Le carceri, la speranza e la via per rinascere di Marta Cartabia* Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2025 Nel giorno dei funerali del Papa, accanto ai capi di stato e di governo, non poteva mancare una delegazione di detenuti. Un gruppo di detenuti insieme ai leader del mondo. Nel giorno dei funerali del Papa, accanto ai capi di stato e di governo, non poteva mancare una delegazione di detenuti. Vengono dal carcere di Rebibbia, l’istituto di pena dove il 26 dicembre 2024 Papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa del giubileo della speranza. Lungo tutto il suo pontificato, fino all’ultimo giorno, le forze ormai allo stremo, Papa Francesco ha dedicato una grande attenzione ai detenuti. Da ultimo ha voluto visitare i carcerati, a Regina Coeli, nella ricorrenza del Giovedì Santo, quando le celebrazioni liturgiche ricordano la lavanda dei piedi. Ogni anno Papa Francesco ha voluto rivivere e far rivivere quel gesto che sovverte ogni ordine sociale e lo ha voluto fare in carcere, nel luogo più estremo. Chi ha assistito a una di quelle celebrazioni, o ha avuto occasione di vederne le immagini, non può dimenticare la figura dell’autorità ultima della Chiesa china sul corpo dei detenuti e delle detenute, e non può dimenticare gli sguardi increduli e commossi di coloro che hanno ricevuto quel lavacro inusuale e con esso la riscoperta della propria dignità. La lavanda dei piedi in carcere è forse la più potente delle tante immagini e delle tante parole che il pontificato di Francesco ha lasciato in eredità a chi vive dentro il carcere, a chi dentro il carcere lavora, a chi se ne occupa per professione, alle madri, ai padri, alle mogli, ai mariti, ai figli dei detenuti, a chi sa che dietro le mura di detenzione c’è una parte della società in cui viviamo e non volta lo sguardo altrove. “Il carcere deve avere sempre una finestra, una finestra aperta”: è questa una delle frasi che Papa Francesco ha ripetuto instancabilmente. Lo ha fatto parlando ai detenuti, durante le sue visite. Lo ha fatto parlando a professori e professionisti del diritto penale. Lo ha fatto ogni volta che è intervenuto pubblicamente sulla condizione detentiva. La finestra è un elemento fisico, ma è anche un’immagine dall’altissimo valore simbolico. La finestra è uno squarcio che permette alla luce di entrare anche nei luoghi più tetri. La finestra è un elemento di comunicazione tra il dentro e il fuori. La finestra è anche un’apertura che permette a chi è all’interno di affacciarsi al di là e proiettare lo sguardo oltre le mura. Perciò la finestra è l’immagine della speranza. E Francesco ha ripetutamente spalancato le finestre del carcere con le sue visite e con l’apertura della porta santa all’inizio dell’anno giubilare a Rebibbia. Quel gesto è stato ed è un chiaro messaggio rivolto anzitutto ai detenuti, una esortazione a non rassegnarsi. Un invito a guardare verso un orizzonte diverso, a una vita diversa, rinnovata. Quel gesto è anche una chiamata alla responsabilità, un appello rivolto a tutti, a interrogarsi su che cosa significhi in concreto che gli istituti di detenzione siano luoghi di speranza. La Corte europea dei diritti dell’uomo, a proposito della condizione dei detenuti, parla di diritto alla speranza. Ma quale speranza si può sperimentare dentro un carcere? Le condizioni fisiche degli istituti penitenziari, il sovraffollamento ritornato a livelli di guardia, l’insufficienza del personale, le tensioni interne, i disagi e le malattie mentali, i suicidi, la scarsità delle possibilità di lavoro e delle opportunità di formazione: questi e tanti altri problemi fanno pensare che il carcere sia tutto fuorché un luogo di speranza. Eppure, sorprendentemente, non mancano esempi di vite rinate. Tra le molte che mi è capitato di incontrare, mi premono soprattutto le storie dei ragazzi. Ai ragazzi dobbiamo con priorità offrire uno spiraglio verso un futuro diverso. Molti di loro attendono, più o meno consapevolmente, un’alternativa alla vita che li ha portati dietro le sbarre. La realtà conferma questa ipotesi, come nel caso dei giovani, una decina all’anno, che stanno facendo un percorso di studi universitari nel mio ateneo, in Bocconi, assistiti da docenti e tutor, dal primo giorno di studio fino all’ultimo esame, alla laurea e, decisivo, fino all’inserimento nel mondo del lavoro. Uno di loro qualche settimana fa diceva che non aveva mai neppure pensato di potersi laureare e che in fin dei conti in carcere ha incontrato una opportunità che altrimenti non avrebbe neppure saputo immaginare. Una goccia in un oceano di bisogno, di sofferenze, di abbandono. Una goccia insufficiente di certo a risolvere tutti i problemi che affliggono l’universo carcere, ma sufficientemente potente da lasciar filtrare un raggio di sole per tutti, come diceva Eugenio Perucatti, direttore di uno dei più severi luoghi di punizione, l’ergastolo di Santo Stefano a Ventotene (ormai chiuso da molto tempo). Una storia, quella di questo coraggioso direttore, che Papa Francesco aveva molto apprezzato, durante un breve incontro nel carcere di Civitavecchia, a margine della funzione della lavanda dei piedi. È da storie così che può rinascere la speranza come possibilità concreta, reale, per chiunque, in qualunque condizione. È ad esse che occorre guardare per lasciarci interrogare su che cosa possa significare spalancare una finestra per tutti. *Professoressa di diritto costituzionale nell’Università Bocconi di Milano Delmastro: “Fucili anti-droni e squadre di intervento rapido per gli eventi critici nelle carceri” di Erika Pontini La Nazione, 28 aprile 2025 Dai fucili antidroni per intercettare e abbattere la droga che entra in carcere, alle squadre (Gio) di intervento speciale in grado di entrare in azione in un’ora in caso di eventi critici con l’ausilio della nuova figura di un negoziatore, agli oltre diecimila nuovi poliziotti della Penitenziaria in Italia che Andrea Delmastro, sottosegretario alla giustizia, si intesta in toto nell’ambito di un articolato piano-carceri. “I poliziotti andranno da maggio in poi a dare una boccata d’ossigeno ai penitenziari, dopo aver tamponato l’emergenza turnover dovuta ai pensionamenti. Avessero fatto di più i sottosegretari che mi hanno preceduto oggi avremmo un problema di sovraffollamento di agenti nelle carceri invece che di detenuti - sferza. Ho quasi 50 anni, quando sono nato mancavano 10mila posti nei penitenziari, oggi dopo tutti i provvedimenti svuota-carceri, ne mancano altrettanti: significa che vanno intraprese altre strade”. Delmastro sbarca a Firenze in visita al contestato carcere di Sollicciano dove alberga una situazione drammatica, soprattutto sul fronte dell’edilizia carceraria: infiltrazioni di acqua, cimici, assenza di docce nelle celle, freddo l’inverno e caldo d’estate. E arriva annunciando un pacchetto di interventi salva-Sollicciano, perché “l’abbattimento è una soluzione che non ci possiamo permettere nell’immediatezza, ma questo non significa che un domani, realizzate le opere del commissario straordinario non si possa pensare all’abbattimento”, spiega rispondendo a quanti - dalla sindaca Sara Funaro, ai magistrati di Md, alle Camere penali - ne chiedono l’immediata chiusura per una situazione invivibile, già sanzionata anche dalla magistratura di Sorveglianza. “Ora ci concentriamo su interventi di grande respiro in grado di dare subito un volto nuovo a Sollicciano”. Ma insieme ai 7,5 milioni di euro per proseguire il risanamento della struttura che ha subito un pesante stop a causa dell’appalto e della errata progettazione precedente, e ai 2,6 milioni per dotare il penitenziario di un sistema di videosorveglianza, Delmastro annuncia una partnership pubblico-privato che partirà proprio da Firenze, ma interesserà anche altre strutture penitenziarie, per l’efficientamento energetico. “Il fatto che si sia fatto avanti un player importante come Edison è un passaggio fondamentale”, chiosa. Ma oltre agli interventi di edilizia che saranno seguiti da un commissario straordinario con un fondo di 250milioni di euro (in carica fino a dicembre 2026), Delmastro ci tiene a snocciolare i nuovi progetti: dotazioni supplementari per il personale, dai caschi ai guanti antitaglio agli scudi antisommossa, squadre di intervento rapido (entro un’ora dall’evento critico) con aliquote attive a breve in ciascuna regione (il nuovo Gio) e fucili abbatti-droni. “La maggior parte delle sostanze stupefacenti che entra in carcere arriva con i droni - spiega a Qn-La Nazione Delmastro -, per questo abbiamo dotato il corpo di polizia penitenziaria di fucili studiati appositamente per abbatterli e presto saranno installate in ciascun penitenziario le relative postazioni. “Stiamo investendo molto in tecnologia per rendere le carceri più sicure: da una parte nuove unità cinofile, dall’altra stiamo studiando di dotare le carceri di scanner speciali, ma molto costosi, in grado di intercettare l’ingresso di droga e, infine, i fucili antidroni con la formazione apposita del personale”. Sul fronte degli eventi-critici il ministero ha anche reso operativo un manuale di pronto-intervento per gli agenti, in grado di indirizzarli verso situazioni a rischio. “Vorrei anche poter annunciare che gli agenti da giugno avranno in busta paga 100 euro in più - e ovviamente i graduati a seconda dei rispettivi contratti - per dare un segnale di vicinanza a quanti ogni giorno si occupano della sicurezza delle nostre comunità”. “Più in generale la velocità garantita attualmente dal Dap dipende anche dalla nuova struttura organizzativa con uomini e donne in divisa che conoscono molti dei problemi che sono chiamati a gestire”. Il Decreto Sicurezza viola la Costituzione La Stampa, 28 aprile 2025 Pubblichiamo l’Appello per una sicurezza democratica lanciato e sinora sottoscritto da 237 giuspubblicisti di tutte le Università italiane tra i quali i Presidenti emeriti della Corte Costituzionale Ugo De Siervo, Gaetano Silvestri e Gustavo Zagrebelsky. È compito dei giuspubblicisti nei periodi normali della vita del paese interpretare ed insegnare la nostra Costituzione. È anche compito dei singoli giuspubblicisti assumere delle posizioni individuali all’esterno dell’Università. Ci sono momenti però nei quali accadono forzature istituzionali di particolare gravità, di fronte alle quali non è più possibile tacere ed è anzi doveroso assumere insieme delle pubbliche posizioni. È questo il caso che si è verificato nei giorni scorsi quando il disegno di legge sulla sicurezza, che stava concludendo il suo iter dopo lunghi mesi di acceso dibattito parlamentare dati i discutibilissimi contenuti, è stato trasformato dal Governo in un ennesimo decreto-legge, senza che vi fosse alcuna straordinarietà, né alcun reale presupposto di necessità e di urgenza, come la Costituzione impone. Tale decreto - ultimo anello di un’ormai lunga catena di attacchi volti a comprimere i diritti e accentrare il potere - presenta una serie di gravissimi profili di incostituzionalità, il primo dei quali consiste nel vero e proprio vulnus causato alla funzione legislativa delle Camere. È accaduto spesso in passato ed anche in tempi recenti che la dottrina si trovasse a denunciare l’uso abnorme dello strumento della decretazione d’urgenza. Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Presidenti delle Camere hanno più volte preso posizione in difesa del Parlamento e delle sue prerogative gravemente calpestate nell’esercizio della potestà legislativa, rimanendo inascoltati. In quest’occasione la violazione è del tutto ingiustificata e senza precedenti, dato che l’iter legislativo, ai sensi dell’art. 72 della Costituzione era ormai prossimo alla conclusione, quando è intervenuto il plateale colpo di mano con cui il Governo si è appropriato del testo e di un compito, che, secondo l’art. 77 Costituzione può svolgere solo in casi straordinari di necessità e di urgenza, al solo scopo, sembra, di umiliare il Parlamento e i cittadini da esso rappresentati. Quanto al merito, si tratta di un disegno estremamente pericoloso di repressione di quelle forme di dissenso che è fondamentale riconoscere in una società democratica. Ed è motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che questo disegno si realizzi attraverso un irragionevole aumento qualitativo e quantitativo delle sanzioni penali che - in quanto tali - sconsiglierebbero il ricorso alla decretazione d’urgenza, dal momento che il principio di colpevolezza richiede che chi compie un atto debba poter sapere in anticipo se esso è punibile come reato mentre, al contrario, l’immediata entrata in vigore di un decreto-legge ne impedisce la preventiva conoscibilità. Numerosi sono i principi costituzionali che appaiono compromessi. Solo a scopo esemplificativo vogliamo ricordarne alcuni: il principio di uguaglianza non consente in alcun modo di equiparare i centri di trattenimento per stranieri extracomunitari al carcere o la resistenza passiva a condotte attive di rivolta; in contrasto con l’art. 13 Cost. e la tutela della libertà personale è il c.d. daspo urbano disposto dal questore che equipara condannati e denunciati; non meno preoccupante è la previsione con cui si autorizza la polizia a portare armi, anche diverse da quelle di ordinanza e fuori dal servizio. Una serie di disposizioni del decreto-legge aggravano gli elementi di repressione penale degli illeciti addebitati alla responsabilità di singoli o di gruppi solo per il fatto che l’illecito avvenga “in occasione” di pubbliche manifestazioni, disposizione che per la sua vaghezza contrasta con il principio di tipicità delle condotte penalmente rilevanti, violando per giunta la specifica protezione costituzionale accordata alla libertà di riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 17 Cost.) mentre altre disposizioni violano palesemente il principio di determinatezza e di tassatività tutelato dall’art. 25 Cost.: si punisce con la reclusione chi occupa o detiene senza titolo “un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze”; si rischiano pene fino a sette anni per l’occupazione di luoghi che presentano un’estensione del tutto imprecisata e rimessa a valutazioni e preferenze del tutto soggettive dell’interprete. Torsione securitaria, ordine pubblico, limitazione del dissenso, accento posto prevalentemente sull’autorità e sulla repressione piuttosto che sulla libertà e sui diritti rappresentano le costanti di questi interventi. Insegniamo che la missione di chi governa dovrebbe essere quella di cercare un equilibrio nel rapporto tra individuo e autorità. Invece, il filo che lega il metodo e il merito di questo nuovo intervento normativo rende esplicito un disegno complessivo, che tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema, a governare con la paura invece di governare la paura. Confidiamo che tutti gli organi di garanzia costituzionale mantengano alta l’attenzione e censurino questo allontanamento dallo spirito della nostra Costituzione, che fonda la convivenza della comunità nazionale su democrazia, pluralismo, diritti di libertà ed uguaglianza di fronte alla legge, affinché nessuno debba temere lo Stato e tutti possano riconoscerne, con fiducia, il ruolo di garante della legalità e dei diritti. Firme: Ugo de Siervo (Presidente emerito della Corte costituzionale); Gaetano Silvestri (Presidente emerito della Corte costituzionale); Gustavo Zagrebelsky (Presidente emerito della Corte costituzionale); Enzo Cheli (vice-Presidente emerito della Corte