Edilizia penitenziaria, mancano i decreti e i soldi di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 aprile 2025 Progetto per la realizzazione di “7mila blocchi detentivi entro il 2027”. Dopo mesi di inattività del commissario, Meloni corre e supervisiona tutto. A pochi giorni dalla scadenza della gara di appalto a procedura ristretta per il nuovo piano di edilizia penitenziaria prevista per il 10 aprile, mancano ancora i decreti ministeriali necessari per istituire le nuove sezioni che verranno realizzate in nove carceri del Paese con 16 “blocchi detentivi” prefabbricati. Si tratta di direttive che il Guardasigilli Carlo Nordio (in questo caso insieme al ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini) deve disporre per qualsiasi nuova articolazione del sistema penitenziario (come nel caso della sezione di Dozza destinata ai giovani adulti provenienti dagli Ipm). Ma a causa dell’accelerazione impressa dalla premier Meloni alla realizzazione del piano, dopo mesi di inattività della struttura commissariale straordinaria per l’edilizia penitenziaria istituita con il Decreto carceri del luglio 2024, i decreti non sono ancora pronti. Fonti di Palazzo Chigi assicurano però che non ci saranno ulteriori ritardi, anche perché la stessa Meloni, che ha preso particolarmente a cuore al vicenda, pretende di verificare personalmente il timing ogni quindici giorni. D’altronde l’ossessione securitaria dell’esecutivo e la mania per la costruzione di nuove carceri sta ispirando le destre di governo a progetti quasi faraonici: l’idea sarebbe quella di far costruire e mettere in posa “almeno 1500 moduli prefabbricati in calcestruzzo entro la fine dell’anno e arrivare fino a 7 mila moduli entro i prossimi due anni e mezzo”. Ogni modulo, secondo la Relazione tecnico illustrativa preliminare di Invitalia, è “di dimensioni indicative pari a 6 metri per 5”, e ogni blocco detentivo è composto di 12 moduli di cui sei adibiti a celle di pernottamento. Sarebbe dunque solo una prima tranche, la gara (a “procedura ristretta”, cioè con poche aziende specializzate invitate) gestita da Invitalia per la costruzione di 16 blocchi che serviranno a creare solo 384 posti letto al costo di 83 mila euro ciascuno e di 32 milioni di euro in totale. Poi, “in via sperimentale”, secondo i progetti governativi si dovrebbe procedere con l’installazione “di altri 400 moduli gestiti in totale trasparenza dall’Autorità anticorruzione, Anac” nei perimetri dei penitenziari che abbiano sufficiente spazio aperto disponibile. Altri dovrebbero essere collocati nei cortili delle caserme e adibiti alla carcerazione attenuata. Ma non mancano solo i decreti ministeriali: c’è un problema di finanziamenti. Secondo quanto denunciato a livello di provveditorati, non ci sono più soldi per la manutenzione ordinaria delle carceri perché a quello stesso fondo si attinge ora per finanziare il nuovo piano del commissario straordinario Doglio. E così, mentre cresce il sovraffollamento, secondo Antigone negli ultimi due anni è anche cresciuto di quasi mille unità il numero di posti regolamentari non effettivamente disponibili. Celle container per detenuti, così la giustizia è solo punizione di Giulio Cavalli La Notizia, 3 aprile 2025 Nel Paese in cui si costruiscono carceri come si montano baracche da cantiere, il governo Meloni presenta l’ennesima trovata: 16 blocchi prefabbricati in cemento armato, 384 posti letto, 32 milioni di euro spesi senza sfiorare l’idea di dignità. Celle da 30 mq per quattro persone, con un bagno di 3 mq incluso. Non si tratta di un errore di progetto, ma di una visione punitiva che si finge riformatrice. A Opera e Voghera i sopralluoghi sono già partiti. Le strutture saranno pronte entro fine anno, recintate con cancellate alte cinque metri, prive di impianti antincendio e con spazi comuni da 30 mq per 24 detenuti. Si risparmia su tutto, tranne che sull’umiliazione. Il sottosegretario Delmastro si difende con il solito mantra: è tutto regolare. Come se fosse normale comprimere corpi e diritti sotto una colata di cemento. Mentre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria resta ostaggio delle pressioni di partito, la risposta all’emergenza carceri è una scorciatoia indegna: più gabbie, meno giustizia. I moduli saranno 1.500 in totale, almeno nelle intenzioni, anche se la relazione tecnica non ne fa menzione. Ogni blocco sarà fatto di 12 moduli smontabili, tutti identici, in calcestruzzo: una geometria della reclusione progettata per annientare l’eccezione umana. Ma liberare spazio non vuol dire liberare persone. Vuol dire continuare a trattarle come cose. Le celle-container non risolvono il sovraffollamento: lo organizzano. E nel farlo mostrano l’unica certezza di questo governo sulla giustizia: la punizione, purché sia rapida, economica e disumana. Dap, il Colle fa saltare il picchetto di Antonella Mascali ilfattoquotidiano.it, 3 aprile 2025 C’è un fatto passato inosservato che segnala quanto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si sia infuriato per essere stato scavalcato dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Si tratta della nomina del direttore del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, decisa dal Guardasigilli senza informare il presidente, a cui spetta la firma del decreto, come capo delle Forze armate. Risultato: la nomina, per quello sgarbo istituzionale, è in stallo, tanto che il sottosegretario alla Giustizia, con delega al Dap, Andrea Delmastro, ha detto che “non ci sono novità”. Ma facciamo un passo indietro e ritorniamo al 25 marzo. In piazza del Popolo, a Roma, si celebra la festa annuale della Polizia penitenziaria. Il presidente Mattarella non presenzia, manda solo una lettera, riportata in apertura della festa. I ben informati raccontano che quell’assenza è dovuta alla volontà del presidente di non essere al fianco di Nordio e Delmastro. Ma c’è un altro fatto che dimostra quanto il presidente Mattarella trovi insopportabile l’analfabetismo istituzionale: la mancata Guardia d’onore al Quirinale con agenti della Polizia penitenziaria, nella giornata della festa del Corpo. Al Fatto risulta che fosse già avvenuto l’addestramento degli agenti prescelti, così come ogni anno, ma non è arrivato il via libera del Quirinale. Il motivo è il comportamento di Nordio. Lo scorso 20 dicembre il ministro aveva chiesto al Csm il fuori ruolo come direttore del Dap di Lina Di Domenico, giudice di Sorveglianza, già fuori ruolo come vice capo Dap. L’8 gennaio c’è il via libera del Consiglio, ma tutto si blocca per il no del Quirinale. Non solo per motivi formali che sono, però, sostanza. Il Quirinale, dicono alcune fonti, sarebbe perplesso anche perché pur avendo fama di persona seria e preparata, Di Domenico viene considerata troppo vicina a Delmastro, accusato da pezzi del Dap di aver “commissariato” il Dipartimento, di fare il “direttore ombra”. È la ragione delle dimissioni da capo Dap di Giovanni Russo, che si sentiva scavalcato da Delmastro sistematicamente. A sentire ambienti del ministero della Giustizia, però, non è solo Delmastro a voler promuovere Di Domenico, ma anche Nordio perché “conosce la macchina, è apprezzata dalla Polizia penitenziaria ed è pure una donna”. Riflessioni condivise con la capo di Gabinetto, Giusy Bartolozzi. In Via Arenula si spera che le scuse al Quirinale possano portare al via libera per Di Domenico, ora capo facente funzioni, e pare che la spunterà. Come vice capo Dap si fa il nome di Massimo Parisi, attuale direttore generale del personale, suggerito dal vice ministro Paolo Sisto. In verità il sottosegretario Delmastro, dopo lo strappo con il Quirinale, aveva sondato, come capo Dap, il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, esperto in ordinamento penitenziario ed ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap, ma ha rifiutato per motivi personali. Cosa cambiare nelle carceri italiane di Anna Bogoni Elle, 3 aprile 2025 Sovraffollamento, interazioni con il mondo esterno, programmi reali per innescare un ritorno alla vita fuori. La direttrice Rosalia Marino ci racconta la sua missione e gli obiettivi chiari. I numeri parlano: nei 190 istituti penitenziari italiani i detenuti sono 61.916 contro 51.300 posti (dati Ministero Giustizia al 31 gennaio 2025). Il sovraffollamento è un problema reale e gli incendi di protesta delle scorse settimane al Beccaria, l’istituto penale per minorenni di Milano, raccontano chiara la situazione. Rosalia Marino, da giugno 2023 direttrice della casa di reclusione di Vigevano (con una sezione ad alta sicurezza femminile), spiega cosa sta succedendo e come si potrebbe intervenire. Qual è la prima criticità del sistema penitenziario in Italia? Da molti anni si discute di sovraffollamento, di recidiva, di carenza di operatori, dei troppi detenuti stranieri spesso portatori di patologie psichiatriche o comportamentali. Aumenta la popolazione carceraria perché ci sono leggi più severe o perché si commettono più reati? No, è una situazione ciclica. Oggi però è diventata insostenibile anche per la presenza di oltre il 70 per cento di detenuti stranieri che si porta dietro tutta una serie di problematiche, dalla mancanza di mediatori culturali, agli esperti in psichiatria. Ci sono poi detenuti che rientrano in carcere per revoche di benefici, quindi la popolazione detenuta aumenta. Cosa fa l’istituzione per recuperare i detenuti? Ci sono stati tanti anni di abbandono. A partire dalle strutture penitenziarie che hanno bisogno di interventi di manutenzione straordinaria, al punto che alcuni istituti dovrebbero essere chiusi. Pensi che i concorsi per direttori sono ripresi 2-3 anni fa, dal ‘97. E così quelli per gli educatori; c’è una grande carenza di esperti, psicologi, criminologi, mediatori, non si è investito neanche sulla polizia penitenziaria. Oggi si è creato un imbuto, una situazione particolarmente critica. I finanziamenti per costruire nuove carceri saranno risolutivi? Per fortuna si sono aperti cantieri; si sono stanziati 250 milioni di euro proprio per ristrutturare alcune carceri, come a Vigevano. E poi sono stati fatti e si faranno concorsi per la polizia penitenziaria. E sui progetti per i detenuti? Quelli sono in capo a ogni istituto, è una questione di spazi per portare avanti le attività, e poi dipende dalle direzioni. A Vigevano ho un po’ rivoluzionato l’istituto con il progetto In carcere non si finisce si ricomincia, credo davvero nel cambiamento e molti detenuti lavorano all’esterno e all’interno della struttura. Il lavoro è una chiave di svolta? Sì, certo bisogna crederci nella rieducazione e nel reinserimento sociale e creare una rete. Il carcere si deve aprire all’esterno, deve diventare una risorsa e non essere considerato solo un problema. Va fatto un investimento soprattutto culturale. Il carcere deve essere un’estrema ratio, come è previsto nel codice penale, riservato a pochi, ai reati più gravi, perché la pena possa essere rieducativa. Le donne in carcere? Sono solo il 4 % della popolazione detenuta, distribuite in 52 sezioni in Italia; le carceri di sole donne sono solo 4. Il problema della detenzione femminile è legato ai reati, per lo più contro il patrimonio, o di droga, o contro la persona, che creano una situazione di emarginazione. Rispetto ai detenuti di sesso maschile ho notato una grande differenza: gli uomini continuano ad avere delle compagne che li sostengono e li aiutano anche soltanto a portargli il pacco, o i figli. Le donne nella maggior parte dei casi sono abbandonate, per cui sono poche ma molto impegnative. A Vigevano organizziamo numerosi corsi dedicati, dalla musica al teatro, dal trucco alla cucina. Bisogna crederci, me lo ripeto sempre. “Quell’umanità che resiste in celle disumane” di Gianni Alemanno Il Dubbio, 3 aprile 2025 Gianni Alemanno, detenuto a Rebibbia dal 31 dicembre 2024, continua a pubblicare sulla sua pagina Facebook le sue “lettere dal carcere”, restituendo momenti di solidarietà tra chi vive situazioni infernali. Chi ha vissuto un periodo della sua vita “dietro le sbarre” è testimone di un’esperienza difficilmente comunicabile a chi invece il carcere non l’ha mai conosciuto. Nelle celle si vive un’intensa esperienza comunitaria, con i forti connotati romantici ed emozionali propri di tutte le vicende comunitarie. Tra i compagni di cella si condivide tutto, dalle derrate alimentari ai lavori quotidiani, dalle emozioni ai ricordi. Ai più anziani (di permanenza in carcere) viene riconosciuta piena autorità sulle regole comuni, a prescindere dai titoli di studio e dalle origini sociali, regole totalmente autogestite ma ferree per pulire gli ambienti, preparare i pranzi, lavare i piatti. C’è un continuo lavoro artigianale di ogni detenuto per migliorare le condizioni di vita, a fronte di celle fatiscenti, ognuna con sei brande a castello, di un cesso che sta nella stessa stanza dove si cucina e di un lavandino senza acqua calda, della mancanza di apparati di condizionamento quando fa caldo. Sicuramente condizioni di vita che meriterebbero quel 10% di sconto di pena previsto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo “per condizioni di detenzioni inumane” (ma di questo ne parleremo un’altra volta). Ogni pezzo di legno, ogni lattina, ogni elastico, viene utilizzato in modo geniale per risolvere qualche problema pratico di una vita a metà strada tra il campeggio e la caverna. Altro che “cultura del riuso” da ambientalisti chic, qui si fa sul serio... In ogni cella c’è almeno un detenuto che, in base a esperienze pregresse (in genere altro carcere), si improvvisa come cuoco, cucinando su fornelli camping gas quello che può essere riciclato dal vitto quotidiano o quello che viene acquistato come “sopravvitto”. I risultati, soprattutto nelle celle dove vivono persone di origine calabrese, sono assolutamente al di sopra della media delle nostre case, dove ormai domina la cattiva abitudine dei cibi d’asporto. Sono poche le persone detenute, anche quelle che all’entrata si presentano con un carattere individualista e aggressivo, che riescono a sottrarsi a queste regole. Le varie celle compongono altri cerchi comunitari, che sono i reparti, i bracci e i singoli istituti penitenziari. Io, ad esempio, sono al Reparto 2B (ovvero in uno dei due corridoi del secondo piano) del Braccio G8 del Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso (nuovo nel senso che risale agli anni 60 e non all’800 come Regina Coeli). Il G8 è sicuramente il braccio più vivibile di tutti le carceri romane, dove sono fiorite molte attività, tutte gestite in ogni aspetto da persone detenute, volontari o lavoranti interni (per poche centinaia di euro al mese). Vige la consuetudine di salutarsi tutti ogni volta che ci si incontra nei corridoi, all’aria, nella doccia, nelle sale comuni, quando ci si affaccia in un’altra cella. Ci deve essere assoluta cortesia reciproca, pena reazioni collettive anche pesanti. Ogni attività del carcere è molto frequentata dalle persone detenute, certamente in cerca di modi per passare la giornata, ma anche molto attente a tutto quanto li può far sperare di avere una vita migliore durante e dopo la carcerazione. C’è voglia di partecipare, non di tutti, perché c’è anche chi si lascia andare e diventa un morto