Lettera a Mattarella: 25 aprile, è tempo di clemenza vocididentro.it, 29 aprile 2025 Pubblichiamo le lettere che abbiamo inviato al Presidente Mattarella in occasione del 25 aprile firmate dal presidente di Voci di dentro Francesco Lo Piccolo, dalle persone che partecipano ai laboratori dell’Associazione nel carcere di Chieti e nel carcere di Pescara e dalle volontarie di Voci di dentro. Illustrissimo Signor Presidente della Repubblica, Onorevole Sergio Mattarella, siamo Voci di dentro, un’associazione di volontariato attiva nelle carceri di Chieti, Pescara e Lanciano. Oggi, a pochi giorni dall’ottantesimo anniversario del 25 aprile, data storica e fondante, ci permettiamo di inviarLe questa nostra lettera con la quale vogliamo ribadire che il senso profondo e il bisogno di Liberazione, come storia passata e come perenne speranza, ci coinvolgono in prima persona da volontari, detenuti e ex detenuti. Il 25 aprile 1945 ha chiuso un periodo buio: da quella data e dall’impegno dei tanti che hanno combattuto il nazifascismo è iniziato per la Nazione un percorso di pace e di democrazia attraverso numerose tappe, a cominciare dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946, il diritto di voto alle donne e la nascita della Repubblica, al quale è seguito il 22 giugno il provvedimento di amnistia Togliatti approvato dal governo De Gasperi per il superamento (nel segno della riabilitazione e dell’assoluzione) delle violenze della guerra civile. Tappe necessarie che hanno poi portato all’approvazione della Costituzione italiana, una tavola di principi e di valori, di diritti e di doveri, di regole e di equilibri, che costituiscono la base del nostro stare insieme. Una Carta che guarda all’unità del Paese, ai valori che avevano ispirato la Resistenza e che inducevano alla ricerca di una nuova etica civile comune, attenta alla persona (ancor prima che sia cittadino) con i suoi diritti inviolabili e i suoi doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2). Valori di pace e processi di riappacificazione che oggi, a 80 anni dalla Liberazione, è più che mai necessario rilanciare anche di fronte ai troppi scenari di guerra sempre più vicini. Ben conoscendo il Suo impegno e la Sua attenzione al problema delle carceri più volte da Lei manifestati, ci permettiamo - con questa nostra lettera - di sottolineare che il processo di riappacificazione deve interessare anche le persone che sono in carcere le quali hanno diritti che non vengono mai meno e che una volta espiata la pena devono a pieno titolo trovare possibilità di reinserimento sociale e lavorativo. Principi ribaditi anche dalla Costituzione, all’art. 27 e all’art. 3 nel suo richiamo a non discriminare in ragione delle condizioni personali e sociali, qual è la privazione della libertà: principi purtroppo oggi poco rispettati. La gravità della situazione è nota. Tantissimi detenuti trascorrono il loro tempo nell’ozio, senza programmi di inserimento come i corsi professionalizzanti: nelle carceri ci si destreggia tra voglia di fare e organici insufficienti che non permettono alcuna vera attività trattamentale. Un piccolo dato: nel ‘75 c’erano circa 30 mila detenuti ed erano previsti 1600 educatori. Oggi i detenuti sono più di 62 mila e gli educatori sono circa 800. Ci stiamo avvicinando alle condizioni che nel 2013 videro l’Italia condannata dalla Corte Europea per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei reclusi: vogliamo subire passivamente l’onta di un’ulteriore condanna per tortura? E, ancora, troppe persone sono in carcere con pene residue senza poter accedere alle misure alternative previste dalle Leggi dello Stato, determinando così un indice di sovraffollamento oltre il 133% che, associato a un sistema sanitario allo sfacelo, determina una disparità evidente tra liberi e ristretti. È altissimo il numero dei suicidi in carcere - venti volte più che nella società libera - come pure quello delle morti “per cause da accertare”. La nostra esperienza di volontariato ci porta ad incontrare tantissime persone che restano in carcere per effetto dell’articolo 58 quater O.P., che ostacola la concessione di misure alternative per ben tre anni, oppure persone condannate a una pena infinita a causa della normativa ex Cirielli sulla recidiva che aumenta sistematicamente le pene indipendentemente dai percorsi intrapresi all’interno degli istituti successivamente alla commissione del reato. Nel frattempo il carcere resta un mondo abbandonato, pieno di tempo vuoto al quale seguono, dopo la pena, solo stigma e pregiudizi che impediscono il reinserimento. Egregio Presidente, l’amnistia Togliatti ha contributo a riappacificare l’Italia dopo gli anni bui della guerra. Ma un nuovo buio è calato nell’attuale periodo, caratterizzato da logiche di guerra anche nella società le cui tensioni e divisioni vedono solo risposte che escludono, marginalizzano, condannano l’altro come nemico. In questo buio, chiediamo una luce. Ci permettiamo perciò di chiederLe, anche per le persone detenute, un messaggio forte e chiaro al Parlamento affinché si adotti senza timore un provvedimento di clemenza che aiuti e “protegga” chi è stato in errore permettendogli di tornare a sperare. E così, in questo Ottantesimo, anche per le persone detenute potrebbe finalmente avviarsi un processo che non discrimina e, al contrario, aiuta al reinserimento cambiando le cose dentro e fuori dal carcere. Nel ringraziarLa per l’attenzione, Le inviamo i nostri distinti saluti. Francesco Lo Piccolo Presidente di Voci di dentro OdV ***** Egregio Signor Presidente, siamo un gruppo di ragazze volontarie di Voci di dentro, cosa che ci permette di svolgere diverse attività all’interno degli istituti penitenziari di Chieti e Pescara. Le scriviamo con profondo rispetto, ma anche con una crescente preoccupazione. Durante la nostra esperienza abbiamo avuto modo di osservare da vicino le condizioni di vita delle persone detenute, l’impegno degli operatori penitenziari, nonché le numerose difficoltà strutturali e organizzative che affliggono il sistema carcerari. Abbiamo incontrato uomini e donne spesso dimenticati dalla società, privati non solo della libertà, ma anche della dignità. Sovraffollamento, carenza di personale, strutture fatiscenti e scarsità di programmi di reinserimento sono realtà quotidiane. Ci siamo rese conto di quanto sia facile, per chi è dentro, sentirsi abbandonato, e di quanto il carcere rischi di diventare un luogo di esclusione permanente anziché uno spazio di vera riabilitazione. Crediamo fermamente che la giustizia non possa prescindere dall’umanità, e che una società giusta si misuri anche dal modo in cui tratta chi ha sbagliato. Il carcere dovrebbe rappresentare un’occasione di riscatto, non una condanna alla marginalità eterna. Nel nostro lavoro svolgiamo inoltre progetti di sostegno al reinserimento sociale di persone che hanno scontato pene detentive e le scriviamo per porre attenzione sul fatto che siamo profondamente colpite dalle difficoltà quotidiane che incontriamo nel tentativo di restituire dignità e opportunità a chi ha già pagato il proprio debito con la giustizia. Ci scontriamo costantemente con uno degli ostacoli più gravi e silenziosi: il pregiudizio sociale e lo stigma del galeotto. Ex detenuti che cercano un impiego vengono sistematicamente respinti; altri non riescono nemmeno a trovare un’abitazione, rimanendo esclusi da ogni possibilità di costruirsi una nuova vita. Anche quando mostrano impegno, buona volontà e desiderio sincero di riscatto, vengono giudicati e respinti, come se fossero destinati a non uscire mai davvero dalla loro pena. Questo fenomeno, che si traduce in esclusione e invisibilità, è in netto contrasto con i principi della nostra Costituzione. Non si può parlare di reinserimento se non esiste una società pronta ad accogliere, e non si può parlare di giustizia se la condanna si trasforma in una condizione a vita. Come cittadine e volontarie, ci sentiamo impotenti davanti a porte che si chiudono, davanti a datori di lavoro e proprietari di case che rifiutano qualsiasi possibilità, alimentando così un circolo vizioso che porta solo a nuove marginalità e, spesso, alla recidiva. Le chiediamo, Signor Presidente, di continuare a portare avanti con fermezza e sensibilità il messaggio di una Repubblica che non dimentica nessuno, e che crede nelle seconde possibilità come fondamento della convivenza civile. Le chiediamo di dar voce a chi non ha voce, e di promuovere una cultura del reinserimento che non resti solo nei codici, ma viva davvero nella nostra società. La ringraziamo per l’attenzione, nella speranza che le nostre parole possano trovare ascolto nelle istituzioni e in tutti i cittadini. Carlotta Cavarra, Costanza Cardinale, Alessandra Delmirani, Claudia D’Ingiullo, Angela Mantovani, Benedetta Speranza “Occupiamoci di carceri e detenuti. È questa l’ultima lezione del Papa” di Alessandra Arachi La Repubblica, 29 aprile 2025 Casini: dal degrado delle strutture ai suicidi. Il mio appello a Meloni: agire subito. “Sia il cardinale decano Giovanni Battista Re al funerale sia il segretario di Stato Pietro Parolin durante il Giubileo degli adolescenti hanno detto la stessa cosa: è bello ricordare Francesco, è giusto piangere la sua morte ma è soprattutto importante attuare la sua lezione”. Una lezione pastorale di grande umanità, senatore Pier Ferdinando Casini… “Un pontificato tutto rivolto agli ultimi. Non possiamo dimenticare che gli ultimi giorni della sua vita Francesco ha voluto visitare il carcere di Regina Coeli, a Roma”. Mancavano due giorni alla Pasqua… “Già. E mancavano appena tre giorni alla sua morte. Da qui vorrei partire, dalle carceri. Vorrei fare un appello alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: occupiamoci dei detenuti. Concretamente. È la lezione di Francesco. La situazione delle carceri italiane non è più sostenibile”. Sono sovraffollate. “Incredibilmente sovraffollate. Degradate. C’è carenza di strutture. La parola “rieducazione” in carcere diventa un semplice slogan”. Cosa intende dire? “La settimana scorsa sono stato a fare visita al carcere di Rebibbia. Ho visto strutture belle: pizzerie, falegnamerie, cali center, anche luoghi dove commercializzano il caffè”. Quindi le strutture ci sono? “Ma sono pochissimi quelli che riescono a utilizzarle. L’assenza di riabilitazione è un’assenza di speranza. Basta vedere quanti suicidi ci sono in carcere”. Uno ogni tre giorni, dicono le statistiche… “Statistiche implacabili. Di questi, molti sono di persone che hanno quasi finito di scontare la pena. Che potrebbero essere liberi dopo due, tre anni”. Ci sono anche detenuti in attesa di giudizio che si tolgono la vita dietro le sbarre. “È vero, anche se i detenuti che aspettano il giudizio sono molto diminuiti rispetto ad alcuni anni fa. Il dramma più evidente sono i detenuti di cui ho parlato prima. Ed è questa la fascia sui cui bisogna agire”. Agire in che modo? “Mettere in atto le misure alternative se non prevedere un ritorno alla vita libera”. Pensa che sia questo un modo per alleviare le carceri? “È un intervento significativo visto che oggi la popolazione carceraria è fatta per la maggior parte di condannati definitivi e molti hanno residui di pena molto bassi”. A cos’altro pensa? “Nel breve tempo si può pensare ad un’amnistia, a un indulto, un segnale concreto. Nel 2002 ero presidente della Camera quando venne Giovanni Paolo II. Disse che una riduzione pur modesta della pena avrebbe incoraggiato il pentimento e il ravvedimento. Dopo qualche mese facemmo un indultino”. E nel lungo periodo che si potrebbe fare? “Ripensare al ruolo del diritto penale che in una liberal-democrazia del XXI secolo non può avere lo schema in cui l’unica forma di espiazione della pena è il carcere”. Questo governo però sta continuando a introdurre nuovi reati… “E questo aggrava la situazione. Lo sostiene anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli che è un autorevole presidio istituzionale e che ha lanciato l’allarme sull’emergenza carceri. Ci sono tante persone di buona volontà che hanno a cuore questo problema, in tutte e due gli schieramenti. Ecco: a Giorgia Meloni chiedo di fare qualcosa subito, di concreto. Nel nome di Francesco”. In carcere si può anche scoprire che la libertà inizia dalla laurea di Giorgio Paolucci Avvenire, 29 aprile 2025 Le storie di Andrea e Tommaso raccontano come lo studio, anche dietro le sbarre, possa cambiare una vita e riaccendere il futuro. I poli universitari penitenziari in forte crescita. La presenza dell’università contribuisce al processo di rieducazione e inserimento sociale e lavorativo dei detenuti A guadagnarci è anche il mondo accademico, perché sollecita nei docenti e negli studenti liberi una nuova sensibilità, una pratica di cittadinanza attiva, una crescita umana. Quando l’ho incontrato, pochi giorni fa, aveva ancora in testa la corona d’alloro. Con i segni dell’emozione in viso, all’ingresso del Polo universitario del carcere torinese Lorusso e Cutugno, stringeva tra le mani la sua tesi. Se per tutti il giorno della laurea è una data memorabile, per Andrea valeva molto di più: era il simbolo e la promessa di un’esistenza nuova, maturata proprio durante la detenzione. Si è laureato a 44 anni ma poteva farlo molto prima, anche perché “fuori” aveva da tempo superato con successo tutti gli esami della magistrale di Giurisprudenza. Ma la vita è andata da un’altra parte: studente modello - fin troppo “libresco” come ama definirsi - nel 2007 abbandona gli studi e si costruisce una carriera da imprenditore che dalla ristorazione approda nel mondo dell’intrattenimento e termina, due anni fa, in carcere, dove dovrebbe rimanere per altri tre anni. Parla di “un blackout di cui sono stato protagonista e vittima, fino a rimanere coinvolto dalle logiche di quel mondo e dalle persone sbagliate con cui mi ero legato. Grazie a Dio, qui dentro ho incontrato le persone giuste, gli educatori e la criminologa che mi hanno accompagnato nella presa d’atto dei miei errori e una tutor che ha supportato il cammino verso la tesi. È stata una ricostruzione della mia persona che mi ha permesso di non ridurre l’esperienza della detenzione a una parentesi in cui la vita si ferma, ma di trasformarla in un trampolino per ripartire. Ora che sono laureato in legge, sarà un punto d’onore non infrangere più la legge”. Andrea è una delle 17 persone detenute che vivono nel Polo universitario della Casa circondariale Lorusso e Cutugno, un’esperienza che ne11998 ha visto Torino come apripista a livello nazionale. Altri 47 sono iscritti all’università ma risiedono ciascuno nelle rispettive sezioni a cui sono state destinate. “Certo, sono una piccola minoranza rispetto ai 1.369 che ospitiamo qui, e molti altri frequentano i livelli di istruzione più bassi, a partire dai corsi di alfabetizzazione - commenta la direttrice Elena Lombardi Vallauri. Molti frequentano la scuola elementare, non senza difficoltà perché devono fare i conti con problemi di tossicodipendenza o disturbi comportamentali. Gli studenti universitari rappresentano un’eccellenza, ma chiunque studia in carcere offre una testimonianza significativa del desiderio di reinserirsi in maniera costruttiva nella società e di utilizzare al meglio il tempo passato qua”. Quando ho incontrato Tommaso a Sulmona, ha esordito con una metafora che racconta un pezzo della sua vita. “In questi anni sono passato dal dire “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” al piacere di rispondere alla domanda di un professore, e ho sostituito l’umiliazione del numero di matricola carceraria con l’orgoglio di quello da studente universitario”. Nel 2017, a 39 anni, si è consegnato alla polizia che era sulle sue tracce per una serie di reati pesanti. Dopo un lungo percorso trattamentale fatto di revisione e di consapevolezza dei danni arrecati alla collettività, nel carcere di Teramo accade quella che lui definisce “la svolta decisiva”: è incuriosito da un gruppo di reclusi che seguono con grande interesse le lezioni di un docente universitario, comincia a frequentarle e viene affascinato “dalla bellezza di ciò che sentivo e che mi insegnava a guardare le cose in modo diverso e positivo, anche se si trattava di argomenti scientifici per me del tutto nuovi. Così, nel giro di qualche tempo, alla monotonia del carcere si è sostituita la passione per lo studio”. Tommaso si iscrive al corso di laurea in Scienze gastronomiche perla sostenibilità, dove ha già sostenuto metà degli esami, viene poi trasferito nel carcere di Sulmona e oggi è uno dei 40 che fanno parte del Polo universitario. A fine pena vuole tornare in Calabria nelle terre di sua proprietà e mettere a frutto gli studi nel settore della trasformazione agroalimentare, ma già ora si sente utile per il messaggio positivo che manda ai due figli: il più grande frequenta la facoltà di Economia, l’altro il quarto anno delle superiori. “Per tanti anni mi ero illuso di poterli gratificare con tante cose materiali mentre in definitiva sono stato per loro un esempio da non imitare, e la detenzione li ha privati del mio affetto di padre. Prima di entrare in carcere ero schiavo di valori negativi, lo studio ha rappresentato l’inizio della conquista della libertà: mi dà sicurezza e mi rende orgoglioso, mi ha permesso di scoprire risorse e capacità che neppure conoscevo e che l’ignoranza, il contesto sociale in cui sono cresciuto e le strade sbagliate che ho percorso tenevano nascoste. Ho avuto la fortuna di incontrare professori che hanno spalancato nuovi orizzonti e hanno offerto molto più che la loro competenza: ci hanno guidato a conoscere noi stessi. Persone davvero speciali, senza di loro il mio riscatto sarebbe stato impossibile. Il carcere è l’officina di riparazione della mia vita”. ragni giorno diventa un gradino per risalire dall’abisso di male in cui era sprofondato, e la riscoperta della fede lo accompagna in un’esistenza nuova. “Mi sento come Zaccheo, un furfante raggiunto e rigenerato dallo sguardo di Cristo. Sono molto consapevole dei giudizi negativi e dei pregiudizi di molte persone nei nostri confronti. Non le biasimo, hanno più di un motivo per nutrirli, ma nel mio cuore sento che quell’uomo innocente condannato a morte in croce è venuto a cercarmi nel buio della mia cella e ha ridato speranza alla mia vita”. Le storie di Enrico e Tommaso sono due punte di un iceberg che sta crescendo nell’oceano del mondo carcerario. Nell’anno accademico 2024-2025 sono 1.840 le persone detenute iscritte all’università, 133 in più dell’anno scorso, il 2,5 per cento del totale, con un trend in continua ascesa. L’età media si aggira intorno ai 45 anni, con un nucleo ristretto di ventenni e trentenni e una forte presenza di ultrasessantenni (tra i quali molti ergastolani) che si iscrivono per gratificazione personale più che ai fini di un reinserimento lavorativo a fine pena. 380 sono i tutor: studentesse e studenti senior, dottorandi e neolaureati, in parte retribuiti e in parte volontari o impegnati nell’ambito di attività didattiche formative che prevedono l’acquisizione di crediti. Nel 20181a Conferenza