“Perché voi e non io?” L’Osservatore Romano, 27 aprile 2025 “Perché voi e non io?”: era questa la domanda che interpellava, in qualche modo tormentava, l’animo di Papa Francesco ogni volta che pensava e che incontrava i detenuti. I cari detenuti, perché è indubbio che il Pontefice, con chi era rinchiuso nelle carceri di Roma come di ogni angolo del mondo, aveva un rapporto speciale. Tanto che, nonostante il fisico provato, non aveva voluto far mancare, nel suo ultimo Giovedì Santo, la sua presenza accanto ai detenuti della casa circondariale di Regina Coeli. Uno dei tanti gesti fortemente simbolici compiuti nel corso del suo magistero, come l’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, che ha segnato un momento storico nella storia dei Giubilei ordinari. “Fin dall’inizio del suo ministero petrino - ha osservato parlando al Sir il cappellano generali delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi - Papa Francesco ha voluto segnare il suo impegno pastorale stando accanto agli ultimi, a chi non ha voce. Questa esperienza già l’aveva vissuta nel suo ministero episcopale a Buenos Aires: ha voluto continuare questa sua opera accanto ai poveri, agli ultimi anche da Pontefice. Come sacerdote e ispettore dei cappellani nelle carceri italiane, sono grato a Papa Francesco per tutte le volte che ha indicato il carcere come luogo di riscatto e che ha mostrato che bisogna avere a cuore i detenuti e aiutarli a rialzarsi, dando loro fiducia. Papa Francesco, tutte le volte che è andato a visitare i detenuti nelle carceri, non solo italiane, ma anche all’estero, ha voluto esprimere questa vicinanza della Chiesa, dicendo che non condanniamo, non puntiamo il dito, ma invitando i detenuti a credere nell’infinita misericordia di Dio”. Anche perché, come si accennava, la domanda che dovrebbe interpellare tutti quelli che sono da questa parte delle sbarre dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che la vita può condurre su sentieri inattesi, non voluti, anche per un dettaglio, per un momento di debolezza, per una disgrazia più o meno importante. “La sua domanda “Perché voi e non io?” - continua don Grimaldi - ci fa pensare che entrare in carcere, purtroppo, oggi può essere facile. Tanti detenuti sono entrati in carcere anche per piccoli reati, per i quali ci sarebbe potuto essere anche l’affidamento ai servizi sociali. Le parole di Francesco ci fanno anche capire che il carcere è un luogo di frontiera con il quale la pastorale della Chiesa continuamente si confronta. Il Giubileo che stiamo celebrando abbraccia tutti: i malati, i poveri, il popolo di Dio, i preti, i vescovi. Il Papa ha voluto inserire in questo abbraccio di fede e speranza anche i detenuti, che ha portato sempre nel cuore”. Anche l’apertura della porta santa a Rebibbia è un forte richiamo, “è una porta che si spalanca all’interno e all’esterno: fa entrare la società dentro, ma permette anche ai detenuti che vogliono riscattarsi di uscire fuori e di essere accolti nella società”. Una società che non dovrebbe essere giudicante ma umile nei confronti di chi paga spesso per colpe proprie ma spesso determinate da condizioni e ingiustizie sociali. Non a caso, Francesco ha molto amato il gesto della lavanda dei piedi dei detenuti. Quest’anno, anche se le condizioni di salute non glielo permettevano, ha voluto comunque essere presente a Regina Coeli. “Papa Francesco, in questi anni - ha osservato il cappellano - ha scelto di celebrare la Messa in Coena Domini non nella basilica di San Pietro, ma in diverse carceri italiane per vivere questo gesto, che non è un rito vuoto. Lavando i piedi ai detenuti, il Santo Padre ha voluto dire agli uomini di oggi e alla Chiesa intera che la missione della Chiesa è servire, come diceva anche don Tonino Bello è “la Chiesa del grembiule”, la Chiesa che si china davanti alle povertà. Papa Francesco chinandosi davanti ai detenuti ci ha fatto capire che non ci può essere disprezzo verso coloro che hanno sbagliato, non dobbiamo puntare il dito né emarginare. Chinandosi sui piedi dei detenuti e lavando loro i piedi, Francesco ci ha ricordato che la Chiesa è al servizio degli ultimi e dei poveri.Dal primo momento ha detto che il suo sogno era una Chiesa povera per i poveri. E ha dato concretezza a questo con i suoi gesti profetici di cui ha disseminato il suo Pontificato”. E i detenuti lo hanno capito ed apprezzato. A Regina Coeli, la morte di Papa Francesco è arrivata inattesa e ha portato profonda tristezza e solitudine a chi anche dietro le sbarre sapeva di poter contare fuori da lì su un padre misericordioso, comprensivo e non giudicante. Diretta tv nelle carceri: i detenuti piangono assieme il “loro” Papa di Andrea Cuomo Il Giornale, 27 aprile 2025 Da Brescia a Rebibbia, esequie seguite nelle prigioni. Alcuni di loro, decine, erano lì di persona, a Santa Maria Maggiore, con un permesso speciale da parte del magistrato di sorveglianza. Molti di più, migliaia, si sono radunati davanti alla tv delle carceri per seguire i funerali del “loro” papa, José Bergoglio, il pastore che li ha fatti sentire i penultimi e non più gli ultimi. Nel giorno in cui Roma è stata teatro del P-7, il raduno estemporaneo dei grandi leader del “mondo infame”, c’è stato spazio anche per i detenuti che Bergoglio spesso ricordava negli Angelus e quando la cronaca o il cuore gliene offriva la possibilità. Sono stati loro a guidare il drappello dei quaranta emarginati (che comprendeva anche rifugiati, poveri, trans e persone in difficoltà) presenti a Santa Maria Maggiore in un luogo privilegiato della basilica, quelli che don Ben, alias Benoni Ambarus, il sacerdote romeno nominato proprio da Bergoglio responsabile della carità e della pastorale carceraria a Roma, qualche giorno fa ha definito “i figli prediletti” di papa Francesco. Quelli a cui nello stesso testamento il pontefice argentino ha lasciato 200mila euro, praticamente tutti i suoi soldi personali. E ieri queste quaranta anime in fuorigioco avevano davvero le lacrime agli occhi e, tutti, una rosa bianca in mano. “È stata una emozione grandissima - ha detto Tamara - sono stata all’ultimo saluto a Papa Francesco per ringraziarlo per le porte che ci ha aperto, dell’essere sempre presente con noi, spero che questo continui, perché così voleva e così spero che sarà”. Nel drappello c’erano anche cinque detenuti di Rebibbia, il carcere che Bergolio ha trasformato in una basilica lo scorso dicembre, aprendone la porta come quella di San Pietro spalancata poche ore prima per dare il via al Giubileo, gesto che ha consacrato il penitenziario romano - e con lui tutti i carceri del mondo - come luogo sacro per fede e umanità. Rebibbia è stato anche uno degli ultimi luoghi visitati da Bergoglio prima di morire, il 17 aprile, il giovedì di Pasqua. E Rebibbia, lontano una decina di