vivente. Ma questa voglia c’è e certe volte è sinceramente commovente. Ne sono testimoni tutti i volontari, i docenti e gli operatori esterni che cercano di organizzare le diverse attività. Insomma, la natura comunitaria dell’esperienza carceraria permette di alimentare la speranza di quella “rieducazione” di cui parla l’Art. 27 della Costituzione. Proprio per questo è un peccato, e anche una vergogna, quando le istituzioni preposte non riescono a valorizzare queste potenzialità, non dando coerenza e continuità ai percorsi che dovrebbero portare dalla rieducazione all’accesso alle pene alternative. Non parliamo del personale che lavora nelle carceri (dirigenza e polizia penitenziaria) che sono vittime dei malfunzionamenti e delle carenze di organico quasi quanto le persone detenute. Parliamo di chi fa le leggi e di chi le deve applicare, che può e deve fare di più. “Così resisto in una cella fatiscente. Perché chi si lascia andare diventa un morto vivente” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 3 aprile 2025 L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno racconta via Facebook i suoi primi 90 giorni a Rebibbia: “Dormiamo in 6 su brande a castello. Ma la reclusione è un’intensa esperienza comunitaria: ecco perché è stupido sprecarla”. E dovrà passarci un altro anno. “Ogni attività del carcere è molto frequentata dalle persone detenute, certamente in cerca di modi per passare la giornata, ma anche molto attente a tutto quanto li può far sperare di avere una vita migliore durante e dopo la carcerazione. C’è voglia di partecipare, non di tutti, perché c’è anche chi si lascia andare e diventa un morto vivente. La reclusione è una intensa esperienza comunitaria: ecco perché è stupido sprecarla”. È uno dei passaggi più accorati del diario dal carcere di Gianni Alemanno. L’ex sindaco di Roma, rinchiuso a Rebibbia da oltre 90 giorni, rispettando le procedure previste dalla legge sta continuando a fare politica attraverso la sua pagina Facebook, dove continua a pubblicare contenuti per Indipendenza, il suo partito sovranista “rossobruno”. E se l’altro giorno ha fatto pubblicare un post in cui esprime “massima solidarietà a Marine Le Pen” dopo la dura condanna che la escluderà dalle elezioni presidenziali francesi, promette che “la battaglia sovranista andrà avanti”. L’ex primo cittadino della capitale ed ex ministro era stato arrestato la sera del 31 dicembre scorso per violazione degli obblighi imposti dai magistrati di sorveglianza. In sintesi: era stato condannato a un anno e dieci mesi e affidato ai servizi sociali, ma poi ha violato molte restrizioni continuando a spostarsi per l’Italia, sostenendo di avere impegni che si sono poi rivelati falsi. Alemanno è stato ritenuto colpevole di traffico di influenze illecite nell’ambito di un processo nato dalla maxi indagine “Mondo di mezzo”. I giudici gli avevano concesso appunto un affidamento dalla comunità romana di Suor Paola, amica di Alemanno e diventata famosa in tv anche per la sua fede laziale, che nel frattempo è scomparsa ieri a 77 anni. Adesso l’ex sindaco, dopo che i suoi legali avevano tentato invano di tirarlo ancora una volta fuori dal carcere, si è arreso alla prospettiva di passare a Rebibbia almeno un altro anno. E attraverso Facebook racconta com’è la vita del carcere: “Tra i compagni di cella si condivide tutto, dalle derrate alimentari ai lavori quotidiani, dalle emozioni ai ricordi - racconta -. Ai più anziani (di permanenza in carcere) viene riconosciuta piena autorità sulle regole comuni, a prescindere dai titoli di studio e dalle origini sociali, regole totalmente autogestite ma ferree per pulire gli ambienti, preparare i pranzi, lavare i piatti”. Una quotidianità difficile da trascorrere: “C’è un continuo lavoro artigianale di ogni detenuto per migliorare le condizioni di vita - scrive ancora sui social - a fronte di celle fatiscenti, ognuna con 6 brande a castello, di un cesso che sta nella stessa stanza dove si cucina e di un lavandino senza acqua calda, della mancanza di apparati di condizionamento quando fa caldo”. L’ex sindaco di Roma racconta anche di essere nel braccio meno fatiscente di Rebibbia: il G8, quello risalente agli anni Sessanta. E poi spiega come vengono suddivise le mansioni culinarie: “In ogni cella c’è almeno un detenuto che, in base ad esperienze pregresse (in genere altro carcere), si improvvisa come cuoco, cucinando su fornelli camping gas quello che può essere riciclato dal vitto quotidiano o quello che viene acquistato come “sopravvitto”“. E infine loda i compagni di carcere del Sud: “I risultati, soprattutto nelle celle dove vivono persone di origine calabrese, sono assolutamente al di sopra della media delle nostre case, dove ormai domina la cattiva abitudine dei cibi d’asporto”. Ddl sicurezza, la Lega apre alle modifiche volute dal Colle. In Aula il 15 aprile di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 aprile 2025 Fino a quando non avrà concluso il congresso federale di sabato e domenica prossimi a Firenze e finché non avrà ottenuto la rielezione a segretario, Matteo Salvini non dà certezze. Ma uno spiraglio sul ddl Sicurezza ora c’è: usando bastone e carota, la premier Meloni è riuscita a convincere la Lega a deporre le armi ed accettare con qualche contentino le modifiche richieste dal Quirinale al provvedimento che in ogni caso dovrà necessariamente tornare alla Camera in terza lettura per via delle correzioni apportate in commissione Bilancio al Senato. Ma non a caso il testo, che il Carroccio avrebbe voluto vedere dritto in gazzetta ufficiale, arriverà invece in Aula a Palazzo Madama con tutta calma il 15 aprile. Un “rinvio, dopo settimane di lavori a ritmo serrato in commissione perché il provvedimento sembrava urgentissimo”, che secondo il capogruppo dei senatori Avs De Cristofaro rivela “una totale divisione all’interno delle forze della maggioranza” ancora alla ricerca di un accordo sui punti da modificare. La moral suasion del Colle si era concentrata su due articoli particolarmente a rischio di incostituzionalità: il divieto di vendere schede telefoniche Sim ai migranti non regolarizzati e la norma che rende facoltativo il rinvio della pena in carcere (attualmente obbligatorio) per le donne incinte e le madri con bambini piccoli. La Lega sembra disposta a correggere almeno questi due punti ma in cambio chiede di far passare alcuni suoi emendamenti. In particolare quelli che contengono ulteriori misure a favore delle forze di polizia, oltre alla copertura delle spese legali per gli agenti indagati già contenuta nel pacchetto Sicurezza (mentre martedì alla Camera è stato approvato anche un ddl sul riordino delle forze dell’ordine), l’inasprimento delle pene per i furti in casa e per i reati d’odio antisemita. Come ha spiegato il senatore Maurizio Gasparri, capogruppo di FI, però l’accordo tra i partiti di governo ancora non è stato sugellato. Gli stessi relatori di maggioranza in commissione Giustizia, la leghista Erika Stefani e il Fratello Marco Lisei, ancora ieri brancolavano nel buio o quasi. Il termine per gli emendamenti è previsto per il 7 aprile e la maggioranza comunque spera di non andare oltre il 16 aprile per il voto finale, magari con i tempi contingentati. Intanto il Pd ha annunciato un’interrogazione alla Commissione europea sulla norma che penalizza la coltivazione industriale della canapa e il M5S insiste affinché sia cancellato anche l’articolo che rende obbligatoria la collaborazione con i servizi segreti di università e amministrazioni pubbliche. Le opposizioni preparano emendamenti anche sul reato di rivolta in carcere. “Sì, è meglio educare che punire”, Nordio liquida il panpenalismo di Errico Novi Il Dubbio, 3 aprile 2025 Audito dalla Commissione sui reati d’odio di Liliana Segre il Ministro ammette: “Prevenire conta più che reprimere”. È una giornata da ricordare, per la giustizia del governo Meloni. Un passaggio che ridimensiona, almeno nelle affermazioni di principio, il dogma dei nuovi reati come scelta salvifica. Anche se Carlo Nordio, nel proprio intervento dinanzi alla “commissione Segre”, abbozza a un certo punto una difesa d’ufficio: “Siamo stati accusati di panpenalismo, eppure è vero che quando si presentano situazioni nuove esistono vuoti normativi che debbono essere colmati dalla tutela penale”. Discorso che sembra pagare dazio più alla diplomazia che alla sostanza. Anche perché Nordio, nella gran parte dell’audizione, dichiara apertamente che di fronte a cose che “ci esplodono in mano” - come l’aumento “esponenziale” della “delinquenza minorile” - serve davvero poco affidare ogni speranza alla pena: “Sarà interessante studiare e capire perché e percome queste cose avvengono, è illusorio e direi quasi utopistico che possano farlo in governo e il ministro. Sono episodi più grandi noi che devono essere studiati in modo approfondito”, dice appunto il guardasigilli a proposito di baby gang e omicidi commessi da “ragazzi di 15 anni”. Nordio ne parla a corredo di una relazione scritta, una ventina di pagine, consegnata alla commissione di Palazzo Madama che prende il nome dalla sua presidente, la senatrice a vita Liliana Segre. Si tratta dell’organismo che indaga sui fenomeni di “intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza”. È il tentativo di afferrare una deriva aggravata dall’uso dei social, come dice il guardasigilli, e resa se possibile ancora più inquietante, a volte, dai rischi di “manipolazione” prodotti da un uso distorto dell’intelligenza artificiale: si può “manipolare la realtà dandole una parvenza nemmeno di verosimiglianza ma di verità: domani potremmo vedere un campo di sterminio nazista rimodulato con criteri che non voglio neanche immaginare, ma dando un’impressione di veridicità, come se fosse un documento girato dagli inglesi quando entrarono a Bergen-Belsen”. A fine audizione, la senatrice Segre dirà che ascoltare Nordio è stato “molto interessante”. Non le si può dare torto proprio per le ammissioni fatte rispetto alla linea che l’Esecutivo ha spesso prediletto: la repressione penale. Una scelta che il ministro prova comunque a difendere soprattutto per il nuovo ddl sul femminicidio, ma con argomenti che sembrano tanto più deboli proprio perché a farvi ricorso è un giurista del calibro di Nordio: l’inserimento di quel delitto, dice, è stato un “segnale” che “abbiamo voluto dare” di “particolare attenzione a questa odiosissima forma di aggressione alla donna in quanto tale: effettivamente le pene esistenti per chi uccideva una donna erano già adeguate, ma noi abbiamo cercato di inserire il femminicidio rispetto all’omicidio come il genocidio sta alla strage, cioè dare l’individuazione di questa soppressione di una vita non in quanto vita ma in quanto donna”. Il fatto stesso di affidare alla legge penale compiti pedagogici più che sostanziali rivela la fragilità della scelta. Ma il resto dell’audizione è rivolta a tutt’altro orizzonte: “Intervenire con norme sia civili che penali non è facile, e soprattutto prevenire è più importante che reprimere”, dice per esempio il ministro a proposito dei “sistemi di delegittimazione e di offesa” aumentati in modo esponenziale “sia nell’intensità sia nella quantità” dalla “possibilità tecnologica”, cioè dall’uso dei social. Ed è altrettanto netto, Nordio, a costo di proporre affermazioni solo in apparenza prevedibili, quando ricorda che “la prevenzione va fatta in famiglia: quando andavo a fare le lezioni sulla legalità da magistrato nei licei, esordivo dicendo “grazie dell’invito, preferirei però fare lezione ai vostri genitori”. Rispettare le regole non si insegna all’università ma in famiglia, con l’esempio. Qui il governo non c’entra nulla”. Sono considerazioni che rendono a maggior ragione opinabile l’introduzione di nuovi reati. Va detto che sull’inadeguatezza del dogma repressivo il guardasigilli sa anche arrivare alle estreme conseguenze. Intanto quando osserva che “dove c’è la pena di morte, in realtà i reati aumentano” e ribadisce di nuovo che “non è così facile l’equazione” tra sanzioni ed effetti preventivi. Dopodiché Nordio sfodera una matrice culturale assai lontana da decreti come quelli intitolati a Cutro o a Caivano quando cita quell’ “aspetto particolare” costituito dalla “giustizia riparativa”, che “tende, più che a una vendetta, a una riconciliazione”. Può darsi che di fronte a Liliana Segre, alla quale il guardasigilli rende più volte omaggio, non si potesse mentire. Fatto sta che mai come ieri Nordio è stato tanto autentico quanto distante dal panpenalismo di governo. I femminicidi, il ddl e ciò che resta da fare di Antonella Mariani Avvenire, 3 aprile 2025 Il ddl presentato dal governo l’8 marzo è solo un primo passo. Le tragedie di questi giorni dimostrano che inasprire le pene non ha per forza un effetto deterrente e che serve una svolta culturale. Ci risiamo, dunque. Due giovani donne uccise nello spazio di poche ore. Due uomini che non riuscivano a tollerarne la libertà, le scelte, l’indipendenza. E la sensazione di avere le armi spuntate, di non essere riusciti a costruire percorsi educativi sufficienti a un mutamento culturale. È in questo solco, guarda caso, che è stata annunciata lo scorso 8 marzo l’intenzione di istituire il nuovo reato di femminicidio. Uno “spot per la Festa della donna” o “una svolta epocale”? Un “annuncio roboante” o un tentativo di produrre quel cambiamento? Le reazioni al disegno di legge presentato dal governo continuano ad essere agli antipodi ed è necessario metterle a tema oggi, purtroppo alla prova drammatica dei fatti. Comprensibilmente entusiasti e convinti che possa cambiare le cose sono gli esponenti della maggioranza, con la premier che a suo tempo aveva parlato di “sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga” e la ministra della Famiglia Eugenia Roccella che lo aveva presentato come “un passo necessario”. Dall’opposizione alcune voci si erano levate invece contro la deriva “securitaria” del governo: introdurre nuove fattispecie di reato - era la critica - serve forse a ottenere il consenso popolare ma non incide su un auspicabile cambiamento di rotta. In realtà però anche a sinistra, numerose tra le esponenti più impegnate sul tema della violenza alle donne avevano promosso il ddl: “Il nuovo reato aiuterà a distinguere la matrice del delitto. Sul fronte del femminicidio e delle molestie sessuali gli interventi sul Codice servono. È cultura giuridica che fa cultura diffusa” aveva commentato ad esempio la senatrice Pd Valeria Valente, già presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio. Anche tra i giuristi le opinioni erano state discordanti. Per un’avvocata rispettata e autorevole come Paola Di Nicola Travaglini, che considera il ddl “epocale, perché simbolicamente cambia la prospettiva culturale”, c’è il durissimo parere negativo dell’Unione delle Camere penali: il ddl “è una novella legislativa volta a soddisfare le grida di manzoniana memoria (…) e a raccogliere facile consenso”. Cosa prevede il ddl - L’articolo 577 bis che si vuole introdurre nel Codice penale riconosce il femminicidio come reato autonomo - e non più come aggravante come è oggi - punibile con il carcere a vita. “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna per reprimere