Diritto all’informazione e prospettiva di una rieducazione costituzionalmente orientata di Giovanni Fiandaca* Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2025 È un dato di esperienza che i diritti riconosciuti sulla carta ai detenuti non sempre, all’interno delle carceri, vengono di fatto garantiti. Accade non di rado che, nel bilanciamento tra rispetto di diritti costituzionalmente rilevanti ed esigenze di ordine e sicurezza, siano queste ultime ad esercitare un peso prevalente in base a valutazioni contingenti dell’amministrazione penitenziaria ai vari livelli. Solo che entità come ordine e sicurezza, a causa della loro genericità e vaghezza, somigliano a formule magiche e contenitori pigliatutto utilizzabili per dare parvenza di legittimità anche a decisioni e disposizioni restrittive in realtà prive di giustificazione e, dunque, arbitrariamente limitatrici degli spazi di libertà che il nostro ordinamento giuridico consente anche alle persone in esecuzione di pena. Limitazioni più o meno ingiustificate può subire pure il diritto all’informazione, insieme col connesso diritto alla libera manifestazione del pensiero, espressamente previsti dall’art. 21 della Costituzione e - a partire dal 2018 - dall’art. 18, ottavo comma, dell’ordinamento penitenziario, che stabilisce: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere la propria opinione, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”. A riprova del rischio incombente che tali diritti vengano disattesi, è emerso da fonti attendibili che è di recente sopravvenuto, nell’ambito di alcune carceri, un orientamento tendente a restringere gli spazi di preesistenti esperienze di attività giornalistica gestita dagli stessi ristretti e da esponenti del mondo del volontariato: sarebbe d’ora in avanti vietato ai detenuti coinvolti nel lavoro redazionale di firmare col loro nome e cognome gli interventi di cui sono autori, e inoltre la direzione di alcuni istituti si riserverebbe il potere di pre-leggere gli articoli da pubblicare, così da verificarne preventivamente il contenuto. Sono legittime disposizioni di questo tipo? Quale sia l’interesse rilevante da tutelare proibendo al detenuto di firmare ciò che scrive, non è chiaro. Si tratta di un interesse relativo alla sua persona, ma per proteggerla da quali rischi e pericoli? Oppure, di un interesse riferito all’amministrazione penitenziaria, e connesso ancora una volta a generiche preoccupazioni di ordine e sicurezza, che possono però apparire sintomatiche di una risalente e ricorrente tentazione autoritaria di annullare l’individualità dei singoli ristretti ricacciandoli nell’anonimato di persone inabilitate a esprimere riconoscibilmente libere opinioni? Vi è inoltre da chiedersi quale sia l’interesse sottostante alla pretesa di un controllo preventivo del contenuto degli articoli. L’obiettivo è quello di intercettare e censurare eventuali opinioni ritenute eccessivamente critiche sul funzionamento dell’istituto in questione e/o sul modo di operare del personale addetto? È forse superfluo rilevare che questo controllo censorio sarebbe certamente illegittimo. Ma c’è un ulteriore aspetto importante da non trascurare, che trascende il problema della legittimità delle suddette limitazioni considerate in se stesse. Com’è forse intuibile, esiste infatti un imprescindibile nesso tra il diritto all’informazione latamente inteso e la prospettiva di una rieducazione costituzionalmente orientata. Che cosa significa rieducare alla luce della Costituzione? Significa, detto in sintesi, far acquisire o (riacquisire) all’autore di reato in detenzione la capacità di vivere nel rispetto delle leggi, peraltro pur sempre in un orizzonte costituzionale di pluralismo etico-politico e culturale, in vista del rientro nella società esterna. Ma l’educazione alla legalità così intesa, a ben vedere, non è compatibile con la sottoposizione a divieti che ostacolano la possibilità di una libera autoriflessione critica del detenuto sul proprio passato deviante, suscettibile di essere svolta ed esternata con un articolo scritto su di un giornale o una rivista di vita carceraria destinati a lettori anche esterni. Ragionare e confrontarsi, senza temere controlli censori, con altri detenuti e con persone appartenenti al mondo del volontariato o più in generale interessate al tema-carcere, contribuisce infatti ad accrescere non solo l’autoconsapevolezza, ma nel contempo la capacità relazionale: e ciò agevola quel processo di responsabilizzazione personale e sociale, che assurge a obiettivo ultimo di ogni serio itinerario rieducativo. Se è così, imporre per di più ai detenuti di scrivere in forma anonima finisce col contraddire, in maniera vistosa, la prospettiva di pensare e agire in modo autoresponsabile. La fonte ideatrice delle restrizioni di cui sopra, interna all’amministrazione penitenziaria e/o riconducibile alla sfera politico-governativa, è consapevole del loro contrasto anche con la finalità costituzionale della pena detentiva? *Professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo L’informazione dal e sul carcere. Una finestra per “guardare da fuori” la realtà del carcere, e per “guardare da dentro” la realtà esterna di Giovanni Maria Flick* Ristretti Orizzonti, 2 aprile 2025 Il riconoscimento del diritto all’informazione - nel quadro delle convenzioni e dichiarazioni internazionali e del contesto costituzionale - è affermato dalla nostra Costituzione sotto un duplice profilo: il significato attivo (il diritto di informazione e la libertà di espressione anche nel sistema dei media) e passivo (il diritto a essere informato, a ricevere e a cercare l’informazione). Quel riconoscimento è esplicito nell’articolo 21 della Costituzione, come libertà di manifestazione a tutti del pensiero e con una esplicita applicazione alla libertà di stampa. È nota l’interpretazione estensiva costantemente data dalla Corte Costituzionale all’articolo 21 della Costituzione come “cerniera” tra il diritto individuale e l’interesse generale della collettività all’informazione come comunicazione diffusa. È noto altresì il suo raccordo con l’articolo 15 di essa e il riconoscimento della libertà e segretezza della corrispondenza nella comunicazione con singole persone. La disciplina del diritto all’informazione dei detenuti, in relazione alla tutela della “integrità culturale” e alla salvaguardia dei “residui di libertà” nella detenzione è prevista per quotidiani, periodici e libri in libera vendita all’esterno nonché per la possibilità di avvalersi di “altri mezzi di informazione” e con la garanzia dell’accesso a quotidiani e siti informativi, con le modalità e le cautele previste nell’articolo 18 della Legge n. 354/1975 sull’Ordinamento penitenziario e nel relativo Regolamento. L’unico limite previsto in materia di stampa interna ed esterna al carcere è rappresentato dal parallelismo fra esse e dalla liceità di circolazione della prima nell’ambito carcerario negli stessi termini previsti per la seconda. È stata eliminata con l’Ordinamento penitenziario vigente qualsiasi forma (preesistente) di censura preventiva. L’unico limite riferibile alla stampa (interna e/o esterna al carcere) è previsto dall’articolo 18 ter, primo comma, lett. A, nella “ricezione della stampa… per esigenze attinenti alle indagini investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o ordine dell’istituto”. Il dato normativo evidenzia il diritto del detenuto a ricevere un’informazione pluralista e differenziata dal punto di vista dell’informazione passiva; ma anche - indirettamente - il diritto e la libertà di informazione e di diffondere il pensiero dal punto di vista attivo. Si tratta nel secondo caso - se pure in mancanza di un riconoscimento esplicito - di un cardine fondamentale della democrazia come strumento di contatto e interazione del detenuto con l’esterno: nella tendenza alla rieducazione e del diritto/dovere al trattamento; ovviamente nel rispetto delle esigenze di sicurezza e di controllo. Il riconoscimento di queste libertà è un coefficiente fondamentale del percorso di risocializzazione del detenuto come “residui” (per usare la terminologia della Corte) necessari e indispensabili di libertà alla luce dell’articolo 2 della Costituzione sotto il duplice aspetto della formazione e sviluppo della sua personalità come singolo e come parte della formazione sociale in carcere e della coattività di essa. Quel riconoscimento è lo strumento ineliminabile per il mantenimento - nonostante un limite tipico nella privazione della libertà personale - di tutte le relazioni personali e sociali del detenuto compatibili con la detenzione. È un limite orientato e finalizzato alla promozione della cultura nell’ambiente carcerario, per il contesto di sviluppo dell’istruzione e prima ancora per il contrasto all’analfabetismo (sia quello “letterale” che quello “culturale”). È prova e conferma di questa importanza del fenomeno - essenziale per la vita stessa del carcere - lo sviluppo della produzione editoriale di esso a partire dalla prima esperienza degli anni 50 sino alla diffusione delle testate giornalistiche nel carcere; sia alla costituzione di una loro federazione; sia alla istituzione di redazioni interne al carcere. Si tratta della realizzazione meritoria di una serie di canali di informazione tradizionale e via via aggiornati ai tempi, attraverso strumenti: sia per offrire all’esterno una conoscenza del mondo carcerario e dei suoi abitanti; sia per consentire a questi ultimi la conoscenza dell’ambiente esterno in cui rientreranno al termine della pena. Una finestra per “guardare da fuori” la realtà del carcere, e per “guardare da dentro” la realtà esterna. Questa prospettiva e questa linea di sviluppo sono fondamentali per affrontare la crisi del carcere e le sue implicazioni diffuse e disastrose. Sia in fatto, con il fenomeno del sovraffollamento tuttora in crescita; ma anche in diritto, con la tendenza ad incrementare quest’ultimo attraverso il ricorso pressoché quotidiano alla “pancarcerizzazione” del dissenso e della diversità. Di fronte a tendenze sempre più diffuse ad ostacolare queste prospettive formative e culturali - anche di fatto attraverso la creazione di ostacoli burocratici alla diffusione dell’informazione, dell’istruzione e della cultura in carcere - occorre sottolineare con fermezza (e con il ricorso al reclamo all’autorità giudiziaria, quando necessario e inevitabile) il diritto all’informazione “attiva e passiva” per ogni detenuto e la tassatività dei limiti posti a quel diritto dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario. Ciò anche ed esplicitamente nel caso di “sorveglianza speciale” e di “sospensione eccezionale” delle regole di trattamento. Quei limiti e le relative prescrizioni devono riferirsi specificamente a singoli soggetti determinati; avere una motivazione e dei caratteri di attualità; non costituire ipotesi di “censura preventiva”; essere specificamente connessi a “esigenze di indagini o investigative o di prevenzione dei reati o per ragioni di sicurezza od ordine dell’istituto”; essere temporanei e non prorogabili oltre periodi prefissati; essere adottati con decreti motivati dall’autorità giudiziaria ed essere suscettibili di reclamo ad essa (articolo 18 ter dell’Ordinamento penitenziario). Ovvero devono essere giustificati da gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica a fronte di possibili elementi di collegamento con associazioni criminali, terroristiche o eversive per decreto motivato dal Ministero della giustizia. Per questo destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi ed iniziative a livello locale e di interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla “stampa” nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi. Nei confronti di quelle voci non resta che ricordare e sottolineare con fermezza la disciplina legislativa e regolamentare e la sua applicazione, come strumenti essenziali per il diritto dei detenuti al “trattamento” come momento essenziale nell’espiazione della pena; e prima ancora come condizione ineliminabile della legittimità costituzionale di una pena che incide sulla libertà e della pari dignità sociale della persona. *Presidente emerito della Corte Costituzionale, già Ministro di Grazia e Giustizia Container “modello Albania” per 384 detenuti. Il piano carceri di Nordio è tutto qui di Federica Olivo huffingtonpost.it, 2 aprile 2025 Spulciando nel bando che scadrà il prossimo 10 aprile si scopre che la soluzione del governo per rispondere agli oltre 11 mila detenuti in più presenti negli istituti penitenziari italiani sono strutture prefabbricate destinate a ospitarne solo il 3,5%. De Fazio (Uilpa) ad HuffPost: “Così il ministro dimostra di non credere né alla riduzione dei detenuti né alla costruzione di nuove carceri”. Qualche agente penitenziario di grande esperienza il sospetto lo aveva avuto da subito. Quando aveva visto, a fine febbraio, il video che ritraeva il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ammirare estasiato il progetto che avrebbe portato all’installazione di container prefabbricati nel cortile del carcere di San Vito al Tagliamento, per ampliare la struttura, e definirlo “un modello da sogno”, in chat con alcuni colleghi aveva insinuato: “Ma non è che vogliono fare come con l’Albania?”. Detto fatto. Il piano carceri di Nordio, vergato dal commissario all’edilizia Marco Doglio su sollecitazione della premier Giorgia Meloni, sembra una sorta di remake edilizio dei centri per migranti in Albania. Il bando è stato pubblicato qualche giorno fa e scadrà il 10 aprile. Prevede la realizzazione di 384 nuovi posti per detenuti entro il 2025. Sono tanti? Neanche per idea, a guardare il livello di sovraffollamento carcerario. Dati del ministero alla mano, in questo momento in carcere ci sono 62.165 detenuti, per una capienza di 51.323 posti. Circa 11mila detenuti in più dunque. Questo piano carceri garantirà un letto ad appena il 3,5% di questi. E la situazione, in tempi in cui la creazione di nuovi reati è ormai un meccanismo rodato, potrebbe peggiorare. Le informazioni dal territorio, infatti, lasciano immaginare che il sovraffollamento aumenterà. Un dato per tutti? Nelle ultime settimane sono stati tanti i giorni in cui, nel carcere milanese di San Vittore, sono stati registrati 30 ingressi quotidiani. Una cifra enorme. Raramente vista prima. Ma entriamo nel merito del progetto, per il quale sono stati stanziati 32 milioni di euro. L’idea, scritta nero su bianco in otto pagine firmate dal responsabile dei servizi di ingegneria di Invitalia Enrico Fusco, è quella di ampliare nove istituti attraverso dei “blocchi detenzione”, “trasportabili e smontabili”. Nei cortili dei penitenziari di Milano, Alba, Biella, Reggio Emilia, L’Aquila, Voghera, Frosinone, Palmi e Agrigento saranno installati dei prefabbricati in calcestruzzo: ognuno di questi potrà contenere ventiquattro posti letto, divisi in sei celle. Quindi, in una cella di sei metri per cinque (bagno compreso) dovranno abitare 4 persone. I letti dovrebbero essere singoli, non a castello, e fissati al pavimento. Bandite le sedie dalla cella, dove ci sarà “un tavolo monoblocco in metallo con 4 sgabelli incorporati, da edilizia penitenziaria, assemblato per resistere a tentativi di scardinamento e predisposto per fissaggio a pavimento con tasselli a bloccaggio chimico o meccanico”. Inamovibile, insomma. In ogni cella ci sarà un bagno, che sarà sorvegliabile attraverso uno spioncino “lato corridoio”. Per ripararsi dal freddo e dal caldo - che nelle strutture prefabbricate possono essere amplificati - uno “split” per l’aria condizionata. Quest’ultima notizia sarà accolta con discreto favore, perché spesso le celle sono troppo calde d’estate e troppo fredde d’inverno. Previsti, poi, alcuni spazi ricreativi: una biblioteca, una saletta per la socialità, una barberia. Tutte in spazi angusti, che vanno in senso opposto rispetto a quanto - ormai da anni - predicano i pochi architetti che si occupano di carceri. Gli addetti ai lavori - costretti a fronteggiare, anche quest’anno un altissimo numero di suicidi in cella - sono scontenti per questa soluzione di fortuna, che ignora decenni di studi sull’architettura carceraria. E gli agenti penitenziari mostrano più di qualche perplessità: “Siamo passati dalla commissione per l’architettura penitenziaria ai prefabbricati in stile container che, se si conseguiranno, produrranno in un anno i posti in più occupati dai nuovi ingressi di detenuti in un mese”, ragiona con HuffPost Gennarino De Fazio. “Ma poi, Nordio non sostiene che tra la riforma alla custodia cautelare e le misure di comunità potrebbero uscire dal circuito carcerario 20mila detenuti? Così Nordio dimostra di non credere né alla riduzione dei detenuti né alla costruzione di nuove carceri”. La promessa del ministero è di crearne migliaia di posti nei prossimi anni, fino ad arrivare a 7mila. E visto che il modello caserma - la ristrutturazione di caserme dismesse - si è rivelato non fattibile, la direzione pare quella del modello Albania. Anche questa, però, non potrà che essere un pannicello caldo, quasi impercettibile, che non risolve i problemi di un settore così travagliato. Celle container senza dignità. Coro di no, ma il Governo accelera di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 aprile 2025 Le opposizioni contro i blocchi detentivi previsti nel nuovo piano di edilizia penitenziaria. Il nuovo piano-sperpero di edilizia penitenziaria da 32 milioni di euro per la realizzazione di appena 384 nuovi posti detentivi - nelle carceri sovraffollate come ai tempi della condanna Cedu - arriva al suo primo giro di boa. E scalda gli animi, con la protesta delle opposizioni e la difesa ad oltranza del sottosegretario Delmastro. Mentre il Dap naviga a vista, in attesa da oltre tre mesi di un nuovo capo la cui nomina è ostacolata ormai solo dalle imposizioni dell’esponente biellese di Fratelli d’Italia, numero due di via Arenula, che considera il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria feudo personale. In questo contesto e con un sovraffollamento che conta attualmente circa 16 mila detenuti in più rispetto ai posti regolamentari, a giorni, il 10 aprile, scade la gara pubblica avviata dal commissario straordinario Marco Doglio e gestita dalla centrale di committenza Invitalia per la costruzione e la messa in opera di 16 blocchi detentivi prefabbricati realizzati in moduli di calcestruzzo da posizionare all’interno della cinta muraria di nove carceri del Paese entro la fine dell’anno, data di “scadenza” prevista anche del commissario straordinario nominato nel settembre scorso dal ministro Nordio. Dopo l’annuncio (anticipato dal manifesto il 23 marzo scorso), ieri “fonti di governo” hanno riferito all’Ansa la notizia di “sopralluoghi già effettuati negli istituti ad Opera e Voghera” per avviare il progetto targato Nordio che, “nelle previsioni”, intende realizzare “gradualmente i primi 1.500 moduli” detentivi “con l’installazione già di 400 in via sperimentale”. Numeri di cui non si trova traccia nella relazione tecnica firmata dall’ingegnere Enrico Fusco di Invitalia. Dalla cui lettura però “emerge una visione della vita in carcere, di chi è detenuto e di chi ci lavora, a cominciare dalla polizia penitenziaria, non in sintonia con la necessità di rispettare la previsione costituzionale”, come affermano i dem Bazoli, Mirabelli, Rossomando e Verini che chiedono a Nordio di riferire in Senato. “In ogni modulo che non deve esprimere alcun pregio architettonico - scrive il Pd nell’interrogazione - dovranno trovate ospitalità 4 detenuti per una superficie complessiva di 30 mq ricomprendendo nella metratura anche i servizi igienici con una superficie indicativa di 3 mq, assolutamente inadeguata per garantire dignità della persona ed insufficiente per ospitare tutte le necessità, comprensive degli effetti personali dei detenuti. Inoltre, nei blocchi di detenzione le 24 persone detenute oltre al personale penitenziario potranno disporre di soli 30 mq per la socialità, l’attività fisica, la biblioteca e non viene fatto alcun riferimento progettuale per l’impianto antincendio e tanto meno viene segnalato quali tipologie di detenuti dovranno ospitare”. La relazione tecnico illustrativa preliminare prevede infatti la realizzazione di 5 blocchi per 120 posti letto complessivi da collocare nei perimetri delle carceri di