costituzionale); Paolo Maddalena (vice-Presidente emerito della Corte costituzionale); Maria Agostina Cabiddu - Politecnico di Milano; Vittorio Angiolini - Università degli Studi di Milano; Roberto Zaccaria - Università di Firenze; Roberta Calvano - Unitelma Sapienza; Stefano Agosta - Università di Messina; Alessandra Algostino - Università di Torino; Maria Romana Allegri - Università la Sapienza; Carlo Amirante - Università di Napoli Federico II; Felice Ancora - Università di Cagliari; Francesca Angelini - Università la Sapienza; Adriana Apostoli - Università di Brescia; Antonio Ignazio Arena - Università di Messina; Marco Armanno - Università di Palermo; Vincenzo Atripaldi - Università La Sapienza; Gaetano Azzariti - Università la Sapienza; Enzo Balboni - Università cattolica S;C;; Stefania Baroncelli - Università di Bolzano; Sergio Bartole - Università di Trieste; Rosa Basile - Università di Messina; Franco Bassanini - Università “La Sapienza”; Gianluca Bellomo - Università “G; d’Annunzio” Chieti-Pescara; Auretta Benedetti - Università Milano Bicocca; Marco Benvenuti - Università la Sapienza; Chiara Bergonzini - Università di Macerata; Cristina Bertolino - Università di Torino; Ernesto Bettinelli - Università di Pavia; Paolo Bianchi - Università di Camerino; Giovanni Bianco - Università di Sassari; Roberto Bin - Università di Ferrara; Marco Bombardelli - Università di Trento; Paolo Bonetti - Università Milano Bicocca; Monica Bonini - Università Milano Bicocca; Giuditta Brunelli - Università di Ferrara; Eugenio Bruti Liberati - Università del Piemonte orientale; Camilla Buzzacchi - Università Milano Bicocca; Marina Calamo Specchia - Università di Bari “Aldo Moro”; Debora Caldirola - Università cattolica; Quirino Camerlengo - Università di Milano Bicocca; Antonio Cantaro - Università “Carlo Bo” di Urbino; M;T; Paola Caputi Iambrenghi - Università di Bari “Aldo Moro”; Francesco Cardarelli - Università di ROMA “Foro Italico”; Andrea Cardone - Università di Firenze; Paolo Caretti - Università di Firenz; Agatino Cariola - Università di Catania; Massimo Carli - Università di Firenze; Enrico Carloni - Università di Perugia; Arianna Carminati - Università di Brescia; Paolo Carnevale - Università Roma; Daniele Casanova - Università di Brescia; Maria Cristina Cavallaro - Università di Palermo; Elisa Cavasino - Università di Palermo; Angelo Antonio Cervati - Università la Sapienza; Roberto Cherchi - Università di Cagliari; Omar Chessa - Università di Sassari; Lorenzo Chieffi - Università della Campania; Paola Chirulli - Università la Sapienza; Pietro Ciarlo - Università di Cagliari; Alessandro Cioffi - Università del Molise; Ines Ciolli - Università la Sapienza; Stefano Civitarese Matteucci - Università “G; d’Annunzio” Chieti-Pescara; Giovanna Colombini -Università di Pisa; Manuela Matilde Consito - Università di Torino; Gianluca Conti - Università di Pisa; Guido Corso - Università di Palermo; Matteo Cosulich - Università di Trento; Luigi Cozzolino - Università di Macerata; Enrico Cuccodoro - Università del Salento; Chiara Cudia - Università di Firenze; Francesco Dal Canto - Università di Pisa; Giovanni D’Alessandro - UniCusano; Gianfranco D’Alessio - Università Roma; Giacomo D’Amico - Università di Messina; Antonio D’Andrea - Università di Brescia; Luigi D’Andrea - Università di Messina; Claudio De Fiores - Università della Campania; Gabriella De Giorgi - Università del Salento; Gian Candido de Martin - LUISS Guido Carli; Francesco Raffaello De Martino - Università del Molise; Giovanna De Minico - Università di Napoli Federico II; Andrea de Petris - Università degli studi internazionali di Roma; Ambrogio De Siano - Università della Campania Luigi Vanvitelli; Andrea Deffenu - Università di Cagliari; Michele Della Morte - Università del Molise; Gianmario Demuro - Università di Cagliari; Giovanni Di Cosimo - Università di Macerata; Alfonso di Giovine - Università di Torino; Leone Carlo Di Marco - Università di Teramo; Alessandra Di Martino - Università La Sapienza; Enzo Di Salvatore - Università di Teramo; Mario Dogliani - Università di Torino; Francesco Duranti - Università per stranieri di Perugia; Gianluca Famiglietti - Università di Pisa; Vera Fanti - Università “G; d’Annunzio” Chieti-Pescara; Veronica Federico - Università di Firenze; Gennaro Ferraiuolo - Università di Napoli Federico II; Leonardo Ferrara - Università di Firenze; Giancarlo Ferro - Università di Catania; Mario Fiorillo - Università di Teramo; Francesco Follieri - Università LUM “Giuseppe Degennaro”; Giampaolo Fontana - Università Roma; Matteo Frau - Università di Brescia; Marco Galdi - Università di Salerno; Silvio Gambino - Università della Calabria; Gianluca Gardini - Università di Ferrara; Paolo Giangaspero - Università di Trieste; Federico Girelli - UniCusano; Mario Gorlani - Università di Brescia; Stefano Grassi - Università di Firenze; Nicola Grasso - Università del Salento; Andrea Gratteri - Università di Pavia; Maria Cristina Grisolia - Università di Firenze; Tania Groppi - Università di Siena; Enrico Grosso - Università di Torino; Cosimo Pietro Guarini - Università di Bari “Aldo Moro”; Riccardo Guastini - Università di Genova; Andrea Guazzarotti - Università di Ferrara; Nicola Gullo - Università di Palermo; Antonio Gusmai - Università di Bari “Aldo Moro”; Danila Iacovelli - Politecnico di Milano; Giovanna Iacovone - Università della Basilicata; Maria Pia Iadicicco- Università della Campania; Carlo Iannello - Università della Campania; Luca Imarisio - Università di Torino; Maria Immordino - Università di Palermo; Marco Ladu - Università E-Campus; Fulco Lanchester - Università La Sapienza; Eva Lehner - Università di Siena; Erik Longo - Università di Firenze; Fabio Longo - Università di Torino; Donatella Loprieno - Università della Calabria; Laura Lorello - Università di Palermo; Matteo Losana - Università degli Studi di Torino; Federico Losurdo - Università di Urbino Carlo Bo; Filippo Lubrano - Università LUISS Guido Carli; Nadia Maccabiani - Università di Brescia; Paolo Maci, Università telematica PEGASO; Marco Magri, Università di Ferrara; Elena Malfatti - Università di Pisa; Maurizio Malo - Università di Padova; Michela Manetti - Università di Siena; Francesco Manganaro - Università Mediterranea di RC; Valeria Marcenò - Università di Torino; Barbara Marchetti - Università di Trento; Francesco Marone - Istituto Suor Orsola Benincasa; Ilenia Massa Pinto - Università di Torino; Anna Mastromarino - Università di Torino; Antonio Mastropaolo - Università della Valle d’Aosta; Giuditta Matucci - Università di Pavia; Paola Mazzina - Università Parthenope di Napoli; Alessandra Mazzola - Università di Brescia; Giacomo Menegus - Università di Macerata; Livia Mercati - Università di Perugia; Francesco Merloni - Università di Perugia; Giovanni Moschella - Università di Messina; Angela Musumeci - Università di Teramo; Carla Negri - Università di Palermo; Raffaella Niro - Università di Macerata; Walter Nocito - Università della Calabria; Giorgio Orsoni - Università Ca’ Foscari Venezia; Fabio Pacini - Università della Tuscia; Elisabetta Palici di Suni, Università di Torino; Francesco Pallante - Università di Torino; Saulle Panizza - Università di Pisa; Nino Paolantonio - Università di Roma Tor Vergata; Stefania Parisi - Università di Napoli Federico II; Maurizio Pedrazza Gorlero - Università di Verona; Luca Raffaello Perfetti - Università telematica Pegaso; Sergio Perongini - università di Salerno; Barbara Pezzini - Università di Bergamo; Valeria Piergigli - Università di Siena; Andrea Pierini, Università di Perugia; Roberto Pinardi - Università di Modena-Reggio Emilia; Cesare Pinelli - Università la Sapienza; Piero Pinna - Università di Sassari; Alessandra Pioggia - Università di Perugia; Paola Piras - Università di Cagliari; Giovanna Pistorio - Università di Roma; Filippo Pizzolato - Università di Padova; Marco Podetta - Università di Brescia; Fabrizio Politi - Università dell’Aquila; Salvatore Prisco - Università di Napoli Federico II; Andrea Pubusa - Università di Cagliari; Francesca Pubusa - Università di Cagliari; Giusto Puccini - Università di Firenze; Stefania Puddu - Università di Cagliari; Andrea Pugiotto - Università di Ferrara; Mario Alberto Quaglia - Università di Genova; Alberto Randazzo - Università di Messina; Margherita Raveraira - Università di Perugia; Saverio Regasto - Università di Brescia; Giorgio Repetto - Università di Perugia; Giuseppe Ugo Rescigno - Università la Sapienza; Giuseppe Pio Rinaldi - Università Cattolica S;C;; Giancarlo Rolla - Università di Genova; Roberto Romboli - Università di Pisa, membro CSM; Laura Ronchetti - Università del Molise; Emanuele Rossi - Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; Antonio Ruggeri - Università di Messina; Paolo Sabbioni - Università Cattolica S;C;; Fabio Saitta - Università di Catanzaro; Marcello Salerno - Università di Bari “Aldo Moro”; Simone Scagliarini - Università di Modena-Reggio Emilia; Michelangela Scalabrino - Università cattolica del Sacro Cuore; Paolo Scarlatti - Università Roma Tre; Angelo Schillaci - Università la Sapienza; Gianni Serges - Università Roma; Davide Servetti - Università Piemonte orientale; Massimo Siclari - Università Roma; Giorgio Sobrino - Università di Torino; Domenico Sorace - Università di Firenze; Giusi Sorrenti - Università di Messina; Federico Sorrentino - Università “La Sapienza”; Lorenzo Spadacini - Università di Brescia; Renata Spagnuolo Vigorita - Università di Napoli Federico II; Vittorio Teotonico - Università di Bari “Aldo Moro”; Marco Tiberi - Università della Campania; Elisa Tira - Università E-Campus; Rosanna Tosi - Università di Padova; Roberto Toniatti - Università di Trento; Alessandro Torre - Università di Bari “Aldo Moro”; Francesca Trimarchi - Università di Milano; Chiara Tripodina - Università Piemonte orientale; Michela Troisi - Università di Napoli Federico II; Riccardo Ursi - Università di Palermo; Alessandra Valastro - Università di Perugia; Giuseppe Verde - Università di Palermo; Paolo Veroonesi - Università di Ferrara; Giulio Enea Vigevani - Università di Milano Bicocca; Luigi Ventura - Università “Magna Graecia” di Catanzaro; Stefano Villamena - Università di Macerata; Massimo Villone - Università di Napoli Federico II; Mauro Volpi - Università di Perugia. Giuristi contro il dl sicurezza: “Forzatura senza precedenti” di Cosimo Rossi La Nazione, 28 aprile 2025 Presi di posizione di 250 giuspubblicisti, tra cui Roberto Zaccaria. “Quello del governo è un modello di repressione delle libertà democratiche”. “Appello per una sicurezza democratica”. È il titolo della presa di posizione contro il decreto sicurezza promosso, tra gli altri, dai presidenti emeriti della Corte costituzionale Ugo De Siervo, Gaetano Silvestri, Gustavo Zagrebelsky e i vicepresidenti Enzo Cheli e Paolo Maddalena. L’iniziativa ha già raccolto l’adesione di oltre 250 giuspubblicisti delle università italiane, come spiega il professor Roberto Zaccaria, già docente di istituzioni di diritto pubblico all’università di Firenze, oltre che ex presidente Rai e parlamentare dem. Professor Zaccaria, non capita spesso che il corpo accademico agisca così unanimemente... “Come abbiamo scritto, ci sono momenti in cui si verificano forzature istituzionali di particolare gravità, di fronte alle quali non è più possibile tacere ed è anzi doveroso assumere insieme pubbliche posizioni. È quel che è accaduto col decreto sicurezza, su cui c’è un giudizio critico unanime non solo da parte dei docenti, ma anche delle Camere penali e dell’Anm. Siamo di fronte a una forzatura senza precedenti che va aldilà dell’annoso abuso della decretazione d’urgenza, in quanto il governo ha scippato e umiliato le Camere, appropriandosi di un ddl lungamente discusso e sostituendolo con un maxi-decreto contenente nuove gravissime ipotesi di reato o di aggravamento di reati esistenti. Con uno strumento ordinario si sta facendo un’operazione di forte limitazione delle libertà democratiche che presenta gravi profili di incostituzionalità”. In relazione a cosa in particolare? “C’è innanzitutto il problema di fondo di come si si inquadra nel nostro ordinamento il tema della sicurezza. Da bene costituzionalmente tutelato e limite alle libertà costituzionali, rischia di trasformarsi in un valore ideale fondante, spesso coniugato col gemello ordine pubblico, che nella Costituzione non ha cittadinanza. Una lettura inappropriata che mette in discussione la nostra forma di Stato”. In pratica? “Si afferma un modello di repressione delle forme del dissenso che in una società democratica è invece fondamentale tutelare con forza. Se fare un sit-in equivale a un’aggressione durante una manifestazione, lo si equipara a comportamento violento. Oppure il Daspo urbano: impedire di partecipare a certe riunioni solo perché si è stati denunciati, non condannati, è un atto di prevaricazione fortissimo. Anche laddove si equiparano i Cpr al carcere e la resistenza passiva alle condotte attive di rivolta si lede il principio costituzionale di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Libertà personale (art. 13) e di circolazione (art. 16), diritto di riunione (art. 17), non tassatività delle pene (art. 25) sono tutte libertà costituzionali fortemente limitate dal decreto. Ciò dimostra la pericolosità di un atto legislativo che non è una riforma costituzionale, ma alcuni diritti fondamentali”. Non sarebbe allora il caso che docenti, magistrati e avvocati facessero sentire insieme la loro voce al Parlamento? “Il fatto che come giuspubblicisti abbiamo preso parola insieme serve a illuminare il problema, dando forza e rilevanza pubblica alla questione. Non siamo un partito o un’associazione di categoria. Cerchiamo di aprire alla società civile e di sollecitarla. Il nostro proposito è far capire all’opinione pubblica, che in democrazia forma le posizioni e influenza le decisioni politiche, che siamo di fronte a un serio pericolo. Poi noi ci siamo”. Zaccaria: “Decreto sicurezza incostituzionale e repressivo, appello dei giuristi per il no” di Conchita Sannino La Repubblica, 28 aprile 2025 Intervista al docente di diritto costituzionale, già deputato e presidente Rai. “Non possiamo tacere”. Di nuovo in campo i costituzionalisti. Stavolta contro il decreto Sicurezza, con 260 firme che pesano. Contro un altro “degli attacchi” della destra “volti a comprimere diritti e accentrare il potere”. Un duro appello, dallo stesso autorevole gruppo che un anno fa si schierò al fianco della senatrice Liliana Segre, dopo il suo j’accuse in Senato sul premierato. “Dobbiamo confidare che tutti gli organi di garanzia costituzionale mantengano alta l’attenzione”, auspica Roberto Zaccaria, già deputato e presidente Rai, promotore della mobilitazione che vede, come prime firme, ex presidenti e vice della Consulta: De Siervo, Silvestri, Zagrebesky, Cheli, Maddalena. Professore Zaccaria, il dl è per voi una “forzatura di particolare gravità”. È sufficiente per un appello? “Di fronte a profili incostituzionali di questo tenore, si ha il dovere di assumere una posizione. E le ragioni sono molteplici, di forma e sostanza. Già è significativo che un decreto legge, che incide fortemente sulla materia penale, sia sprovvisto totalmente dei requisiti di necessità e urgenza”. Anche altri governi hanno fatto largo uso di decreti d’urgenza... “Qui non siamo al “solito” abuso: ma a un pericolosa escalation”. Per la trasformazione repentina da disegno di legge a