l’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. L’articolo, che dovrebbe essere il punto di partenza di un Testo Unico contro la violenza sulle donne, contiene anche altri interventi normativi, che specificano e rafforzano alcune norme del Codice rosso: aumento delle pene fino al 50 per cento per i maltrattamenti in famiglia, l’uso di armi o sostanze corrosive e l’interruzione di gravidanza non consensuale, e fino a due terzi per stalking e revenge porn. Le altre novità di rilievo riguardano la vittima, che potrà chiedere di essere ascoltata direttamente dal magistrato anziché dalla polizia giudiziaria, e i magistrati, per i quali è prevista una formazione obbligatoria. Populismo giudiziario? - Molti critici hanno sottolineato che già ora chi uccide la propria compagna - per le ex il discorso è leggermente diverso - può essere condannato all’ergastolo, con le aggravanti del caso. Filippo Turetta e Alessandro Impagnatiello in primo grado hanno avuto il carcere a vita. Quindi che bisogno c’era di prevedere una fattispecie autonoma di reato, se non per una sorta di “populismo giudiziario”, come lo chiamano i detrattori? La seconda criticità rilevata è che il ddl introduce nel Codice penale una disparità di trattamento tra chi uccide una donna e chi uccide un uomo: il nostro ordinamento - dicono gli avvocati dell’Unione delle Camere penali - si basa su un principio di eguaglianza e riconoscere una tutela speciale alle donne, secondo i professionisti, violerebbe questo principio e dunque non passerebbe il vaglio della costituzionalità. “Il disegno di legge non segna una differenza morale tra l’uccisione di un uomo e quella di una donna. Riconosce però una specificità, che è dimostrata anche dai numeri: ci sono tante, troppe donne uccise dagli uomini, mentre è rarissimo che accada il contrario”, ha respinto questa critica la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella. In effetti i femminicidi sono un fenomeno così massiccio - 113 uccise nel 2024, di cui 99 vittime di violenza familiare o all’interno di un rapporto affettivo -, la punta di un iceberg della “sperequazione di potere”, come la chiama Valeria Valente, che una “tutela speciale” e rafforzata per le donne non sembra poi un’idea così bizzarra. C’è un altro aspetto originale nel testo: si parla genericamente di “donna”, non di “moglie” o di “compagna” o di “persona legata da vincoli affettivi”, anche trascorsi, con l’omicida. Non è necessario, cioè, che tra la vittima e l’omicida ci sia o ci sia stato un legame perché si possa parlare di femminicidio: ciò apre le porte, evidentemente, a un’estensione della fattispecie di reato. Un altro ente di rappresentanza degli avvocati, l’Organismo congressuale forense, obietta che il ddl, con i suoi interventi normativi che aumentano le garanzie per le vittime di violenza, realizza una “marginalizzazione dell’accusato nel processo, a vantaggio della persona offesa”. Una valutazione che lascia trasparire la preoccupazione, peraltro del tutto legittima per un penalista, di chi si trova a difendere un uomo accusato di violenza di genere. Su questo punto il sociologo Luca Ricolfi esprime una valutazione particolarmente problematica, in particolare sulla vaghezza della formulazione del ddl: “Dire che c’è femminicidio se una donna viene uccisa “in quanto donna” è del tutto vago e indeterminato (…) lascia presagire che il dilemma se un certo omicidio sia o non sia femminicidio si risolverà in un modo piuttosto o nell’altro a seconda della personale visione del mondo e sensibilità del giudice”. Non solo pena, più educazione - Su due aspetti forse si può essere tutti d’accordo. Il primo è che un’aggiunta al Codice penale di tale rilevanza forse merita una accurata e approfondita discussione in Parlamento. Il secondo è che il pugno duro contro chi si macchia di crimini di genere non può essere l’unica risposta a un fenomeno complesso e pervasivo come la violenza contro le donne, che ha una forte componente storica e culturale - residui del patriarcato, desiderio di controllo, incapacità di riconoscere e accettare l’indipendenza e l’autonomia delle donne da parte… Da una parte non sembra che un inasprimento della pena - teorico perché, come detto, già ora il femminicida può essere punito con il carcere a vita - possa avere una efficacia deterrente su un uomo che decide di uccidere “una donna in quanto donna”. Dall’altra il cambiamento non può che partire dai più giovani, e quindi dall’educazione alla parità e al rispetto, in famiglia e nelle scuole. Ma questo è un altro capitolo della storia. Il più urgente. “La repressione non può bastare, servono educazione e formazione” di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 3 aprile 2025 Intervista a Cecilia D’Elia (Pd) “La violenza è strutturale, non si tratta di una emergenza. L’urgenza è la consapevolezza che dobbiamo avere della necessità di cambiare questa cultura alla radice”. “Sara Campanella e Ilaria Sula erano ragazze che possono essere definite “forti”, nel senso che seguivano il loro percorso di studio di vita. Erano giovanissime e c’è un tema enorme di violenza misogina e di incapacità di convivere con l’autonomia e la libertà delle donne cui si aggiunge un bisogno di controllo e possesso”. Non può nascondere il misto di dolore e la rabbia, Cecilia D’Elia, senatrice del Pd e da sempre impegnata nel contrasto alla violenza maschile. “Colpisce anche l’efferatezza, era già accaduto sì, e due anni fa abbiamo vissuto un 25 novembre che aveva come domanda proprio il cambiamento di paradigma e chiedeva un salto di qualità nell’impegno di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne. Dobbiamo essere capaci di mettere in campo politiche globali e molto più solide soprattutto sulla prevenzione e sul cambiamento culturale”, prosegue D’Elia, capogruppo del Pd della Settima commissione (Cultura e patrimonio culturale, istruzione pubblica, ricerca scientifica, spettacolo e sport), vicepresidente della commissione bicamerale d’Inchiesta sui femminicidi, e autrice di un recente e prezioso volume (edito da Donzelli) che si intitola Chi ha paura delle donne. A proposito della prevenzione, molti sono i progetti messi in campo. L’educazione all’affettività nelle scuole, ad esempio, è stata annunciata da questo governo e mai avviata... Non è partito ancora niente, ma vi è una lentezza sullo stesso piano antiviolenza. La violenza è strutturale, dunque non si tratta di una emergenza. L’urgenza è la consapevolezza che dobbiamo avere della necessità di cambiare questa cultura alla radice. Lo abbiamo fatto anche quando abbiamo discusso l’ultimo disegno di legge del governo, quello sulle misure cautelari. Abbiamo preso un impegno, ovvero che avremmo parlato di educazione, di cultura e di formazione degli operatori e delle operatrici, siamo indietro anche rispetto alla richiesta di educazione alla sessualità che viene dai ragazzi, dalle ragazze e dalle famiglie. La richiesta proviene appunto da loro, ed è grande. Bisogna parlare delle relazioni e dell’affettività, della sessualità. Su questo come Paese facciamo poco, nonostante la Convenzione di Istanbul, che ci chiede un impegno in questo campo, che noi disattendiamo. Ancora troppo viene lasciato alla buona volontà delle associazioni, delle scuole, dei centri antiviolenza e ciò non è plausibile. Molti progetti poi sono boicottati o contrastati in nome della cosiddetta “ideologia del gender”. Cos’altro può essere attuato? Rafforzare la rete, a cominciare dai centri antiviolenza, che sono un presidio essenziale, gli sportelli antiviolenza a Roma sono presenti anche nelle Università. Attivare la comunità tutta nel contrasto e nell’attenzione. Nel caso di questi due femminicidi, siamo di fronte a una dinamica di relazioni finite, ormai sappiamo che è il momento più complicato e delicato, quello in cui le storie si concludono. C’è l’incapacità maschile, di molti ragazzi di convivere con il rifiuto, accettare i no delle donne. E in questo la scuola e l’università devono essere luoghi di formazione. Per cambiare, ci vogliono politiche pubbliche più impegnate nella trasformazione culturale. La risposta invece sembra esclusivamente di carattere repressivo. Il governo, non fa quello che dovrebbe fare, rinnovare e potenziare il Piano antiviolenza, finanziare l’educazione. Copre questa assenza, e forse questa sua resistenza culturale, con la proposta di un nuovo reato. Io non sottovaluto l’importanza simbolica dell’utilizzo della parola femminicidio, che non a caso, grazie alle donne, si è già affermata nella cultura diffusa. Contesto la necessità della sua traduzione giuridica in una spirale repressiva, che credo non efficace nel contrasto della violenza maschile contro le donne. Sento che la vera priorità oggi sia il mutamento, culturale e di immaginario, che è da assumere come un grande impegno collettivo. Se penso alle politiche pubbliche vorrei anche aggiungere un punto emerso dalle audizioni che abbiamo fatto proprio questa settimana: le famiglie delle vittime. Vanno sostenute di più, non possono essere lasciate sole. Femminicidi. “Si sottovaluta ancora il controllo. E lo stereotipo maschile è un tabù” di Martina Castigliani Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2025 Le voci di chi fa prevenzione nelle università. Valeria Messina, psicologa del centro antiviolenza de la Sapienza: “Da noi arrivano studentesse molto giovani”. E “vengono da noi per capire se il controllo del telefono o la limitazione dei contatti è violenza”. Irene Pellizzone, delegata della Statale sulle questioni di genere: “Da noi è nato un osservatorio su richiesta degli studenti”. Sara Campanella, 22 anni, studentessa dell’università di Messina. Ilaria Sula, 22 anni, iscritta alla facoltà di Statistica della Sapienza. Le vittime degli ultimi due femminicidi, il quarto e quinto solo dall’8 marzo scorso, sono giovani donne che seguivano un percorso universitario. E proprio gli atenei sono i luoghi dove si sta cercando di lavorare sulla prevenzione della violenza di genere, con osservatori sul fenomeno e sportelli per il sostegno di chi denuncia. Da quella prima linea, di fronte all’ennesima conta di donne morte ammazzate, esperte e professoresse raccontano perché continuano il loro impegno. E dove dovrebbero concentrarsi i nostri sforzi. “Le giovani hanno più consapevolezza della violenza, ma ancora si sottovaluta il controllo” - Nel 2022 è stato aperto un centro antiviolenza dentro la Sapienza, in viale dello Scalo San Lorenzo 61. Qui studiava Sula che, però, a queste operatrici non si era mai rivolta. “Vista la posizione, il profilo delle donne che arriva da noi è quello di studentesse molto giovani, dai 19 anni in su”, spiega la psicologa del centro Valeria Messina. “L’età più giovane favorisce una consapevolezza maggiore della violenza. E abbiamo la possibilità di vedere e supportare situazioni iniziali, appena si percepiscono i primi campanelli di allarme. C’è maggiore probabilità che una ragazza giovane arrivi qui e che sia più consapevole”. A loro, continua Messina, “spieghiamo quello che è espressione di violenza. Perché a volte si pensa che sia solo fisica e gli altri tipi si riescono a identificare con molta meno facilità”. I campanelli d’allarme che vengono sottovalutati più spesso sono “il controllo o la gelosia, espressione del possesso”. “Una ragazza che comincia, ad esempio, a percepire che quello che vive è violenza viene da noi per comprendere se il fatto che le venga controllato il telefono o che sia limitata nelle uscite o che le siano ridotti i contatti con l’esterno sia una cosa grave”. Nel caso di Sara Campanella, anche lo stalking. “Questo è il primo reato che dà valore all’emotività della vittima perché prende in considerazione l’ansia e la paura della donna”. Anche in situazioni più “docili”, come “il costante ricevere fiori a casa o messaggi dolci”. “Lavorare su quell’emozione è fondamentale perché ci dice che in quel momento la ragazza è in pericolo”, dice. “E invece, si pensa sempre che non potrebbe succedere a noi”. Il fenomeno che riguarda le nuove generazione, è a suo modo diverso dal passato perché concorrono nuovi elementi. “I social media hanno un enorme valore e in qualche modo facilitano anche la diffusione di messaggi positivi”, continua Messina. “Però con quegli stessi social siamo maggiormente esposti alla condivisione. E quindi al controllo, al dare per scontato che bisogna sapere dove l’altro è. In più l’aspetto della gelosia, in verità è un qualcosa di molto radicato all’interno del contesto culturale in cui viviamo attualmente e credo che oggi semplicemente se ne parli di più”. È sempre sbagliato generalizzare, ma è innegabile che i due casi degli ultimi giorni hanno alcuni comuni denominatori: le vittime erano giovani, studentesse, libere di costruire il proprio futuro. “Questo in una relazione violenta è un limite perché è l’esatto opposto di quello che si usa fare. La violenza isola. Predispone al controllo costante, riduce l’autostima. E rispetto alla descrizione che ci fa la stampa, queste ragazze rappresentavano tutto il contrario”. E dall’altra parte c’è una “nuova generazione che entra in contatto con il precario”: “Avrebbe a differenza delle passate la possibilità di iniziare dei percorsi perché ormai è sdoganata la psicoterapia. Ma manca di certezze e questo nella relazione si può riversare in maniera negativa”. Per Messina, ora fondamentale “è sensibilizzare di più e fare prevenzione, a partire dai più piccoli perché solo questo può salvarci”. E alle giovani dice: “La cosa fondamentale è chiedere aiuto e affidarsi ai centri antiviolenza. Perché lì ci sono persone formate, donne che lavorano per altre donne. E averne uno nelle università può fare la differenza per le ragazze”. Che “non devono mai sottovalutare quando vivono emozioni negative, devono ascoltarsi. E passare da noi anche solo per un confronto”. ?”L’errore è che ancora non si agisce a livello culturale” - All’università Statale di Milano, nel 2021, è stato creato un osservatorio sulla violenza contro le donne ed è nato “su richiesta degli studenti”. A raccontarlo è la docente Irene Pellizzone, delegata della Rettrice sulla violenza di genere e docente di diritto Costituzionale: “Da anni ci occupiamo del tema in modo interdisciplinare”, racconta. “E l’osservatorio permette di parlarne con persone che possono illustrarlo in modo tecnico e rispondere alle domande. Che poi preludono anche a tutta una parte di condivisione emotiva. Noi possiamo dare strumenti per essere consapevoli e chiedere aiuto, delle chiavi di lettura”. Per Pellizzone, gli ultimi due casi di femminicidio, dimostrano che ancora “non si agisce a livello culturale” e “determinati comportamenti che potrebbero essere dei campanelli d’allarme o comunque che manifestano uno squilibrio di potere nella relazione o nella ricerca di un contatto, non ci rendiamo conto che sono problematici. E questo perché nella nostra cultura sono considerati normali”. Segnali che la strada è ancora lunga. “Il lavoro che stiamo facendo con le nostre studentesse e i nostri studenti non diminuisce, anzi aumenta. Anche se forse siamo una goccia del mare e anche se noi non potremmo vedere i frutti di questo lavoro a breve. È un lavoro che richiederà a tante