polo penitenziario dell’Ateneo di Bicocca sono 90 (53 nella Casa di reclusione di Bollate), divisi tra 27 corsi di laurea che afferiscono a 13 dipartimenti”. “Occuparsi delle comunità vulnerabili, come quella dei detenuti - dichiara Salvato - è un impegno che Bocconi porta avanti attraverso una molteplicità di iniziative che vanno dal Progetto carceri, che in questo anno accademico coinvolge 15 detenuti regolarmente iscritti al corso di laurea in Economia e management, alle cliniche legali presso le carceri di Bollate e Opera. Un impegno che continueremo a incrementare grazie alla competenza della professoressa Marta Cartabia, che da quest’anno è prorettrice all’Impegno sociale e agli Affari Istituzionali”. “Per la Statale di Milano si tratta di un ulteriore, importante, tessera nel mosaico di azioni attraverso cui portare quotidianamente l’università nelle carceri. Quest’aula permetterà infatti alle persone ristrette di accedere in autonomia a una serie di servizi e materiali, ferma restando l’importanza primaria di una presenza concreta all’interno degli istituti penitenziari, attraverso i corsi che vi svolgiamo ogni settimana e l’ingresso quotidiano dei tutor che seguono le nostre studentesse e i nostri studenti ristretti. Il Progetto Carcere della Statale di Milano, anch’esso parte della rete nazionale, è tra i più grandi d’Europa con 159 studenti iscritti (di cui 51 a Bollate), 28 dipartimenti coinvolti sui 31 totali e tutte le dieci facoltà coinvolte”, aggiunge Simonetta. “Gli studenti del Polo universitario penitenziario hanno gli stessi diritti e doveri di tutti gli altri. Le condizioni detentive, però, limitano la loro possibilità di fruizione delle attività universitarie, didattica compresa: questa nuova aula accorcerà la distanza tra carcere e università, tra “dentro” e “fuori” - conclude la rettrice di Milano-Bicocca Giovanna Iannantuoni -. Educazione e istruzione sono indispensabili per la riduzione del crimine ed è per questo che dalla valorizzazione di questi percorsi ne deriva un vantaggio per tutta la società”. Da ddl a decreto. Il trucco del Governo per aggirare l’Aula di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 aprile 2025 Atteso oggi in Cdm un nuovo provvedimento che svuota il pacchetto Sicurezza, recepisce le critiche del Colle ed esautora il Parlamento. Su cosa fonderà la sua “necessità e urgenza” è tutto da vedere. Rivolta delle opposizioni. Il lupo non si è trasformato in agnello. Sembrava che la moral suasion del Quirinale per modificare i punti più a rischio di incostituzionalità del ddl Sicurezza avesse convinto non solo la premier Giorgia Meloni ma anche il suo recalcitrante numero due Matteo Salvini, in cambio di qualche trofeo da portare in dote al congresso federale leghista del prossimo fine settimana alla fiorentina Fortezza da Basso. Ma il vero asso nella manica, frutto dell’accordo raggiunto tra le due destre di governo, potrebbe essere il decreto legge a cui sta lavorando Palazzo Chigi e che è previsto oggi in Consiglio dei ministri. Un provvedimento che, a pochi giorni dalla conclusione dell’iter in Senato del ddl Sicurezza (in Aula il 15 aprile), e malgrado la prospettiva di un suo rapido passaggio in terza lettura alla Camera nelle prossime settimane, svuota di fatto il pacchetto di norme penali firmato Nordio, Piantedosi, Crosetto e affidato al Parlamento. Un modo, questo, per recepire le indicazioni del Quirinale aggirando le “lungaggini” parlamentari e tagliando corto sulle due o tre norme-bandiera che stanno particolarmente a cuore a Lega e Fratelli d’Italia. Su cosa esattamente il decreto legge fonderà la sua “necessità e urgenza” è tutto da vedere. C’è chi scommette però che le “rivolte” in carcere di cui si fa un gran parlare siano una buona scusa. Alla notizia diffusa ieri da fonti governative, le opposizioni hanno reagito con forza ritenendo inaccettabile l’escamotage che esautora completamente il Parlamento. La Cgil e la Rete dei movimenti “No al Ddl Paura” si preparano a scendere in piazza. A cominciare da oggi a Roma davanti al Pantheon e a Napoli in largo Berlinguer. L’appuntamento in entrambi i casi è alle 18, alla stessa ora in cui si riunisce il Cdm. A questo punto, il ddl Sicurezza potrebbe avviarsi su un binario morto oppure continuare pure il suo iter senza fretta, stralciato delle norme ormai confluite nel decreto legge e con le correzioni già approvate in commissione Bilancio del Senato per la mancanza di coperture finanziarie. La Lega, per bocca del vicesegretario Andrea Crippa, sembra scaricare ogni responsabilità: “Io credo che debba essere la politica a fare le leggi, poi se dal Colle più alto ci rimandano indietro i testi ne prendiamo atto. Noi però eravamo più d’accordo col testo originale, non col testo edulcorato da Mattarella”. In realtà l’ufficio giuridico del Quirinale aveva fatto notare - ottenendo un feedback positivo da Fd’I e FI - cinque criticità del testo così come era stato licenziato dalla Camera nel settembre scorso: il divieto di vendere Sim telefoniche agli immigrati irregolari; il fatto che non si lasciasse al giudice decidere caso per caso sulla pena in carcere per le donne incinta e le madri di bimbi piccoli; il nuovo reato di rivolta in carcere che si configura anche con la resistenza passiva; l’aggravante “no ponte” per chi protesta contro le grandi opere; l’imposizione per le università e le pubbliche amministrazioni di collaborare con i servizi segreti. Il braccio di ferro tra i partiti di governo prosegue ancora, però. Oltre a questi correttivi, o ad una parte di essi, un’ipotesi suggerisce che nel decreto legge possa trovare posto, tra le altre norme, anche il cosiddetto scudo penale e il sostegno economico per le spese legali degli agenti indagati. Altri sono convinti che si vogliano introdurre aggravanti anche contro i discorsi d’odio antisemita, dimenticando forse che sarebbe ambizione alquanto strana da parte di chi, come Salvini e l’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana, nel 2018 chiese a gran voce l’abolizione della legge Mancino. Di sicuro, i contenuti del provvedimento saranno oggetto di discussione fino alle ultime ore. A via Arenula negano che la questione li riguardi da vicino: il viceministro forzista alla Giustizia, Paolo Sisto, afferma di non avere “notizia di provvedimenti di questo genere”. E sembra che nessuno abbia neppure interpellato i relatori del Ddl Sicurezza in Senato, Erika Stefani della Lega e Marco Lisei (Fd’I) che commenta laconico: “Vedremo cosa succede: se quello che è stato discusso in commissione giustizia dovesse essere raccolto all’interno di un decreto, comunque il lavoro fatto finora non credo sia stato vano”. D’altronde, spiegano fonti del Carroccio, un maxi emendamento al pacchetto sicurezza in Aula avrebbe richiesto il ricorso alla fiducia, giudicata chissà perché “una forzatura eccessiva”. Viceversa, un decreto consente sempre, in fase di conversione in legge, il possibile ricorso ai tempi contingentati. L’opposizione questa volta è compatta nel condannare il “golpe contro la democrazia” e la “deriva autoritaria” del governo Meloni, per usare le parole di vari esponenti di Avs che danno appuntamento alle manifestazioni di quest’oggi. Pronto alle proteste di piazza anche il Pd perché, come dice il capogruppo dei senatori Boccia, con il decreto “finiscono le relazioni istituzionali” tra esecutivo e parlamento. Per lo stesso motivo il M5S promette “barricate”. “Dove sia l’urgenza e la necessità di un provvedimento che - fa notare Magi di +Europa - era in iter parlamentare dal novembre 2023, cioè da quando è stato approvato in Cdm, non si sa”. E non si sa neppure, secondo il senatore di Azione Marco Lombardo, se davvero il decreto legge “recepirà le osservazioni del Quirinale”. L’appuntamento, alle 18. La posta in gioco è la Costituzione di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 4 aprile 2025 Dunque il Governo ha intenzione di emanare un Decreto legge in materia di sicurezza recependo e in qualche caso modificando le norme del disegno di legge attualmente in discussione al senato. Sarebbe un atto manifestamente contrario alla Costituzione. Il capo dello Stato potrebbe trovarsi in grande difficoltà, dovendo valutare se ci sono le condizioni per emanare l’atto sottoposto alla sua firma. Saremmo di fronte ad un nuovo strappo costituzionale. Si tratterebbe, infatti, di un decreto non solo privo dei requisiti costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza, nonché dal contenuto disomogeneo ponendosi dunque in violazione dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale, oltre che dalla legge 400 del 1988. Ma anche di un decreto sostitutivo di una legge in itinere, che avrebbe come effetto immediato quello di sottrarre al titolare della funzione legislativa - il Parlamento - il potere costituzionalmente ad esso conferito dall’articolo 70 della nostra Costituzione. L’abuso della decretazione d’urgenza, com’è noto, è un male risalente, e ha sollevato spesso perplessità e inviti alla cautela da parte dei presidenti della Repubblica, ripetutamente anche da parte di Mattarella. Raramente si è giunti però al rifiuto di emanazione: una cautela di per sé condivisibile, non dovendo il nostro presidente della Repubblica esercitare un controllo politico, forse neppure di semplice legittimità costituzionale (si parla infatti di “palese” o “manifesta” incostituzionalità persino nei casi di rinvio delle leggi). Eppure, in passato diversi presidenti (Pertini, Cossiga, Napolitano) hanno eccezionalmente rifiutato l’emanazione. Il caso più noto è quello del 2009 che vide Napolitano ritenere di non poter sottoscrivere il decreto-legge relativo alla dolorosa vicenda Englaro. La motivazione di fondo fu quella che non si poteva violare il principio della divisione dei poteri. In quel caso il governo, con il suo decreto, voleva vanificare una decisione assunta dalla giudice di Cassazione. Ora il governo vuole sostituirsi al parlamento. In base a quali argomenti? L’approvazione del disegno di legge in senato era prevista entro pochi giorni e comunque entro i primi di maggio. A causa delle modifiche sarebbe necessario un altro passaggio alla camera, senza possibilità di ulteriore discussione o modifica del testo. La legge era destinata dunque a essere approvata nel giro di poche settimane. Dov’è l’urgenza che giustifica il decreto? A quel che è dato sapere, l’atto del governo dovrebbe essere esattamente quello in discussione più qualche ulteriore misura e qualche modifica che potrebbe certamente essere presentata sin d’ora come emendamenti in parlamento. Non v’è dunque alcuna ragione per l’emanazione di un decreto legge se non, probabilmente, le divisioni nella maggioranza. Ma è un’altra divisione, assai più importante, quella dei poteri che imporrebbe al governo di non deliberare in Consiglio dei ministri un tale atto. Confidiamo che i poteri dissuasivi del Quirinale siano indirizzati in tale senso. Leggiamo però con preoccupazioni le considerazioni incendiarie del capogruppo Crippa, che sembra volersi contrapporre al garante senza nessuna volontà di ascolto. A breve sapremo, in gioco c’è la Costituzione. “In galera! In galera!”. Alle radici dell’irrazionale refrain manettaro di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 4 aprile 2025 Il populismo penale è da tempo in voga e pretende di dare una risposta alle insicurezze delle nostre società. Ma tutti siamo chiamati in causa per una presa di posizione netta contro questa deriva irrazionale e controproducente. “In galera! In galera!”. Chi è che lo dice? Non andiamo subito a conclusioni prima di farci aiutare da ciò che precede: “La vuoi la minestrina? Mangia la minestrina! Disco, Techno, Underground Beccati questa!”