dei rettori delle università italiane ha promosso la nascita della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari (Cnupp), alla quale aderiscono 47 università presenti in 107 istituti penitenziari. “L’Università fa bene al carcere, ma il vantaggio è reciproco - ragiona il professor Giancarlo Monina, presidente della Cnupp. La presenza dell’università contribuisce al processo di rieducazione e di inserimento sociale e lavorativo dei detenuti e ad aprire il carcere alla società. Ma è vero anche che il carcere fa bene all’università, nel senso che sollecita nei docenti e negli studenti liberi una nuova sensibilità, una pratica di cittadinanza attiva, una crescita umana e culturale. In ambito accademico si parla di “terza missione”, quella dell’impegno sociale e della divulgazione della conoscenza degli atenei”. Molto resta ancora da fare in termini di spazi e di dotazioni tecnologiche, di accesso del personale universitario e di comunicazione tra atenei e carceri, ma ciò che si riesce a fare rappresenta un altro passo per promuovere il diritto allo studio anche tra le persone private della libertà, e per rendere effettivo l’articolo 27 della Costituzione - molto evocato ma troppo disatteso - che evoca la funzione educativa della pena. Recita un detto che circola nelle carceri: ogni detenuto che studia è una branda che si svuota. Le carceri si riempiono di nuovi ergastolani, sono i ragazzi che uccidono spinti dall’odio di Massimo Lorello La Repubblica, 29 aprile 2025 Mentre i genitori delle vittime precipitano nell’ergastolo del dolore, i carnefici si consegnano all’ergastolo giudiziario con raggelante incoscienza. Esiste una nuova categoria di ergastolani che sta riempendo le patrie galere. È composta da giovanissimi che non conoscono il valore della vita umana, che sono pronti a sopprimere quella degli altri e, di conseguenza, a compromettere la propria. Non hanno grandi carriere criminali alle spalle e a volte non ne hanno affatto. Eppure, sono in grado di tagliare la gola a una ragazza colpevole di restare indifferente ai corteggiamenti, sono in grado di uccidere tre persone a colpi di pistola dopo un banale, stupido, irrilevante, diverbio sull’imprudenza nella guida di uno scooter. Mentre i genitori delle vittime precipitano nell’ergastolo del dolore, i carnefici si consegnano all’ergastolo giudiziario (o a condanne pressoché equivalenti) con raggelante incoscienza o forse con una coscienza che la psicologia, la sociologia, l’antropologia non conoscono ancora. Ci sarebbe, invero, un indizio dal quale partire. Ed è la dose quotidiana di odio che tante, troppe persone, anche le più distanti dal crimine, sentono il bisogno di riversare sul resto dell’umanità. Non è disappunto, non è insofferenza, non è intolleranza. È proprio odio. Nessuna generazione e nessuna classe sociale ne è immune, come emerge dai commenti che alimentano i social network. L’odio è il sentimento più familiare del terzo millennio. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”: Papa Francesco ed il mondo dei detenuti di Tito Lucrezio Rizzo L’Opinione, 29 aprile 2025 È appena scomparso Papa Francesco, ma il suo pensiero, le sue parole sono rimaste scolpite nella loro aderenza al Vangelo, tanto innovativa quanto ad esso fedele. Ci è rimasto particolarmente impresso il suo pensiero circa le finalità di un diritto penale che deve mirare più al recupero ed al reinserimento sociale di coloro che hanno sbagliato, che ad una sorta di perenne stigma sociale e morale. Molto significativi si sono rivelati nella materia in questione, i suoi discorsi all’Associazione Internazionale di Diritto Penale (2014 e 2019). Il 23 ottobre 2014, ad un anno e mezzo dalla sua elezione, alla Sala dei Papi, tenne un discorso alla Delegazione dell’Associazione internazionale di Diritto penale, esprimendo preliminarmente il suo ringraziamento per servizio reso alla società e per il prezioso contributo allo sviluppo di una giustizia che rispettasse “la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni”. Preliminarmente volle porre due premesse di natura sociologica che riguardavano l’incitazione alla vendetta ed il populismo penale. Quanto al primo punto, osservò che si viveva in un periodo nel quale, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incitava talvolta alla violenza ed alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti erano responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricadeva “il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge”. In ordine al secondo, tenne a sottolineare che negli ultimi decenni si era diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si potessero risolvere i più disparati problemi sociali “come se - disse - per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”. Non si cercavano soltanto dei “capri espiatori” che pagassero con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma vi era talora addirittura la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: “Figure stereotipate - avvertì - che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”. Stando così le cose, il sistema penale andava oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si poneva sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad allora, non si era potuta dimostrare, neppure per le pene più gravi, come quella di morte. C’era dunque il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente rifletteva la scala di valori tutelati dallo Stato. Si era affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi maggiormente bisognosi di protezione. Si era altresì affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con delle altre sanzioni penali alternative. In tale contesto, la missione dei giuristi non poteva essere altro che quella di limitare e di contenere le tendenze evidenziate. Era un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici ed operatori del sistema penale dovevano svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiavano nella società. Non era accettabile la pena capitale, praticata in numerosi Paesi - già condannata dal predecessore Giovanni Paolo II e dallo stesso Catechismo della Chiesa cattolica - per difendere dall’aggressore la vita di altre persone. In alcuni Stati vi erano degli omicidi veri e propri commessi dai loro agenti, spesso camuffati come scontri con delinquenti o presentati quali conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. Gli argomenti contrari alla pena di morte erano vari, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziario, e l’uso che di tale pena facevano i regimi dittatoriali, che la utilizzavano come strumento di repressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali: tutte vittime queste, che per le loro rispettive legislazioni, erano da considerare “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà erano pertanto chiamati non solo a contrastare la pena capitale, ma anche ad impegnarsi per migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. In tale prospettiva, nel Codice penale vaticano era stato abolito anche l’ergastolo, che costituiva una “pena di morte nascosta”. La carcerazione preventiva - quando in forma abusiva procurava un anticipo della pena, precedente alla condanna, o come misura che si applicava di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso - costituiva un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. La costruzione di un sempre maggior numero di carceri non risolveva il problema, in aree dove il numero dei detenuti senza condanna superava il 50 per cento del totale. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificavano in diverse parti del pianeta costituivano spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale; altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non erano altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà. La reclusione nelle carceri di massima sicurezza costituiva una vera e propria tortura con l’isolamento esterno. Come dimostravano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la assenza di contatti con altri esseri umani, provocavano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso ed incrementavano sensibilmente la tendenza al suicidio. Le torture ormai non erano somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione - pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale - ma costituivano un autentico plus di dolore che si aggiungeva ai mali propri della detenzione. Gli Stati dovevano astenersi dal castigare penalmente i bambini, così come andava escluso o limitato il castigo di chi pativa infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che fossero gli unici responsabili di minori o di disabili; del pari, trattamenti particolari andavano riservati agli adulti ormai in età avanzata. La corruzione era essa stessa anche un processo di morte: “Quando la vita muore, c’è corruzione” disse papa Francesco. Essa era un male più grande del peccato, costituendo “la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole”; ma il Signore non si stancava di bussare alle porte dei corrotti. In ultima analisi, la cautela nell’applicazione della pena doveva essere il principio ispiratore dei sistemi penali, ed il rispetto della dignità della persona umana non solo doveva operare come limite all’arbitrarietà ed agli eccessi degli agenti dello Stato, ma anche come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentavano i più gravi attacchi alla dignità ed integrità della persona umana. Nel discorso pronunciato nella Sala Regia il 15 novembre 2019, il Sommo Pontefice rivolgendosi ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale, criticò preliminarmente “L’idolatria del mercato”, nel momento in cui alcuni settori economici esercitavano più potere che gli stessi Stati, in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduceva ad un modello di esclusione “automatico” che colpiva con violenza coloro che ne pativano i costi sociali ed economici, mentre si condannavano le generazioni future a pagarne gli effetti ambientali. A seguire, il Santo Padre sottolineò che una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, era la scarsa o nulla attenzione che ricevevano i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Il capitale finanziario globale era all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà, ma anche contro le persone e l’ambiente. Si trattava “di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta”. Si trattava di delitti che rivestivano la gravità di crimini contro l’umanità, conducendo alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata ed alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni. Non dovevano restare impunite le contaminazioni massive dell’aria, delle risorse della terra e dell’acqua, la distruzione su larga scala di flora e fauna, e qualunque azione capace di produrre un disastro ecologico o di distruggere un ecosistema. Erano peccati contro le future generazioni e si manifestavano negli atti e nelle abitudini di inquinamento e distruzione dell’armonia dell’ambiente, nelle trasgressioni contro i principi di interdipendenza e nella rottura delle reti di solidarietà tra le creature. La cultura dello scarto, combinata con altri fenomeni psico-sociali diffusi nelle società del benessere, stava manifestando la grave tendenza a degenerare in cultura dell’odio. Si verificavano azioni tipiche del nazismo che, con le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omossessuale, rappresentava il modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell’odio. Andavano combattuti i paradisi fiscali, come pure le appropriazioni di fondi pubblici, che passavano inosservati o erano minimizzati. Tutto gli operatori del sistema penale erano chiamati a ricordare che la legge da sola non poteva mai realizzare gli scopi della funzione penale; ma che anche la sua applicazione doveva aver luogo in vista del bene effettivo delle persone interessate. Al tempo stesso, operando come strumento di giustizia sostanziale e non solo formale, la legge penale avrebbe potuto assolvere il compito di presidio reale ed efficace dei beni giuridici essenziali della collettività, nella prospettiva di una “giustizia penale restaurativa”. Pertanto, le carceri dovevano essere funzionali ad una finalità di recupero del detenuto, alla sua rinascita, nella quale prospettiva occorreva ripensare seriamente la figura dell’ergastolo. “Le nostre società - disse il Pontefice - sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato. Non credo che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico”. Carceri all’estero: il modello danese-belga che “minaccia” anche i detenuti italiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 aprile 2025 Non solo per i Centri di permanenza e rimpatrio per migranti - basti pensare all’esempio italiano, ma anche a quello danese - in Europa si aggira lo spettro dell’esternalizzazione delle carceri. Il Belgio, ispirandosi alla Danimarca, ha avviato trattative per trasferire i detenuti in una prigione riconvertita in Kosovo a partire dal 2027, una possibile via d’uscita per alleggerire l’enorme pressione sul sistema penitenziario. “Ci stiamo ispirando al modello danese, che prevede di trasferire i detenuti in un carcere ristrutturato in Kosovo a partire dal 2027. È una strada che stiamo esplorando e sono già stati avviati i primi contatti sul campo”, spiega la ministra della Giustizia Annelies Verlinden in un’intervista a Le Soir. Il recente accordo del governo di coalizione, guidato dal nazionalista fiammingo De Wever, ha messo sul tavolo 150 milioni di euro extra per il 2025, destinati a combattere il sovraffollamento, a rafforzare il personale e a finanziare le riforme necessarie. Oggi il Belgio dispone teoricamente di circa 11 mila posti, ma ospita più di 13 mila detenuti, oltre a circa 4 mila condannati con pene inferiori ai tre anni ancora in attesa di esecuzione. In passato Bruxelles ha già noleggiato posti in carceri olandesi, ma quelle celle sono ormai tutte occupate. “Non possiamo più aspettare”, avverte Verlinden. “Serve una risposta immediata”. Trasferire prigionieri in Kosovo non significa semplicemente affittare uno spazio vuoto. Occorrono investimenti consistenti, infrastrutture ad hoc, personale dedicato e, soprattutto, un sistema di reinserimento efficace al termine della pena. “Non basta noleggiare un edificio”, puntualizza la ministra. “Dobbiamo costruire un vero e proprio sistema: ogni fase - dal trasferimento al rientro - va pianificata nei dettagli”. E va tenuto presente un orizzonte di lungo periodo: non servono soluzioni tampone, ma strategie che includano la gestione dei detenuti stranieri, le procedure di espulsione e il rispetto dei diritti umani. Esperimento danese ancora sulla carta - Il pioniere in Europa è stato il governo danese. Il 15 dicembre 2021 Copenaghen e Pristina hanno siglato un trattato per l’affitto del carcere di Gjilan a fini di esecuzione delle sentenze in Danimarca. Secondo l’intesa, 300 detenuti - tutti cittadini stranieri, compresi soggetti già colpiti da provvedimenti di espulsione - saranno trasferiti in Kosovo. L’accordo, valido inizialmente per cinque anni e rinnovabile per altri cinque, prevede un contributo danese di 15 milioni di euro l’anno (fino a un massimo di 150 milioni) e ulteriori 5 milioni per ristrutturare la struttura secondo gli standard danesi. Dopo la ratifica del Parlamento kosovaro del 23 maggio 2024, l’intesa è formalmente in vigore, ma l’effettiva messa in opera resta ancora in sospeso. “L’opinione pubblica non è stata coinvolta e non c’è stato alcun dibattito”, denuncia Fatmire Haliti, avvocata e responsabile programmi al Kosova Rehabilitation Center for Torture Victims (KRCT). Finora non risultano consultazioni con associazioni per i diritti umani o organi di monitoraggio. E sono proprio le associazioni per i diritti umani a parlare di “deportazione” verso un Paese tuttora instabile e non soggetto alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Come ha scritto Ignazio Juan Patrone, membro del comitato scientifico di Antigone, sulla rivista Questione Giustizia di Magistratura Democratica, i luoghi di detenzione vengono visitati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura solo in base a un accordo ad hoc stipulato nel 2004 tra il Consiglio d’Europa e l’Unmik (United Nations Mission in Kosovo), l’organismo delle Nazioni Unite che ha assunto il controllo del territorio dopo la guerra della Nato contro la Jugoslavia del 1999 ed è tuttora in funzione. Non essendo uno Stato membro del Consiglio d’Europa, il Kosovo non è parte delle convenzioni promosse da tale organismo né deve conformarsi alle raccomandazioni del Comitato dei Ministri. In soldoni, “deportare” i detenuti stranieri in Kosovo significa farli trattenere in un Paese che non può garantire il rispetto dei diritti umani, in quanto non giuridicamente vincolato agli obblighi previsti dai trattati vigenti. L’Italia potrebbe seguire l’esempio? Il rischio di un’esternalizzazione delle carceri non riguarda solo Belgio e Danimarca, ma anche l’Italia, che ha già sperimentato un caso simile con i Centri di Permanenza per il Rimpatrio in Albania; se dovesse seguire il modello belga, potremmo presto vedere l’invio di reclusi stranieri oltreconfine, con gravi ripercussioni sui diritti fondamentali e sulla tenuta del sistema penitenziario nazionale. I centri albanesi, pensati per accelerare i rimpatri, hanno sollevato dubbi giudiziari e umanitari, rivelando un vuoto di controlli e garanzie per i trattenuti. Se l’Italia spalancasse la porta all’invio di detenuti all’estero, avrebbe poco spazio di manovra per garantire trasparenza, standard detentivi uniformi e monitoraggio indipendente Nel 2023 l’Italia ha siglato con Tirana un protocollo per istituire centri di detenzione amministrativa in Albania, destinati a stranieri irregolari intercettati in mare. Dopo la ratifica, sono già avvenuti tentativi di diversi trasferimenti: l’11 aprile 2025 si è tenuta la quarta operazione di trasferimento in Albania, a conferma dell’applicazione pratica dell’accordo. Il progetto ha suscitato forti critiche: l’idea di deviare i migranti verso un paese ritenuto “sicuro” priva le persone di veri strumenti di protezione internazionale. A ciò si aggiunge la totale assenza di consultazioni con organismi indipendenti: secondo Internazionale, non sono state coinvolte associazioni per i diritti umani né meccanismi di monitoraggio europei Internazionale. La Corte d’Appello di Roma ha già dichiarato illegittimo il trattenimento in Albania di richiedenti asilo, evidenziando il contrasto con le normative UE e italiane sulla tutela dei diritti fondamentali. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha denunciato il rischio di un vuoto normativo: i centri gestiti dall’Italia in Albania non sono soggetti né alla Corte europea dei diritti dell’uomo né alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa. Il risultato è un sistema privo di trasparenza, dove l’applicazione delle norme penitenziarie rimane incerta. Senza dimenticare che le associazioni locali albanesi, come il KRCT, hanno rimarcato l’assenza di dialogo con la società civile, sollevando seri dubbi sul reale rispetto della dignità dei trattenuti stranieri. Se l’Italia decidesse di emulare Belgio e Danimarca, esternalizzando parte dei suoi detenuti in un Paese terzo, rischierebbe uno sfilacciamento del controllo democratico sul sistema carcerario nazionale. Tra le criticità principali ci sarebbe la complessa gestione delle fasi di trasferimento e di rientro, con la necessità di garantire la continuità dei diritti dei detenuti e un coordinamento logistico che finora ha mostrato falle anche nei Cpr albanesi. Il precedente italiano dei Cpr dimostra come misure inizialmente pensate per alleggerire i flussi migratori possano trasformarsi in operazioni di dubbia legittimità, mettendo a rischio tutele fondamentali. Una scelta simile per le nostre carceri finirebbe per ridurre la trasparenza sugli standard detentivi, affidando la supervisione a Stati terzi con condizioni spesso insufficienti a garantire il rispetto della dignità umana. Il pericolo è di creare un sistema a doppia velocità: carceri “domestiche” soggette a controlli e standard europei, e strutture estere con normative meno stringenti e monitoraggio limitato. L’incapacità della politica nell’affrontare il dramma delle carceri di Giunta e Osservatorio Carcere UCPI camerepenali.it, 29 aprile 2025 La vicenda riportata da diversi media relativa alla elezione della dott.ssa Sterpetti a Garante per i diritti delle persone detenute, da parte del consiglio comunale di Asti, dimostra quanto, proprio sulle scelte che riguardano il carcere, sia davvero carente ogni forma di consapevolezza e sensibilità in capo a chi riveste ruoli di responsabilità politica e istituzionale. Individuare figure per ragioni di parte e senza valutazione adeguata di profili di esperienza specifica sul campo delle tutele dei diritti dei detenuti, vuol dire tradire il senso che dovrebbe governare le scelte più opportune, seppure a livello comunale, per un’autorità di garanzia importante quale è quella a presidio delle persone private della libertà personale. E lo è ancor di più, specie in questo particolare momento di dolore e sofferenza nelle carceri, scandito da continui suicidi (29) e decessi non accertati (67), specie tra i detenuti. Leggere, come riportato dalla stampa, che la neoeletta garante abbia manifestato pubblicamente, in passato, disprezzo per la vita umana, in questo caso, di un detenuto, sino ad irriderlo per avere deciso di protestare attraverso uno “sciopero della fame”, auspicandone la morte quale soluzione alla mancanza della pena capitale, palesa tutta l’insensatezza della scelta, adottata solo per far prevalere rapporti di forza politica e senza alcun riguardo verso le ragioni di un così rilevante ruolo. Ciò, più di ogni altro articolato curriculum, manifesta l’assoluta inidoneità della figura prescelta, che offende l’intera istituzione comunale e soprattutto l’intera comunità penitenziaria, fatta di detenuti, operatori, educatori, personale di polizia, volontari, amministrativi, medici e infermieri, che si trova a fronteggiare condizioni detentive dai tratti disumani e degradanti. E non si tratta, certo, di disquisire di sensibilità e/o orientamenti politici, che appartengono alla sfera intima di ognuno e che nulla possono rilevare nella scelta in questione. Siamo dinanzi all’assoluta mancanza di caratteristiche idonee alla funzione, ancor più in ragione dell’assenza, nella delibera istitutiva del garante astigiano, del requisito della comprovata esperienza o formazione specifica. È proprio in questi momenti, proprio su queste scelte che si misura la qualità di una classe politica. Purtroppo, a giudicare da quanto avvenuto ad Asti, si confermano le nostre preoccupazioni per la diffusa incapacità e inadeguatezza oltre che insensibilità dei decisori politici dinanzi alle condizioni delle nostre carceri, sempre più luoghi in cui muore la Costituzione e la nostra civiltà. In serie D c’è una squadra di detenuti: così il calcio diventa uno strumento di inclusione di Leonardo Bartoletti L’Espresso, 29 aprile 2025 Un calcio ai pregiudizi per un modello di recupero fondato sulla pratica del football. Così la Lega dilettanti è entrata negli istituti di Padova e Lanciano, in Abruzzo. Per la prima volta una realtà sportiva istituzionale entra nei penitenziari italiani con l’obiettivo di prendere per mano i detenuti, supportando percorsi di recupero non certo facili. L’obiettivo è quello di raccontare - da dietro le sbarre di un carcere - il coraggio, le salite e le sfide della vita attraverso il pallone. In questo modo il calcio diventa strumento d’inclusione, in grado di contribuire alla creazione di un percorso di rieducazione. Dove lealtà, solidarietà, rispetto dell’altro e delle regole possono essere vera e propria occasione di recupero. L’iniziativa parte dalla Lega nazionale dilettanti, che rappresenta la base del calcio in Italia. Quel modello di sport che è lontano dai grandi stadi ma ben presente sui fangosi campetti di periferia di tutto il Paese, a supporto dell’attività di oltre undicimila società. Il filo portante del percorso è un cortometraggio, che ha come tema il calcio nelle carceri. Ideato dall’Area responsabilità sociale della stessa Lega, il corto - intitolato “Calcio, detenzione e rieducazione” - sviluppa un progetto nel segno dell’inclusione, della lotta agli stereotipi ed alle discriminazioni di genere. Nelle case circondariali di Padova e Lanciano - in provincia di Chieti - la pratica sportiva ha già iniziato a trasmettere positivi modelli relazionali di sostegno a un percorso di reinserimento presente e ben concreto. Il successo di una partita si raggiunge con la cooperazione e l’abbattimento di ogni barriera, da quella linguistica a quella gerarchica. Nelle immagini, nei gesti, nel calcio al pallone, nell’esultanza per un gol, si delinea dunque un viaggio che raccoglie storie di vita e testimonianze di penitenziari dove sono nate due realtà sportive reali: la Polisportiva Pallalpiede di calcio a undici e la Libertas Stanazzo di calcio a cinque. I protagonisti del corto si raccontano attraverso i successi calcistici, spiegati con passione durante i colloqui con i figli in visita, o attraverso gli allenamenti e il senso di squadra. Per molti detenuti respirare l’aria di competizione equivale a riappropriarsi di un sentimento di libertà, impegnandosi così in un nuovo cammino di vita. “Si tratta di progetti che testimoniano come sia importante curare e promuovere l’aspetto sociale che fa parte dello sport e del calcio - dice Giancarlo Abete, presidente della Lega nazionale dilettanti - Ma si può fare di più. In questi anni abbiamo aperto il mondo del calcio dilettantistico a una serie di esperienze che ancora oggi ci arricchiscono e ci completano. Il calcio dilettantistico nel nostro Paese non è solo sport, ma rappresenta il collante di un tessuto sociale che unisce comunità, promuove valori e rappresenta opportunità di crescita per centinaia di migliaia di giovani”. Il progetto “Mettiamoci in gioco” è il primo in Italia a coinvolgere i detenuti di un penitenziario - quello di Lanciano - nel campionato di calcio a cinque di serie D, con una loro squadra, la Libertas Stanazzo. Ogni sabato le porte del carcere di Lanciano si aprono per ospitare il match di campionato. Un percorso iniziato con l’attuale vicepresidente della Federazione italiana giuoco calcio, Daniele Ortolano, che ne ricorda gli inizi: “Abbiamo parlato con le società, chiedendo d’intraprendere questo percorso con noi. Per loro significava andare in carcere a giocare, ma nessuno si è mai tirato indietro. Oggi la nostra Federazione ha tanti progetti e sono felice che sia una vera e propria culla di diffusione di valori, di rispetto e di regole”. Il taglio del nastro del nuovo campo in erba sintetica della casa circondariale, donato dalla Lnd e dal Comitato regionale Abruzzo, ha rappresentato una sorta di tempo supplementare all’insegna della solidarietà e dell’inclusione. Il progetto complessivo fa parte di un percorso denominato “Sopra la barriera”, che ha visto - tra le altre iniziative - anche la nascita di un cortometraggio con storie di calciatrici. Rappresentando in questo modo quella luce che oltrepassa le sbarre di una cella. “Il calcio ha la straordinaria possibilità di svolgere ruoli diversi in un solo momento - spiega Luca De Simoni, coordinatore dell’area responsabilità sociale della Lega nazionale dilettanti - perché aiuta il benessere psico-fisico, ha una funzione sociale, aiuta l’inclusione e riesce perfino a far sentire liberi i ragazzi che lo praticano in un contesto di detenzione”. “Se pensiamo che questo campo, all’inizio, era fatto di terra e le linee venivano tracciate col gesso, ci rendiamo conto di quanta strada abbiamo fatto e di quanto importante sia diventato questo nostro progetto”, ricorda il presidente Lnd Abruzzo Concezio Memmo, ricordando la prima partita giocata in carcere. “Con tutti i ragazzi affacciati alle finestre a tifare per i loro compagni scesi in campo. Una grande emozione che contribuisce settimanalmente alla socialità e al reinserimento attraverso il calcio”. Una strada tracciata da pallone e linee del campo, in grado di favorire l’inclusione. “Lo sport si dimostra giorno dopo giorno, strumento per diffondere i valori del rispetto di quelle regole che i nostri ragazzi, in un momento particolare della loro vita, non hanno seguito - conclude la direttrice del penitenziario lancianese, Daniela Moi - Onore e merito a quanti hanno creato le condizioni per fare arrivare dentro le mura di questa struttura un modello sano e positivo. Utile ai detenuti, ma non soltanto, per capire che questa è l’unica strada sicura da seguire”. È “necessario e urgente” rifondare il DL sicurezza di Glauco Giostra sistemapenale.it, 29 aprile 2025 1. Difficile immaginare un esempio altrettanto efficace del decreto-legge n. 48/2025 per spiegare come non andrebbe esercitato il potere di legiferare, soprattutto in materia penale: carente il presupposto costituzionalmente richiesto per bypassare il confronto parlamentare; inadeguato il drafting legislativo; insensato l’assemblaggio di temi, rationes e destinatari, così eterogenei da risultare espressione più di un fenomeno di incontinenza securitaria che di un organico disegno di riforma. 2. Il presupposto. Vistosamente assente il presupposto che legittima eccezionalmente l’Esecutivo a emettere provvedimenti aventi forza di legge: la necessità e l’urgenza. Carenza su cui, evidentemente, conveniva lo stesso Governo se aveva ritenuto inizialmente di intraprendere il percorso legislativo ordinario, sottoponendo in modo corretto il suo proposito riformistico allo scrutinio parlamentare. L’asperità del percorso, gli autorevoli giudizi critici ricevuti da Autorità europee, da esperti delle Nazioni unite, dal Quirinale, dall’ Accademia, dall’avvocatura e dalla magistratura, nonché la maldissimulata contrarietà di una parte della compagine governativa a ogni modifica del provvedimento in questione che ne mitigasse la drasticità punitiva e discriminatoria, hanno indotto a escogitare un imbarazzante espediente: quello di accorgersi improvvisamente della ineludibile impellenza di tutte le novità normative proposte. Così, succede di dover leggere nel preambolo giustificativo del disegno di legge che si ravvisa la necessità ed urgenza di prevedere che “nel caso in cui la persona sottoposta alla misura della custodia cautelare presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri” tenti di evadere il giudice disponga nei suoi confronti la custodia cautelare in carcere e che di regola la persona venga condotta in istituto senza la prole; come pure, di prevedere “disposizioni in materia di vittime dell’usura”; come pure, di introdurre il reato di resistenza, anche passiva “all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ ordine e della sicurezza” in carcere. È evidente quali siano nell’operazione le vere necessità e urgenze: la necessità di sottrarre alle crescenti critiche, anche sovrannazionali, la proposta normativa e l’urgenza di rassicurare un parte della maggioranza, insofferente alle modifiche che, anche a seguito dell’intervento del Presidente della Repubblica, si erano già rese necessarie e preoccupata delle altre che si andavano prospettando. Motivazione politicamente comprensibile, costituzionalmente e democraticamente inammissibile. 3. Il profilo tecnico. Dal punto di vista della tecnica normativa, il provvedimento de quo porta a livelli non più tollerabili una tendenza che già nelle legislature precedenti ha trovato manifestazioni non infrequenti. Una deprecabile prolissità analitica nella formulazione delle fattispecie e la tendenza ad assemblare maldestramente interventi eterogenei ed asistematici. Una regola fondamentale - e sempre più ignorata - che dovrebbe presiedere al drafting normativo è la rigorosa e nitida essenzialità. Nella proposizione normativa quod abundat vitiat (anche a voler ammettere che minuziosità precettive come, ad esempio, quelle di identico tenore contenute nel secondo comma degli artt.22 e 23 del Decreto abbiano senso logico e giuridico). Non solo perché induce disorientamenti interpretativi, prestandosi a comparazioni con fattispecie omologhe connotate da minori ridondanze descrittive; comparazioni, in forza delle quali l’argomento a contrario produce spesso esiti esegetici molto diversi. Ma anche perché, contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, l’analiticità prescrittiva consegna non poche situazioni all’anomia, specie nel settore penale in cui alla mancata previsione non si può sopperire con l’analogia. Gli interventi eterogenei ed estemporanei, poi, hanno finito per rendere il nostro sistema inguardabile e privo di quella che dovrebbe essere la sua prima qualità: la nitida organicità. Già più di un secolo fa, Luigi Lucchini ammoniva: “il guaio è che da certi ritocchi (stile ministeriale), da certi rimaneggiamenti a spizzico, da certe ricatapecchiature sarebbe folle ingenuità sperare di cavarne qualche costrutto”. 4. Il contenuto. Salvo pochissime eccezioni (ad esempio, in materia di custodia cautelare e di lavoro durante l’esecuzione penale), il puzzle normativo del provvedimento in esame ha un denominatore teleologico comune: la tutela della sicurezza. Estrarre dal cilindro legislativo figure di reato di nuovo conio; inasprire le pene per quelle già esistenti; criminalizzare anche la protesta non violenta dei soggetti ristretti in condizioni disumane; introdurre ulteriori ipotesi di ostatività alla fruizione delle alternative al carcere; ipertutelare le forze dell’ordine, sono note diverse dello stesso spartito. Coerentemente con il demagogico mantra di questa maggioranza, che, complice una narrazione mediatica allarmistica e sensazionalistica, lucra elettoralmente sulle paure della gente, anche questo provvedimento per più profili illiberale e distonico rispetto a uno Stato di diritto usa il passepartout della tutela della sicurezza pubblica; locuzione “messa lì a fare da parafulmine” - per dirla con André Gide - e incollata sul provvedimento “come certe etichette con la scritta “sciroppo” o “gazzosa” sulle bottiglie di whisky durante il proibizionismo”. Una sorta di pubblicità ingannevole, a cui in questa democrazia emotiva, percorsa da un pandemico senso di precarietà, di insicurezza e di pericolo sempre imminente, la collettività non mancherà di dar credito. Vale sempre quanto scriveva Christa Wolf nella Medea: “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci”. E che la risposta penale, e in particolare il carcere vissuto come rimedio in grado di rinchiudere tutti i pericoli entro fatiscenti ma invalicabili mura, sia populisticamente redditizia lo dimostrano la sciagurata propensione con cui ad essa ricorrono le forze politiche che hanno lo slogan “legge e ordine” nel loro DNA e la titubante, spesso omissiva, sempre flebile resistenza che a questa visione carcerocentrica oppongono quelle forze pur consapevoli che la sicurezza dipende da ben altre provvidenze sociali e culturali. Si ha ragione di ritenere che sia soltanto l’elevata redditività elettorale a spingere verso una politica panpenalistica, non certo la fiducia riposta nella sua efficacia. Del resto, poiché in questa sconcertante stagione dobbiamo quotidianamente gettare lo sguardo oltre oceano, basterebbe cogliere l’occasione per riflettere su un sistema come quello statunitense che, nonostante la popolazione penitenziaria più numerosa del mondo e l’accentuato armamentario repressivo, nel quale trova ancora barbaramente posto la pena di morte, registra uno dei più alti indici di criminalità. Attribuire a una certa politica accanitamente securitaria un mero calcolo di natura elettorale, in fin dei conti, è un modo per non rassegnarsi al noto, duro lascito di Leonardo Sciascia secondo cui i fanatici della pena “godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza, sostanzialmente restando immobili nell’eterno fascismo italico. Lo Stato che il fascismo chiamava ‘etico’ (non si sa di quale eticità) è il loro sogno e anche la loro pratica. Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede: contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti” (A futura memoria, se la memoria ha un futuro, 1989). 5. La lenzuolata di novità normative ad alta illiberalità ed a bassa efficienza del decreto legge in conversione, come si diceva, fa più pensare ad una manifestazione di demagogico giustizialismo, che altro non è se non il cugino del populismo che ha studiato legge. Emblematico il modo di affrontare il drammatico problema del sovraffollamento delle nostre carceri, da cui con agghiacciante frequenza, si leva un esangue indice accusatore: “devi rispondere anche di questa mia morte, tu Stato, che invece di limitarti a punirmi, mi hai umanamente distrutto”. Il Ministro della Giustizia Nordio chiarisce in Parlamento che il sovraffollamento e le sue conseguenze dipendono dal numero di coloro che commettono i reati. Spiegazione che oscillerebbe tra l’insensato e l’irridente, tanto più provenendo da una figura di qualificata esperienza, se non andasse letta unitamente alle provvidenze contenute al riguardo nel decreto in esame. Viene aumentato il numero dei reati e vengono aumentate le pene; innovazione, certo in stridente contrasto con l’affermazione di cui sopra, essendo destinata nel medio periodo ad aggravare la situazione penitenziaria. Ma, ed è questo l’elemento chiarificatore, come si pensa di gestire una situazione fatalmente sempre più ingestibile? Introducendo il reato di rivolta carceraria per punire anche la resistenza passiva. Così tutto torna, nel disegno politico: si esibisce alla insicura collettività il rigonfio bicipite della repressione penale; non si nega che questo rassicurante approccio aggraverà purtroppo la realtà carceraria: aumenteranno i suicidi, gli autolesionismi, i tentativi di rivolta, le aggressioni nei confronti degli agenti penitenziari, ma, se ne risente l’ordine intramurario, gli autori saranno ancora più puniti e più disumanamente stipati. Non è una strategia politica eticamente accettabile, né costituzionalmente praticabile, ma sul piano del consenso è altamente pagante: la collettività si sentirà (ingannevolmente) rassicurata, pur con qualche rincrescimento di circostanza, nel vedere le personificazioni delle loro paure compresse in sicuri contenitori murari. E, quando ciò avrà prodotto l’auspicato lucro in termini di consenso, le forze politiche che ne avranno beneficiato avranno buon gioco a sostenere di essere state votate per proseguire nella medesima direzione. L’aggravante per i reati vicino alle stazioni e non solo. Tutte le follie del Decreto Sicurezza di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 aprile 2025 Dallo scorso 12 aprile in Italia commettere un furto, una rapina, una violenza sessuale o persino un omicidio “all’interno o nelle immediate adiacenze” (qualunque cosa questo significhi: nel raggio di 100 metri? 