generazioni di darsi una specie di staffetta”. Un lavoro che, secondo Pellizzone, ha un percorso segnato: “Sulla repressione siamo già dotati di norme importanti”, invece “dobbiamo lavorare di più sulla formazione degli operatori che le applicano. Su questo penso che ci siano ampi margini di miglioramento. E poi bisogna investire risorse sull’educazione nelle scuole che è ancora sporadica: gli interventi non possono ridursi a due ore in un anno in una classe virtuosa”. Uno spartiacque è stata la morte di Giulia Cecchettin. “È stato un momento di svolta”, continua, “perché si è create una specie di onda. Che non vuol dire che necessariamente le cose miglioreranno, ma le giovani generazioni che frequentano le università mi sembra che ce lo stiano chiedendo”. E gli ultimi casi “ci dicono che di fronte a certi comportamenti bisogna tutelarsi perché la violenza è insidiosa e funziona anche a livello psicologico. E un altro elemento importante è la frustrazione che deriva dall’abbandono da parte del maschio che deve essere incanalata, e non portare all’uccisione della ragazza che vuole essere libera. Il genere maschile deve avere la possibilità di rappresentare le sue emozioni senza esplodere in questi atti violentissimi. Bisogna parlare anche di questo: dello stereotipo maschile, del maschio che non piange, è sempre duro, che non può accettare la sconfitta se no non è un vero maschio. Sono uomini in difficoltà che pensano di dover manifestare il loro possesso, è ancora un tabù e invece dobbiamo parlarne”. Sorteggio al Csm, “scontro” tra Colombo e Mirenda di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 aprile 2025 L’ex pm di Mani Pulite: “Servono competenze particolari”. Il primo consigliere sorteggiato replica: “Se servono per lottizzare incarichi, possiamo farne a meno”. “Come può un magistrato scelto con il sorteggio ricoprire l’incarico, che richiede competenze particolari, di componente del Consiglio superiore della magistratura?”, afferma Gherardo Colombo, ex pm di Mani pulite ed ora riconosciuto saggista. “Se le “competenze particolari” servono per pilotare le nomine e lottizzare gli incarichi possiamo farne anche a meno”, ha replicato il giudice Andrea Mirenda, attuale componente del Csm. Botta e risposta dunque questa settimana fra i due magistrati sul tema, sempre più incandescente, della riforma dell’Ordinamento giudiziario. Riforma che prevede, oltre alla nota separazione delle carriere fra pm e giudici, il “sorteggio” per la scelta dei futuri componenti dei due organi di autogoverno delle toghe. “Come si fa a pensare che lo svolgimento di una funzione che richiede competenze particolari sia determinata per sorteggio?”, ha dichiarato Colombo, intervenendo l’altro giorno al dibattito “Quale Riforma per avere Giustizia?”, organizzato dall’associazione “Sandro Pertini- Isonomia”, in collaborazione con il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Immediata, come detto, la replica piccata di Mirenda che è attualmente il primo (e al momento unico) consigliere “sorteggiato” nella storia del Csm. La riforma Cartabia, approvata nella scorsa legislatura, fra le tante novità aveva infatti previsto anche una modifica al sistema elettorale del Csm che, dopo lo scandalo del Palamaragate, avrebbe dovuto penalizzare le correnti e premiare i candidati senza un gruppo associativo alle spalle. Se non si fosse raggiunto un numero di predeterminato di candidati in ogni singolo collegio, sarebbe poi stato necessario provvedere alla selezione dei magistrati mancanti tramite il sorteggio. Il risultato delle elezioni ha stroncato i candidati indipendenti, ottenendo il risultato contrario da quello che si prefiggeva la legge, ma la dea bendata ha indicato proprio Mirenda che per anni si era battuto a favore del sorteggio (e alla rotazione degli incarichi) in magistratura. “È emerso ciò che molti sapevano ma che pochi avevano avuto il coraggio di denunciare pubblicamente negli ultimi trenta anni”, disse Mirenda all’indomani della pubblicazione delle chat che i magistrati si scambiavano con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, ras indiscusso delle nomine al Csm, per avere un posto o un incarico. Mirenda iniziò una battaglia di verità su queste chat, utilizzate a corrente alternata al Csm: per alcuni una clava, per altri una carezza. Nel mirino del giudice veronese, in particolare, l’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, autore della circolare che escludeva l’illecito per il magistrato che si fosse “autoraccomandato” con Palamara per avere un incarico. “Non posso che prendere atto delle simpatiche affermazioni del dottor Colombo, certamente immemore delle prestigiose gesta dei vari Csm via via avvicendatisi, tutti con ottimi consiglieri “eletti” in seno alle meritorie consorterie alle quali tanto deve l’attuale prestigio della magistratura”, è stato allora l’ironico commento di Mirenda. “Venendo, poi, alle “competenze particolari” a cui egli fa cenno verrebbe fatto di chiedergli, alla luce delle cronache giudiziarie dell’ultimo decennio (tanto per non andare troppo lontano), se esse, forse, consistano nel favorire (o colpire) questo o quello secondo segrete regole da sodali nel lottizzare gli incarichi giudiziari, nel piazzare “compari” e “comparielli” nei vari ministeri, nel pilotare le nomine a pacchetto”, ha aggiunto il giudice veronese. “Ecco, perché se le competenze particolari fossero queste, credo serenamente se ne possa fare a meno; se invece fossero altre, posso rassicurare il dottor Colombo che la preparazione di ogni magistrato è ampiamente sufficiente a svolgere con onore e serenità i vari compiti consiliari”, ha quindi concluso Mirenda. Ed in effetti una domanda sorge spontanea: perché un giudice monocratico può dare fino a 30 anni di prigione o sequestrare interi patrimoni mandando sul lastrico anche società importanti e strutturate ma non può decidere chi deve fare il presidente di sezione in un tribunale? Con l’avvicinarsi dell’approvazione finale della riforma Nordio ed il conseguente avvio della campagna referendaria c’è da attendersi scintille. Intercettazioni: riforma contrastata che limita il potere delle indagini di Alberto Cisterna* Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2025 Il 19 marzo scorso il Parlamento ha approvato il disegno di legge n. 2084 recante “Modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”. Il titolo della legge non deve trarre in inganno, perché - in materia di captazioni - la durata degli ascolti costituisce, come dire, l’asse principale della disciplina, l’essenza stessa dello strumento. Quindi, la riforma non si limita a regolare diversamente, per meglio dire restrittivamente, la sola durata delle intercettazioni, ma in modo più immediato ne condiziona l’efficacia come strumento di acquisizione della prova. A una minor durata corrisponde, ad avviso dei più, una restrizione della possibilità di pervenire alla scoperta di elementi di prova utili alle indagini. La questione è annosa e riguarda, più direttamente, la prassi delle cosiddette “intercettazione a strascico”, ossia l’approntamento di captazioni di lunga durata che, più che essere orientate verso l’accertamento di un determinato reato, si prefiggono una sorta di controllo onnivoro sulla condotta di uno o più soggetti nella convinzione che comunque qualcosa di illecito emergerà. È difficile negare che questi abusi meritassero un’azione di contenimento che, spesso trascurata dal giudice per le indagini preliminari, per cui sono caduti sotto la scure del legislatore che è intervenuto in modo radicale. Probabilmente, come si ripete da danni e malgrado reiterati interventi giurisprudenziali e legislativi, la questione si annida più che sulla mera durata delle intercettazioni, sul disposto dell’articolo 270 Cpp che, ancora, consente il travaso delle captazioni da un reato (ipotizzato e incluso nel perimetro del provvedimento di autorizzazione) verso un altro (totalmente ignoto e inaspettato dagli investigatori). La matrice dello strascico era, forse, da rinvenire in quella disposizione che - in combinato disposto - con la durata praticamente illimitata delle intercettazioni (in teoria, e non solo, prorogabili per tutta l’estensione delle indagini preliminari di decreto in decreto) si prestava a una sorta di sorveglianza capillare e ossessiva su determinati soggetti. Tanto precisato la riforma dovrebbe conseguire due diversi obiettivi: per un verso, dovrebbe circoscrivere, l’incursione del pubblico ministero sulla segretezza e riservatezza delle comunicazioni dei cittadini, anche se indagati; dall’altro, dovrebbe apportare un contenimento dei costi delle captazioni che hanno un’incidenza non marginale sul bilancio del Ministero della giustizia. I costi delle intercettazioni - Su quest’ultimo crinale, i dati messi a disposizione da via Arenula evidenziano che nel 2023 è continuata la flessione dei bersagli telefonici (­meno 18% rispetto al 2021 e meno 2% rispetto al 2022), mentre sono in crescita i bersagli delle altre tipologie di intercettazione, in particolare quelli delle telematiche e quelli raggiunti con captatore informatico trojan (rispettivamente +24% e +21% rispetto al 2022). I dati relativi al primo semestre 2024 riportano un incremento del numero totale dei bersagli rispetto al primo semestre del 2023 di tutte le tipologie di intercettazione, tranne per quelle ambientali i cui bersagli restano costanti. I costi sono passati dai 166.528.450 del 2021 ai 193.634.139 del 2023; ponendo a raffronto il primo semestre del 2023 (104.426.912) con il primo semestre del 2024 (109.919.702) si coglie un trend di crescita delle spese che potrebbero superare nel 2024 i 200 milioni di euro. La mancanza di dati disaggregati non consente di verificare quanta parte di queste captazioni concerna i cosiddetti “reati ordinari” (su cui impatta la riforma appena approvata) e quanta sia afferente a delitti a statuto speciale (mafia e terrorismo, in primis) che restano indenni dalle modifiche del 2025. Tuttavia, dalla contrazione delle intercettazioni telefoniche e dal sensibile aumento di quelle telematiche e telematico/ambientali a mezzo trojan è lecito ricavare la conclusione che la maggior parte dei costi concerna i serious crimes di competenza delle Procure distrettuali. Se la conclusione fosse corretta, dovrebbe immaginarsi che la riduzione delle spese sarà minima o comunque di modesto importo, anche se alcune considerazioni devono essere comunque svolte al riguardo. Come accaduto per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, anche la modifica dei tempi degli ascolti per i reati ordinari, patisce la denuncia che di priverebbero gli investigatori della possibilità di addivenire alla scoperta di reati più gravi rispetto a quelli originariamente ipotizzati o denunciati: così l’abuso d’ufficio avrebbe operato da cosiddetto “reato spia” per una concussione o le captazioni per un reato di corruzione avrebbero potuto condurre alla scoperta di collusioni con la mafia. Il limite di questa impostazione risiede nel fatto che essa è meramente criminologica e non processuale; ossia prefigura un certo modello di agente criminale disinvoltamente occupato nella commissione di una pletora di reati che renderebbe legittimo un monitoraggio ad ampio compasso per contenerne e disvelarne la pericolosità sociale. Come tutti i modelli criminologici, però, richiederebbe una ricognizione precisa per convalidarne la correttezza. Non è sufficiente, cioè, che taluno - quale esperto di settore - enunci sulla base della propria esperienza una siffatta regola, ma occorrerebbe verificare quali frequenze statistiche confermino la tesi; e tanto valeva sia per l’abuso d’ufficio che per le intercettazioni di cui si discute. Ossia sarebbe stato necessario offrire al Parlamento non personali apprezzamenti ed erratiche valutazioni professionali, ma dati precisi che convalidassero la tesi criminologica che si intendeva avvalorare. In mancanza di riscontri scientifici e di analisi verificabili, non è dubbio che spetti al decisore politico il compito di enunciare la politica criminale che intende perseguire e individuare gli strumenti necessari per perseguirla. Sia chiaro, questo non vuol significare che corruzione e mafia possano intersecarsi e interagire, ma che nessun dato concreto è stato offerto per verificare quante volte una intercettazione partita, a esempio, da un’ipotesi di peculato sia giunta la scoperta di condotte di partecipazione mafiosa. In presenza di mere enunciazioni di principio, è evidente che risulta anche complesso approntare critiche argomentate alle opzioni messe in campo dal Parlamento che, con un certo favore della pubblica opinione, sta progressivamente erodendo non solo e non tanto alcuni plessi importanti del sistema penale, ma le basi stesse della visione criminologica (quasi antropologica) su cui si fonda l’attività inquirente almeno negli ultimi tre decenni. In ogni caso, si deve ricordare che il regime “eccettuato” dell’articolo 13 Dl n. 152/1991 si estende - in forza dell’articolo. 