decreto d’urgenza? “Uso un termine improprio: è stato uno “scippo”. Il governo si è appropriato del disegno di legge e si è sostituito alle Camere. Eppure il ddl era quasi all’approvazione dopo un lungo iter: ma con un cambio di mano si è voluto un decreto di enormi dimensioni, con gravissime ipotesi di reato e aggravamento di reati esistenti. Che peraltro i cittadini ad oggi non conoscono”. Scrivete anche: “Un disegno estremamente pericoloso”... “Perché rivela una strategia chiaramente repressiva di quelle forme di dissenso che è invece fondamentale riconoscere in una società democratica. Per di più, lo realizzano mediante un irragionevole aumento qualitativo e quantitativo delle sanzioni”. Il principio dell’uguaglianza è gravemente compromesso, voi dite: perché? “Perché, tra le altre cose, si equiparano i centri di trattenimento per stranieri extracomunitari al carcere, e la resistenza passiva alle condotte attive di rivolta”. Anche il tema del daspo urbano è di dubbia costituzionalità? “Sì, appare in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione che sancisce che la libertà personale è inviolabile. Basta una denuncia del questore a determinarlo: ma così si equipara irragionevolmente condannati e denunciati”. Lei, in Commissione Affari costituzionali, cinque giorni fa, ha parlato di grave torsione. E ha detto: siete riusciti a mettere d’accordo giudici, avvocati e costituzionalisti contro il dl Sicurezza... “In effetti, è singolare: mentre sulla riforma della giustizia avvocati e magistrati sono agli antipodi, qui siamo tutti preoccupati allo stesso modo, e faremo dibattiti assieme”. Il professor Manes ha parlato anche di “ossessione securitaria”... “Sì, lo condivido totalmente”. I rilievi del Quirinale hanno scongiurato il peggio, poi toccherà alla Consulta? “Il presidente della Repubblica interviene di fronte ai profili di manifesta illegittimità, e benissimo ha fatto. Ma, come in uno Stato di diritto che funzioni, a ciascuno il suo compito”. Un potere sempre più invadente nel controllare, sanzionare e reprimere stili di vita di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 28 aprile 2025 Dall’insediamento di Giorgia Meloni come premier sono passati due anni e mezzo e da allora si è perso il conto dei provvedimenti finalizzati a introdurre nuovi reati, inasprire le pene, aumentare le aggravanti. Questa destra può nuocere alla salute. Sembra uno spot pubblicitario che richiama lo stile di una campagna contro il fumo, ma una qualche corrispondenza tra una certa azione politica e un lento e graduale danneggiamento dell’equilibrio mentale collettivo non è da escludere. Certo: le guerre, il cambiamento climatico, la pandemia, la crisi economica hanno un peso significativo in questo “stato confusionale”, ma c’è qualcosa di più. C’è un tratto caratteriale di una parte di questa destra che sembra colpire direttamente la componente più fragile del corpo sociale. In questo caso non ci si riferisce esclusivamente a quanti vivono una condizione di minorità (detenuti, migranti, senzatetto, malati psichici) e a quanti attuano azioni di protesta (occupanti di case, ambientalisti radicali, lavoratori in sciopero) - destinatari, praticamente tutti, di un intero decreto sulla sicurezza approvato il 4 aprile scorso - ma si vuole anche mettere in relazione alcune scelte politiche con un conseguente, e sempre più diffuso, senso di turbamento e di solitudine. E dunque con un sentimento che ha a che fare con lo stato di salute di una comunità e con il suo benessere emotivo. Dall’insediamento di Giorgia Meloni come premier sono passati due anni e mezzo e da allora si è perso il conto dei provvedimenti finalizzati a introdurre nuovi reati, inasprire le pene, aumentare le aggravanti. E non sono mancati episodi che hanno mostrato la più sincera, come dire?, malvagità di alcuni membri di questo governo: dal definire i migranti “cani e porci” al dichiarare di provare “un’intima gioia” nel vedere i detenuti in regime di 41-bis trasportati nei nuovi automezzi in dotazione alla polizia penitenziaria, dall’elogiare l’operato dei poliziotti accusati di aver torturato i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere al rivendicare l’utilizzo delle fascette ai polsi dei migranti trasferiti nel centro per il rimpatrio in Albania. Ma, come si diceva, qui non si tratta solo di giudicare moralmente tutte quelle iniziative che mortificano i disgraziati privati della libertà personale e i fuggiaschi arrivati via mare nel nostro paese. Si tratta piuttosto di evidenziare come questa destra voglia assegnare allo Stato un potere sempre più invadente nel controllare, sanzionare e reprimere stili di vita, scelte di consumo, preferenze sentimentali, orientamenti sessuali, opzioni riproduttive. E per fare questo si sono adottate le misure più drastiche e si sono annunciati i propositi più aggressivi: ostacolare l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, limitare il diritto di cittadinanza, vietare la gestazione per altri, impedire la realizzazione di famiglie omogenitoriali, proporre, se non la cancellazione, la limitazione del ricorso al reato di tortura. È facile credere che l’impulso autoritario e lo sprezzo nei confronti di determinate libertà possano incutere angosce, inquietudini e disagi solo a chi è collocato nella parte opposta dello schieramento politico, ma non è così: in un contesto in cui le libertà individuali e sociali vengono insidiate o ridimensionate, le persone che di quelle libertà dovrebbero godere subiscono effetti psicologici negativi. E ciò non riguarda solamente le donne che non vogliono diventare madri e le persone in gravi difficoltà economiche, le coppie omosessuali che vorrebbero adottare figli e le vittime di abusi da parte delle forze di polizia; ma riguarda tutti coloro che vogliono uno Stato capace di tutelare i diritti collettivi e quelli individuali e di garantire il più ampio pluralismo e la massima libertà di espressione del pensiero. Fattori essenziali, questi, per preservare la salute dei singoli e delle comunità. La destra sembra voler fare dello Stato il riflesso e lo strumento della propria ideologia. In ciò potrebbe rientrare anche la scelta di decretare cinque giorni di lutto nazionale per la morte di papa Francesco; e l’invito a “svolgere tutte le manifestazioni pubbliche in modo sobrio e consono alla circostanza” e a evitare “balli e canti scatenati” (il ministro Nello Musumeci). Ciò appare come l’imposizione di una modalità di osservanza del lutto quale espressione del proprio sentimento di parte politico-culturale. Forse la destra, di fronte alle critiche mosse al rischio di “oscurare” così il 25 aprile, crede che l’opposizione sia affetta da una sorta di “sindrome da disturbo di Meloni”. Un disturbo simile a quello che i repubblicani statunitensi hanno proposto di riconoscere come patologia e quanto porterebbe “all’insorgenza acuta di paranoia in persone altrimenti normali in reazione alle politiche e alle scelte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump”. Maria Carla Gatto: “Nei reati dei ragazzi vediamo ancora l’effetto lockdown” di Antonio Rossitto La Verità, 28 aprile 2025 Il presidente del Tribunale dei minorenni di Milano: “I minorenni sono più fragili, anche la loro violenza è cambiata: ora è gratuita. A Milano da settembre del 2024 a oggi, abbiamo avuto tre delitti con cinque vittime: allarmante non solo per il numero, ma anche per la modalità. Questi delitti non nascono in situazioni emergenziali. Quei ragazzi vivevano insieme ai genitori. Erano integrati nel tessuto sociale”. Gente normale... “Nel delitto di Garzeno, paesino tra le montagne del Comasco, un diciassettenne ha ucciso a coltellate un commerciante. La madre lo accompagnava con l’auto a fare scuola guida. Non parliamo di criminalità organizzata e nemmeno di ragazzi allo sbando”. Un altro diciassettenne di Paderno Dugnano, Riccardo Chiarioni, ha sterminato la sua famiglia dopo una festicciola di compleanno: “Mi sentivo oppresso” s’è giustificato... “Ecco: il padre era un imprenditore edile. Ricordo pure il caso del ragazzo che ha colpito il vicino, poi sopravvissuto, con la mazza da baseball nel box: i genitori erano due professionisti. Non c’è più, insomma, quell’automatismo tra reato e emarginazione”. Viene in mente serie televisiva del momento. Racconta, appunto, l’imprevedibilità del male: Jamie, insospettabile studente, di famiglia semplice e onesta, uccide una compagna di classe dopo essere stato dileggiato sui social... “Come in quella fiction, gli adulti sono spesso presenti ma distratti. Lo vediamo pure noi nelle udienze di convalida degli arresti”. Cosa succede? “I genitori restano ai margini della storia. Procurano un bravo avvocato al figlio, ma lì sembra finire la loro partecipazione, almeno nell’immediato. Sembrano estranei. Appaiono immobili. Si comportano in modo simile agli adolescenti. Non capiscono, fino in fondo, cosa sta capitando”. Hanno enormi responsabilità, allora? “C’è la mancanza di riferimenti affidabili, che possano guidare i giovani. Evidentemente, sono distratti dalle preoccupazioni. Non riescono ad andare oltre il quotidiano. Occorre invece aiutare i ragazzi a tirar fuori il meglio. Se gli adulti non entrano in relazione con loro, questo però è impossibile. Fare il genitore è il lavoro più difficile del mondo, certo. Ma bisogna almeno provarci”. La distrazione diventa una colpa. È un altro dei, dibattuti, messaggi di Adolescence... “Ignorano i problemi di chi hanno accanto. Non riescono a parlare con i figli, tantomeno ad ascoltarli. Sono smarriti come loro. L’abbiamo verificato negli eventi tragici di cui ci siamo occupati recentemente”. A Milano e dintorni, nell’ultimo anno, sono raddoppiate anche le misure cautelari contro i minorenni: da 211 a 427... “Aumenta pure la violenza. Ci sono due caratteristiche che ormai riscontriamo sempre più spesso in questi reati”. Qual è la prima? “Vengono commessi con violenza gratuita. Quello sfogo di rabbia è tori di strada a San Siro, appena arrestati. Ci sono anche diciotto minorenni, la maggior parte egiziani”. In carcere finiscono più extracomunitari che italiani? “Lo confermano i dati. L’anno scorso gli ingressi al Beccaria, l’istituto penale milanese, sono stati 297: di questi, 227 erano giovani stranieri. Sono ormai il 78% della nostra popolazione carceraria”. Da che Paesi provengono? “L’87% è di origine islamica. Molti sono minori non accompagnati, senza riferimenti educativi o familiari”. Clandestini, quindi? “Sono ragazzi che arrivano soprattutto dal Nordafrica, dopo lunghi viaggi. Sperano in un futuro migliore. Passano dal territorio milanese, confidando nell’aiuto di connazionali maggiorenni, molti dei quali vivono di espedienti”. Manuel Mastrapasqua è stato ucciso a Rozzano, lo scorso ottobre, per un paio di cuffiette... “L’autore è un diciannovenne con precedenti. Lo conoscevamo: aveva un processo davanti al Tribunale dei minori. C’erano già segnali di allarme”. Quelle cuffiette costavano quindici euro... “È uno di quegli episodi in cui la lesività prescinde dal vantaggio. Nessun motivo, appunto. Pura brutalità”. Qual è la seconda caratteristica comune di questi reati? “Vengono commessi insieme ad altri. I ragazzi sono fragili. Il gruppo gli consente di avere una propria identità. Si sentono accettati. Possono arrivare a compiere azioni che da soli non farebbero mai: ad esempio, le violenze sessuali. Il gruppo dei pari è diventato un riferimento importante quasi quanto i genitori”. Il branco... “Purtroppo, molti non si integrano nel tessuto sociale. E anche i tentativi di inserimento nelle comunità spesso sono fallimentari. In questi casi, la detenzione diventa l’estremo rimedio. Visto che la maggior parte è di cultura islamica, ho chiesto al ministero dell’interno di autorizzare al Beccaria la presenza di un imam, da affiancare al cappellano. Una guida necessaria, tra l’altro, per aiutarli a capire e rispettare i nostri valori. Sarebbe una risposta importante alle nuove esigenze del sistema carcerario minorile”. La rabbia è aumentata durante la pandemia? “L’abbiamo sperimentato, per esempio, con i maltrattamenti in famiglia. I ragazzi non potevano uscire. Erano obbligati a stare insieme ai genitori. Alla fine, si sfogavano anche su di loro”. E adesso? Provate a recuperarli? “È una di quelle violenze in costante aumento, negli ultimi anni. Quasi sempre commesse da minori che assumono stupefacenti”. La reclusione collettiva, ai tempi del Covid, ha esacerbato tanti giovani? “Si sono isolati sempre di più dal mondo reale, rifugiandosi in quello virtuale”. L’ossessione è cominciata in quel periodo? “Perlomeno, s’è molto molto accentuata. Di tutto si sono preoccupati, meno che dei giovani. Hanno completamente dimenticato le lo ro esigenze. Tutti in casa: dai bambini ai ragazzi”. Con quali conseguenze? “Hanno chiuso scuole, palestre e parchi. Hanno lasciato un’intera generazione in balia del vuoto, che è stato colmato dai social. Questo ha finito per accentuare il distacco dagli altri. Si può davvero pensare che i ragazzi siano così indifferenti alla vita? Non è soltanto quella degli altri: con i tentativi di omicidio e le violenze. È anche la propria: con i suicidi, i disturbi alimentari e l’autolesionismo. Come se quella stessa vita non dovesse essere salvaguardata. Come se potesse essere schiacciata senza alcun rimorso. È una cosa che lascia ancora sgomenti”. La scuola, adesso, potrebbe aiutarli? “Quanto fosse fondamentale il suo ruolo, l’abbiamo scoperto proprio durante la pandemia. Sempre così tanto disprezzata, non era decisiva solo da un punto di vista educativo. Lo era anche per monitorare i ragazzi. La maggior parte di quelli che commettono reati ha abbandonato gli studi, fa assenze ripetute, mostra un comportamento disturbato in classe. Dobbiamo creare un’indispensabile alleanza tra scuola, famiglia, servizi sociali e psicologici. Bisogna intercettare i segnali di disagio e porre rimedio tempestivamente. Insomma, occorre investire sulla prevenzione: non si deve aspettare solo la risposta penale”. Anni dopo la fine dell’emergenza, ci sono ancora strascichi? “Certamente, rimane questo distacco dai veri valori. Anche gli hikikomori, adolescenti isolati dal mondo, sono nati durante il lockdown”. Nulla è stato come prima... “A me sembra che sia andata così. Erano chiusi nelle loro stanze, con il cellulare come unico modo per uscire dall’isolamento. Le relazioni non erano più sane. Nessuna possibilità di confronto personale. Tutto veniva filtrato”. Una modalità che rimane imperante... “Basti pensare alle violenze di capodanno a Milano. I gruppi si sono incontrati sui social. Quei ragazzi neppure si conoscevano prima di diventare un branco”. La giustizia minorile è in emergenza come gli adolescenti di cui si occupa? “La riforma voluta dal precedente ministro della Giustizia, Marta Cartabia, in alcuni casi ha burocratizzato le procedure, rallentando inevitabilmente la nostra capacità di rispondere. E poi ha reso impossibile per i giudici onorari svolgere buona parte dell’attività istruttoria. Sono aumentati in maniera incredibile gli arretrati. Abbiamo oltre tredicimila minori in attesa di un intervento”. Nel frattempo, avanza la riforma della giustizia... “Non mi appassiona, a dire il vero. Preferisco i provvedimenti che possono incidere sull’efficienza del sistema giudiziario”. Buona parte dei suoi colleghi ha scioperato, lo scorso gennaio, davanti al palazzo di giustizia... “Francamente, non mi sembra un argomento