200? Di più?) delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane è più grave che commettere questi stessi reati in qualsiasi altro posto. Tutto ciò è conseguenza dell’entrata in vigore del decreto sicurezza, approvato dal governo in Consiglio dei ministri il 4 aprile, poi pubblicato in Gazzetta ufficiale una settimana dopo. Un provvedimento schizofrenico, sotto innumerevoli punti di vista. Innanzitutto quello del metodo: il governo ha deciso di trasferire improvvisamente in un decreto legge un intero disegno di legge presentato oltre un anno fa e al cui esame erano state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi professori ed esperti. Di colpo il governo ha individuato delle ragioni di “necessità e urgenza” per adottare queste misure attraverso un decreto, anche se non è dato sapere quali siano queste ragioni, visto che il provvedimento ne fa riferimento soltanto in termini generici. Come risultato, comunque, il Parlamento è stato “scippato” dal governo dell’esame del ddl. Ma la schizofrenia più evidente si rintraccia nei contenuti del decreto, che dovrà essere convertito in legge entro sessanta giorni. Il testo prevede l’introduzione di 14 nuovi reati, l’aumento di pena per 9 reati e l’introduzione di svariate aggravanti. Alla faccia delle promesse del ministro della Giustizia Carlo Nordio di combattere il populismo penale. Una delle norme più assurde è proprio quella che prevede l’introduzione di una nuova circostanza aggravante comune: quella dell’aver commesso il fatto nelle aree interne o nelle immediate adiacenze delle infrastrutture ferroviarie o dei convogli adibiti al trasporto passeggeri. Un modo, nell’ottica del governo, di disincentivare la commissione di reati come rapine, furti e violenze sessuali nelle stazioni ferroviarie, ma che appare veramente illogico sul piano penale (un’aggravante simile non è prevista, ad esempio, se gli stessi reati vengono commessi in luoghi altrettanto - se non maggiormente - rilevanti, come ospedali o scuole). Il provvedimento introduce poi il reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, prevedendo la pena della reclusione da due a sette anni. L’occupazione di un immobile era già sanzionata dal codice penale (invasione di terreni o edifici) con una pena fino a tre anni. La pena di sette anni sembra violare completamente il principio di proporzionalità. Basti considerare che un reato odioso come la violenza sessuale è punito con una pena minima di sei anni, oppure che il reato di tortura prevede una pena minima di quattro anni. Ancora più incredibile è la disposizione che prevede la repressione della resistenza passiva in carcere, equiparata alla rivolta commessa con atti di violenza. Una fattispecie penale ben lontana dal rispettare il requisito di tassatività, ma che farà sì che nel caso in cui almeno tre detenuti decidano di avviare una forma di protesta passiva, per esempio rifiutando il vitto, possano essere denunciati e puniti con la reclusione da uno a cinque anni. Ancora più grottesche le norme successive: se dal fatto (cioè dalla resistenza passiva) “deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni”; se la conseguenza non voluta è la morte “la pena è della reclusione da sette a quindici anni”. Come da una resistenza passiva possano derivare lesioni personali o la morte di qualcuno è un mistero. L’articolo 13 del decreto sembra invece comportare una palese violazione del principio costituzionale di non colpevolezza, prevedendo che il questore può disporre il divieto di accesso “alle aree delle infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze” anche “nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti” per determinati reati. Queste sono solo alcune delle norme più schizofreniche del decreto legge, bocciato nei giorni scorsi in audizione alla Camera dall’Unione camere penali e dall’Associazione nazionale magistrati. Quasi 260 costituzionalisti e giuristi hanno sottoscritto un appello pubblico in cui evidenziano l’incostituzionalità del decreto. Il testo è stato contestato anche dall’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che ha programmato una serie di iniziative pubbliche nelle università dal 26 al 30 maggio. “Il Decreto Sicurezza? Un errore colpire la cannabis light”. Parla Caner, assessore leghista veneto di Francesco Gottardi Il Foglio, 29 aprile 2025 Il settore coinvolge 30mila imprese italiane, 30mila dipendenti e mezzo miliardo di fatturato: “Capisco il tema degli stupefacenti e del loro abuso, ma la canapa ha anche altri utilizzi. Questi vanno tutelati. E su questo insisteremo nella lettera che siamo pronti a inviare a Roma”. Un paziente appello al buonsenso. A prescindere dal colore politico. Cioè lo stesso: la Lega. Da dove parte il provvedimento a tappeto contro la cannabis light - il decreto sicurezza targato Salvini, ormai in vigore - e che al contempo, sul territorio, cerca di arginarlo. “Il nostro non è un attacco al vicepremier, ma il bisogno di porre delle problematiche concrete all’attenzione del governo”, dice al Foglio Federico Caner, assessore leghista con delega all’Agricoltura in Veneto. “Ci sono in ballo posti di lavoro, un intero settore produttivo: questa manovra mette in ginocchio migliaia di aziende di punto in bianco. Ben oltre la regione che rappresento. Capisco il tema degli stupefacenti e del loro abuso, ma la canapa ha anche altri utilizzi. Questi vanno tutelati. E su questo insisteremo nella lettera che siamo pronti a inviare a Roma”. L’amministratore eletto in quota Carroccio, da due legislature nella giunta di Zaia, parte dai numeri: nel nostro paese ci sono circa 30mila imprese che lavorano legalmente la cannabis light, a cui corrispondono 30mila dipendenti e mezzo miliardo di fatturato (per il 90 per cento da esportazioni). È pur sempre Made in Italy. “Tutto questo andrebbe in fumo da un giorno all’altro”, spiega Caner. “Perché il decreto sicurezza consente alla filiera di seminare, ma non di raccogliere e vendere il prodotto: una perdita totale anche dal punto di vista agricolo”. E al ministero dell’Agricoltura infatti si rivolgeranno i politici locali. “Ho già parlato al telefono con il sottosegretario La Pietra”, numero due di Lollobrigida al dicastero. “E ha riconosciuto l’importanza del tema: percepisco un’apertura, stiamo pensando a una soluzione collettiva. Anche perché, dalla Liguria in giù, tutti i miei colleghi hanno lo stesso problema. Pure nelle regioni governate dal centrodestra come il Veneto: qui c’è in ballo l’esigenza comune di salvare posti di lavoro e una coltivazione che per i suoi specifici usi ha la sua ragion d’essere. È ciò che chiederemo oggi in Commissione politiche agricole della Conferenza delle regioni. Serve una soluzione immediata”. Caner fa capire a più riprese “di non voler creare polemiche o motivi di scontro politico: a prescindere dal fatto che sia leghista, non posso ignorare le istanze del territorio e delle imprese. Anche le associazioni di categoria ci fanno pressione”. Dunque quale sarà la strada da intraprendere, da qui in avanti? “Aprire un tavolo con il governo e modificare la normativa. Il settore della cannabis light è di nicchia, ma è in crescita e ha enormi potenzialità inesplorate. Occorrono protocolli stabiliti dalla legge per tutelarla e chiarire le differenze con l’abuso degli stupefacenti. Ripeto: comprendo la ratio del decreto, ma senza le opportune specificazioni si rischia di compromettere anche chi queste coltivazioni le fa in modo conforme e secondo gli utilizzi della società civile”. L’amministratore zaiano insomma non si fa ingannare dall’intramontabile equazione d’antan, canapa uguale droga. A differenza di qualche luminare nei palazzi romani. “Quando si fa una norma, viene formulata tenendo a mente un certo obiettivo ideale. Quando poi questa si cala nella realtà, spesso succede che debba andare rivista e corretta. È la normalità”. Allora sorge un dubbio. In Italia la cannabis a ordinario contenuto di Thc è già illegale: se dopo le revisioni normative si andranno a salvaguardare le produzioni con percentuali al di sotto dello zero virgola, com’è stato finora, a cosa servirà il nuovo decreto sicurezza? Diventa una scatola vuota? “Il tavolo di concertazione sarà utile anche a capire cosa ne rimane”, ammette Caner. “Può anche darsi che un certo decreto venga superato e tolto: si tratta di questioni diversificate”. E a quel punto, la manovra di Salvini sarà tale a tutti gli effetti: bolla mediatica, specchio per le allodole. “Quel che ci preme è che lo status quo porterebbe a un enorme spreco di risorse e di valore sociale. Ma poi, pensate davvero che le aziende della canapa - all’interno di una filiera che deve certificare ogni quantitativo e componente del prodotto - abbiano davvero finalità altre rispetto alla commercializzazione?”. Secondo Lollo e Salvini fa male pure l’acqua. Praticamente vivono d’aria. E di decreti. Penalisti, sciopero nazionale dal 5 al 7 maggio: “Decreto Sicurezza anticostituzionale” laprovinciacr.it, 29 aprile 2025 L’Unione delle Camere Penale Italiane: “Un pacchetto improntato non alla prevenzione ma unicamente alla punizione a costo zero”. L’Unione delle Camere Penale Italiane ha deliberato tre giorni di astensione dalle udienze e da tutte le attività nel settore penale, dal 5 al 7 maggio 2025, contestando con forte preoccupazione i contenuti del decreto sicurezza, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 11 aprile ed entrato in vigore il giorno successivo. “Si tratta di un provvedimento nel quale - afferma la Camera Penale Lombardia Orientale in una nota -, dopo più di un anno di discussione in Parlamento dell’originario Disegno di Legge, è confluito pressoché integralmente il testo precedente: un testo che mette in discussione principi costituzionali e garanzie fondamentali. Prima ancora del testo, ci preoccupa il metodo: si tratta di un evidente abuso dello strumento della decretazione d’urgenza, non sussistendone i presupposti costituzionali”. “Quanto ai contenuti - prosegue la nota - UCPI si unisce alle molte voci autorevoli che evidenziano le criticità di questo “pacchetto sicurezza”, improntato non alla prevenzione ma unicamente alla punizione a costo zero e all’offerta alla pubblica opinione di soluzioni di impatto esclusivamente simbolico, che non miglioreranno la sicurezza dei cittadini. Preoccupa la scelta di reprimere con lo strumento penale forme di dissenso che devono potersi manifestare in una società democratica, così come l’accanimento verso una micro-criminalità marginale o ideologicamente oppositiva”. “Ancora una volta assistiamo all’introduzione di nuove, inutili fattispecie di reato - snocciola la Camera Penale -, di aggravanti dalla ratio incomprensibile, di misure che vanno nel senso diametralmente opposto a quello dell’auspicabile implementazione delle pene e misure alternative al carcere, nonostante la nota, drammatica situazione in cui versano le carceri italiane quanto a sovraffollamento, carenza di lavoro e attività trattamentali, insufficiente tutela della salute fisica e mentale dei reclusi: tutte circostanze destinate a peggiorare la sicurezza nel nostro Paese se non si interverrà, dato che una detenzione vissuta in queste condizioni è destinata ad aumentare il pericolo di recidiva”. “La Camera penale della Lombardia Orientale ha indetto quindi l’assemblea straordinaria il giorno 5 maggio alle ore 10 presso l’aula Panettieri del Tribunale di Brescia per un confronto a più voci e da diversi punti di vista, sui temi imposti dall’iniziativa normativa. Per discuterne e fare emergere i diversi punti di vista, vi invitiamo a partecipare anche con vostri interventi che saranno davvero apprezzati, opportuni ed utili a sviscerare tutti gli aspetti critici e magari anche ad evidenziare soluzioni per sollecitare il Parlamento e gli eletti sul nostro territorio ad adottare tutte le opportune modifiche al Decreto” conclude la nota. La prescrizione può attendere: la premier frena ancora di Errico Novi Il Dubbio, 29 aprile 2025 Calma e gesso. È il motto di Giorgia Meloni, vale per molti dossier e in certi casi è una parola d’ordine ineludibile. Tra le materie da trattare con cautela va ricordata sicuramente la prescrizione. La riforma approvata nell’ormai “lontano” gennaio 2024 in prima lettura alla Camera. Ma rimasta poi sospesa, “come un fiocco di neve che non cade in nessun posto”, avrebbe detto il geniale Salvatores di “Nirvana”, per qualcosa come 15 mesi. Nei giorni scorsi qualcosina si è mosso, sulla legge che ripristina il regime sostanziale nel calcolo del tempo d’estinzione dei reati. Ma in realtà, si tratta di manovre che, secondo quanto filtra da Palazzo Chigi, non preludono a un cambio della suddetta parola d’ordine. Detto in altri termini: la riforma della prescrizione non subirà alcuna particolare accelerazione, procederà con un ritmo abbastanza placido da lasciare che nel frattempo la separazione delle carriere venga approvata in via definitiva dal Parlamento e sigillata dal referendum. Poi si parlerà del resto, nuova prescrizione inclusa. Eppure, alcuni “movimenti” sulla riforma storicamente cara a Forza Italia si sono registrati, nei giorni scorsi. In commissione Giustizia al Senato è stato indicato un relatore del testo, Sergio Rastrelli, di Fratelli d’Italia e segretario di presidenza dell’organismo guidato dalla leghista Giulia Bongiorno. A segnalare il piccolo ma certo non insignificante passo avanti è stato, la scorsa settimana, il Fatto quotidiano. E il giornale diretto da Marco Travaglio ha anche raccolto le immediate reazioni della magistratura, ostile fin dal principio alla nuova prescrizione: in un’intervista pubblicata domenica, il presidente della Corte d’appello di Venezia Carlo Citterio si è fatto portavoce del disappunto comune a tutti i suoi colleghi, cioè a tutti i vertici degli altri 25 distretti di Corte d’appello italiani, e ha detto che se davvero quella riforma fosse approvata così com’è anche da Palazzo Madama, ed entrasse dunque in vigore, ne deriverebbe “un’ecatombe di processi”. Refrain ormai arcinoto: secondo i magistrati, le regole che reintroducono un meccanismo analogo a quello previsto dalla riforma Orlando del 2017 (poi “benedetto” dalla più autorevole delle commissioni di studio pronunciatesi di recente, quella nominata da Marta Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi) inciderebbero in modo esiziale sulla macchina giudiziaria. I 26 presidenti sostennero, in una lettera inviata al guardasigilli Carlo Nordio e al Parlamento, che la “nuova” (si fa per dire) prescrizione avrebbe reso inestricabile o comunque faticosissimo ridefinire la scadenza dei procedimenti che pendono in secondo grado. Il problema, nell’ottica dei capi degli uffici giudiziari, è che le norme sulla prescrizione già approvate alla Camera ripristinerebbero il termine d’estinzione del reato calcolato a partire dalla data in cui si presume il reato sia stato commesso, e in tal modo le 26 Corti d’appello sarebbero costrette a ricalcolare gli “expiring times” di tutti i fascicoli, attualmente catalogati invece in base alle norme sull’improcedibilità. Un lavoro extra che rallenterebbe, dicono sempre i vertici degli uffici di secondo grado, il ritmo dello smaltimento, proprio in vista del traguardo degli obiettivi concordati con l’Ue per il Pnrr. Un rischio fatale, insomma, che secondo la magistratura imporrebbe, al testo sulla nuova prescrizione, un correttivo. Una clausola di salvaguardia che escluda, dall’applicazione delle nuove norme sostanziali, i procedimenti già incardinati e calendarizzati in ossequio al regime dell’improcedibilità. Tutto noto. Anche al ministro Nordio e al suo vice Francesco Paolo Sisto, di FI, che con i sottosegretari alla Giustizia Andrea Delmastro, di FdI, e Andrea Ostellari, della Lega, definirono nei minimi dettagli l’ingranaggio della riforma tra fine 2023 e inizio 2024. Le perplessità dei 26 presidenti furono ignorate, anche perché la norma transitoria da loro invocata avrebbe finito, secondo il governo, per creare ulteriori complicazioni, visto che la prescrizione è, appunto, istituto di diritto sostanziale e prima o poi la Consulta avrebbe censurato una clausola eventualmente concepita per escludere, di quell’istituto, la retroattività. Dopodiché la querelle fu comunque risolta, anzi congelata. Intervenne la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e disse a chiare lettere: fermiamoci, con la legge sulla prescrizione, come su altre riforme non prioritarie. Non mettiamo troppa carne sul braciere. Ecco, il punto è che l’indicazione di Palazzo Chigi si è appena rinnovata, a dispetto di quanto poteva far credere la nomina di un senatore meloniano come Rastrelli a relatore della riforma. La presidenza del Consiglio continua a chiedere di tenere dritto lo sguardo sull’unico obiettivo che, in ambito giudiziario, è considerato meritevole di corsie preferenziali: la separazione delle carriere. Tutto il resto, come diceva una pubblicità Fiat degli anni Ottanta, è relativo. Inclusa la nuova prescrizione. Che attenda. Come dovrà attendere (forse fino alla prossima legislatura) la legge Tortora sulla Giornata per le vittime degli errori giudiziari, bloccata a Montecitorio dopo lo stop imposto proprio dall’Esecutivo. A Palazzo Madama la prescrizione non sarà proprio messa in freezer, ma dovrà procedere “con juicio”. La presidente della commissione Giustizia Bongiorno non ha ancora chiesto ai capidelegazione dei partiti di formalizzare le proposte per gli esperti da audire. E anche quando lo farà, ci vorranno poi mesi perché si arrivi all’esame degli emendamenti. Diversi mesi. Abbastanza da consentire alla separazione delle carriere di imboccare il rettilineo finale e di correre per l’ultimo sprint, senza altri competitor a disturbarne la volata. Riforma Nordio, mille emendamenti di Valentina Stella Il Dubbio, 29 aprile 2025 Il presidente della commissione Giustizia del Senato: “Così sarà paralisi”. E il professor Guzzetta fa chiarezza sui tempi per il voto del ddl costituzionale. Si preannuncia battaglia nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia del Senato in merito alla riforma sulla separazione delle carriere. Dopo il via libera arrivato alla Camera dei deputati lo scorso 