6, comma 1 del Dlgs 9 dicembre 2017 n. 216 - anche ai “procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale” e, quindi, i più gravi reati dei colletti bianchi rimangono comunque soggetti al precedente regime temporale delle intercettazioni, senza i nuovi vincoli della novella del 2025. La riforma approvata dal Parlamento - La legge in attesa di pubblicazione sulla “Gazzetta Ufficiale è stata promulgata dal Capo dello Stato il 31 marzo scorso. Il provvedimento si compone di un unico articolo che modifica l’articolo 267 Cpp e l’articolo 13 del Dl 13 maggio 1991 n. 152 in materia di criminalità organizzata, nell’intento di riconfermare anche per le intercettazioni le deroghe previste in nome del cosiddetto “doppio binario”. L’addendum all’articolo 267, comma 3, Cpp consta di un periodo finale secondo cui “Le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Una prima considerazione: deve essere corretta la convinzione di quanti sostengono che le intercettazioni potranno riguardare un arco temporale di soli 45 giorni. L’avverbio “complessivamente” lascia intendere che sono possibili interruzioni e riattivazioni (a cura del pubblico ministero) delle intercettazioni nello spazio temporale di 15 giorni (o anche meno, volendo) concesso dal giudice per le indagini preliminari; per cui è ben possibile che le operazioni di ascolto siano sospese anche solo per alcuni giorni in coincidenza con attività dell’intercettato non significative per le indagini o di intervalli “neutri” per le investigazioni; certo c’è in pericolo che siano disperse acquisizioni non marginali per le inchieste durante la “sospensione” delle captazioni, ma questo vale in generale anche per le modalità precedenti, almeno di non immaginare una sorta di full immersion nella vita dell’indagato protratta per mesi e mesi (come pur accadeva, invero). Il regime ordinario, relativo alla generalità dei reati per i quali sono ammesse le intercettazioni, è quello regolato dall’articolo 267, comma 3 Cpp per cui la durata massima delle operazioni è di 15 giorni, prorogabili per periodi successivi di 15 giorni, sino alla soglia dei 45 giorni. Naturalmente non si è in presenza di una soglia insuperabile, la cui costituzionalità sarebbe stata ampiamente discutibile, ma di un limite temporale oltre il quale scatta un protocollo di delibazione della proroga particolarmente incisivo e rafforzato. In casi, infatti, di “assoluta indispensabilità delle operazioni” questa deve essere “giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Il primo quesito che è lecito formulare attiene alla circostanza se gli “elementi specifici e concreti” debbano emergere dall’attività di captazione in corso, ovvero possono derivare anche da accadimenti esterni al perimetro degli ascolti. A esempio, se nel corso di attività di pedinamento o da altri ascolti emerge che il soggetto intercettato sarà contattato il giorno 45 + x è chiaro che sussiste una palese giustificazione per la prosecuzione delle intercettazioni, sebbene nulla sia emerso dalle captazioni in corso. È evidente che l’attività di investigazioni, se voglia andare a segno, dovrà assumere connotati di particolare sofisticazione e dovrà essere il frutto di un’accurata pianificazione in modo da poter approntare un reticolo di accertamenti che consenta l’utile prosecuzione delle intercettazioni e di evitare lo spreco della poca sabbia che scorre nella clessidra dell’articolo 267 Cpp. A questo proposito, ancora, si deve ritenere che il limite dei 45 giorni sia circoscritto a ciascun “bersaglio” ossia apparato di comunicazione, per cui - in teoria - i tempi sono dilatati laddove si proceda non contestualmente a intercettare un apparato telefonico, uno smartphone, un computer e via seguitando anche se in uso al medesimo soggetto. I reati sottoposti al nuovo regime - È del tutto corretto il rilievo che delitti gravi quali l’omicidio o lo spaccio di stupefacenti, lo stalking, i maltrattamenti in famiglia, la rapina, la ricettazione, il riciclaggio, la violenza sessuale, i reati finanziari e altri sono soggetti al nuovo regime temporale e non pare certo sufficiente la mera approvazione di un ordine del giorno (il n. 9/02084/001) per ritenere tranquillizzante la situazione in un prossimo futuro. A questo proposito, occorre ricordare la mancanza di una norma transitoria che, in forza del principio del tempus regit actum, imporrebbe l’applicazione immediata della nuova disciplina anche alle captazioni in corso che dovrebbero essere sottoposte al nuovo regime temporale. Con riguardo, infatti, ad altre importanti modifiche legislative, il Parlamento aveva curato l’adozione di norme transitorie anche se di non agevole interpretazione; così “in tema di intercettazioni mediante captatore informatico (c.d. “trojan horse”) nei reati contro la pubblica amministrazione, qualora nel medesimo procedimento, iscritto prima del 31 agosto 2020, siano state autorizzate captazioni in epoca precedente ed anche successiva a tale data, si applica esclusivamente la disciplina previgente rispetto alle modifiche apportate dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2020, n. 7, poiché la norma transitoria ivi recata all’art. 2, comma 8, deroga al principio “tempus regit actum” ed àncora la normativa processuale applicabile con riguardo all’iscrizione del procedimento penale e non alla data dei singoli decreti autorizzativi” (Cassazione. sezione VI, n. 9158 del 30 gennaio 2024); oppure “in tema di acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico e telematico, gli “altri elementi di prova” che, ai sensi della norma transitoria di cui all’art. 1, comma 1-bis, d.l. 30 settembre 2021, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2021, n. 178, devono corroborare i cd. “dati esteriori” delle conversazioni, ai fini del giudizio di colpevolezza, possono essere di qualsiasi tipo e natura, in quanto non predeterminati nella specie e nella qualità, sicché possono ricomprendere non solo le prove storiche dirette, ma anche quelle indirette, legittimamente acquisite e idonee, anche sul piano della mera consequenzialità logica, a confortare il mezzo di prova ritenuto “ex lege” bisognoso di conferma” (Cassazione, sezione IV, n. 50102 del 5 dicembre 2023). Come segnalato durante i lavori parlamentari da esperti auditi dalle Commissioni, compresi diversi magistrati, la riforma avrà rilevanti risvolti pratici. Non è eccessivamente pessimistico pronosticare che la nuova regola sulla durata massima delle intercettazioni comporterà, in un certo numero di casi, il mancato ricorso alle stesse quando si procede per reati diversi da quelli ai quali è riferibile il regime in deroga di cui all’articolo 13 Dl n. 152/1991. Le intercettazioni sono operazioni complesse, sul piano tecnico e investigativo, e un periodo di durata massima così limitato - soli 45 giorni - risulterà il più delle volte insufficiente, pregiudicando sul nascere l’efficacia del mezzo di ricerca della prova. Naturalmente proprio la citata osservazione preventiva del soggetto da parte degli investigatori (v. acquisizione tabulati o traffico telematico), e la scoperta delle sue abitudini comunicative, dovrebbero consentire in progress di delimitare con precisione anche gli accorgimenti e gli escamotage che sono adoperati per sfuggire al controllo di polizia e pervenire all’identificazione dello strumento “occulto”; strumento, per il quale, è scontata, quasi in re ipsa, la sussistenza delle condizioni legittimanti la proroga, anzi le proroghe perché non è detto che gli “elementi specifici e concreti” debbano emergere a ogni richiesta di proroga. A esempio individuata l’utenza “occultata” - e scoperto che essa è in uso all’indagato o ai suoi complici - questo di per sé è un elemento che legittima la proroga reiterata delle captazioni anche secondo la nuova disciplina che - superata la soglia del 45 giorni - non reclama quello standard probatorio per ciascuna delle proroghe successive. Una possibile conclusione - Chiunque rilevi che la limitazione temporale dell’attività di intercettazione si ponga in contrasto con il termine di durata complessiva delle indagini preliminari ex articolo 407 Cpp, non prende sufficientemente in considerazione la circostanza: a) che il termine di 45 giorni è per “bersaglio” ossia per utenza o apparato, non per soggetto; b) che chiunque tema di essere intercettato adoperata svariati apparati e/o schede per cui difficilmente mantiene in uso lo stesso “bersaglio” per oltre 45 giorni; c) che, come detto, la scoperta di utenze o apparati “segreti” dischiude sicuramente la possibilità di proroga oltre i 45 giorni quale elemento pienamente giustificante ex articolo 267 Cpp di nuovo conio; d) che il sacrificio della libertà e segretezza delle conversazioni è consentito dal Codice di rito non per iniziare indagini (a strascico) su un determinato reato o peggio su una certa persona, ma “l’autorizzazione è data con decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini” (articolo 267 comma 1 Cpc). E non v’è dubbio che la limitata “finestra captativa” concessa al pubblico ministero lo costringerà a recuperare la vera funzione delle intercettazioni da mezzo di inizio e fine delle indagini a strumento di mera prosecuzione delle stesse. Decenni di ordinaria attività investigativa (pedinamento, osservazione, controlli con telecamere e via seguitando) sono stati fortemente penalizzati dal ricorso massivo, e spesso “pigro” alle captazioni; il freno posto dal Legislatore appare in effetti eccessivo, ma potrebbe svolgere un’importante azione di stimolo verso indagini meno confinate nel recinto di una sala ascolti. *Presidente di sezione del Tribunale di Roma Criticò il ddl sicurezza, il Csm respinge l’incompatibilità per il pm Musolino: non sarà trasferito di Conchita Sannino La Repubblica, 3 aprile 2025 Archiviato. Niente incompatibilità ambientale, secondo il plenum del Consiglio superiore della magistratura. Niente “foglio di via” per il magistrato sgradito alla destra. Stefano Musolino, il procuratore aggiunto antimafia di Reggio Calabria, già sotto scorta per minacce della ‘ndrangheta, nonché segretario generale di Magistratura democratica (la corrente di sinistra delle toghe) non ha leso la sua imparzialità né indipendenza, partecipando - lo scorso 19 ottobre, a Reggio - a quel dibattito in un centro sociale culturale in cui aveva espresso le sue pacate critiche all’impianto del ddl sicurezza: finendo, per questo motivo, sotto gli attacchi di esponenti della maggioranza e dei giornali di area governativa. Qualche giorno dopo, Musolino si era attirato altri attacchi per aver partecipato a un talk politico in tv, su La 7, in cui aveva detto che “non esiste un’imparzialità come condizione pre-data, come stato del magistrato: l’imparzialità è qualcosa verso cui si tende”. Il Csm ha respinto la pratica a maggioranza con 20 voti a favore. Non ha partecipato al voto il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli. Cinque i voti contrari dei laici di centrodestra: Bertolini, Eccher (entrambe firmatarie di quella pratica) con Giuffré, Aimi e Bianchini. Due le astensioni: quelle del consigliere Michele Papa, laico di area M5S, e della prima presidente di Cassazione, Margherita Cassano. Ha votato invece a favore dell’archiviazione l’altro membro di diritto, il neo Procuratore generale presso la suprema Corte, Pietro Gaeta. In linea con il sì dei togati di tutti i gruppi (non hanno partecipato al voto i magistrati Abenavoli e Scaletta, ed era assente il collega Nicotra). Non sono mancati riferimenti allo scontro ormai in corso da mesi, e ai tentativi di “frenare” o “limitare” l’espressione del libero pensiero dei magistrati. A senso unico, secondo alcuni. Tanto che in Csm è risuonato più volte il nome di Alfredo Mantovano, magistrato di Mi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, oggi uomo di punta del governo Meloni. È stato il togato Marco Bisogni, dei centristi di Unicost, a citare in plenum alcune legittime osservazioni espresse contro il ddl Zan da Mantovano, che nel 2020 era approdato in Cassazione dopo le esperienze da parlamentare della destra (senatore di An, poi deputato e di nuovo sottosegretario nel governo berlusconiano), definendo “liberticide” il disegno di legge della sinistra. “Si punisce un modo di pensare, e ancor prima di essere: il che giustifica - aveva scandito Mantovano - la qualifica, che ammetto essere forte, di liberticida conferita alla normativa che oggi viene proposta”. Un acceso dibattito tra consiglieri ha infatti riproposto da un lato il tema della pretestuosità di “pratiche aperte esclusivamente su un caso singolo, su un magistrato ritenuto ‘toga rossa’, mentre fingiamo di dimenticare casi di autorevoli altre toghe che hanno assunto funzioni politiche e poi sono tornate nei ranghi alti della magistratura “ (come rilevato ad esempio anche dall’indipendente Roberto Fontana, dai togati di Area e Md, Marcello Basilico e Domenica Miele); e dall’altro lato, ha ripreso la discussione su quale sia, “nel 2025, l’immagine della imparzialità da preservare, e dell’opportunità che un magistrato partecipi a dibattiti che escono fuori dall’ambito del contributo tecnico (com’è stato sottolineato dalla presidente Cassano e da Papa). È stato il relatore Tullio Morello (togato di Area) a sottolineare la necessità dell’archiviazione di quella pratica: poiché gli interventi di Musolino, prima live durante l’incontro pubblico in Calabria e poi in tv, contro i rischi “di criminalizzazione del dissenso” costituiscono solo, secondo il parere della maggioranza della Prima commissione, “un’espressione del diritto di manifestazione del pensiero, i cui eventuali limiti deontologici sono estranei al perimetro di questa delibera, nell’ambito di un più ampio dibattito pubblico su norme innovative, da cui non possono farsi discendere, sic et simpliciter, profili di appannamento dell’immagine del medesimo magistrato”. Non ricorrevano dunque in alcun modo gli estremi per valutare l’articolo 2 della legge sulle guarentigie. Un’ipotesi questa, accuratamente smontata in apertura del dibattito dal laico Roberto Romboli, il costituzionalista di area Pd, che ha sottolineato come quella pratica “non presentava alcun presupposto per incardinare un profilo eventuale di incompatibilità”. È la conclusione di tutti i togati che votano compatti. “Oggi abbiamo compreso che è impossibile pretendere dai magistrati italiani riserbo e sobrietà quando parlano in pubblico”, commentano a margine le laiche di Lega e FdI, Isabella Bertolini e Claudia Eccher. “Il Csm non ha colto l’assoluta inopportunità della condotta di Musolino che mina in radice il principio costituzionale di terzietà ed imparzialità del magistrato. Anzi, durante il dibattito in plenum abbiamo addirittura ascoltato da alcuni illustri magistrati che è un bene che si sappia quali siano le idee politiche del magistrato e che non bisogna quindi farne mistero. Peccato che i cittadini non possano stabilire da quali magistrati farsi giudicare”, affondano. Sceglie invece di riflettere su “un’altra occasione mancata”, la presidente Cassano. “Devo confessare un profondo disagio nella trattazione di questa pratica - sottolinea il vertice della Cassazione - Perché condivido l’analisi del consigliere Romboli, il caso che si esamina qui (Musolino che partecipa a un dibattito pubblico, ndr) non giustifica il richiamo all’articolo 2, e quanto ad eventuali profili disciplinari sarà il Procuratore generale a valutare”. Ma esiste, per Cassano, “una zona intermedia su cui questo Consiglio ha rinunciato ancora una volta ad interrogarsi e a discutere. Mentre forse noi come Csm abbiamo il compito, e il dovere, di elaborare un punto di vista su come interpretare, nel 2025, l’immagine di imparzialità del magistrato e la sua responsabilità nella legittima libera espressione del pensiero, nell’epoca dei social media. È un tema che penso sia ipocrita lasciar cadere. Personalmente penso che il magistrato abbia un dovere di riserbo istituzionale, ma forse sono più vecchia di voi ed ho una visione superata. Credo tuttavia che, se non si adotterà un self-restrain, tutto questo si trasformerà in un boomerang per la magistratura”. Parole a cui il consigliere Basilico aggiunge, tuttavia, una considerazione: “L’asetticità non esiste, non solo in magistratura, ma in relazione a ciascun essere umano. Ed archiviare questa pratica significa non cedere a smottamenti e scivolamenti pericolosi, rispetto allo stato di diritto”. Chiude il togato Morello cogliendo la ricchezza del dibattito, con un accento polemico sul Csm del futuro, che - nel caso di approvazione e referendum favorevole alla riforma Nordio - prevede il sorteggio dei componenti. “Rilevo che in maniera serena e nel rispetto di chi coltiva idee diverse, forse abbiamo dato al Paese una bella testimonianza di democrazia assembleare. La riforma al vaglio del Parlamento vuole invece - dice Morello - un Csm dove non si conoscono neppure le idee delle persone che saranno i futuri componenti: persone che potrebbero non averne affatto o averne di uguali, le une alle altre. E in tal caso l’organo di autogoverno ne uscirebbe indebolito e mortificato”. Reati 2017-2019, prescrizione “lunga” nonostante la riforma Cartabia di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2025 Non conta che la sospensione dei termini tra un grado di giudizio e l’altro sia stata poi abrogata. E il giudice può sospendere la patente più a lungo di