vincente per ottenere risultati”. Lei, difatti, non s’è vista... “Quella mattina ero all’inaugurazione di una nuova palazzina del Beccaria, ristrutturata anche grazie all’aiuto dei privati. I giovani detenuti, per ringraziarli, hanno dipinto un quadro”. Lavoro di pubblica utilità, no alla liberazione anticipata di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2025 Arrivano le prime pronunce dei giudici di merito che non seguono la Cassazione sull’applicabilità dell’istituto della liberazione anticipata alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, introdotto dalla riforma Cartabia. Infatti, a differenza di quanto ha ritenuto la Suprema corte, per i magistrati di sorveglianza il lavoro di pubblica utilità sostitutivo sarebbe incompatibile con la liberazione anticipata. La Cassazione, con la sentenza 10302 del 13 marzo 2025, ha ritenuto applicabile la liberazione anticipata alla luce dell’articolo 76 legge 689/1981, che estende “in quanto compatibili” alle nuove pene sostitutive alcune disposizioni dell’ordinamento penitenziario, tra cui quella che prevede la concessione all’affidato in prova al servizio sociale della liberazione anticipata (che prevede una detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena espiata). Per la Cassazione, infatti, la natura detentiva della misura in espiazione non rappresenta più un discrimine. Con la medesima pronuncia, la Cassazione indica inoltre la competenza del magistrato di sorveglianza a decidere sulla concessione del beneficio. Le pronunce di merito Tuttavia, i giudici di merito sembrano orientarsi in senso contrario. Il Magistrato di sorveglianza di Padova, con ordinanza del 7 aprile 2025, ha dichiarato inammissibile l’istanza di liberazione anticipata presentata da un condannato ammesso al lavoro di pubblica utilità, rilevando l’inapplicabilità dell’istituto alla luce dell’“incompatibilità sistematica” tra i presupposti del beneficio premiale e il lavoro di pubblica utilità, come conferma la relazione ministeriale alla riforma Cartabia (decreto legislativo 150/2022), che non annovera i lavoratori di pubblica utilità tra i destinatari della liberazione anticipata. Si dà atto che il lavoro di pubblica utilità è un istituto estremamente più vantaggioso delle misure alternative e delle altre pene sostitutive, per il mancato coinvolgimento dell’intero spazio temporale della pena e per la mancata previsione di gravose prescrizioni come la limitazione della libertà notturna e gli obblighi di risarcimento; è inoltre attribuito alla competenza esclusiva del giudice dell’esecuzione (che esclude quella della magistratura di sorveglianza) nel quadro di un “percorso complessivo diverso rispetto all’esecuzione penale ordinaria o delle misure alternative”. Alle stesse conclusioni perviene il Magistrato di sorveglianza di Verona che, con decisione del 7 aprile 2025, rileva l’assenza di un procedimento esecutivo avviato in base all’articolo 656 del Codice di procedura penale, al quale collegare la concessione di benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata. Si nega la competenza funzionale della magistratura di sorveglianza e si rileva, inoltre, che l’estensione del beneficio premiale all’infuori del contesto detentivo ordinario è sempre stata operata, finora, con espressa disposizione di legge o tramite l’intervento della Corte costituzionale. La stessa strutturazione del lavoro di pubblica utilità (a ore lavorate e senza le prescrizioni tipiche delle pene-programma) impedirebbe, inoltre, di individuare un “semestre di pena detentiva” continuativamente espiato, richiesto dall’articolo 54 dell’ordinamento penitenziario per applicare la liberazione anticipata e di valutare l’adesione del condannato al percorso rieducativo. Ha invece ammesso la possibilità di applicare la liberazione anticipata al lavoro di pubblica utilità sostitutivo la Corte d’appello di Milano che, con ordinanza depositata il 9 dicembre 2024, per individuare la detrazione di pena, ha ragguagliato un giorno di pena a due ore di lavoro di pubblica utilità: i 45 giorni di liberazione anticipata per ogni semestre di pena espiata vengono convertiti in detrazione di 90 ore di lavoro di pubblica utilità. Ma, quanto alla competenza a decidere, la Corte d’appello afferma che sulla liberazione anticipata, in assenza di specifiche disposizioni, è competente a decidere il giudice incaricato di sovraintendere all’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, in base all’articolo 63 della legge 689/1981, non il magistrato di sorveglianza. Firenze. “Sollicciano va risarcito. Ecco i fondi per i lavori” di Erika Pontini La Nazione, 28 aprile 2025 Il sottosegretario Delmastro annuncia il pacchetto di interventi: 7,5 milioni per proseguire gli interventi di risanamento. Accordo pubblico-privato per l’efficientamento. Intervenire pesantemente per una ristrutturazione o addirittura demolirlo e ricostruirlo. Qualunque sia, urge una soluzione per le condizioni del carcere di Sollicciano. Freddo e umido d’inverno, un forno d’estate. Riscaldamento fatiscente, acqua corrente che arriva a singhiozzo e quasi mai calda. Infiltrazioni che creano pozze che restano per settimane. Cimici che infestano le celle. Sovraffollamento. Secondo i dati di Antigone, a Sollicciano sono presenti (al 31 marzo scorso) 530 detenuti, a fronte di una capienza di 497; 339 gli stranieri, 63 le donne. Queste le informazioni che arrivano dagli ultimi sopralluoghi fatti all’interno del penitenziario fiorentino. Ormai da mesi, il mondo giudiziario e quello della politica s’interrogano sulle soluzioni per una struttura invivibile per la popolazione detenuta e anche per gli agenti della polizia penitenziaria che ci lavorano. Oggi, a Sollicciano, è in programma la visita di una delegazione di Fratelli d’Italia guidata da Andrea Delmastro (Sottosegretario Giustizia e responsabile Dipartimento Giustizia FdI). Con lui Giovanni Donzelli (responsabile organizzazione FdI, vicepresidente Copasir), Francesco Michelotti (vice coordinatore toscano FdI e membro commissioni Antimafia e Affari costituzionali della Camera). Sottosegretario Delmastro, viene in visita al carcere di Sollicciano, uno dei peggiori penitenziari d’Italia che da anni combatte con problemi strutturali. Falliti i tentativi di risanamento, ci sono infiltrazioni d’acqua, muffa, caldo d’estate e freddo d’inverno. Una situazione tragica fotografata anche dalla magistratura… “Mi rendo conto che Sollicciano somma a un problema generale di sovraffollamento e carenza di personale di polizia penitenziaria, uno più specifico di un’edilizia carceraria all’epoca pensata come futuristica, che invece ha manifestato tutti i suoi limiti con problemi strutturali di infiltrazione, mancanza di docce nelle celle e facciate che si sono deteriorate a causa degli infissi, e senza nemmeno impianto di videosorveglianza”. Ammette che si tratti di una situazione pesante quindi… “In un universo chiuso come quello penitenziario, le condizioni di disagio dovute all’edilizia influiscono sulla serenità dei detenuti e di conseguenza sul lavoro degli agenti. Noi abbiamo ereditato situazione catastrofica ma abbiamo preso di petto la situazione”. In che modo? “Abbiamo risolto il rapporto con l’azienda che aveva vinto il precedente appalto, siamo in attesa che consegnino tutti i lavori fatti ma non terminati e abbiamo rifinanziato 7,5 milioni di euro per la parte impiantistica: installazione delle docce in ogni cella, sale per la socialità all’interno delle sezioni, un’area ristoro e per il completamento delle opere di risanamento rispetto ai gravi problemi di infiltrazione”. Ma a che punto siamo? “Il progetto preliminare termina il 30 aprile, l’affidamento esecutivo entro 180 giorni”. Ci sarà da attendere... “Speriamo che stavolta non ci siano i problemi che hanno caratterizzato il precedente appalto. Posso confidare che sia diverso dal passato”. Diceva la videosorveglianza è assente, in un carcere? “Lo era. Abbiamo stanziato ulteriori 2, 6 milioni di euro - extra i 7,5 - per dotare tutto il penitenziario di un sistema di videocontrollo e i lavori stanno procedendo secondo il cronoprogramma tanto che il 26 febbraio scorso sono stati consegnati gli impianti già terminati di alcune zone in anticipo. Sempre a febbraio è stato validato dal Dap e trasmesso per le procedure di affidamento l’intervento per il risanamento delle celle rese inagibili dalla rivolta di luglio che vale 2,3 milioni di euro”. C’è anche un problema di sovraffollamento dovuto proprio alle celle inagibili e una carenza di personale di polizia... “Abbiamo ereditato una carenza drammatica di polizia penitenziaria ovunque, adesso stiamo andando a ritmi vorticosi con bandi per l’assunzione di 10mila unità. Se altrettanto avessero fatto i sottosegretari che mi hanno preceduto staremmo parlando di sovraffollamento di polizia nei penitenziari. Abbiamo acquistato 20mila guanti antitaglio, 8.500 scudi antisommossa, i caschi”. Firenze come ne beneficia? “A maggio, a corsi terminati, è previsto l’ingresso di due nuovi commissari, tre ispettori, quattro sovrintendenti e all’esito dell’ultimo bando allievi agenti ne verranno assegnati venti a Sollicciano. Le grandi assunzioni che abbiamo fatto inizialmente sono servite per tamponare l’emorragia di turn over, superata la fase critica si può ricominciare a investire sulla fase due e vorrei annunciare una cosa”. Prego… “Da giugno gli agenti avranno in busta paga 100 euro in più. E ovviamente tutti i graduati a seconda dei relativi contratti”. Sollicciano è anche senza un direttore. Molti hanno letto nel trasferimento dell’ex direttrice Tuoni una punizione. È così? E quando sarà nominato il nuovo direttore? “La direttrice era arrivata a scadenza naturale, non credo che i questori quando scadono si lamentino”. No, ma se vengono retrocessi forse sì... “Questo è un problema amministrativo. Posso invece dire che sempre a maggio il nuovo direttore di Sollicciano sarà assegnato, a seguito delle assunzioni imponenti che però hanno avuto necessità di corsi di formazione appositi. Un altro risultato apprezzabile. Ci diranno ‘poca roba’. Bastava che lo facessero prima di noi”. Si riferisce ai governi di centrosinistra… “Assolutamente sì. Noi possiamo dire che sul tema carceri vediamo più che una luce in fondo al tunnel”. Il sovraffollamento è parte del problema... “Ci sono 542 detenuti per 497 posti in pianta organica regolamentare. Un problema c’è ma non è così grave, almeno qui, se non fosse che provoca conflittualità a causa delle altre emergenze strutturali. Guardi io ho quasi 50 anni, quando sono nato mancavano 10mila posti in Italia, dopo tutti i provvedimenti svuota-carceri ne mancano altrettanti. Significa che bisogna intervenire in altro modo”. Cosa risponde a chi - dalla sindaca di Firenze ai magistrati di Md, alle Camere penali - chiede una misura drastica come la chiusura di Sollicciano? “È più facile fare queste provocazioni quando non si governa. Quelli che oggi ne chiedono l’abbattimento non l’hanno fatto, quando potevano. È una soluzione che non ci possiamo permettere nell’immediatezza ma questo non significa che un domani, realizzate le opere del commissario straordinario, non si possa pensare a un abbattimento. Ora ci concentriamo su interventi di grande respiro per dare subito un volto diverso a Sollicciano”. Ci sono stati anche tre suicidi dall’inizio dell’anno: l’ultimo decesso per overdose, sintomo che la droga riesce a varcare le sbarre del penitenziario... “Il primo modo per intervenire è quello di recuperare la carenza di organico devastante e poi, visto che sostengono io sia un anti-trattamentale, e citano a sproposito l’articolo 27 della Costituzione, ricordo che ho saturato la pianta organica degli educatori. A Firenze ad esempio ce ne sono 10 su 11. Inoltre c’è un tema di necessità di assistenza sanitaria che deve essere risolto unitamente alle Regioni per erogare prestazioni sanitarie anche per tutti quei detenuti che hanno difficoltà psichiatriche ma non sono destinati alle Rems. Quanto alla droga che entra in carcere, spesso con i droni, abbiamo dotato tutti i provveditorati di fucili antidroni per abbatterli, stiamo lavorando all’acquisizione di speciali scanner che possano intercettarla e sul fronte degli eventi critici abbiamo costituito il Gio, un gruppo di pronto intervento con personale specializzato in grado di un intervenire entro un’ora in caso ad esempio di rivolte. Ci sarà un’aliquota in ogni regione”. A Firenze parteciperà al convegno Sicurezza è giustizia per illustrare il Ddl sicurezza, in alcune parti contestato. Come nella previsione di non rendere obbligatorio il divieto di carcerazione per donne incinte o con bambini sotto un anno. Ne è convinto? Consideri che le donne rappresentano una percentuale esigua dei detenuti, delinquono molto meno… “Io tutelo la mamma che prende il tram per portare i figli a scuola e andare al lavoro, non la mamma che sale per scippare quella stessa donna”. Nel Ddl c’è un inasprimento sul fronte delle occupazioni. Firenze vive una pagina dolorosa per la scomparsa della piccola Kata proprio da un ex hotel occupato. Il Ddl sarebbe servito? “Le nuove norme del Ddl permettono alle forze dell’ordine di intervenire rapidamente in caso di un’abitazione principale, sulle pene però sarebbe stato diverso. Firenze ha vissuto un caso molto doloroso e noi vogliamo intervenire in tutti i problemi di sicurezza e di ordine pubblico nelle zone grigie, come quella”. Roma. Nel pastificio salvato da Papa Francesco con l’ultima donazione di Chiara Adinolfi Il Messaggero, 28 aprile 2025 “Useremo l’eredità per i detenuti”. Questo luogo è salvo grazie alle ultime volontà di papa Bergoglio, che ha deciso di elargire al “Pastificio Futuro” 230 mila euro dal suo conto personale per estinguere parte del mutuo che ancora pesava sull’azienda artigianale. Rinascere una seconda volta, mescolando l’acqua alla farina. La ricetta per il riscatto sociale si basa su pochi e semplici ingredienti, come quelli che danno forma alla pasta. È questo l’insegnamento che papa Francesco aveva dato ai giovani del carcere minorile di Casal del Marmo durante la sua prima visita nell’istituto, nel 2013. Lo stesso messaggio che oggi, grazie all’ultima donazione fatta dal pontefice prima di morire, continua a nutrire le speranze dei giovani detenuti. Siamo a Casal del Marmo, periferia nord ovest della Capitale. Se c’è un luogo che più di tutti è in grado di rappresentare il pontificato di Francesco, è questa palazzina dell’istituto penale fino a pochi anni fa abbandonata, dove oggi è attivo un pastificio. Un luogo che dà una seconda opportunità ai giovani con condanne penali ma che si trovava in difficoltà economiche. Oggi quel luogo è salvo grazie alle ultime volontà di papa Bergoglio, che ha deciso di elargire al “Pastificio Futuro” 230 mila euro dal suo conto personale per estinguere parte del mutuo che ancora pesava sull’azienda artigianale. Un progetto nato proprio a seguito della prima visita del pontefice nel carcere minorile romano. È questo, infatti, il primo luogo visitato dal Bergoglio subito dopo la sua elezione, nel 2013. In occasione del giovedì santo, quando la Chiesa ricorda l’Ultima Cena e la lavanda dei piedi, Francesco si inginocchiò per lavare i piedi ai giovani detenuti. Poi disse ai ragazzi: “Non lasciatevi rubare la speranza”. E invitò gli operatori a fare qualcosa di concreto per i giovani detenuti. Chi recepì subito fu padre Gaetano Greco, l’allora cappellano del carcere