chilometri dal centro attraversato dal corteo funebre, è stato uno delle carceri dove con più fervore è stata seguita davanti ai teleschermi la giornata di lutto e fratellanza. E lo stesso è accaduto in tutte le carceri della penisola, da Regina Coeli a Brescia. “Il Papa sino all’ultimo ha avuto in mente gli ultimi, soprattutto le persone che stavano in carcere. Spero tanto che la sua morte possa costituire un momento di maggiore attenzione verso il mondo carcerario”, dice il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Polemico Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria: “Oggi si celebra anche il culto dell’ipocrisia e, persino, della blasfemia dei tanti che si richiamano ai valori espressi dal Santo Padre, ma detenendone la responsabilità politica, nulla fanno per migliorare concretamente le condizioni delle prigioni”. Sino a chi dice, evidentemente senza contegno e pudore, che opererà in suo nome”. È possibile lavorare ad un alto livello nelle carceri? La storia dell’Academy di Bollate di Margherita Cuccia artribune.com, 27 aprile 2025 Laboratori etici, sartorie, brand del lusso, scuole e giovani talenti, produttori etici e produttori tradizionali, si sono riuniti per supportarsi, ma anche per stare sul mercato e ampliare la propria rete. Scopriamo la storia dell’impresa sociale Ethicarei. Ethicarei è un’impresa sociale srl che promuove una produzione etica certificata sotto il marchio Made in Dignity. La sua missione è spostare l’attenzione dai prodotti finiti ai processi e alle persone coinvolte, creando opportunità di coinvolgimento per produttori, creativi e aziende nel settore della moda e del design. Con la creazione della prima filiera produttiva etica in Italia, garantita dal Fair Trade, Ethicarei favorisce l’inclusione di soggetti svantaggiati, potenziando l’impatto sociale delle cooperative sociali e migliorando la competitività sul mercato. Cosa fa Ethicarei - Promuove una collaborazione concreta tra laboratori profit e non-profit, nonché fra il mondo scolastico e quello del lavoro, per rispondere alle esigenze di sostenibilità sociale e di formazione. Si distingue per l’offerta di percorsi didattici specifici, preservando le tradizioni artigianali italiane e creando nuovi sbocchi occupazionali per le giovani generazioni. L’impresa favorisce una crescita sostenibile, aiutando i brand ad accedere a un mercato di consumatori consapevoli e a nuove opportunità per i produttori italiani tradizionali. L’impresa sociale Ethicarei - In un’epoca in cui la sostenibilità e l’inclusività sono diventate parole chiave nel mondo della moda, Ethicarei si distingue come un esempio. La cooperativa Alice e Ethicarei si inseriscono in un circolo virtuoso che non solo tutela le persone vulnerabili, ma contribuisce al benessere collettivo. Come sottolineato dall’ avvocata Eleonora Di Benedetto della Fondazione Severino, parte del progetto, i numeri parlano chiaro: quando le persone detenute non trovano un inserimento lavorativo, nel 98% dei casi tornano a commettere reati. Al contrario, con l’apprendimento di un lavoro in carcere, la percentuale scende al 2%. Non solo si garantisce una seconda possibilità a chi ha commesso un reato, ma si promuove un’efficace riabilitazione che porta benefici a tutta la società. Come funziona Ethicarei - Ethicarei colma una lacuna nel sistema produttivo, offrendo formazione specializzata per sarti, macchinisti, pellettieri e calzaturieri, preservando al contempo le tecniche artigianali tradizionali e creando una rete che coinvolge talenti emergenti e grandi marchi. Con una visione volta a promuovere l’innovazione sociale e ambientale, Ethicarei e la cooperativa Alice si impegnano anche a rafforzare la sostenibilità economica delle imprese sociali, aiutandole a sviluppare competenze manageriali, tecniche ed esecutive e rispondere alle sfide del mercato globale. L’integrazione tra il mondo delle imprese profit e quello delle realtà sociali continua a essere una priorità, soprattutto in un contesto normativo in evoluzione, come dimostrano le nuove direttive europee in materia di sostenibilità sociale, CSRD e CSDDD, e i sistemi di valutazione ESG. Nell’intervista ad Artribune, esploriamo come queste iniziative stanno trasformando la moda, aprendo nuovi orizzonti per la risocializzazione e il reinserimento delle persone detenute nel mondo del lavoro, aprendo vedute, mentalità e soprattutto opportunità a chi è invece libero. Il caso qui evidenziato coinvolge il carcere di Bollate (a poca distanza da Milano) quale realtà esemplificativa di questa nuova pratica etica. Intervista a Caterina Micolano di Ethicarei Uno dei punti di forza di Ethicarei è la capacità di posizionarsi sul mercato. Com’è stato possibile creare un livello di credibilità tale da permetterlo? In realtà la stiamo costruendo, la credibilità, e lo dico non con finta umiltà ma con estremo realismo, perché la credibilità del terzo settore sul mercato produttivo manifatturiero è veramente un’impresa titanica. Inizialmente pensavo che la carenza maggiore su cui lavorare per costruire questa credibilità fossero le competenze tecniche del personale svantaggiato che noi impieghiamo, sapendo di aver bisogno di una preparazione di alto livello per mantenere una reale sostenibilità economica e una vera dignità del lavoro. Ma questo si risolve facilmente con l’alta formazione che per una realtà non profit del terzo settore come la nostra non è impossibile, avendo ampio accesso a bandi e finanziamenti. Come avete lavorato quindi? Abbiamo rivisto la formazione professionale del personale svantaggiato nei suoi processi e nei suoi contenuti, adattandoci alle esigenze reali del mercato del lavoro e non agli standard di formazione a cui siamo abituati nel terzo settore che soddisfano un’occupazione del tempo, insegnamenti basici per intraprendere un hobby. Abbiamo alzato l’asticella e quando i maestri sono bravi, il risultato si raggiunge. Invece, cosa ci dici sulla credibilità? Il problema della credibilità è dato dai processi che alimentano le organizzazioni di terzo settore, le loro organizzazioni aziendali, la loro mentalità, l’approccio al lavoro. Sono le stesse figure del terzo settore e non le persone fragili a essere la causa di questa mancata o parziale credibilità. Siamo noi del terzo settore a mettere le mani avanti quando ci interfacciamo con il mercato, siamo noi che abbiamo un atteggiamento richiedente: chiediamo soldi, aiuto, pietà, compassione, comprensione ma manca una logica contrattualistica, che non vuol dire essere arroganti ma credibili perché la carità non è sostenibile e la filantropia non lo è più. State mettendo in piedi un vero pilastro dell’economia, cambiando un po’ l’attuale economia che non si è rivelata abbastanza sostenibile... Hai proprio centrato il punto. Con Ethicarei cerchiamo