16 gennaio, la discussione nei due organismi di Palazzo Madama è iniziata nel giro di quindici giorni. Si sono poi tenuti sei cicli di audizioni, in totale venticinque sedute dei senatori- commissari. E oggi si iniziano a votare gli emendamenti. Ma come ci riferisce il Alberto Balboni, senatore di Fratelli d’Italia, presidente della Prima commissione e relatore del provvedimento, questi emendamenti “sono quasi tutti ostruzionistici: sono oltre un migliaio, e calcolando 20 minuti ciascuno fanno 20mila minuti, ragione per cui per arrivare a votare il mandato al relatore ci vorrebbero almeno sei mesi. Mi pare chiaro”, prosegue il vertice della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, “che l’obiettivo delle opposizioni è costringere la maggioranza ad andare in Aula senza relatore per poi gridare allo scandalo”. Da qui l’appello a Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra: “Io credo invece che le opposizioni farebbero cosa più utile al confronto democratico se riducessero gli emendamenti ad un centinaio e consentissero un vero dibattito di merito. Non è accettabile che la minoranza pretenda di porre il veto sui provvedimenti della maggioranza contenuti nel programma elettorale, e quindi votati dagli italiani, come appunto la separazione delle carriere. Questo modo di fare ha poco a che fare con la democrazia e molto con la patologica arroganza della sinistra”. Insomma, parole molto dure quelle del senatore Balboni, che si vanno a scontrare con quelle pronunciate in commissione qualche settimana fa dal senatore dem Alfredo Bazoli: “Il ministro Nordio ha ribadito la sostanziale inemendabilità del disegno di legge governativo, perpetrando un metodo di intervento inaccettabile e pericoloso, in quanto preclude il contributo correttivo delle Camere e imposta l’iter della riforma secondo un metodo plebiscitario, in spregio al Parlamento e alle opposizioni, che non sono messe in grado di correggere la riforma, sulla quale sarà poi chiamato a pronunciarsi il corpo elettorale con il referendum. Si instaura, in tal modo, un precedente molto pericoloso, che legittimerà, in futuro, interventi analoghi da parte di qualunque governo e di ogni maggioranza”. Difficile quindi che dai banchi dell’opposizione si faccia un passo indietro e si ritirino le proposte emendative. “Perché dovremmo?”, ci risponde lapidario proprio Bazoli. L’obiettivo è quello di procrastinare il più a lungo possibile la discussione e ritardare l’approdo al referendum, ingaggiare una guerra dei nervi con la maggioranza, far avvicinare il più possibile l’appuntamento plebiscitario alle elezioni di rinnovo del Parlamento, dando più spazio all’Anm per la sua campagna comunicativa contro la consultazione. Ma quali sarebbero poi i tempi? Come ci spiega il costituzionalista Giovanni Guzzetta, “il testo della Costituzione (“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”, ndr) consente due interpretazioni. La prima: i tre mesi vengono calcolati dall’approvazione nella prima Camera. Quindi se a Montecitorio la riforma è passata il 16 gennaio, sarebbe già potuta tornare alla Camera dal 17 aprile, dopo ovviamente l’approvazione in Senato. Questa è l’interpretazione prevalente. L’altra, che invece non si è affermata, prevede che i tre mesi si computino dall’approvazione in seconda lettura. Quindi dovrebbe essere Camera- Senato, intervallo di tre mesi, Camera-Senato”. E dopo che succede? Come spiega il sito piattaformacostituzionale. camera. it, dopo l’approvazione, in seconda votazione, a maggioranza assoluta ma inferiore a due terzi dei componenti di Camera o Senato, ha luogo la pubblicazione del testo della legge in Gazzetta ufficiale, preceduta dall’avvertimento che i soggetti previsti dall’articolo 138 della Costituzione possono chiedere, entro tre mesi dalla pubblicazione, che si proceda a referendum, con apposita richiesta da far pervenire, da parte dei delegati dei richiedenti, alla cancelleria della Corte di Cassazione. Qualora la richiesta sia presentata da almeno un quinto dei membri di una delle Camere, le sottoscrizioni devono essere autenticate dalla segreteria della Camera cui appartengono, la quale attesta che essi sono parlamentari in carica. L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione con il compito di verificare la conformità della richiesta di referendum alle disposizioni dell’art. 138 Cost., decide sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione, termine ultimo per contestare ai presentatori le eventuali irregolarità. Esso poi comunica quindi l’ordinanza sulla legittimità della richiesta di referendum al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente della Corte costituzionale, nonché ai delegati dei richiedenti. Il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, indice il referendum con proprio decreto entro 60 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo ha ammesso. Il referendum si svolge in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione, le operazioni di voto si estendono alla giornata del lunedì successivo. Volendo tirare le somme: tra i tempi politici in Parlamento e quelli tecnici per indire il referendum appare alquanto impossibile che vi si possa giungere entro quest’anno, benché tale sia stato più volte l’auspicio del guardasigilli Nordio. La giustizia riparativa non indebolisce ma irrobustisce un sistema penale laico di Valentina Bonini* I Dubbio, 29 aprile 2025 Una strada lastricata di paradossi è toccata in sorte alla giustizia riparativa in Italia: a fronte di un quadro giuridico completo e avanzato si riscontra una inapplicazione della disciplina del 2022 per il ritardo nella creazione dei servizi riparativi; su norme che, quindi, non potrebbero oggi essere applicate, si registra un fervore giurisprudenziale che ha già portato a interessare le sezioni unite (in tema di impugnabilità dell’ordinanza ex art. 129- bis c. p. p.); last but not least, su una materia che nasce con l’obiettivo di coltivare il dialogo in luogo del conflitto, il dibattito si è fatto estremamente polarizzato. A ben vedere, quest’ultimo è l’aspetto più roboante ma meno sorprendente, se è vero che il paradigma riparativo reca con sé una tale innovatività da essere definito “rivoluzionario”. E le rivoluzioni portano con sé i rischi del novum, tra i quali c’è anche quello di restare incagliati tra letture proiettate verso l’auspicio di un futuro luminoso o, al contrario, ancorate alla tutela delle conquiste del passato. In questa lunga fase di messa in opera della disciplina organica della giustizia riparativa queste letture sono entrambi utili, perché mettono in chiaro tutti i rischi collegati a una lettura degenerativa del paradigma riparativo e aiutano a munirsi di più robusti anticorpi in vista della sua piena applicazione. E nell’acceso scambio che su questo giornale si è (ri) animato grazie ai pensieri divergenti di Oliviero Mazza e Michele Passione, si individuano due punti su cui sembrano coagularsi i più consistenti grumi problematici: il confine tra afflato etico e laicità della giustizia penale; il ruolo della vittima (e della collettività) nella reazione all’ingiustizia penalmente significativa. Un’osservazione di fondo: il rischio di una deriva etica e di un eccessivo peso delle ragioni della vittima riguarda la giustizia penale “tradizionale”, che, intrisa di tutta la terribilità della decisione e della punizione, presenta pericolose somiglianze con la sfera del giudizio e dello stigma morale. Non è solo il provocatorio richiamo di Oliviero Mazza al diritto penale nazionalsocialista a confermarlo: a ricordarci la contiguità tra diritto della punizione e legge della morale ci sono le ceneri della santa inquisizione sulle quali è nato il processo penale moderno, come i moniti codicistici che oggi escludono la moralità dall’orizzonte delle prove. Si tratta allora di chiedersi se la giustizia riparativa contribuisca ad aumentare o a diminuire il rischio di infiltrazioni etiche nel settore penale. A un simile interrogativo il giurista deve rispondere con una lettura delle norme che, consapevole di quei rischi, si muova nel solco della conquistata laicità dell’ordinamento: parole come “confessione”, “pentimento”, “perdono”, “contrizione”, “espiazione” mai compaiono nella riforma Cartabia e questo silenzio parla, vale a escludere un approccio moraleggiante della giustizia riparativa all’italiana, non davvero a fondarlo. Insomma, la giustizia riparativa non è meno laica della giustizia punitiva, mentre è vero che dà un maggiore peso alla voce della vittima e alle emozioni collegate all’esperienza di ingiustizia. Qui è opportuna qualche riflessione: è fuor di dubbio che la vittima sia uno dei protagonisti dell’ingiustizia che ambisce umanamente ad avere voce nella costruzione della risposta di giustizia; inoltre, l’esperienza di ingiustizia è sempre accompagnata e intrisa di emozioni (rabbia, paura, vergogna…). Ma l’irrinunciabile costruzione garantistica del processo e l’impermeabilità della giustizia punitiva al mondo delle emozioni costringono la vittima a un ruolo marginale e lasciano senza risposta i bisogni emotivi che attraversano e talora scuotono anche il contesto sociale. Doverosamente non raccolti dal processo e dalla pena, quei bisogni, però, non scompaiono per editto codicistico: l’insoddisfazione della vittima, il disinteresse del diritto penale per le ricadute emotive del reato sono oggi il più potente volano della ferocia vendicativa di cui si nutre (e che a sua volta alimenta) la giustizia mediatica. Nel prendersi cura della vittima e del carico emotivo derivante dall’ingiustizia, la giustizia riparativa contribuisce a liberare il processo penale da un compito che non può né deve svolgere. Senza retrocedere di un passo dal fondamento della laicità, ma anzi confrontandosi sulle criticità normative di in un articolato del tutto nuovo (penso all’iniziativa officiosa di cui all’art. 129- bis e alla difficile esegesi del parametro della “utilità” lì richiamato, ma anche ai troppo ridotti spazi della difesa nel segmento conclusivo del percorso riparativo, quando si confezioni l’esito e la relazione da inviare al giudice), possiamo dare corpo a una giustizia riparativa che - lungi dal porsi come panacea di tutti i mali- non indebolisce ma irrobustisce un sistema penale laico, proprio perché lo drena dalle infiltrazioni etiche. *Associata di Diritto processuale penale dell’Università di Pisa Mafiosi in carcere, benefici “solo a chi rompe davvero col passato” di Giorgio Curcio Corriere della Calabria, 29 aprile 2025 Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia in Commissione: “Per ottenere permessi non basta una buona condotta carceraria”. “Il tribunale di sorveglianza ha un’importanza notevole per l’efficacia che riesce a dare alla sua azione. Forse la società civile italiana non ha mai realmente metabolizzato l’ordinamento penitenziario e continua a ritenere che i benefici siano spesso dei regali immeritati per la maggior parte dei condannati, in realtà se si vanno a esaminare le statistiche si nota che addirittura l’80% di coloro che hanno avuto l’affidamento in prova al servizio sociale non tornano più a commettere reati”. È un’analisi puntuale quella effettuata da Antonio Minchella, presidente Tribunale di Sorveglianza di Perugia, nell’audizione in Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, che tuttavia non può non tener conto di alcune valutazioni e differenziazioni rispetto all’appartenenza o meno di un detenuto alla criminalità organizzata. Durante la seduta, incentrata sull’applicazione dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, nonché dell’articolo 4-bis del medesimo ordinamento con specifico riguardo ai benefici penitenziari concessi a soggetti detenuti per gravi reati di mafia, sono stati affrontati anche i temi riguardanti la valutazione dei comportamenti di chi ha avuto un ruolo importante in un’organizzazione mafiosa. Secondo il presidente, per ottenere ad esempio un permesso premio, “qualunque detenuto è sottoposto a due valutazioni: che abbia tenuto una condotta regolare e che non sia più socialmente pericoloso. Quindi, che la condotta debba essere lineare me l’aspetto come prerequisito, ma assolutamente non è sufficiente”. In riferimento alla collaborazione con la giustizia, il presidente è stato ancora più chiaro: “L’articolo 4-bis, per come è scritto, offre all’interprete tutti gli elementi per una valutazione che non dico debba essere severa, ma certamente molto rigorosa”, ha spiegato, “tale da rendere chiaro che c’è una differenza per lo Stato fra chi collabora con la giustizia e che potrà accedere a un percorso espiativo molto meno disagevole e chi ha deciso per sua libera scelta, quale che siano le sue ragioni, di non collaborare” e il percorso espiativo che avrà “sarà molto più lungo e più accidentato. Ripeto, non si tratta di crudeltà o di cinismo, ma di una risposta a una pericolosità sociale che ha già provocato grave danno alle popolazioni del territorio”, precisa ancora. In Commissione, il presidente risponde nel merito della ‘ndrangheta calabrese, ricordando la sua esperienza proprio in Calabria. “Qui ho avuto anch’io anni di svolgimento della mia professione e ho visto come queste persone costringono a vivere quelli perbene. Si tratta di una cosa che non va mai dimenticata”. E poi quanto all’esistenza del clan nel territorio, “il fatto soltanto che esista un clan non è di per sé motivo che possa essere, da solo, causa di un rigetto della richiesta. L’esistenza del clan nel territorio in fin dei conti è una cosa che noi ci attendiamo, il clan di natura mafiosa tende a persistere nel tempo, ma le informative che ci vengono portate dalle forze di polizia territoriali di solito sono in grado di dirci bene se il clan esiste o se magari il clan, una volta denominato “Sempronio”, sì si è disciolto, ma perché è confluito nel clan chiamato “Mevio” e quindi non si può dire che il contesto criminale di riferimento sia svanito”, spiega ancora il presidente Minchella. “Questo andrà messo in rapporto a un percorso detentivo lungo che ci attendiamo quantomeno sia irreprensibile”. Si differenziano due elenchi di reato. Nell’ambito della prima fascia, un primo sottogruppo riguarda la criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico, le associazioni rivolte al narcotraffico, reati di immigrazione clandestina e commercio di tabacchi lavorati esteri. “Per gli autori di questi delitti è stato previsto che il condannato che non collabora con la giustizia potrà accedere ai benefici purché dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria”, ha spiegato il presidente. Si tratta già di un primo requisito molto severo e impegnativo perché “sino a oggi in questi termini era stato richiesto soltanto per gli istituti che erano connessi al termine del percorso penitenziario, quali la riabilitazione o la liberazione condizionale”. Nel tempo è stato indicato, poi, un altro requisito fondamentale delle richieste, cioè che “l’interessato condannato deve allegare all’istanza elementi specifici diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo, alla dissociazione dall’organizzazione. Deve fornire, cioè, degli elementi dai quali - dopo l’apposita istruttoria - il giudice possa ricavare che non c’è più l’attualità di collegamenti con un contesto di riferimento, quello che era stato il terreno di coltura della pericolosità sociale” perché “anche un ottimo percorso penitenziario deve essere sempre connesso alle informazioni che sono pervenute dalle forze di polizia del territorio”. E precisa: “Non si chiede quindi al soggetto condannato che dia una dimostrazione di non essere più mafioso, per fare un esempio, ma è tenuto a indicare elementi specifici e concreti che consentano poi a un tribunale di sorveglianza di disporre un’adeguata istruttoria”. E se il soggetto condannato non collaborante indica quali sono le ragioni della mancata collaborazione, allora “il tribunale di sorveglianza potrà esercitare i poteri istruttori nella direzione indicata dal soggetto, ma il soggetto può anche mantenere il silenzio sulla sua decisione di non collaborare con la giustizia”. Il ragionevole dubbio è una bussola imprescindibile nel giudizio penale di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 29 aprile 2025 La Corte di Cassazione ribadisce l’importanza del rigore logico nella valutazione delle prove. Nelle aule di giustizia, il “ragionevole dubbio” non è solo un’espressione suggestiva, ma una bussola imprescindibile che orienta il giudizio penale. La VI Sezione della Cassazione, con una recente pronuncia, torna ad approfondire e chiarire i confini di questa regola cardine, sottolineando come essa costituisca il vero discrimine tra condanna e assoluzione. La Suprema Corte, richiamando consolidati arresti giurisprudenziali, ha precisato che la regola dell’art. 533 c. p. p. consente la pronuncia di una sentenza di condanna solo quando la prova raccolta esclude tutte le ricostruzioni alternative, salvo quelle che, pur astrattamente prospettabili, si configurano come mere eventualità remote e prive di riscontri fattuali. Si tratta di quelle ipotesi che si collocano “al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana” (Cass. pen., Sez. 3, n. 5602/ 2021; Sez. 5, n. 1282/2019; Sez. 1, n. 17921/2010). Le stesse Sezioni Unite, nella celebre sentenza Troise (Cass. pen., Sez. U, n. 14800/2018), hanno ulteriormente rafforzato questo approccio, sottolineando come il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio non sia un mero standard probatorio, ma un vero e proprio metodo di accertamento. Esso, infatti, impone al giudice di confrontare la tesi accusatoria prospettata dal pubblico ministero con le ricostruzioni antagoniste offerte dalla difesa, seguendo un “protocollo logico” che esclude scorciatoie valutative, quali la “consistente verosimiglianza” o la “forte plausibilità”. Il ragionevole dubbio, quindi, non è un concetto elastico da declinare secondo il libero apprezzamento dell’organo giudicante, ma rappresenta una vera e propria regola di giudizio vincolante che impone un rigore argomentativo e una valutazione completa di tutte le prove acquisite, comprese quelle offerte dalla difesa in chiave demolitoria dell’ipotesi accusatoria. La Cassazione ha sottolineato, anche nella recente sentenza Bagarella (Cass. pen., Sez. 6, n. 45506/2023), che la motivazione deve dar conto non solo degli elementi che confermano la tesi dell’accusa, ma anche delle ragioni per cui le ipotesi alternative, prospettate dalla difesa, non siano razionalmente sostenibili nel caso concreto. Non può dunque ritenersi sufficiente un giudizio di prevalenza o una maggiore aderenza alla logica comune della tesi accusatoria: è necessaria una confutazione argomentata delle ricostruzioni difensive. In questa prospettiva, l’intento è quello di rafforzare l’onere motivazionale in capo al giudice, che non può limitarsi ad affermare che la ricostruzione alternativa è meno probabile, ma deve dimostrarne la radicale inattendibilità, escludendo che possa costituire fonte di dubbio processualmente rilevante (Cass. pen., Sez. 6, n. 10093/2019; Sez. 4, n. 22257/2014). Inoltre, va ricordato che la presunzione di innocenza, da cui il principio del ragionevole dubbio discende direttamente, non è un mero orpello o una clausola di stile, ma rappresenta un fondamento costituzionale e convenzionale del processo penale, come si evince chiaramente dall’art. 27 Cost. e dall’art. 6 Cedu. Il suo rispetto si riflette nella struttura logica del giudizio e nella distribuzione dell’onere della prova, che resta saldamente in capo all’accusa fino alla prova di colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Per l’avvocatura, questi principi non sono solo teoria, ma strumenti essenziali per adempiere a tutti gli oneri difensivi a cui si è sottoposti, non solo per dovere deontologico. La capacità di articolare ricostruzioni alternative solide, ancorate alle emergenze processuali, può rappresentare una profonda differenza tra una sentenza di condanna e un’assoluzione. E soprattutto, riafferma il diritto della difesa ad una valutazione “legale, completa e razionale della prova”, come espressione piena del contraddittorio. In un sistema penale che vuole dirsi garantista, il ragionevole dubbio non è un lusso o una facoltà opinabile, ma un presidio di civiltà giuridica. Con questa ennesima sentenza la giurisprudenza di legittimità sembra voler ribadire, ancora una volta, che il processo penale non è terreno per intuizioni o suggestioni, ma per ragionamenti rigorosi e verifiche serrate. Perché, come ammoniva Calamandrei, “la giustizia non è un sentimento, ma una tecnica”. *Avvocato, direttore Ispeg Interdittiva antimafia soft se pregiudica la sussistenza di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2025 Il decreto ora alle Camere permette al prefetto di alleviare il blocco dell’attività. La tutela scatta se è a rischio il sostentamento. Riguarda solo le imprese individuali. Prescrizioni “leggere” per l’impresa a rischio di infiltrazione mafiosa se per effetto dell’interdittiva il suo titolare rischia di perdere i mezzi per il sostentamento proprio e dei suoi familiari. L’articolo 3 del decreto sicurezza (decreto legge n. 48 dell’11 aprile 2025) introduce l’articolo 94.1 nel Codice antimafia (Dlgs 159 del 2011) con il quale si disciplina, nel procedimento che si svolge dinanzi al prefetto per il rilascio della documentazione antimafia, la possibilità di escludere uno o più divieti e decadenze derivanti dall’adozione dell’informazione interdittiva per un anno, prorogabile, se il destinatario è titolare di un’impresa individuale e se a costui e alla sua famiglia verrebbero a mancare i mezzi di sussistenza. La lacuna legislativa - L’innovazione normativa colma una lacuna più volte segnalata al legislatore. Nell’ipotesi di impresa sequestrata, l’articolo 40, comma 2, del Codice antimafia già stabiliva che il giudice delegato, in presenza di particolari condizioni, potesse concedere all’imprenditore o ai suoi familiari, il sussidio alimentare previsto dall’articolo 147 del Codice della crisi (e prima dall’articolo 47, comma 1, della legge fallimentare) per l’imprenditore sottoposto a procedura concorsuale o per i suoi familiari. Una tutela simile è prevista anche quando con provvedimento definitivo vengono applicate le misure di prevenzione personali (come ad esempio la sorveglianza speciale) che impediscono di ottenere: licenze o autorizzazione di commercio; concessioni, attestazioni e iscrizioni a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per attività imprenditoriali; contributi, finanziamenti, mutui agevolati ed erogazioni che, se già ottenuti, devono essere revocati. Il giudice può infatti escludere decadenze e divieti se il loro effetto fa venir meno i mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia. La nuova tutela - Orbene, nonostante l’emissione del provvedimento prefettizio interdittivo (articolo 92 del Codice antimafia) comporti gli stessi effetti delle misure di prevenzione personale, né l’imprenditore colpito né i suoi familiari potevano chiedere al prefetto di valutare la rimodulazione di divieti e decadenze in modo da garantire loro i mezzi di sussistenza. La norma era stata per questo sospettata di illegittimità costituzionale, ma la Corte costituzionale con la sentenza 180/2022 aveva dichiarato inammissibile la questione; tuttavia aveva invitato il legislatore a sanare questa lacuna (già segnalata dalla stessa Corte nella sentenza 57/ 2020), aggiungendo “che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile (…) e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte”. Il decreto sicurezza ha colmato questa lacuna. In base al nuovo articolo 94.1 del Codice antimafia, anche il prefetto, nell’emettere l’interdittiva antimafia, può quindi valutare una documentata istanza dell’interessato sulla mancanza di mezzi di sostentamento e disporne le verifiche a mezzo del gruppo interforze istituito in prefettura. Se esclude uno o più divieti e decadenze, può anche prescrivere l’osservanza delle misure previste dall’istituto della prevenzione collaborativa che possono essere concesse in alternativa all’interdittiva quando l’infiltrazione criminale è solo occasionale (articolo 94-bis, commi 1 e 2, del Codice antimafia). Il prefetto può cioè applicare - modulandole per il caso concreto - le prescrizioni di prevenzione collaborativa al fine di esercitare un controllo sull’attività dell’imprenditore. Questa disposizione non si applica alle società (implicitamente escluse dal riferimento alle sole imprese individuali) e per espressa previsione alle persone condannate con sentenza anche non definitiva, ma confermata in appello, per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del Codice di procedura penale, fra cui criminalità organizzata, usura e terrorismo. La procedura - Nel procedimento di rilascio delle informative antimafia, quando, in presenza dei presupposti dell’interdittiva, il prefetto ne dà comunicazione ai fini del contraddittorio, l’imprenditore può - con istanza documentata - dimostrare che per effetto del provvedimento verrebbero a mancare i mezzi di sussistenza per sé e per la propria famiglia. Sull’istanza vanno svolti i necessari accertamenti attraverso verifiche effettuate dal gruppo interforze istituito presso la prefettura. Se la ritiene fondata, il prefetto può emettere l’interdittiva, escludendo uno o più divieti e decadenze previsti dal Codice antimafia (articolo 67, comma 1). L’esclusione può essere disposta solo se l’interdittiva riguarda persona fisica, titolare di un’impresa individuale. Ha durata annuale ed è prorogabile se permangano i presupposti. Resta ferma la competenza del giudice che può escludere divieti e decadenze che derivano da misure di prevenzione personale, applicate con provvedimento definitivo. Quando esclude divieti e decadenze, il prefetto può prescrivere all’interessato l’osservanza di una o più delle misure di prevenzione collaborativa (articolo 94-bis, commi 1 e 2, del Codice antimafia) previste in caso di agevolazione occasionale. Firenze. Dieci milioni per ristrutturare Sollicciano, ma i lavori partono solo a fine anno di Matteo Lignelli La Repubblica, 29 aprile 2025 Visita al carcere del sottosegretario Delmastro: “A maggio il nuovo direttore”. Gianassi: “Promesse fatte un anno fa”. In estate Sollicciano sarà di nuovo un forno per via del caldo che dovranno sopportare i detenuti e delle diverse celle non ancora agibili che aumentano il sovraffollamento del carcere. Ma almeno entro maggio sarà nominato un nuovo direttore. Lo annuncia il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro in visita ieri insieme agli onorevoli Giovanni Donzelli e Francesco Michelotti: “A maggio termineranno gli interpelli e verrà assegnato il direttore titolare, insieme ad almeno tre ispettori e quattro sovrintendenti. Confermati i due vicedirettori. In più, al termine dei corsi arriveranno non meno di 20 nuovi agenti”. Una nomina non più rinviabile dopo la mancata riconferma da parte del Dap della direttrice Antonella Tuoni e la nomina della direttrice di San Gimignano Mariateresa Gianpiccolo come reggente per tre mesi. Sempre a maggio il consiglio comunale dovrebbe eleggere il nuovo garante cittadino dei detenuti. Ieri Delmastro ha visitato un carcere che i detenuti raccontano essere invivibile. Topi, muffa, cimici, infiltrazioni, caldo o freddo estremo a seconda dei mesi. Annunciando circa 10 milioni di interventi di cui 7,5 milioni per rifare la copertura dell’edificio, gli infissi e per dotare le celle di docce. “La muffa e le infiltrazioni - spiega - sono determinate sia dal tetto che dall’impianto delle docce: risolvendo questi problemi si sanano quelle criticità”. I tempi non sono immediati: il 30 aprile termina il progetto preliminare e poi ci saranno 180 giorni per l’affidamento esecutivo. La proiezione dunque è che si smuova qualcosa per la fine dell’anno. “Nel giro di qualche settimana - annuncia poi Delmastro - sarà conferito l’appalto” per le due sezioni rimaste inagibili dopo la rivolta del luglio scorso. Altri 2,3 milioni serviranno per l’efficientamento energetico di Sollicciano, “un partenariato pubblico con Edison con cui assicurare acqua calda e refrigerazione in estate” ai detenuti. C’è poi un appalto da 2,6 milioni extra già partito e con opere in parte consegnate (“anche in anticipo”) per la videosorveglianza, “finora assente e fatta a vista”. “Stiamo correndo dopo anni di abbandono - sferza Delmastro - anche da parte degli scienziati che oggi promettono abbattimenti e ricostruzioni come se si potesse fare solo imponendo le mani come Wanna Marchi”. Accuse a cui risponde il deputato del Pd Federico Gianassi: “Quelle di Delmastro sono promesse già fatte un anno fa: far ripartire lavori da 7 milioni, finanziati dal precedente governo e fermi da oltre due anni, lo consideriamo il minimo indispensabile. Servono fatti”. Per adesso si parla di interventi e non abbattimento e ricostruzione, come chiesto anche dalla sindaca Sara Funaro. “In un momento in cui mancano 10.000 posti detentivi è difficile ipotizzarlo - risponde Delmastro - in futuro le cose possono cambiare”. Firenze. Nel carcere minorile “Meucci” celle strapiene e materassi a terra novaradio.info, 29 aprile 2025 Nell’Istituto penale minorile “Meucci” di Firenze ci sono 26 reclusi a fronte di una capienza di 17 posti: un sovraffollamento di oltre il 150%, tanto che “diverse celle hanno i materassi a terra” con “spazi ristretti, problemi di igiene” e “maggior tensioni”. A denunciarlo è Sofia Antonelli, ricercatrice dell’Associazione Antigone e membro dell’Osservatorio giustizia minorile dell’associazione, parlando ai microfoni di Novaradio, evidenziando il peggioramento rispetto a che a fine 2023 i detenuti erano 19. Una situazione che non è unica in Italia: ben 10 IPM su 17 totali nel nostro paese sono sovraffollati. Il sovraffollamento, spiega ancora Antonelli, non comporta solo minori spazi e condizioni materiali più difficili di detenzione ma significa anche “minori opportunità” di studio e formazione, tra cui ad esempio la formazione professionale. Quali le cause? La Procura dei minori di Firenze nei giorni scorsi ha puntato il dito sull’aumento del 16% dei reati, in particolar modo rapina, violenza e stalking. Ma secondo Antonelli la ragione è un’altra: il decreto Caivano, che ha ampliato le fattispecie di reato e aggravato le pene, facendo venire meno la possibilità di pene alternative tra cui la messa alla prova. “Ha introdotto un approccio punitivo alla giustizia minorile, frutto di un chiaro disegno politico” del governo, e si è tradotto in un aumento vertiginoso dei detenuti: ad oggi sono 592 i minori reclusi, contro i 393 dell’ottobre 2022? quando il governo è entrato in carica”. Nel 2023 si è assistiti ad un calo di reati, ma non è quello che raccontano il “populismo penale e la narrazione dei media su un mondo giovanile fuori controllo”. A questo si aggiungono due altri fattori aggravanti della condizione del sistema di giustizia minorile: il primo è il trasferimento dagli IPM alle carceri per adulti dei detenuti che diventano maggiorenni (finora si prevedeva che potessero finire di scontare la pena in IPM fino all’età di 25 anni): i primi tre casi di trasferimento da Firenze sono avvenuti nelle ultime settimane. Il secondo è la costruzione, a Bologna, di una vera e propria sezione per minori all’interno del carcere per adulti della “Dozza”: “Stiamo abdicando alla funzione costituzionale della educazione e reinserimento del minore” la denuncia di Antonelli. Salerno. Detenuto morto per diagnosi sbagliata: chiesta condanna per medico di Viviana De Vita Il Mattino, 29 aprile 2025 Una condanna e tre assoluzioni per la morte di Aniello Bruno, il 50enne di Angri detenuto a Fuorni, spirato nell’aprile 2018 nel reparto di rianimazione del Ruggi dopo un disperato intervento eseguito in seguito ad una perforazione intestinale diagnosticata troppo tardi. Questa, almeno, la richiesta formulata ieri all’esito del processo di primo grado dal pubblico ministero che, al termine della sua requisitoria, ha concluso riconoscendo la chiara responsabilità solo per il medico del Pronto Soccorso che diagnosticò erroneamente una colica renale al 50enne e lo dimise senza prescrivere esami strumentali che avrebbero potuto accertare il reale quadro clinico del paziente. Per l’imputato, assistito dall’avvocato Iannuzzi, sono stati chiesti 9 mesi di reclusione. Per i tre medici del carcere, invece, il pubblico ministero ha chiesto l’assoluzione: piena per uno di loro mentre, per gli altri due, con la formula dubitativa (ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, del codice di procedura penale). Gli imputati, assistiti dagli avvocati Giovanni Gioia e Agostino De Caro, erano accusati di aver inizialmente sottovalutato le condizioni di salute del detenuto, disponendone il ricovero solo il 30 marzo 2018, quando ormai il quadro clinico era gravemente compromesso, e successivamente, dopo il rientro in carcere, di non aver rilevato l’inadeguatezza della diagnosi di colica renale, non supportata da adeguate verifiche strumentali. I familiari, rappresentati dall’avvocato Pierluigi Spadafora, sporsero subito denuncia sottolineando che l’uomo aveva perso 18 chili e che quel malessere si protraeva oramai da 20 giorni. Pescara. Rieducazione detenuti, il premio “Oltre l’Ostacolo” a suor Livia Ciaramella confinelive.it, 29 aprile 2025 Ogi, martedì 29 aprile alle ore 16 nella Sala Figlia di Iorio della Provincia di Pescara, si svolgerà la cerimonia di consegna del I Premio “Oltre l’Ostacolo”, organizzato dalla Provincia di Pescara, in collaborazione con l’Associazione Voci di Dentro. Il Premio “Oltre l’Ostacolo” è rivolto a personalità che hanno lavorato per la rieducazione dei detenuti, secondo l’art. 27 comma 3 della Costituzione italiana, impegnando quotidianamente il loro tempo verso le persone emarginate e i più deboli. In questa prima edizione il presidente Ottavio De Martinis e la consigliera di Parità Paola Sardella consegneranno il riconoscimento a Suor Livia Ciaramella, che, prestando la sua missione nel carcere San Donato di Pescara dal 2006, è diventata un riferimento per coloro che vivono nella casa circondariale. Suor Livia è nata a Pescara e appartiene alla Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, è diventata suora nel 1977 ed è stata missionaria per alcuni anni in Africa e in Albania. Rientrata in Italia è stata, poi, maestra nella scuola dell’infanzia dell’Istituto Ravasco di Genova e di Pescara. La religiosa dopo un periodo trascorso in Costa d’Avorio è stata invitata per animare la celebrazione eucaristica in un carcere italiano. Da allora non ha più lasciato i detenuti. “Siamo molto felici di consegnare il primo Premio di “Oltre l’Ostacolo” a Suor Livia - spiega il presidente De Martinis - che con il suo infaticabile lavoro all’interno del carcere di Pescara ha operato per il reinserimento nella società delle persone in stato di detenzione. Suor Livia è un esempio per noi e per chi vive in un mondo complesso e contraddittorio come quello del carcere, in questi anni ha ridato dignità e speranza nel futuro a tante persone”. Alla cerimonia, presieduta dal presidente De Martinis, dalla consigliera di Parità Sardella, dai consiglieri provinciali e dal presidente dell’Associazione Voci Di Dentro Francesco Lo Piccolo, sono stati invitati il prefetto Flavio Ferdani, l’arcivescovo Tommaso Valentinetti, il sindaco di Pescara Carlo Masci, il questore Carlo Solimene, il direttore della Casa Circondariale di Pescara Franco Pettinelli, la garante dei detenuti della Regione Abruzzo Monia Scalera e la dirigente dell’Istituto Ravasco di Pescara Maria Pia D’Addario. Bergamo. Dalle magliette agli spazzolini, la raccolta fondi per comprarli ai detenuti di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 29 aprile 2025 L’iniziativa promossa dall’Ordine degli avvocati: già donati 4 mila euro. Il cappellano, don Luciano: “Tanti sono stranieri, ma dalla strada arrivano anche italiani che non hanno niente e nessuno”. Sovraffollamento e suicidi in carcere. Più volte gli avvocati si sono mobilitati su questi temi, grandi. I bisogni spiccioli, invece, saranno anche piccole cose ma comunque impattanti sulla quotidianità dei detenuti. Lavarsi, farsi la barba, indossare una maglietta pulita. Molti di quelli che stanno dentro non hanno famiglie che arrivano con i ricambi. Tanti passano dalla strada alla cella con il poco che hanno. E dunque, al di là dei grandi temi, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, in accordo con la direttrice del carcere Antonina D’Onofrio, sta promuovendo una raccolta fondi da destinare, appunto, a generi di prima necessità per i detenuti e pittura per imbiancare le celle. Fino al 31 maggio è stato aperto un conto dedicato (l’Iban è sul sito dell’Ordine). Per ora sono stati donati 4.000 euro, 2.000 dei quali dallo stesso Ordine, girando una donazione ricevuta ai tempi del Covid e rimasta inutilizzata. Stock di prodotti sono ben accetti. È già successo che un’azienda fornisse tute da ginnastica con piccoli difetti che non potevano essere messe in vendita. Invece, piccoli quantitativi di prodotti alla spicciolata sarebbero meno gestibili sia a livello di deposito che di trasferimento e controllo in carcere. Gli avvocati si sono mobilitati dopo la visita in via Gleno, a dicembre, dove hanno colto più direttamente le necessità. Il 17 aprile, quattro avvocate consigliere hanno caricato in auto e portato in carcere 300 confezioni di shampoo doccia donati da un’azienda bergamasca e 100 confezioni di schiuma da barba forniti da un’estetista di Bergamo. Al di là delle iniziative di mobilitazione che fanno un po’ più di rumore, in via Gleno c’è una presenza costante con lo stesso scopo. Il cappellano don Luciano Tengattini, con due diaconi, tre suore delle Poverelle di Casa Samaria e i volontari, rispondono anche ai bisogni quotidiani dei carcerati. Dai dati aggiornati al 27 maggio dal ministero della Giustizia, sono 575 e vivono negli spazi per 319 persone. “Ogni settimana, grazie alle suore, su richiesta dei detenuti, portiamo in carcere dalle 