. È un brano del 1993 di Giorgio Bracardi, quello di “Alto Gradimento”. Dal nonsense demenziale, andiamo all’oggi: dal surreale al reale. Sottosegretario Del Mastro, dal Foglio del 14 marzo 2025: “Nella mia persona convivono entrambe le pulsioni sia quella garantista che quella giustizialista, a corrente alternata, secondo le necessità”; 16 novembre 2024: “Una gioia non lasciare respirare chi sta nell’auto della penitenziaria”. Ministro Nordio. Anch’egli va a corrente alternata come il suo maitre à penser Del Mastro: garantista a parole, la sua firma è in Gazzetta Ufficiale su tutte le leggi che introducono nuovi reati e/o innalzano le pene. “In galera! In galera” non serve a nulla, Nordio lo sa: “Non credo che chi deve commettere un delitto vada prima a compulsare il codice penale per veder se la pena è aumentata o diminuita”, ma, aggiunge, “per certi settori è importante che lo stato dia un segno di attenzione e questo segno di attenzione spesso può e deve avere un sigillo penale” (intervista video al giornalista Goffredo Buccini rilasciata l’11 novembre 2023 a Stresa nell’ambito del Forum organizzato dalla Fondazione Iniziativa Europa). La gran parte di “certi settori” riguarda la criminalità di strada. Su evasione fiscale, criminalità economica e corruzione i potenziali trasgressori, senza bisogno di “compulsare” il codice penale colgono bene cosa significa il “mancato segnale” nei loro confronti. Parafrasando Leporello potremmo dire “dei segnali il catalogo è questo”, tra leggi approvate e progetti: violenza contro il personale sanitario e scolastico, omicidio nautico, reato di “stesa”, reato universale di gestazione per altri, proteste in carcere anche se la resistenza è solo passiva, etc. etc. etc. L’elenco sarebbe troppo lungo. Accelerazione evidente, ma il populismo penale è da tempo in voga, spesso contrabbandato come attenzione alla vittima: vedi da ultimo il reato di femminicidio. L’art. 575 del Codice penale in sette parole “Chiunque cagiona la morte di un uomo…” dice tutto e già oggi per il femminicidio con le aggravanti è possibile applicare la pena dell’ergastolo. Non è con leggi-manifesto che si contrasta un drammatico fenomeno. Il populismo penale pretende di dare una risposta alle insicurezze delle nostre società. Ricetta inaugurata negli Stati Uniti e accentuata da Bill Clinton con la feroce regola sulla recidiva: three strikes and you are out. Il risultato fallimentare colà, nessuna diminuzione dei reati e aumento clamoroso dei livelli di carcerazione, non ha impedito che dai primi anni del nuovo millennio la ricetta abbia trovato adepti in Europa. L’Italia si è progressivamente adeguata nonostante i dati incontrovertibili degli omicidi che, dopo gli anni di piombo, le guerre e le stragi di mafia, le sparatorie tra bande per il controllo del mercato degli stupefacenti, hanno raggiunto i livelli tra i più bassi d’Europa. A precedenti governi dobbiamo, tra l’altro, la truculenta disciplina dell’omicidio stradale. Il governo in carica si appresta a votare il truculentissimo decreto “Sicurezza”. Lo stato delle carceri è intollerabile per il dramma dei suicidi. Situazioni difficili per la polizia penitenziaria. L’incattivimento nelle condizioni di detenzione, il “non lasciamoli respirare” è il più forte incentivo alla recidiva. Irrazionale, ingiusto e anche controproducente sulla effettiva sicurezza. Civiltà nelle galere non è buonismo, ma investimento sulla sicurezza, attraverso incentivo al reinserimento nella società. E per di più si vorrebbero restrizioni anche sulle misure alternative al carcere. I “segnali” di Nordio hanno ricadute immediate. La magistratura tende a infliggere pene più pesanti e l’ergastolo viene applicato più spesso. Il concetto di reato colposo viene esteso quasi in distorta applicazione del principio del “senno di poi”. E poi il rischio di esondazione del penale sulla discrezionalità amministrativa, a livello nazionale e a livello locale. E ancora il rischio di torsione del penale come soluzione di tutti i mali. Alcuni lo avevamo denunciato sin dai primi mesi dopo Mani pulite: “Il livello di consenso che l’azione della magistratura ha trovato nella pubblica opinione […], così come la sollecitazione verso una giustizia sommaria e sostanzialistica […] il rischio che si dimentichino le specificità del processo penale […] il rischio di eccesso di aspettativa sociale in una linea di delega totale alla magistratura”, cito da un mio scritto pubblicato su una rivista giuridica alla fine del 1992. Torniamo all’oggi. Sulle pagine del Foglio il mio amico Giovanni Fiandaca da tempo e ancora da ultimo denuncia la “bulimia punitiva” che egli dice “aumenterà il consenso ma non serve a niente”. Fiandaca sollecita da parte dei professori di Diritto penale un’azione di “pedagogia collettiva”. Ma tutti come cittadini siamo chiamati in causa per una presa di posizione netta contro questa deriva disumana e per di più irrazionale e controproducente. Nordio e i femminicidi: “Altre etnie non hanno la nostra stessa sensibilità” di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 aprile 2025 Davanti ai femminicidi di Ilaria Sula a Roma e Sara Campanella a Messina, fino a ieri dal governo non erano discesi commenti particolari. Poi, durante un convegno a Salerno, ci ha pensato il ministro della Giustizia Carlo Nordio a rimediare. Con un intervento a metà tra Cesare Lombroso e la giuria del Buio oltre la siepe: “Purtroppo il legislatore e la magistratura possono arrivare entro certi limiti a reprimere questi fatti che si radicano probabilmente nell’assoluta mancanza non solo di educazione civica ma anche di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne”. La questione etnica evocata da Nordio, verosimilmente, riguarda il caso Sula, dal momento che l’uomo che ha confessato il delitto, il 23enne Mark Sampson, è di origine filippina. È così che la morte di una 22enne per mano del suo ex si tinge di razzismo, nell’ennesimo caso di qualunquismo social che esce dagli smartphone e si proietta sull’esecutivo. “Abbiamo fatto il possibile sia come attività preventiva per incentivare il codice rosso e accelerare i termini sia nell’aspetto repressivo - ha detto ancora il ministro - abbiamo addirittura introdotto il reato di femminicidio che ci è costata anche qualche critica. È questione di educazione, serve un’attività a 360 gradi, educativa soprattutto nell’ambito delle famiglie dove si forma il software del bambino”. Da notare, in questa parte del discorso, che la parte sull’educazione stride fortemente con quella precedente, dove si rivendica l’istituzione del femminicidio come reato autonomo, perché risolvere le questioni a colpi di codice penale è l’esatto opposto di fare un’operazione culturale utile a costruire “il software del bambino” (ma magari anche di chi un po’ è cresciuto). Ad ogni modo, tra gli imbarazzi del dibattito istituzionale e le migliaia di persone che organizzano manifestazioni e partecipano ad assemblee, le indagini sul femminicidio di Ilaria Sula vanno avanti. Ieri è stata effettuata l’autopsia sul corpo della giovane, utile soprattutto a determinare l’ora della sua morte. Da una prima ricognizione dei patologi, risulta che almeno tre delle coltellate dell’assassino siano state sferrate al collo. Non è stata ancora trovata l’arma del delitto, che nell’interrogatorio fiume cominciato martedì notte e finito mercoledì pomeriggio, Samson ha detto di aver buttato all’interno di un tombino. In compenso dalla perquisizione effettuata dalla squadra mobile di Roma in via Homs 8, casa dei Samson e probabilmente anche luogo del delitto, sono state repertate diverse macchie di sangue localizzate nella stanza da letto di Mark. Il materiale è a disposizione dei biologi della polizia che effettueranno tutte le analisi del caso. Resta ancora sospesa la posizione dei genitori del reo confesso: non sono stati iscritti del registro degli indagati e tutto dipende dalla ricostruzione di quanto accaduto tra le 22 di martedì 25 marzo - quando Ilaria Suma sarebbe arrivata nell’appartamento - e le 18 del giorno successivo, quando una telecamera ha identificato nel territorio comunale di Poli, sulla strada provinciale 45B, l’automobile utilizzata da Mark Samson per trasportare il corpo della vittima all’interno di una valigia, per poi buttarlo in un burrone a circa mezzo chilometro di distanza dalla carreggiata. Gli inquirenti, guidati dal procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, sono impegnati a capire se i genitori del 23enne si fossero accorti del delitto avvenuto sotto il loro stesso tetto e, soprattutto, se abbiano in qualche modo collaborato all’occultamento del cadavere. Impossibile, visto il vincolo di parentela, la contestazione del favoreggiamento, ma questo non esclude la possibilità che si arrivi a ipotizzare il concorso in altri reati. OGGI, nel carcere di Regina Coeli, si terrà l’interrogatorio di convalida dell’arresto di Mark Samson. A lui sono stati contestati i reati di omicidio volontario e occultamento di cadavere aggravati dal vincolo affettivo. La resa del ministro Nordio sui femminicidi e quelle parole sconclusionate sulla “nostra etnia” di Nadia Ferrigo La Stampa, 4 aprile 2025 Dal ministro della Giustizia ci si sarebbe potuti aspettare profondo cordoglio, grave indignazione e roboanti promesse di interventi ancor più duri. Nulla di tutto questo. Il ministro Carlo Nordio oggi si è premurato di dare alle arrabbiate e addolorate donne italiane due pessime ma notevoli notizie. A commento dei barbari e crudeli femminicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella dal ministro della Giustizia ci si sarebbe potuti aspettare profondo cordoglio, grave indignazione, roboanti promesse di interventi ancor più duri e capillari e campagne di informazione nelle scuole. Nulla di tutto questo. La prima notizia è la resa dichiarata della legge all’inevitabilità della violenza di genere. “Il legislatore e la magistratura possono arrivare entro certi limiti a reprimere questi fatti. Abbiamo fatto il possibile sia come attività preventiva per incentivare il codice rosso e accelerare i termini sia nell’aspetto repressivo. Abbiamo addirittura introdotto il reato di femminicidio che ci è costata anche qualche critica” ha dichiarato Nordio a Salerno. Suona un po’ come dire, noi ci abbiamo anche provato. Che poi è quello che è successo a Celeste Palmieri, 56 anni, 5 figli, lo scorso ottobre ammazzata dall’ex marito davanti al supermercato, in pieno giorno. Il braccialetto elettronico c’era, ma non ha funzionato bene. La giustizia ci prova, ma “entro certi limiti”. L’avevamo intuito. Seconda notizia, la ragione delle morte ammazzate sta in “un’etnia” diversa da quella che Nordio indica come “la nostra”. “Questi fatti, che si radicano probabilmente nell’assoluta mancanza non solo di educazione civica ma anche di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne”. Nel suo intervento il ministro Nordio cita la mancanza di educazione civica. Materia obbligatoria dalla storia lunga e tormentata, l’aveva immaginata nel 1958 Aldo Moro, subito sospesa per mancanza di fondi. Da decenni viene ciclicamente riproposta, poi riempita e svuotata di una grande quantità di significati, a seconda dell’opportunità del momento. Dal 2021 è un lungo elenco di grandi temi, da sviluppare a giudizio e secondo risorse variabili e buona volontà degli insegnanti. Non una parola per l’educazione sessuale e affettiva, chiesta e richiesta negli ultimi vent’anni a fasi alterne da diverse parti della politica, benedetta anche da Papa Francesco, oltre che reclamata ancora e ancora da innumerevoli organizzazioni-associazioni-petizioni della società civile, ma mai trasformata in materia obbligatoria e dal nostro governo affatto presa in considerazione. Consultando la Treccani l’etnia “in etnologia e antropologia è un aggruppamento umano basato su caratteri culturali e linguistici”. Nel suo linguaggio cosa avrà mai inteso, per “nostra etnia”? La sua, di uomo bianco, 78 anni, nato a Treviso? Dall’inizio dell’anno sono state ammazzate undici donne. La media italiana degli ultimi anni è di un caso ogni due giorni. Le denunce di maltrattamenti e stalking sono in aumento, ma ancora molto lontane dall’erodere la cifra nera, quelle denunce mancate ancora molto diffuse soprattutto nel Sud Italia. Non vale nemmeno la pena di iniziare la disamina delle etnie dei violenti, degli assassini e degli stupratori, qualsiasi cosa Nordio volesse intendere con la definizione “la nostra etnia”. Ricordiamo che nella stragrande maggioranza dei casi abusi e violenze arrivano dall’ambiente familiare, da persone conosciute o con cui si ha avuto in passato una relazione. Beato il ministro Nordio, che non conosce i numeri né pare ricordare le storie e i volti delle nostre donne: massacrate a mani nude, buttate giù da cavalcavia e balconi, tagliate, violentate, bruciate. Fatte a pezzetti e buttate in valigia e nei boschi e nell’immondizia. Non ricorda il ministro che è successo a Laura Papadia, Sabrina Baldini Paleni, Jhoanna Nataly Quintanilla Valle e Maria Porunbescu, Eliza Stefania Feru, Cinzia D’Aries e le altre di diversa età, vissuto e pure “etnia”. Che come dice la legge che pur ha provocato a Nordio qualche scocciatura il femminicidio “è commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per ostacolare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità”. Ora sappiamo che per il ministro l’odio di genere può essere solo questione di sfortuna, contro cui nulla può il nostro Stato, e genealogia evidentemente poco sensibile. Nordio, i femminicidi e quell’offesa etnica. Chi non ha soluzioni si cerca un nemico di Nicoletta Verna La Stampa, 4 aprile 2025 La dichiarazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio sui femminicidi parte da un’affermazione molto giusta e condivisibile: le misure di punizione e repressione a violenza avvenuta non possono essere efficaci, se prima non si sradica il sistema di valori su cui il reato si basa. Il discorso, però, subito si sposta sui “giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne”. Una volta evidenziato il problema, cioè, non si trova una soluzione: si trova un nemico. Questo è un artificio retorico ben noto, utile soprattutto quando si è di fronte a una questione molto difficile, controversa, carica dal punto di vista emotivo. “La gente vuole che le si faccia passare la paura” scrive Michela Murgia, “non che la si metta a discutere di soluzioni, perché la paura è di tutti, la soluzione è del capo. Se c’è un malcontento diffuso e il capo non ha ancora una soluzione, la migliore delle banalizzazioni strategiche è dare al popolo un nemico da incolpare”. È una scorciatoia cognitiva e dialettica facile, indolore: significa ridurre la complessità del reale, banalizzare. Significa, ancora nelle parole di Murgia, togliere