Alba, Opera Milano e Biella; altrettanti a sud, negli istituti di Frosinone, Palmi e Agrigento; sei invece i blocchi destinati a L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera per 144 posti in tutto. Ogni blocco è costituito da 12 moduli smontabili “di dimensioni indicative pari a 6 metri per 5 metri”. Quelli “denominati A1” ospiteranno 4 posti letto e un bagno; stesse dimensioni per i moduli adibiti alle sale polifunzionali, ai servizi e alla zona agenti. Ogni blocco detentivo, munito di cortili di passeggio delimitati anche da pareti in cemento armato, sarà recintato da una cancellata metallica zincata alta “almeno 5 metri”. Ma a giudicare dall’annuncio dettato ieri all’Ansa da “fonti del governo”, il piano che andrà a gara “al ribasso” tra qualche giorno non è che una prima sperimentazione di un nuovo tipo di detenzione. Per il Sottosegretario Delmastro, “tutto è assolutamente rispettoso della normativa e consentirà di non avere più il sovraffollamento che c’è oggi”. Ma non convince neppure il M5s. Che protesta per la “trovata” del Guardasigilli: “Se la sua unica azione concreta, dopo mesi di nulla, sono i “blocchi detenzione” - attaccano i parlamentari pentastellati - è meglio che il governo Meloni dica a tutta Italia che non sa come affrontare l’emergenza carceri”. E se alcuni sindacati di polizia penitenziaria condannano le celle-container e lo “spreco di denaro pubblico” che preferirebbero fosse investito in nuove assunzioni, per il portavoce dei Garanti territoriali nulla cambierà, e i detenuti continueranno ad avere “meno metri quadrati a disposizione di quanto prevede la normativa per la custodia di cani e animali feroci”. E invece tra le soluzioni possibili Samuele Ciambriello chiede “un provvedimento deflattivo per le 8000 persone che devono scontare meno di un anno senza reati ostativi, o almeno per i circa 3000 che devono scontare meno di sei mesi. Serve questo e non altri edifici”. Carceri, parte il progetto delle celle container di Felice Manti Il Giornale, 2 aprile 2025 Il 10 aprile la gara Invitalia, ogni blocco è smontabile e può ospitare 24 detenuti. Servono almeno 1.500 posti in più contro il sovraffollamento per evitare le sanzioni Ue. Ma sul Dap e sul governo è scontro. Le carceri italiane si confermano un colabrodo dove entra di tutto, la sinistra accusa il governo di immobilismo e chiede di svuotarle per evitare i troppi suicidi, l’esecutivo pensa invece a realizzare dei moduli prefabbricati per ampliare la capienza degli istituti. Entro il 10 aprile con una procedura ristretta gestita da Invitalia sarà infatti possibile presentare delle offerte per realizzare questi 16 “blocchi detenzione trasportabili e smontabili” da 2 milioni di euro l’uno (gli stessi usati per realizzare i neo Cpr in Albania), prefabbricati in calcestruzzo, standardizzati e trasportabili, dotati non solo di celle 6 metri per 5, compreso un bagno di tre metri quadri, ma anche mini spazi comuni per biblioteca, barberia, sala psicologo e palestre, oltre a impianti di sicurezza avanzati, ciascuno progettato per accogliere 24 detenuti e aumentare la capienza delle carceri di appena 384 posti, al costo di circa 83mila euro l’uno. Si tratta di una soluzione edilizia già adottata in altri Paesi europei, anche se i posti in più sono pochi per scongiurare la soglia critica del sovraffollamento carcerario - che in alcuni penitenziari sfiora il 200% - sotto il 123%, con 62.165 detenuti per 51.323 posti, molti dei quali inagibili, soglia fissata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per evitare di sanzionare l’Italia. L’altro giorno c’è stato il 25esimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle case circondariali eppure il ricorso alla detenzione domiciliare è aumentato: secondo i dati del ministero della Giustizia, in Italia, i condannati definitivi che stanno scontando misure alternative alla detenzione inframuraria erano 95.315, 10mila in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La mappa prevede una distribuzione sostanzialmente uguale al Nord - cinque blocchi per 120 posti letto tra gli istituti di Alba, Milano Opera e Biella - sei blocchi e 144 posti tra L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera e altri cinque al Centro-Sud (Frosinone, Palmi e Agrigento), anche se fonti penitenziarie riferiscono che a Ferrara ce ne sarebbe già uno da 80 posti già appaltato dal ministero dei Trasporti. L’iter è partito nel dicembre dell’anno scorso, si sa che gli ingegneri del Dap scelti dal commissario straordinario Marco Doglio e personale Invitalia stanno facendo dei sopralluoghi preliminari sui luoghi indicati per valutarne la fattibilità, si dovrebbe partire a maggio con i primoi 384 posti, destinati ad aumentare a 1.500, per collaudarli definitivamente nel 2026. “A distanza di otto mesi dal decreto carceri del governo Meloni la situazione se possibile è peggiorata, del lavoro del commissario straordinario per l’edilizia carceraria si sa poco o nulla”, è il comunicato autogol dei rappresentanti M5s nelle commissioni Giustizia della Camera e del Senato Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero De Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato. I grillini sono convinti che “i posti aggiuntivi, meno di 400, sono inadeguati e disumani”. Intanto a Bari un’operazione della Dda conferma che in carcere arrivano migliaia di telefonini grazie ai droni e che dal penitenziario napoletano di Secondigliano sarebbe partito l’ordine di uccidere un rivale del clan mafioso Misceo, legato alla zona di Noicattaro, Gioia del Colle, Triggiano, Capurso, Bari e Fasano. Agli indagati sono contestati una miriade di reati, dal traffico di stupefacenti a due tentati omicidi fino al trasferimento fraudolento di valori. La stretta del governo sull’allarme criminalità nelle carceri sta dando i suoi frutti, ci dice un sindacalista degli agenti penitenziari, proprio nel momento in cui sui giornali si accusa il sottosegretario alla Giustizia con delega al Dap Andrea Delmastro e il numero uno del Dap facente funzioni Lina Di Domenico, considerata dai sindacati una figura chiave per la stabilità del sistema. Come aveva già scritto il Giornale, il sistema di autogestione finalizzato al recupero sociale ha fallito e ha penalizzato in primis proprio gli agenti, una deriva a cui lo stesso Delmastro sta cercando di mettere una pezza, osteggiato dall’opposizione per la sua recente condanna, la cui vera colpa è aver rivelato l’azione di indebolimento del 41bis - legittima - promossa dal Pd e spifferata dall’anarchico Alfredo Cospito ad alcuni boss. Prova ne sia il fatto che da quando è ripartita la stretta sulle otto ore fuori dalle celle anche per i detenuti in alta sicurezza sono diminuiti gli episodi di bullismo nei confronti dei più fragili, magari tossici in cella per pochi grammi. “La legalità aiuta a far sì che i detenuti deboli non siano ostaggio di mafiosi, e criminali veri”, sottolinea una fonte penitenziaria. Le voci degli agenti sono molteplici. Se il presidente del Consipe Mimmo Nicotra parla di “tentativo di destabilizzare gli sforzi significativi del governo per invertire la rotta”, il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci lancia l’allarme: “Le strutture carcerarie si sono trasformate in veri e propri dispensari farmacologici per tossicodipendenti, sempre più persone con dipendenze scelgono deliberatamente di farsi arrestare per accedere a quei farmaci psicotropi che non riescono a ottenere attraverso i servizi territoriali”. E sulla reale capacità di “rieducazione” della pena è intervenuto in mattinata il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha portato il progetto “recidiva zero” (finanziato anche con fondi privati) nella commissione presieduta dalla senatrice a vita Liliana Segre che contrasta intolleranze, razzismi, antisemitismo e incitazione all’odio. “Dobbiamo portare il lavoro in carcere, ma soprattutto fuori - ha sottolineato il Guardasigilli - per eliminare il marchio di Caino che segue il detenuto una volta uscito dal carcere”. Carceri senza senso di umanità di Mattia Gisola Articolo rivistamissioniconsolata.it, 2 aprile 2025 Sette ex detenuti su dieci tornano a delinquere. Il numero di suicidi in cella ha raggiunto un nuovo record. Questi dati mostrano che la funzione rieducativa del sistema penale non funziona. La storia di un ex detenuto fa riflettere sul carcere, e su quello che avviene dopo. L’articolo 27 della Costituzione italiana recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nel 2021, però, solo il 38% dei detenuti presenti nelle carceri italiane stava scontando la prima detenzione, il 62% era già stato ristretto, il 18% era addirittura alla quinta carcerazione. Questo significa che, nella maggioranza dei casi, la funzione rieducativa della pena ha fallito. Il sistema penale dovrebbe occuparsi delle persone che hanno commesso reati per evitare che ne commettano altri, e con il fine di reimmettere in libertà individui capaci di vivere nella legalità. Secondo i dati del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), però, circa il 70% dei detenuti, una volta usciti dal carcere, torna a delinquere. Non si può, né deve, parlare di persone irrecuperabili, piuttosto di inefficacia della pena. Stando al Cnel, quando i detenuti intraprendono un percorso lavorativo durante la carcerazione, la probabilità di recidiva cala drasticamente, fino al 4%. Ci sono, quindi, delle strategie che il sistema penale può e deve mettere in atto se vuole raggiungere il suo scopo di rendere più sicura la società. Per capire da vicino quali sono le condizioni nelle quali i detenuti vengono liberati al termine della loro pena, incontriamo Franco (nome di fantasia), che è stato in carcere nella Casa circondariale di Ivrea e condivide con noi la sua esperienza. La storia di Franco - “Mi hanno aperto la porta e ciao, devi uscire”, così racconta Franco. Il filo conduttore che emerge dalle sue parole è la vivida sensazione di impotenza che provava mentre era in carcere e che prova ancora oggi, fuori da quelle mura. Nessuno si è preoccupato o occupato di dove sarebbe andato, di cosa avrebbe fatto una volta tornato in libertà. Il suo racconto è indicativo di un sistema che punta a parcheggiare le persone nelle celle e a gestirle con il minimo sforzo possibile per liberarsene poi, velocemente, al termine della pena. Una situazione che va ad aggravare le già precarie condizioni di salute mentale di cui soffrono sovente i detenuti, condizioni che in carcere vengono troppo spesso affrontate tramite psicofarmaci. A proposito di questo, Franco racconta: “Mi avevano riempito di medicine quando ero lì, ma quando sono uscito non avevo niente. Per quattro giorni non ho dormito, sono andato fuori di testa, fino a quando mi hanno ricoverato in ospedale”. Infatti, dopo diversi anni sotto l’effetto di farmaci, Franco è stato lasciato in libertà senza un piano terapeutico, senza il riferimento di un medico che lo seguisse in maniera adeguata. Questo lo ha portato in breve a una grave crisi di astinenza. Per fortuna è riuscito a farsi portare in pronto soccorso dove lo hanno stabilizzato. Ha poi incontrato uno psichiatra con il quale ha iniziato un trattamento di antidepressivi ad hoc per la sua situazione. Un tempo inutile - La vita dentro il carcere descritta da Franco corrisponde a quella raccontata da chi si occupa dei diritti dei detenuti: dieci metri quadrati per due persone, un letto a castello, due scrivanie, due armadietti e un televisore. In particolare, Franco lamenta le difficoltà che aveva a mantenere le relazioni con familiari e amici, dai quali si è sentito strappato via. Questo strappo nelle relazioni oggi gli sembra che abbia compromesso le sue possibilità di ricostruirsi una vita. Racconta che la cosa più destabilizzante in carcere è “il tempo inutile”, il non fare niente per ore e ore, tutti i giorni, con relazioni umane ridotte all’osso. E poi la dipendenza: essere costretti a chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa, dal lavarsi al prenotare una visita medica, magari dovendo aspettare giorni, settimane, o mesi prima di ottenere una risposta. “Non è un carcere di riabilitazione - sostiene Franco. Sai che quando esci non hai niente in mano. È tempo veramente inutile, non è costruttivo. E poi si lamentano che ci sono un sacco di recidive”. Record di suicidi - Quando Franco tocca il tema delle persone che in carcere muoiono per suicidio, la sua voce si fa più flebile. Nel 2024 il numero di suicidi nelle case di reclusione italiane ha raggiunto il record di novanta. Persone morte mentre erano nelle mani dello Stato. Franco ci racconta di aver sentito diverse storie, e di aver conosciuto persone che si sono suicidate anche a pochi mesi dalla fine della pena. Pure lui ci ha pensato più volte. Racconta che aveva anche preparato una corda, ma è riuscito sempre a fermarsi in tempo. Secondo la sua esperienza, anche l’uscita dal carcere, che normalmente ci si immagina come un momento felice, è in realtà un colpo durissimo. Franco, ad esempio, si è ritrovato solo, privo di legami familiari e disconnesso dalla realtà esterna al carcere, che durante la sua detenzione aveva avuto la sua evoluzione: non possiede lo Spid, non sa cosa sia, e fatica persino a ottenere una carta prepagata, o a prenotare una visita medica. Trovare un lavoro, considerata la sua età e il suo passato, appare un’impresa quasi impossibile. La prospettiva di potersi garantire una casa e il cibo per sopravvivere sembra un traguardo irraggiungibile. I volontari in carcere - Franco, però, come tanti altri, ha avuto la fortuna di incontrare una rete di volontariato radicata sul territorio che gli ha permesso di attutire il colpo, di trovare un tetto provvisorio, e di ricevere un aiuto nella ricerca di un lavoro. Abbiamo contattato Silvio Salussolia che, da decenni, è impegnato nel volontariato con i detenuti nel canavese, cercando di supportare le necessità di chi vive in carcere, e portando nelle scuole riflessioni sul tema. Di carcere si parla molto poco nei media e nelle scuole, ma Silvio sostiene che farlo permetterebbe di guardare il mondo da un nuovo punto di vista: non dal centro, ma dalle periferie. Il suo scopo non è solo quello di aiutare i ragazzi e la cittadinanza a empatizzare con i detenuti, ma di far riflettere sui modi con i quali i cittadini e la politica potrebbero e dovrebbero costruire una società più giusta e più sicura per tutti. Quale rieducazione - Silvio Salussolia ci fornisce altri dati: nel carcere di Ivrea ci sono 195 posti regolamentari (di cui sei non disponibili), ma accoglie 273 detenuti: ottantaquattro in più rispetto alla capienza. Il personale si compone di 175 membri della polizia penitenziaria e quattro educatori. Ci si chiede come possa un numero così piccolo di educatori, costruire progetti personali, concreti e di lungo periodo per 273 detenuti, la maggioranza dei quali vive situazioni individuali e sociali critiche. La risposta è semplice: è impossibile garantire la funzione rieducativa della pena stabilita dalla nostra Costituzione. Esempi virtuosi - Allora il sistema penale è destinato a non funzionare? Silvio nomina alcuni esempi virtuosi che anche in Italia danno un nuovo significato alla pena. Il primo è quello della Comunità La Collina, in provincia di Cagliari: un luogo nato oltre vent’anni fa da un’idea di don Ettore Cannavera dove i condannati per alcuni reati possono scontare una pena alternativa. Chi trascorre il periodo di detenzione in questo luogo ha prospettive nettamente migliori rispetto alla media dei carcerati, e i dati dimostrano che avrà meno del 4% di probabilità di tornare a delinquere in futuro. Un tasso di recidiva così basso è spiegato da Salussolia con due fattori chiave: innanzitutto il rapporto numerico tra agenti ed educatori è invertito rispetto a quello visto sopra. Gli educatori professionisti che si occupano dei percorsi rieducativi sono in numero maggiore e, inoltre, danno grande importanza al lavoro. Tutti i detenuti de La Collina lavorano dentro o fuori la comunità. Una questione politica - Oltre questo caso particolarmente illuminato, esistono altre realtà che propongono dei paradigmi diversi di carcere e di pena. Ad esempio, le case di reclusione di Bollate e di Opera (Milano). Bollate è considerato l’istituto penitenziario più all’avanguardia in Italia. La struttura è una delle migliori, e offre numerose opportunità di studio, lavoro e cultura ai suoi detenuti. Vi sono, ad esempio, un ristorante di alta qualità dove i detenuti lavorano insieme a chef professionisti, un teatro, spazi per la socialità, e un asilo che accoglie figli di detenuti, dipendenti e non solo. Per favorire la partecipazione alle attività è stato poi adottato un modello di carcere nel quale le celle vengono tenute aperte circa dieci ore al giorno favorendo il movimento all’interno dei reparti. Opera è un altro esempio di come, nonostante le difficoltà e i limiti, si possano costruire spazi per la socialità e aree verdi, si possa investire nel lavoro e nella formazione, sia all’esterno dell’istituto che all’interno, grazie a laboratori di diverso tipo. Questi esempi mostrano che un percorso più dignitoso è possibile, e che è anche più efficace e più utile per i singoli detenuti e per l’intera collettività. Al di là di queste eccezioni, però, la normalità delle carceri in Italia è un’altra: è fatta di sovraffollamento, progettualità quasi nulle, tassi di recidiva altissimi e suicidi sempre più numerosi. Studiare il carcere dovrebbe quindi farci capire che la sua fallibilità ha delle cause ben precise, su cui si può intervenire e che si possono modificare. Investire sui fattori giusti permetterebbe di ridurre le recidive, rendendo più sicure le nostre città, di ridurre la pressione sulle carceri oggi sovraffollate e, da ultimo, anche far risparmiare soldi allo Stato. Dap, Delmastro non arretra: Lina Di Domenico resta la candidata di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 aprile 2025 Magistrata di sorveglianza abruzzese, il sottosegretario vorrebbe che diventasse la prima donna alla guida del Dipartimento. Oggi è vice. Quando ieri il sottosegretario Andrea Delmastro ha detto ai cronisti che “sul Dap non c’è alcuna novità”, stava dando una notizia. E cioè che per il momento, per lui, il solo nome in campo per guidare le carceri italiane è l’attuale reggente, Lina di Domenico, la magistrata attorno alla quale si sta realizzando lo scontro tra il governo e il Quirinale. La storia ormai è nota: Di Domenico è stata scelta dal governo senza un’interlocuzione con il Colle a cui spetta la scelta. Di più: addirittura il Csm nei primi giorni di gennaio ha votato per il suo distacco (Di Domenico è una fuori ruolo) dando per scontato una nomina che invece non c’era. E tre mesi dopo non è ancora arrivata. Ma perché Delmastro tiene tanto a Di Domenico? “Perché è la più brava e poi sarebbe la prima donna alla guida del Dap nella storia” ripete a chi in queste ore gli chiede cosa sta accadendo. Sul curriculum della magistrata, in realtà, nessuno obietta. Ma sono tutti concordi nel raccontare la vicinanza della magistrata al sottosegretario, “che in questi mesi è il vero capo del Dipartimento”. Laureata a Roma, “mi dovevo chiamare Liberata, evidentemente nel nome c’era il mio destino: mi dovevo occupare di carceri” dice oggi. Vinto il concorso in magistratura è diventata subito magistrata di sorveglianza a Novara, e chissà che non si sia incrociata già a quel tempo con l’avvocato penalista Delmastro. In realtà la storia non era scritta soltanto nel nome. Ma nella famiglia. Di Domenico è nipote di Giuseppe Falcone, scomparso nel 2018, ex presidente del tribunale di sorveglianza di Roma e soprattutto stimatissimo dirigente proprio del Dap di cui era stato vice capo e soprattutto direttore dell’ufficio personale, circostanza che lo fa essere ancora ben ricordato dagli agenti in servizio. Gli stessi agenti - in particolare i sindacati più di destra, quelli vicini a Delmastro - che avevano brindato alla notizia della nomina di Di Domenico. Che, al di là della parentela, conoscevano. Dopo l’esperienza alla sorveglianza, nel 2018 la magistrata viene nominata vice capo del Dap, raccontano, su indicazioni di alcuni parlamentari dei 5 Stelle. Non sarà però un’esperienza memorabile. I suoi rapporti con l’allora capo, Francesco Basentini, non decollano. Anzi. “Lei stessa raccontava di non essere messa in condizioni di lavorare e, infatti, non ci sono tracce del suo lavoro in quegli anni” racconta una fonte del Dipartimento. Nel 2019 non viene riconfermata. Dovrebbe tornare in magistratura ma invece continua il fuori ruolo. Il presidente della commissione Antimafia, il 5 Stelle Nicola Morra, la sceglie come consulente. Resta dunque nei palazzi romani dove si fa notare in particolare dalla segretaria della commissione, Wanda Ferro, con cui instaura un rapporto diretto. E che, una volta vinte le elezioni, la suggerisce immediatamente per un incarico di vertice al Dap. Diventa così, come suo zio, numero due del Dipartimento, accanto a Giovanni Russo. A differenza di Russo, però, Di Domenico comincia a lavorare immediatamente accanto a Delmastro. Che ora, anche soltanto come vicaria, non vuole privarsi di lei. Dap, l’imbarazzante stallo che tiene le carceri in sospeso di Simona Musco Il Dubbio, 2 aprile 2025 Nulla di nuovo sul fronte occidentale, ha risposto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro a chi ieri gli chiedeva se ci fossero novità sulla nomina del capo del Dap, poltrona vuota da fine dicembre, dopo le dimissioni di Giovanni Russo, che aveva sbattuto la porta proprio per gli attriti con Delmastro. Una lunga attesa diventata imbarazzante, mente gli istituti penitenziari macinano l’ennesimo suicidio, il venticinquesimo dell’anno, nel silenzio generale. Anche perché dietro la lunga attesa c’è un incidente diplomatico di non poco conto: la scelta di un successore - il numero due di Russo, attuale facente funzione, Lina Di Domenico - con tanto di visto del Consiglio superiore della magistratura, senza avvisare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che è anche Capo delle Forze armate. Una sgrammaticatura istituzionale che non è passata inosservata e che però, nonostante tutto, è ancora non sanata. Forse non soltanto per una questione di metodo, ma anche per una questione di merito. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha promesso che la nomina sarà decisa rapidamente. La scelta di Lina Di Domenico, che sembra essere la candidata principale, dovrebbe essere ufficializzata a breve. Eppure tutto rimane in stallo, mentre sul piatto, come racconta Repubblica, compare anche un altro nome: quello di Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Catania, ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura, da sempre figura apprezzata anche dalle parti di Fratelli d’Italia, specie per il suo approccio securitario al tema carceri. E d’altronde quello del Dipartimento dell’amministrazione penitenziario è un ambiente che il magistrato conosce bene, avendo occupato la poltrona di direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del Dap dal 2002 al 2011. Insomma, uno che conosce le dinamiche e piace anche tanto alla Polizia penitenziaria, che dal capo del Dap dipende in toto. Secondo l’indiscrezione di Repubblica, sarebbe stato proprio Delmastro a opporsi alla scelta di Ardita. Ma chi conosce bene i rapporti tra entrambi smentisce questa ricostruzione. “Non è vero che Delmastro si oppone alla sua nomina - spiega una fonte -. Anzi, lo vorrebbe eccome…”. Ma le bocche, sui dettagli, sono cucite. Quel che è certo, al momento, è che il procuratore aggiunto di Catania è stato contattato per saggiare la possibilità di riportarlo al Dap, ma da parte sua non ci sarebbe stata alcuna apertura. Soprattutto perché le aspirazioni di Ardita sono ben note: dopo aver tentato la corsa alla poltrona di procuratore - per lui i cittadini avevano anche organizzato una manifestazione a sostegno davanti alla procura -, poi assegnata poi a Francesco Curcio, il magistrato ha ora presentato ricorso al Tar, sperando di riuscire a far valere le proprie ragioni e ottenere l’avanzamento di carriera. Senza contare che l’ostacolo normativo alla sua nomina, legato al suo fuori ruolo al Csm, anche se superabile con qualche escamotage, ad esempio col transito nei ruoli della dirigenza o con la nomina a prefetto. “Trucchetti” che, però, non sarebbero coerenti con “l’Ardita pensiero”. Nel frattempo, la situazione all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria continua a destare preoccupazione. Il mondo della Polizia penitenziaria è infatti in subbuglio. Lo dice chiaramente il segretario dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci, che a Delmastro dedica parole poco commendevoli. “Sono tre mesi che manca un capo Dap a causa dell’ingerenza e dell’onnipresenza del sottosegretario Delmastro che, di fatto, ha assunto questo ruolo - ha dichiarato a LaPresse -. Si dice che Russo sia andato via proprio per le ingerenze di Delmastro che si è fatto dare un ufficio al quarto piano del Dipartimento e da lì dirige tutto. È una presenza ingombrante. È incredibile il lassismo e il disinteresse del ministro Nordio di fronte a questa situazione”. E la reazione delle opposizioni non si è fatta attendere: “A distanza di otto mesi dal decreto carceri del governo Meloni la situazione se possibile è peggiorata, del lavoro del commissario straordinario per l’edilizia carceraria si sa poco o nulla e la tragedia prosegue al cospetto di un ministro immobile e assente, che commenta a sproposito e prende tempo, palesemente commissariato dal suo sottosegretario Delmastro, lo stesso che ha bocciato senza mezzi termini la separazione delle carriere che Nordio brandisce ogni giorno come vendetta verso i magistrati”, hanno dichiarato i rappresentanti del M5S nelle commissioni Giustizia della Camera e del Senato Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero De Raho, Valentina D’Orso, Carla Giuliano, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato. “Se la sua unica azione concreta, dopo mesi di nulla, sono i “blocchi detenzione” - hanno aggiunto - è meglio che il governo Meloni dica a tutta Italia che non sa come affrontare l’emergenza carceri. Quei cubi di cemento porterebbero meno di 400 posti aggiuntivi (di cui il Damiano Aliprandi sul Dubbio vi ha raccontato in esclusiva, ndr) in ambienti che esperti e Polizia penitenziaria hanno già definito del tutto inadeguati e disumani, per di più a scapito di spazi destinati all’attività all’aperto e al trattamento”. Insieme in carcere. I giudici hanno autorizzato le visite coniugali private, ma mancano i luoghi adatti di Alessia Arcolaci Vanity Fair, 2 aprile 2025 Diana, Roberta e Anna vedono i mariti in carcere, ma non possono abbracciarli. I giudici hanno autorizzato le stanze dell’amore, ma gli ostacoli ci sono ancora. Se il desiderio di riabbracciarsi fosse un paesaggio con alberi dal fusto largo sui quali scende pacifica la prima neve, la storia di Diana e Diego (nomi di fantasia), che non si abbracciano da quando lui è finito in carcere, dovrebbe apparire ai nostri occhi con la stessa candida tenerezza. Ma quando si sconta una detenzione, la dolcezza è la prima cosa a essere recisa. E allora, se vogliamo continuare a immaginare questa coppia come quel tenero paesaggio imbiancato, dobbiamo fare lo sforzo di vedere la neve scendere nell’auletta dai colori pallidi adibita ai loro colloqui, dentro al carcere. Con le sedie messe una di fronte all’altra, fissate al pavimento così da non avvicinarsi troppo. E sotto lo sguardo attento di chi deve controllare. Nessun contatto fisico, niente parole sussurrate. In queste stanze, per una o più ore, le coppie possono parlare guardandosi negli occhi, in mezzo ad altri uomini e donne nella loro stessa condizione. La colpa e la condanna di un amore destinato al ricordo di un bacio. Ma smettiamo per un attimo di essere romantici, riflettiamo sul giudizio verso chi entra in carcere e su come spesso viene intesa la vita all’interno di un istituto penitenziario. Permettiamo che il muro dell’auletta per i colloqui delle coppie in carcere si sposti, che una porta si apra e che, dopo anni, questi uomini e donne entrino in una dimensione privata. Lasciamo che Anna e Diego, e le coppie come loro, si diano un bacio o tremino per l’emozione di essere finalmente a tu per tu, uno di fronte all’altro. Sorpresi perché non si erano mai più incontrati da soli da quando i loro figli erano bambini, mentre oggi sono ormai quasi adulti e loro, forse, non sanno più come si fa a volersi bene da vicino. Quello che invece noi sappiamo è che, nell’ottobre del 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato in parte illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che riguarda il divieto all’affettività in carcere e quindi anche ad avere rapporti sessuali. In particolare, i giudici hanno contestato quella norma “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”. Come spiega l’associazione Antigone, da sempre con lo sguardo rivolto alle condizioni delle carceri nel nostro Paese, “l’accoglimento della questione da parte della Corte costituisce una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione della pena detentiva, vista non più come una necessaria e totale privazione dei diritti del condannato, ridotto a essere una “non-persona”, quanto alla dimensione affettiva della sua stessa esistenza. Non va, infatti, taciuto che i giudici hanno significativamente considerato non solo la sfera sessuale, ma l’intera sfera affettiva delle persone detenute e di chi con esse ha rapporti di matrimonio, unione e anche semplice convivenza”. In Italia, i colloqui tra un detenuto e sua moglie o la fidanzata devono sempre avvenire davanti agli agenti della polizia penitenziaria attenendosi a diverse regole, tra cui quella di non avvicinarsi al partner. Per questo, appena chiediamo a Diana come immagina il suo primo incontro privato con il marito condannato all’ergastolo, lei risponde che il suo desiderio più grande è sedersi sulle sue gambe. Accoccolarsi con lui. Diana ha circa cinquant’anni. Da più di venti, una volta al mese prende il treno da Napoli per recarsi presso il carcere di Parma, dove suo marito sta scontando la pena in regime di alta sicurezza. Ha cresciuto da sola i loro figli, facendo lavori di fortuna. Ma non ha mai immaginato di innamorarsi di un altro. Invece, ha sempre confidato le sue paure - tra cui quella di non poter mai più abbracciare l’uomo che ama - all’avvocato di suo marito, Pina Di Credico. Vive nella stessa condizione anche Roberta. Suo marito ha 43 anni e ne sta scontando diciassette in carcere per vari reati, tra cui estorsione aggravata dal metodo mafioso perché, all’epoca della condanna, faceva parte del clan camorristico dei Casalesi. Per lui, nel febbraio 2024, l’avvocato Di Credico ha chiesto alla direzione della struttura penitenziaria il permesso di esercitare il diritto ad avere “colloqui intimi visivi” con sua moglie. La risposta del giudice di sorveglianza è stata positiva, soprattutto per la buona condotta del detenuto, che in carcere ha finito gli studi, lavora e dona parte delle sue entrate ad associazioni che sostengono le vittime di mafia. Il carcere, però, non ha ancora trovato un luogo adatto a creare queste “stanze dell’amore”. Nei fatti, Diana e Roberta non sanno quando potranno davvero tornare a essere sole dentro una stanza con i rispettivi mariti. E questo nonostante che il giudice abbia dato parere favorevole perché ciò accada anche, eventualmente, appoggiandosi a momentanee strutture esterne al carcere. Anna ha la voce bassa, quando risponde al telefono si sente in sottofondo la voce di un bambino. Suo marito è stato condannato a diciotto anni di carcere, è in regime di alta sicurezza nel carcere di Larino e lei riesce a incontrarlo una volta al mese, quando va bene. Anche lei prende un treno da Napoli, arriva al carcere con un contenitore pieno di ragù che lui adora. Più tardi, nella stessa giornata, lei rientra a casa, dai loro figli. Scherzando, Anna immagina che comprerà un nuovo completino intimo per festeggiare questo incontro nella “stanza dell’amore”. Ma quando torna seria, la voce è rotta dall’emozione: “Questa non è vita. Non posso nemmeno fargli una carezza quando lo vedo. È entrato in carcere poco dopo il nostro matrimonio e dovrà restarci a lungo. Non sono mai stata arrabbiata con lui”. Anna provvede alla sua famiglia lavorando come “signora delle pulizie”. Quando pensa al futuro, come Diana non prende in considerazione l’idea di amare qualcuno che non sia suo marito. Un’altra vita non è possibile. “Il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato, non deve essere punizione, altrimenti che senso ha?”, commenta l’avvocato Di Credico. “Durante l’espiazione, il detenuto non può essere assoggettato a una pena ulteriore. I suoi diritti inviolabili, come quello all’affettività, devono essere sempre garantiti. Diversamente, la funzione della pena verrebbe privata della sua stessa essenza. Inoltre, i detenuti per i quali ho presentato la richiesta di colloqui intimi sono reclusi da tanti anni nel reparto di alta sicurezza e hanno sempre osservato una condotta ottima e collaborativa. Non si può non tenerne conto. Aspettiamo, quindi, che vengano allestiti spazi ad hoc come richiesto dal giudice di sorveglianza”. Nel mondo delle carceri sovraffollate, dove capita che restino celate le rivolte interne, dove i suicidi non diminuiscono di anno in anno (e anzi il 2024 con 88 vittime è il più tragico per il nostro Paese), sembra quasi superficiale parlare di diritto all’affettività, ad abbracciarsi, a vivere l’intimità con la persona che si ama. E forse è proprio questo il tassello che manca: sentirsi autorizzati a chiedere amore, anche da dentro un carcere. Una speranza che regala il coraggio di immaginarsi in una nuova vita, di farcela per davvero. Ddl sicurezza, intesa nel Governo. Salvini cede alle modifiche del Colle di Federico Capurso e Francesco Grignetti La Stampa, 2 aprile 2025 In cambio la Lega chiede una stretta su furti in casa e antisemitismo. Sette mesi dopo il primo via libera alla Camera, il centrodestra riesce a trovare un accordo e inizia a soffiare via la polvere dal faldone del ddl Sicurezza. Impossibile non notare il sollievo nella voce degli sherpa di Fratelli d’Italia e di Forza Italia mentre confermano a La Stampa che l’accordo con la Lega è chiuso: finalmente accetta di modificare il provvedimento” e di accogliere le obiezioni di costituzionalità mosse dal Capo dello Stato. È stato necessario intensificare in queste ultime settimane - come raccontato su questo giornale - l’opera di tessitura tra il Colle e Palazzo Chigi (e un confronto tra i leader) per convincere Matteo Salvini che non c’era alternativa: si doveva andare incontro alle correzioni suggerite dal Quirinale, altrimenti il ddl Sicurezza non sarebbe mai approdato in Aula in Senato. E così, alla fine, il muro di Salvini è caduto. “Il nostro principale obiettivo è sempre stato fare presto - dice ora uno dei leghisti che ha curato la trattativa. Se l’unica strada per accelerare è quella di apportare piccoli cambiamenti che non stravolgono il ddl, a noi va bene”. In cambio, la Lega chiede che vengano approvati alcuni suoi emendamenti. Il primo ricalca un disegno di legge del senatore Andrea Ostellari e prevede un inasprimento delle pene per chi commette furti nelle abitazioni private: si alzerebbe il minimo e il massimo della pena, in modo che si renda difficile, quasi impossibile, evitare il carcere. Il secondo emendamento tocca invece la “formazione” delle forze dell’ordine per prepararle a riconoscere con tempestività i reati d’odio di matrice antisemita. Su questi due interventi le trattative si discute ancora, ma è una questione di dettagli. Trovata la quadra politica, a Palazzo Madama mostrano una certa fretta. Entro il 7 aprile dovranno arrivare gli emendamenti e prima di Pasqua, tra 15 e 16 aprile, il Senato voterà il ddl, anche se sul programma della maggioranza potrebbero incidere gli emendamenti delle opposizioni, che saranno centinaia. Poi la parola passerà nuovamente alla Camera per la cosiddetta “terza lettura”: un passo comunque indispensabile perché le tabelle con le coperture finanziarie, a sette mesi di distanza dalla prima approvazione, devono essere aggiornate. Ma il passaggio più delicato resta quello della modifica di quei punti particolarmente controversi indicati dal Colle. Il primo riguarda le detenute, quando siano incinte o con bambini neonati fino a 1 anno. Attualmente - e ciò vige dai tempi del Codice Rocco del 1931 - la detenzione di queste donne è impossibile. Non ci sono scappatoie. La civiltà giuridica ritiene infatti incompatibile rinchiudere una donna in stato interessante o che abbia appena partorito in una cella, con tutti i limiti igienici che comporta. Con l’intento dichiarato di colpire le giovani borseggiatrici rom, invece, questo ddl apriva loro le porte del carcere, sia pure potenzialmente. Sarebbe stato un giudice a decidere se la custodia doveva essere in carcere o no, con il prevedibile effetto di sommergere di polemiche il primo magistrato che avesse lasciato libera una rom incinta o con un neonato, se questa avesse reiterato il reato. Seconda questione sollevata dal Quirinale, il divieto di vendere una scheda Sim ad un migrante appena sbarcato. L’obiettivo è palesemente punitivo, ma oltremisura quando si pensa che ne sarebbero stati colpiti persino gli stranieri minori non accompagnati, che non avrebbero potuto chiamare la famiglia per avvertirla di essere al sicuro. Infine, terza questione di probabile incostituzionalità, il nuovo reato di “rivolta carceraria” che colpirebbe non soltanto il detenuto che adopera violenza, ma anche quello che si limita alla resistenza passiva e non obbedisce agli ordini ricevuti. Su questi punti, adesso, si attendono modifiche. Ddl Sicurezza. Forze dell’ordine, garantita la tutela legale e stop alla sospensione di Luca Fazzo Il Giornale, 2 aprile 2025 Lo Stato anticiperà le spese a chi viene indagato. Il ministro Piantedosi: “Giusto, lavoro rischioso”. Nessuna immunità, nessuno scudo penale per le forze dell’ordine: ma lo Stato sarà presente al loro fianco nella fase delle indagini e dei processi, in nome della presunzione di innocenza e della tutela di chi tutela la collettività. Nel percorso accidentato del disegno di legge sulla sicurezza, che si prepara a affrontare l’esame del Senato, uno dei pochi punti fermi è quello annunciato nei giorni scorsi dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi. I poliziotti finiti sotto inchiesta per fatti legati al servizio potranno continuare a lavorare e il Viminale si farà carico della loro assistenza legale. Il tema dell’assistenza legale agli agenti inquisiti da parte delle Procure si trascina da tempo, finora la prassi era che il ministero saldasse le parcelle dei difensori unicamente in caso di assoluzione piena e solo al momento della sentenza definitiva. Nei lunghi anni delle indagini e dei tre gradi di giudizio, i costi erano quasi interamente a carico dei dipendenti, che spesso si trovavano a doverli sostenere mentre erano sospesi cautelarmente dal servizio. “Con un articolo del Ddl Sicurezza - spiega Stefano Paoloni, segretario del Sindacato autonomo di polizia - vengono portati a diecimila euro per ogni grado di giudizio il sostegno legale, quindi il totale può arrivare fino a cinquantamila euro. Un aiuto consistente, visto che spesso alle spese di difesa si aggiungono quelle per i periti”. Inoltre vengono ridotte le possibilità per il governo di rivalersi successivamente sul dipendente, che saranno limitate ai casi di condanna definitiva o di gravi e accertate violazioni disciplinari. In questo modo viene ad esempio garantita la copertura legale agli agenti che quasi sempre le Procure iscrivono nel registro degli indagati “come atto dovuto” in seguito a episodi come quello che a Milano ha portato alla morte di un giovane al termine di un inseguimento. Più complesso il percorso per evitare la sospensione dal servizio ai poliziotti iscritti nel registro degli indagati. I dipendenti della Ps hanno regole più severe dei carabinieri, che vengono allontanati dal servizio solo in caso di condanna in primo grado. La modifica che dovrebbe garantire lo stesso trattamento anche ai poliziotti non è inserita nel Ddl sicurezza, e quindi dovrà essere oggetto di una legge ad hoc. Ma che si debba andare in questa direzione, per il ministro è una certezza: “Alcune categorie di lavoratori si trovano più frequentemente a fronteggiare una serie di situazioni particolarmente critiche. L’idea è quella di ricercare un modo che possa evitare che siano sempre automaticamente esposti a