10 alle 15 borse di vestiti”, spiega don Tengattini. Non senza regole precise: “Ogni detenuto, salvo particolari esigenze e urgenze, riceve una borsa ogni due mesi”. Non si pensi che siano i soliti stranieri allo sbando. “C’è qualche straniero in più, ma in carcere arrivano anche parecchi italiani dalla strada che spesso non hanno più rapporti con le famiglie”, sa bene il cappellano, che conosce le loro storie personali. Si parla sempre di piccole cose, in questo caso pochi soldi che arrivano dall’8 per mille. “I detenuti hanno anche un piccolo conto. Prima verifichiamo, a coloro che non hanno proprio niente versiamo 10 euro al mese per poter telefonare, oppure comprarsi qualcosina, può essere una Coca Cola o le sigarette. Pensiamo a chi fuma e improvvisamente si trova senza sigarette. In questo modo si stemperano le tensioni già pesanti in carcere”. Lo scorso anno il rendiconto, tenendo conto dei quasi 600 detenuti, è stato di 15.000 euro. Il carcere di via Gleno è stato intitolato a don Fausto Resmini, morto a marzo 2020 per il Covid. Pensare che gli ultimi beni di prima necessità per l’igiene personale li aveva fatti arrivare lui, da una nota azienda. Entrò un camion intero di bancali, saranno stati sette anni fa. Le scorte sono agli sgoccioli. Non c’è pace senza giustizia di Rosario Aitala Avvenire, 29 aprile 2025 “La speranza non delude”. Con questo messaggio Francesco il 9 maggio 2024 indice il “suo” Anno giubilare. “Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza”, scrive il pontefice, invitando a riscoprire la speranza “nei segni dei tempi” e a tradurla in pace per il mondo “immerso nella tragedia della guerra”. Misericordia, pace, speranza. I tre lemmi ricorrono nel discorso di Francesco, che parla a chi è prossimo e chi è lontano, credenti e non credenti. Nel suo linguaggio convivono appelli pastorali e lezioni politiche. Dieci anni prima, il 18 agosto 2014, Francesco pronuncia per la prima volta la formula della “guerra mondiale a pezzi” originariamente intesa in senso più simbolico che descrittivo. Parlando con i giornalisti rientrando da Seul, la attribuisce a un inesistente “qualcuno”. Rivelerà poi di averla coniata personalmente riflettendo sui quadranti di conflitto che coinvolgono attori diversi, spesso procuratori degli Stati, come in Siria “dove i siriani mettono i morti e le grandi potenze le armi”. A settembre del 2024, l’espressione era superata dagli eventi. Commentando l’allargarsi della sanguinosa guerra di Gaza a Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Iran, la rivede in peggio: “Andiamo verso una guerra quasi mondiale”. La formula originaria si è rivelata profezia. Francesco parla da storico e geopolitico. Segnala la conclusione dell’età di guerre circoscritte che aveva seguito il Secondo dopoguerra e il ritorno a un’era di conflitti totalizzanti nei quali sono immersi i popoli, intere società, che coinvolgono indirettamente e politicamente decine di altri Stati. Invocando la pace, il Papa non si ferma all’auspicio dell’assenza di guerra e dell’armonia nella vita sociale. Si rivolge a chi esercita responsabilità pubbliche. Invita alla trattativa come espressione della Politica. Ricorda il dovere dei governi di custodire principi di moralità anche in guerra, proteggere gli innocenti, limitare le disumanità, comporre le controversie, fermare il vano dispendio di sangue e dolore. L’impegno per la dignità umana gli ha fruttato volgari oltraggi di autorità politiche e religiose. “Le persone prudenti tengano a freno la propria lingua”, gli è stato intimato. Lo hanno accusato di “cecità morale”, di avere prestato l’autorità papale a modelli di odio “con la scusa di sostenere gli oppressi”, di distorcere volutamente la realtà. Chi ha tetti di vetro, non tiri pietre, viene da commentare. Lui ha continuato a difendere l’umanità, bambini, vecchi, ostaggi. Ammoniva con dolce fermezza. Non si uccidano gli innocenti. Si dia da mangiare agli affamati, da bere agli assetati. Si alloggino i pellegrini. Si visitino gli infermi. Si seppelliscano i morti. Questi non sono solo valori cristiani. Sono principi universali, giuridici, etici, morali. Lasciti della sofferenza incommensurabile delle guerre mondiali, degli stermini di civili, della Shoah, dalle persecuzioni etniche, religiose e nazionali. Impressi nei trattati internazionali, nelle sentenze dei tribunali. Si ritrovano anche nelle Convenzioni di Ginevra del 1949, universalmente ratificate, anche dalla Santa Sede. Il primo comandamento, per esempio, si traduce in diritto internazionale nel divieto di rivolgere la violenza armata contro i civili inermi, intenzionalmente o nell’indifferente consapevolezza che operazioni militari smodate verseranno sangue innocente “incidentalmente”. Le opere di misericordia corporale si riflettono nel divieto assoluto di condurre la guerra sul corpo e l’anima degli incolpevoli privandoli di alimenti, acqua e farmaci e sfruttarne la sofferenza come forma di pressione nei confronti anche del più empio dei nemici. I pellegrini della contemporaneità sono sfollati e rifugiati, un’umanità in cammino destinata a vagare, in fuga da guerre e persecuzioni. Erano quarantatré milioni alla fine del 2023. Oggi di più. In Sudan, afflitto da una brutale guerra di potere, sono già tredici milioni. Non basta per chiamarsi fuori dalla disumanità non uccidere, non perseguitare, non torturare, non stuprare. Chi è neutrale in situazioni di ingiustizia, ha scelto l’oppressore, Desmond Tutu ha detto. I governi, chi esercita uffici politici, ogni persona libera, hanno il dovere di condannare senza ambiguità le atrocità altrui, isolare chi calpesta la dignità umana. Anche per questo nel 1998 è stata istituita la Corte penale internazionale come strumento per contribuire a mettere fine all’impunità per i responsabili di “atrocità inimmaginabili che sconvolgono profondamente la coscienza dell’umanità”. Questo miracolo di civiltà si è realizzato a Roma. L’Italia vi ha contribuito in modo determinante con politici, studiosi, giudici, attivisti. La Santa Sede ebbe un ruolo propulsivo. La Corte riunisce centoventicinque Stati del mondo. Accerta e giudica genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità in ogni angolo del pianeta. Eppure alcuni, accomunati dalla furiosa avversione per la civiltà delle regole, del diritto e dei diritti umani, cercano di soffocarla, ridurla al silenzio con misure coercitive. A giudici e procuratori, imputati di fedeltà al dovere, sono dispensati mandati di cattura, minacce di morte, contumelie, sanzioni finanziarie. Come se i terroristi, i criminali di guerra, i torturatori, gli stupratori fossero loro. La Corte è più di un organo di giustizia. Vi si aggrappano strettamente le radici morali della comunità internazionale nata dai conflitti mondiali. Incarna l’eterna partita fra il bene e il male, fra l’autorità legittima del diritto e della giustizia e l’iniquità della forza brutale come legge primitiva nelle relazioni fra uomini, popoli, nazioni. Per milioni di persone che vivono nel terrore, nella violenza, nell’esclusione, nell’abuso, nella tirannia la Corte è l’ultima speranza, l’unica prospettiva di verità, la sola aspettativa di dignità. Il contrario della speranza è la disperazione. Opprimente, inconsolabile. Nell’avvilimento, nello sconforto, nella prostrazione fermenta l’odio. L’odio genera il Male e versa sangue innocente. Il sangue chiama vendetta. L’abisso invoca l’abisso. Chi davvero cerca Francesco, sieda con gli oppressi. Migranti. “Reati di solidarietà” in aumento in tutta Europa di Michele Gambirasi Il Manifesto, 29 aprile 2025 Il report della rete Picum sottolinea l’aumento della criminalizzazione dei migranti e della solidarietà in tutta l’Unione europea: oltre 200 i casi nel 2024. La criminalizzazione delle migrazioni nell’Unione Europea è in crescita, che si tratti di Ong impegnate nel soccorso e l’aiuto a persone migranti o di chi cerca di attraversare i confini per arrivare nel continente. È quanto emerge dall’ultimo report di Picum, organizzazione basata a Bruxelles che raccoglie oltre 100 associazioni “che lavorano per garantire giustizia sociale e diritti umani ai migranti privi di documenti”. Il rapporto, reso pubblico da oggi, dà conto nel 2024 di almeno 142 casi di procedimenti legali contro operatori umanitari, “per aver agito in solidarietà con i migranti nell’Unione europea”; sono 91 invece i casi registrati di azioni legali direttamente contro migranti, per la maggior parte vittime delle leggi contro la tratta di esseri umani. L’anno precedente erano stati rispettivamente 117 e 76, segnando un incremento di oltre il 20%. L’Italia è, insieme alla Grecia, tra i paesi che registrano il maggior numero di processi in corso, su entrambi i fronti: sono almeno 29 gli operatori di Ong indagati o che fronteggiano processi, mentre sono 40 i casi registrati di migranti accusati. Nella maggioranza dei casi il reato contestato è quello di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” normato dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione e ulteriormente rafforzato dall’entrata in vigore dell’articolo 12bis a seguito del “decreto Cutro”. Numeri che rappresentano stime al ribasso, raccolti attraverso il monitoraggio dei media a causa dei buchi e delle discrepanze nelle statistiche ufficiali. Solo in Italia i dati raccolti da Arci Porco rosso tracciano almeno 106 casi di migranti arrestati per il reato di favoreggiamento nel 2024, fermati non appena arrivati in porto. In Grecia, Aegean boat report conta 228 persone arrestate all’arrivo sulle coste elleniche. La dissonanza tra i numeri raccolti dalle Ong e quelli presentati da Picum non è solo il risultato della difficoltà di avere statistiche chiare, ma anche la spia del fatto che “la criminalizzazione di chi attraversa i confini rimane un fenomeno nascosto, che rivela la tendenza dei media a sottorappresentarlo” scrive l’organizzazione. Nella maggior parte dei casi, comunque, la montagna partorisce un topolino. O in alcuni casi proprio nulla. Dei 43 processi conclusi nel 2024 contro operatori umanitari, in 41 casi si è giunti a un’assoluzione, dichiarando l’insussistenza del fatto. Nonostante ciò, la criminalizzazione del soccorso produce in ogni caso effetti deterrenti e ostativi nei confronti delle organizzazioni, costrette ad affrontare processi che hanno una durata media di tre anni e che in alcuni casi possono tenere ferme a lungo le imbarcazioni che operano in zona Sar. Nel 2024 si è chiuso in Italia il caso Iuventa, durato sette anni e che alla fine ha visto prosciolti tutti i dieci imputati delle Ong Jugend Rettet, Save the children e Medici senza frontiere. Sette anni nel corso dei quali la nave Iuventa è rimasta sequestrata e in stato di fermo, comportandone un irrimediabile danneggiamento. Se la criminalizzazione si poggia prevalentemente sulla legislazione che interviene sul traffico di esseri umani, le nuove direttive europee in corso di approvazione corrono il rischio di accrescere il fenomeno secondo Picum. Tra queste soprattutto la revisione del Facilitators package, una combinazione di direttive e una decisione quadro dell’Ue del 2002, proposta nel 2023 dalla Commissione europea e ancora in fase di discussione al Parlamento. La proposta, secondo l’Ong, riconosce il contrabbando come causa principale dell’immigrazione: “un approccio criminalizzante che contraddice l’evidenza che la legislazione antitratta spesso danneggia, più che tutelare, i diritti dei migranti”. Nel Cpr in Albania sono rimasti 25 migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 aprile 2025 Autolesionismo e richieste d’asilo. Domani tre nuove udienze di convalida in Corte d’appello di Roma. Nel Cpr di Gjader sono rimaste 25 persone delle 41 trasferite dall’Italia. Lo comunicano le dem Rachele Scarpa, deputata, e Cecilia Strada, europarlamentare. Quest’ultima ha visitato la struttura in Albania nel fine settimana. “Dove sono gli altri 16? Nessuna informazione ufficiale ci è stata fornita”, scrivono in una nota congiunta che denuncia un “clima ostativo al pieno esercizio del potere ispettivo”. Per ricostruire la situazione hanno dovuto incrociare “informazioni pubbliche, registro degli eventi critici, informazioni provenienti dai legali”. Una persona è stata riportata in Italia senza mai entrare nel Cpr il giorno della prima deportazione dal territorio nazionale. Cinque sono rientrate perché valutate “non idonee alla vita in comunità ristretta”, per problemi di salute o gesti autolesionistici. Quattro sarebbero state rimpatriate ed è singolare che il governo non lo abbia fatto sapere. Forse avrebbe stonato con i funerali del papa pro-migranti o forse la ragione è più semplice: devono comunque passare dall’Italia, il trasferimento oltre Adriatico è completamente inutile. A sei migranti, poi, non è stato convalidato il trattenimento. Tutti, o quasi, perché hanno chiesto asilo e la Corte di appello di Roma non ritiene compatibile con il protocollo la situazione giuridica che si crea al passaggio da “irregolare” a richiedente protezione internazionale. Tra le persone recluse si è diffusa la voce dell’errore di sistema, così le domande d’asilo stanno aumentando. Domani ci saranno altre tre udienze di convalida a Roma. Finiranno come le precedenti e andrà così almeno fin quando si esprimerà la Cassazione: l’avvocatura dello Stato ha impugnato la prima decisione di questo tipo su H. A., richiedente asilo marocchino riportato in Italia, rinchiuso nel Cpr di Bari e liberato dopo la decisione del giudice locale. Ora però la polizia potrebbe non emettere più nuove richieste di detenzione al cambio di status giuridico, grazie a una recente sentenza della Cassazione. Oltre ai numeri - che segnalano il temporaneo blocco dei trasferimenti - l’ispezione ha certificato il deterioramento della situazione nel Cpr. “Il registro degli eventi critici è un bollettino dell’orrore: nei primi 13 giorni di operatività del centro se ne registrano 35, per la maggior parte gesti autolesivi e tentativi di suicidio”, scrivono le parlamentari. “È stato agghiacciante apprendere che alcune persone hanno realizzato delle corde per impiccarsi all’impianto anti-incendio. In corrispondenza dei tavoli ci sono elementi che fanno da gancio. È inquietante che chi ha realizzato e collaudato la struttura non abbia pensato a simili episodi”, afferma Strada. Così ora i trattenuti dormono senza lenzuola perché all’ente gestore è stato vietato di distribuirle. I migranti lamentano di non poter ricevere pacchi e visite dai parenti, incontrare i legali, svolgere attività con cui occupare il tempo. “È peggio del carcere”, ripetono. Le parlamentari denunciano anche il malfunzionamento complessivo della struttura: cancelli che si bloccano, cali di corrente, problemi con gli impianti di scarico di bagni e condizionatori “mal progettati”. Diverse persone hanno avuto bisogno di ricorrere alle strutture sanitarie albanesi e si registra un massiccio uso di psicofarmaci. Questioni che aprono interrogativi sull’effettività del diritto alla salute, anche perché Gjader è fuori dal territorio italiano e dal sistema sanitario nazionale. Intanto ieri davanti alle coste tunisine di Sfax sono annegati otto migranti, altri cinque avrebbero perso la vita in un secondo naufragio. A Lampedusa continuano gli sbarchi, con circa 400 arrivi nelle ultime ore. Il numero complessivo è tornato in linea con quello del 2024 La crisi globale dei diritti umani: il rapporto di Amnesty International di Annaflavia Merluzzi Il Manifesto, 29 aprile 2025 Nel report 2024/2025 Sono registrate due tendenze: all’incancrenirsi dei conflitti armati e alla repressione illegale del diritto di manifestare. Le leggi internazionali ormai ignorate, la loro applicazione segnata dal doppio standard. Dal genocidio in Palestina fino alle esecuzioni degli studenti in piazza in Bangladesh, l’associazione delinea un quadro tragico. Il 2024 ha visto due tendenze: “L’incancrenirsi dei conflitti in tutto il globo e la repressione delle proteste”, così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, ha riassunto il rapporto annuale 2024/2025 dell’associazione sullo stato dei diritti umani nel mondo. Ad aprire la conferenza di presentazione del report, tenutasi ieri presso la Sala Stampa Estera di Roma, è Ileana Bello, direttrice generale Amnesty International Italia, che ha subito sottolineato un ulteriore deterioramento del sistema di protezione globale dei diritti umani, già evidenziato nel rapporto dello scorso anno. L’emisfero nord del mondo è ormai avviato su un pericoloso crinale, alimentato dall’”effetto Trump”: dall’insediamento del nuovo presidente Usa il multilateralismo e le istituzioni internazionali subiscono attacchi quotidiani, cui fanno eco le dichiarazioni di numerosi capi di stato europei circa l’intenzione di non applicare il mandato d’arresto internazionale per il premier israeliano Netanyahu, messe in pratica dal presidente ungherese Victor Orbán, e il rimpatrio su un volo di stato italiano del torturatore libico Almasri, anch’egli sottoposto a mandato d’arresto dalla Corte penale internazionale. Negli Usa si inaugura una “nuova stagione reazionaria”: dall’eliminazione dei finanziamenti ai programmi salva-vita in Yemen, Siria, Myanmar - che per quest’ultimo ha messo a dura prova la gestione del terremoto che lo ha colpito il mese scorso - fino alla cancellazione del diritto d’asilo e delle tutele di genere, alle persecuzioni e deportazioni razziali. Giù le maschere: “Con Trump il diritto diventa il diritto del più forte, di imporre la pace alle sue condizioni - come in Ucraina o nella Repubblica democratica del Congo - il diritto di costringere gli altri a riarmarsi e di farsi beffe delle leggi internazionali”, afferma Bello. Con Trump il doppio standard, anziché un’attitudine da combattere e superare, viene elevato a metodologia politica. La libertà di protesta, invece, diventa una questione di gestione dell’ordine pubblico e di lotta all’antisemitismo. Qui non sono da meno i leader europei, a cominciare dall’Italia con l’approvazione, il 4 aprile, del decreto sicurezza da parte del Consiglio dei ministri: “Il governo Meloni sta smontando pezzo dopo pezzo il diritto di protesta in Italia”, commenta Ilaria Masinara, responsabile delle campagne Amnesty nel nostro paese. La repressione generalizzata del dissenso caratterizza, secondo le ricerche dell’associazione, decine di paesi: la situazione più critica si incontra in Bangladesh, dove le forze dell’ordine hanno fatto mille morti tra gli studenti che a luglio hanno protestato contro un decreto ministeriale. Segue il Mozambico, dove le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 277 persone - che secondo gli ultimi accertamenti potrebbero essere addirittura 400 - per le contestazioni di un risultato elettorale. La Turchia, il cui presidente Recep Tayyip Erdogan è ospite oggi della premier Meloni a Roma, ha imposto il divieto generale di protesta e dispiegato un uso illegale della forza contro i manifestanti, scesi in piazza a seguito dell’arresto arbitrario del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu. In