di costruire un ecosistema - stiamo ancora in ambito sperimentale - basato su un nuovo modello economico win-win di tutti, misurabile, valutabile e economicamente rendicontabile. Sappiamo che per essere un soggetto interessante, dobbiamo generare economia positiva. Ma l’economia non è antitetica all’etica. Forse noi imprese sociali oggi abbiamo il ruolo di cambiare questa mentalità, perché credo che fare del bene non significhi essere caritatevole verso alcune categorie fragili. Qual è la sfida? Confrontarci con un sistema economico che è fragile quanto lo siamo noi, perché le condizioni di fragilità del personale sono diffuse e comuni nelle aziende, i lavoratori sono fragili non solo in carcere. E questo è proprio il nostro obiettivo centrale come Ethicarei, occuparci di lavoro etico e lo abbiamo iniziato a fare partendo dalle estreme periferie dove il lavoro acquisisce da sempre un valore particolarmente forte. Un altro ingrediente essenziale è l’interazione tra laboratori profit e laboratori no-profit, mondo scolastico e mondo del lavoro. Come e quando sono nate queste sinergie? Tutti possono beneficiarne e tutti possono contribuire a costruirle. È stata prima di tutto una necessità. Ci siamo chiesti: come si contamina il sistema con i temi dell’inclusione? Come possiamo cambiare la narrazione dell’inclusione?Sapevamo che dovevamo alzare gli standard di qualità tecnica di laboratori, quindi siamo partiti dal volontariato professionale, abbiamo chiesto alle maestranze dei laboratori profit di riferimento del lusso, o meglio abbiamo dovuto chiedere alle aziende, di insegnarci il lavoro in termini tecnici e di processo. Ed è stato immediatamente possibile perché è uno strumento previsto dalla legge in cui le aziende traggono benefici fiscali e il riconoscimento di un budget di ore per il proprio personale. E così è iniziato tutto. Bisogna sempre provare a proporre, perché al massimo ti dicono di no. Però bisogna osare, Io non conoscevo nessuno eppure mi hanno ascoltata. È cominciato tutto con un contatto con la pelletteria di Monza. Raccontaci qualche progetto recente… Ora sta nascendo una bellissima iniziativa a Bologna, con un laboratorio partner del carcere della Dozza, dove stiamo facendo un upgrade tecnico, abbiamo cominciato a prendere contatti con donne in cassa integrazione, che sono moltissime a causa della chiusura di alcune aziende. Questa soluzione metterebbe di nuovo in attività tante persone che si son trovate a non lavorare da un giorno all’altro e soprattutto permetterebbe la condivisione di un know-how che altrimenti si va a perdere e di cui l’industria ha bisogno. Trasmettere questo tipo di sapienza e di passione credo sia di sollievo anche per chi ha lavorato ed imparato per una vita. Ci vuol del tempo a formare una sarta per bene, ma prima si inizia meglio è. Ovvero? Se ad esempio so che ci vorranno tre o quattro anni per la formazione allora mi rivolgo alle donne che hanno pene che vanno dai cinque anni in su, e se inizio oggi, tra tre anni ci saranno magari 10 nuove sarte e così al mercato ne mancheranno di meno e si va avanti. Se inoltre le sarte lavorano qualitativamente bene, nel tempo le aziende faranno meno fatica ad assumerle e non si chiederanno più da dove provengono ed è così che si attenuano i pregiudizi. Ethicarei fa rete con cooperative, reti sociali ed enti del terzo, tutti rigorosamente certificati Fair Trade. Questo significa che il compenso che ricevono le detenute è equo e solidale, pari ad un giusto compenso che riceverebbero da libere fuori dal carcere? Sì, questa è la prima regola base sul lavoro e lo scopo statutario delle nostre realtà e questo garantisce un ritorno serio in credibilità, perché noi siamo cooperative di produzione e lavoro; quindi, dobbiamo essere in tal senso credibili. Noi siamo iscritti in Camera di Commercio, nella sezione produzione e lavoro ed è quello che facciamo. Quindi rispettiamo gli standard di mercato, i tempi di consegna, siamo realtà produttive affidabili. Non facciamo stage o tirocini ma lavoro vero e proprio. È a volte ambigua la linea tra etica e sfruttamento nel lavoro sociale, specialmente nel terzo settore perché si abusa di questi strumenti, che vengono usati per anni senza un reale inserimento lavorativo e possono diventare quasi forme di sfruttamento legalizzato. Noi promuoviamo invece la dignità del lavoro e cerchiamo reali opportunità per le persone coinvolte. Invece, quali collaborazioni per la formazione avete attivato? Ho letto che lo IED partecipa alla formazione... Sì, meglio dire gli IED, perché è entrata adesso a far parte del circuito anche la Fondazione Francesco Morelli, che prende il nome dal fondatore del primo Istituto Europeo di Design. Vorrebbero inserire nei loro programmi l’esperienza di educazione al design e al bello nei luoghi fragili come strumento di inclusione sociale. Ci hanno contattato per realizzare insieme progetti ad ampio raggio che non siano fini a sé stessi. Iniziamo questa collaborazione a Bollate dove si occuperanno della formazione nell’Academy per poi replicare l’esperienza nelle altre città dove IED ha sede. La formazione tecnica la stiamo invece impostando con il Gruppo Florence, network di laboratori produttivi molto importanti per il settore del lusso nazionale. Il carcere di Bollate è rinomato per essere considerato un carcere modello, ma sottolineo che il vero cambiamento dipende dalle persone, in particolare dalla mentalità dei direttori e dalla loro apertura. I modelli virtuosi non sono facilmente replicabili perché spesso mancano spazi, risorse o volontà. La vera forza sta nell’engagement delle persone, non nella spettacolarizzazione o nella vetrina delle best practice. So che l’inaugurazione dell’Academy è stata molto partecipata. Come cambiano le cose con la sua “nascita”? Si punta a creare una vera linea produttiva, insegnando competenze tecniche, linguaggio professionale e logiche industriali. Il cambiamento riguarda anche l’organizzazione del lavoro, la qualità, l’efficienza e la sostenibilità. I partner chiave del progetto sono Aspesi, Armani e Chloé, che hanno supportato la costruzione di questo ecosistema. I processi e le persone che realizzano i prodotti sono al centro della vostra attività. Cosa vuol dire nella quotidianità occuparsi di valore sociale, di sostenibilità sociale? Penso sempre che dietro a ogni oggetto c’è sempre il lavoro di una o più persone, si tratta quindi di riumanizzare la moda. Un nuovo umanesimo del prodotto e anche del consumo, ritornare a spostare il focus dal prodotto finale alle persone che l’hanno generato, mettendole al centro insieme a quelle che lo indosseranno, affinché ne beneficino sia chi produce che chi consuma. Questo credo che sia l’impegno che noi garantiamo per far sì che il mondo della moda generi sentimenti positivi; infatti, pur