quanto già deciso dal prefetto. Per i reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019 si applica la sospensione della prescrizione tra un grado e l’altro di giudizio introdotta dalla “riforma Orlando” (legge 103/2017), nonostante quest’ultima sia stata abrogata da “Spazzacorrotti” (legge n. 3/2019) e “riforma Cartabia” (legge 134/2021). Inoltre, in materia di guida in stato di ebbrezza, il giudice penale ben può comminare all’imputato la sanzione accessoria della sospensione della patente per un periodo superiore a quello irrogato dal Prefetto a titolo cautelare. In questo caso avrà diritto alla detrazione del “presofferto”, che dovrà essere effettuata in via esecutiva dal Prefetto medesimo una volta che si sarà formato il giudicato penale. È quanto ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 12550, depositata il 28 marzo. Prescrizione - La pronuncia è meritevole di segnalazione soprattutto perché dà una delle prime applicazioni al principio di diritto recentemente espresso dalle Sezioni unite (informazione provvisoria n. 19 del 12 dicembre 2024) in materia di individuazione del regime di prescrizione per i fatti avvenuti in un ampio periodo temporale. Il nodo era particolarmente rilevante da sciogliere, perché si era formato un contrasto giurisprudenziale che andava quanto prima risolto, visto che la problematica si stava presentando con frequenza nella valutazione preliminare dei ricorsi per Cassazione, come aveva sottolineato il provvedimento che aveva sollecitato la rimessione della questione alle Sezioni Unite. Per comprendere la rilevanza della questione, e le sue ricadute pratiche, è utile ripercorrere i termini della questione. La riforma Orlando aveva previsto la sospensione della prescrizione per un tempo non superiore a un anno e sei mesi, decorrente dal deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza del grado successivo. Un’ulteriore sospensione dello stesso periodo era prevista dal deposito della motivazione della sentenza di condanna in appello, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva. I periodi di sospensione in questione erano computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere se la sentenza del grado successivo proscioglieva l’imputato ovvero annullava la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne dichiarava la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del Codice di procedura penale. Lo Spazzacorrotti ha previsto, per i fatti commessi dopo il 1°gennaio 2020, il congelamento della prescrizione dalla sentenza di primo grado, o decreto di condanna, fino alla data del giudicato. La riforma Cartabia, per assicurare il rispetto della ragionevole durata del processo, ha introdotto l’istituto dell’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, pari a due anni per l’appello e a uno per la Cassazione, con una serie di deroghe per i procedimenti più complessi, previste dall’articolo 344-bis del Codice di procedura penale. La riforma Cartabia, pur abrogando l’articolo 159 del Codice penale (sul quale avevano inciso la riforma Orlando e lo Spazzacorrotti), si è limitata a spiegare che l’improcedibilità si applica ai reati commessi dal 1° gennaio 2020, senza individuare il regime da applicare per i fatti commessi dall’entrata in vigore della legge 103 (3 agosto 2017). Le Sezioni unite hanno ora stabilito che il periodo di sospensione previsto dalla riforma Orlando va comunque computato. In attesa delle motivazioni, è ragionevole pensare che sia stata ritenuta esistente una continuità normativa sostanziale tra le modifiche susseguitesi dal 2017. Diversamente, non si comprende come si possano fare convivere gli effetti di una norma sfavorevole per il reo, quale è la sospensione della prescrizione, con la sua formale abrogazione. Sospensione patente - Oltre a ritenere pacifica la non cumulabilità tra la sospensione provvisoria disposta dal prefetto e quella definitiva decisa dal giudice, la Cassazione precisa che “non ci sono ragioni che impediscano” al magistrato di decidere per un periodo più lungo di quello fissato in sede prefettizia. In questo la Corte ha tenuto come riferimento la pronuncia 18920/2013. Torino. “Addio Alvaro...”: la lettera del prof al giovane suicida in carcere un anno fa di Franco Plataroti La Stampa, 3 aprile 2025 Il ragazzo era schizofrenico ma era detenuto al Lorusso e Cutugno di Torino: “Non era sfrontato, non era sfacciato, era curioso e trattenuto, intimidito dalla vita, spaventato dalle tante domande senza risposta che ognuno di noi si pone”. Alvaro Fabricio Nunez Sanchez era un ragazzo con una grave forma di schizofrenia che un anno fa si è tolto la vita in carcere. Stamattina il suo istituto, il tecnico Sommeiller, lo ricorda con un incontro sul disagio mentale e il carcere rivolto ai ragazzi di quarta e quinta. Le parole di Franco Plataroti, il suo professore di storia, ad Alvaro. Buongiorno a tutte e a tutti. Ruberò poco tempo ai relatori, a chi, per esperienza professionale e competenze, è stato chiamato a dialogare con voi su un tema di enorme importanza, non tanto caro ai mass-media, come il carcere e a ragionare con voi su come i luoghi di detenzione possano diventare spazi mortali per coloro i quali, più fragili d’altri, sentono, tra le pareti di una galera, la loro condizione di vita come priva di sbocchi, priva di futuro, priva di senso. Alvaro apparteneva a questo gruppo, a quello delle persone a cui la sorte ha giocato un cattivo scherzo, dotandolo di una sensibilità straordinariamente delicata e di un animo, allo stesso tempo, inquieto, sofferente. Il mio Alvaro - ossia l’Alvaro che io ho conosciuto, quello che ho ritagliato nei miei ricordi personali, probabilmente diverso da ciò che quest’uomo è stato per altri - è uno studente, sedicenne, un giovane studente di questo istituto, che viveva le stesse passioni e gli stessi sogni di ogni individuo della sua età: il calcio e l’amore, gli idoli musicali e le amicizie, i dubbi e le domande sul futuro. Alvaro, il mio Alvaro, apprezzava la storia, me lo confidò più volte, via Messenger, l’amore per quella materia che ci aveva portato l’uno accanto all’altro in un’aula. Il mio Alvaro è un ragazzo che diventa uomo, accompagnato da un disagio interiore profondo, che lo porta, nella tarda estate del 2023, in carcere. In realtà, in carcere c’era già, prima ancora di entrarci: nel luglio di quello stesso anno, a un mese circa dalla detenzione, sempre via Messenger, mi disse: “professore, non so come mai adesso non riesco più a uscire di casa per cercare lavoro. Mi sento in prigione mentale e fisica”. Quando penso ad Alvaro, penso a quanto semplicistico sia il nostro giudizio sui detenuti, sui carcerati e sui luoghi che li contengono, le carceri. Sono spazi distanti da noi, sono gli spazi che custodiscono i “cattivi”, le persone malvagie, da allontanare, da isolare. Il discorso è molto più complesso, ma non spetta a me affrontarlo o provare a spiegarlo, non è il mio mestiere. Certamente, se penso ad Alvaro e alla sua condizione di detenuto, alla sua vita dietro le sbarre, non ci vedo un essere spietato, crudele, un mostro da nascondere. Chiunque abbia conosciuto questo sfortunato giovane, ha avuto modo di apprezzarne la mitezza, il riserbo; non era sfrontato Alvaro, non era sfacciato, era curioso e trattenuto, intimidito dalla vita, spaventato dalle tante domande senza risposta che ognuno di noi si pone. Era, innanzitutto, un uomo. È più facile, per me, avendolo conosciuto, evitare di sistemarlo nello scaffale del criminale, di quello che va in galera, il cattivo, appunto. Era un uomo, prima di ogni altra cosa, e questo dobbiamo ricordarlo sempre, perché commettiamo spesso l’errore di incollare su qualcuno un’etichetta, comoda, che, però, non ci consente di arrivare a comprendere la pienezza di quella persona, le sue sfumature, la sua complessità, la sua bellezza. E nell’anima di Alvaro viveva la bellezza profonda di ogni uomo, diviso tra le ipotesi di un futuro normale e quotidiano (vorrei una moglie e dei figli professore, solo questo!) e la malattia interiore che spingeva davanti a lui tante domande e tanti dubbi ai quali non era in grado di dare risposta. Come ogni altro uomo. Ecco, il mio Alvaro è uno studente, un uomo che è potuto sbocciare solo a metà, per responsabilità non sue, per problemi più grandi di lui, come la sua malattia, come quel mondo carcerario che spesso, troppo spesso, giudichiamo dal di fuori, di cui conosciamo poco, sappiamo che custodisce i cattivi e dimentichiamo che detiene esseri umani, con le loro bassezze, le loro debolezze e la loro umanità travagliata e, magari, delicata e gentile, come quella di questo sfortunato giovane. La parabola dell’avventura umana del mio Alvaro contiene una dimensione tragica, quella del peso di forze troppo potenti per un singolo individuo, capaci di schiacciare chiunque. La vita di Alvaro è la peggior pubblicità per una società che ci chiede di diventare qualcuno a ogni costo, che ci incanta con le sirene del successo e che, però, rischia spesso di lasciarci soli con i nostri insuccessi, i nostri fallimenti, non ci insegna a governarli, a gestirli. Per questo il mio Alvaro mi è tanto caro, per non aver chiesto la luna, per non aver preteso di diventare imperatore, papa o governatore della Terra. Chiedeva una vita semplice, ordinaria, con il suo sorriso pensoso e, a volte, malinconico. Alvaro è stato un eroe tragico del quotidiano, ha combattuto la sua battaglia, aiutato dalla sua famiglia e da chi l’amava, ma l’ha persa. È la sua umanità simbolo di tutti i nostri sforzi non riusciti, di tutti i nostri sogni bloccati a metà, che noi intendiamo ricordare oggi, perché crediamo che ogni vita meriti rispetto, anche quelle non sbocciate per intero, poco gradite a una società che ama i vincenti e mal sopporta i vinti, li dimentica in fretta. Noi oggi ricordiamo Alvaro, il nostro Alvaro, come quel giovane, un po’ timido e curioso della vita, che ci ha aiutato a capire come fermarsi alle apparenze e alle etichette sia sempre sciocco, ci ha insegnato con il suo drammatico esempio che vivere è una scommessa complicata, difficile. La sua grande dignità è ciò che ha reso possibile l’incontro di quest’oggi, il suo spessore umano tutt’altro che banale e che ha sollecitato chi lo ha incrociato a fissarne il ricordo per sottrarlo all’ultimo gesto, con il quale ha chiuso una parabola esistenziale che avrebbe meritato ben altro sviluppo. Ciao Alvaro. Belluno. Lavori sociali, il progetto viene rinnovato ma nessun detenuto hai requisiti di Federica Fant Il Gazzettino, 3 aprile 2025 L’amministrazione comunale di Belluno rinnova il progetto “Detenuti per il sociale” ma, anche quest’anno, rischia di non aver alcun contributo lavorativo dai 115 detenuti del carcere di Baldenich. Il progetto prevede infatti la possibilità di impiegarli in lavori di pubblica utilità su base volontaria, ma in tutto il 2024 nessuno si è fatto avanti. Secondo il Comune la mancata adesione sarebbe dovuta al fatto che nessuno dei detenuti rispondeva alle caratteristiche d’idoneità previste per partecipare al progetto. Un lavoro di mesi quello che portò, un anno fa, l’assessorato al Sociale, Rapporti con le Associazioni, Politiche per la Famiglia del Comune di Belluno, a promuovere e sostenere questa prova di inclusione. “Parliamo dello sviluppo di lavori di pubblica utilità che possano favorire la rieducazione ed il reinserimento nella vita sociale dei detenuti”, spiega l’assessore Marco Dal Pont. Il tutto è stato avviato dopo varie interlocuzioni con i vertici della Casa circondariale di Belluno che si sono confrontati con gli inquilini di Palazzo Rosso sulla disponibilità del carcere ad avviare il progetto di lavori di piccola manutenzione e cura del verde pubblico di pertinenza del Comune di Belluno. “Considerato che tale iniziativa rientra nel progetto pedagogico dell’amministrazione penitenziaria ha spiegato Dal Pont che è volto a individuare e promuovere azioni per offrire, mediante il lavoro all’esterno, occasioni di formazione professionale e di esperienza lavorativa utili al reinserimento sociale”. Il Protocollo d’Intesa, rinnovato pochi giorni fa, è “finalizzato a disciplinare lo svolgimento di prestazioni di attività volontarie e gratuite nell’ambito di progetti di pubblica utilità da parte di soggetti ammessi alla semilibertà”, si legge nell’atto. Spetta alla Casa circondariale selezionare i detenuti semiliberi idonei alle attività da svolgere, si occuperà inoltre della formazione e degli aspetti legati alla verifica della idoneità psico fisica degli stessi. Sempre il carcere è chiamato a predisporre un’apposita dichiarazione con la quale il detenuto si impegna a partecipare al progetto a titolo esclusivamente gratuito e su base volontaria. Il Comune rimborserà i detenuti del biglietto dell’autobus per gli spostamenti. A coordinarli ci penserà il funzionario delegato all’Ufficio Sicurezza sul lavoro e gestione del volontariato, Paolo Zaltron. Non resta che vedere quali frutti produrrà nel 2025. Cagliari. Carcere Uta, sanità al collasso: detenuti senza medici e specialisti cagliaripad.it, 3 aprile 2025 A denunciare la situazione è stata Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che sottolinea la mancanza di medici: “Per le prossime tre notti non ce ne sarà alcuno”. La situazione sanitaria nelle carceri sarde, in particolare a Uta, continua ad essere oggetto di grandi polemiche. A sottolineare i disagi è stata Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “Il sistema sanitario della Casa Circondariale di Cagliari-Uta con un sovraffollamento al 132,5% è agonizzante - spiega Caligaris - Assente il responsabile dell’area sanitaria, carenti le figure professionali, i servizi alle persone private della libertà sono totalmente inadeguati, nonostante gli sforzi e l’abnegazione dei pochi Medici e Infermieri in campo. Familiari e detenuti esprimono viva preoccupazione per la situazione”. “Abbiamo appreso che sempre più spesso - prosegue - mancano i medici del 118 al punto che per le prossime tre notti non ce ne sarà alcuno. Saltano spesso anche i turni pomeridiani con assenza di medici in servizio per carenza di personale, anche perché è andato in pensione uno dei medici a 38 ore e non è stato sostituito”. Caligaris poi conclude: “Niente è stato fatto, inoltre, per garantire la presenza della medicina dei servizi. Gravissima l’assenza degli specialisti di cardiologia, dermatologia e diabetologia ma anche quella di oculistica ed ecografia”. Ferrara: Nordio: “Nuovo padiglione per la riabilitazione sociale, assomiglia più ad un quartiere” La Nuova Ferrara, 3 aprile 2025 Arriva la risposta alla senatrice di Avs Ilaria Cucchi, preoccupata per la qualità della vita. Il ministro della Giustizia: “Posti calati da 120 a 80 a parità di volumi”. Il nuovo padiglione del carcere di via Arginone doveva inizialmente ospitare 120 detenuti, invece è stato ridotto a 80, “a parità di superfici e volumi occupati”. Questo perché, mette per iscritto il ministro Carlo Nordio, “è pensato come architettura per la riabilitazione sociale, ovvero come modello di sviluppo architettonico che, attraverso una diversa concezione e articolazione degli spazi e degli ambienti collocati in un contesto più vicino all’immagine di un quartiere che a quello di un carcere - possa favorire il passaggio ad un trattamento penitenziario con un’attitudine “responsabilizzante”, mirata alla riabilitazione alla vita civile”. E tutte le aree previste, interne ed esterne (circa 2.300 metri quadri) al piano terra della struttura, “sono destinate, infatti, ad attività trattamentali per gli ospiti, tra cui anche la coltivazione di prodotti agricoli nelle zone all’aperto (orti, serre ecc.)”