minorile, oggi scomparso. “Nacque da lì, l’idea di un pastificio - racconta Elio Grossi, vicepresidente del pastificio e volontario nell’Istituto penale minorile - abbiamo pensato alla pasta perché è un prodotto semplice, quotidiano. E abbiamo pensato che un laboratorio artigianale potesse coinvolgere i nostri ragazzi, insegnarli un mestiere e dargli un’opportunità di lavoro”. Il luogo c’era già: una palazzina inutilizzata dell’istituto penale. Ma andava riqualificata e adibita a pastificio. Così, una volta ottenuto il finanziamento (parte dalla Caritas, parte da un mutuo contratto con il ministero dello Sviluppo economico), sono iniziate le attività di ripristino e adeguamento. Per completare il progetto ci sono voluti 10 anni. Poi, nel 2023, l’inaugurazione. Lo stesso anno in cui, sempre a distanza di 10 anni dalla prima volta, il pontefice è tornato nuovamente a Casal del Marmo. “E in quella occasione - spiega Elio Grossi - il papa ha benedetto una delle trafile in bronzo che utilizziamo per realizzare la pasta. Ma il pontefice aveva già delle difficoltà motorie, e questo gli ha impedito di visitare fisicamente tutto il pastificio”. Non ha smesso, però, di pensare ai ragazzi del carcere. Tanto che a loro ha rivolto il suo ultimo lascito. “Il Papa ha continuato a seguire le vicende del pastificio tramite le informazioni che gli arrivavano da monsignor Benoni Ambarus, per tutti “Don Ben. E quando ha saputo che stavamo avendo delle difficoltà economiche per far fronte alle rate del muto, ha voluto darci il suo aiuto”. Ora, grazie al contributo del pontefice, sarà possibile abbassare il prezzo della pasta, aumentare le vendite e, in questo modo, incrementare anche la produzione. “Il nostro obiettivo - spiega ancora il volontario - è offrire questa opportunità lavorativa a molti più ragazzi e ragazze”. Oggi nel pastificio sono assunti, con contratti regolari, solo quattro giovani. Ma il laboratorio è realizzato per poter ospitare fino a 20 lavoratori, e quindi sostenere un considerevole aumento della produzione. Quando hanno saputo della donazione, “i ragazzi sono stati felicissimi. Per loro questo luogo è il futuro - dice ancora Grossi - Grazie al lavoro nel pastificio, i detenuti si interfacciano con una realtà lavorativa, rispettano dei tempi e degli orari, e questo li responsabilizza molto”. La morte del pontefice ha segnato anche i detenuti del carcere, per i quali Bergoglio aveva un’attenzione particolare. “Non dimenticheranno mai lo sguardo che il Papa posava su di loro - dice Elio Grossi - ha voluto salutarli uno per uno, scambiando con loro un abbraccio sincero. Ha lasciato un segno nelle loro vite”. Foggia. Botte in carcere, la procura vuole il processo luceraweb.eu, 28 aprile 2025 La vicenda giudiziaria sul presunto pestaggio di due detenuti avvenuto ad agosto 2023 nel carcere di Foggia durerà almeno un anno e mezzo. L’inchiesta esplose a marzo dell’anno scorso con l’arresto di dieci poliziotti penitenziari e l’indagine su quattro operatori sanitari, mentre il 15 settembre prossimo è stata fissata l’udienza preliminare davanti al gup Cecilia Massarelli. Nel frattempo, la procura, tramite il pubblico ministero Laura Simeone, ha già fatto sapere di voler confermare tutti i rilievi messi per iscritto, chiedendo per tutti il rinvio a giudizio. Le accuse a vario titolo sono di tortura, danneggiamento, concussione e tentata concussione, falsità ideologica, calunnia, soppressione atti, omissione di referto medico e favoreggiamento, per le quale devono rispondere l’ispettore Giovanni Di Pasqua, 57 anni di Foggia, i sovrintendenti Vincenzo Piccirillo, 54 anni di Stornarella, e Vittorio Vitale, di 55 di Lucera dove risiedono anche la vice ispettrice (e dirigente nazionale del sindacato Sinappe) Annalisa Santacroce di 48 anni, l’agente scelto Flenisio Casiere di 39 anni, gli assistenti capo coordinatore Nicola Calabrese di 51 e Massimo Folliero di 53, l’assistente Raffaele Coccia di 39, gli agenti Pasquale D’Errico di 29 e Giuseppe Toziano di 27. Per un periodo di tempo più o meno lungo erano finiti ai domiciliari, poi sono stati rimessi in libertà nelle diverse fasi giudiziarie gestite dai rispettivi difensori e infine sono tutti rientrati in servizio dopo le sospensioni subite, sebbene in istituti diversi di Puglia e Basilicata. Risultano coinvolti, ma sempre rimasti a piede libero, il medico della casa circondariale Antonio Iuso di 72 anni di Foggia, i colleghi Romolo Cela di 73 anni di Foggia, e Francesco Balzano di 70 di Lucera, e la psicologa della struttura, Stefania Lavacca di 48 di Cerignola. Il vero fulcro della contesa giudiziaria sarà proprio l’eventuale riconoscimento dell’ipotesi di reato più grave, cioè la tortura, peraltro aggravata dalla sua attuazione con più di cinque persone nello stesso momento, e con abuso dei poteri e violazione dei doveri della loro funzione pubblica. La procura ha motivato così: “Hanno agito con violenze gravi e crudeltà, sottoponendo il detenuto a un trattamento inumano e degradante. E quando il compagno di cella (di Taranto, ndr) provò a intervenire, ci furono botte anche per lui, con accanimento sul volto di una persona scalza e indifesa che cercava solamente di ripararsi dai colpi”. Per l’accusa, ci sarebbe stata anche una pianificata operazione di insabbiamento dei fatti e depistaggio sulle conseguenze, condotte che poi avrebbero fatto scattare le ulteriori contestazioni, spesso in concorso. Quasi tutti si dicono innocenti o hanno ammesso una parte residuale delle condotte rilevate e avallate dal gip Carlo Protano che dispose i provvedimenti cautelari. Nella sua richiesta degli arresti, il pubblico ministero aveva parlato di “diffusissimo clima di omertà, quando non di fattiva collaborazione nell’ostacolare le indagini, con capacità di ottenere la collaborazione di detenuti differenti dalle persone offese, al fine di depistare le indagini e di intimidire le stesse vittime delle violenze”. La procura stava indagando da almeno sei mesi, dopo essere partita da una lettera ricevuta pochi giorni dopo i fatti denunciati, uscita direttamente da Via delle Casermette, scritta dalla presunta persona offesa ma in una busta strategicamente riportante il nome di un altro detenuto che avrebbe assistito almeno in parte a quanto sarebbe accaduto, così da non destare sospetti nella verifica della corrispondenza. Le indagini avrebbero poi fatto emergere gravi indizi di colpevolezza nei confronti degli indagati, indiziati di aver partecipato con ruoli diversi a un pestaggio compiuto l’11 agosto 2023 nei confronti di due detenuti, di cui uno di Bitonto in condizione di fragilità. Contestualmente all’aggressione, altri due sarebbero stati inoltre arbitrariamente sottoposti a misure di rigore non consentite. Nel corso delle investigazioni sarebbe stata documentata la predisposizione e la sottoscrizione di atti falsi finalizzati a nascondere successivamente le violenze perpetrate e a impedire che venissero emesse a carico delle persone offese le diagnosi delle lesioni riportate. Sarebbero state, inoltre, accertate minacce e promesse di ritorsioni attraverso le quali due indagati avrebbero costretto le vittime a sottoscrivere falsi verbali di dichiarazioni, in cui era riportata una versione dai fatti smentita dagli esiti delle indagini. Sono diverse le circostanze da chiarire, come la ricerca messa in atto senza esito da parte di un paio di indagati delle immagini nella sala regia della struttura dove erano conservate le riprese di una parte dei fatti contestati, oppure la sparizione di una pagina del registro sanitario relativa proprio a quei giorni convulsi in cui i detenuti si erano fatti visitare, oppure ancora la discordanza tra i verbali fatti fermare dalle presunte vittime dell’aggressione e quanto raccontato successivamente, oppure ancora le dichiarazioni rese da alcuni degli indagati quando erano ancora persone informate sui fatti, rispetto a quanto affermato nelle intercettazioni telefoniche a cui sono stati sottoposti, parlando anche con un ex appartenente al Corpo ma evidente punto di riferimento di molti degli arrestati. Reggio Calabria. Carceri e liberi sospesi, l’analisi di Castorina reggiotoday.it, 28 aprile 2025 Il consigliere comunale tra spunto da questa iniziativa per un focus della situazione nelle strutture penitenziarie della città. Una riflessione su carceri e diritti dei detenuti è proposta dal Consigliere comunale reggino Antonino Castorina dopo l’approvazione in consiglio della mozione “Letture d’evasione” presentata insieme ai colleghi del gruppo Red, Carmelo Versace e Filippo Burrone, da poco assessore. Secondo l’avvocato Castorina, la mozione rappresenta uno spunto importante sull’argomento in attesa di una discussione che necessariamente deve riguardare tutte le istituzioni ed il livello nazionale che ne ha effettiva competenza. “Nel lavoro fatto in commissione a Reggio Calabria - scrive - abbiamo ascoltato il garante regionale dei diritti dei detenuti ed il presidente della camera penale di Reggio Calabria con un’analisi che ci ha offerto un focus sullo stato delle cose nelle due strutture carcerarie presenti in città, ma anche sulla popolazione dei liberi sospesi, dell’esecuzione penale e del conseguente imprescindibile ruolo del tribunale di sorveglianza”. “Oggi - prosegue Castorina - il bilancio delle risorse riservate alla esecuzione penale registra fondi inadeguati e risulta essere il settore giudiziario di gran lunga più inadeguato, per mezzi e personale, al corretto adempimento dei compiti ad esso affidati. Una riflessione e una conseguente azione andrebbero fatte proprio in ragione dell’elevato numero dei ‘liberi sospesi’, una popolazione carceraria che spesso rimane anonima ed inascoltata ma che nei fatti è considerevole dentro il carcere”. Si tratta, ricorda il consigliere, di persone condannate in via definitiva ad una pena detentiva inferiore ai quattro anni, e che perciò in alcuni casi ha la facoltà ed il diritto di chiederne la sospensione, in attesa che il tribunale di sorveglianza competente possa decidere. “L’emergenza carceri - afferma Castorina - e ciò che le cronache nazionali hanno raccontato e che l’Europa ha sanzionato passa da una gestione oculata dei liberi sospesi e da un potenziamento strutturale dei tribunali di sorveglianza in maniera tale da consentire al sistema giustizia di poter operare in modo oculato e razionale rispetto alla funzione rieducativa della detenzione e nell’orizzonte necessario di una nuova fase del condannato”. La mancata risposta a questi temi, conclude il consigliere comunale, “ha la naturale conseguenza di ingolfare le strutture carcerarie e non dare un orizzonte di vita in tempi certi a chi non vuole rimanere sospeso in eterno”. Treviso. Biciclette rimesse a nuovo grazie ai detenuti e donate alle richiedenti asilo di Isabella Loschi oggitreviso.it, 28 aprile 2025 L’iniziativa, coordinata dalle associazioni del territorio, rappresenta un concreto esempio di solidarietà attiva e mobilità inclusiva. Prosegue il progetto “Non solo pane e comunità solidali” che mira a promuovere l’autonomia e l’inclusione delle donne migranti attraverso la mobilità sostenibile. Nei giorni scorsi, grazie alla collaborazione del Comune di Treviso, sono state consegnate dieci biciclette usate da destinare alla riparazione e al riuso, con l’obiettivo di metterle a disposizione di donne straniere residenti a Treviso e nei comuni limitrofi. Le bici, recuperate dal deposito comunale dove giacciono innumerevoli mezzi che provengono da furti, denunce, recuperi o altro ancora, saranno poi riparate dai detenuti del carcere di S. Bona e riconsegnate funzionanti alle donne destinatarie del progetto. L’iniziativa, parzialmente finanziata dalla Regione Veneto, è coordinata da una serie di Associazioni del territorio, capofila di progetto è I-Care, le altre, oltre a FIAB Treviso APS Amici della Bicicletta sono Cielo Blu ODV, Uomo Mondo ODV, CISM, Aion APS, Solidarietà a Colori, e rappresenta un concreto esempio di solidarietà attiva e mobilità inclusiva. “Una bicicletta può sembrare poco, ma per molte donne significa potersi muovere in autonomia, accompagnare i figli a scuola, raggiungere il lavoro o semplicemente vivere la città con più libertà” spiega la vicepresidente nazionale e presidente di Fiab Treviso Susanna Maggioni. “Ringraziamo il Comune di Treviso per il gesto concreto che permette al progetto di fare un passo importante”. Fiab Treviso ha ricevuto le biciclette, molte delle quali in condizioni critiche, e le ha consegnate ad Alternativa Ambiente, una cooperativa che si occupa, tra le tante cose, di dare lavoro ai detenuti attraverso corsi di formazione. Le bici sono già state portate all’interno della casa circondariale dove i detenuti si occuperanno del ripristino tecnico, verificandone sicurezza e funzionalità, per poi metterle a disposizione delle beneficiarie fra circa un mese. Nel progetto erano previsti anche corsi pratici e teorici sull’uso della bicicletta e sulla sicurezza stradale, organizzati con il supporto di volontari e partner del progetto, che saranno effettuati una volta avute le bici a disposizione. Già nella scorsa stagione, una fase sperimentale del progetto aveva coinvolto con successo giovani richiedenti asilo ospitati presso la Caserma Serena e altre strutture di accoglienza, dimostrando l’impatto positivo della bicicletta come strumento di integrazione sociale. Insieme a MoMi (Monigo Migranti) una decina di giovani ospitati presso le strutture di accoglienza della Caserma Serena, Fiab aveva supportato la formazione di base sul Codice della Strada e sulla segnaletica, utilizzando materiale didattico interattivo (slide, quiz cartacei e digitali tramite app). FIAB Treviso rinnova l’invito ad altri Comuni del territorio, a sostenere l’iniziativa attraverso la donazione di biciclette usate, in disuso o recuperate. Francesco è stato un nuovo ‘68: non si può tornare indietro. Zuppi dovrebbe essere il successore di Mario Capanna L’Unità, 28 aprile 2025 Dopo il suo pontificato, sarà molto difficile tornare indietro. È arduo immaginare che sia eletto un conservatore. A succedergli potrà essere un “moderato”: ma fallirebbe la sua missione se tentasse la retromarcia. Ci sono persone il cui carisma, dopo la morte, non solo permane, ma si espande. In virtù della rettitudine di vita e della elevatezza degli insegnamenti che hanno indicato, praticandoli. È il caso di Papa Francesco, come dimostra la massiccia dimostrazione di affetto popolare dopo la sua dipartita. Un prete di strada, fuso con la sapienza sottile del gesuita, ha visto lucidamente la pericolosa realtà del mondo, denunciandone le cause effettive e indicando i rimedi, possibili e praticabili. In primo luogo il no alla guerra, ormai sempre più praticata come “soluzione” delle controversie locali e internazionali. Di contro la pace è il bene più importante, perché è la condizione per godere di tutti gli altri beni. C’è, in quella sua convinzione, un’eco di Cicerone, là dove scriveva “pax est tranquilla libertas”: “la pace è la libertà tranquilla”, non pregiudicata né soverchiata da nessuna forza esterna e violenta. Ma: “Nessuna pace è possibile senza disarmo”: affermazione radicalmente perentoria nell’Angelus di Pasqua, appena il giorno prima di lasciarci. Proprio mentre si propugna il riarmo europeo e la scellerata corsa agli armamenti prosegue con folle accelerazione, aggravando “la terza guerra mondiale a pezzi”. La critica radicale al riarmo si pone sulla scia di