capendo le critiche e gli abusi mossi alla fast fashion, si deve riconosce il suo ruolo sociale positivo, soprattutto per chi ha meno risorse. Bisogna sempre a mio avviso guardare tutte le prospettive. Non basta demonizzare la fast fashion: bisogna analizzare i bisogni umani, anche emotivi, legati al consumo. La moda sostenibile deve tenere conto anche di aspetti psicologici e sociali, non solo ambientali o etici. Qual è il ruolo della cultura nella promozione dello sviluppo sostenibile? È possibile educare alla sostenibilità anche attraverso la bellezza, l’arte, la moda? È quello che stiamo cercando di dire. Forse educare attraverso il bello fa capire alle persone che il cambiamento di cui si parla non è un cambiamento traumatico che deve spaventare, ma è un’evoluzione verso qualcosa che eleva. E come sempre serve generare cultura. La cultura è la culla dell’educazione. Io ho una formazione classica, però per esempio i miei studi archeologici mi hanno insegnato una cosa che porto avanti ancora oggi: quello che fa un buon archeologo non è la quantità dei reperti che trovi scavando, ma è la tua capacità di interpretarli. Perché a volte basta un singolo reperto ben analizzato per comprendere tutti gli altri. Poi ho lavorato con Pistoletto e l’opera L’universo speculare, che suggerisce l’idea di un universo che si riflette e si moltiplica, invitando lo spettatore a considerare la propria posizione all’interno di un tutto più grande, mi ha ispirata e torna nella mia vita. Quello che noi insegniamo alle donne attraverso la sartoria è cheil rispetto delle regole libera la creatività e ci rende libere. Sinergie tra dentro e fuori, ecco il “modello Venezia” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 27 aprile 2025 Santa Maria Maggiore fa jackpot. Un detenuto, un educatore e due poliziotti del penitenziario veneziano vincono il premio San Marco 2025. Il riconoscimento, consegnato ieri a palazzo Ducale, premia l’intero istituto. L’asso nella manica? La capacità di fare rete, dentro e fuori le mura del carcere. Ne parliamo con il direttore Enrico Farina. Direttore, qual è il segreto di Santa Maria Maggiore? “Sicuramente una sinergia quotidiana tra polizia penitenziaria e educatori; solo così si può affrontare con efficacia la complessità di una popolazione detenuta variegata. Si è più capaci di distinguere le persone ristrette davvero disponibili a intraprendere un percorso di reinserimento sociale, da chi non ha ancora maturato questa consapevolezza. Con l’attività osservativa e trattamentale si possono costruire percorsi individualizzati, adeguati alle condizioni personali e giuridiche di ciascun detenuto”. Quanto è importante la “spinta” esterna del territorio? “È essenziale. Venezia si è dimostrata nel tempo aperta e accogliente verso il carcere, offrendo opportunità concrete di impegno e partecipazione, sia all’interno dell’istituto che all’esterno, grazie a una rete di collaborazioni istituzionali e sociali. Cito, tra le opportunità lavorative dentro Santa Maria Maggiore, il Cup (Centro unico prenotazioni), il laboratorio di serigrafia e quello di pelletteria; fuori, la collaborazione con la Biennale di Venezia, Veritas, strutture ricettive e cooperative edilizie e altre realtà del territorio”. Parliamo dei premiati partendo da Ferdinando Ciardiello, capo area educativa dell’istituto... “La sua azione ha significativamente contribuito a rinnovare le dinamiche trattamentali. È riuscito a rafforzare i rapporti con il territorio e a promuovere una progettualità educativa integrata, coerente con i principi della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario. Andrà via il 1° maggio, ma il suo operato ha inciso in modo positivo sulla qualità della vita detentiva e sul senso di responsabilità dei detenuti coinvolti nei percorsi rieducativi”. C’è anche Matteo Buriollo, detenuto nella casa circondariale... “È stato il primo ad essere impiegato in attività esterna nell’ambito del protocollo siglato con la Biennale di Venezia. È stato scelto per la serietà, la responsabilità e le capacità relazionali dimostrate sul luogo di lavoro. Il riconoscimento della Biennale è stato per lui motivo di profonda emozione e consapevolezza del valore rieducativo del percorso intrapreso”. Infine, i due assistenti capo coordinatori della polizia penitenziaria, Rosario Piletto e Alessandro Serra... “In realtà il premio è stato conferito all’intera flotta navale, che loro rappresentano. Il 18 gennaio scorso, durante un servizio di trasporto per cambio di piantonamento, sono intervenuti per salvare una persona in evidente stato di ipotermia nelle acque del Canal Grande. Determinanti sono stati anche l’assistente Giovanni Nicosia e l’agente scelto Francesco Di Fuccia, anche loro in servizio a Santa Maria Maggiore. Un’azione apprezzata dalla comunità locale e rilanciata dalla stampa, che si è distinta per prontezza operativa, professionalità e senso civico”. Si sente soddisfatto di questa sorta di “modello Venezia”? “Non posso che sentirmi orgoglioso di questo riconoscimento, e ringrazio per l’eccellente lavoro che svolgono il personale della penitenziaria e quello del comparto funzioni centrali. Ogni giorno, con senso del dovere e professionalità, ciascuno affronta la complessità del contesto penitenziario, contribuendo a costruire un sistema capace di tutelare la sicurezza, ma anche di offrire occasioni concrete di riscatto”. Bergamo. Aiuti per il carcere: raccolta fondi degli avvocati di Michele Andreucci Il Giorno, 27 aprile 2025 L’Ordine di Bergamo lancia un’iniziativa concreta contro la povertà in cui versano molti detenuti. Materiale per l’igiene personale, biancheria intima maschile e femminile, tute, magliette, ma anche materiale per la tinteggiatura e per eseguire alcuni piccoli lavori di sistemazione della struttura. Gli avvocati bergamaschi, in accordo con la direzione della casa circondariale, hanno promosso una raccolta fondi da destinare a generi di prima necessità da distribuire ai detenuti del carcere di via Gleno. “È un’iniziativa concreta - spiega il presidente dell’Ordine degli avvocati di Bergamo, Giulio Marchesi - che nasce da un’esigenza chiara, relativa alla situazione di chi vive la detenzione. Si parla spesso di questo tema, delle criticità del sistema carcerario, ma è necessario anche darvi seguito con dei gesti concreti”. L’Ordine, dopo essersi confrontato con Antonina D’Onofrio, direttore della casa circondariale di via Gleno, ha diffuso una comunicazione ai suoi iscritti per sensibilizzarli verso l’iniziativa. “La situazione di sovraffollamento delle carceri italiane (a Bergamo ci sono 581 detenuti, a fronte di 319 posti regolamentari, ndr) è nota, meno noto è lo stato di povertà in cui versano molti detenuti all’interno degli istituti - si legge nel messaggio inviato nei giorni