adempimenti che poi si rivelano pesanti e sproporzionati sul piano economico e professionale, per tempi molto lunghi prima che si accerti la loro innocenza”. Il processo penale telematico si allarga, ma negli uffici i capi decidono lo stop di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2025 Il ministero della Giustizia ha confermato la data, ma già arrivano i provvedimenti dei presidenti dei tribunali che neutralizzano quel vincolo per continuare ad assicurare il doppio binario analogico e digitale. È ancora impervio il percorso del processo penale telematico. Perché le frequenti criticità continuano a renderne arduo l’impiego esclusivo e su larga scala. Tanto che l’entrata in vigore da oggi della sola via digitale per il deposito delle notizie di reato e gli atti nel giudizio per direttissima rischia di restare solo sulla carta. Il ministero della Giustizia infatti ha confermato la data, ma già arrivano i provvedimenti dei presidenti dei tribunali che quel vincolo neutralizzano per continuare ad assicurare il doppio binario analogico e digitale. Doppio binario che peraltro ben 87 tribunali avevano già deciso di conservare per evitare la sostanziale paralisi dell’attività ordinaria per effetto del debutto da inizio anno di un’analoga esclusività digitale per tutta una serie di fasi e atti processuali. Ora la dinamica è destinata a protrarsi. Da nord a sud. A Milano Fabio Roia ha disposto la sospensione dell’applicativo del ministero permettendo il deposito anche con le modalità tradizionali. Denso l’elenco dei punti problematici che sconsigliano il transito esclusivo al digitale: da quelli complessivi, come la lentezza del sistema del tutto incompatibile con la digitalizzazione di tutti gli atti parallelamente alla celebrazione dell’udienza, a quelli più specifici l’impossibilità dell’applicativo di fornire la firma digitale del cancelliere sul decreto di giudizio immediato. Di qui la decisione di prorogare dal 31 marzo al 30 giugno lo stop di App. Conclusione identica anche a Palermo, dove il provvedimento di Piergiorgio Morosini, pur riconoscendo passi avanti, sottolinea tra l’altro l’esistenza di rilevanti problemi operativi (blocchi di sistema, difficoltà di consultazione dei fascicoli, assenza di un filtro sulla visualizzazione degli atti da parte del cancelliere), tali da penalizzare fortemente gli obiettivi Pnrr. E anche l’avvocatura fa sentire la propria voce. Con Ocf che segnala ritardi nell’iscrizione delle notizie di reato, impossibilità di depositare atti successivi per mancata annotazione delle nomine, richieste arbitrarie di certificati, tutti elementi di gravità tale da compromettere il diritto di difesa. E le Camere penali scrivono al collega e viceministro Francesco Paolo Sisto per contestare il fatto che, a causa dei ripetuti provvedimenti di sospensione, l’implementazione del fascicolo è tuttora essenzialmente costituita dai depositi degli utenti abilitati “esterni”; di contro la fruibilità dello stesso rimane esclusivo appannaggio degli “interni”, segnando un evidente squilibrio tra le parti. Emilia Romagna. “Comunità educanti per i carcerati contro sovraffollamento e recidiva” di Anna Clarissa Mendi open.online, 2 aprile 2025 Il Consiglio regionale ha votato all’unanimità un odg a prima firma Castaldini (Fi) per finanziare le comunità alternative al carcere: “Dobbiamo riconoscere l’importanza di un sistema penitenziario che promuova il reinserimento dei detenuti nella società”. Sovraffollamento, condizioni inadeguate di molte strutture, carenza di personale e suicidi. Sono solo alcuni dei problemi, già noti e ampiamente denunciati, delle carceri italiane, compresi gli Ipm. Ma non solo: nell’anno nero degli Istituti di pena, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e quindi anche la polizia penitenziaria, sono da tre mesi senza guida. Riformare il sistema carcerario è una delle tante sfide che i governi hanno tentato di affrontare negli anni, con risultati diversi. Eppure, la soluzione non può essere trovata - denunciano le organizzazioni - nella moltiplicazione dei penitenziari. È necessario incrementare anche le esperienze che si muovono nella logica di una giustizia rieducativa. “Oggi più che mai dobbiamo riconoscere l’importanza di un sistema penitenziario che promuova il reinserimento dei detenuti nella società, proprio come delinea l’articolo 27 della Costituzione”, spiega la consigliera regionale dell’Emilia Romagna Valentina Castaldini (FI), che insieme alle dem Parma e Petitti hanno presentato una proposta votata all’unanimità dal Consiglio regionale per finanziare le comunità educanti carcerarie (Cec). Strutture che offrono una misura alternativa al carcere e percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto. “Un sistema - commenta - che pone l’accento sulla dignità e sull’umanità, lavorando sulla reintegrazione dei detenuti nel tessuto sociale emiliano-romagnolo”. Le comunità educanti carcerarie - In Italia esistono comunità educanti riconosciute ufficialmente come Apac (Associazione di protezione e assistenza ai condannati), ovvero esperienze di carcere aperto, nate nel 1972 in Brasile. In Italia sono una decina, di cui la metà in Emilia-Romagna: si tratta di un’alternativa al tradizionale sistema carcerario. I detenuti, molti dei quali presenti, si chiamano “recuperandi”, e i tassi di ricaduta sono molto bassi. “Solo il 15% di chi è stato ospite delle Cec torna a delinquere dopo avere scontato la pena, a fronte di una recidiva del 70% nella popolazione carceraria. È dunque un’esperienza utile per i detenuti, per lo Stato, per la società”. Ad oggi queste comunità non ricevono nessun contributo per l’accoglienza dei detenuti. “Il costo per ognuno dei detenuti accolti è di 35 euro al giorno contro i 140 euro dell’amministrazione penitenziaria”, si legge nell’ordine del giorno. Le Cec “possono rappresentare una effettiva leva per il contrasto al sovraffollamento penitenziario in Emilia-Romagna tenuto conto del dato del 35% dei reclusi che possono in via ipotetica accedere a benefici alternativi alla detenzione, ma che molto spesso non hanno risorse e proposte idonee. Leva positiva contro il sovraffollamento è anche la riduzione della recidiva, che ne è una delle maggiori cause”. Milano. L’ergastolo, l’addio ai figli e quel grido: “Sono innocente”. Così è morta Francesca di Simona Musco Il Dubbio, 2 aprile 2025 Francesca Brandoli non ce la faceva più. Ci aveva già provato a togliersi la vita 16 anni fa, consumata dalla depressione, dal rimorso, dalla mancanza, atroce, dei figli. Ma erano riusciti a fermarla, a salvarle quella che qualcuno chiamava vita, ma non lei, non più, con l’ergastolo sulle spalle, i figli lontani per sempre e il peso di una condanna che ha definito fino all’ultimo giorno ingiusta, raccontandosi innocente. Nonostante tutte le bugie, le calunnie e i tentativi di allontanare da sé il sospetto, però, nessuno le aveva creduto. Non i giudici, sicuramente, che l’avevano condannata all’ergastolo, insieme al suo ex compagno Davide Ravarelli, per l’omicidio dell’ex marito, Christian Cavalletti, nel 2006. Un omicidio consumato a colpi di coltello e martello lo stesso giorno in cui il Tribunale aveva deciso che i due bambini nati dal loro matrimonio dovevano rimanere col padre. Mentre il terzo, quello che teneva in grembo e frutto dell’amore con Davide, le fu portato via un mese dopo la nascita, dato in affido e poi in adozione e mai più rivisto. E forse, diceva a Franca Leosini, che aveva raccontato in tv la sua storia maledetta, meglio non conoscere i nomi e i volti dei suoi nuovi genitori. Troppo dolore anche solo immaginarli. Magrissima, spesso sola, era scivolata in una depressione che macchiava tutto di nero, come gli occhiali con cui copriva il volto minuto. Travolta dalle sue bugie, dalle colpe, dalla solitudine inguaribile di una maternità a braccia vuote, senza futuro. Meglio che non sappiano chi sia la loro madre, diceva immaginando i figli, perché è difficile immaginare che possa fiorire l’amore in un buco nero come quello. Eppure era l’amore ciò a cui Francesca Brandoli tendeva. Come un girasole che cerca la luce, anche lei voleva solo essere vista, scaldata. Perché era stato l’amore a fregarla, diceva, e pensava che sempre l’amore potesse salvarla. Amava tantissimo Christian, raccontava, e gli occhi le brillavano. Anche se, secondo i Tribunali, lo ha ucciso, in quella che si chiama verità giudiziaria. Non lei, di certo, che insisteva: è stato Davide. Ha amato anche lui, per un po’, lui che per lei ha ucciso e poi lo ha ammesso, prendendosi tutte le colpe. Ma non è bastato. E poi, anche in carcere, perfino in carcere, ha amato. Il suo nome è Luca Zambelli, che un giorno è arrivato nella sua cella per fare delle riparazioni. E da quel momento, lettera dopo lettera, incontro dopo incontro, hanno finito per amarsi. Anche lui era lì per la sua stessa ragione: omicidio. Luca, come lei, aveva ucciso la donna che diceva di amare, la moglie. Ma si diceva pentito e questo a Francesca bastava. Così, due anni dopo il primo incontro, si sono sposati, una t-shirt addosso come abito da sposa. Ma lui aveva una speranza: una data di fine per la sua condanna, che sarebbe terminata dopo 18 anni. Lei no. Poteva affidarsi al sogno, all’amore, ma senza un orizzonte a cui mirare. Fine pena mai era il suo unico destino. E a volte glielo rinfacciava un po’, consapevole di essere ingiusta. Chi l’ha conosciuta in carcere, come Luna Casarotti, per un breve tempo sua compagna di percorso alla Dozza di Bologna, parla di una donna fragile, bugiarda, ma tanto buona. Anche perché le bugie erano il suo modo per gestire il dolore, per tenere insieme pezzi di un mondo che progressivamente vedeva sbriciolarsi. Il giorno del matrimonio con Luca, le ragazze della sezione definitiva avevano provato a cancellare il grigio e le sbarre attorno, con un po’ di trucco e qualche accessorio. La maglietta che aveva indosso Francesca era proprio presa in prestito da Luna, una dote che in un mondo fatto di sbarre vale tanto quanto quella sontuosa nel mondo dei vivi lì fuori. Ma del “pranzo di nozze”, come sempre, non toccò nulla. Perché Francesca non mandava giù niente, solo un po’ di frutta, forse per non dare troppa pena agli altri. Spesso, però, veniva isolata. “Era piena di parole, a volte troppe - racconta Luna -. Parlava tanto e diceva cose fuori luogo. In carcere, a volte accusava altre detenute di cose che non avevano fatto, creando scompiglio tra di loro. Era una persona che, forse per difendersi o per attirare attenzione, finiva per mettere zizzania tra le altre detenute. Anche io ho avuto molte discussioni con Francesca, ma alla fine, come spesso succede in carcere, si faceva pace. Francesca non era una persona cattiva. Aveva semplicemente un problema, che a volte la portava a comportarsi in modo strano. Probabilmente cercava un’attenzione che non riceveva. Alla fine, però, era una persona di buon cuore. Ricordo che quando entrò in carcere, dopo aver partorito, dimagrì visibilmente, arrivando a pesare solo 45 chili, se non meno. Ci aveva già provato, sapevamo che lo avrebbe rifatto. E questa volta ci è riuscita”. È stata Luna ad avvisare Luca, ormai fuori dal carcere, ormai suo ex marito, dopo soli cinque anni di matrimonio, che quella che lo aveva colpito con la sua semplicità e fragilità, con la sua figura minuta, era morta. Aveva sistemato un fantoccio sotto le coperte per far credere a tutti di essere ancora a dormire e non allertare gli agenti della penitenziaria. E invece si era impiccata. Stavolta nessuno è riuscito a fermarla. Diventando il numero 25 su una lista che nessuno vuole strappare. Ivrea (To). La censura è servita: “La Fenice” resta chiusa di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 2 aprile 2025 Zittiti i detenuti, espulsi i volontari. Da novembre 2024 il giornale del carcere non esiste più. La direttrice lo ha spento per “motivi tecnici”. In realtà, dava fastidio perché raccontava la verità. “Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi e iniziative per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi”. A parlare chiaro è Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia. Perplessità? No. Qui c’è da provare indignazione, non esitazione. Perché se il carcere è - o dovrebbe essere - il luogo dove si espia ma anche si cambia, si riflette, si rinasce, allora non può diventare il luogo dove si perde anche il diritto di pensare, di raccontare, di firmare il proprio nome sotto la propria verità. E invece, a Ivrea, è successo. Hanno spento La Fenice. Non un fuoco, ma una voce. Non una testata qualsiasi, ma il giornale del carcere, scritto da chi sta dentro, da chi paga per i propri errori, ma non ha smesso di cercare un senso, di cercare uno spazio dove essere di nuovo persona. Dal gennaio scorso, quella voce è stata zittita. La redazione è stata chiusa, gli incontri annullati, i computer sequestrati, i volontari dell’associazione Rosse Torri lasciati fuori dai cancelli. Motivo ufficiale? Verifiche tecniche, dice la direttrice Alessia Aguglia. Motivo vero? I testi pubblicati “danneggiano l’immagine del carcere”. Ma danneggiano davvero? O piuttosto illuminano? La Fenice raccontava quello che in molti preferiscono non vedere. Celle con muffa, finestre sbarrate con griglie arrugginite, acqua calda che non arriva, letti sfondati, spazi invivibili, dignità calpestate. Raccontava la quotidianità dei reclusi, fatta non solo di numeri di matricola, ma di paure, di pensieri, di desiderio di riscatto. Parole che graffiano, certo. Ma non per odio. Perché vere. Perché scritte da chi ci vive dentro, ogni giorno, ogni notte. E in carcere la verità, quella vera, fa più paura di un’evasione. Fa più rumore di una sommossa. Perché mette in crisi la narrazione rassicurante dell’Istituzione, quella dove “va tutto bene, stiamo rieducando, stiamo offrendo opportunità”. Quando poi l’unica cosa che si concede davvero è il silenzio. Così si comincia con le piccole censure: prima si vieta ai detenuti di firmare i propri articoli, come se la dignità passasse anche da lì, dal nome. Poi si accusa la redazione di “immagine negativa”. Poi si chiude tutto. Si chiude per evitare domande. Per paura del riflesso che La Fenice rimandava ogni volta che andava online. È censura. È controllo. È potere che non accetta critiche. Francesco Lo Piccolo, giornalista e direttore del trimestrale Voci di dentro, lo dice senza mezzi termini: “I detenuti vengono trattati come reati che camminano. Non hanno voce, non hanno diritti. E chi cerca di restituirglieli viene escluso, zittito, spinto fuori”. È accaduto anche a Lodi, a Rebibbia, a Trento. Sempre la stessa sceneggiatura: giornali interni chiusi, volontari dichiarati “non graditi”, argomenti proibiti, articoli vagliati prima della pubblicazione. È il paradosso italiano: si cita la Costituzione quando fa comodo, poi si calpestano articoli fondamentali come il 21, che garantisce la libertà di espressione, o il 27, che parla di rieducazione, non di annientamento. Perché senza voce, senza possibilità di raccontarsi, di riflettere, di comunicare con il mondo fuori, che rieducazione è? Scrivere non è un passatempo. In carcere, scrivere è un atto di resistenza. È un modo per non scomparire, per non essere solo un numero o un errore del passato. È un tentativo, disperato e autentico, di tornare umani. Ecco perché La Fenice dava fastidio. Perché non era un bollettino docile, non era l’ufficio stampa della direzione. Era un giornale vero. Con articoli firmati, opinioni libere, storie autentiche. E allora, diciamolo con forza: chiudere La Fenice è stato un errore. Un atto grave, simbolico, che segna una deriva pericolosa. È il segno di un sistema che ha paura della parola. Di un’Istituzione che pretende obbedienza e silenzio. Di un Paese che si definisce garantista, ma poi imbavaglia proprio chi avrebbe più bisogno di raccontarsi. No, la stampa non può essere soggetta a censura. Nemmeno, e forse soprattutto, dietro le sbarre. E allora finché ci sarà anche un solo detenuto che vorrà raccontare la sua storia, un volontario disposto ad ascoltarla, un giornalista pronto a darle voce, La Fenice - anche se chiusa - non sarà mai davvero morta. Rinascerà. Come ogni volta che qualcuno, anche nel buio, sceglie di scrivere la verità. E chiudiamo con Sandro Pertini: “Negare la libertà a chi ha sbagliato è negare la possibilità stessa del riscatto”. Napoli. Detenuti vittime di traumi, accordo di programma per le cure medico-legali Il Mattino, 2 aprile 2025 Assistenza garantita a chi è recluso nelle carceri del distretto giudiziario di Napoli. Un protocollo d’intesa in materia di accertamenti medico-legali in caso di eventi traumatici ai danni di detenuti ristretti presso gli istituti penitenziari ricadenti nel territorio di competenza dell’ASL di Avellino è stato firmato oggi negli Uffici della Procura generale di Napoli tra il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli Aldo Policastro, il procuratore di Avellino Domenico Airoma, il procuratore di Benevento Gianfranco Scarfò, il provveditore regionale dell’ Amministrazione penitenziaria Lucia Castellano e il direttore generale dell’Azienda Sanitaria Locale di Avellino Mario Nicola Vittorio Ferrante. Obiettivo del protocollo è quello di creare linee guida operative per il personale medico penitenziario e per il personale di polizia penitenziaria al fine di gestire in maniera coordinata e con la massima tempestività ed efficienza, gli eventi lesivi/traumatici verificatisi in carcere. Le linee guida riguardano sia la presa in carico sanitaria e la cura della salute dei detenuti, sia il profilo investigativo, al fine di permettere al pubblico ministero di assumere la direzione delle indagini in nell’immediatezza dell’accaduto. Con il protocollo siglato oggi - spiega un comunicato - si sono individuate le procedure che occorre siano seguite in ogni caso in cui sia riscontrato che il detenuto abbia subito aggressioni o altre forme di sopraffazione, condotte che evidentemente allontanano la sanzione penale dalle finalità costituzionali per le quali viene irrogata e che anzi perpetuano un circuito di illegalità, alimentando una spirale negativa suscettibile di ingenerare nel detenuto forme di destabilizzazione e di disagio psicologico ulteriore rispetto allo status proprio della condizione in cui si trova, che, in non rari casi, possono spingersi fino a estreme conseguenze e a condotte auto o etero lesionistiche. L’efficace raccordo tra l’intervento sanitatio e quello della polizia penitenziaria, nonché, tramite quest’ultima, degli Uffici delle Procure competenti consentirà auspicabilmente anche di superare il clima di rassegnata accettazione e di acquiescenza alla violenza negli ambienti carcerari che porta le stesse vittime a non denunciare gli eventi lesivi ovvero a riferirli a inverosimili cause accidentali. Il protocollo siglato oggi, spiega la nota, “è il frutto del positivo impatto riscontrato all’esito dell’adozione di analogo protocollo di intesa raggiunto tra la Procura di Napoli, l’ASL Napoli 1 e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e di cui la Procura generale, apprezzatone i contenuto e nell’ambito del Tavolo tematico sul carcere che ha attivato, ha ritenuto di proporre l’estensione agli istituti penitenziari della provincia di Avellino, attraverso l’interlocuzione con i titolari degli Uffici, nell’esercizio del potere dovere di promozione della diffusione di buone prassi di cui all’articolo 6 decreto legislativo 106-2006 e grazie al contributo offerto dall’ Avvocato generale Simona Di Monte, e del sostituto procuratore generale Valter Brunetti, addetto al Coordinamento distrettuale ex art 6 citato”. Analogo impegno la Procura generale intende intraprendere con le rispettive ASL e con i procuratori di Santa Maria Capua Vetere, Napoli Nord e Benevento, per gli istituti penitenziari delle province di Benevento e Caserta. Cagliari. In attivazione all’ospedale Santissima Trinità un reparto per i detenuti di Elisabetta Caredda quotidianosanita.it, 2 aprile 2025 La struttura sarà dedicata ai detenuti che necessitano di cure prolungate in caso di patologie complesse programmate. Bartolazzi: “Diamo risposte a pazienti e operatori del settore penitenziario. Siamo certi di dare un contributo importante al rafforzamento della rete sanitaria penitenziaria regionale e all’innalzamento degli standard di sicurezza previsti