alle persone l’essenziale e lasciargli il superfluo, permettendo loro di parlare di qualunque cosa tranne di ciò che non è necessario sappiano per vivere bene. L’aspetto del “trovare un nemico” su cui vale la pena riflettere non è solo l’iper-semplificazione del discorso (la correlazione fra etnia e femminicidi è molto articolata, e ci dice sostanzialmente che i femminicidi avvengono fra connazionali, a prescindere dalla provenienza geografica). È anche, e forse soprattutto, il rischio di uno scollamento dalla realtà e, dunque, dalle responsabilità. L’affermare che la questione riguarda qualcun altro ci assolve dal peso di impegnarci per trovare soluzione. E se questo messaggio arriva alle nuove generazioni diventa un problema educativo, poiché qualunque educazione, specie quella affettiva, dovrebbe invece muoversi da una precisa presa di coscienza del proprio ruolo, apporto, influenza nella vita sociale. L’enorme clamore suscitato da una serie come Adolescence si è basato anche su questo: non sposta il fuoco su un colpevole esterno, ma resta nelle dinamiche che riconosciamo come nostre. Non ci fa dire “può succedere”, ma “può succedere a me”. Parla di violenza giovanile, come centinaia di altre opere, ma non ha la forza allegorica di Arancia meccanica o American Psycho, non si ambienta in periferie estreme e lontane come L’Odio o City of Gods. In questi film giganteschi possiamo certo identificarci nelle pulsioni umane dei protagonisti, ma mai nelle loro vite, abitudini, valori, azioni quotidiane. Invece Adolescence, pur mettendo in scena un estremo e un eccesso, ci mostra che il confine fra la normalità e l’abisso può celarsi nelle nostre case, fra le pieghe delle più familiari consuetudini, dentro a chi crediamo di conoscere. E per questo ci sgomenta. Parlando di femminicidi, allora, uno dei temi dovrebbe essere l’identificazione. Non nel senso, ovviamente, che dobbiamo metterci nei panni del femminicida, né tantomeno che dobbiamo riconoscerci in lui. Ma nel senso che ogni femminicidio è figlio di una cultura dominante, di una storia collettiva che ci riguarda, che ci appartiene. Di un sistema patriarcale che è specchio di tutti: di chi lo riconosce e di chi lo nega, di chi lo cavalca e di chi lo subisce. Finché diremo che è colpa dell’altro, del nemico, del diverso, dello straniero, finché trasmetteremo ai nostri figli la rassicurante narrazione che il problema non riguarda loro, è impossibile sperare di risolverlo. L’approccio lombrosiano di Nordio alla violenza sulle donne di Giorgia Serughetti* Il Domani, 4 aprile 2025 Le contraddizioni e le confusioni del ministro della giustizia sui femminicidi: il numero di errori contenuti in poche frasi è tale da meritare un’analisi specifica. Grande è la confusione sotto il cielo della destra. Mentre le cronache approfondiscono i dettagli dei femminicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella, le ultime due giovani vittime della strage quasi quotidiana di donne, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato alla stampa di limiti dell’intervento penale, di educazione necessaria da parte delle famiglie, e di “etnie” che non rispettano le donne. Il numero di errori e contraddizioni contenute in poche frasi è tale da meritare un’analisi specifica. Ma prima facciamo un passo indietro. A quando, nemmeno un mese fa, in occasione dell’8 marzo, il governo ha presentato un disegno per introdurre il reato di femminicidio, da punire con la pena dell’ergastolo. Giuriste esperte della materia, tra cui Vitalba Azzollini su Domani, avevano evidenziato già allora i limiti della misura, esprimendo scetticismo sull’efficacia di interventi repressivi e tecnicismi giuridici - non è la codificazione autonoma di un reato o l’aumento della pena a dissuadere gli autori di violenze letali contro le donne dal commetterle - e denunciando l’assenza di impegno sul fronte della prevenzione, innanzitutto sul versante dell’educazione e della sensibilizzazione. Di fronte a uccisioni che si ripetono con ritmo inesorabile, e dinamiche tragicamente ripetitive, la ministra Eugenia Roccella ha tuttavia ribadito in questi giorni l’importanza di una simile iniziativa, invitando anzi le opposizioni ad approvare al più presto la legge. Nessuna parola, ancora una volta, sull’educazione all’affettività, alla parità di genere, alla sessualità. L’approccio repressivo - Torniamo ora a Nordio, che nel suo breve intervento ha, di fatto, denunciato il fallimento dell’approccio repressivo: “È illusorio che l’intervento penale, che già esiste e deve essere mantenuto per affermare l’autorità dello stato, possa risolvere la situazione”. Non ne è seguito però l’auspicio né l’impegno per un intervento preventivo attraverso l’educazione sessuo-affettiva a scuola. Al contrario, applicando una logica di sapore lombrosiano, Nordio si è detto sfiduciato nella possibilità di interrompere la sequenza di morti di donne perché esistono culture, etnie (ma forse voleva dire “razze”), refrattarie alla civilizzazione. Simili eventi, ha detto, “si radicano probabilmente nell’assoluta mancanza non solo di educazione civica ma anche di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne”. Ci ricorda qualcosa? Senza andare troppo lontano, un altro ministro del governo Meloni, Giuseppe Valditara, in occasione della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, aveva negato il peso della cultura patriarcale, imputando piuttosto il fenomeno della violenza alle “forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti dall’immigrazione illegale”. Né allora, né oggi, la cronaca poteva suggerire la rilevanza del dato etnico o culturale, meno che mai quello dello status legale. Gli assassini di Giulia Cecchettin, Ilaria Sula, Sara Campanella appartengono al tipo di giovani uomini che i vicini di casa definiscono ragazzi “normali”: studenti, dalla faccia pulita. E allora il problema è più grave di quanto vogliono far credere i politici che lo strumentalizzano per colpire l’immigrazione e i diritti degli “altri”. Come si legge nell’indagine dell’Istat sul fenomeno, “se è vero che ci sono culture o subculture in cui il dominio dell’uomo sulla donna è considerato più accettabile e quindi le violenze sono più frequenti, è altrettanto vero che l’identikit dell’uomo violento corrisponde al “signor qualunque”: disoccupato, operaio, impiegato, professore, poliziotto, medico...”. Sfidando ogni evidenza contraria, dunque, Nordio attribuisce il fallimento dei molto sbandierati provvedimenti repressivi alla mancanza di educazione al rispetto delle donne tra uomini che appartengono a gruppi minoritari. Ma (contraddicendo sé stesso) aggiunge anche un passaggio sulla necessità di uno sforzo educativo generale. Da parte della scuola pubblica? Ovviamente no. Il ministro chiama in causa la famiglia: serve, ha detto, “un’attività a 360 gradi, educativa, soprattutto nell’ambito delle famiglie dove si forma il software del bambino”. La famiglia, quella tradizionale s’intende, è chiamata a risolvere un problema che la politica non vuole né sa affrontare. Rimuovendo l’elemento di consapevolezza da cui partire: che è nella cultura dei rapporti tra i generi che plasma i modelli gerarchici di famiglia - una cultura trasversale a gruppi e provenienze nazionali - la radice profonda delle uccisioni di donne. *Filosofa “Finalmente una legge riconosce la matrice culturale dei femminicidi” di Simona Musco Il Dubbio, 4 aprile 2025 Senatrice Valeria Valente (Partico democratico), l’introduzione del femminicidio come reato autonomo e separato nel codice penale rappresenta una misura davvero utile per combattere la violenza di genere, così come sostenuto dal governo, oppure rischia di rimanere un gesto unicamente simbolico che non affronta, invece, le radici culturali e sociali del problema in questione, che richiederebbero un cambiamento più profondo nella società? La violenza contro le donne non è un’emergenza ma un fenomeno strutturale riconducibile all’asimmetria di potere e alla cultura del possesso e del dominio di stampo patriarcale dell’uomo sulla donna. Un dominio che tenta di resistere di fronte ai diritti, alle libertà, all’autodeterminazione che le donne hanno conquistato. Non è un caso se questi uomini violenti, anche molto giovani, non riescano ad accettare la fine di una relazione o semplicemente il rifiuto. Il principale strumento di contrasto resta quindi la prevenzione, la promozione della parità e del rispetto attraverso l’educazione dei giovani e la formazione degli operatori. Proprio per questo il reato di femminicidio è prezioso perché ha una doppia valenza, simbolica ma anche concreta. Riconosce questa matrice culturale all’interno del Codice penale e dà uno strumento efficace agli operatori giudiziari per leggere e ricercare il fenomeno, prevenire l’escalation, arrivare a sentenze di giustizia. Aggiungo che la deterrenza non è costituita dalla pena, ma dal riconoscimento corale e condiviso del disvalore sociale di quella condotta maschile. La definizione di femminicidio proposta nel disegno di legge approvato il 7 marzo rispetta i principi di chiarezza e precisione previsti dal nostro sistema giuridico? Oppure si corre il rischio, come sostenuto da alcuni critici, che questa formulazione possa dare luogo a interpretazioni ambigue o a trattamenti diseguali nei procedimenti giudiziari? Il disegno di legge è appena arrivato in Senato, sarà oggetto di esame e di modifiche. Personalmente ragionerei sulla possibilità di togliere il riferimento all’odio, per dettagliare meglio il femminicidio con una nuova fattispecie che dovrebbe fotografare, più che il movente o l’elemento psicologico del reo, la specificità della condotta che si consuma esclusivamente ai danni delle donne e gli elementi che la connotano, cioè la volontà di dominio e di controllo dell’uomo. Il diritto penale è tradizionalmente visto come neutrale, ma alcuni ritengono che sia stato strutturato tenendo conto principalmente della prospettiva maschile. L’introduzione del femminicidio come reato separato rappresenta un progresso verso un sistema giuridico più giusto ed equo, o rischia di frammentare ulteriormente il nostro ordinamento penale? Non ho molti dubbi sul fatto che sia un passo avanti. Il femminicidio si affaccia per la prima volta nel Codice penale per definire una condotta violenta specifica nei confronti delle donne. Parliamo di un diritto penale fino ad oggi non neutro, ma costruito nel tempo intorno al soggetto maschile: l’omicidio è ancora definito, all’articolo 575, come l’uccisione di un “uomo”, utilizzando il maschile sovra esteso che nega la differenza sessuale. Sistema penale parallelo? Per combattere la violenza contro le donne serve lo stesso cambio di passo che avvenne con il 416 bis per la lotta alle mafie: la condanna condivisa di tutta la società, a partire dalle istituzioni. In un sistema penale come quello italiano che già prevede diversi tipi di aggravanti specifiche per i crimini di genere, è davvero necessario introdurre una nuova figura di reato o si rischia di ingolfare ulteriormente il sistema penale? La prevenzione del femminicidio richiede principalmente misure punitive o sarebbe più opportuno un cambiamento nell’approccio rieducativo delle pene? La creazione della fattispecie autonoma di reato risponde a mio avviso all’esigenza di tutelare meglio il bene giuridico della vita di una donna minacciata da una condotta violenta con il movente della cultura del possesso e della sopraffazione. Oggi i femminicidi si inquadrano attraverso l’aggravante dell’omicidio commesso in una relazione sentimentale o famigliare, ma non sempre questa è presente, come insegna uno dei drammi degli ultimi giorni. Il governo Meloni può essere certamente accusato di panpenalismo, ma non è questo il caso. Io sono decisamente favorevole alla cancellazione dell’ergastolo, ma discutiamone non solo per il femminicidio “Aggiungere nuovi reati non basta, serve più prevenzione” di Simona Musco Il Dubbio, 4 aprile 2025 Senatrice Raffaella Paita (Italia viva), il riconoscimento del femminicidio come reato autonomo è un mezzo efficace per combattere la violenza di genere o è solo una risposta simbolica a un problema che richiede interventi più profondi? Il governo continua a moltiplicare i reati invece di affrontare i problemi alla radice. Il femminicidio è già punito dal nostro ordinamento con aggravanti specifiche. Non mi schiero aprioristicamente contro la scelta ma ribadisco che non è solo aggiungendo nuove fattispecie di reato che si garantisce una maggiore protezione alle donne. Il vero nodo è la prevenzione, che deve partire dall’educazione e dal sostegno concreto alle vittime. I dati ci dicono che le vittime sono sempre più giovani, così come gli aggressori. Questo è il segnale di un fenomeno preoccupante: la cultura della violenza sta attecchendo anche tra le nuove generazioni. Serve un intervento serio nelle scuole per insegnare il rispetto e prevenire comportamenti pericolosi, eppure questo governo non ha investito sull’educazione all’affettività. La definizione di femminicidio contenuta nel disegno di legge è compatibile con i principi di tassatività e determinatezza del nostro ordinamento? Ogni reato deve essere definito in maniera chiara e precisa, per evitare interpretazioni arbitrarie. Sulla