Afghanistan alle donne “rimane a malapena il diritto di respirare, ma continuano le proteste online contro l’apartheid di genere cui sono sottoposte”, spiega Riccardo Noury. In sala c’è anche Alberto Amaro Jordan, giornalista messicano fondatore del periodico online La prensa de Tlaxcala, perseguitato a causa del suo lavoro di denuncia della corruzione e dei cartelli della droga: “Hanno tentato di assassinarmi più volte, un giorno hanno aperto il fuoco sul cortile di casa mia, dove mio figlio di 13 anni stava giocando a palla. Sono dovuto scappare e ho ricevuto asilo in Spagna, dove continuo a svolgere il mio lavoro”. Spiega che il Messico è stabilmente tra i 10 stati al mondo dove avvengono più omicidi di giornalisti: “Dal 2000 ad oggi ne sono stati uccisi centinaia, anche da parte del governo. Per questo ho lasciato il mio paese, il programma di protezione federale non era in grado, o non voleva, proteggermi”. I conflitti armati esplosi negli ultimi anni, poi, non fanno che peggiorare. Amnesty torna a denunciare il genocidio a Gaza e l’occupazione illegale e l’apartheid che Tel Aviv pratica in Cisgiordania. Sul fronte ucraino, invece, l’associazione registra un drastico aumento delle uccisioni indiscriminate di civili da parte dell’esercito russo, culminate nel massacro di Sumy la scorsa domenica delle palme. Noury ricorda poi i conflitti dimenticati nella Repubblica democratica del Congo e in Sudan, che ormai ha raggiunto 12 milioni di sfollati interni, decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti. “La comunità internazionale, inerte, ignora la peggiore crisi umanitaria al mondo, che al momento infuria in Sudan. Chi non ignora, poi, profitta cinicamente dalle risorse della ricca regione del Darfur, violando o aggirando l’embargo sulle armi posto sulla zona”, accusa Noury. NEL 2025 Amnesty celebra 50 anni di attività in Italia, ma è un festeggiamento amaro se si guarda al tragico quadro che denuncia. Ad addolcirlo solo qualche buona notizia, come la fine della vicenda giudiziaria di Julian Assange, che nel 2024 è tornato libero. Le guerre e le repressioni: così l’effetto Trump mette a rischio i diritti di Riccardo Noury* Il Domani, 29 aprile 2025 Lo scorso anno Amnesty International aveva messo in guardia sulla progressiva erosione del sistema di protezione globale dei diritti umani e sull’indebolimento degli strumenti di risoluzione dei conflitti e di cooperazione. Ora assistiamo a un’accelerazione di tutto questo, a causa delle politiche della nuova amministrazione americana. Esce oggi il Rapporto di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo, pubblicato in Italia da Infinito Edizioni e contenente schede su 150 stati. Nel suo complesso, il volume evidenzia la continuità di due tendenze: l’inasprimento dei conflitti e la repressione delle proteste (dove l’Italia fa la sua parte). Rispetto a quest’ultimo fenomeno, nel 2024 l’esempio peggiore è arrivato dal Bangladesh, con mille morti tra i manifestanti scesi in piazza lo scorso luglio per protestare contro una proposta di legge che avrebbe riservato una quota sproporzionata di posti di lavoro nel settore pubblico ai discendenti dei veterani della guerra di liberazione del 1971. In Mozambico, da ottobre, le forze di sicurezza hanno dato luogo alla peggiore repressione delle proteste da anni dopo un contestato risultato elettorale, uccidendo quasi 400 persone. In Iran, contro le manifestazioni del movimento Donna Vita Libertà, sono proseguiti gli arresti, gli stupri in carcere, i processi e le condanne, anche a morte. In Corea del Sud, invece, ha vinto il potere delle persone quando il presidente Yoon Suk-yeol ha sospeso alcuni diritti umani e dichiarato la legge marziale, per poi essere rimosso dall’incarico e veder annullati i suoi provvedimenti dopo proteste di massa. E a voler vedere bene è successo qualcosa di positivo anche in Bangladesh: dopo quei mille morti, la prima ministra Sheikha Hasina è stata costretta all’esilio, il provvedimento contestato è stato annullato e alla guida del governo è stato nominato ad interim il Nobel per la pace Muhammad Yunus. Conflitti - Quanto ai conflitti, Amnesty International ha continuato a documentare il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza; il sistema di apartheid e l’occupazione illegale in Cisgiordania si sono fatti più violenti. La Russia ha ucciso più civili ucraini nel 2024 che nell’anno precedente, proseguendo a colpire centri abitati e infrastrutture civili. In Sudan il numero delle persone costrette a lasciare le loro case dopo due anni di guerra civile è salito a 11 milioni - il più alto al mondo - nella pressoché totale indifferenza mondiale, per non parlare di chi cinicamente ha sfruttato l’occasione per violare l’embargo sulle armi dirette verso il Darfur. Nel 2024 è anche iniziato un attacco frontale alla giustizia internazionale. La “pietra dello scandalo” è il mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale il 21 novembre contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’allora ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza. Il venir meno degli obblighi di cooperazione degli stati verso la Corte è poi emerso clamorosamente quest’anno, col mancato arresto dello stesso Netanyahu in Ungheria e la mancata consegna alla Corte, da parte dell’Italia, del ricercato libico Almasri. Lo scorso anno Amnesty International aveva messo in guardia sulla progressiva erosione del sistema di protezione globale dei diritti umani e sull’indebolimento degli strumenti di risoluzione dei conflitti e di cooperazione. Ora assistiamo a un’accelerazione di tutto questo, grazie all’”effetto Trump”. Trump e i diritti - Nei primi 100 giorni del suo secondo mandato, il presidente degli Usa non ha fatto altro che mostrare profondo disprezzo per i diritti umani. La sua amministrazione ha subito preso di mira istituzioni statali e internazionali fondamentali e iniziative sorte per rendere il mondo più sicuro e più equo. Il suo assalto a tutto campo alla vera e propria essenza dei concetti di multilateralismo, asilo, giustizia razziale e di genere, salute globale e azioni sul clima decisive per salvare vite umane sta aggravando i danni già arrecati a quei principi e a quelle istituzioni. Quel che è peggio è l’effetto Trump sta galvanizzando leader contrari ai diritti umani: uno su tutti, Viktor Orbán, che due settimane fa ha avviato una nuova fase repressiva facendo, come ha dichiarato, le “pulizie di Pasqua”, attraverso una serie di modifiche costituzionali che di fatto vietano i Pride, stabiliscono che il genere al momento della nascita non è modificabile e criminalizzano gli ungheresi e le ungheresi con doppia cittadinanza considerati “minacciosi”. Con Trump, in definitiva, il diritto sta diventando “il diritto del più forte”: di imporre la pace a proprie condizioni, di costringere altri a riarmarsi per diventare ugualmente forti, di farsi beffe della giustizia internazionale. *Portavoce di Amnesty International Italia Turchia. Chi difende i difensori di Eliana Riva Il Manifesto, 29 aprile 2025 In Turchia arrestare gli avvocati degli oppositori per gli stessi reati imputati ai loro clienti è ormai la prassi. Dalla cella in cui è recluso da cinque anni parla, anzi prova a parlare Aytaç Ünsal. La lettera con la quale l’avvocato Aytaç Ünsal ha risposto alle nostre domande dal carcere turco di massima sicurezza a Edirne è piena di censure. Il bianco occulta righe e righe, centinaia di parole con cui intendeva raccontarci la sua battaglia per la giustizia e quella dei tanti altri avvocati detenuti nelle carceri turche. Restano i numeri scritti a penna rossa. Sono il riferimento della “Commissione di controllo lettere” che consentirà all’amministrazione carceraria di utilizzare le risposte di Aytaç contro se stesso. Una volta consegnate le domande, veniamo a sapere che gli è stata comminata una sanzione disciplinare che gli impedisce di ricevere visite per due mesi. La maggior parte dei legali in prigione in Turchia è colpito da punizioni disciplinari che sospendono i colloqui, vietano di leggere libri, di usufruire dell’ora d’aria giornaliera. Le sanzioni allungano i tempi di detenzione, anche di anni. La Commissione ha trattenuto la lettera perché ritenuta “dannosa”. Alla fine arriva, ma censurata. Due pagine su sei cancellate. “Probabilmente nulla di ciò che ho scritto nella mia vita - ci dice il legale - è stato letto con tanto interesse”. Aytaç Ünsal, 35 anni, è membro dell’Associazione degli avvocati progressisti (Chd), da lungo tempo perseguitati in Turchia. Anche il presidente dell’associazione, Selcuk Kozagacli, è in prigione, così come sua moglie, Betul Vangolu, pure lei avvocata. Aytaç si trova in isolamento in un carcere di Tipo-F, pensato e costruito specificamente per gli oppositori politici. È organizzato con lo scopo di separare i dissidenti, ridurre al minimo i loro rapporti con il mondo esterno, provare ad estinguere il desiderio di equità e giustizia sociale, piegarne le convinzioni politiche e gli ideali. Quello di Tipo-F non è il peggiore. C’è la prigione cosiddetta “a fossa” dove non esiste alcun tipo di contatto umano, neanche con i secondini, a cui ci si può rivolgere solo attraverso un interfono. Le condizioni di detenzione dei legali in Turchia sono giudicate estreme e contrarie alle convenzioni sui diritti umani da centinaia di associazioni internazionali che da anni organizzano missioni di osservazione. Dopo cinque anni di carcere e nonostante i problemi di salute causati dallo sciopero della fame che portò alla morte, nel 2020, della sua collega Ebru Timtik, Aytaç conserva l’incrollabile certezza che la sua battaglia sarà vittoriosa. Sappiamo da sua moglie, Didem Baydar, che in uno dei passaggi epurati parlava proprio di Ebru, della sua resistenza, del suo sacrificio. Anche la sorella di Ebru, Bark?n Timtik, avvocata, è in prigione e sconta una pena di 20 anni nel carcere di Silivri. Per Aytaç è una questione che non riguarda solo la Turchia, una lotta internazionalista per la libertà e la giustizia dei popoli. Più si alza la voce di chi chiede giustizia, “maggiore sarà la repressione e la violenza del sistema imperialista”, ci ha scritto. “In Europa, i diritti all’istruzione, alla salute e alla pensione vengono violati. I popoli africani si stanno trasformando in rifugiati. Quelli dei Paesi neocoloniali, come la Turchia, bruciano nel fuoco della fame e della povertà. Chiunque si opponga a questo sfruttamento, indipendentemente dal pensiero politico, dalla religione o dal credo, è minacciato con la stessa crudeltà di Gaza. I fascisti avanzano e le carceri si riempiono. Chiunque difenda i diritti del popolo, chieda giustizia, dica la verità viene aggredito. È questo il motivo per cui gli avvocati del popolo sono sotto attacco”. Eppure, per lui questi tentativi violenti di controllare il dissenso non potranno spezzare le reni dell’opposizione: “Con l’aumentare della repressione, cresceranno la resistenza e la lotta per la giustizia”. Nella maggior parte dei casi gli avvocati arrestati difendono oppositori politici, membri di associazioni che si occupano di giustizia e diritti umani, che si oppongono alla tortura, socialisti, marxisti. Vengono accusati dei reati imputati ai propri clienti. Doga Incesu fa parte dell’Ufficio legale del popolo (Hhb), è uno dei soli due avvocati del gruppo a essere rimasti liberi a Istanbul. Gli altri sono stati tutti arrestati. “Abbiamo centinaia di clienti, sparsi in diverse prigioni in giro per la Turchia” ci spiega il giovane legale. “Ci sono migliaia di persone che sono state arrestate con accuse assolutamente inconsistenti. Persone innocenti, sottoposte a processo solo a causa della loro identità politica, perché si oppongono al governo o semplicemente perché di sinistra. Spesso sono in sciopero della fame”. Migliaia di persone sono state arrestate e mandate a processo solo perché anti-governo o di sinistra. Spesso sono in sciopero della fame La raccolta firme lanciata per chiedere il rilascio degli avvocati imprigionati in Turchia sta facendo da mesi il giro del mondo. È improbabile che le autorità turche la prendano in considerazione ma è certo che gli avvocati non fermeranno per questo la loro lotta: “Noi ci consideriamo membri di una grande famiglia di persone sparsa in tutto il mondo, quella di chi resiste. I nostri sforzi sono per la verità e per il futuro. Per noi questo è il senso stesso della vita e la via per la felicità. La nostra prigionia è il prezzo che paghiamo e ci mostra ogni giorno quanto siamo giusti e forti”. La risposta, Aytaç ne è sicuro, è organizzare il dissenso e far crescere la lotta comune dei popoli contro l’imperialismo. “È diventato chiaro - ci ha scritto - che l’imperialismo e la democrazia non possono convivere”. Gli avvocati detenuti e coloro che li difendono chiedono la chiusura delle prigioni “a fossa” e di quelle di Tipo-F e la scarcerazione di tutti i prigionieri gravemente malati. Lo fanno provando a utilizzare una giustizia, quella turca, che è politicizzata e corrotta dal potere centrale. E sperano in un sostegno internazionale: “Tutte le nostre differenze politiche, religiose e culturali sono collaterali. Il nostro desiderio di giustizia, la nostra richiesta di libertà e di democrazia sono comuni. Chi resiste vince sempre. Crediamo in questa verità con la nostra coscienza e con il nostro cuore”. La fame come arma a giudizio: Israele torna di fronte all’Aja di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 aprile 2025 Si è aperta ieri la cinque giorni di udienze per determinare gli obblighi di Tel Aviv verso i palestinesi e verso le Nazioni Unite. Cinque giorni, 40 paesi presenti, 15 giudici del più alto tribunale del pianeta e una domanda: “Quali sono gli obblighi di Israele, in quanto potenza occupante e membro delle Nazioni unite, in relazione alla presenza e alle attività delle Nazioni unite…nei Territori palestinesi occupati e in relazione ad essi, tra cui quello di garantire e facilitare la fornitura senza ostacoli di forniture urgentemente necessarie, essenziali per la sopravvivenza della popolazione civile palestinese (…)”. Lo chiede l’Assemblea generale dell’Onu alla Corte internazionale di Giustizia: dateci la vostra opinione, non vincolante ma politicamente pesantissima. La richiesta era contenuta in una risoluzione del 29 dicembre 2024, votata all’epoca a larghissima maggioranza. I tempi lunghi del diritto internazionale: nel frattempo Israele, il 2 marzo, ha sigillato i valichi di Gaza, rendendoli impermeabili a qualsiasi bene che dovrebbe garantire la sopravvivenza di cui sopra. I palestinesi hanno fretta: le panetterie non sfornano più il pane, a Gaza sud non c’è più benzina per le ambulanze (è di ieri l’annuncio della protezione civile, da qui in avanti non c’è modo di muoversi a recuperare i feriti nei raid israeliani), gli ospedali sono gusci vuoti e i malati muoiono uno dietro l’altro, per ferite infette o malattie croniche curabilissime se ci fossero i medicinali (morti che non entrano nei bilanci ufficiali). Il diritto internazionale però ha i suoi tempi. La Corte internazionale ascolterà per cinque giorni gli interventi di 40 paesi, di esperti e di organizzazioni internazionali per poter poi prendere la sua decisione, che arriverà “probabilmente tra qualche mese, forse nel 2026”, ci spiega Triestino Mariniello, giurista e parte del team legale che rappresenta le vittime palestinesi di fronte alla Corte penale internazionale Israele che obblighi ha verso il popolo che occupa e verso le Nazioni unite? Una domanda, questa, strettamente legata alla personale guerra scatenata contro il sistema Onu, fatta di 295 operatori uccisi, la messa al bando di Unrwa (l’agenzia per i rifugiati palestinesi e principale distributore e gestore di beni e servizi alle comunità), i raid mirati su scuole e strutture dipinte di blu e soprattutto la violazione sistematica e ripetuta delle regole del diritto internazionale e umanitario. “La decisione non è vincolante - continua Mariniello - ma sarà importante perché va a toccare i principi fondamentali del diritto internazionale, e questi sì, sono vincolanti: ovvero gli obblighi di una potenza occupante, nel caso israeliano a Gaza come in Cisgiordania e a Gerusalemme est”. Israele potrà bypassare la decisione come ha fatto con tutte le precedenti. Renderla operativa spetterebbe agli Stati membri dell’Onu, con sanzioni, isolamento, interruzione dei rapporti diplomatici, embargo militare, quella cassetta degli attrezzi rimasta sigillata, come i valichi di Gaza. “Credo che la Corte - conclude Mariniello - accetterà quanto richiesto e si esprimerà in modo molto esplicito sul fatto che Israele sta violando il diritto internazionale, in particolar modo dopo il bando di Unrwa nei Territori palestinesi occupati. E ribadirà quanto espresso nelle misure cautelari emesse a gennaio e maggio del 2024: seppure il procedimento sia indipendente dalla causa mossa dal Sudafrica, la decisione di bandire Unrwa rientra in quel piano genocidiario, è uno dei modi per distruggere in tutto o in parte il popolo palestinese”. La cinque giorni olandese infatti si inserisce all’interno di un rinnovato impegno delle Corti dell’Aja intorno alla questione palestinese, dalle decisioni che hanno accolto la denuncia sudafricana contro Tel Aviv per “genocidio plausibile” alla sentenza con cui, a luglio 2024, si definiva l’occupazione israeliana illegale, un’annessione de facto e un regime di apartheid, da smantellare entro un anno. Fino ai mandati d’arresto, spiccati lo scorso novembre, contro il premier Netanyahu e l’allora ministro della difesa Gallant. Netanyahu, forte di un’impunità garantita a livello internazionale, ha ulteriormente aggravato le condizioni di vita a Gaza e domenica, alla vigilia della prima udienza, ha ribadito di voler mantenere il controllo militare di Gaza e portare avanti il piano trumpiano di pulizia etnica della Striscia: “Credetemi, molti di loro se ne andranno”. Si usano fame, malattie, raid indiscriminati, tutto ciò che serve a dire ai palestinesi che nella loro terra l’unico futuro possibile è la morte o una sopravvivenza indegna. Tra domenica pomeriggio e ieri in serata si contavano 71 uccisi, per un bilancio ufficiale di 52.300 vittime dal 7 ottobre 2023 (numero che non tiene conto dei dispersi, migliaia, e delle morti “indirette”). E poi c’è l’altro fronte, la Cisgiordania, dove l’esercito opera in simbiosi con il movimento dei coloni, responsabili di attacchi ormai quotidiani e sempre più agghiaccianti: agli incendi nei villaggi, si aggiungono ora i rapimenti. Sabato, il terzo: due palestinesi sono stati presi a Kober nelle loro case, spogliati, picchiati, portati via con le mani legate. Sono stati liberati la notte dopo. A Sinjel, vicino Ramallah, villaggio preso di mira la scorsa settimana sia dai coloni sia dall’esercito, ieri le autorità israeliane hanno iniziato a erigere un muro. Circonderà la comunità, separandola dalle terre agricole, distruggerà un migliaio di alberi d’ulivo. L’immagine, per niente metaforica, dell’oppressione di un popolo occupato da decenni.