per i pazienti e per il personale di sorveglianza carceraria che opera in funzione di presidio ospedaliero”. Dopo anni di attesa, è stata condivisa ad unanimità di Giunta la proposta dell’assessorato alla Sanità sull’attivazione di un reparto detentivo ospedaliero presso il Presidio ospedaliero Santissima Trinità di Cagliari, dedicato ai detenuti che necessitano di cure prolungate in caso di patologie complesse programmate che non richiedono l’intervento in emergenza, per il quale continuano ad esistere specifici protocolli salvavita. Il reparto avrà quattro posti letto. “Con la deliberazione n. 13/5 del 14.3.2017 in materia di Rete Regionale della Sanità Penitenziaria - spiega a Quotidiano Sanità l’Assessore Armando Bartolazzi -, tra i servizi sanitari in ambito penitenziario è stato previsto un servizio “Hub/spoke con stanze dedicate o Reparto ospedaliero per detenuti”, nel rispetto delle norme vigenti. A riguardo, nel medesimo documento è disposto che in Sardegna sia prevista la “attivazione in via sperimentale di una struttura Ospedaliera con posti letto dedicati per l’assistenza di detenuti che necessitano di un particolare livello di sorveglianza. I ricoveri presso tali strutture sono attuati su disposizione della autorità giudiziaria che ne stabilisce il termine anche secondo le indicazioni sanitarie del reparto ospedaliero”. “È quindi con grande soddisfazione - prosegue l’esponente di Giunta - che possiamo annunciare il raggiungimento di un obiettivo importante, sul quale stavamo lavorando da tempo insieme alle istituzioni interessate, ai rappresentanti di categoria e alle associazioni. Il diritto alla Salute è sacrosanto e va garantito attraverso l’accesso alle cure anche a chi si trova in stato di reclusione”. “Una prima sperimentazione così come previsto nella deliberazione succitata è stata effettuata presso il P.O. SS. Annunziata di Sassari per la durata di mesi dodici. In aggiunta la delibera prevede inoltre l’attivazione di una struttura ospedaliera dedicata al ricovero dei detenuti con n. 4 posti letto anche presso il P.O. Santissima Trinità di Cagliari. Tale struttura, è precisato, è “da attivarsi solo a seguito della valutazione della sperimentazione dell’Ospedale SS. Annunziata di Sassari”. Ed a distanza di 8 anni, si ritiene pertanto compiuta favorevolmente la sperimentazione effettuata presso suddetto reparto”. “Al fine di dare corso a tale tipologia di degenza, la ASL n. 8 di Cagliari aveva provveduto a realizzare lavori di ristrutturazione presso l’edificio cui afferisce la struttura dedicata alle malattie infettive, adeguando tale sede alle esigenze strutturali previste per tale tipologia di reparti detentivi. Ma esso continua ad oggi a rimanere adibito ad usi diversi dalla sua destinazione. Ciò comporta forti criticità, con situazioni estremamente disagevoli in cui i pazienti internati vengono ricoverati in stanze condivise con altri degenti e con un aggravio di rischi anche a carico del personale di sorveglianza penitenziaria, che è tenuto al piantonamento dei detenuti ricoverati. Sarà dunque cura dell’Azienda stessa provvedere a rendere la struttura idonea e fruibile come reparto dedicato ai detenuti ed internati. Da qui la proposta approvata in Giunta di disporre l’attivazione della struttura ospedaliera dedicata ai detenuti e agli internati presso il P.O. SS. Trinità di Cagliari, con la disponibilità di n. 4 posti letto”. “Per quanto concerne l’assistenza, sarà assicurata da personale infermieristico e operatori socio-sanitari che vengono messi a disposizione o reclutati appositamente per la struttura nell’ambito della capacità assunzionale riferita al Piano triennale del fabbisogno del personale dell’Azienda. Nel caso in cui non vi siano pazienti ricoverati nella struttura, il personale infermieristico e gli operatori socio-sanitari verranno assegnati temporaneamente ad altri reparti in base alle necessità. L’attività clinica sarà garantita dal personale proveniente dai reparti specialistici del nosocomio, che verrà di volta in volta chiamato in caso di necessità, e sarà coordinata da un medico incaricato dalla Direzione sanitaria dell’ospedale. Non sono previsti medici in organico, né si ricorrerà al reparto detentivo per le urgenze; la modalità di accesso può essere solamente programmata”. “La programmazione dei ricoveri non urgenti richiesti dai responsabili sanitari dei vari Istituti penitenziari, previa autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, è demandata al Coordinatore regionale della sanità penitenziaria, fermo restando che l’accesso è programmato compatibilmente con la disponibilità di posti letto e non è consentito il ricovero presso il reparto detentivo ospedaliero qualora il detenuto possa essere seguito presso la Sezione di assistenza intensiva (S.A.I). Il reparto detentivo è caratterizzato da un basso livello di intensità di cure”. “Siamo certi con questo provvedimento di dare un contributo importante al rafforzamento della rete sanitaria penitenziaria regionale e all’innalzamento degli standard di sicurezza previsti per i pazienti e per il personale di sorveglianza carceraria che opera in funzione di presidio ospedaliero. Sarà la ASL n. 8 di Cagliari ad occuparsi dell’attuazione delle disposizioni deliberate con particolare riferimento alle modalità organizzative e gestionali della struttura” - conclude Bartolazzi. Bologna. Il Garante dei detenuti: “Giovani adulti in carcere senza acqua calda” ansa.it, 2 aprile 2025 Dopo la visita alla sezione della Dozza che ospita i ragazzi arrivati da vari Ipm, Cavalieri denuncia: “Così si comprimono i diritti”. Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, ieri pomeriggio ha visitato la sezione distaccata dell’istituto penitenziario minorile nel carcere della Dozza di Bologna, dove sono stati trasferiti i detenuti ‘giovani adulti’ arrivati dagli Ipm di Milano, Firenze, Bologna, Treviso e Palermo. Cavalieri ha dialogato con i ragazzi, dodici, di cui sei neo maggiorenni, riscontrando “una situazione degna di attenzione e che comprime non solo il senso della scelta adottata dall’autorità della giustizia minorile ma anche i diritti dei giovani presenti”. Mentre gli spazi fisici del reparto, sia per quello che riguarda le camere di pernottamento che quelli trattamentali, aule e spazi per lo sport, sono apparsi in buone condizioni, il Garante evidenzia “la mancanza di acqua calda nelle celle e le docce in comune”. Inevitabilmente “la sezione detentiva si configura come uno spazio per adulti fortemente segnato da una architettura carceraria che nulla ha a che fare con il senso degli ambienti di un minorile”. A parere di Cavalieri “non trova un senso la collocazione di ragazzi in custodia cautelare, data la negativa ricaduta che ha il trasferimento dai luoghi di appartenenza e in particolare perché si complica per questi ragazzi la possibilità di ottenere la sospensione del processo e la loro messa alla prova”. Nell’attesa di comprendere in base a quale provvedimento normativo è stata disposta dal Dipartimento della giustizia minorile il trasferimento di questi giovani detenuti, il Garante esprime “una forte preoccupazione circa i tempi di durata di tale scelta”. In settimana Cavalieri comunicherà alla direzione dell’Ipm un monitoraggio settimanale e auspica “l’attivazione di una rete della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Bologna con gli altri comuni e regioni sedi di Ipm per monitorare i tempi di apertura dei nuovi istituti, lo stato dei trasferimenti e i progetti dei giovani detenuti per i quali va assicurata una continuità dei servizi e la costruzione di percorsi che rendano la carcerazione un percorso residuale e contenuto nel tempo”. Firenze. Detenuti al lavoro per reinserirsi. “Posti nelle partecipate comunali” di Fabrizio Morviducci La Nazione, 2 aprile 2025 Sostenere i detenuti di Sollicciano nel loro percorso verso la piena integrazione. L’amministrazione di Scandicci lavorerà per trovare posti di lavoro ai detenuti in regime di semilibertà, favorendo così il loro reinserimento sociale. È l’obiettivo della sindaca Claudia Sereni, che ha incontrato il vicepresidente dell’associazione Seconda Chance, Stefano Fabbri, che è anche referente per la Toscana. “Stiamo pensando non solo alle aziende del territorio - ha detto Claudia Sereni, ma anche le nostre partecipate. Nei prossimi giorni convocherò gli imprenditori di zona, poi parlerò coi referenti delle aziende che ci vedono nel pacchetto azionario”. Cosa dirà loro? “Cercheremo di capire - ha detto la sindaca - quali di queste possano essere interessate ad assumere lavoratori che si trovano in regime di semilibertà. Si tratta di persone che presto usciranno dal carcere, ed è interesse della società che una volta tornate libere abbiano una possibilità concreta di inserimento. Secondo i dati che ci ha illustrato l’associazione infatti, quando chi viene scarcerato ha un’occupazione il tasso di recidiva è molto basso, circa il 2%. In assenza di lavoro invece la percentuale sale in modo vertiginoso, arrivando a oltre il 60%”. Sul fronte delle possibili occupazioni, la ricerca potrebbe orientarsi su lavori manuali, ma anche di natura impiegatizia. Sarà cura dell’associazione comunicare, sulla base di chi aderisce al progetto, la tipologia di attività richiesta. “Da anni - ha detto ancora Sereni - abbiamo investito su varie iniziative per e con il carcere sui temi della cultura, dell’urbanistica, della formazione e del lavoro, con l’obiettivo di rigenerare la relazione tra il penitenziario e il territorio. La città di Scandicci, come abbiamo detto più volte, sta facendo la sua parte per Sollicciano, e la collaborazione che vogliamo avviare con l’associazione Seconda Chance è un ulteriore passo in questa direzione”. L’associazione porta nelle carceri anche formazione, sport, svago e altri progetti per migliorare la condizione dei detenuti. C’è anche un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che riconosce la qualità dell’intervento capace di attivare, su diversi distretti del territorio, positivi accordi con il mondo dell’imprenditoria al fine di attuare percorsi di inserimento lavorativo extra murario a beneficio di persone detenute. Nel corso dell’incontro la sindaca Claudia Sereni e il vicepresidente di ‘Seconda Chancè Stefano Fabbri hanno parlato anche della possibilità di collaborare per sviluppare progetti di lavoro e formazione all’interno del carcere. In passato per esempio erano stati organizzati laboratori formativi per imparare le basi della pelletteria. Sollicciano avrebbe spazi a sufficienza per avviare una produzione, o un laboratorio artigianale. Chiaro che servirebbe una direzione stabile per poter finanziare il progetto e allestire la produzione. Carinola (Ce). Ecco il progetto “FaRinati”: i dolci fatti dai detenuti Il Mattino, 2 aprile 2025 Nel Casertano spazio a un progetto di inclusione sociale e lavorativa. Le colombe artigianali e i prodotti dolciari, realizzati dai detenuti della casa di reclusione di Carinola sono il segno tangibile di inclusione e riscatto sociale. Nella sala Caduti di Nassiriya del consiglio regionale ieri la presentazione dei prodotti realizzati nell’ambito del progetto “I FaRinati” promosso dall’associazione Generazione Libera. Una iniziativa voluta dal Garante Samuele Ciambriello e dal presidente del consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero. “Nell’ambito del progetto i FaRinati nella casa di reclusione di Carinola realizziamo prodotti di pasticceria, rosticceria e grandi lievitati e vede impiegate al momento quattro persone. I prodotti vengono venduti sia all’interno del carcere dove i detenuti hanno tutti i giorni la possibilità di acquisire prodotti freschi, sia all’esterno”, spiega Rosario Laudato, presidente dell’associazione Generazione Libera. Per Ciambriello si tratta davvero di “occasioni di rinascita”. Generazione Libera è una delle comunità che accoglie sei detenuti senza fissa dimora. “Oggi è una occasione - sottolinea Ciambriello - anche per liberarci dall’indifferenza facendo vedere un volto profondamente umano di un carcere”. All’evento anche il direttore della casa di reclusione Novelli di Carinola, Carlo Brunetti: “Siamo riusciti a realizzare, all’interno della struttura, un laboratorio di prodotti da forno che abbiamo poi affidato all’associazione Generazione Libera. Da due detenuti impiegati originariamente siamo arrivati a cinque e le attività dell’associazione stanno aumentando esponenzialmente”. Il presidente del Consiglio regionale Oliviero ha elogiato il lavoro svolto nella casa di reclusione di Carinola, sottolineando che il Consiglio regionale “è estremamente attento” a queste attività che “devono essere meglio conosciute”. “Questo tipo di sperimentazione in atto a Carinola, magari, può essere allargata anche ad altri penitenziari che possono essere attratti da una possibilità non solo di inclusione, ma anche di vera e propria occupazione”. L’evento che ha visto anche la presenza di due dei detenuti impegnati nel progetto e del Garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano, si è conclusa con un assaggio dei prodotti dolciari. Monza. Socialità, figli e famiglie: una giornata di gioco e sport in carcere insidertrend.it, 2 aprile 2025 Le attività sono state organizzate da CSI Milano. Lo sport come strumento educativo per aprire nuove frontiere della proposta sportiva negli istituti di pena. Forti le emozioni vissute sabato scorso nel Reparto Luce della Casa circondariale di Via Sanquirico a Monza, in occasione della terza edizione della giornata Genitori-Figli organizzata dal Centro Sportivo Italiano - Comitato Territoriale di Milano, in occasione della quale le famiglie dei ragazzi detenuti hanno potuto accedere all’istituto per trascorrere un’intera giornata di gioco, convivialità e festa con i rispettivi papà e compagni. Circa una ventina i nuclei familiari coinvolti nelle attività ludico-sportive proposte dal CSI, con la partecipazione di bimbi e ragazzi dai tre ai sedici anni, entusiasti di poter condividere uno spazio diverso e speciale rispetto a quello stretto e distaccato destinato solitamente ai colloqui. Nel cortile di cemento interno al reparto, sono state allestite nove postazioni gioco gestite da cinque volontari CSI per il Mondo (progetto di volontariato sportivo internazionale del CSI), unitamente agli istruttori della squadra pallavolo del Carcere, guidati da Lucia Teormino, responsabile dell’intero progetto carcere CSI Milano. Dal tiro con l’arco al badminton, dal ping pong al tiro ai barattoli, dai palloncini colorati sino all’angolo trucco e disegno per i più piccoli, erano tanti i giochi a cui si sono dedicati i papà con i loro figli. L’associazione ANAS PensiamocInsieme APS ha contribuito a rendere la mattinata più colorata e divertente grazie all’animazione musicale con tanto di karaoke, postazione foto-ricordo e clownerie e non poteva mancare un pranzo condiviso e abbondante preparato interamente dal comparto cucina del reparto Luce. Ore di straordinaria normalità per garantire quella continuità di rapporti ai familiari dei detenuti e agli stessi ragazzi coinvolti attivamente nel progetto CSI Liberi di Giocare. Progetto che nella scorsa stagione ha registrato oltre 700 ore annuali di attività nelle carceri di Monza e della provincia di Milano, 32 allenatori coinvolti, due squadre di detenuti iscritte al campionato CSI, 46 amichevoli e 12 partite di torneo primaverile. “La sfida oggi non è più soltanto quella di portare lo sport in carcere come mera attività sportiva ma è quella di riuscire, anche negli istituti di pena, a rendere lo sport uno strumento educativo, come accade nelle società sportive. - ha dichiarato il presidente del CSI Milano, Massimo Achini -, questo progetto apre nuove frontiere alle proposte sportive in carcere. Attraverso la giornata genitori-figli siamo stati in grado di creare, utilizzando il gioco, un contatto speciale tra le famiglie; più stretto, umano e sicuramente differente da quello che si instaura abitualmente durante i colloqui”. Ha quindi aggiunto la direttrice della casa circondariale di Monza, Cosima Buccoliero: “La proficua collaborazione tra la direzione della casa circondariale di Monza e il Centro Sportivo Italiano ha portato all’ampliamento del progetto “Liberi di Giocare”, che ha interessato, oltre ai detenuti, anche le loro famiglie. Lo sport in carcere, tanto sostenuto per il benessere psico-fisico che promuove, è diventato anche uno strumento educativo importante per sostenere i detenuti nel ruolo genitoriale e accompagnarli a vivere esperienze di segno positivo con le loro famiglie. La cura della relazione genitoriale passa anche attraverso l’organizzazione di giornate a ciò dedicate, dove il nucleo familiare viene coinvolto in attività ludico-sportive appositamente pensate dagli operatori del CSI”. “Sabato mattina abbiamo avuto l’onore di poter partecipare all’incontro tra alcuni detenuti e le proprie famiglie all’interno delle mura del carcere di Monza, cogliendo attimi di inarrivabile potenza emotiva. Di certo non mi sarei aspettato l’elevato numero di persone presenti, tutte estremamente diverse e con differenti modalità di approccio verso di noi che, probabilmente, ai loro occhi apparivamo come fuori contesto. Come in ogni occasione sono stati proprio i bambini, a cui poco importa dove si svolga il gioco, ad avere coinvolto papà e mamme nelle attività da noi proposte. La mia speranza era che in quel momento, anche se solo per poche ore, si riuscisse a decontestualizzare l’ubicazione per creare una sorta di bolla di normalità - racconta Stefano Guarda, uno dei volontari che ha preso parte alla giornata - ciò che mi ha colpito di più è stata la voglia di aprirsi dei ragazzi detenuti, di provarci, di fare qualcosa di cui essere soddisfatti di se stessi: cucinare, recitare, lavorare. Da allenatore la trovo una mentalità davvero vincente, perché la vita di ognuno è, in fondo, e mi si passi la metafora, come un campionato di calcio. Ci sono partite vinte e partite perse, anche in maniera eclatante. Però è anche vero che c’è sempre un’altra partita da giocare, prima o poi si torna in campo, e la vera vittoria sta nell’essersi comunque allenati e non aver ceduto allo sconforto ed all’amarezza degli eventi. Di certo io non ho cambiato la loro vita, ma loro, almeno un pochino, hanno impreziosito la mia”. CSI da oltre venti anni opera all’interno degli istituti carcerari lombardi con diversi e numerosi progetti. A oggi collabora attivamente con le case circondariali di San Vittore (Milano) e di Monza oltre che con l’istituto minorile Beccaria. Il Centro Sportivo Italiano (CSI) è un’associazione senza scopo di lucro, fondata sul volontariato, che promuove lo sport come momento di educazione, di crescita, di impegno e di aggregazione sociale, ispirandosi alla visione cristiana dell’uomo e della storia nel servizio alle persone e al territorio. Fondata nel 1944 a Roma, è la più antica associazione polisportiva attiva in Italia, diffusa su tutto il territorio con 154 comitati provinciali (tra cui quello di Milano che è il secondo più grande) e 20 comitati regionali. Il CSI Milano registra attualmente 630 società sportive affiliate e 100.000 atleti tesserati distribuiti in 450 oratori che hanno ospitato, nella stagione sportiva 2023/2024, 31.385 gare. Libri. La rivoluzione di senso della giustizia riparativa di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 aprile 2025 Il volume del magistrato Marcello Bortolato e del giornalista Edoardo Vigna, “Oltre la vendetta” edito da Laterza. Non risarcisce nulla, non è vendetta e non è necessariamente perdono, non è punizione né pentimento, non è riparazione del deviante, non è una terapia psicologica e neppure si tratta di un processo parallelo a quello che si celebra nelle aule di tribunale. È soprattutto una pratica a vantaggio della vittima - sia essa una persona o la collettività in senso lato - al fine di alleviare, o riparare simbolicamente con un’azione, le sofferenze derivanti dal reato subito. Ma aiuta anche chi di quel reato è autore, o semplicemente accusato, a prendere coscienza dell’accaduto, a capire il punto di vista dell’altro e a superare le proprie frustrazioni o sensi di colpa, lasciando invece il posto ad un’empatia che cura le ferite. È un “teatro dell’umano senza pubblico” che “risana la frattura tra chi ha commesso e chi ha subito un torto”. Regola numero uno: l’adesione volontaria al programma. La giustizia riparativa - caposaldo di un sistema penale non coercitivo - in Italia è istituzionalizzata da una legge in vigore dal luglio 2023, introdotta dalla riforma targata Marta Cartabia. Ma, nel mondo, i primi esperimenti moderni risalgono agli anni Settanta e si devono alla cultura penale anglosassone nordamericana, australiana e neozelandese che ha contaminato poi anche l’Europa. Eppure è tuttora una pratica sconosciuta alla stragrande maggioranza degli italiani. Particolarmente meritorio perciò il lavoro del magistrato Marcello Bortolato e del giornalista Edoardo Vigna che entrano nei dettagli de “La giustizia riparativa in Italia” con il libro “Oltre la vendetta” edito da Laterza (pp. 139, euro 14). Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, che fece parte del gruppo di studio istituito dalla ministra della Giustizia dell’allora governo Draghi per elaborare il testo di legge (decreto legislativo 150/2022) sulla giustizia riparativa, e il giornalista del Corriere della Sera prendono per mano il lettore e lo introducono alla “disciplina organica” di cui l’Italia si è munita per prima in Europa. E alla rivoluzione di senso di una pratica che, nella sua applicazione, è avulsa dal giudizio in senso stretto e si preoccupa invece solo di ripristinare l’equilibrio sociale alterato dalla violenza del misfatto. Una strada più solida di quella prettamente punitiva nel cammino verso la sicurezza, senza perseguire però la visione manichea di una società aconflittuale. Nell’ambito dei diritti umani, per esempio, ne abbiamo sentito parlare sicuramente quando, nel 1995 in Sudafrica, Nelson Mandela decise di creare un tribunale presieduto dall’arcivescovo Desmond Tutu per “riconciliare realmente vittime e carnefici” dell’apartheid, come ricordano gli autori, e tentare di far voltare pagina così al suo Paese. In più, il libro offre una panoramica sulle origini e “la scena” in cui ha operato negli anni la Restorative Justice. Anche in Italia, prima e dopo la sua “istituzionalizzazione”. “Oltre la vendetta” scandaglia minuziosamente il ruolo del magistrato che fa da mediatore e la sua formazione; le modalità di accesso al tavolo, anche nei casi in cui non esiste una vittima specifica ma a farne le spese è l’intera comunità; il “copione” della mediazione, atto per atto; i presupposti e gli esiti possibili. Si pensi, per esempio, al caso di uno stupro avvenuto in strada, o anche di una rapina: il sistema punitivo non si preoccupa di risanare la ferita creata nella vittima (ma anche nei congiunti del reo) che, anzi, nel processo potrebbe subire un aggravamento. La “comunicazione emotiva, il non giudizio, l’esplorazione dei valori e delle domande esistenziali”, spiegano Bortolato e Vigna, possono invece “ricomporre”. Senza “cedere a logiche moralizzanti o redentive”. Il carcere duro fa il cattivo cittadino di Ruggiero Capone L’Opinione, 2 aprile 2025 Il carcere o le pesanti sanzioni pecuniarie si confermano ancor oggi il miglior viatico a far esplodere nella popolazione il diffuso senso di rancore, di ribellione, di odio verso la classe dirigente. Ancora è aperto e viscerale il dibattito tra coloro che reputano educativo il carcere duro ed i tanti paladini della semilibertà, delle porte aperte per scongiurare l’esclusione sociale del condannato. Ormai è acclarato quanto l’esclusione sociale contribuisca al non reinserimento dell’essere umano: perché il carcere incrementa la violenza e la povertà nelle classi con meno possibilità economiche. In Italia abbiamo uno storico riscontro alle conseguenze del rigore carcerario introdotto nel 1861 nell’ex Regno delle Due Sicilie con l’Unità d’Italia. Ovviamente in troppi oggi ci diranno che il carcere lo facevano i nemici del Borbone e chi autore di efferati delitti, mentre per briganti, camorristi e mafiosi dopo i processi ci sarebbe stata una sorta di semilibertà. A conti fatti il carcere vero e proprio era destinato a nobili ed altissima borghesia, mentre il popolo quando sbagliava se la cavava: e questo era un retaggio della cultura cattolica spagnola che rimpiangevano anche i milanesi. Resta il fatto che l’8 dicembre 1816, oltre alla festa dell’Immacolata Concezione, la popolazione del Regno si aspettava il miracolo, un segno divino dal restaurato Borbone; che nel frattempo aveva assunto il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie. Quest’ultimo, da buon napoletano per nascita e frequentazioni, conosceva il popolo meglio di qualsivoglia consigliere. Così quell’8 di dicembre pensò bene di firmare prima di tutto l’amnistia generale, un vero e proprio svuota carceri, e poi le varie convenzioni secondo il Trattato di Casalanza che era stato stipulato il 20 maggio 1815: ovvero scambio dei prigionieri, riconoscimento del debito pubblico, garanzie d’incarichi alla nobiltà e onori e pensioni ai dipendenti della corona prossimi alla pensione. Insomma, Napoli era tornata a prima dell’amministrazione napoleonica (quella di Gioacchino Murat): a quel permissivismo che, grazie alla letteratura francese, qualche decennio dopo verrà ricordato dal conquistatore sabaudo una sorta d’anarchia causa principe d’una popolazione meridionale poco rispettosa delle leggi. Il rigore dei piemontesi non poteva proprio accettare che, in certe plaghe del Regno delle due Sicilie, la detenzione fosse un qualcosa di elastico: una sorta di semilibertà che permetteva a non pochi detenuti di uscire al mattino e poi fare ritorno a sera; questo perché spesso il carceriere era compaesano, forse anche lontano parente, del detenuto. Le amnistie, il perdonare e condonare erano costumi propri dell’amministrazione borbonica che, tra l’altro, non prevedeva nemmeno la leva obbligatoria per i giovani; così da non distrarli dal lavoro dei campi o, comunque, dal portare il pane a casa. Dopo il 1961, l’incremento di banditismo e brigantaggio furono dovute al sommarsi di rigore carcerario e leva obbligatoria: nasce nel nostro Sud il “banditismo sociale”, ed Eric Hobsbawm ravvede tutti gli ingredienti di questo atto creativo nella politica sabauda del rigore carcerario, dello stato di polizia; in Primitive Rebels, suo primo saggio sul tema, individua proprio la stretta relazione esistente tra misure coercitive e consenso del popolo verso il ribellismo banditesco. In pratica il mito del malavitoso nella popolazione del Sud Italia è stato incrementato, ed ancora lo è, da uno Stato manettardo e persecutorio. Il fenomeno criminale e la questione meridionale non sarebbero mai esplosi se lo Stato unitario avesse chiuso più d’un occhio su traffici e costumi del popolo dell’ex Regno di Napoli. Va ricordato che in quell’epoca di passaggio alla modernità, all’800, la politica era ancora retaggio degli alti gradi militari: il Regno borbonico aveva in Pietro Colletta (napoletano di padre e molfettese di madre) una sorta di Joseph Fouché in salsa napoletana. Per chi ha buona memoria Fouché era stato politico e diplomatico con l’ultimo Luigi, poi rivoluzionario, quindi deputato giacobino alla Convenzione nazionale, poi congiurante contro Robespierre, quindi bonapartista e, dopo la restaurazione viennese, nuovamente nel partito borbonico per tentare di servire il fratello del sovrano decapitato: Fouché consigliava la legge contro i regicidi e, purtroppo, lui stesso ne pativa le conseguenze con l’esilio. Pietro Colletta era certamente meno spregiudicato dell’omologo francese, resta il fatto che Murat lo promuoveva nel 1813 “maresciallo di campo”, proprio per fruire da vicino dei suoi consigli su come gestire il popolo. La tarantella di Nicola Valente “Scurdammoce o passato” pare tragga spunto proprio dalla tradizione di perdonare per rimuovere le vicende più amare, e secondo certi sarebbe stata tra i consigli che Murat ricevette da Colletta in merito al perdonare il popolo con amnistie e invece punire nobiltà infedele e burocrazia scellerata. Colletta fu tanto vicino a Murat da consigliargli, dopo la sconfitta di Lipsia dell’ottobre 1813, di abbandonare Napoleone e tentare d’unire l’Italia, e prima che la mossa venisse fatta da regni non degni di governare il Mezzogiorno. Colletta tentava trattative con Austria ed Inghilterra, pur di salvare il suo Sud e l’incosciente Murat: ma il destino era segnato, per l’Inghilterra era comodo che il Sud venisse governato dal Savoia. Colletta rimaneva a fianco di Murat fino alla fine, conscio della propria abilità affiancava poi il risorto Borbone a Casalanza: Colletta voleva ingraziarsi il Ferdinando I, e il re non disdegnava l’aiuto d’un politico che probabilmente non aveva mai escluso il suo ritorno. L’osmosi tra popolo e potere preunitario era nel Mezzogiorno un dato di fatto acquisito, ed alla base della sicurezza di cui godevano corona e nobiltà: infatti la caduta del Borbone è tutta imputabile al tradimento dei vertici dell’esercito e della burocrazia, di quella nobiltà che voleva cambiare le regole. Infatti, l’ultimo Borbone, Francesco II, che si rifugiava a Roma fino all’occupazione sabauda del 1870 e compiva alcuni tentativi di organizzare la resistenza armata nelle Due Sicilie occupate militarmente dai piemontesi, si convinceva che il popolo meridionale non avrebbe a lungo sopportato la ricetta dei Savoia, ovvero rigore ed educazione punitiva. Probabilmente aveva indovinato, o solo rileggeva i consigli che il nonno aveva ricevuto da Pietro Colletta: di fatto i Savoia portarono nel Regno di Napoli le stesse metodiche giustizialiste che avevano sperimento nel 1720 in Sardegna, l’occupazione coloniale dell’isola coincise con la fine d’una vita bucolica e l’inizio dall’arresto di massa di non pochi pastori per banditismo e ribellismo. Queste metodiche le ritroviamo con l’arrivo dei Savoia a Napoli: lo conferma anche un acerrimo nemico del potere borbonico come Silvio Spaventa, che ebbe a dimettersi nel 1861 da un incarico ricevuto da Torino perché in aperto contrasto con la politica repressiva del Luogotenente generale Enrico Cialdini; non dimentichiamo che il non aver aperto le carceri palermitane scatenava la rivolta del Sette e Mezzo a Palermo, e anche a Napoli la politica dell’arresto facile creava l’immediato odio verso il neonato Regno d’Italia. L’estensione all’ex Regno di Napoli del Codice penale sabaudo emanato nel 1859 poneva di fatto fine a quella sorta di semilibertà di cui godevano i condannati d’estrazione popolare, situazione che peggiorava dopo il 1889 con la promulgazione della riforma Giuseppe Zanardelli dell’ordinamento carcerario. Da considerare che certi costumi carcerari risalivano nel Mezzogiorno agli Aragonesi, ai tempi di Alfonso il Magnanimo, e dopo ben quattrocento anni arrivava nel Regno di Napoli il rigore carcerario. È con l’Italia unita che vengono pianificate le traduzioni di detenuti nei vari bagni penali come Pianosa, l’Asinara, Ventotene, Ponza. Durante il Regno delle Due Sicilie a Ponza c’erano solo autori di delitti e nobiltà con il passatempo salottiero della cospirazione antiborbonica. Il regime del 41bis, una vera e propria tortura, è figlio della filosofia del rigore carcerario. Il modello carcerario napoletano era totalmente in antitesi a quello sabaudo: Zanardelli si ispirava alle prigioni costruite in Gran Bretagna, Olanda e Prussia secondo il modello americano di Pentonville, dove era vietato qualsiasi contatto sociale: il cibo veniva distribuito automaticamente ed i detenuti erano obbligati ad indossare una maschera ogni qualvolta uscivano dalla cella; ovviamente questi particolari “tecnologici” non vennero mai estesi in Italia. Nel regno di Napoli, se escludiamo le carceri di Montefusco in Irpinia, di Ponza ed il Borbonico di Siracusa, il resto erano tutte carceri paesane dove sovente il carceriere era amico o quasi del recluso: non è un mistero che i funzionari sabaudi parlassero di una forma di complicità nel Mezzogiorno tra guardie e detenuti, un misto di favori, semilibertà e corruzione con olio, vino, regali. Al momento della promulgazione dell’Unità d’Italia nel carcere di Siracusa c’erano scarsi dieci detenuti, con lo stato di polizia sabaudo le celle vennero riempite fino all’inverosimile di contadini e braccianti accusati di banditismo. Il carcere borbonico di Siracusa ha anche conosciuto una sorta di notorietà internazionale nel 1986, quando ospitava i quattro terroristi responsabili della morte di un cittadino americano Leon Klinghoffer: vi furono detenuti quelli del sequestro dell’Achille Lauro. Ma non dimentichiamo che Ferdinando I, finanziando il Borbonico di Siracusa e l’Ucciardone di Palermo, diceva che necessitasse ispirarsi alle concezioni filosofiche di Jeremy Bentham. Ovvero, come ricordava il sociologo Giovanni Tessitore, una logica che puntasse alla riduzione del personale di sorveglianza unita alla trasformazione del carcere in struttura produttiva, socialmente utile. Ben si comprende perché la compressione delle libertà personali fosse stata poco accettata dalla popolazione meridionale. Infatti, il sogno dell’Italia unita s’infrange per i meridionali con la mancate amnistie del 1863 e 1866, che diedero la stura alla nota rivolta palermitana del “sette e mezzo” (perché durava sette giorni e mezzo): oltre ai contadini vi parteciparono garibaldini delusi, artigiani e parenti dei detenuti. E dopo pochi giorni altre rivolte scoppiarono in tutte le carceri siciliane e poi del Mezzogiorno fino a Napoli. Le cause le abbiamo già elencate: la leva obbligatoria introdotta tra nel 1862 decuplicava gli arresti dei giovani, il colera nelle carceri siciliane sovraffollate mieteva circa quattromila vittime in meno di una settimana, l’introduzione del monopolio piemontese dei “sali e tabacchi” portava arresti massivi per contrabbando in tutto il Sud d’Italia. L’integralismo dei funzionari sabaudi introduceva quel rigore carcerario che non permetteva più ai detenuti di ricevere generi di conforto dai parenti. In quella neonata Italia le caserme dei Carabinieri venivano coadiuvate dall’esercito nell’arresto dei giovani renitenti di leva, e su dieci ben otto fuggivano all’obbligo. È il caso di dire che il problema del sovraffollamento carcerario nasce con l’Italia unita. E quanti non condivideranno questa ricostruzione, possono comunque consolarsi col dato di fatto che il “rigore carcerario” rimane una delle ricette cardine dello Stato italiano. E l’adagio “in carcere non ci va più nessuno” è probabilmente la grande leggenda metropolitana messa in giro da una piccola borghesia che, ancor oggi, prova piacere nello spettacolo di un arresto di cui non conosce i motivi. Sono gli stessi borghesi che trasversalmente motiverebbero una reintroduzione europea della pena di morte, che reputano il carcere utile a togliere dalla strada i nullafacenti. Solo rigore e angherie, ecco perché in certe plaghe del Sud c’è chi rimpiange un re che faceva amnistie e poi usava festeggiare la libertà partecipando a banchetti fatti in suo onore da un popolo di lazzaroni: di quest’ultimo fatto abbiamo come prove solo racconti e dipinti di scuola napoletana. Giorgio Bignami, uno scienziato fuori dal coro di Maria Stagnitta Il Manifesto, 2 aprile 2025 “Il progresso della medicina è lento e difficile. Ciò è detto senza ironia. Tanto più lento e difficile quanto più questa disciplina riceve ed accoglie la delega di interpretare fenomeni che con essa non hanno a che fare se non per le apparenze dei loro stadi conclusivi. Il problema della ingiustizia, della miseria, della violenza, percorre la storia. La medicina coglie i segni che “le competono” e ne fa talvolta - nel rispetto ossequioso dei paradigmi - capitoli non gloriosi, ma consistenti della sua storia” (Giorgio Bignami in Terre di confine. Soggetti, modelli, esperienze dei servizi a bassa soglia Edizioni Unicopli a cura di Grazia Zuffa, Patrizia Meringolo, Stefano Bertoletti, Maria Stagnitta). L’inizio del 2025 continua a procurare alla comunità di Forum Droghe e della Società della ragione grande dolore. Dopo l’improvvisa morte di Grazia Zuffa, il 16 marzo è scomparso Giorgio Bignami, presidente onorario di Forum droghe e amico di tutti noi. Medico, farmacologo, ricercatore, è stato un intellettuale impegnato e studioso delle ricadute sociali della ricerca scientifica. Ha dato un importante contributo all’innovazione della psichiatria, insieme a Franca e Franco Basaglia. Si deve a lui il primo progetto nazionale salute mentale, mentre ricopriva la carica di segretario del “Centro Oms per la ricerca e la formazione nel campo della salute mentale in Italia”. Come presidente di Forum Droghe, Giorgio ha saputo coniugare la sua vasta competenza di ricercatore con una straordinaria capacità di ascolto. Nonostante il suo grande bagaglio di conoscenze e il suo indiscusso sapere, ha sempre guidato l’associazione con umiltà, mettendosi a disposizione, accogliendo ogni contributo con rispetto e valorizzando il lavoro collettivo. La sua leadership non si è mai imposta, ma è stata caratterizzata dalla disponibilità a essere punto di riferimento e sostegno, piuttosto che figura direttiva. È stato capace di stare sempre alla pari con tutti, sapendo riconoscere il valore di ogni singola voce. Ricordo ancora le sue telefonate in cui mi chiedeva chiarimenti e consigli. Giorgio fu capace di portare la sua intelligenza anche al di fuori dei suoi campi naturali di studio e ragionamento, dopo quarant’anni trascorsi come ricercatore all’Istituto superiore di sanità. A Bignami dobbiamo infatti l’intuizione che poi portò alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge Fini-Giovanardi. Era il 2012, a Siracusa: durante un seminario sulle politiche sulle droghe con esperti internazionali di altissimo livello, organizzato dalla Società della ragione, Giorgio introdusse nel dibattito una recentissima decisione della Corte contro la pratica - più volte criticata - di inserire nuove norme nelle leggi di conversione dei decreti legge. Così si aprì la strada al prezioso lavoro curato poi da Luigi Saraceni - anche lui scomparso lo scorso anno - e Fabio Valcanover che portò all’eccezione di costituzionalità presentata dalla corte di Cassazione e quindi alla bocciatura, per vizi procedurali, della peggiore legge italiana sulle droghe. Ho avuto il privilegio di essere stata sua vice presidente e successivamente di succedergli alla presidenza dell’associazione. La sua presidenza è stata per me un esempio di leadership colta e discreta, una presenza capace di “nutrire” e “sostenere” la nostra associazione. La sua capacità di unire rigore scientifico e sensibilità umana ha fatto di lui una figura indimenticabile, ci rimangono i suoi scritti che continueranno a orientare il nostro lavoro. In questo momento di tristezza, il pensiero di tutte e tutti noi va alla sua famiglia e a chi gli è stato più vicino. La sua eredità di conoscenza, impegno e disponibilità resterà viva in ciascuno di noi. Migranti. La finta esultanza del Governo per i Cpr in Albania di Angela Nocioni L’Unità, 2 aprile 2025 Un decreto legge non può modificare un accordo internazionale senza il consenso delle parti che lo hanno stipulato. Non hanno nessun fondamento giuridico e sono soltanto materiale per la propaganda meloniana le dichiarazioni di Piantedosi sul funambolico tentativo di mettere per decreto una pezza al buco nell’acqua fatto con l’operazione meloniana dei lager italiani in Albania. Quelle celle non possono essere usate per rinchiudere immigrati che hanno ricevuto in Italia un provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale. La legge lo vieta. Con decreto il governo ha deciso di portare nelle celle fatte costruire in Albania anche gli stranieri presenti in Italia colpiti da provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati in attesa di rimpatrio coatto. Le celle di Gjader erano state fatte costruire dal governo italiano per rinchiuderci i richiedenti asilo, intercettati in acque internazionali da navi militari italiane, non vulnerabili e provenienti da paesi di origine considerati sicuri, ai quali la richiesta di asilo fosse stata rigettata con un provvedimento non impugnabile, in ogni caso non sospeso, e quindi destinati a rimpatrio coatto. Che comunque per la normativa Ue sarebbe dovuto avvenire entro 28 giorni. Mentre nei Cpr italiani la detenzione amministrativa può durare fino a 18 mesi. Puro materiale da propaganda social sono anche le esultanze governative per le dichiarazioni in proposito di un portavoce della Commissione