definizione del femminicidio contenuta nel disegno di legge ci sono effettivamente delle preoccupazioni legittime che affronteremo nell’ambito della discussione parlamentare. Non si può correre il rischio di trovarci di fronte a incertezze applicative, vanificando l’intento della norma, o portare a delle disparità di trattamento tra i vari casi, creando confusione nel sistema giuridico. Per questo in linea generale penso sarebbe più sensato investire nell’applicazione rigorosa delle leggi già esistenti, come le aggravanti di genere, e concentrarsi su interventi concreti di prevenzione, oltre che su forme di educazione culturale e sociale che possano veramente cambiare la mentalità delle nuove generazioni. Secondo molti, il diritto penale non è neutrale, ma concepito attorno a un soggetto maschile. L’introduzione del femminicidio risolve o peggiora il problema? Per anni, la violenza contro le donne, le discriminazioni, gli atti persecutori sono stati sottovalutati o trattate come problemi privati. Pensiamo che lo stupro è passato dall’essere un reato contro la morale pubblica ad un reato contro la persona solo nel 1996. Il nostro ordinamento ha dovuto evolversi. La frammentazione del codice penale non aiuta a garantire maggiore giustizia. Ciò che serve è applicare con rigore le norme esistenti e cambiare un sistema che ancora oggi, nei tribunali, tende a colpevolizzare le vittime e a concedere attenuanti agli aggressori. Ancora troppi femminicidi sono preceduti da denunce rimaste inascoltate o misure di protezione inefficaci. Pensiamo ai braccialetti elettronici anti- stalker, che spesso non funzionano o non sono disponibili, lasciando le donne esposte al rischio di nuove aggressioni. Abbiamo chiesto soluzioni da mesi, ma dai ministri Nordio e Piantedosi sono arrivate solo promesse vuote. È inaccettabile! Anche la scelta di diffondere i dati sui femminicidi non più su base settimanale, ma ogni tre mesi, mi risulta incomprensibile. Creando di volta in volta, di fronte alle emergenze, nuovi reti non si rischia un eccessivo ricorso al diritto penale? Serve più la repressione o la prevenzione? La repressione è necessaria, ma non basta. In questi anni abbiamo preso atto del panpenalismo del governo, ma ne abbiamo anche visto le conseguenze: aumentare pene e reati, senza investire in prevenzione, non solo non risolve i problemi, ma ne crea altri. Il femminicidio si combatte con pene ma anche con un cambio culturale e con misure di protezione efficaci. Servono più case rifugio, con finanziamenti adeguati per accogliere le donne in fuga dalla violenza, più formazione per le forze dell’ordine, affinché sappiano riconoscere i segnali di pericolo e agire tempestivamente. È necessario rafforzare il reddito di libertà, norma voluta dal nostro gruppo parlamentare nella scorsa legislatura, in particolare da Lucia Annibali, per garantire alle donne l’indipendenza economica necessaria a fuggire da un contesto pericoloso e ricostruirsi una vita. Servono banche dati che si parlano. Insomma, il governo continua a proporre soluzioni di facciata, ma non sappiamo che abbia fatto il piano nazionale antiviolenza. Vorremmo capire cosa fa la ministra Roccella oltre a proporre nuovi reati. La realtà è che senza un impegno concreto e senza risorse ogni nuova legge resterà solo uno slogan. Detenzione inumana, non viene meno il danno se il detenuto non impila il letto a castello di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2025 La violazione dello spazio minimo di tre metri quadri, libero da suppellettili, che va calcolato per singolo detenuto può scattare anche se uno dei due letti singoli viene posto sul pavimento per libera scelta delle persone ristrette. Viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la detenzione sofferta in una cella di dimensioni tali da non offrire il minimo di tre metri quadrati a ciascun detenuto anche se parte dell’area di movimento è occupata da un letto sovrapponibile all’altro e che per libera scelta delle persone ivi ristrette viene posto sul pavimento e non messo a castello. Ha, quindi diritto al risarcimento chi sia stato ristretto in una cella che una volta detratta l’area occupata dai letti lasci meno dei tre metri “a testa” di pavimento libero cui hanno diritto i detenuti per il loro libero movimento. Nel caso concreto la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 12849/2025 - ha perciò annullato l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno per detenzione inumana proprio rilevando la libera scelta del ricorrente di non impilare il proprio letto su quello del detenuto con cui condivideva lo spazio ristretto della cella all’interno del carcere. Va detto che il giudice del rinvio sarà tenuto comunque a valutare la sussistenza di un’eventuale compensazione dello spazio libero inferiore a tre metri per persona, che potrebbe portare alla negazione del ristoro economico richiesto. Infatti - anche al fine di prendere atto della crisi di sovraffollamento delle carceri esistente in determinati periodi - la stessa giurisprudenza Cedu consente di superare il limite spaziale insufficiente con alcuni fattori compensativi tra cui spicca la possibilità di fruire di sufficienti ore di aria libera durante il giorno. In effetti, nel caso concreto, appare emergere un regime carcerario che consentiva 10 ore di tempo giornaliero da trascorrere al di fuori della cella. Ciò potrebbe essere rilevante per affermare da parte del giudice del rinvio che sussiste un fattore compensativo sufficiente ad annullare la violazione dello spazio ristretto subito dal ricorrente. Infine, va notato che nella sentenza rescindente la Suprema Corte non dà alcuna considerazione esplicita sul punto che se il letto fosse stato organizzato a castello invece che diviso in due letti singoli lo spazio libero restante avrebbe raggiunto o anche superato i tre metri cui ha diritto ogni detenuto per il libero movimento all’interno della cella. Sembra emergere che tale circostanza - frutto di libera scelta - non sia rilevante al punto di vanificare il diritto a vivere in uno spazio congruo e in condizioni non degradanti. Mae, l’inasprimento del regime di liberazione condizionale non è di ostacolo alla consegna di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2025 Il caso riguarda la restrizione del beneficio che però non viola il principio secondo cui non si può essere sottoposti a una pena più grave di quella prevista all’epoca dei fatti contestati e oggetto di condanna. Le regole più restrittive con cui può essere applicato il beneficio della liberazione condizionale non costituiscono in sé un ostacolo alla consegna di una persona in base all’esecuzione di un mandato d’arresto europeo. Come spiega la Cgue una modifica legislativa che inasprisce le regole della liberazione condizionale non costituisce automaticamente un inasprimento della pena rispetto a quella applicabile al momento dei fatti contestati. Il caso risolto dalla Corte di giustizia con la sentenza sulla causa C-743/24 riguarda il rinvio pregiudiziale operato dal giudice irlandese che era stato richiesto di dare esecuzione a un mandato di arresto spiccato dal Regno Unito, in base all’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (Ascc) con l’Unione europea post Brexit, contro una persona accusata di fatti di terrorismo commessi in Irlanda del Nord. La questione riguardava la modifica legislativa realizzatasi in Gran Bretagna medio tempore rispetto all’epoca dei fatti contestati e riguardante il regime della liberazione condizionale, che prima scattava come beneficio penitenziario dopo l’espiazione di metà della pena comminata, mentre ora impone come presupposto che siano stati scontati almeno due terzi della detenzione in base comunque a valutazioni della pericolosità sociale del condannato. L’esecuzione del Mae verso il Regno Unito, come spiega la Cgue, non è però impedito dall’applicazione al caso concreto di tale modifica, in quanto in base ai diritti fondamentali della Carta non scatta l’ostacolo alla consegna costituito dalla previsione di una pena più grave rispetto a quella stabilita all’epoca in cui si sono verificati i fatti. Ciò quindi non impedisce l’esecuzione di un Mae in quanto non riguarda l’entità della pena che scaturisce dalla condanna, bensì la fase esecutiva della stessa. Fase sicuramente inasprita da una modifica che rinvia nel tempo la liberazione condizionale di una persona condannata. E non costituisce una modifica della pena o un suo inasprimento la modifica del regime di un beneficio carcerario, compresiva della valutazione dei profili di pericolosità della persona condannata per procedere alla sua concreta applicazione. E anche se prima vigeva un automatismo più favorevole con la fruizione a metà pena di una liberazione condizionale, siffatta valutazione è legittima e non riguarda la pena in sé considerata. Emilia Romagna. Corsi di lavoro edile nelle carceri per la reintegrazione sociale e professionale ansa.it, 4 aprile 2025 L’intesa tra Provveditorato, Ance, Formedil e Seconda chance. Favorire percorsi di reintegrazione sociale e professionale per le persone detenute negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna, in particolare quelle in semilibertà o a fine pena. Avverrà attraverso il loro inserimento lavorativo nei cantieri delle imprese edili associate ad Ance Emilia-Romagna, dopo una formazione. È l’obiettivo di un protocollo d’intesa firmato dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per l’Emilia-Romagna e delle Marche, da Ance, la principale associazione che rappresenta i costruttori edili della regione, dal consorzio Formedil Emilia-Romagna, che coordina a livello regionale le attività delle scuole edili territoriali e dal’associazione del terzo settore Seconda chance, impegnata a procurare opportunità di formazione e di lavoro a detenuti, affidati ed ex detenuti nell’ambito di un accordo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Grazie all’intesa, le ditte edili della regione riceveranno dall’associazione Seconda Chanc il supporto necessario per l’organizzazione e lo svolgimento dei colloqui di lavoro nelle carceri. E anche dopo l’avvio del rapporto tra azienda e detenuto rappresenteranno per l’imprenditore un anello di collegamento con l’Amministrazione penitenziaria. Napoli. Trovato morto in carcere il boss Ligato: pochi giorni fa l’annuncio di voler collaborare di Filomena Indaco ecaserta.com, 4 aprile 2025 Dalle prime analisi sembra si tratti di un gesto volontario. Pietro Ligato, il precedente leader del gruppo Lubrano-Ligato, è stato trovato morto nella prigione di Secondigliano, dove si trovava da un lungo periodo. Il decesso si è verificato nel pomeriggio di ieri, attorno alle 17, ed è avvenuto pochi giorni dopo la sua sorprendente decisione di collaborare con le autorità. Un gesto che ha attirato l’attenzione, specialmente per il potenziale impatto che Ligato avrebbe potuto avere nelle indagini sulla criminalità organizzata nell’Agro Caleno. Si presume che la causa della sua morte sia stata un suicidio. Ligato si sarebbe tolto la vita nella sua cella nel carcere di Secondigliano. Le autorità carcerarie e la Procura hanno avviato delle indagini per chiarire con esattezza l’accaduto, anche se al momento l’ipotesi principale rimane quella di un atto volontario. La decisione di collaborare - La notizia non è stata contestata e ha generato reazioni immediate tra le forze investigative, i reporter e la popolazione. Il nome di Pietro Ligato era tornato a circolare nel dibattito pubblico nelle ultime settimane quando ha deciso di rompere il silenzio e rivelare agli investigatori anni di attività criminali. Una collaborazione che, se fosse proseguita, avrebbe potuto alterare gli equilibri della camorra nella provincia di Caserta. Ora, a pochi giorni da tale scelta, Ligato è deceduto. E non mancano le incertezze. Anche se sembra che si tratti di un suicidio, ci sono molti che sollevano interrogativi e nutrono sospetti. Pietro era il figlio del defunto boss Raffaele Ligato, una figura centrale del clan operante tra Pignataro Maggiore e le aree circostanti. Il suo arresto, avvenuto nell’ottobre del 2024, era stato accolto con soddisfazione da parte degli inquirenti. Ancora più significativo sembrava essere il suo recente impegno a collaborare. San Gimignano (Si). Confermate le condanne per le torture nel carcere di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 4 aprile 2025 La Corte d’appello conferma la sentenza di primo grado per i fatti di San Gimignano, pene ridotte per 5. Ancora una volta, tutti condannati, con qualche riduzione di pena, i quindici agenti della polizia penitenziaria accusati di tortura, lesioni e minacce per aver preso a botte e umiliato un detenuto durante un trasferimento da una cella all’altra, nel carcere di San Gimignano nell’ottobre 2018. La Corte d’appello di Firenze, dopo quasi due ore di camera di consiglio, ha confermato la condanna per dieci poliziotti della penitenziaria, giudicati in primo grado con rito abbreviato con pene comprese tra 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi di reclusione ma ha ridotto la pena per altri cinque che avevano scelto il rito ordinario: la più severa a 4 anni e 2 mesi, la più mite a 3 anni e 8 mesi di reclusione. In primo grado, il