. La spiegazione del ministro sul nuovo padiglione, che costerà 16,5 milioni e il cui appalto integrato è stato già affidato, fa parte di una più ampia risposta su tutte le nuove edificazioni carcerarie a livello nazionale, ad una interrogazione di Ilaria Cucchi. La senatrice di Avs aveva sottolineato che l’ampliamento di 80 posti rispetto ai 244 regolamentari in via Arginone “non risolverà il sovraffollamento, considerando che attualmente risultano essere detenute 392 persone”. E chiedeva al governo se i lavori “siano solo un palliativo all’emergenza e non risolvano il problema del sovraffollamento, anche a seguito dei numerosi casi di suicidio verificatisi nell’anno 2024 e quelli che si sono già verificati nel 2025”; e come ritengano di “poter migliorare la qualità di vita dei detenuti se le attività vengono ridotte se non addirittura eliminate”. Rispetto a quest’ultimo timore, rilanciato a più riprese dagli avvocati penalisti ferraresi e dalle associazioni che si occupano di attività in carcere, la risposta di Nordio apre alla possibilità che resti un orto a disposizione dei detenuti: l’area del nuovo padiglione era infatti ricavata sull’attuale area utilizzata per la coltivazione e pure tagliando a metà il campo da calcio interno. Foggia. Carcere, un incontro su emergenza e riforme. Intesa tra Aiga Puglia e Garante Regionale immediato.net, 3 aprile 2025 Il 4 aprile nella Sala Fedora del Teatro Giordano confronto tra magistrati, garanti e avvocati. Sarà firmato un protocollo. È di qualche giorno fa la notizia dell’ennesimo suicidio avvenuto nelle Carceri italiane. Stavolta, e non è la prima, è avvenuto nella Casa Circondariale di Foggia. Detta struttura, stando agli ultimi dati, risulta essere l’istituto tra quelli con il più alto tasso di sovraffollamento in Italia. È in tale preoccupante contesto che la Sezione Aiga di Foggia, unitamente ad Aiga Nazionale, all’Osservatorio Nazionale Aiga sulle Carceri ed al Coordinamento Aiga Puglia, ha deciso di organizzare, proprio a Foggia, un incontro per mettere a fuoco la situazione delle carceri pugliesi, con l’obiettivo da un lato di fornire una fotografia dell’attuale stato dell’arte e dall’altro di individuare le direzioni da intraprendere, concretamente, per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e di tutti coloro che operano all’interno delle strutture penitenziarie. “Siamo fieri - dichiara la presidente di Aiga Foggia, l’avvocata Simona Lafaenza - di aver organizzato a Foggia un evento di tale portata sul tema carceri, in considerazione delle attuali e note criticità della Casa Circondariale della nostra città e, più ampiamente, di gran parte delle strutture penitenziarie della nostra Regione e del nostro Paese. Sarà l’occasione - conclude la presidente - per un dibattito proficuo e altamente professionale su una questione che riguarda non soltanto i giuristi, ma l’intero tessuto sociale ed economico del nostro territorio”. L’evento - nell’ambito del quale sarà sottoscritto un protocollo d’intesa tra Aiga Puglia e il Garante Regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, con il comune intento di intensificare e rendere ancora più proficua e immediate l’interlocuzione tra le parti - vedrà la partecipazione delle più alte rappresentanze del mondo istituzionale e giuridico impegnate nel dare quotidiana attuazione alle norme dell’ordinamento penitenziario ed alla effettiva funzione della pena. “La sottoscrizione del protocollo di intesa con il Garante Regionale - dichiara la Coordinatrice Regionale dell’Aiga, l’avvocata Daniela Santamato - rappresenta non già un punto di arrivo ma un punto di partenza per tenere alta l’attenzione sul tema delle carceri pugliesi e realizzare progettualità con il comune intento di monitorare la situazione in essere e in divenire ed individuare l’apporto concreto al fine di migliorare le condizioni di vita all’interno delle Carceri”. Dopo i saluti istituzionali della sindaca di Foggia, del vicepresidente della Regione, della direttrice della Casa Circondariale di Foggia, dell’Università di Foggia, della Coordinatrice regionale dell’Aiga e del referente regionale dell’Onac, interverranno sul tema il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, Carlo Berdini, il procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Foggia, Silvio Marco Guarriello, la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bari, Silvia Maria Dominioni e il Garante Regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, l’avvocato Piero Rossi. “Sarà l’occasione - dichiara il referente nazionale dell’Onac, l’avvocato Mario Aiezza, che modererà l’incontro - per illustrare anche in tale sede il progetto di riforma elaborato dall’Aiga, e presentato al ministro Nordio, avente ad oggetto modifiche in tema di misure alternative alla detenzione, ed aspetti inerenti i detenuti tossicodipendenti e i detenuti stranieri, che costituiscono una percentuale particolarmente incidente sul tasso di sovraffollamento. Il confronto con chi quotidianamente opera in ambito penitenziario - conclude l’avvocato Aiezza - ci consentirà di ottenere ulteriori dati ed elementi utili per poter proseguire nelle nostre attività propositive e formative”. L’incontro, patrocinato dal Comune di Foggia, dall’Università degli Studi di Foggia e dall’Ordine degli Avvocati di Foggia, si svolgerà venerdì 4 aprile 2025, ore 15.30, presso la splendida cornice della Sala Fedora, all’interno del Teatro Umberto Giordano di Foggia. L’incontro è aperto alla partecipazione della cittadinanza. Bari. Convegno: “La Giustizia riparativa come strumento giuridico e culturale” baritoday.it, 3 aprile 2025 Il giorno 4 aprile 2025 alle ore 15.00 presso l’Università “Bona Sforza’’ di Bari in viale Japigia 188, si terrà il convegno dal titolo “La Giustizia Riparativa come strumento giuridico e culturale: Applicazioni e prospettive” organizzato dal Centro Sperimentale Di Mediazione per la Giustizia Riparativa, progetto dell’Assessorato al Welfare del Comune di Bari in co-progettazione con la Cooperativa C.R.I.S.I. Il convegno verterà sui temi della filosofia e della pratica della mediazione e della Giustizia Riparativa, analizzando attraverso l’interconnessione disciplinare con il diritto, la cittadinanza, l’etica e la sociologia, la sua forza di strumento di crescita culturale. Dialogheranno sui suddetti temi i professori F. Reggio, Professore associato di Filosofia del diritto dell’Università di Padova; P. Massaro, Professore di Criminologia e sociologia della devianza e dei processi migratori dell’Università Bona Sforza; I. De Vanna, Professoressa di Tutela dei Diritti umani e giustizia riparativa dell’Università Bona Sforza, nonché Esperta di Giustizia Riparativa e formatrice presso l’European Forum of Restorative Justice. Modererà l’evento la giornalista Nicole Cascione. L’evento patrocinato dall’Ordine degli Avvocati di Bari e dall’Ordine degli Assistenti Sociali della Regione Puglia, sarà aperto dai saluti istituzionali dell’Assessora alla Giustizia, al Benessere sociale, e ai Diritti civili del Comune di Bari, la dott.ssa Elisabetta Vaccarella; della Direttrice didattica dell’Università Bona Sforza, la dott.ssa Cristina Bonaglia; della Presidente del Consiglio Regionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali della Puglia, la dott..ssa Filomena Matera, e dal Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari, l’avv. Salvatore d’Aluiso. L’evento è gratuito e aperto a tutta la cittadinanza; sono previsti crediti formativi per assistenti sociali ed avvocati. Napoli. “Lavorare col caffè mi ha spinto a rifarmi una vita” di Titti Casiello gamberorosso.it, 3 aprile 2025 Storia di Sofia, che ha trovato riscatto in carcere. “Sentivo il profumo del caffè, mi ha affascinato”. L’ex detenuta, oggi in regime di semilibertà, che in carcere ha imparato a lavorare i chicchi. “Ogni tanto nella mia cella arrivava un bell’odore di caffè. Mi riportava a un attimo di serenità, per me che ero abituata a sentire solo l’odore del ferro”. È così che Sofia (nome di fantasia), oggi in regime di semilibertà, ha saputo che nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, dove era detenuta, c’era una torrefazione. “Non capivo da dove veniva, poi un giorno l’educatrice mi disse che erano Imma e Paola che avevano portato una torrefazione in carcere e chiesi di fare un colloquio con loro”. Imma e Paola sono le fondatrici delle “Lazzarrelle” una cooperativa sociale nata nel 2010 che fino a oggi ha dato lavoro a più di 70 donne detenute. “Volevamo portare dall’esterno un lavoro all’interno - dice Imma, così l’ex mensa è diventata la sede della torrefazione - Così, con l’aiuto della direzione del carcere e un finanziamento del fondo delle politiche sociali della Regione Campania abbiamo acquistato i primi macchinari”. I chicchi da tostare sono sempre gli stessi: “Quelli della cooperativa Shadhilly che promuove progetti di cooperazione con piccoli produttori dal Brasile, dal Guatemala, dalla Costa Rica, dall’India e dall’Uganda. Da un blend di questi chicchi prepariamo il nostro caffè”. Un caffè, quindi, completamente made in prison con l’intero processo di lavorazione che viene svolto dalle detenute. “Vengono formate professionalmente e sono loro che insegnano, poi, alle altre, una sorta di learning by doing”, racconta Imma che nel mentre, dopo che la casa di Pozzuoli è stata evacuata nel 2024 per fenomeni di bradisismo, sta spostando la sede della torrefazione nel carcere di Secondigliano, dove attualmente si trovano anche le detenute trasferite. “Al momento ci stiamo appoggiando in una torrefazione amica che tosta la nostra miscela, teniamo duro e continuiamo”. Lo fanno per non distruggere i sogni, come quello di Sofia, che era di “lavorare veramente” rispetto a tutti gli altri lavori che le venivano proposti di fare in carcere. “Potevo scegliere laboratori di cucito, di cucina, di decoupage, ma nessuno di questi, pensavo, mi avrebbe dato la possibilità di imparare un mestiere e conservare quella speranza che, forse, una volta uscita, potevo fare davvero qualcosa”, racconta Sofia. Lei, invece, ora sa tostare, macinare e imbustare il caffè, conosce un mestiere. “Ci ho lavorato per un anno, poi è arrivata la mia occasione”. Quella di accedere al lavoro esterno e Sofia non se lo è fatto ripetere due volte: è andata a lavorare al Bistrot nella Galleria Principe di Napoli, lo store aperto da Imma e Paola in pieno centro storico nel luglio 2020. È gestito da detenute ed ex detenute, qui si possono gustare i loro caffè, ma anche bevande e piatti elaborati utilizzando prodotti dell’economia carceraria. “Ma è soprattutto il posto in cui le donne detenute, lavorando, possono ricominciare - spiega Imma - Certo non è un meccanismo automatico, ma molte delle donne in regime di semi libertà possono farne richiesta e terminare la loro pena al bistrot”. Ed è così che Sofia, allora, è potuta uscire dal carcere. “Ogni mattina andavo a lavorare e poi la sera ritornavo in cella - la sua voce si fa sempre più allegra ricordando il contatto con il pubblico dopo tanto tempo - all’inizio servivo proprio il caffè che avevo tostato io le settimane prima dal carcere”. Si sente fortunata Sofia: “Ho trovato il chicco d’oro, molte detenute non hanno avuto invece questa possibilità”. Ma il progetto di Imma e Paola non è bello solo a parole. “Il tasso di recidiva delle donne che hanno lavorato con noi è bassissimo perché quello che più manca a queste donne è proprio avere un lavoro, che equivale a dire essere libere”. Le detenute che lavorano per le Lazzarelle diventano, infatti, dipendenti a tutti gli effetti percependo un regolare stipendio di cui una parte va nel fondo vincolato e quello che rimane è per loro. “E spesso con quei soldi fanno la spesa all’interno del carcere per comprare assorbenti o altri prodotti di prima necessità, ma a volte anche una matita per gli occhi e ritrovare di nuovo un po’ di femminilità”. Attorno al progetto si intesse, infatti anche un percorso di ricostruzione della dignità personale. “Una delle più grandi lotte all’inizio è stata di non farle scendere a lavorare in ciabatte, incentivandole di arrivare sul luogo di lavoro vestite adeguatamente”, racconta Imma. Molte delle detenute perdono la percezione della realtà, molte poi hanno abbandonato troppo presto la scuola o sono cresciute in realtà dove alla donna spetta solo il compito di curare la casa e i figli, mentre il lavoro è una cosa da uomini. “Lo stipendio che percepisco, invece, mi consente ora di guardare il futuro con altri occhi, anche da sola - sorride Sofia - Ogni tanto i carabinieri passano ancora sul posto di lavoro, io sono in regime di pena alternativa, ma già posso sentirmi una donna libera e quando arrivano i carabinieri mi fa piacere anche offrirgli un caffè”. Un caffè che è diverso anche nel gusto. “La nostra tazzulella non è mai stata la solita tazzullella napoletana con un’alta concentrazione di robusta, ma sin dall’inizio l’abbiamo unita a un 50% di arabica, così da risultare più morbida”. E non manca neppure uno sguardo al mondo degli specialty coffee con la proposta di un mono-origine Arabica 100% Guatemala El Bosque, proveniente sempre da commercio fairtrade. Oggi il bistrot è sempre pieno, affollato di turisti e residenti. “Dopo quindici anni di attività possiamo dire che stiamo in piedi - sorride Imma - una bella fetta di business ce l’hanno anche i canali di vendita al dettaglio e ai rapporti con diverse botteghe e bar etici distribuiti in tutta Italia che ci sostengono”. Le Lazzarelle non sono, però, solo torrefazione, vendita e bistrot, ma un laboratorio in continuo movimento di idee e progetti nuovi con l’ultimo appena nato in collaborazione con Cesto Bakery di Torre del Greco, affidando al pastry chef Catello di Maio il compito di produrre una colomba limited edition al caffè prodotto dalle detenute. “La colomba è un simbolo di rinascita”, spiega Imma: proprio come la nuova vita di Sofia, che con sei turni a settimana al bistrot nel mentre si è anche iscritta all’università e il 22 luglio discuterà la sua tesi in economia e commercio. “Mi sono voluta concedere il perdono - sorride - e per perdonarmi ho voluto dimostrare a me stessa che non sono tutta sbagliata”. Padova. Donato Bilancia, il killer sul palco: “Col teatro era cambiato” di Sara D’Ascenzo Corriere del Veneto, 3 aprile 2025 “Stava cercando di recuperare umanità. Ha aiutato una famiglia con problemi”. Il video inedito nel carcere di Padova e il progetto di una serie televisiva: “Era un uomo anziano di salute cagionevole che stava venendo a contatto veramente con sé stesso e non reggeva a questo impatto”. Un uomo cammina lentissimo vicino a due tavoli rovesciati. Indossa una camicia bianca nella quale sembra perdersi. I pochi capelli grigi rimasti incorniciano