europea per gli Affari interni, Markus Lammert, che ha detto riferendosi ai Cpr italiani in Albania: “La legislazione nazionale italiana si applicherebbe a questi centri, come è stato finora per l’asilo. In linea di principio, ciò è conforme al diritto dell’Ue. Continueremo a monitorare l’attuazione del protocollo nella sua nuova versione e a rimanere in contatto con le autorità italiane”. Non è un via libera e non spetta comunque alla Commissione europea dare un via libera perché la Commissione non è al di sopra della legge. In ogni caso il portavoce ha solo detto che la Commissione riconosce la giurisdizione italiana, il che non equivale a un assenso politico all’ipotesi di trasferire nel Cpr di Gjade immigrati già presenti in Italia e spediti in cella per una detenzione amministrativa (sulla evidente incostituzionalità della detenzione amministrativa si dovrebbe occupare a breve la Corte costituzionale su ricorso di un giudice di pace). Il portavoce della Commissione dice: “Per quanto riguarda le soluzioni innovative, abbiamo dichiarato di essere pronti a esplorarle, sempre nel rispetto degli obblighi previsti dal diritto dell’Ue e internazionale, nonché dei diritti fondamentali”. Il modello di detenzione al di fuori dell’Unione europea è vietato dalla Costituzione italiana. E non c’è “nuova versione del Protocollo” possibile da prendere seriamente in considerazione, perlomeno finché una eventuale modifica dell’accordo tra Italia e Albania non venga approvata da entrambi i Paesi. Osserva il giurista Fulvio Vassallo Palelogo: “Quando dalla Commissione europea si afferma che al Cpr di Gjader in Albania si applicherà “la normativa nazionale” si mente, con la consapevolezza di mentire, per fornire una sponda al governo Meloni, perché la “normativa nazionale” in materia di immigrazione e asilo, per effetto dei Trattati e della Costituzione italiana (art. 117 Cost.), è fonte subordinata rispetto al diritto dell’Unione europea che disciplina la stessa materia. La dichiarazione del portavoce Lammert contrasta con quanto dichiarato dal Commissario europeo agli affari interni ed alle migrazioni Brunner appena due mesi fa. Secondo Brunner, “quando gli Stati membri estendono l’applicazione delle disposizioni di diritto nazionale che attuano il diritto dell’Unione a situazioni che esulano dall’ambito di applicazione di quest’ultimo, devono farlo in modo da non compromettere o eludere l’applicazione delle norme armonizzate o degli obblighi da esso previsti”. Quanto dice il Commissario europeo è esattamente quello che succederà quando il governo italiano, in forza del nuovo decreto legge Albania, trasferirà nel Cpr di Gjader immigrati destinatari di un provvedimento di allontanamento forzato e già detenuti all’interno di un Cpr in territorio italiano”. Aggiunge Vassallo Paleologo: “Il rispetto della vigente direttiva 2008/115/CE sui rimpatri rimane comunque ineludibile, come l’art.47 sui diritti di difesa garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Allo stesso tempo andrà salvaguardato il diritto di chiedere asilo riconosciuto dalla normativa Ue anche ai migranti irregolari in stato di trattenimento pre-espulsivo. Le scelte del governo Meloni sulla riconversione del “modello Albania”, piuttosto che risultare esempio da seguire a livello europeo, rischiano di creare un gravissimo precedente “nazionale” che potrebbe ritardare persino l’attuazione uniforme dei Regolamenti che dovranno essere introdotti sulla base del Patto Ue sulla migrazione e l’asilo dello scorso anno. Non a caso l’Italia non ha presentato nei termini previsti il Piano nazionale per l’attuazione dei nuovi Regolamenti previsti dal Patto Ue. Il nuovo Regolamento sui rimpatri è ancora allo stato di progetto e non entrerà in vigore prima del 2027. La Commissione europea, al di là del suo schieramento politico, dovrebbe dare priorità inequivocabile all’adempimento del ruolo di garante dei Trattati”. Migranti. Il modello dei Cpr in Albania è spregiudicato e pericoloso Antonello Ciervo e Salvatore Fachile* Il Domani, 2 aprile 2025 Il Governo modifica nuovamente il quadro normativo. I dubbi sulla compatibilità del Decreto con l’accordo stipulato con l’Albania. La vicenda dei centri di detenzione in Albania ha un nuovo sviluppo: mentre la Corte di Giustizia valuta la compatibilità con il diritto Ue delle procedure di trattenimento nel centro di Gjader, il 29 marzo è stato pubblicato il decreto legge n. 37, che modifica radicalmente il quadro normativo. Il decreto stabilisce che potranno essere trasferiti in Albania non solo i migranti intercettati in acque internazionali durante operazioni di soccorso, ma anche tutti i cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di trattenimento. Si aprono così le carceri albanesi ai migranti irregolari già presenti sul territorio italiano e destinati ai Cpr in attesa di espulsione. Il decreto amplia notevolmente la portata dell’Accordo, prevedendo trasferimenti di cittadini stranieri già presenti in Cpr italiani a quello di Gjader, senza necessità di ulteriore convalida giudiziaria e, stante la clausola di invarianza finanziaria, senza costi aggiuntivi. Al di là della fattibilità economica - su cui sarà interessante conoscere il parere della Ragioneria generale dello Stato, e della commissione Bilancio, dove sarà incardinata la legge di conversione del decreto nel corso delle prossime settimane - ciò che solleva dubbi è la compatibilità del decreto con l’Accordo stipulato col governo albanese. Stando alla lettera dell’Accordo, infatti, esso dovrebbe riguardare soltanto il trattenimento in frontiera dei richiedenti asilo, una procedura che ai sensi di legge può durare al massimo 28 giorni, allo scadere dei quali lo straniero deve essere riportato in Italia in caso di mancato riconoscimento della protezione internazionale. Infatti, l’art. 4 dell’Accordo stabilisce che le autorità albanesi consentono l’ingresso dei migranti “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario”, quindi non oltre 28 giorni, mentre la detenzione in un Cpr può durare fino a 18 mesi. Che l’Accordo si riferisca soltanto alle procedure di frontiera è confermato dalla Corte costituzionale albanese, la quale, nella sentenza n. 2/2024, ha sottolineato come nessun migrante potrà rimanere in Albania oltre i 28 giorni previsti dalla legislazione italiana. Infatti, riferendosi alle discussioni in seno alle commissioni parlamentari competenti, la Suprema corte albanese ha osservato come “i rappresentanti del governo (il Ministro della Difesa e il Ministro dell’Interno) hanno sottolineato che nessuno dei migranti, in ogni caso di rigetto della domanda di asilo da parte delle autorità italiane, o anche in caso di ammissione, potrà rimanere nel nostro Paese oltre il periodo di 28 giorni previsto a tal fine dalla legislazione italiana. Ognuno di loro sarà inviato in Italia per procedere con ulteriori procedure di asilo o sarà rimpatriato nel suo Paese d’origine” (così al paragrafo 57 della sentenza). Il nostro governo, quindi, ha modificato unilateralmente la portata del trattato, rischiando così una contestazione da parte albanese per violazione della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che prevede l’esecuzione in buona fede degli accordi internazionali secondo il principio “Pacta sunt servanda”. Questa situazione non solo potrebbe creare tensioni diplomatiche con l’Albania, ma solleva interrogativi sulla legittimità costituzionale dell’operato governativo, considerando che l’art. 117 della Costituzione impone il rispetto degli obblighi internazionali nell’esercizio della funzione legislativa. Insomma, il caso Albania ancora una volta si dimostra essere un campo di sperimentazione per un approccio giuridico spregiudicato, governato dall’idea che il diritto internazionale e le garanzie costituzionali siano liberamente manipolabili per il raggiungimento dei fini governativi, a nulla importando lo strappo di regole maturate in lunghi e accurati processi democratici in contesti nazionali e internazionali. *Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione Migranti. Le Nazioni unite “preoccupate” dal protocollo tra Italia e Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 aprile 2025 Il rapporto degli esperti indipendenti del Comitato per i diritti umani: garantire a Shengjin e Gjader diritto di difesa e proporzionalità della detenzione. Le raccomandazioni sono rivolte a Tirana ma parlano anche a Roma. I Centri italiani in Albania preoccupano l’Onu. Lo afferma un rapporto del “Comitato per i diritti umani” scritto al termine di una missione di monitoraggio in Albania. L’organo è composto da esperti indipendenti nominati dagli Stati firmatari della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici - tra loro ci sono Italia e Albania - per monitorarne l’applicazione. Critiche e raccomandazioni sono rivolte a Tirana, ma quelle sul “trattamento di migranti, rifugiati e richiedenti asilo” parlano anche a Roma. Il Comitato è “preoccupato per i potenziali conflitti tra il protocollo e la convenzione”, come quelli che riguardano “la detenzione automatica dei migranti e il rischio di una detenzione prolungata, nonché il rischio di essere soggetti a procedure di migrazione o asilo inadeguate”. Il rapporto è stato pubblicato venerdì scorso, mentre il governo Meloni decretava che nei centri saranno trasferiti anche cittadini stranieri “irregolari” dall’Italia. Le critiche si riferiscono quindi alla destinazione originaria delle strutture, quella per i richiedenti asilo. Il Comitato fa tre raccomandazioni all’Albania, rispetto alla sua legislazione e al protocollo. Uno: che la detenzione di richiedenti asilo e migranti sia una “misura di ultima istanza, ragionevole e proporzionata” e che esistano alternative concrete al trattenimento. Due: che sia rispettato il principio di non respingimento e garantito un meccanismo di ricorso giudiziario indipendente a chi chiede protezione. Tre: che l’assistenza legale gratuita sia accessibile “nella pratica” durante le procedure d’asilo. Il primo e il terzo punto evidenziano aspetti problematici dell’accordo, soprattutto della sua versione iniziale (sospesa in attesa della sentenza della Corte di giustizia Ue sui “paesi sicuri”). Oltre Adriatico, infatti, non esistono alternative alla detenzione e il diritto alla difesa - denunciano i legali dei migranti - è compromesso da tempistiche express e difficoltà ad avere colloqui riservati con gli assistiti. Il fatto che l’organismo Onu rivolga queste raccomandazioni a Tirana, sebbene evidentemente valgano anche per Roma, mostra ancora una volta che quei centri non solo restano territorio albanese ma hanno anche una doppia giurisdizione. Come del resto aveva affermato in maniera chiara la Corte costituzionale del paese delle Aquile. Un motivo in più per dubitare che il Cpr di Gjader sia la stessa identica cosa di quelli di Milano o Trapani, come sostiene il governo. “La mia vita da avvocata a difendere i migranti” di Roberta Polese Corriere del Veneto, 2 aprile 2025 Caterina Bozzoli è uno dei legali che ruotano attorno al mondo dei migranti, quello che ha ottenuto il “permesso” per Happy Ijebor, nigeriano di 28 anni, spazzino volontario “adottato” da un quartiere padovano. Spesso le cose non vanno come devono andare, tranne ogni tanto, quando tutto va per il verso giusto. Questo è il momento che dà senso alla fatica, alla frustrazione dei tanti “no”. È questo lo spirito con cui Caterina Bozzoli racconta la storia di Happy Ijebor, giovane nigeriano di 28 anni “adottato” dagli abitanti di un quartiere del centro di Padova, che sta tentando di avere un permesso di soggiorno dal 2016, e che dopo una lunga serie di no, ha avuto un sì: la sospensione del decreto di espulsione. Pur trovandosi nella schiera dei tanti “invisibili” senza documenti, Happy ha deciso di non chiedere l’elemosina ma di prendere una scopa e pulire le strade gratuitamente. Avvocata Bozzoli, lei e la sua collega Aleksandra Stukova avete seguito il caso di Happy , un percorso costellato di “no”… “Happy È arrivato nel 2016 e in 9 anni ha avuto quattro richieste rigettate, dieci giorni fa il giudice si è reso conto che l’ultima volta la commissione non aveva rispettato i tempi per la decisione, pertanto ha concesso la sospensione del rigetto e ha fissato l’udienza al 2030, un tempo abbastanza lungo per aprire a Happy delle opportunità”. Non dev’essere facile lavorare in un settore come quello dell’immigrazione, come sono le sue giornate? “Di solito la mattina sono o in prefettura o in questura, a volte ho udienze a Venezia, sono mattinate fatte di lunghe attese, poi nel pomeriggio abbiamo gli incontri fissati in studio, le emergenze da gestire, in questo settore le norme cambiano sempre e rapidamente, quindi c’è anche un tempo dedicato all’aggiornamento. Spesso lavoro anche il sabato e la domenica, per fortuna non sono sola: in ufficio ci sono persone che lavorano con me, può capitare che io mi debba spostare per lavoro, una volta sono andata a prendere una persona straniera a Napoli”. Oltre a Happy si è affezionata a qualche altra storia? “Ricordo quella di un ragazzo del Bangladesh che aveva ottenuto i documenti e finalmente aveva trovato un lavoro. Mi ha raccontato che ogni mattina si sveglia alle 4 perché lavora come fornaio, poi durante il weekend va a lavorare al Casinò di Venezia, gli ho detto: “Sarai sfinito, dovresti trovare il tempo per riposare”, lui mi ha risposto: “Avvocata io sto vivendo il mio sogno: il mio sogno era fare il pane”. Sentirà anche molte storie di sfruttamento e violenze, soprattutto da chi arriva dalla Libia… “Si, chi arriva da lì porta segni dolorosi sul corpo e nell’anima, ma non è l’unica rotta in cui si verificano episodi di violenza, anche chi arriva dai cantieri di Dubai è sfruttato”. Alla sofferenza si aggiunge la burocrazia italiana che non aiuta… “È vero, il decreto Cutro ha complicato ancor più le cose”. Per voi avvocati che lavorate con i gratuiti patrocini i pagamenti sono sempre lunghi ad arrivare, e si tratta spesso di fatture esigue… “Le liquidazioni arrivano dopo moltissimo tempo, e anche quando le persone che assistiamo non hanno diritto al gratuito patrocinio perché superano la soglia di reddito dei 12 mila euro l’anno, è difficile pretendere del denaro: per arrivare in Italia c’è chi ha contratto debiti fino a 19 mila euro, questa è la cifra che un cittadino indiano ha dovuto versare a chi lo ha portato qui, i pochi soldi che queste persone hanno li versano alle famiglie che sono rimaste in patria”. Altre specializzazioni nel suo settore permettono di guadagnare di più, lei perché ha scelto proprio questa? “Quando ancora ero praticante ho frequentato un corso di diritto dell’immigrazione, poi ho conosciuto un ragazzo che lavorava in una associazione che aiutava migranti e mi ha mandato il mio primo cliente, feci un ricorso al giudice di pace e vinsi. Ne arrivarono altri, ero ancora praticante…sono rimasta a fare quello che sapevo fare”. Ha passato anche qualche guaio per questo lavoro… “Sono finita in un’inchiesta su un presunto traffico di permessi di soggiorno, dicevano che portavo le tangenti in questura, è durata poco per fortuna, sono stata scagionata completamente, io sapevo di non aver mai fatto nulla di male, ho sempre avuto fiducia nella giustizia, altrimenti non avrei continuato a fare questo lavoro”. Droghe. “Meglio Legale” ricorre alla Consulta contro il nuovo Codice della Strada di Nadia Ferrigo La Stampa, 2 aprile 2025 L’associazione per la legalizzazione della cannabis Meglio Legale ha sollevato per la prima volta la questione di legittimità costituzionale del nuovo Codice della Strada con un ricorso al giudice di pace di Udine per il caso di Elena Tuniz, 32 anni, insegnante e “vittima di un paradosso giudiziario che rischia di compromettere gravemente la sua vita”. Come racconta nel video pubblicato da Meglio Legale, il 7 gennaio scorso, mentre era alla guida della sua auto, Elena Tuniz ha avuto un malore improvviso che ha causato un lieve incidente stradale. Ricoverata in ospedale tra i diversi esami è stata anche sottoposta a un test tossicologico che ha evidenziato una “dubbia positività al Thc”, che è il principio attivo della cannabis. Solo dopo un secondo attacco epilettico, avvenuto nella notte successiva, è arrivata la diagnosi corretta. “Nella terapia c’è anche la prescrizione di cannabis medica, fatta da neurologo” racconta nel video. “Nonostante l’evidenza medica, il test tossicologico ha innescato un meccanismo sanzionatorio sproporzionato: la sospensione della patente di guida per un anno con conseguenze pesanti sulla sua vita lavorativa, data la distanza di 70 km tra casa e lavoro e l’avvio di un procedimento penale che prevede il rischio di una pena detentiva fino a due anni e una multa fino a 12mila euro” scrive Meglio Legale. “Riteniamo questo caso emblematico delle criticità del nuovo Codice della Strada, per questo abbiamo deciso di supportare Elena Tuniz, affidando la sua difesa all’avvocato Raffaele Minieri - ha spiegato nella conferenza stampa alla Camera dei Deputati organizzata insieme al deputato e segretario di +Europa Riccardo Magi, Antonella Soldo, coordinatrice di Meglio Legale. Il ricorso presentato ai Udine non si limita a contestare la sospensione della patente, ma solleva una questione di legittimità costituzionale della normativa in vigore, che rischia di penalizzare ingiustamente persone che con la guida in stato di alterazione non c’entrano nulla”. Se il giudice accoglierà il ricorso, la questione sarà portata davanti alla Corte Costituzionale, aprendo la strada a una possibile revisione della legge. Dal 14 dicembre 2024 il nuovo odice della strada prevede sanzioni più severe per chi risulta positivo a un test antidroga: chi risulta positivo rischia il ritiro immediato della patente, la sospensione, l’arresto fino a un anno e una multa fino a 6mila euro, il doppio in caso di incidente. Per l’alcool serve superare il limite di 0,5, mentre per le altre sostanze stupefacenti basta la positività al test anche se non si è in stato di alterazione. “Questo è un problema soprattutto per i cannabinoidi, rilevabili nella saliva fino a 80 ore dopo l’uso - dicono dall’associazione per la legalizzazione -. Nessuna eccezione è prevista per chi assume cannabis medica con regolare prescrizione”. Se le istituzioni europee insinuano la guerra nelle nostre menti di Giorgia Serughetti* Il Domani, 2 aprile 2025 Secondo il noto principio di Anton ?echov, se in scena compare una pistola, questa prima o poi dovrà sparare. Questione di economia narrativa. Ecco perché il tutorial della borsetta della commissaria europea Hadja Lahbib, che illustra l’ormai celebre kit per sopravvivere le prime 72 ore in caso di guerra o catastrofi, ha provocato tanta inquietudine. Si è parlato di fallimento comunicativo, per il tono incredibilmente scanzonato della messa in scena, e per lo sgomento che ha provocato. Ma è stato davvero un errore? Le istituzioni che volevano rassicurarci ci hanno invece spaventato? O l’obiettivo era proprio farci paura? E farci paura serve a convincerci dell’urgenza del riarmo continentale? La “strategia della prontezza” dell’Ue appare come il volto civile del piano di spesa militare (ribattezzato a sua volta “Readiness 2030”): quello che ha l’obiettivo di indurre nella cittadinanza intera una cultura della minaccia. Serve a “creare resilienza”, ha detto la presidente della commissione, Ursula Von der Leyen, intervistata dal Corriere della Sera. Perché “prevenire è meglio che curare”. Ma una cosa è costruire competenze necessarie per rispondere alle emergenze - tra cui possibili nuove pandemie - un’altra è creare nervosismo, ansia, panico. Una cosa è prospettare interventi a protezione delle popolazioni europee in caso di pericolo, un’altra è lavorare per insinuare, insediare stabilmente il senso di pericolo nelle nostre menti. Nel tempo trascorso dall’aggressione russa in Ucraina la guerra è tornata, giorno dopo giorno, a pervadere il nostro universo linguistico e il nostro immaginario, attraverso l’informazione scritta e parlata, e l’ambiente visuale in cui siamo immersi. È arrivata a penetrare nelle nostre conversazioni, nelle nostre paure, nei nostri sogni. La guerra si fa spazio, prima che nella realtà, nell’immaginazione. Si annuncia innanzitutto come una possibilità, poi come un decorso probabile, infine inevitabile. Travolgendo, prima