tribunale di Siena aveva inflitto condanne comprese tra 5 anni e 10 mesi e 6 anni e 6 mesi. La Corte ha sostituito la sanzione accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea della durata di 5 anni e revocato le sanzioni accessorie della interdizione legale e della sospensione della responsabilità genitoriale. Alla fine, i giudici della seconda sezione hanno accolto le richieste del procuratore generale Ettore Squillace Greco. Che nel corso della sua requisitoria aveva detto: “È stata un’operazione con finalità dimostrative e deterrenti, non un semplice trasferimento di cella. È evidente che il detenuto - trascinato per il corridoio tanto da perdere i pantaloni e, in mutande, ancora trascinato fino ad una cella, dove è stato di nuovo picchiato e lì lasciata mezzo nudo senza neanche una coperta - abbia subito trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Dopo la lettura del dispositivo, gli imputati, insieme ai familiari ed amici, hanno abbandonato l’aula 31 del palazzo di giustizia. E solo una volta fuori, una parente ha battuto le mani verso il tribunale e un altro ha sussurrato “questa non è giustizia”. Una sentenza che divide gli animi. “È profondamente ingiusta, confidiamo che la suprema corte di Cassazione potrà porre rimedio - commenta l’avvocato Federico Bagattini uno dei difensori - Si sta discutendo di onesti lavoratori che da quattro anni sono sospesi dal servizio per un trasferimento da cella a cella di un detenuto in una situazione di degrado organizzativo, vista la mancanza di un direttore titolare e la cronica carenza di strumenti che caratterizzano l’intero sistema carcerario italiano”. A dare il via all’inchiesta fu una lettera recapitata a un’associazione che si occupa di diritti dei detenuti, la Yairaiha Onlus. I fatti risalgono all’11 ottobre 2018 quando nel corridoio largo due metri dell’istituto penitenziario si verificarono 4 minuti di caos ripresi dalle videocamere di sorveglianza, sfociati poi nella violenza sul recluso, un tunisino detenuto per droga. Il video proiettato in aula fu al centro delle indagini raccolte in un fascicolo di oltre 4.500 pagine. Udine. Sovraffollamento, nel carcere 190 detenuti, si sfiora il doppio della capienza prevista di Simone Narduzzi Messaggero Veneto, 4 aprile 2025 Cifra giudicata allarmante dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale Andrea Sandra: “Tutti gli spazi utili all’interno della struttura sono impiegati per l’ospitalità, celle di isolamento comprese”. Con il recente ingresso di tre nuove persone ristrette, il numero di detenuti nel carcere di via Spalato ha raggiunto la cifra record di 190 unità. Cifra allarmante, che ha spinto ancora una volta all’azione il garante dei diritti delle persone private della libertà personale Andrea Sandra: “Abbiamo quasi toccato il doppio della capienza - le sue parole, di protesta, espresse nella mattinata di giovedì 3 aprile fuori dalla casa circondariale udinese. Tutti gli spazi utili all’interno del carcere sono impiegati per l’ospitalità, celle di isolamento comprese. E queste sono ormai occupate anche da più di due persone. È davvero un miracolo che la situazione rimanga sotto controllo, ma non possiamo sempre affidarci al senso di responsabilità di chi lavora e di chi è detenuto”. Da qui i cartelli: “Basta sovraffollamento”, “carcere completo”, “amnistia e indulto”. Con richieste annesse: “Crediamo - il pensiero di Sandra - che ognuno debba fare la propria parte: il governo, con provvedimenti di amnistia e indulto che non possono più aspettare; la magistratura, che non può pensare di mandare per ogni arresto le persone in carcere; il giudice di cognizione, che ha la possibilità di stabilire misure alternative alla detenzione”. Parallelamente alla protesta, prosegue l’opera di ristrutturazione del carcere: “Nei prossimi mesi avremo una struttura rinnovata - ha commentato Franco Corleone, già garante di Udine e referente per la Società della ragione - ma questo si scontra con una condizione divenuta intollerabile. La verità è così banale: in qualsiasi sala vige una regola legata al numero massimo di persone ammissibili. Eppure, per il carcere, tale regola sembra non valere. Questo è contro la legge: per tale ragione chiediamo un intervento all’Azienda sanitaria perché faccia le sue valutazioni sulle condizioni igienico-sanitarie qui in via Spalato”. E infine: “Non si può aspettare che venga fuori la tragedia - la lamentela di Corleone - serve che ci si assuma le proprie responsabilità”. Avellino. La denuncia del Garante dei detenuti: “In carcere rubinetti a secco” di Katiuscia Guarino Il Mattino, 4 aprile 2025 “Manca l’acqua per dieci ore al giorno, dalle 18.00 non si può più andare in bagno”. “Nel carcere di Avellino manca l’acqua per dieci ore al giorno”. È la denuncia del garante provinciale per i diritti dei detenuti, Carlo Mele, che si appella a tutte le istituzioni per risolvere il disagio. A stretto giro arriva la risposta dell’amministratore unico dell’Alto Calore, Antonello Lenzi, che ha preso in carico la questione per cercare di risalire all’origine del problema. Il garante è preoccupato per la situazione che si registra nel penitenziario di Bellizzi Irpino. “Siamo ad aprile - dice Mele - e l’acqua viene tolta alle 6 del pomeriggio e viene rimessa alle 7 del mattino successivo. E questo accade ad aprile. Nei mesi di luglio e agosto cosa succederà? Il problema dell’acqua diventa un’emergenza gravissima, perché non si può stare in una comunità come quella carceraria senza acqua”. Mele sottolinea che i detenuti “dalle 18 non possono più andare in bagno a causa dei rubinetti a secco”. La situazione che descrive il garante provinciale per i diritti dei detenuti è davvero critica. “Se già ora l’acqua manca per dieci ore consecutive, con l’arrivo dell’estate potrebbe diventare insostenibile”, ribadisce. “Questa è una delle priorità su cui bisogna lavorare - riprende Mele -. Oltre alla casa circondariale di Avellino, la medesima problematica si registra nel penitenziario di Ariano Irpino”. Quindi, l’appello alle istituzioni, “a cominciare dall’Alto Calore per individuare la causa e trovare una soluzione in tempi rapidi”. L’amministratore della società di corso Europa si è immediatamente attivato non appena ricevuta la segnalazione. “Mi sono subito messo in contatto con l’amministrazione del carcere di Avellino, in particolare con il dottore Arcangelo Zarrella. Stiamo effettuando un approfondimento - spiega Lenzi - Allo stesso tempo, devo dire che il nostro responsabile del distretto sostiene di non aver mai ricevuto avvisi dalla casa circondariale rispetto a tale problematica, che non immaginavamo proseguisse anche dopo l’estate”. Il numero uno di Alto Calore, dunque, si è messo in moto per verificare quale sia l’origine di questa situazione. “Dobbiamo capire se si tratta di un problema interno alla struttura o deriva dal nostro sistema di alimentazione della casa circondariale. Può darsi che si renda necessario intervenire sulle vasche o che vada fatto un intervento di altro tipo. Approfondiremo per agire. Se c’è da aggredire questa situazione lo faremo, così come abbiamo fatto in estate sia per le strutture carcerarie sia per quelle sanitarie”. Lenzi non manca di evidenziare un aspetto: “Sarebbe opportuno che determinate cose venissero poste direttamente ai vertici dell’Alto Calore, al fine di un intervento più rapido. In ogni caso, la serietà del monito è tale che richiede la massima attenzione da parte nostra”, conclude l’amministrazione unico della società di corso Europa che si occupa della gestione del servizio idrico. Proprio nella casa circondariale di Avellino, i detenuti hanno incontrato gli studenti dell’istituto alberghiero “Manlio Rossi Doria” per raccontare le loro storie. Un confronto promosso nell’ambito dei progetti di giustizia riparativa del centro “Il lampione della cantonata”. Verrà realizzato anche un docufilm dal titolo “Un Altro mondo è possibile”, sempre nell’ambito del programma di attività del centro di giustizia riparativa. All’incontro in carcere, oltre a Carlo Mele, erano presenti l’avvocato Giovanna Perna (coordinatrice del centro di giustizia riparativa e promotrice dell’incontro dell’altro ieri) e Giuseppe Centomani, già Direttore del centro di giustizia minorile della Campania. Entrambi sono componenti della cabina di regia del centro “Il lampione della cantonata”, che sta portando avanti un’intensa azione sul territorio. Verona. Carcere, Zivelonghi: “Il lavoro è elemento fondante per il reinserimento nella società” veronasera.it, 4 aprile 2025 L’assessora alla sicurezza è intervenuta al convegno che si è tenuto nella sede del Banco Bpm per far conoscere alle imprese e alla società i vantaggi fiscali e contributivi per chi assume detenuti. Favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro, unendo così l’utile al giusto. È questa la sintesi dell’intervento dell’assessora alla sicurezza di Verona Stefania Zivelonghi al convegno su carcere e lavoro che si è tenuto ieri, 2 aprile, in città. L’evento è stato patrocinato dal Comune di Verona e si è tenuto nella sede del Banco Bpm di Via San Cosimo 10. Lo ha organizzato la onlus Ateneo Veneto con l’intenzione di mettere in contatto la realtà carceraria con il mondo delle imprese. Vi hanno partecipato autorevoli figure istituzionali ed è stata seguita da una tavola rotonda con i rappresentanti delle imprese. Per il Comune, l’iniziativa ha avuto un’importante valenza socio-culturale, poiché è stata occasione per far conoscere compiutamente al mondo delle imprese e alla società i vantaggi fiscali e contributivi per chi assume detenuti. Vantaggi che poi ricadono sull’intera società perché, come ha riferito ieri il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari, il 70% dei detenuti è stato in carcere più di una volta ma il 98% dei detenuti che lavora, finito il periodo di detenzione, non ricade in recidive. “Applicando queste percentuali alla casa circondariale di Montorio e nell’ipotesi che trovassimo un lavoro per tutti i detenuti, potremmo aver solo poco più del 30% degli attuali detenuti, dunque solo 180 su 300 posti disponibili, a fronte degli oltre 600 attuali - ha calcolato l’assessora Zivelonghi - Avremmo quindi risolto il problema del sovraffollamento e di molti altri temi connessi sui quali siamo fortemente impegnati”. “Accogliendo le istanze del territorio abbiamo raggruppato attorno ad un tavolo tecnico i principali soggetti che di carcere si occupano, quindi la direzione della casa circondariale, la camera penale, il garante dei detenuti e gli esponenti del terzo settore - ha aggiunto Zivelonghi - Occuparsi del carcere è una responsabilità anche della comunità, sia per motivi etici che per motivi utilitaristici. È nell’interesse della collettività che chi esce dal carcere lavori, piuttosto che torni a delinquere. Il lavoro è un elemento fondante per il reinserimento nella società dei detenuti. Un imprenditore che vantaggio potrebbe trarre dall’assunzione di un detenuto? A parte le agevolazioni normative, chi fa impresa crea valore, assumendo un detenuto e favorendone il reinserimento nel tessuto sociale, crea valore anche per la società. Ed è necessario e urgente creare e diffondere consapevolezza in questa direzione”. Prato. “Palazzo di giustizia non sicuro, chi entra si assume i suoi rischi” di Giorgio Bernardini e Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 4 aprile 2025 Il procuratore capo di Prato scrive al sindaco e al ministro sulle condizioni drammatiche del tribunale nel giorno della visita della commissione antimafia: “In questo stato va chiuso”. E spunta il cartello all’ingresso. “Il palazzo di giustizia non è a norma. O si interviene subito con i lavori necessari o è necessario chiuderlo e cercare un’altra sede”. La lettera inviata al ministro della giustizia, al sindaco di Prato, al Provveditore alle opere pubbliche, porta la firma del procuratore di Prato Luca Tescaroli e della presidente del tribunale facente funzioni Lucia Schiaretti e suona come un vero e proprio ultimatum a fronte di una situazione ogni giorno sempre più drammatica, oltre che incompatibile con un luogo destinato all’amministrazione della giustizia. Così ieri mattina, 3 aprile, ben pochi dei frequentatori della struttura di piazzale Falcone e Borsellino, hanno sgranato gli occhi di fronte a quello che il cartello annunciava: “Si avvisa l’utenza che il Palazzo di Giustizia non è sicuro sotto vari profili e chi vi accede si assume conseguentemente tutti i rischi”. Una comunicazione sintetica, priva di firma o timbro ufficiale, che arriva dopo anni di appelli e discussioni. Molte interrogazioni, tante promesse, qualche passerella e un disagio che cresce ogni giorno. Un secondo avviso, collocato al terzo piano, proprio quello che ospita la Procura, segnala addirittura un “divieto di accesso per pericolo di crollo e effettuazione di lavori di contenimento di detto pericolo”. Poco dopo l’affissione, il cartello all’ingresso è stato invece rimosso, ma la sua comparsa ha alimentato interrogativi sulla sicurezza degli ambienti e sulle eventuali ripercussioni sulle attività giudiziarie. Alcuni legali hanno ipotizzato la richiesta di rinvio delle udienze per motivi di sicurezza, chiedendo chiarimenti in merito a eventuali ordini