grandi personalità laiche, come i Premi Nobel Albert Einstein e Bertrand Russell. Autentico il suo amore per la natura e per gli ultimi, i derelitti, gli “scarti”: i detenuti e i migranti, l’accoglienza nei confronti dei quali è un dovere di umanità e di civiltà. E così l’andare in Canada, negli Usa, nell’America latina, in Australia, a Papua Nuova Guinea per chiedere scusa ai popoli nativi. Uomo dotato di parresia: le sue parole, pronunciate senza peli sulla lingua, semplici e vere, venivano capite anche dall’ultimo degli illetterati. Con la denuncia del tecno capitalismo di rapina - “questa economia uccide” - porta la critica al cuore della prepotenza operata dal profitto, come fabbricatore continuo di disparità e di ingiustizie. In sintesi: fin dal suo primo atto - assumere, da Pontefice, il nome del mio straordinario conterraneo umbro - Bergoglio è stato un formidabile rovesciatore di paradigmi. Il vecchio punto di vista dominante, con la sua stantia visione del mondo, incalzato e sostituito da una concezione nuova dei rapporti umani, fra le persone e fra i popoli. Analogamente a noi del Sessantotto (mi si perdoni l’ardire) ha avuto il coraggio - per alcuni la temerarietà - di spronare l’umanità a non arrendersi alla cultura del vicolo cieco. Mentre il vecchio modo di pensare atrofizza il mondo, egli ha indicato con lucidità un orizzonte nuovo, la coscienza globale attraverso cui l’umanità si riconosca come una grande famiglia solidale, che si salvi dalle insidie che essa stessa si è costruite. Il richiamo al senso autentico del vangelo, dopo secoli di potere temporale e opportunistico della Chiesa, ha ispirato il timbro rivoluzionario della sua predicazione e del suo agire. Ed è questo che ha suscitato sorde resistenze, dentro e fuori il Vaticano, come avviene di solito all’inizio di un nuovo cammino. Ma è proprio questo profondo afflato di rinnovamento che lo ha fatto amare da credenti e non. Per quanto mi riguarda, da laico, l’ho sempre considerato e sentito come un fratello maggiore, con gratitudine che non potrà mai venire meno. Beninteso: tutto questo non è, di per sé, garanzia di continuità. Ma, dopo il suo pontificato, sarà molto difficile tornare indietro. È arduo immaginare che sia eletto un conservatore. A succedergli potrà essere un “moderato”: ma fallirebbe la sua missione se tentasse la retromarcia, sebbene cautamente. La cosa auspicabile sarebbe che venga eletto un continuatore: penso al cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, “bergogliano”, anch’egli prete di strada (comunità di Sant’Egidio), di larga e sagace visione evangelica. Mentre leggete questo articolo, si svolgono i funerali del Papa. Che malefico contrappasso lo schieramento dei sedicenti “grandi della Terra” a Piazza San Pietro! Tanti sepolcri imbiancati (fatte salve le eccezioni), a partire da Trump, Von der Leyen, Milei e simili, che hanno praticato l’opposto degli insegnamenti di papa Francesco. Confesso che sono stato tentato anch’io di partecipare alle esequie, certo che, essendo tutte le attenzioni concentrate sui “farisei”, della mia presenza non si sarebbe accorto nessuno. Ma me ne sarei… accorto io, vergognandomi di loro. Sicché preferisco andare un giorno a visitare da solo la tomba di quell’uomo straordinario, che ha segnato il nostro tempo. Marco Tarquinio: “Francesco è stato isolato dai potenti, è stato il Papa della pace e degli ultimi” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 28 aprile 2025 “Il nome di Dio non sia più la lama dei nostri coltelli. Dopo Bergoglio temo la contronda, C’è una sinistra addomesticata al pensiero unico”. Marco Tarquinio, europarlamentare, già direttore di Avvenire, il giornale della Conferenza episcopale italiana: “È caduta la Stella polare. Detenuti, migranti, disarmo. Le sue sassate contro il potere”. Così l’Unità ha titolato a tutta pagina in ricordo di Papa Francesco. La metafora della stella polare cadente è bellissima e apocalittica. L’accetto perché le stelle cadenti sono lo scrigno dei nostri desideri migliori. E papa Francesco ha saputo davvero interpretarli e indirizzarli verso il bene della pace e della fraternità, del rispetto e dell’accoglienza dell’altro anche e soprattutto nella povertà, nella fragilità e nella diversità più scomode e dure. Non so se il misericordioso e ruvido Francesco tirasse “sassate contro il potere”, certo ha sovvertito il modo di esercitarlo, il potere. Anche solo il potere di parola, così determinante e subdolamente oppressivo nel nostro mondo spaesato e iperconnesso. Anche solo il potere spirituale e morale di chi, un capo religioso come lui, può aiutare a distinguere il bene e il male, con nettezza e quella tenerezza per l’umanità che spinge a non escludere o lasciare indietro nessuno e a non considerare nessuno perduto, qualunque errore abbia commesso. Il Papa degli ultimi. Il Papa della discontinuità. Le definizioni si sprecano. Lei che da direttore di Avvenire ha avuto modo di interloquire con Bergoglio, come riassumerebbe la sua figura e il suo pontificato? Il Papa della pace, prima di tutto. Pace tra le persone e per le persone, rinunciando al metodo della violenza. Pace tra gli Stati di nuovo inclini all’antica e atroce pratica della guerra in tutte le forme che la nostra modernità consente. Pace tra il Nord ricco, sviluppato, democraticamente e demograficamente invecchiato e immiserito, e il Sud globale, povero perché depredato, assediato dalle autocrazie, ma giovane e vitalissimo. Pace tra le religioni, perché il nome di Dio non diventi mai più la lama dei nostri coltelli e il blasfemo alibi dell’odio, della discriminazione e e della sopraffazione. Pace nella ‘”economia che uccide”, che abbiamo organizzato o subito, dando per lunghi decenni priorità alle merci piuttosto che alla dignità assoluta delle donne e degli uomini. Pace con la natura, “casa comune” di tutte le creature, “che ci precede e ci è stata data” e che dobbiamo saper custodire per amore di tutta la vita e con senso di responsabilità per il tempo dei figli e delle figlie che già viene. In tutto questo c’è continuità con lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II e c’è una novità dirompente. Nel linguaggio e nel servizio ecclesiastico ed ecclesiale della cattolicità, recuperando e dando come compimento alla semina dei preti della “stola e del grembiule”, per dirla con don Tonino Bello. Ma la novità c’è anche nell’esempio offerto a chiunque, anche ai grandi e piccoli politici. Francesco ha mostrato che cosa significa incontrare e ascoltare tutti e scegliere sempre la parte degli ultimi… Dunque, davvero Papa della pace e Papa degli ultimi… Sì, ma degli ultimi riconosciuti e chiamati per nome e non solo evocati con pietismo e comoda vaghezza. E i nomi degli ultimi per molti sono nomi aspri e persino impronunziabili. Vale per le destre illiberali che tornano a infestare la società globale e anche per pezzi di una sinistra addomesticata “al pensiero dominante che tende a farsi unico”, espressione tipica di Francesco. E ripetiamoli, allora, i nomi degli ultimi mai taciuti da papa Bergoglio: i migranti e i carcerati, messi accanto perché le due condizioni più volte coincidono, i poveri senza reddito, senza terra e senza più tetto, i lavoratori sfruttati, le persone sole o isolate da abbandoni, da errori, dalla rottura della loro rete di relazioni, dalla “cultura dello scarto”, le vittime delle guerre, dei razzismi e dei pregiudizi, i vecchi considerati inutili e costosi da curare, i bambini usati e abusati, le donne ridotte a cose… Ora tutti si inchinano al feretro papale. Ma molti di costoro non avevano lesinato critiche in vita a Francesco: pacifista incallito, “filo-putiniano”, addirittura antisemita per aver espresso orrore e sdegno per il martirio di Gaza. Come la mettiamo? Il nostro è anche il tempo delle sfrontatezze e dei senza vergogna… ma voglio fare uno sforzo, e prendere il buono che può esserci in certi messaggi di cordoglio e di rimpianto. Senza dimenticare, però, quelli che il loro astio per Francesco anche in questi giorni lo hanno ostentato o comunque non sono riusciti a nasconderlo: politici, giornalisti, opinionisti, uomini di chiesa… Penso, per esempio, a Netanyahu e alla sua decisone di far cancellare le condoglianze dell’attuale governo di Israele per la morte del Papa. Assurdo e scandaloso. Francesco è stato limpidamente vicino ai fratelli ebrei e, insieme, tenace oppositore di ogni ingiustizia e ferocia. Tanto da interrogarsi pubblicamente sul crescente rischio di un vero e proprio genocidio nelle terre palestinesi teatro di pulizia etnica. Tanto da fare il possibile, sino alla fine, ormai quasi senza più voce, per fermare l’orrore e per restare in contatto con la gente, cristiana e musulmana, stretta attorno alla derelitta parrocchia di Gaza. Penso, a teologi e anche cardinali, come Gerhard Müller, che si sono precipitati a spiegare che “non si eleggerà il successore di Francesco, ma il successore di Pietro”. Una verità assoluta, e anche una banalità, ma che usata così diventa la manifestazione di una volontà di restaurazione nella Chiesa e, dunque, nelle modalità dell’annuncio cristiano e del dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo. Io, penso, per quel che vale, che un “cambiamento d’epoca” è appena iniziato e c’è da andare avanti con umiltà e con chiarezza, con forza e con amore. L’amore che oggi troppo manca. Qualcuno, magari, dirà che anche questa è una banalità, ma è almeno è a fin di bene… anche se viene da un piccolo laico. Francesco è stato un leader globale, ascoltato dai popoli ma non dai grandi della Terra. Un profeta disarmato? Il Papa è per definizione “profeta disarmato”. La cosa straordinaria è che Francesco ha saputo essere sia uno straordinario uomo di Dio sia un “esperto in umanità”, per usare un’espressione di Paolo VI. È stato, insomma, una guida che riusciva a vedere profondo e lontano e al tempo stesso a parlare con un linguaggio semplice e vicino, tenero e ruvido com’è un po’ ovunque il modo del popolo. È vero, parecchi grandi non lo hanno ascoltato, compreso e apprezzato anche quando hanno fatto a gara per stargli intorno, ma alcuni sì. Penso in particolare a Barack Obama, a Shimon Peres, a re Carlo d’Inghilterra, al grande imam di Al-Azaral-Tayyeb, al nostro presidente Mattarella… Francesco ci ha anche ricordato e dimostrato che non occorre essere d’accordo su tutto per lavorare insieme, con pazienza e senso del dovere e del limite, al bene possibile e necessario. Quanto è cambiata la Chiesa con lui? La risposta classica a questa domanda è: “Ecclesia semper reformanda!”. Ed è una risposta vera. La Chiesa da più di duemila anni continua a cambiare, ma custodendo l’essenziale, cioè la Parola che è Gesù Cristo. C’è però dell’altro da dire. Perché Francesco ha dato una scossa radicalmente evangelica alle comunità cristiane, e arrivo a dire che essa ha toccato non solo quelle cattoliche. È cambiato il clima, e stavolta è una cosa ottima, e c’è chi non si rassegna a questo. E vorrebbe alzare quella che io chiamo una contronda. Eppure, diversi processi di riforma sono ormai avviati e Francesco stesso ci ha spiegato e rispiegato che è più importante avviare processi, abitando il tempo, che occupare spazi. C’è qualche processo di riforma che le sembra più decisivo? La fermezza del Papa latinoamericano contro la tendenza a trasformare la Chiesa in una “dogana dello spirito” con tanto di iperzelanti doganieri intenti a scrutare e a giudicare senza misericordia fede e vita altrui. Ci ha detto e ripetuto che la Chiesa è una madre che si fa vicina, si china e risolleva chi è caduto o viene tirato giù. Ecco, credo che papa Francesco abbia alzato una volta per tutte il pesante tappeto sotto al quale era stata a lungo nascosta la “polvere” delle persone e dei cattolici irregolari, a cominciare dai divorziati risposati, dai conviventi, dalle persone omosessuali… Finalmente nessuno può più sostenere a cuor leggero che nella Chiesa e per la Chiesa quelle “periferie esistenziali”, cioè quelle condizioni umane, sono “polvere”. E ora? È iniziato il “toto successore”… È naturale. E io consiglio di ascoltare con attenzione gli echi che arriveranno dalle Congregazioni generali, il denso prologo del Conclave. Sono semi-aperte a differenza dei giorni decisivi delle votazioni nella Cappella Sistina. Il collegio cardinalizio è ancora più ampio e diversificato di quanto non fosse nel 2013, quando venne eletto Francesco. Molti cardinali si ascolteranno e si conosceranno solo in quei momenti. Dodici anni fa - lo scoprimmo poi grazie al cardinale cubano Ortega che fece pubblicare a L’Avana un appunto regalatogli dal futuro Papa - Jorge Mario Bergoglio “conquistò” la fiducia dei suoi confratelli con uno splendido intervento in cui c’erano i grandi temi del suo futuro pontificato: la misericordia di Dio e i poveri, Cristo “Sole” in una Chiesa “Luna” e “in uscita” da abitudini e recinti, la gioia del Vangelo, le periferie esistenziali e geografiche dell’umanità, la pace e la giustizia,… Io spero, e, da cattolico, prego per un nuovo Papa che continui in modo diverso, certo, ma deciso il percorso avviato da Francesco. Ne abbiamo bisogno in un mondo pieno di attese e aggredito da presunzioni, pregiudizi, prepotenze, guerre e da grandi della terra che si credono Dio e vorrebbero mettersi al suo posto. Perché votare al referendum rafforza la nostra democrazia di Chiara Saraceno La Stampa, 28 aprile 2025 La partecipazione al voto per i referendum ha seguito negli anni lo stesso trend della partecipazione alle elezioni: molto alta fino a metà degli anni novanta, bassa in seguito. Nel caso delle elezioni, tuttavia, non c’è problema di quorum, con il risultato che si possono avere parlamenti che rappresentano meno della metà degli elettori e maggioranze che ne rappresentano un quarto. Nel caso dei referendum, invece, una bassa partecipazione lo rende nullo, confermando lo status quo. In entrambi i casi, come ha ricordato anche il Presidente Sergio Mattarella, la non partecipazione al voto - che si tratti di una forma di protesta o di pura indifferenza - indebolisce la democrazia perché consegna di fatto nelle mani di pochi tutto il potere decisionale. Certo, la partecipazione politica non si esaurisce nell’esercizio di voto. Si esercita anche nel controllo critico sugli eletti, nella partecipazione al dibattito su quali debbano essere i contenuti dell’agenda politica, nel costruire opportunità e condizioni per dare voce ai punti di vista dei cittadini sulle questioni che ritengono di interesse collettivo, inclusa la possibilità di cancellare norme che ritengono superate o ingiuste. Il referendum è uno degli strumenti a disposizione dei cittadini per partecipare alla cosa pubblica, con effetti di durata più lunga di una elezione. Per questo è preoccupante che, mentre dal 1974 al 1995, il quorum è stato raggiunto in tutte le altre 9 consultazioni, ad eccezione del referendum su caccia e pesticidi del 1990, delle 8 consultazioni effettuate dal 1997, solo quella del 2011, sulla gestione pubblica dell’acqua, abbia raggiunto il quorum. Un mancato raggiungimento che in alcuni casi è stato non tanto l’esito del disinteresse dei cittadini, o dell’obiettiva complessità dei quesiti, quanto dell’attiva propaganda da parte di qualche parte politica a che gli elettori ed elettrici non andassero a votare e piuttosto andassero al mare. Fu il caso, ad esempio, del referendum per l’abrogazione delle norme non solo restrittive, ma altamente pericolose