scorsi -. La struttura carceraria ha fondi spesso insufficienti per far fronte alle necessità di tutti i detenuti indigenti e deve far conto sulle risorse del volontariato. A tal proposito abbiamo deciso di estendere la raccolta a tutti gli iscritti che vorranno contribuire con una donazione in denaro che sarà utilizzata per l’acquisto del materiale necessario”. “Le risposte sono già positive, stanno arrivando i primi bonifici e le prime donazioni di materiali - sottolinea Marchesi - anche grazie alla sensibilità di alcune aziende del territorio che hanno raccolto il nostro appello”. Già nei giorni scorsi, alcune consigliere dell’Ordine degli avvocati hanno portato personalmente al carcere di Bergamo diversi prodotti per la cura e l’igiene personale offerti da alcune imprese, tra cui “Valetudo” di Presezzo e “Skincare Center” di Bergamo, in collaborazione col marchio tedesco “Doctor Eckstein”. L’iniziativa degli avvocati, che hanno attivato un conto corrente dedicato (le coordinate sono disponibili sul sito dell’Ordine degli avvocati di Bergamo), proseguirà sino alla fine del mese di maggio. Torino. A un mese dalla riapertura del Cpr i detenuti sono 57: disordini e scioperi della fame di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 27 aprile 2025 Due aree sono in funzione, la terza è quasi pronta. A un mese esatto dalla sua riapertura, il Cpr di corso Brunelleschi adesso ospita 57 persone divise in due aree: quella “viola” e quella “bianca”. Una terza area, la “blu” dovrebbe essere presto pronta all’accoglienza di altri ristretti. Dal primo giorno in cui ha riaperto le porte, il Centro è stato, come prevedibile, teatro di problemi: diversi “ospiti” hanno denunciato maltrattamenti, raccontato di porzioni di cibo misere, la mancanza del riscaldamento: e ancora “solo un litro d’acqua potabile al giorno”. Dopo pochi giorni dalla riapertura, i detenuti hanno scioperato: tre giorni senza mangiare. Proteste che hanno portato a un cambiamento solo parziale: l’area bianca ha ancora fredde temperature e l’acqua calda dicono che non funzioni. Le persone detenute hanno descritto le giornate come un inferno che “non passa, non facciamo nulla dentro tutto il giorno”. Le persone che vengono portate al Centro arrivano da altri cpr, altri sono stati trasferiti dalle carceri delle Vallette e di Ferrara. Ma non solo: qualcuno viene identificato in strada e quando risulta irregolare, trasportato appunto in corso Brunelleschi. Chi è stato dentro “per qualche ora” racconta di un dispiegamento importante di forze dell’ordine. Ci sono poliziotti, carabinieri e a volte anche dei finanzieri, pronti a garantire non ci siano disordini. Presenti anche, a due per volta, i vigili del fuoco: stanno in un gabbiotto predisposto, pronti a intervenire in caso di necessità. Più della metà dei ristretti prende, quotidianamente, farmaci: molti sono calmanti e vengono somministrati, tutti, all’interno del locale che è a uso infermeria. Dormono in stanze da sei persone, con letti a castello che sono inchiodati al pavimento: giacigli di ferro dove non è permesso avere coperte di stoffa -nè lenzuoli- per evitare tentativi conservativi. Ad ogni stanza viene dato un cellulare: la connessione a internet non è disponibile eccetto per un’applicazione, quella di whatsapp. Tutti i dispositivi sono privi di fotocamere, a disposizione dei detenuti dalle 10 del mattino alle 18. Le persone ristrette attualmente provengono dal Bangladesh, Egitto, Marocco, Pakistan: ci sono anche tunisini e nigeriani. Una testimonianza diretta racconta di un uomo che è stato “liberato” 45 giorni prima del fine pena dal carcere di Cuneo. Pensava di poter tornare nel mondo dei liberi, invece è stato trasportato in corso Brunelleschi. Locri. Nasce il regolamento per il Garante dei diritti dei detenuti: un passo di civiltà metisonline.org, 27 aprile 2025 A Locri si compie un importante passo verso la tutela dei diritti fondamentali. Il Consiglio comunale ha approvato all’unanimità il regolamento che istituisce la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sancendo un impegno concreto a favore della dignità umana. L’iniziativa, illustrata in aula dall’assessore Ornella Monteleone, ha posto l’accento su un valore fondamentale: il rispetto dell’individuo, anche e soprattutto nei contesti più fragili. L’assessore ha voluto rievocare le radici profonde di Locri, richiamando la figura di Zaleuco, uno dei primi legislatori dell’antichità, i cui insegnamenti sui diritti e sulla giustizia sono ancora oggi un punto di riferimento. Il nuovo regolamento è il frutto di un lavoro corale, reso possibile grazie alla collaborazione tra amministrazione comunale, Ordine degli Avvocati di Locri, Camera Penale, Movimento Forense e Centro Studi Zaleuco, con il contributo tecnico di professionisti del diritto. Tra questi, il componente del direttivo nazionale del Movimento Forense Rocco Lombardo, che ha espresso grande soddisfazione per il risultato raggiunto: “Con l’approvazione del regolamento - ha affermato - Locri si pone come esempio di sensibilità giuridica e umana in un campo troppo spesso dimenticato. Il Garante sarà non solo un difensore dei diritti, ma anche un ponte tra le istituzioni e le istanze sociali, un presidio dei valori costituzionali più autentici”. Il regolamento stabilisce che l’incarico di Garante avrà durata quinquennale, con possibilità di rinnovo per due volte consecutive, previa procedura ad evidenza pubblica. Tra le funzioni attribuite al Garante, figurano la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, la promozione dell’accesso a istruzione, cultura, sport e relazioni sociali, nonché il monitoraggio delle condizioni di detenzione. Non è mancato, durante il dibattito, l’intervento del sindaco Giuseppe Fontana, che ha parlato di un “segnale di civiltà” da parte dell’amministrazione, annunciando anche la prossima istituzione di un Osservatorio permanente sui diritti dei detenuti. Con questa scelta, Locri dimostra che i valori di umanità e giustizia non devono rimanere ideali astratti, ma possono e devono tradursi in strumenti concreti al servizio di tutta la comunità. Cremona. “Porto la mia liuteria per aiutare i carcerati” di Nicola Arrigoni laprovinciacr.it, 27 aprile 2025 Jholman Castañeda Quintero dalla Colombia a Cremona nel segno del saper fare. “L’arte e la musica sono antidoti efficacissimi contro la seduzione del male e della violenza”. E mentre dice questo a Jholman Castañeda Quintero s’illuminano gli occhi, 44 anni, un volto e una fisicità che sembrano usciti da un film di Pier Paolo Pasolini. La suggestione arriva dalla storia del liutaio e intagliatore di origine colombiana, vissuto a Medellín e arrivato in Italia per amore della liuteria e della musica. “A Medellín io e il mio gruppo musicale Ritual eravamo impegnati ad aiutare