di servizio ufficiali. Del resto il campionario delle difficoltà è variegato e si può toccare con mano ad ogni passo: infiltrazioni d’acqua, quattro ascensori sempre fuori uso, arredi degradati, crepe, bagni spesso inutilizzabili e persino topi nei controsoffitti che nei scorsi mesi hanno compromesso l’alimentazione elettrica. Dopo quell’episodio il procuratore capo Luca Tescaroli, arrivato la scorsa estate a Prato, aveva aperto un’inchiesta sulle condizioni della struttura, valutando anche la possibilità di procedere a un sequestro degli stessi uffici in cui i magistrati portano avanti le indagini. Numerosi sopralluoghi sono stati effettuati dai tecnici della Asl e dai vigili del fuoco. Il 14 marzo, giorno dell’alluvione, nell’archivio l’acqua era arrivata ad un’altezza di 4 centimetri. Il 19 e il 20 marzo c’è stato un nuovo sopralluogo dei vigili del fuoco per verificare il cedimento del sistema di ancoraggio delle controsoffittature, con distacchi delle doghe metalliche. Alcuni controsoffitti in cartongesso sono stati rimossi perché danneggiati dalle infiltrazioni di acqua. I vigili del fuoco negli archivi hanno rilevato “carenza di impermeabilizzazione e carenza di sistemi di raccolta delle acque piovane”. Inoltre le griglie di raccolta delle acque erano completamente occluse da fanghi, foglie e rifiuti. Problemi, hanno spiegato i vigili del fuoco, “presenti da tempo e il mancato intervento comporterà un progressivo ammaloramento del cemento armato fino a compromettere la stabilità strutturale. L’acqua sui componenti elettrici inoltre aumenta il rischio di incendi vista anche la presenza di ingenti quantità di materiale cartaceo, dai faldoni alle tessere elettorali”. Chiusi quindi gli ambienti che presentano rischio di caduta delle doghe metalliche, chiuso l’archivio e interdetta una porzione dell’autorimessa dove vengono parcheggiate le moto. Nel frattempo, all’esterno dell’edificio proseguono - seppur con estrema lentezza - i lavori per la riorganizzazione degli spazi, con la costruzione di una terza scala di sicurezza e l’installazione di una postazione per i controlli con metal detector. Intanto oggi la commissione parlamentare antimafia farà tappa per la prima volta a Prato. Torino. “Perché comincio dal Ferrante Aporti” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 4 aprile 2025 Per la sua prima uscita pubblica il nuovo Rettore Maggiore dei Salesiani, don Fabio Attard, ha scelto il carcere minorile di Torino Ferrante Aporti. Giovedì 3 aprile la visita ai ragazzi reclusi in corso Unione Sovietica. Dietro alla delinquenza minorile i Salesiani leggono la sofferenza dei giovani poveri e abbandonati a se stessi, messaggio forte alla politica e al sistema della Giustizia. “Appassionati per Gesù Cristo, dedicati ai giovani. Per un vissuto fedele e profetico della nostra vocazione salesiana”. È il tema del 29° Capitolo generale dei Salesiani che si sta celebrando nella Casa Madre di Valdocco: i 220 padri capitolari, che rappresentano le 136 nazioni dove sono presenti i figli di don Bosco, mercoledì 25 marzo hanno eletto il nuovo Rettor Maggiore don Fabio Attard che, in sintonia con il Giubileo della Speranza e con la Strenna 2025 “Ancorati alla Speranza, pellegrini con i giovani”, ha deciso di incontrare “per primi” i giovani “discoli e pericolanti” come li chiamava don Bosco “e che oggi andrebbe a cercare”. Nella mattinata di giovedì 3 aprile don Fabio si reca all’Istituto penale minorile di Torino “Ferrante Aporti” a trovare i ragazzi ristretti, per la maggior parte stranieri, accompagnato dal confratello, il cappellano don Silvano Oni. “È qui che è nato il sistema preventivo di don Bosco”, spiega don Attard, “e da Torino dove è nato il carisma salesiano vogliamo continuare a stare accanto ai giovani che hanno avuto di meno perché, come ci ha raccomandato il nostro fondatore ‘in ogni giovane, anche il più disgraziato c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto’”. È proprio il santo dei giovani, ricorda il Rettore Maggiore, che nelle sue “Memorie dell’oratorio” racconta come ha capito che, nella Torino nell’800 con tante similitudini con le periferie del mondo di oggi, era necessario dare speranza ai giovani più fragili e più poveri. “Vedere turbe di giovanetti, sull’età dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire” scrive don Bosco. “Chi sa - diceva tra me - se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o al meno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere? Comunicai questo pensiero a don Cafasso (il suo padre spirituale, patrono dei carcerati, confessore dei condannati a morte, ndr) e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo”. Siamo nel 1855 alla “Generala” (così si chiamava il carcere minorile di Torino oggi “Ferrante Aporti”): qui don Bosco visita i ragazzi detenuti ed è da quei pomeriggi trascorsi a giocare e a chiacchierare con loro che inventa il sistema preventivo, come ricorda una targa a lui dedicata nei corridoi dell’Istituto. Per questo da allora i cappellani del “Ferrante” sono salesiani e cercano, sulle orme di don Bosco come accade in tutti gli oratori del mondo di amare i ragazzi: “si otterrà di più con uno sguardo di carità, con una parola di incoraggiamento che con molti rimproveri”, scrive ancora il santo. Del resto, conclude don Attard, “papa Francesco aprendo la seconda Porta Santa dopo la Basilica di San Pietro nel carcere di Rebibbia ci ha indicato dove dobbiamo portare speranza e consolazione”. Milano. L’economia circolare arriva dietro le sbarre di Ilaria Dioguardi vita.it, 4 aprile 2025 Il progetto di riqualificazione delle carceri “Second Chance”, coordinato dal Comune di Milano e Regusto, gestisce il recupero e la distribuzione di prodotti e arredi a rischio spreco. I beneficiari sono quattro istituti di pena. Elisabetta Palù, direttrice reggente di San Vittore: “Queste donazioni al carcere diventano uno strumento fondamentale per rendere la società più inclusiva e considerare la detenzione non un’esperienza di esclusione, di emarginazione, ma un’opportunità di cambiamento”. Quarantatré tonnellate di prodotti e arredi a rischio spreco, per un valore economico stimato di 135mila euro e un impatto ambientale positivo quantificabile in 25 tonnellate di CO2 evitata. Sono i numeri della prima fase del progetto di riqualificazione delle carceri “Second Chance”, coordinato dal Comune di Milano e Regusto, prima piattaforma Esg blockchain per la lotta allo spreco e la certificazione dell’impatto positivo con indici sociali, ambientali ed economici. Presentato a Palazzo Marino, il progetto di economia civile e circolare permette il recupero e la distribuzione di prodotti e arredi che rischiano di essere gettati via, donati da aziende del territorio con un impatto a livello sociale e ambientale. Gli istituti di pena beneficiari delle donazioni sono: San Vittore, Beccaria, Bollate e Opera. Uno strumento per vivere con dignità - “Second chance” è importante perché ci consente di migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere”, dice Elisabetta Palù, direttrice reggente di San Vittore. “L’amministrazione penitenziaria non ha una disponibilità di fondi tale da poter coprire tutto il fabbisogno. Il carcere di San Vittore è un carcere molto vecchio, anche da un punto di vista strutturale, quindi ha continuamente bisogno di interventi di manutenzione. Questo progetto di riciclo di economia circolare consente di non sprecare le risorse di aziende, che magari devono cedere dei loro beni”. Palù continua dicendo che “queste donazioni al carcere diventano uno strumento fondamentale per rendere il periodo della detenzione un periodo vissuto con dignità, in condizioni tali da poter contribuire ad attenuare dei climi di tensione, di conflittualità, che riscontriamo all’interno dell’istituto. Secondo me, la cosa più importante è che questo progetto dà un messaggio fondamentale rispetto a quello che è il rapporto tra il carcere e il territorio. La donazione al carcere diventa uno strumento per rendere la società più inclusiva e considerare la detenzione non un’esperienza di esclusione, di emarginazione, ma un’opportunità di cambiamento”. Un progetto in crescita - Le aziende che contribuiscono alle donazioni di prodotti sono oggi Tecnomat, Saipem, L’Oréal Italia e Gruppo Una. Il progetto invita aziende virtuose ad entrare nel network di donazione, recupero e riutilizzo di beni ancora utili. La seconda fase dell’iniziativa prevede un’estensione della rete di aziende ed enti a supporto del recupero e ridistribuzione dei prodotti e l’estensione del progetto ad altre strutture detentive della provincia di Milano e in altre regioni italiane. Una rete di 700 aziende e 1.500 enti non profit - “Quest’iniziativa nasce dall’attività che facciamo tutti i giorni attraverso Regusto. Noi colleghiamo le aziende che hanno prodotti a rischio spreco con enti non profit che possono recuperarli”, dice Paolo Rellini, cofondatore Regusto. “Si incontrano la domanda e l’offerta di prodotti a rischio spreco attraverso la tecnologia, una piattaforma che attraverso anche la blockchain (che è stata applicata per la prima volta in questo ambito da noi), dà la possibilità di di recuperare beni che sarebbero sprecati o smaltiti per dare loro nuova vita, sia in ambito alimentare che non alimentare”. Da questa attività, che collega un ecosistema di 700 aziende food e non food con 1500 enti non profit a livello nazionale, “è emersa l’opportunità di fornire del supporto agli istituti di pena, grazie anche all’associazione Aiutility, non profit che svolge il ruolo di raccolta e distribuzione degli arredi”, continua Rellini. “Sono stati donati arredi da ufficio, sedie, tavoli, armadi che possono essere utilizzati all’interno delle strutture detentive, e anche letti e materassi da parte di una catena di hotel. Inoltre, prodotti sanitari che sono utilizzati per riqualificare bagni e servizi delle strutture”. Impatti sociali, economici e ambientali - “In questo processo c’è un impatto sociale importante. La donazione dei beni rappresenta una risorsa per le strutture in termini di miglioramento della qualità dell’ambiente carcerario e della quotidianità delle persone detenute”, continua Rellini. Poi c’è quello ambientale, “non si smaltiscono prodotti. con una riduzione delle emissioni di CO2 e costi di stoccaggio e smaltimento risparmiati per le imprese ma anche per la Pubblica amministrazione, tutti parametri Esg calcolati secondo standard di riferimento internazionali grazie a Regusto”. Milano. Come si vive a San Vittore: testimonianze e fotografie milanotoday.it, 4 aprile 2025 Le testimonianze e le fotografie di San Vittore in un libro che sarà presentato in Fabbrica del Vapore. Un libro e una mostra fotografica apriranno lo sguardo sul carcere di San Vittore. Succederà alla presentazione organizzata in Fabbrica del Vapore per venerdì 4 aprile alle 17.30, in seguito a quella avvenuta giovedì 3 aprile proprio all’interno del penitenziario. Il libro (“I volti della povertà in carcere”) è stato scritto da Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero per Edizioni Dehoniane (Edb). Le fotografie in bianco e nero presenti nel volume (10 delle quali saranno esposte durante la presentazione) accompagnano le testimonianze raccolte tra detenuti e operatori. Le storie dei detenuti e degli operatori - Un’immersione diretta in una realtà invisibile, fatta di fragilità sociali, mancanza di risorse, relazioni interrotte e emarginazione. Le storie dei condannati e degli operatori, raccolte da Ruggiero, si riflettono nelle fotografie di Pernaselci, che ne catturano gli oggetti e i luoghi mostrando la “povertà sociale” a cui ci si riferisce nel titolo. Tra le tante vicende, quella di Berrich, infermiera tunisina arrivata in Italia per scappare dal primo matrimonio ora condannata per minacce dopo aver scoperto il tradimento del compagno, e Roberto, ragazzo di 23 anni di cui quattro già passati in carcere per reati commessi sotto l’effetto di sostanze che si prepara a tornare in libertà e a seguire la sua passione per la musica. Chi ci sarà alla presentazione del libro - La prefazione è a cura del cardinale di Bologna Matteo Maria Zuppi. Il volume si apre con la testimonianza dell’ex direttore di San Vittore Giacinto Siciliano. Alla presentazione interverranno gli autori e poi Alessandro Giungi (consigliere comunale e vice presidente della sottocommissione carceri a Palazzo Marino), Adolfo Ceretti (ordinario di criminologia in Bicocca), Giacinto Siciliano (provveditore Lazio Abruzzo Molise, già direttore di San Vittore), Filippo Giordano (docente di economia aziendale alla Lumsa) e l’attore Gianni Lillo. Milano. “Dropcity”, una riflessione sensibile sugli arredi delle carceri del mondo di Alessia Musillo elledecor.com, 4 aprile 2025 Lo stato contemporaneo della detenzione ha a che fare con il design e con l’architettura più di quanto immaginiamo. “La giornata vissuta in carcere non sarà di certo rose e fiori o comunque di felicità, quindi, come la maggior parte dei detenuti, cerco di farmi scivolare le ore di dosso, tenendomi spesso impegnato nei chilometri di lettere che invio a mia moglie, una chiacchiera e un caffè qua e là con le persone con cui sono più legato, tra una partita a biliardino e un’altra a carte, tutto questo quando riesco ad avere del tempo libero, perché anche il carcere richiede diverse mansioni, in cui do precedenza all’arte culinaria”. Emanuel Mingarelli è uno dei detenuti del carcere di Frosinone. Insieme ad altri ha contribuito alla stesura di Letteratura d’Evasione, antologia a cura di Ivan Talarico e Federica Graziani, edita dal Saggiatore nel 2022, frutto di un laboratorio di scrittura creativa dal taglio sociale. Scrivere per liberarsi. Prison Times - Spatial Dynamics of Penal Environments è il progetto che, al Fuorisalone 2025, intavola un dialogo intorno alla domanda: “che cosa c’è dentro le carceri?”