per la salute delle donne, sulla procreazione medicalmente assistita (legge 40), in cui anche la Chiesa cattolica si spese per il non voto e si dovettero attendere le pronunce dei tribunali perché le norme più lesive della salute e della libertà delle donne venissero cancellate. Certo non una bella pagina per la democrazia. I cinque referendum abrogativi per cui siamo chiamati ad esprimerci la seconda domenica di giugno riguardano da vicino la vita di milioni di persone, quindi dovrebbero sollecitare ciascuno di noi che ha diritto al voto non solo ad esprimere la propria opinione, ma a far raggiungere il quorum, per far sentire a chi siede in parlamento e a chi governa come la pensa su queste questioni così importanti la maggioranza degli elettori ed elettrici. Quattro riguardano i rapporti di lavoro - due sulla disciplina dei licenziamenti illegittimi, uno sulle norme che riguardano i contratti a termine, uno sulla responsabilità delle aziende committenti e non solo di quelle appaltatrici e sub-appaltatrici in caso di infortuni - uno il requisito temporale di permanenza in Italia per accedere alla cittadinanza, per riportarlo a 5 anni come era prima della legge Bossi-Fini. Si può o meno essere d’accordo con tutte le specifiche proposte di abrogazione. Ma è importante esprimere il proprio voto e raggiungere il quorum. Perché non si dica che ai cittadini/e non interessa la materia della sicurezza sul lavoro, della precarietà, del modo migliore di trattare i licenziamenti illegittimi, o di quanto tempo gli stranieri devono aspettare per fare domanda di cittadinanza, anche rinunciando a trascorrere lunghi periodi nel paese di origine, o in un altro paese, a prescindere dalla loro situazione famigliare o lavorativa. Se non si raggiunge il quorum, il governo e il parlamento si sentiranno legittimati a non fare nulla per migliorare questa norme che se la maggioranza dei votanti avrà votato a favore della loro abrogazione. Cittadinanza, Magi: “Depositato referendum per ridurre i tempi a 5 anni, riguarda 2 milioni di figlie e figli d’Italia” Quanto a me, sono senza alcun dubbio d’accordo sul ritorno a cinque anni di residenza continuativa per poter fare richiesta di cittadinanza (gli altri requisiti rimangono uguali). Sono un tempo minimo, che di fatto è spesso ben più lungo, tra tempo necessario per ottenere la residenza legale e tempo che trascorre tra la presentazione della domanda e il suo accoglimento. Faciliterà anche l’acquisizione della cittadinanza dei figli minorenni, in attesa di una legge sullo jus scholae che non sembra alle viste. Sono anche d’accordo ad abrogare la norma che esenta le ditte committenti dalle responsabilità in solido con quelle appaltatrici e sub-appaltatrici in caso di infortuni. Troppo spesso si è visto che nella catena infinita dei sub-appalti quella delle responsabilità si sfalda. Sugli altri ho i miei dubbi e continuerò a informarmi. In ogni caso, votando, contribuirò a fare in modo che il raggiungimento del quorum dia l’opportunità a chi ha una posizione chiara in un senso o nell’altro di farla valere. La Nato spinge il riarmo del mondo: ha speso oltre 1.300 miliardi di dollari di Carlo Tecce L’Espresso, 28 aprile 2025 In un anno l’Alleanza Atlantica ha aumentato i suoi costi del 20 per cento. Germania impressionante: da 67 a 90 miliardi di euro. Su anche la Francia. Italia ferma all’1,5% del Pil, mentre l’obiettivo - ormai raggiunto da tutti i grandi, tranne la Spagna - è il 2 per cento. Il segretario generale Rutte accarezza Trump: gli Usa sono il miglior contribuente, Europa e Canada devono sforzarsi di più. Il mondo che si riarma, e non si sazia, è ben descritto nell’ultimo report dell’Alleanza Atlantica. L’olandese Mark Rutte, il segretario generale nominato in autunno, si congratula con i membri della Nato per i risultati raggiunti lo scorso - il costo totale per la Difesa è passato da 1.180 miliardi di dollari a oltre 1.300 miliardi - ma subito precisa che non basta, non è ancora sufficiente, che sarà essenziale farà un salto di qualità: “Investire molto di più”, ammonisce nell’introduzione del nuovo documento appena diffuso. E certamente Rutte non sarà soddisfatto dell’Italia che, secondo i calcoli Nato, arranca all’1,5 per cento del Prodotto interno lordo in spese per la Difesa, mentre ormai quasi tutti hanno agguantato l’obiettivo prefissato del 2 per cento, soprattutto i vicini di Francia (2,03 per un soffio) e di Germania (2,10 con un balzo). La media di Europa e Canada è 2 per cento tondo. La Gran Bretagna è al 2,33. Gli Stati Uniti con il 3,19 giocano in un torneo a parte e però, come va ripetendo Donald Trump, si sono stufati di reggere da soli la Nato. Con molta diligenza e spirito trumpiano, si potrebbe aggiungere, il report di Rutte espone in grafica - più di una volta - la differenza fra gli Stati Uniti e l’Europa con il Canada. Lo scorso anno l’Alleanza Atlantica ha superato i 1.300 miliardi di dollari, un bel risultato considerando che sette anni fa erano 1.039, ma 818 miliardi provengono dalla casse di Washington. Se non fosse abbastanza chiaro, il report paragona le quote del Prodotto interno lordo con le quote di spese per la Difesa: gli americani rappresentano il 53 per cento del Pil considerando i 32 membri (inclusa la neoentrata Svezia) e coprono il 64 per del Bilancio Nato. La Francia e la Germania stanno recuperando, l’Italia troppo lentamente, la Spagna è immobile. In valore assoluti colpisce Berlino: nel 2024 ha impegnato 91 miliardi di euro per la Difesa, nel 2023 era sui 67 miliardi. La Francia sfiora i 60 miliardi con una crescita di circa il 10 per cento. L’andamento italiano col governo Meloni è piatto: 29,9 miliardi (2022), 31,3 miliardi (2023), 32,7 miliardi (2024). Il ministro Giancarlo Giorgetti (Tesoro) ha assicurato che presto, dopo una ricognizione della Ragioneria Generale dello Stato sulle voci per la sicurezza e la difesa, anche l’Italia potrebbe scalare la vetta del 2 per cento: non lo vuole fare col debito pubblico, non lo vuole fare con acquisti improvvisati, anzi vorrebbe aspettare. E non ha torto. Perché per la riunione Nato di fine giugno, organizzata a l’Aja in Olanda in omaggio a Rutte, gli alleati hanno in serbo una gradita sorpresa: il 2 per cento è inutile, puntiamo al 3. Almeno. La fame di riarmo è ancora tanta. China Targets: così il regime perseguita oppositori e minoranze all’estero. Anche in Italia di Paolo Biondani, Scilla Alecci, Leo Sisti L’Espresso, 28 aprile 2025 Un piano segreto per spiare e colpire in tutto il mondo chi protesta contro il governo di Pechino. Documenti, video e testimonianze raccolti da 43 testate giornalistiche coordinate da Icij, tra cui L’Espresso. Tra bandiere cinesi e francesi svolazzanti sotto un cielo piovoso, il presidente cinese Xi Jinping e sua moglie Peng Liyuan atterrano con un aereo di Stato allo scalo di Orly. È il 5 maggio 2024. Parigi è la prima tappa di un tour europeo di cinque giorni. Chiaro lo scopo: rafforzare i legami con la Francia e l’Europa. La capitale francese accoglie gli illustri ospiti con una folla festante di cittadini cinesi, c’è anche chi si esibisce nelle danze tradizionali del drago e del leone al suono di tamburi e gong. Nella zona centrale della città, in place de la Republique, l’artista cinese Jiang Shengda sente un segnale di chiamata emesso dal suo cellulare. È il leader del “Front de la Liberté en Chine”, un piccolo gruppo di attivisti e intellettuali cinesi per la democrazia. Si sta preparando a parlare davanti a centinaia di manifestanti in quella piazza simbolo della libertà di espressione, protesta e dissenso. È nato a Pechino, ha solo 31 anni, ma è abituato ai comizi. Spesso raggiunge altri rappresentanti di minoranze perseguitate dal governo cinese, come gli uiguri, una minoranza etnica prevalentemente musulmana originaria del nord-ovest della Cina, i tibetani e i cittadini di Hong Kong, e si unisce a loro per contestare chi guida le politiche di violazione dei diritti umani e delle libertà civili: il presidente Xi Jingping. Ma quel giorno Jiang deve affrontare un atroce dilemma. Sa che quella telefonata arriva da sua madre, è lei che lo sta chiamando da Pechino, da 8200 chilometri di distanza. L’attivista sospetta che, dietro quella telefonata, ci siano poliziotti cinesi che usano gli affetti familiari per convincerlo a non disturbare il presidente nella visita in Francia. Per questo decide di non rispondere. Jiang Shengda è uno dei tanti cittadini cinesi che vivono all’estero, ma vengono presi di mira e tenuti sotto controllo dalle autorità di Pechino. Gli apparati di sicurezza agiscono direttamente, tramite operazioni di spionaggio, hackeraggio e sorveglianza delle vittime, ma anche indirettamente, attraverso pressioni su parenti, amici, colleghi e perfino ex insegnanti. Sono metodi che fanno parte di una sofisticata campagna orchestrata dal governo cinese per intimidire e zittire qualsiasi voce critica anche fuori dai confini, come quella di Jiang. Gli esperti la definiscono “repressione transnazionale”. “China targets” è un’inchiesta giornalistica, coordinata dall’International consortium of investigative journalists (Icij), che analizza e documenta come le autorità cinesi sorvegliano e tengono sotto controllo dissidenti che vivono all’estero. L’indagine ha unito più di cento giornalisti di 43 testate internazionali, tra cui Le Monde, Paper Trail Media, Guardian, Washington Post, El Pais e, per l’Italia, L’Espresso, Domani e Irpi Media. I reporter di trenta Paesi diversi hanno contattato e intervistato un campione di 105 vittime della repressione di Pechino: attivisti cinesi per la democrazia, cittadini di Hong Kong e Taiwan, esponenti di minoranze come gli uiguri e i tibetani, seguaci del movimento spirituale Falun Gong. I giornalisti hanno analizzato documenti riservati delle autorità di Pechino, in particolare un manuale di polizia del 2004 e le direttive impartite nel 2013 agli agenti addetti alla sicurezza nazionale, e hanno confrontato le azioni descritte in quelle carte con le esperienze vissute dalle 105 vittime. I cronisti hanno potuto esaminare anche interrogatori di polizia, registrati di nascosto, nonché telefonate e numerosi Sms tra 11 funzionari della sicurezza cinese e 9 delle loro vittime residenti all’estero. In più di metà dei casi, gli intervistati hanno dichiarato che i loro parenti rimasti in Cina sono stati interrogati e intimiditi da ufficiali della sicurezza, una o più volte, e in diversi casi questo è successo dopo che loro avevano partecipato e manifestazioni o eventi pubblici all’estero. Sessanta hanno affermato di essere stati seguiti o spiati; 27 hanno segnalato di essere stati bersagliati con campagne diffamatorie su Internet; 19 hanno riferito di aver ricevuto messaggi sospetti o chiari tentativi di hackeraggio. Alcuni hanno aggiunto che i loro conti bancari in Cina e a Hong Kong sono stati congelati e bloccati. Secondo le testimonianze raccolte, le intimidazioni a danno dei famigliari vengono gestite da funzionari e dirigenti del ministero della Pubblica sicurezza e di quello per la Sicurezza dello Stato: due delle agenzie cinesi che svolgono anche funzioni di intelligence. Ventidue persone hanno confidato di essere state aggredite da militanti del Partito comunista cinese o di aver subito minacce fisiche. La maggior parte degli intervistati non ha denunciato questi fatti alle autorità degli Stati esteri dove vivono: alcuni per mancanza di fiducia in un loro intervento, altri per paura di ritorsioni cinesi. Tra le persone che hanno presentato esposti, molti lamentano che la polizia non ha dato alcun seguito alle loro denunce, sostenendo che non ci sarebbero prove di reati perseguibili. Nel manuale della polizia pubblicato nel 2004 dall’ufficio della Sicurezza pubblica della provincia di Guangdong, un capitolo è dedicato alla “ricerca all’estero”, descritta come un’azione diversa dal “lavoro di intelligence all’estero”: è un’attività “a lungo termine”, “mirata”, che va “attentamente pianificata” e fa parte di “lotta segreta”. L’obiettivo indicato in quel volume è chiaro: identificare persone e organizzazioni al di fuori della Cina, che “tramano, dirigono o finanziano attività che mettono in pericolo la stabilità socio-politica e la sicurezza nazionale del Paese”, e ovviamente segnalarle ai vertici del Partito comunista cinese. È in questo contesto che Jiang Shengda entra in scena a Parigi, dove è un artista conosciuto con il nome d’arte di Chiang Seeta. Nelle sue performance, costruisce un muro simbolico davanti alla sede dell’ambasciata cinese. O fa sfilare un attore che indossa abiti imperiali cinesi con la maschera di Xi per irridere alla sua incoronazione al XX° Congresso del Partito comunista cinese nel 2022. Questo spiega perché, nel maggio dell’anno scorso, quando il presidente arriva in Francia, lui sa di essere sotto controllo. I suoi genitori lo hanno tenuto informato: funzionari della polizia segreta, in borghese, si presentavano nella casa di famiglia a tutte le ore, costringendoli a incontri in luoghi non ufficiali, come sale da tè o sale private di ristoranti. Quella telefonata da Pechino è la conferma: l’artista capisce che, quel pomeriggio, rischia di mettere in pericolo l’incolumità della madre e del padre. Eppure, prende il microfono, e si rivolge così, nella piazza di Parigi, ai manifestanti del Tibet e di Hong Kong: “Loro [la polizia cinese] ci hanno chiesto di tacere durante la visita di Xi Jinping… Queste minacce rientrano nella repressione transnazionale… che è solo un’estensione della tirannia in patria. Ecco perché la comunicazione tra le diverse comunità è così preziosa, davanti alla politica di divisione che la Cina porta avanti da tempo”. A discorso ultimato, Jiang chiama i genitori. Apprende così che, poco prima che lui salisse sul palco a Parigi, gli agenti della sicurezza cinese avevano chiesto di vedere suo padre, nel cuore della notte, per lanciargli questo ammonimento: “Suo figlio all’estero sta facendo cose sono contro le leggi cinesi. Noi potremmo anche chiudere un occhio. Ma questa volta il “grande leader” viene lì in Francia. Se suo figlio fa qualcosa di imbarazzante, per noi diventa difficile gestire la situazione”. La vita di Jiang non è stata sempre così rischiosa. Anzi. È figlio di un ufficiale della sicurezza cinese e nipote di un alto funzionario governativo inviato nella Mongolia interna. La sua è stata una giovinezza dorata. Studia in scuole d’élite di Pechino, i suoi compagni sono, come lui, figli di personaggi ricchi e potenti. Lui ricorda, sorridendo, che molte persone sollecitavano favori dal padre influente, mandandogli a casa dolci prelibati e pesce costoso. A 18 anni, la prima svolta. Per breve tempo si iscrive al Partito democratico cinese, un gruppo politico con base negli Stati Uniti che chiede riforme in Cina. Arrestato, viene accusato di incitamento alla sovversione del potere statale. Quindi scopre che la polizia ha compilato un voluminoso dossier spionistico su di lui, che comprende e-mail private e addirittura commenti di un vecchio insegnante della scuola elementare. Jiang resta in carcere per tre giorni, il passaporto gli viene revocato per un anno. Non è tutto. Il padre perde il posto nei servizi segreti e deve andare a lavorare per un’azienda statale. Nel 2018 Jiang lascia la Cina per la Francia. L’ammira per le tradizioni democratiche, il rispetto del dissenso e la cultura della protesta sociale che risalgono alla Rivoluzione francese. A Parigi frequenta gli