i ragazzi di strada, cercavamo di coinvolgerli con l’arte dell’intaglio per sottrarli da chi voleva approfittare di loro per il traffico di droga - spiega. Ho sempre avuto una certa predisposizione al lavoro manuale che ho coniugato con la passione per la musica. Ho avuto sempre la consapevolezza che investire su arte e musica è un modo per trovare un senso nella propria vita e per stare lontano da ciò che è illecito”. È questa una convinzione che muove da sempre Castañeda Quintero: “Ad un certo punto ho preso coraggio e sono venuto a Cremona, ho frequentato la scuola di liuteria per unire la mia passione per l’intaglio e quello per la musica. Mi sono diplomato nel 2016, grazie all’aiuto di un insegnante piemontese, Giovanni Ferraris, che mi ha sostenuto in quest’avventura, mi ha convinto a venire a Cremona, ha dato concretezza a quella che è diventata la mia vita: la liuteria - racconta -. Poi sono tornato in Colombia, ma ad un certo punto la voglia di fare il liutaio mi ha riportato qui per completare la mia formazione presso Stefano Conia il giovane”. Il saper fare liutaio per Castañeda coincide anche con un impegno etico e allora grazie al coinvolgimento dell’amico Carlo Ferraroni “ho avuto modo di entrare in carcere e cominciare a fare corsi per intagliatore - racconta -. A inizio anno, grazie alla sensibilità e al coinvolgimento del preside Daniele Pitturelli, sono stati donati al carcere di Ca’ del Ferro alcuni strumenti per l’intaglio del legno. Grazie alla cooperativa Energheia Impresa ho potuto mettere al servizio dei detenuti la mia capacità di intagliare il legno”. Mentre parla mostra un messaggio di uno dei suoi corsisti preoccupato di non poter continuare il percorso perché ha raggiunto il massimo delle ore di laboratorio previste: “È un bel segno - racconta -. I ragazzi erano interessati, attenti e molto collaborativi. So che il lavoro manuale aiuta a trovare concentrazione, a non far girare a vuoto la mente. Abbiamo lavorato a una serie di intagli anche abbastanza complessi. Sono esperienze che mi arricchiscono ogni volta, esco dal carcere con il cuore gonfio di bellezza”. L’intaglio del legno, il lavoro di falegname artista per il liutaio colombiano è un tutt’uno con il saper fare liutario, se declinato a favore di chi vive una situazione di marginalità come i bimbi di Medellìn, o i detenuti di Cà del Ferro. Non nasconde di coltivare un sogno: “Mi auguro di riuscire a far fare ai detenuti un violino, ma i tempi non sono ancora maturi e ci vogliono tante ore e tanta passione - spiega -. Ma non demordo e non mi arrendo. A maggio dovremmo iniziare un nuovo corso e, se così sarà, porterò i ragazzi a realizzare un ukulele, uno strumento più facile da fare. Sarebbe un primo e importante risultato per arrivare prima o poi a un violino costruito interamente dai detenuti. Ma ciò che conta è l’effetto che il lavoro manuale può avere sulla concentrazione, la motivazione di chi si trova in condizioni di difficoltà. L’arte e la musica sono un antidoto, sono una medicina che cura l’anima e tiene lontani dalla violenza. Ne sono sempre più convinto”. Mantova. Un fiume di scout, focus su carcere e violenza di Alina Polonska Gazzetta di Mantova, 27 aprile 2025 La violenza di genere, le fragilità psicologiche e il reinserimento sociale dei detenuti: sono stati questi gli argomenti più gettonati tra i dieci laboratori che si sono svolti ieri, a Lunetta e in altre zone della città, per 180 ragazzi scout dai 17 ai 22 anni dell’associazione Agesci. Si tratta del “Forum Rs (Rover e Scolte, ndr) 2025”, il cui obiettivo era quello di “permettere ai ragazzi scout di tutta la provincia di confrontarsi su tematiche che, nella vita di tutti i giorni, non sempre riescono ad affrontare - spiega Filippo, incaricato alla branca di zona Rs - Tanti tendono a pensare che i giovani di oggi non abbiano idee e non sappiano cosa vogliono fare. Noi invece crediamo che loro ne abbiano tantissime, riflettano e parlino, ma nessuno li ascolti per davvero”. Con gli psicologi - Della violenza di genere se ne è parlato all’oratorio del Duomo. Gli psicologi hanno evidenziato come la violenza fisica sia spesso preceduta da un percorso di violenza psicologica che, però, non sempre viene identificata come tale. Con la garante dei detenuti - Un altro laboratorio molto richiesto è stato quello sulla vita carceraria e sul reinserimento post-pena, al quale hanno partecipato anche Graziella Bonomi, garante dei diritti dei detenuti, e Silvia Beccari, referente del laboratorio territoriale Nexus. “Non basta mettere tutti in carcere - sostiene Bonomi - servono anche strumenti diversi”. “Non si tratta di buonismo - aggiunge Beccari - Il fine ultimo di ogni pena è proprio la rieducazione del condannato”. Al centro Parcobaleno, invece, i ragazzi hanno partecipato a un laboratorio sul riciclo della plastica, mentre al Cag di Lunetta si è parlato dei processi produttivi e delle condizioni di lavoro che stanno dietro i prodotti che finiscono sul nostro tavolo. Tra le altre attività organizzate per i giovani scout: un laboratorio dedicato alle fragilità psicologiche, un incontro su come parlare in pubblico superando la paura del giudizio altrui e, infine, un laboratorio di fede. “Speriamo che queste condivisioni siano come onde - commenta Gianni, capo clan di Volta Mantovana - che si diffondano nelle menti dei ragazzi e li portino lontano”. Il Colle e quel richiamo al voto referendario di Ugo Magri La Stampa, 27 aprile 2025 Non è mai il momento di dividere l’Italia, figurarsi adesso. Per cui sarebbe stato ingenuo attendersi che Sergio Mattarella brandisse la storia come una clava per regolare i conti del presente. Difatti ieri da Genova il presidente ha guardato avanti, a un futuro di valori condivisi, insistendo su ciò che la Liberazione ha reso possibile: libertà, democrazia, Unione europea, concetti su cui (a parole almeno) sono tutti d’accordo, destra compresa. Il 25 aprile è stato festeggiato da Mattarella nel segno dell’unità, senza polemiche politiche e nemmeno un riferimento alla “sobrietà” pretesa dal governo. Ma il suo discorso, se ascoltato con attenzione, è tutto tranne una celebrazione. Mette alcuni punti fermi su ciò che rappresentò davvero la lotta partigiana. Ad esempio smentisce quanti, per disprezzo nei confronti dei resistenti, vanno sostenendo che il loro apporto fu secondario. Non andò così, chiarisce Mattarella: il rifiuto di sottomettersi costrinse i tedeschi a presidiare i territori diventati ostili, distogliendo truppe dal fronte. La resistenza ebbe una parte decisiva nell’avanzata degli Alleati. I tedeschi a Genova capitolarono nelle mani dei partigiani. Dei patrioti antifascisti, altra precisazione, fecero parte donne e uomini di ogni tendenza: comunisti, senza dubbio, ma non solo. Contribuirono tantissimi