un viso provato. Lo sguardo è fisso nel vuoto. A un certo punto si accascia e cade. Quell’uomo è Donato Bilancia, il serial killer dei treni, giocatore di casinò, assassino di prostitute e di rivali al gioco, e prima ancora ladro di auto, di pistole e perfino, futilmente, di panettoni. E questa foto è un fermo immagine di un video, mai visto prima, che documenta l’attività del laboratorio di “Teatro e carcere” al quale Bilancia partecipò nel 2017, diretto dalla regista Cinzia Zanellato, responsabile del laboratorio dal 2004. “Il direttore di allora - racconta la regista - Ottavio Casarano, mi chiamò chiedendo di integrare Bilancia nel nostro laboratorio. La raccomandazione era di non dare risonanza mediatica alla sua presenza in quel laboratorio, perché questo sarebbe andato a scapito del resto del gruppo”. Un percorso che chiamare di riabilitazione appare difficile per un uomo responsabile di 17 delitti efferati commessi tra il ‘97 e il ‘98 soprattutto in Liguria: 186 giorni di orrore che lo portarono alla condanna a scontare tredici ergastoli. Una parabola di morte che però si appresta, tra qualche tempo, a tornare sotto i riflettori, visto che la casa di produzione Groenlandia, di Matteo Rovere e Sydney Sibilia, quella che ha realizzato la serie tv “Qui non è Hollywood” sul delitto di Avetrana, ha infatti acquisito i diritti del libro di Alessandro Ceccherini “Che venga la notte”, edito da Nottetempo, dedicato alla figura di Bilancia. Il progetto è attualmente in fase di sviluppo e l’obiettivo è trarne una serie tv. Che, giocoforza, avrà anche una parte padovana, visto che Padova è stata l’ultima destinazione in carcere di Bilancia, che nella città veneta è morto di Covid il 17 dicembre 2020. Zanellato, come definirebbe il percorso di Bilancia di quegli anni? “Stava cercando di recuperare un’umanità. Non è facile da capire, ma anche questo fa parte della giustizia riparativa: più si sviluppa la cultura di rispondere in modo civile al male, più possiamo pensare a un recupero relazionale, a un incontro delle persone detenute con la loro interiorità. Condizioni necessarie per prendersi la responsabilità dei propri atti”. Com’era in quel periodo? “Era un uomo anziano di salute cagionevole che stava cominciando a venire a contatto veramente con sé stesso e non reggeva a questo impatto. Per quello, quando si è discusso di cosa potesse fare durante lo spettacolo, lo avevo fatto crollare fisicamente, perché era quello che gli stava succedendo realmente. L’unica forma che riuscisse a sostenere teatralmente era fare qualche passo e poi accasciarsi. Questo, con tutto il rispetto da parte nostra nei confronti delle vittime”. È una reazione che lei ha già osservato in detenuti con un passato simile al suo? “Chi compie atti così efferati o prende psicofarmaci o sono persone dissociale o, se entrano in relazione con sé stessi, la pagano”. In quel periodo si scambiò molte lettere con il teologo Sabino Chialà. Era in atto una conversione? “Non direi. Chialà è un mio amico monaco. Mi rivolsi a lui nella speranza di farlo aprire. Ha avuto la capacità di intervenire con Bilancia. Il testo al quale lavorammo quell’anno era “La Torre di Babele”, vista come passaggio che toglie all’umanità l’omologazione. Quando ho spiegato questa cosa al laboratorio, Donato si è proprio arrabbiato: “No, è Dio che si vendica”, mi ha detto. È stato il lavoro col gruppo a farlo cambiare un po’”. Com’è stato per lei lavorare con Bilancia? “All’inizio anch’io, non lo nascondo, ho avuto delle difficoltà con lui, la coscienza mi rimordeva. Ma tutti noi che facciamo questo lavoro abbiamo la consapevolezza che non è mettendo all’angolo queste persone il male passa. Il teatro può essere un ponte di comunicazione con il “reo”. A un certo punto ho avuto una discussione con lui e gli ho detto: “Devi decidere, Donato: vuoi rimanere nella figura del serial killer o vuoi andare nel silenzio verso qualcosa di diverso?”“. E ha visto dei progressi? “Mi sembra di sì. Ha avuto sicuramente un cambiamento. E gli è venuto il desiderio di aiutare alcune persone esterne, un bambino con disabilità, una famiglia con figli con disabilità”. Quando gli altri del laboratorio si aprivano, lui cosa diceva? “Si trincerava dicendo che era troppo vecchio per queste cose, ma il gruppo l’ha sostenuto nei suoi tentativi balbettanti. E alla fine ha voluto cantare l’”Ave Maria” di Schubert, che esprimeva il suo bisogno di essere perdonato”. Come si ferma la tratta online di migranti di Erica Manna L’Espresso, 3 aprile 2025 Il traffico di persone cresce e usa sempre di più social e web per adescare vittime. Che sfrutta per lavoro o sesso. Un nuovo progetto tra cinque Paesi europei lo combatte e forma gli operatori. Usman dice di avere 24 anni. Quando entra nella sala d’aspetto dell’ambulatorio, in un vicolo del centro storico di Genova, è accompagnato da un adulto. La dottoressa gli chiede di seguirla nello studio, da solo, per poterlo visitare: Usman dice di sentirsi debole, ha la febbre. Quando lo ausculta, la dottoressa vede una serie di lividi sulla schiena, ma lui non ne vuole parlare. Dietro ai suoi silenzi c’è una storia di tratta e di abusi. Usman, in realtà, ha 17 anni. È fuggito dalla Siria con l’aiuto di un amico del padre, che a sua volta lo ha affidato ad altri conoscenti fino all’arrivo in Italia. Usman non ha documenti e a Genova è stato affidato a Iqbal, un uomo che lo costringe a lavorare 12 ore al giorno e abusa di lui. Ma per arrivare a questa verità bisogna riuscire a porre le domande giuste: perché un approccio troppo diretto o una frase lapidaria possono chiudere ogni spiraglio. È quello che accade in un film costruito come un gioco interattivo: chi guarda deve, di volta in volta, scegliere qual è la domanda migliore da porre a Usman. Procedere, tra sentieri che si biforcano, in modo che la vittima possa fidarsi. E farsi aiutare. Il video (sulla piattaforma stuckintrafficking.org) è stato ideato per sensibilizzare sul tema della tratta e formare gli operatori che la combattono. Ha già raggiunto quasi un milione di visualizzazioni ed è uno dei pilastri del progetto europeo “Kleos-Stuck in Trafficking” contro il traffico di persone migranti, che coinvolge partner da cinque Paesi europei (Italia, Spagna, Grecia, Polonia ed Estonia) e vede la cooperativa genovese Agorà come capofila. Perché l’invasione russa in Ucraina e gli altri fronti aperti in Medio Oriente stanno causando un’esplosione del fenomeno: secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea relativo ai dati del 2022 (viene pubblicato ogni due anni), nell’Ue sono state individuate 10.093 vittime di tratta, in aumento del 41 per cento rispetto all’anno precedente. Tra queste, il 63 per cento è rappresentato da donne, destinate per lo più allo sfruttamento sessuale, e il 19, invece, da schiavi sul lavoro: il 51 per cento in più rispetto al 2019-2020. E dopo la pandemia è in costante crescita la nuova forma di adescamento online. Più subdolo da individuare e combattere. Il progetto “Kleos” - finanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione della Ue - è costato due anni di lavoro ed è nato per rispondere a tratta e a sfruttamento sessuale e lavorativo, in rapida evoluzione. Non a caso, i partner provengono dai Paesi dalle frontiere più porose. Inclusa l’Italia che, tra questi, registra il più alto numero di vittime di tratta nel 2022: 2.714. E sono solo quelle emerse. Il gruppo comprende ong come la spagnola Red Incola di Valladolid e l’estone Eluliin di Tallinn, società scientifiche come il Centro Studi Medì di Genova ed Epeksa di Atene, più l’associazione che si occupa di comunicazione, Rise Up, e un’istituzione governativa polacca, l’Ufficio regionale della città di Kielce (non lontano dal confine ucraino). La scelta del nome - “kleos” si può tradurre con “fama” - evoca la responsabilità degli eroi greci nel tramandare le loro gesta: un riferimento alla prosecuzione del precedente progetto “Andreia”. “Kleos” s’interseca con l’entrata in vigore della nuova direttiva europea, adottata nel luglio 2024. Una revisione di quella anti-tratta - la 36 del 2011 - per aggiornare nuove forme di abuso: matrimoni forzati, adozioni illegali, maternità surrogata forzata, con il riconoscimento della tratta via Internet e social media come aggravante. “Il fenomeno continua a cambiare pelle - spiega Andrea Torre, direttore del Centro Medì che ha realizzato lo studio sugli indicatori di tratta - dopo la pandemia l’offerta del sesso è cambiata: avviene di più attraverso i social, su TikTok, OnlyFans, anche con i gruppi Telegram”. L’adescamento si è spostato (anche) online e così il luogo dove si esercita lo sfruttamento, dentro a una stanza e davanti allo schermo del computer, a beneficio di utenti online. Spiega, infatti, il rapporto presentato a Bruxelles il 20 gennaio scorso dalla Commissione europea sui progressi nel combattere il traffico di esseri umani: “La maggior parte degli Stati membri ed Europol confermano il ruolo predominante dei social media, in particolare delle app di incontri, dei siti di escort e per adulti, nel reclutamento di vittime per sfruttamento sessuale”. Un esempio è quello di donne cinesi: il loro traffico “è organizzato attraverso call center decentralizzati che operano in alcuni Paesi Ue e in Cina”, che “fissano appuntamenti e tariffe per le prestazioni sessuali e trasferiscono il denaro ai responsabili del riciclaggio dei proventi illeciti”. Il traffico di minori - denuncia il quinto rapporto della Commissione europea - è in rapida evoluzione: questi ultimi rappresentano il 19 per cento di tutte le vittime di tratta nell’Ue. Il numero di minori soli che raggiungono i confini italiani continua a crescere: quelli censiti, al 31 dicembre 2024, sono 18.625; sono in maggioranza maschi (88,4 per cento), provenienti soprattutto da Egitto (20,4), Ucraina (18,8), Gambia (11,7), Tunisia (9,6). Nel nostro Paese, nel 2023 sono stati segnalati 21.951 casi di bambini di cui sono state completamente perse le tracce, secondo gli ultimi dati di Telefono Azzurro. Il report di “Kleos” punta il dito sulla legge italiana, che consente l’accoglienza temporanea dei minori soli anche nei centri per adulti. Un limbo dal tempo dilatato: con il rischio concreto che questi ragazzini finiscano per strada. Esposti a ogni pericolo. Cannabis, il ddl sicurezza manda in fumo 2 miliardi di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 3 aprile 2025 Secondo lo studio realizzato per Canapa Sativa Italia sarebbe questo l’impatto della criminalizzazione delle infiorescenze di canapa industriale, con la perdita di oltre 22mila posti di lavoro. Un regalo ai produttori stranieri e al mercato illegale. Il Ddl sicurezza arriverà in aula al Senato martedì 15 aprile con un testo che, vista la mancata copertura di alcune norme, sarà necessariamente diverso da quello approvato a settembre scorso dalla Camera. L’esame è stato contingentato nei tempi, così il voto pare già possibile il giorno successivo. Il ritorno a Montecitorio è però certo: una porticina aperta anche per altre possibili modifiche del testo, ormai feticcio della destra al Governo. All’interno della maggioranza sembra si siano aperti spiragli per minimi emendamenti necessari a evitare le perplessità del Quirinale. In particolare, ci dovrebbero essere modifiche almeno sul carcere per le donne incinte, le schede sim per i migranti irregolari e la resistenza passiva assimilata alla rivolta carceraria. Quali saranno le compensazioni promesse a Salvini in cambio delle modifiche in aula, lo vedremo presto. Forse a partire dallo scudo penale per le forze dell’ordine. Al momento nessuno spiraglio sull’art. 18, quello che criminalizza le infiorescenze di canapa industriale. Un intervento puramente ideologico, già discutibile nel merito oltre che nell’applicabilità (l’Unità del 12 settembre 2024) e che potrebbe avere conseguenze catastrofiche per una delle più promettenti filiere agricole del nostro paese. Ieri, infatti, è stato divulgato il rapporto “Cannabis Light Policy. Stima dell’impatto economico e proposte di regolamentazione per il mercato della canapa ad uso inalatorio” realizzato da MPG consulting per conto di Canapa Sativa Italia - CSI. Lo studio è un contributo prezioso, che analizza le diverse componenti della filiera economica della cannabis light in Italia e individua due modelli di distribuzione. Quello libero con vendite in negozi specializzati, e-commerce e tabaccai - come succede oggi - e uno affidato al monopolio e quindi limitato alle tabaccherie. L’impatto economico dei due modelli è molto diverso. Secondo i ricercatori la domanda italiana di cannabis light “ha un valore stimato di quasi un miliardo di euro e contribuisce alla creazione di almeno 12.500 posti di lavoro direttamente collegati alla filiera, quasi 10.000 sarebbero invece i lavoratori a tempo pieno dell’indotto”. Considerato appunto anche l’indotto generato dalla filiera in un modello aperto “l’impatto complessivo sull’economia nazionale ammonta ad almeno 1,94 miliardi di euro, con la generazione di un minimo di 22.379 posti di lavoro e un gettito fiscale di almeno 364 milioni di euro”. Lo studio approfondisce il caso nel quale il comparto fosse invece affidato al Monopolio di Stato. In questo scenario alternativo “il giro d’affari che verrebbe perso tra impatto diretto e secondario si attesta ad oltre 1.4 miliardi di euro”. Anche l’occupazione complessiva passerebbe a sole 6.000 unità. Numeri che rendono l’idea dell’impatto economico che avrà questo provvedimento, e non solo nei confronti delle famiglie che lavorano direttamente nelle aziende coinvolte, e non solo quelle legate ai prodotti da inalazione oggetto di studio. La criminalizzazione delle infiorescenze di canapa colpirà anche le aziende alimentari, erboristiche e cosmetiche che non potranno più lavorare in Italia infiorescenze coltivate in Italia. A tutto vantaggio delle aziende dell’Unione Europea che potranno continuare a produrre altrove ed esportare in Italia. Un regalo sia ai produttori stranieri che al mercato illegale, che in questi anni la cannabis light ha dimostrato di poter drenare. Un comparto che potrebbe invece consolidarsi grazie ad una maggiore chiarezza normativa. Questo permetterebbe anche la valorizzazione delle produzioni nazionali di qualità, paragonabili secondo gli analisti a quelle di vite e luppolo. Disciplinari di produzione, tutela di coltivazioni locali e lavorazioni artigianali, permetterebbero di custodire e promuovere un patrimonio di conoscenze e prodotti “made in Italy”. La strenua opposizione al provvedimento, sia dentro che fuori dal Parlamento, è stata capace di far ritardare per mesi una proposta che è lo specchio normativo di quel delirio securitario che il nostro paese sta attraversando da troppi anni. La Rete No DDL Sicurezza - A Pieno Regime ha annunciato una mobilitazione per i giorni del voto per respingere “l’attacco autoritario alla nostra democrazia”. Una mobilitazione che deve essere unitaria e trasversale per contrastare norme che non sono solo “il più grande attacco al diritto di protesta della Storia repubblicana” come denunciato da Antigone, ma colpiscono anche i diritti economici e sociali di migliaia di imprese. *Forum Droghe