ancora delle ragioni e le forze capaci di opporsi al conflitto, le parole che possono costruire un lessico alternativo e nutrire pensieri di pace. La guerra, scriveva già Tucidide, cambia il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’”audacia sconsiderata” diviene “coraggiosa lealtà”, il “prudente indugio” è inteso come “viltà”, la “moderazione” nient’altro che “codardia”, e l’”intelligenza di fronte alla complessità” semplice “inerzia”. Anche così questa “maestra di violenza” si insinua nel nostro immaginario e nel nostro parlare, aprendo nuove possibilità di legittimazione per gli agiti e i linguaggi che offendono la vita umana. Nel nostro tempo, alle strategie discorsive si devono aggiungere le tecnologie di visualizzazione che agiscono sull’immaginario. Quelle, per esempio, che attraverso l’intelligenza artificiale consentono di rappresentare con un grado molto elevato di verosimiglianza scenari ipotetici che rendono presenti, innanzitutto nelle nostre menti, possibilità spesso indicibili o spaventose. Video generati dall’intelligenza artificiale possono mostrare i monumenti simbolo delle capitali europee distrutte dalle bombe del nemico. Oppure anticipare nel mondo virtuale un proposito molto reale. È ciò che abbiamo visto con il video diffuso da Donald Trump chiamato “Trump Gaza”, che nel bel mezzo di un presente in cui la popolazione palestinese muore con il ritmo di centinaia di persone al giorno, per le bombe o per le malattie e la fame, mostra una riviera mediorientale riedificata secondo i canoni del turismo esotico, in cui scorrono fiumi di denaro occidentale, e i palestinesi servono cocktail ai padroni bianchi. Un sogno colonialista, razzista, classista, che si fa - virtualmente - realtà, rendendo concepibile l’inconcepibile, cioè l’annientamento violento di un’intera popolazione. Anche così la guerra conquista le menti. E allora diventa difficile credere nell’intento semplicemente preventivo dei messaggi con cui le istituzioni Ue mettono in guardia verso possibili attacchi, o nel loro effetto benevolmente protettivo. Da tempo ci viene ripetuta l’urgenza di prepararci alla guerra. Da ben prima della vittoria elettorale di Trump si è parlato - l’ha fatto più volte, per esempio, l’ex presidente del Consiglio europeo Charles Michel - della necessità di un cambio radicale nel modo di pensare di cittadine e cittadini. A questo serva allora farci paura. Fare della paura un mezzo e fine di propaganda politica, per legittimare scelte di investimento in armamenti, destinate a segnare pesantemente il nostro futuro comune. *Filosofa Medio Oriente. Non c’è giustizia in un sistema coloniale di Neve Gordon Il Manifesto, 2 aprile 2025 Giovedì la Corte suprema israeliana ha legittimato la scelta del governo di bloccare gli aiuti a Gaza, ignorando gli obblighi internazionali. Chi riempie le strade di Tel Aviv manifesta contro una riforma giudiziaria che mette in pericolo la democrazia solo ebraica: la Corte ha sempre sostenuto i pilastri del colonialismo. Una delle domande che mi vengono poste spesso quando parlo di Israele e Palestina riguarda la resistenza interna al governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. I miei interlocutori sottolineano il fatto che centinaia di migliaia di israeliani hanno riempito le strade per protestare contro il governo e i suoi sforzi per introdurre una revisione del sistema giudiziario e chiedono perché non sono entusiasta degli sforzi per porre fine al governo di Netanyahu. La mia risposta è che il vero problema di Israele non è l’attuale governo. Il governo potrebbe cadere, ma finché non trasformeremo radicalmente la natura del regime non cambierà molto, in particolare in relazione ai diritti fondamentali dei palestinesi. Una decisione della Corte suprema israeliana della scorsa settimana sottolinea il mio punto di vista. Il 18 marzo 2024 cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno presentato una petizione urgente alla Corte suprema, chiedendole di ordinare al governo e alle forze armate israeliane di adempiere agli obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale e di rispondere alle esigenze umanitarie della popolazione civile in condizioni catastrofiche a Gaza. La petizione è stata presentata in un momento in cui gli aiuti stavano entrando a Gaza, ma la quantità che attraversava il confine era ben lungi dall’essere sufficiente a soddisfare i bisogni minimi della popolazione, il cui 75% era già stato sfollato. I gruppi per i diritti umani volevano che il governo eliminasse tutte le restrizioni al passaggio di aiuti, attrezzature e personale a Gaza, in particolare nel nord, dove erano già stati documentati casi di bambini morti per malnutrizione e disidratazione. La Corte ha impiegato più di un anno per emettere una sentenza, permettendo di fatto al governo di continuare a limitare gli aiuti senza alcun controllo. Tre settimane dopo la presentazione della petizione, la Corte si è riunita solo per concedere al governo un tempo supplementare per aggiornare la sua risposta preliminare al ricorso. Questo ha dato il tono di come la petizione avrebbe proceduto nei dodici mesi successivi: ogni volta che i firmatari hanno fornito dati sul peggioramento delle condizioni della popolazione civile e sottolineato l’urgente necessità di un intervento giudiziario, la Corte ha semplicemente chiesto al governo ulteriori aggiornamenti. Nell’aggiornamento del 17 aprile, ad esempio, il governo ha insistito sul fatto di aver aumentato in modo significativo il numero di camion di aiuti in ingresso, sostenendo che tra il 7 ottobre 2023 e il 12 aprile 2024 ha permesso a 22.763 camion di attraversare i posti di blocco. Ciò equivale a 121 camion al giorno, che secondo tutte le agenzie umanitarie che lavorano a Gaza non sono in grado di soddisfare i bisogni della popolazione. Nell’ottobre 2024, oltre sei mesi dopo la presentazione della petizione, le organizzazioni per i diritti hanno chiesto alla Corte di emettere un’ingiunzione dopo che il governo aveva deliberatamente bloccato gli aiuti umanitari per due settimane. In risposta, il governo ha affermato di aver monitorato attentamente la situazione nel nord di Gaza e che “non c’era carenza di cibo”. Due mesi dopo, tuttavia, il governo ha confessato di aver sottovalutato il numero di residenti palestinesi intrappolati nella parte settentrionale di Gaza, riconoscendo così che gli aiuti in ingresso non erano sufficienti. Il 18 marzo 2025, dopo che Israele ha violato l’accordo di cessate il fuoco e ha ripreso a bombardare Gaza e il ministro dell’energia e delle infrastrutture ha interrotto la fornitura di elettricità, i firmatari hanno presentato un’altra richiesta urgente di ordinanza provvisoria contro la decisione del governo di impedire il passaggio degli aiuti umanitari. Anche in questo caso la Corte non si è pronunciata e solo il 27 marzo, oltre un anno dopo la presentazione della petizione, il presidente della Corte Yitzhak Amit e i giudici Noam Sohlberg e David Mintz hanno stabilito all’unanimità che la petizione non era valida. Il giudice David Mintz ha intrecciato la sua risposta a testi religiosi ebraici, caratterizzando gli attacchi di Israele come una guerra di dovere divino, concludendo che “l’Idf e gli intervistati sono andati oltre il dovuto per consentire la fornitura di aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, anche assumendosi il rischio che gli aiuti trasferiti raggiungessero le mani dell’organizzazione terroristica di Hamas e venissero utilizzati da questa per combattere contro Israele”. Così, in un momento in cui le agenzie umanitarie hanno sottolineato più volte i livelli acuti di malnutrizione e fame, la Corte suprema israeliana - sia nel modo in cui ha gestito il processo giudiziario che nella sua sentenza - ha ignorato l’obbligo legale di Israele di astenersi dal privare la popolazione civile di oggetti indispensabili alla sua sopravvivenza, compreso l’ostacolare intenzionalmente le forniture di aiuti. Di fatto, la Corte ha legittimato l’uso della fame come arma di guerra. Questa è la Corte che centinaia di migliaia di israeliani stanno cercando di salvare. Le sentenze del 27 marzo - e tante altre sentenze che coinvolgono i palestinesi - rivelano che la Corte suprema è una corte coloniale, che protegge i diritti della popolazione dei coloni, legittimando al contempo l’espropriazione, lo sfollamento e le orribili violenze perpetrate contro la popolazione palestinese autoctona. Sebbene la Corte suprema possa non rispecchiare i valori dell’attuale governo - in particolare per quanto riguarda le questioni relative alla corruzione politica - senza dubbio riflette e ha sempre riflettuto i valori del regime coloniale. Quindi, i sionisti liberali che riempiono le strade di Tel Aviv ogni fine settimana non stanno manifestando contro una riforma giudiziaria che mette in pericolo la democrazia, ma contro una riforma che mette in pericolo la democrazia ebraica. Pochi di questi manifestanti hanno qualche reale remora nei confronti dell’orribile sentenza sugli aiuti umanitari o, se vogliamo, di come la Corte abbia costantemente sostenuto i pilastri dell’apartheid e del colonialismo israeliano. Il regime, in altre parole, può continuare a eliminare i palestinesi senza ostacoli finché i diritti dei cittadini ebrei di Israele saranno garantiti. Medio Oriente. A Gaza la fame come arma, gli aiuti come via per l’occupazione di Lee Mordechai e Liat Kozma Il Manifesto, 2 aprile 2025 Dal 2 marzo embargo di cibo e medicine, il 9 marzo il ministro Cohen ha staccato l’elettricità alla Striscia. Israele punta a gestire le attività umanitarie per controllare la popolazione palestinese. Organizzazioni internazionali tagliate fuori, non ci saranno più testimoni esterni. Per un mese non una sola goccia di aiuti umanitari è entrata a Gaza. Dal 2 marzo - quando sarebbe dovuta iniziare la seconda fase del cessate il fuoco, ma Israele si è poi rimangiato l’impegno preso - Tel Aviv ha bloccato l’ingresso di tutti i generi alimentari nella Striscia, insieme a carburante, attrezzature mediche e altre forniture essenziali. L’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa) ha avvertito che le scorte di farina di Gaza probabilmente si esauriranno completamente prima della fine di questa settimana. Sebbene l’attuale politica sia più estrema di qualsiasi altra vista dal 7 ottobre, Israele ha comunque imposto restrizioni al”ingresso di aiuti a Gaza durante tutto il suo assalto. Già nel dicembre 2023 Human Rights Watch aveva dichiarato che Israele stava usando la fame come arma di guerra. Quasi un anno dopo la Corte penale internazionale ha emesso mandati d’arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora ministro della difesa Yoav Gallant, in parte con l’accusa di aver “intenzionalmente e consapevolmente privato la popolazione civile di Gaza di oggetti indispensabili alla sua sopravvivenza, tra cui il cibo”. L’ondata di aiuti umanitari che Israele ha permesso di entrare a Gaza durante il recente cessate il fuoco di due mesi è servita solo a sottolineare la crudele intenzionalità della politica della fame. Israele ha sostenuto per mesi - anche in una causa durata un anno presso l’Alta Corte di Giustizia, in risposta a una petizione di cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani - che qualsiasi ostacolo all’ingresso degli aiuti non era colpa sua, attribuendolo invece alle inefficienze delle agenzie umanitarie o ai saccheggi delle bande. I dati, tuttavia, mostrano chiaramente il contrario. Sebbene qualità e quantità dei dati disponibili sul volume e la composizione degli aiuti che entrano a Gaza siano diminuite in modo significativo dall’inizio del cessate il fuoco a metà gennaio (le due fonti primarie di informazioni, il Coordinatore delle Attività governative nei Territori dell’esercito israeliano, o Cogat, e l’Ufficio Onu per il Coordinamento degli Affari umanitari, o Ocha, hanno smesso di fornire aggiornamenti dettagliati sul cruscotto), possiamo ancora vedere che il numero di camion di aiuti autorizzati a entrare a Gaza è aumentato drasticamente, contribuendo ad alleviare in qualche modo la crisi umanitaria nella Striscia. Mentre, secondo il Cogat, una media giornaliera di 126 camion di aiuti è entrata a Gaza nei sei mesi precedenti l’accordo - nonostante un ultimatum dell’amministrazione Biden a ottobre, che chiedeva l’ingresso di 350 camion al giorno - il numero di camion nei primi tre giorni della tregua sono stati rispettivamente 634, 916 e 897. Nelle sei settimane tra l’inizio della tregua, il 19 gennaio, e l’imposizione del blocco totale da parte di Israele, il 2 marzo, sono entrati più camion (25.200) che nei sei mesi precedenti (21.368). Durante il cessate il fuoco, Israele ha anche eliminato alcune delle barriere precedentemente imposte all’ingresso degli aiuti. Ad esempio, le operazioni di aiuto dentro Gaza non hanno più richiesto il coordinamento con l’esercito israeliano ed è stato possibile consegnare quantità molto maggiori di rifornimenti nella parte nord, fino ad allora di difficile accesso. Sono state distribuite oltre 100mila tende e le prove visive hanno mostrato che sono state portate attrezzature pesanti, come i bulldozer, utilizzati per liberare le strade e rimuovere alcune macerie. Inoltre, il cessate il fuoco ha permesso ad Hamas di riaffermare le sue capacità di governo a Gaza, il che ha portato a una drastica riduzione dei saccheggi dei camion degli aiuti: il fenomeno è diventato quasi inesistente. La maggiore disponibilità di aiuti ha anche ridotto la domanda di beni sul mercato nero, contribuendo ulteriormente al calo dei saccheggi. Queste misure di soccorso umanitario, tuttavia, non sono state assolute. Ad esempio, circa il 10% dell’oltre mezzo milione di residenti tornati nelle loro case distrutte nel nord di Gaza hanno finito per trasferirsi nuovamente a sud, in parte perché non riuscivano a trovare mezzi di sopravvivenza sufficienti nel nord devastato. Inoltre, alcuni degli oggetti che Israele era tenuto a far entrare a Gaza secondo i termini del cessate il fuoco, come le case mobili, sembrano essere stati quasi del tutto impediti. Allo stesso tempo, Israele ha silenziosamente ampliato l’uso della burocrazia come strumento di controllo delle organizzazioni internazionali, inasprendo le restrizioni all’ingresso degli operatori umanitari a Gaza. Circa la metà dei medici che hanno ricevuto l’approvazione preliminare per entrare nella Striscia attraverso l’Organizzazione mondiale della Sanità (che richiede che tutti i dettagli siano presentati con un mese di anticipo), hanno poi scoperto che Israele negava loro l’ingresso. Quasi tutti questi medici erano già entrati nell’enclave dall’inizio della guerra, con la precedente approvazione del Cogat. Una diminuzione simile dei permessi di ingresso è stata osservata tra gli operatori umanitari. Arwa Damon, ex giornalista della Cnn che ha fondato l’International Network for Aid, Relief and Assistance (Inara), organizzazione che fornisce assistenza medica e psicologica ai bambini di Gaza, è entrata nella Striscia quattro volte nel 2024. Nel 2025, tuttavia, tutte e cinque le sue richieste di ingresso sono state respinte. Questo cambiamento di politica, cominciato all’inizio di febbraio, sembra derivare dalla decisione di Israele di imporre nuovi regolamenti sull’approvazione e la registrazione delle organizzazioni internazionali. Secondo questi criteri, Israele può negare l’ingresso a qualsiasi organizzazione che promuova il Bds, sostenga tribunali internazionali contro funzionari o soldati israeliani o “neghi l’esistenza dello Stato di Israele come Stato ebraico e democratico”. Tuttavia, a inizio marzo c’è stato un cambiamento drastico. La decisione di Israele di bloccare tutti gli aiuti umanitari a Gaza come mezzo di pressione su Hamas per rilasciare gli ostaggi rimasti senza alcun impegno da parte di Israele a porre fine alla guerra - azione che equivale al crimine di guerra della punizione collettiva - è stata ampiamente condannata dagli attori internazionali. Circa una settimana dopo che Israele aveva sigillato i valichi di frontiera, il ministro dell’energia e delle infrastrutture Eli Cohen ha inoltre ordinato l’interruzione dell’elettricità che Israele vende a Gaza, paralizzando il funzionamento degli impianti di desalinizzazione. Alti funzionari israeliani hanno persino indicato l’intenzione di chiudere le condutture dell’acqua. Non sorprende che i prezzi dei generi alimentari siano saliti alle stelle dopo la chiusura dei valichi, con i maggiori aumenti registrati per i prodotti freschi come frutta e verdura. L’impatto di questo blocco intensificato è ancora più devastante di quello imposto da Israele all’inizio della guerra, dopo l’ordine di Gallant “niente elettricità, niente cibo, niente carburante”; le scorte di Gaza erano molto più alte allora di quanto non lo siano adesso e Israele alla fine ha ceduto alle pressioni internazionali e ha permesso l’ingresso di alcuni aiuti, anche se in quantità molto inferiori a quelle necessarie. Tuttavia, l’ultima risposta dello Stato all’Alta Corte - che non ha l’autorità di decidere su queste questioni - sottolinea la ritrovata fiducia nella sua posizione, mentre la debole reazione internazionale evidenzia il basso costo politico dell’impiego di fame e privazioni come forma di punizione collettiva e arma di guerra. Israele ha seguito il divieto di aiuti con una ripresa dell’assalto a Gaza nelle prime ore del 18 marzo, uccidendo più di 400 palestinesi in attacchi a sorpresa nelle prime ore, tra cui 178 bambini. Tra gli obiettivi di questi attacchi aerei c’erano i vertici civili di Hamas, in particolare gli alti funzionari responsabili del governo della Striscia. Paralizzando la capacità di Hamas di gestire la vita civile a Gaza, Israele intende consentire a bande armate - simili o identiche a quelle che hanno saccheggiato gli aiuti - di prendere il suo posto. Nel frattempo Israele ha iniziato a gettare le basi per spostare il controllo della gestione degli aiuti umanitari dalle organizzazioni internazionali alle stesse forze armate israeliane. A inizio marzo il Cogat ha pubblicato un rapporto che accusa l’Onu di diffondere dati parziali, incompleti o errati. Poco dopo il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, ha invertito la politica del suo predecessore e ha rimosso l’obiezione dell’esercito a essere il potere responsabile della distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza. Governo israeliano e Cogat hanno contemporaneamente lanciato una campagna coordinata - a cui hanno fatto eco i sostenitori del primo ministro - sostenendo che Hamas ruba gli aiuti dalle organizzazioni internazionali e li usa per danneggiare Israele, affermando al contempo che Israele non fornisce a Gaza abbastanza cibo. Trasferire la gestione degli aiuti umanitari dalle organizzazioni internazionali servirebbe a diversi obiettivi strategici di Israele, allineati alla sua più ampia politica di guerra. Il controllo diretto sugli aiuti consentirebbe a Israele di regolare l’assistenza come meglio crede, nell’ambito di un approccio “bastone e carota”, una politica con chiari precedenti nei decenni precedenti l’attuale offensiva. Inoltre l’allontanamento delle organizzazioni umanitarie da Gaza ridurrebbe significativamente il flusso di informazioni critiche sulle azioni di Israele nella Striscia. Ci sono stati alcuni segnali che indicano che questa politica sta avendo l’effetto desiderato. Il 24 marzo le Nazioni unite hanno deciso di “ridurre la propria impronta” nell’enclave assediata, in parte in risposta a un attacco al personale internazionale dell’Onu avvenuto la settimana precedente. Si prevedeva che circa il 30% del personale internazionale Onu avrebbe lasciato l’enclave entro una settimana e che altri avrebbero probabilmente seguito l’esempio. Lo stesso giorno un attacco a un edificio della Croce Rossa ha ulteriormente dimostrato che Gaza non è sicura per gli operatori umanitari internazionali. Se l’esercito si assumerà la responsabilità di distribuire gli aiuti, questo aumenterà gli attriti con la popolazione locale e porterà quasi certamente a ulteriori danni ai civili e a un aumento delle vittime tra i soldati israeliani. Nel frattempo, Israele sarà l’unica fonte ufficiale di informazioni provenienti da Gaza, consentendogli di oscurare ulteriormente la realtà sul campo agli occhi del mondo.