cattolici, socialisti, liberali, azionisti. Accanto ai monarchici Mattarella cita, certo non per caso, l’apporto dei repubblicani mazziniani. E per segnalare quanto vasto fu il fronte anti-nazista ricorda perfino il sacrificio in Liguria del partigiano russo Fiodor Andrianovic Poletaev (così forse a Mosca si daranno pace). Soprattutto Mattarella contesta, con molta energia, che dopo 80 anni la Liberazione sia acqua passata e la democrazia un dato acquisito. Lancia l’allarme sulla partecipazione al voto che, elezione dopo elezione, sta crollando sotto i livelli di guardia. “Non possiamo arrenderci all’assenteismo”, avverte il capo dello Stato. Il suo appello è di attualità anche in vista dei referendum abrogativi che si terranno l’8 e 9 giugno, con il quorum ad altissimo rischio. La Resistenza, di cui “è sempre tempo”, si prosegue esercitando il proprio dovere di cittadini. E rinunciando, se occorre, a una giornata in spiaggia. Quando il gioco d’azzardo diventa una malattia di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 27 aprile 2025 In Italia il volume d’affari complessivo del gioco d’azzardo ha superato i 160 miliardi di euro all’anno: più di quanto spendiamo per il Servizio Sanitario Nazionale, più della spesa alimentare complessiva. Venerdì abbiamo giustamente festeggiato ottant’anni dalla Liberazione, con la maiuscola. Ma ci sono anche alcune liberazioni minori di cui dovremmo occuparci, ogni tanto. Ne cito una: le scommesse online. Una volta, per rovinarsi la vita, un giocatore doveva andare fino al casinò, o invitare gli amici per un poker senza limiti di rilancio. Oggi quel giocatore può fare tutto dal salotto di casa. Senza fretta, da solo, convinto di divertirsi un mondo. Ha fatto bene “Internazionale” a dedicare una copertina alla ““febbre delle scommesse”; anche su “7-Corriere” l’avevamo fatto, anni fa. Nel 2017 il problema erano slot, gratta-e-vinci, lotterie. Oggi è tutto aperto, facile, esibito, festoso. Non si riesce a guardare una partita di calcio senza essere mitragliati dalla pubblicità di scommesse online. Vengono reclutati ex calciatori, attori popolari, ragazze sorridenti: figure rassicuranti, per rendere la trappola più accogliente. In Italia, il volume d’affari complessivo del gioco d’azzardo ha superato i 160 miliardi di euro all’anno: più di quanto spendiamo per il Servizio Sanitario Nazionale, più della spesa alimentare complessiva. Nel resto dell’Unione Europea non va meglio: le iniziative giudiziarie per limitare l’impatto sociale delle scommesse si scontrano con una legge di Malta (Bill 55). E dove hanno sede molte società di betting? A Malta, ovviamente. Come andrà a finire? Be’, il governo non farà nulla, se non qualche blanda campagna televisiva. Perché non può o perché non vuole? Le entrate dal gioco online, infatti, arrivano allo Stato; le conseguenze della ludopatia pesano sulle famiglie. Non parliamo solo di soldi buttati. L’emozione della scommessa è tossica perché insegna l’impazienza e ci rende incapaci di controllare gli impulsi. La politica, con queste cose, ci va a nozze. Costrette a subire le martellanti campagne televisive delle scommesse online, molte famiglie con bambini e ragazzi decideranno di limitare i consumi sportivi. Dovesse accadere - e accadrà - i canali televisivi proporranno abbonamenti senza annunci pubblicitari, a prezzo maggiorato (già accade su alcune piattaforme d’intrattenimento). A quel punto si capirà chi comanda. Risposta: i soldi, come al solito. Viaggio nel mondo cupo degli Incel: “Non avremo mai una ragazza ed è tutta colpa loro” di Antonio Mancinelli La Stampa, 27 aprile 2025 Chiamatemi Unhappy Monster. Un “mostro infelice”. O almeno, è stato questo il mio soprannome, quando anni fa, per un’inchiesta, ho trascorso tre settimane sul Forum dei brutti, la più grande comunità di incel italiana. Il termine significa letteralmente “celibe involontario” (dall’inglese involuntary celibate): si riferisce a uomini eterosessuali che dichiarano di non riuscire ad avere relazioni sentimentali o sessuali, non per scelta, ma perché esclusi, a causa delle donne che li rifiutano, da ciò che chiamano “il mercato affettivo”. Volevo conoscere il loro linguaggio, la logica che reggeva il loro mondo. In quel tempo non c’era ancora una serie come Adolescence. Quattro anni dopo, quando l’ho vista, mi è sembrata una lente perfetta su ciò che ho vissuto. Ma il Forum, io l’avevo attraversato prima, quando non se ne parlava e le voci erano più libere. La serie racconta di un ragazzo che uccide una compagna di scuola rea di prenderlo in giro per l’aspetto. Nel Forum, i pensieri che ho letto erano gli stessi. Solo che erano veri. E mentre leggevo, non potevo ignorare quello che già allora era sotto gli occhi di tutti: la carneficina. Nel 2024, le donne uccise in Italia sono state 113. Di queste, 61 per mano del compagno, del marito, o dell’ex. Tutti che dicevano di amarle. All’iscrizione, ho detto che ero solo, respinto e le donne non mi guardavano mai: nessuno ha mai chiesto prove, nessuno si è stupito. Ogni post era un manifesto di frustrazione e rancore. Nel gergo incel c’è spazio anche per riferimenti pop: Redpill e Bluepill tratte dal film Matrix, per esempio. Prendere la pillola rossa significa “svegliarsi”, capire la verità cruda che secondo loro regge il mondo: tutto ruota intorno all’estetica e al potere. Chi non lo capisce è ancora addormentato nella menzogna - blupillato, lo definiscono con disprezzo. Ma per molti di loro nemmeno la Redpill basta: si spingono oltre, giù nel baratro della Blackpill, la pillola nera del fatalismo assoluto, la resa definitiva. Ovvero la teoria che il destino di un uomo è segnato dal volto e dallo scheletro, dal conto in banca o dalla mascella volitiva (la mandibola prominente è un tormento degli incel che, in alcuni casi, arrivano a prendersi a martellate per farsela ricostruire più scultorea, secondo le regole del looksmaxxing). Chi è blackpillato ha perso ogni speranza: sa - o crede di sapere - che non troverà mai l’amore, che non farà mai sesso se non pagando prostitute. Un nichilismo vischioso trasudava da ogni riga. Scambio dopo scambio, la misantropia cresceva. Bersaglio le donne: colpevoli di scegliere, di desiderare altri e non “loro”, in definitiva di non amarli. Accusate di avere tutto il potere in questo gioco crudele del mercato sessuale, pretendendo solo maschi attrattivi per aspetto o status: i Normies, o peggio i Chad, belli, ricchi e vincenti, i come nemici traditori. In fondo alla catena alimentare delle relazioni, noi, gli incel: i non desiderati. Gli scarti del mercato sessuale. La concezione era chiara: l’80% delle donne desidera il 20% degli uomini. Chi sta fuori da quel 20% o era condannato alla solitudine. Non solo una questione estetica, secondo loro. Ma genetica, biologica, ineluttabile. Scorrevo le