esponenti della comunità di Hong Kong che protestano contro le nuove leggi repressive imposte dal regime cinese. Poco per volta, Jiang diventa il leader del Front de la Liberté. Il suo comizio a Place de la Republique durante la visita di Xi segna il culmine della sua esposizione politica. Ma le minacce contro la sua famiglia cessano di colpo. La sua esistenza rientra nella normalità, per quasi un anno. Lo scorso marzo, Jiang controlla uno dei quattro telefoni che usa per comunicare in modo sicuro con la Cina. Subito si accorge di un messaggio di suo padre. Che gli chiede di richiamarlo. In una telefonata successiva gli rivela che alcuni agenti di sicurezza, tra cui uno che era già stato a casa sua, lo hanno voluto rincontrare. Questa volta gli hanno offerto da bere in un ristorante e, con tono cortese, gli hanno fatto capire che suo figlio Jiang deve smetterla di collaborare con un noto attivista che vive in Italia ed è conosciuto con il nome d’arte di Teacher Li. Anche lui è una vittima della repressione transazionale. Nato 33 anni fa nel sud della Cina, dove suo padre fu perseguitato all’epoca di Mao Tse Tung, il professor Li si è trasferito in Italia nel 2015 e ha vissuto a lungo, con quattro gatti, a Milano, dove ha lavorato come professore, dopo essersi laureato all’Accademia di belle arti di Carrara. La sua battaglia comincia nel 2022, quando ha l’idea di rilanciare su Twitter (l’attuale X) i video, da lui ricevuti a migliaia, delle proteste in Cina contro le misure anti-covid, dove i manifestanti contestano anche il presidente Xi. Sui social, l’attivista che vive in Italia ha 1,9 milioni di follower, che gli spediscono quelle riprese, oltre a moltissime fotografie, prima che tutto venga cancellato dai censori di Pechino. Sono immagini rare e spietate sulla realtà cinese. Da allora Teacher Li assurge a punto di riferimento per chi dalla Cina vuole diffondere notizie scomode, documentare scandali nelle scuole, incendi nelle fabbriche, proteste di lavoratori migranti che rivendicano salari da fame non pagati. In breve si ritrova schedato segretamente come “individuo chiave”, da tenere sotto stretta sorveglianza. Un uomo da zittire. In Cina gli agenti della sicurezza fanno visita alla sua famiglia almeno una volta alla settimana, interrogano i suoi amici ed ex compagni di classe, pretendono di sapere quali sono i suoi contatti sui social media. Intanto le autorità gli congelano conti bancari e pagamenti online. “Dopo la morte di mio padre, si sono presentati per porgere le condoglianze. Da allora in Cina non sono più tornati”, confida Li ai giornalisti dell’inchiesta China Targets. Ma la persecuzione è continuata qui in Italia. “Negli ultimi due anni, per prudenza, sono uscito raramente. L’ambasciata cinese a Roma si è data da fare per scovarmi. Ha anche scritto alla scuola dove lavoravo, chiedendo di interrompere ogni rapporto con me. Ora sono costretto a guadagnarmi da vivere con YouTube”. Nel luglio 2023, Teacher Li ha chiesto asilo politico in Italia: lo ha fatto, come ha spiegato nell’intervista, perché “uomini del Partito comunista cinese avevano pubblicato su Twitter il mio indirizzo e i dati del mio passaporto, invitando i cinesi presenti in Italia a rintracciarmi. Mi hanno infatti trovato a Torino, dove nel frattempo mi ero trasferito e dove sono stato minacciato da sconosciuti”. Nel novembre 2024 gli è stato finalmente concesso l’asilo politico. Ma l’accanimento continua tuttora, come lamenta Li: “Nel marzo scorso, ho saputo che l’ambasciata si è nuovamente attivata per sapere dove fossi. Per questo, in aprile, ho chiesto aiuto alle autorità italiane, che mi hanno consigliato di lasciare la città dove abitavo”. Da allora Teacher Li si è rifugiato in un luogo da lui ritenuto sicuro: “Almeno finora non mi hanno scoperto”. Ma continua a restare in allarme: “So che ci sono diversi poliziotti cinesi, provenienti da varie zone, che mi stanno inseguendo qui in Italia, contemporaneamente”. Le operazioni di caccia all’uomo, insomma, vengono orchestrate dal regime cinese anche nel nostro Paese. Già due anni fa, nel dicembre 2022, in base a un rapporto pubblicato dalla Ong spagnola Safeguard Defenders, L’Espresso aveva rivelato i dettagli di un programma di Pechino per spiare i dissidenti all’estero e rimpatriarli a forza in Cina. L’inchiesta del nostro settimanale aveva documentato l’esistenza di una rete di almeno 11 “stazioni non ufficiali della polizia cinese”, attivate segretamente sul territorio italiano, da Prato a Firenze, Milano, Roma. L’articolo ha aperto una discussione in Parlamento. Un deputato di +Europa, Riccardo Magi, ha domandato formalmente “se il ministero dell’Interno abbia mai autorizzato l’apertura di queste strutture, quali attività svolgono davvero e se sia stata aperta un’inchiesta”. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha risposto che “non c’è alcuna autorizzazione all’attività dei centri in questione” e ha confermato che c’era un’indagine in corso, affermando: “Non escludo sanzioni in caso di illegalità”. Di quell’indagine italiana non si è più saputo niente. Ora l’inchiesta China Targets conferma e documenta una situazione ancora peggiore: il regime di Pechino ha un programma segreto di spionaggio, controllo e sorveglianza sistematica dei cittadini cinesi anche all’estero, un’attività praticata da anni, con direttive e metodi operativi descritti nei manuali di polizia e dei servizi. Nel febbraio 2025 Teacher Li è stato candidato al Nobel per la pace da una Commissione speciale del Congresso americano come “riconoscimento del suo impegno per la giustizia, i diritti umani e la protezione del popolo uiguro”. Con quale effetto? “Sono aumentate le calunnie contro di me su Internet”, rivela l’interessato. “Sono stati creati numerosi account che hanno cominciato a scavare nel torbido e a spargere voci false su di me. Però ho avuto anche qualche sostegno, sempre su Internet”. Teacher Li ha uno sponsor di rilievo anche in Italia. Giulio Terzi di Sant’Agata, una lunga carriera di ambasciatore conclusa negli Stati Uniti, già ministro degli Esteri nel governo Monti e ora senatore di Fratelli d’Italia, per lui si è speso molto. In un messaggio su Twitter del 2024, ha indicato Li come una delle vittime della “inarrestabile campagna di censura, da parte di Pechino, nel tentativo di bloccare qualsiasi voce di dissenso, in Cina come in ogni parte del mondo”. I giornalisti di Icij hanno inviato numerose domande alle principali ambasciate cinesi all’estero, nove delle quali hanno risposto. In particolare Liu Pengyu, portavoce della sede diplomatica di Pechino a Washington, ha dichiarato che le accuse di repressione transnazionale sono “infondate” e “inventate da pochi Paesi e organizzazioni per diffamare la Cina”: “Non esiste nulla di simile all’andare oltre i confini per prendere di mira i cosiddetti dissidenti e residenti cinesi all’estero”. Le altre ambasciate cinesi in paesi europei come Finlandia, Svezia, Francia, Belgio e Croazia, hanno fornito risposte analoghe, definendo “pure invenzioni” le accuse di spionaggio all’estero. In qualche caso, i rappresentanti di Pechino specificano che le questioni di Hong Kong, Taiwan e Xinjiang sono “affari interni della Cina”. Anche L’Espresso ha mandato una serie di domande, riferite anche ai casi italiani, all’ambasciata cinese a Roma, da cui non è arrivata alcuna risposta. Turchia. Ondata di arresti per gli avvocati di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 aprile 2025 In manette Yigit Gokcehan Kocoglu, difensore di un altro legale, Mehmet Pehlivan, anche lui arrestato, difensore del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Per l’avvocatura turca è un momento triste e delicato. In questi giorni le manette scattano una dopo l’altra non per pericolosi criminali, ma nei confronti dei difensori dei diritti. L’avvocato Yigit Gokcehan Kocoglu, difensore di un altro legale, Mehmet Pehlivan, è stato arrestato dalla polizia. Pehlivan è il difensore a sua volta del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, in carcere dal 19 marzo con l’accusa di corruzione e rinchiuso nel carcere di Silivri. Anche Pehlivan è stato dietro le sbarre per qualche giorno. L’avvocato Kocoglu non è stato l’unico a finire in manette. Con lui è stato arrestato il difensore di Murat Ongun, stretto collaboratore di Imamoglu. Si tratta di Serkan Gunel, il quale ha denunciato la scarsa chiarezza dei motivi che lo hanno privato della libertà. L’avvocato, prima di interrompere le comunicazioni con familiari e colleghi, ha condiviso un post sui social: “Sono attualmente detenuto nell’ambito del processo che ho avviato come difensore di Murat Ongun nell’operazione contro il sindaco di Istanbul. La difesa non può essere messa a tacere! La verità verrà a galla prima o poi”. Il primo cittadino di Istanbul ha denunciato la nuova ondata di repressione, questa volta ai danni dell’avvocatura turca. Il tintinnio di manette pare ai più come una chiara forma di intimidazione nei confronti di chi si oppone allo strapotere del presidente Recep Tayyip Erdogan. “Cara nazione - ha scritto Imamoglu su X - è arrivato il momento di scegliere tra la giustizia e la miseria. Il sistema giudiziario turco si sta macchiando di atti scandalosi mai visti prima. Un pugno di funzionari sta costringendo a pagare il prezzo delle proprie azioni ai nostri studenti, ai nostri giovani, ai nostri pensionati e ai nostri disoccupati. Prove false e fabbricate ad arte, menzogne, detenzioni di innocenti e minacce. Ci viene detto che non usciremo dalla prigione. Ora arrestano gli avvocati e gli avvocati degli avvocati per intimorirci. È arrivato il momento di dire basta e agire, alzate la voce, non dovete tacere”. Sugli arresti degli avvocati turchi interviene la Commissione Diritti umani del Consiglio nazionale forense. “Stiamo seguendo - evidenzia il coordinatore della Commissione, Leonardo Arnau - con profonda preoccupazione la vicenda professionale ed umana del collega Yigit Gokcehan Kocoglu, avvocato di Mehmet Pehlivan, difensore del sindaco di Istanbul, prima arrestato e poi rilasciato, ma sottoposto a controllo giudiziario con l’accusa di riciclaggio e quella dei difensori di Murat Ongun, stretto collaboratore di Imamoglu, anch’esso in carcere dal 19 marzo scorso, avvocati Serkan Gunel and Kazim Yigit Akalin, tutti e tre arrestati nella mattinata del 24 aprile scorso. Questi inaccettabili arresti si collocano, ancora una volta, nella deriva autoritaria dell’autunno dei diritti da anni in atto in Turchia, sintomo del tentativo di silenziare la funzione difensiva dispiegata dagli avvocati in favore degli avversari politici del governo turco, secondo il consolidato schema volto a sovrapporre arbitrariamente la figura del difensore a quella del proprio assistito, a cui si è aggiunta, lo scorso 21 marzo, l’incomprensibile destituzione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Istanbul e del presidente, noto costituzionalista, Ibrahim Kaboglu. Quanto succede in Turchia deve farci ribadire che la difesa che gli avvocati assicurano è fondamentale non solo per chi assistono, ma per la collettività e per i diritti fondamentali di ciascuno”. Il Cnf esprime solidarietà nei confronti degli avvocati turchi privati della libertà. “I nostri colleghi in Turchia - aggiunge Arnau vengono privati della libertà perché rappresentano naturalmente un contro- potere, nella misura in cui tutelano il patrimonio dei diritti delle persone anche e soprattutto nei confronti delle autorità pubbliche. Pretendere la tutela del libero esercizio della professione forense in qualunque Stato e contesto sociale equivale a salvaguardare lo Stato di diritto. E senza Stato di diritto è a rischio la democrazia. Il modo in cui vengono rappresentati e trattati gli avvocati è una spia della circolazione del virus autoritario. Gli avvocati, a qualunque latitudine, difendono la libertà e i diritti delle persone, ne sono portatori e chi li calpesta, in primo luogo, aggredisce l’avvocatura che ha il compito di tutelarli. Per questo è importante fare proprie le parole dei colleghi dell’Ordine degli Avvocati di Istanbul: “Non resteremo in silenzio, non lasceremo calare l’oscurità”. La Commissione Diritti umani del Cnf esprime, ancora una volta, pieno sostegno ai colleghi turchi ingiustamente accusati e chiede il rilascio immediato di tutti gli avvocati arbitrariamente detenuti, sollecitando il governo italiano, l’Unione europea e le altre istituzioni internazionali a chiedere alle autorità turche di garantire il rispetto dello Stato di diritto e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”. Il prossimo 29 aprile Erdogan sarà a Roma per incontrare la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Chissà se si parlerà anche di diritti umani calpestati in Turchia. Tunisia. Arrestato avvocato che aveva criticato condanne di massa contro il dissenso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 aprile 2025 In Tunisia, “paese sicuro” e amico dell’Italia, va sempre peggio: i tribunali continuano a emettere condanne nei confronti di chi critica il presidente Kais Saied e ad arrestare chi contesta quei verdetti. Ahmed Souad, avvocato ed ex giudice, è stato arrestato il 21 aprile dalla polizia antiterrorismo dopo che aveva definito “una farsa” il verdetto emesso due giorni prima nel cosiddetto “processo ai cospiratori”, di due dei quali aveva assunto la difesa. In quell’occasione, 40 imputati erano stati condannati a pene da quattro a 74 anni al termine di un procedimento giudicato vergognoso da Amnesty International, per “prove” quali scambi di messaggi con rappresentanti diplomatici stranieri per fissare incontri o altre comunicazioni interne circa la necessità di opporsi pacificamente a ciò che veniva definito il “colpo di stato” del presidente tunisino Saied. Sei dei condannati, tutti oppositori politici - Jaouhar Ben Mbarek, Khayyam Turki, Issam Chebbi, Ghazi Chaouachi, Ridha Belhaj e Abdelhamid Jelassi - erano stati posti arbitrariamente in carcere sin dal febbraio 2023, quando iniziò l’indagine. Tra gli altri condannati figurano i noti difensori dei diritti umani Kamel Jendoubi, Ayachi Hammami e Bochra Bel Haj Hmida, così come uomini d’affari e proprietari di mezzi d’informazione privati. Alla prima udienza del processo, il 4 marzo, agli imputati era stato vietato di essere presenti in aula per motivi di sicurezza e consentito solo di partecipare online, cosa che hanno rifiutato. Alla successiva udienza del 11 aprile era stato vietato l’ingresso in aula anche ad alcuni giornalisti tunisini e di testate internazionali e ad osservatori della società civile, compresi quelli di Amnesty International. Ahmed Souab è indagato, ai sensi delle norme antiterrorismo, per “formazione di un’organizzazione terrorista”, “sostegno a un’organizzazione terrorista”, “minaccia di commettere atti di terrorismo” e “diffusione di notizie false”. Il 23 aprile un giudice della sezione antiterrorismo ha ordinato la sua detenzione preventiva per la durata di sei mesi. Questa situazione non pare suscitare l’interesse dell’Università La Sapienza, che nel 2021 ha conferito al presidente tunisino un Dottorato honoris causa in Diritto romano, teoria degli ordinamenti e diritto privato del mercato per “il decisivo contributo, scientifico e istituzionale, offerto alla causa del dialogo tra ordinamenti giuridici diversi, di cui il Diritto romano è matrice storica essenziale, fondato sul rispetto reciproco e la valorizzazione dei diritti umani”.