. Ecco. A dirlo alla città intera - o meglio, alla fetta di Milano che scansa le operazioni di marketing preferendo quelle culturali - è la mostra, autoprodotta da Andrea Caputo, custodita in cinque dei Magazzini Raccordati a pochi passi dalla Stazione Centrale aperti in occasione della Milano Design Week. Indirizzo: via Sammartini, 40. Del resto, essendo l’incarcerazione la prima risposta all’illegalità comune a tutti i Paesi, quello che si vede nel percorso espositivo è il riassunto degli arredi che stanno oltre le sbarre di molte delle carceri del mondo. Nella mostra ne contiamo circa duecento, collezionati dai curatori contattando direttamente le aziende che li producono. E un segno salta subito all’occhio: non compare mai il nome di chi li ha disegnati. È come se l’arredo non avesse né un padre né una madre. Su queste tracce, come a voler assecondare il minimalismo delle cose, l’allestimento di Dropcity si riduce all’osso. Eppure quegli arredi sono così diversi fra loro. Le ragioni sono molte. La prima - forse la più intuibile - è che vengono prodotti in zone differenti del pianeta; la seconda è che ogni prigione ha i suoi requisiti, e alcuni armadi sono senza aste per evitare i suicidi. Allora com’è la giornata tipo di un detenuto? Adesso che abbiamo una visione, sappiamo che non è tutto grigio o tutto di legno, magari possiamo tornare alle pagine dell’antologia che abbiamo ricordato all’inizio, dando un (nuovo) senso al pensiero di Stefano Palma (detenuto del carcere di Frosinone), che nel laboratorio ha scritto: “Ogni giornata scorre stranamente con una velocità inaspettata. Le ore vengono misurate in via approssimata dall’inclinazione solare, poi confermate da eventi rituali collegati al vitto, agli adempimenti tecnici, didattici o terapeutici di gran parte dei residenti”. Sedersi a tavola è un rituale, lavarsi le mani è un rituale, sdraiarsi sul letto è un rituale. Tutte attività che si fanno con le cose. E il potere degli oggetti può aiutare a scandire il ritmo del tempo in silenzio. Dunque, lo stato contemporaneo della detenzione ha a che fare con il design più di quanto immaginiamo. E poi ci sono i colori. Nonostante un letto singolo comunichi un grande senso di solitudine e una panca (con le maniglie per legare) sia un pochino terrificante, la mostra è punteggiata da note che non appartengono all’immaginario cupo delle carceri. Ci sono il blu, il rosa pastello e addirittura il giallo canarino. Le porte - che sorpresa - spaziano tutte le note dell’arcobaleno, anche le nuance dal porpora al vinaccia. Siamo troppo razionali per lasciarci andare, per dire che una seduta sia bella o sia brutta. Quanto è difficile immaginare che ci possano essere note dolci in contesti amari? Oppure è più semplice di così: gli oggetti cambiano di significato a seconda degli spazi che abitano. Sul tavolo da pranzo dell’ufficio, una bento box è un contenitore di uso quotidiano che spezza la nostra fame. Sul tavolo da pranzo di un carcere, invece, lo stesso portavivande è un dosatore di calorie e allo stesso tempo un orologio che segna mezzogiorno quando il polso deve restare nudo. Il profilo delle cose incide più di quanto crediamo nel contesto penale. La ricerca si è declinata anche in un libro (omonimo), Prison Times - Spatial Dynamics of Penal Environments appunto, che ha studiato circa seicento arredi corredando foto e disegni in un unico volume presto in vendita. Adolescence, i creatori: “Siamo padri anche noi, la serie nasce dai nostri timori per i figli” di Valentina Ariete La Stampa, 4 aprile 2025 Il racconto di come è nata la fiction del momento nelle parole di Stephen Graham, attore, co-sceneggiatore e produttore, Philip Barantini, regista, e Jack Thorne, sceneggiatore. Adolescence è la serie del momento. E, visti i temi trattati, probabilmente sarà una delle più importanti dell’anno. Alla notizia delle ennesime ragazze uccise in Italia da coetanei perché li avevano rifiutati, è impossibile non farsi domande su cosa si possa fare per educare i giovani uomini al rispetto delle donne. È proprio ciò che hanno fatto gli autori della miniserie Netflix: Stephen Graham, attore nella parte struggente del padre del ragazzo e anche co-sceneggiatore e produttore, Philip Barantini, regista, e Jack Thorne, sceneggiatore. Hanno tutti dei figli e si sono detti: “Sono preoccupato per il loro futuro. Cosa posso fare?”. Scopriamo come hanno dato forma a questa urgenza da padri in apprensione in Adolescence. Da dove siete partiti? S.G.: “Uno dei miei obiettivi principali è stato domandarmi cosa stia accadendo ai giovani uomini oggi. Quali sono le pressioni che subiscono dai loro coetanei, da internet e dai social media? Il peso che viene da tutte queste cose è difficile da affrontare per i ragazzi di questo paese come in tutto il mondo”. A chi vi siete ispirati? S.G.: “Ho basato Eddie, il padre di Jamie, il ragazzo che uccide la sua coetanea, su diversi uomini della classe operaia che ho conosciuto. Mio zio, che si chiama proprio Eddie, e gli amici di mio padre. Volevo che fosse una persona qualunque, che ama la sua famiglia e sgobba parecchio per mantenerla, spesso senza rendersi conto che così la danneggia. Esce alle sette di mattina e torna alle sei di sera, nel weekend va al pub e al parco. È un brav’uomo, ma non ha gli strumenti per esprimere i suoi sentimenti, perché non gliel’hanno mai insegnato. Il personaggio della psicologa invece è un tributo a mia madre: ha molti elementi in comune con lei. Era un’assistente sociale con lo stesso livello di cura e passione per il suo lavoro”. Ha pensato a suo padre? S.G.: “No, perché con lui ho potuto parlare di tutto. Eravamo molto uniti. Nella nostra storia invece padre e figlio sono disconnessi e il padre non sa come colmare questo gap”. Eddie in qualche modo non è stato un buon esempio per Jamie? S.G.: “Eddie, un idraulico, si dice di aver provato di tutto con suo figlio: lo ha portato a vedere le partite di calcio, la boxe. Ma non è scattata la scintilla. Il ragazzo non ha interesse per l’impresa di famiglia. Così, quando gli chiede un computer, glielo compra. Non ha però idea di che cosa ci faccia mentre è da solo nella sua stanza. C’è qualche genitore che lo sappia davvero? Quando parla con la psicologa esce fuori che anche suo padre aveva scatti d’ira, come quando ha distrutto il capanno. In qualche modo Eddie ne è stato contagiato e, inconsciamente, deve averla passata a Jamie”. I quattro episodi sono girati in piano sequenza: come ci siete riusciti? P.B.: “In sostanza abbiamo premuto rec e non ci siamo fermati fino alla conclusione dell’episodio. Ma è stato molto più complicato di quanto sembri. Ci sono voluti mesi di preparazione e settimane di prove. È stato un lavoro collettivo studiato al millimetro: sceneggiatori, scenografi e operatori hanno dovuto calcolare precisamente dove si sarebbe posizionata la camera e da quale angolo avrebbe ripreso. Il direttore della fotografia, Matt Lewis, ha fatto un piano dettagliato di ogni movimento. Il production designer, Adam Tomlinson, ha costruito dei modellini, grazie a cui abbiamo capito come muovere gli attori nello spazio. Quando finalmente siamo arrivati sul set, sapevamo che niente era stato lasciato al caso. È stata un’esperienza simile al teatro, in cui però non si dice mai: stop!”. Cosa avete capito dei ragazzi di oggi grazie ad Adolescence? P.B.: “Ho una figlia di 7 anni e alcune delle cose che ho scoperto lavorando alla serie mi hanno lasciato terrorizzato per il suo futuro. È stato come aprire una lattina piena di vermi. Quando ero piccolo io, se avevi un problema con qualcuno te la vedevi con lui al parco. Poi tornavi a casa e te ne dimenticavi. Oggi, con i social media, è impossibile”. J.T.: “Anche io ho un figlio, ha nove anni. Per noi il tema centrale è la rabbia maschile e l’alienazione, in particolare quella dei figli della classe operaia. E come i social media la alimentano: li stanno facendo sentire isolati, danno loro ragioni per odiare e insegnano che manipolare le ragazze è il modo per conquistarle. Siamo andati su questi siti di “redpillati”, non sapevamo cosa fossero: non ci vuole molto per capire che sono molto problematici”. Come avete trovato Owen Cooper, l’attore tredicenne? È un vero talento. J.T.: “Abbiamo fatto provini a centinaia di bambini. Owen è davvero bravissimo, ma è stato determinante anche il suo aspetto. La sua fisicità e l’aria di innocenza hanno contribuito a sceglierlo. La sua faccia fa pensare: com’è possibile che questo bambino possa essere un assassino?”. S.G.: “Non volevamo mostrare una famiglia problematica: gli spettatori dovevano pensare, guardandola, che potrebbe capitare a loro”. L’educazione sentimentale a scuola non è ideologia ma necessità di Loris Antonelli* Il Domani, 4 aprile 2025 In questi ultimi anni abbiamo misurato come in Italia ciò che poteva diventare legge e consuetudine, parte del programma educativo di ogni scuola formando gli insegnanti affinché fosse presupposto di ogni agire educativo, sia diventato una questione ideologica, verso la quale essere pro o contro. Raccontiamo in questi giorni altre due donne barbaramente uccise, Sara e Ilaria, sgomenti di come sia possibile. Giornali e trasmissioni tv in questi giorni dedicano molto spazio all’educazione affettiva e sentimentale nelle scuole, troppo spesso introducendo al tema attraverso le storie di femminicidi più dolorose e cruente. Per legittimare l’educazione sentimentale e alla parità di genere dobbiamo per forza mettere le mani nella pancia delle persone? Negli anni ‘90 nelle scuole stava diventando consuetudine accogliere progetti di educazione socio affettiva e sessuale. Le mie colleghe avevano pensato un percorso triennale che accompagnava gradualmente l’ingresso nella pubertà dei preadolescenti, aiutandoli a riconoscere i cambiamenti della crescita e le emozioni che ne derivano e che regolano le relazioni fra pari, fino in terza media dove il focus era l’educazione alla sessualità, gestita insieme a una ginecologa, nel rispetto dei tempi di crescita di ognuna e ognuno. In questi ultimi anni abbiamo misurato come in Italia ciò che poteva diventare legge e consuetudine, parte del programma educativo di ogni scuola formando gli insegnanti affinché fosse presupposto di ogni agire educativo, sia diventato una questione ideologica, verso la quale essere pro o contro, millantando il rischio di indottrinamento su la teoria del gender ogni volta che si parla di educazione sentimentale e dintorni, mentre quasi tutti i paesi europei hanno invece adottato l’educazione sessuale nei loro programmi scolastici. Ostilità ideologica - A febbraio il Comune di Roma ha emesso un bando di gara per finanziare attività di educazione affettiva e alle relazioni, contrasto della violenza di genere e alle discriminazioni. In molte scuole la proposta ha raccolto un’accesa ostilità da parte di una importante percentuale di insegnanti, forse ideologicamente prevenuti, e magari convinti che i professionisti che lavorano su queste tematiche avrebbero messo in scena il festival della fluidità. Per fortuna questa ostilità non ha impedito a un centinaio di scuole di partecipare al bando di gara, convinte che ce ne sia un enorme bisogno. Negli stessi giorni a Milano il collettivo di gestione del liceo Leonardo si è visto rifiutare il permesso per un incontro sulla prevenzione e il contrasto della violenza di genere, per la grottesca motivazione di “mancanza di contraddittorio”: non è chiaro se la voce che mancava fosse quella di un abusante. Mentre sempre a Roma, al contrario, al Liceo Montale, monta la polemica su un progetto che dovrebbe svolgere l’associazione Pioneer, e i genitori dichiarano: “Si presentano come un generico corso di educazione affettiva per poi parlare di corpo e identità in un’ottica anti-lgbt, da negazionisti del femminicidio e anti-aborto”. Di queste situazioni ne ricorrono continuamente, nonostante i numeri su femminicidi e violenza di genere non accennino a diminuire, e che questi fenomeni si manifestino già in tenerissima età, dimostrando che abbiamo un enorme problema di rispetto reciproco, di accettazione dell’altro/a e dei suoi sentimenti, di capacità di stare nelle relazioni facendo nostra la cultura del consenso. Il ruolo della scuola - Altrettanti sono gli episodi di violenza fra pari, adolescenti e giovani, spesso coltello alla mano. Sono violenze diverse, ma tutte nate nella stessa difficoltà di vivere relazioni giuste ed equilibrate, di attraversare le emozioni nel pensiero e nella parola prima dell’agito tragico. Non mi addentro su tutto ciò che la scuola potrebbe già fare a partire dalla primaria, perché non è il campo in cui sono più competente, ma sulla secondaria di primo grado posso parlare dopo 25 anni di attività. L’educazione all’affettività è condotta da persone formate in ambito psicologico ed educativo nella quasi totalità dei casi, e aiuta gli adolescenti a fare i conti con le loro emozioni, le paure, i pregiudizi, che troppo spesso comportano la difficoltà di stare nelle relazioni fra pari, anche amicali, perché attraversati da sentimenti molto intensi che non comprendono o che li spaventano, e che alimentano gelosie, conflittualità, e sempre di più una forma di attaccamento molto possessivo in cui c’è un forte bisogno di dipendenza dall’altr*. Di pari passo gli insegnanti dovrebbero utilizzare una comunicazione non violenta e scevra da stereotipi di genere. Il mondo dei desideri, delle pulsioni, degli affetti, diventa totalizzante dalla pubertà in poi, anche per il bisogno di appartenere al gruppo, mentre, da spugne identitarie quali soprattutto fra gli 11-12 e i 16-17 anni, cercano di capire “a quale modello somigliare”, e spesso non trovano spazio di relazione, dialogo e comprensione nelle famiglie, perché tutti questi turbamenti imbarazzano i genitori quanto i figli. Per questo la scuola è il contesto privilegiato per trattare una dimensione imprescindibile e inevitabile come la sessualità, che tutte e tutti devono loro malgrado scoprire negli anni più disordinati, fragili e vivaci della loro vita. Si può, anzi si deve, parlarne già in pre-adolescenza, per sfatare i pericolosi tabù che finché restano “non detti” o non compresi spingono ragazze e ragazzi a cercare altrove, a nutrirsi delle immagini distorte e violente che il web rimanda, a scambiare la pornografia per educazione sessuale. La sfera del proibito - Educare alle relazioni vuol dire educare al rispetto reciproco, dare voce ai propri sentimenti potendoli riconoscere e dunque nominare, come alle proprie ansie e alle fantasie di fallimento, prima che diventino fuga, chiusura, o agito violento, prevaricazione o rifiuto. Vuol dire saper convivere con le separazioni e i rifiuti. Quando la sessualità non è nominabile, o non può essere curiosità che genera domande a cui persone competenti possono rispondere, viene relegata nella sfera del proibito, del trasgressivo, della scoperta che devi fare da solo o da sola, ed è lì che i giovanissimi costruiscono un immaginario spesso lontano dalla realtà, combattuti dalla tenerezza travolgente dei primi amori e l’idea che il mondo si aspetti che sappiano fare le cose da grandi, che sappiano fare sesso, che lo abbiano già fatto prima e meglio di tutti gli amici che hanno intorno, ognuno intento a far credere esattamente questo. Il proibito diventa volgare, e può diventare violento, o anche solo essere fonte di ansia, di angoscia, tristezza, di insuperabili timidezze. “Qual è la prima parola che vi viene in mente se vi dico la parola sesso? È un brain storming, non ci sono risposte giuste, non c’è censura, perché le parole sono volgari solo se le nominate affinché lo siano, diversamente sono solo parole, e ci aiutano a capire di cosa stiamo parlando”. Iniziamo così con le classi, quasi sempre, e si apre un mondo fatto soprattutto di tenerezza. *Esperto dei processi educativi. Responsabile educativo ÀP - Antimafia Pop Academy Migranti. Pochi diritti, tanti costi: in Albania il nuovo Cpr di Paolo Lambruschi Avvenire, 4 aprile 2025 I container del Centro migranti di Gjader sono come nuovi, inutilizzati da mesi, con le gabbie alle finestre. Attendono a giorni i nuovi ospiti dall’Italia, in arrivo forse da domenica. Saranno primi ospiti prelevati dai centri di permanenza per il rimpatrio, i Cpr, in attesa di espulsione dall’Italia e dovrebbero sbarcare nel vicino porto di Shengjin, dove un resort sul mare ospita le forze dell’ordine italiane. Da tempo sono stati richiamati alcuni dipendenti dei Medihospes, la coop sociale che ha vinto la gara da 133 milioni messa al bando dalla Prefettura di Roma per gestire i centri di Gjader, destinato alla detenzione e di Shengjinn, dove avviene l’identificazione e in questa fase non serve. Sulla strada da Gjasr ad Alessio gira un cellulare della polizia italiana, La capienza iniziale di 49 posti arriverà a 140. Poco chiarii motivi del trasferimento, i Cpr italiani non sono sovraffollati. Il centro sorge in una zona semidesertica del centro nord, area a prevalenza cattolica accanto a un villaggio rurale, in fondo alla vecchia pista d’atterraggio dell’aviazione comunista di Enver Hoxha, adagiato contro colline piene di tunnel segreti che il paranoico dittatore comunista - ossessionato da possibili invasioni da Italia, Turchia e Jugoslavia - aveva bucato per nasconderci gli aerei. Che sono ancora lì memori di una dittatura stalinista che aveva ridotto il piccolo paese delle aquile in miseria per edificare bunker ovunque. Dato l’interesse dell’Ue e dei governi dei 27 per quello che pare un esperimento sui diritti dei migranti, in questo angolo di 900 si gioca una partita importante in Europa. Il protocollo siglato tra il governo di Giorgia Meloni e l’esecutivo albanese socialista di Edi Rama prevede infatti che nel centro vengano rinchiusi i profughi salvati in mare e provenienti da paesi cosiddetti sicuri. Quindi inattesa di rimpatrio. Ma, hanno sottolineato alcuni giuristi, l’Italia ha realizzato a Gjader anche un centro di detenzione e un Cpr peri migranti in attesa di espulsione non previsti nel protocollo. Inoltre nessuno verrà espulso dall’Albania, ma dovrà tornare in Italia. Convitato di pietra in Albania è la Corte europea di giustizia che a fine maggio dovrà dare una definizione di Paesi d’origine sicuri, tema che ha portato alla bocciatura dei trasferimenti da parte dei giudici italiani e infinite polemiche. Ma con la novità del Cpr albanese, come ammettono i parlamentari di opposizione che arriveranno a staffetta per entrare nel centro e verificare le condizioni dei detenuti, il governo si muove in una zona grigia decisa per decreto. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha spiegato che il centro albanese è aggiuntivo a quelli italiani, che dovrebbero aumentare di cinque unità entro fine legislatura e che il trasferimento dei migranti a Gjader avverrà “a invarianza di spesa” con le procedure seguite per i trasferimenti dei migranti tra i centri in territorio italiano. Piantedosi ha sottolineato come la distanza tra un centro italiano e le strutture albanesi sia analoga a quella da Macomer, in Sardegna, a Milano. I dati riportati da Action Aid nel rapporto “Trattenuti” dimostrano che il centro di Macomer, insieme a quello di Palazzo San Gervasio in Basilicata, i più decentrati e per le cui esigenze è necessario movimentare personale da altre questure, registravano nel 2023 una spesa relativa di 1.450.000 Euro per vitto e alloggio delle forze dell’ordine a fronte di una media di gestione di 1.410.000 euro. Quindi costano più le forze dell’ordine che gestire la struttura. Sui costi complessivi dei centri in Albania da tempo è guerra di cifre, con il governo che prevede di spendere circa 670 milioni in 5 anni, pur ammettendo che potrebbe aumentare. Opposizioni e Ong stimano che si arrivi a un miliardo. Senza contare le condizioni di salute e i maltrattamenti dei detenuti, denunciati dopo una visita di un anno fa in quattro centri italiani dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa dei detenuti. Ma è l’utilità dei Cpr a far discutere. Secondo la Fondazione Migrantes, nel 2023 su oltre 28.000 stranieri colpiti da provvedimento di espulsione, solo 2.987, il 10%, sono stati rimpatriati da questi centri. L’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Giancarlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes, ha chiesto più volte “se sia una soluzione all’irregolarità del nostro Paese, dove si stimano tra i 300 e i 400 mila irregolari, quello dei mille posti totali dei centri in Albania. La preoccupazione è anche per lo spreco di risorse che potrebbero essere usate per un’integrazione reale e sicura. Si era detto che la strada migliore fossero i rimpatri assistiti, piuttosto che rinchiudere una persona per 18 mesi che poi torna fuori. Perché i150% dei reclusi nei Cpr torna indietro e che siano in Italia o in Albania conta poco”. “L’impatto occupazionale sarà debole - conferma il giovane parroco di Jader e altri villaggi don Emilian Paloka - e i ragazzi da qui se ne vanno, mancano opportunità in questa terra che deve recuperare speranza”. Ci sono perplessità dato l’arrivo delle risorse per i centri per il rischio di corruzione - diffusa in Albania pur con qualche passo avanti nella classifica di Trasparency International grazie all’azione dei giudici della Spak che stanno facendo pulizia dei politici socialisti al potere - e per la possibile infiltrazione della potente mafia albanese, la seconda in Europa, che ricicla e investe su tutta la costa, compresa Shengjin. Semideserta, con i suoi palazzoni sul mare figli della speculazione edilizia selvaggia, e del riciclaggio vuoti in attesa del l’estate. Accanto al porto aspetta gli italiani la famosa trattoria Meloni, con le immagini della premier diventata attrazione turistica alle pareti e il menù rigorosamente italico. Migranti. Se la Libia attacca le Ong occidentali con il pretesto della sicurezza di Giorgia Linardi* La Stampa, 4 aprile 2025 La mossa di Tripoli contro la “presenza post-coloniale” è la prova del fallimento delle politiche esterne dell’Ue. La Libia mette al bando le organizzazioni umanitarie, accusandole di minare la sovranità nazionale. A puntare il dito è l’agenzia per la sicurezza interna di Tripoli che in una conferenza stampa accusa l’Agenzia Onu per i Rifugiati (Unhcr) e nove Ong di complotto contro lo Stato, indicendo la chiusura delle sedi locali. Le ong colpite sono Medici Senza Frontiere, Norwegian Refugee Council, Terre des Hommes Italia, International Medical Corps, Danish Refugee Council, Care Germany-Luxemburg, InterSos, Acted e Cesvi. Tra queste diversi partner con cui l’Unhcr collabora per le attività di supporto alle persone migranti, e Ong finanziate dalla cooperazione europea, inclusa la Farnesina. L’attacco all’intervento umanitario occidentale in Libia solleva questioni di carattere diplomatico nella gestione delle relazioni con la comunità internazionale. Le autorità libiche parlano di “crimini che minacciano la sicurezza dello Stato”, azioni di “intelligence” portate avanti dalle ong per “diffondere l’ateismo, il cristianesimo, l’omosessualità, la decadenza morale”, parte di un “progetto internazionale ostile alla Libia, che mira a insediare nel Paese immigrati illegali”. Le ong sono accusate inoltre di “sfruttare l’instabilità politica, economica e di sicurezza che il nostro amato Paese sta vivendo a causa di interferenze straniere”. Nel condannare l’aiuto alle persone migranti nel Paese, i cui diritti sono completamente disconosciuti, Tripoli sferza una critica efferata alla presenza internazionale, presentata come ingerenza post-coloniale. Il grido al complotto contro le ong tradisce un’insofferenza che però, non a caso, non sfiora le grandi multinazionali che sfruttano le risorse energetiche del Paese. Le accuse fanno riferimento esplicito al supporto che le organizzazioni colpite hanno fornito negli anni alle persone migranti in un manifesto propagandistico profondamente razzista, che però ci costringe a interrogarci sulla percezione della presenza internazionale in Libia come ingerenza post-coloniale e sull’approccio finora adottato dalla comunità internazionale e dalle politiche europee. Le dichiarazioni libiche smascherano gli accordi con Italia e Ue, che per anni hanno strumentalizzato la presenza umanitaria in Libia per giustificare il finanziamento di decine di migliaia di respingimenti illegali, correlati da violenza e abusi nei centri di detenzione libici e nelle mani dei trafficanti, alimentando una spirale di abusi ai danni dei diritti fondamentali delle persone in fuga. La Libia è ritenuta dalle istituzioni europee un Paese sufficientemente sicuro per siglare accordi disumani ai danni dei diritti delle persone migranti, mentre le relazioni con il Paese nordafricano non sono state mai abbastanza solide da garantire l’accesso e le condizioni minime di intervento alle organizzazioni umanitarie, costantemente soggette a limiti, ostacoli e compromessi spesso inaccettabili. Nel promuovere politiche di matrice post-coloniale, l’Ue ha indebolito la sua posizione, rinunciando alla priorità della difesa dei diritti e delle libertà delle persone in movimento. L’attacco all’azione umanitaria in Libia è prova del fallimento delle politiche esterne dell’Ue in materia di migrazione e dei rapporti con i Paesi sull’altra riva del Mediterraneo, che l’Europa tratta come scatoloni dove contenere ad ogni costo le persone migranti che non vuole accogliere, e mostra ancora una volta la debolezza delle relazioni internazionali con la Libia, come provato dallo scandaloso rimpatrio con volo di stato italiano del boia libico Almasry. Queste politiche vanno immediatamente e drasticamente riviste. Intanto, a pagarne il prezzo sono, ancora una volta, le persone migranti intrappolate in Libia: il restringimento dello spazio umanitario rappresenta un pericoloso gioco diplomatico e propagandistico sulla loro pelle. *Portavoce Sea-Watch