conversazioni, pagine e pagine di un rosario malato. Un utente spicca tra gli altri, per la ferocia dei toni e l’intransigenza delle idee. Si faceva chiamare CuoreNero. Ogni suo messaggio trasudava livore: “Le donne di oggi? Feccia ipergamica. “Vorrei vederle soffrire come noi soffriamo”. Un giorno mi ha scritto in privato. All’inizio era stato diffidente. Poi aveva cominciato a raccontarmi di sé: del liceo, degli anni passati a fissare da lontano ragazze che non l’avevano mai visto. Dell’università, dove - diceva - era stato solo un’ombra. Gli ho risposto se davvero credesse che tutto si riducesse a misure, voti estetici, gerarchie. Ha scritto: “Quando vivi abbastanza tempo da invisibile, smetti di credere alle favole”. Una notte ha chiesto: “Secondo te, come sono?” Non ho saputo cosa rispondere, se non “Non importa”. Ha insistito. “Ti mando una foto. Così capisci”. È arrivata. Ho cliccato. Per un istante avevo trattenuto il fiato, aspettandomi chissà cosa. Mostri. Deformità. Quelle che loro stessi raccontavano. Aveva un volto che avrei potuto incrociare per strada senza notarlo. Un ragazzo normale dall’espressione triste, sì. Ma niente che giustificasse l’inferno in cui viveva. Quella notte ho capito che il vero abisso non era il loro aspetto. Ma lo sguardo con cui si vedevano e quello con cui guardavano il mondo. Da allora, ogni volta che sento un nome in un titolo di cronaca, ogni volta che leggo “uccisa da…” mi chiedo se, da qualche parte, ci fosse lui. Un CuoreNero. Un viso normale. Un mostro infelice. Ieri lavoratori, oggi spacciatori: gli effetti dei divieti della destra sulla canapa di Lorenzo Stasi Il Domani, 27 aprile 2025 Con il decreto Sicurezza il governo ha scelto di proibire un settore che era fiore all’occhiello del Made in Italy. Le voci dei negozianti: “Se l’85 per cento del mio fatturato diventa illegale non posso permettermi l’affitto”. Fino a ieri imprenditori, ora tecnicamente spacciatori. Il governo, con l’approvazione del decreto Sicurezza, ha scelto di rendere illegale un settore - quello della canapa - che era un fiore all’occhiello dell’imprenditorialità italiana. “Caos” e “paura” sono i termini che più ricorrono nei racconti di produttori, distributori e “semplici” negozianti. Tra i 14 nuovi reati e le tante aggravanti di pena previste dal pacchetto securitario approvato lo scorso 4 aprile e in vigore dal 12, all’articolo 18 si vieta espressamente “la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. Poco importa che evidenze scientifiche, recepite da importanti pronunce giurisprudenziali, abbiano dimostrato come al di sotto di una certa soglia di Thc la cannabis non possa essere considerata sostanza drogante. Perché il governo ha equiparato la cannabis light alle altre sostanze stupefacenti, vietandone quindi qualsiasi uso dell’infiorescenza. In qualsiasi forma. “Sono diventata una spacciatrice” - Ma che ne sarà delle migliaia di attività nate negli ultimi anni? Chi fino a ieri vendeva infiorescenze a base di Cbd e con basse percentuali di Thc (i due principi attivi della cannabis, solo il Thc ha effetti psicotropi), oggi va incontro a multe, sequestri e denunce. “All’improvviso sono diventata una spacciatrice”, denuncia Annalisa Parini, proprietaria del negozio Buenavita di Milano. “Mi sto trasferendo perché non sono più in grado di sostenere i costi che avevo prima e vorrei sopravvivere. Se l’85 per cento del mio fatturato di colpo diventa illegale”, prosegue, “non posso permettermi l’affitto e le altre spese che avevo fino a ieri”, a maggior ragione in una città, come il capoluogo lombardo, che ha prezzi alle stelle. “Per ora mi sto spostando in un posto più piccolo e periferico. Ho licenziato la dipendente che avevo perché non sarei più in grado di pagarla. Ci sono poi tutte le altre problematiche connesse: per esempio, ho dovuto già cercare un avvocato penalista perché probabilmente ne avrò bisogno. Non sappiamo cosa fare ma, in attesa degli esiti dei nostri ricorsi, economicamente non sopravvivremo”. A casa oltre 20mila lavoratori - I numeri aiutano a spiegare l’impatto che questo divieto avrà sulle oltre 3mila aziende che operano nel settore della canapa, ma anche sulle casse dello stato. Secondo un report realizzato da Mpg consulting per conto di Canapa Sativa Italia, la domanda del nostro paese “ha un valore stimato di quasi un miliardo di euro e contribuisce alla creazione di almeno 12.500 posti di lavoro direttamente collegati alla filiera”, oltre ai “10 mila” occupati “a tempo pieno dell’indotto”. Che significa mandare a casa oltre 20mila lavoratori, che arrivano a 30mila se si considerano anche gli stagionali. Non solo. “L’impatto complessivo sull’economia nazionale ammonta ad almeno 1,94 miliardi di euro”, con la generazione di “un gettito fiscale di almeno 364 milioni”. “I negozi di canapa industriale rappresentano la parte finale di una filiera legale, riconosciuta e regolamentata a livello europeo. Con il nuovo divieto”, sottolinea Raffaele Desiante, presidente di Imprenditori Canapa Italia, “lo stato ha trasformato in fuorilegge centinaia di piccoli imprenditori che pagano le tasse e rispettano ogni normativa. Stanno chiudendo attività nate con sacrificio, mentre altri resistono rischiando sequestri e denunce”. Per un governo che vorrebbe puntare tutto sul made in Italy, il paradosso è che si mandi al macero un settore che fa dell’Italia “il canapaio d’Europa”, considerato che il 98 per cento della canapa viene esportata all’estero. Oltre ai negozi al dettaglio vengono coinvolte tutte quelle aziende che lavorano con le sostanze attive cannabinoidi non stupefacenti e che estraggono dalle infiorescenze di canapa questi princìpi attivi per usarli, oltre che per uso ricreativo e nel campo medico, anche in quello della cosmesi, degli integratori, dell’erboristeria. Ci sono poi alcune questioni legali che complicano il quadro, a partire da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dello scorso ottobre che ha stabilito che gli stati membri, in linea teorica, non possono introdurre norme che vietino coltivazione e vendita delle infiorescenze e delle altre parti della pianta di canapa a uso industriale. Per questo Desiante, ma anche diversi giuristi, sostiene che l’articolo 18 del decreto Sicurezza sia “inapplicabile perché si scontra con il diritto europeo”, oltre a generare “confusione tra cittadini, operatori e forze dell’ordine. È urgente”, continua, “aprire un confronto serio con le istituzioni e ristabilire un quadro normativo coerente e giuridicamente sostenibile”. Ma il centrodestra non ne vuole sapere: mercoledì scorso, in commissione Agricoltura alla Camera, dove si sta analizzando il testo per la conversione in legge, ha espresso parere favorevole alla disposizione e ha chiuso così a ogni possibilità di modifica. “Siamo destinati a fallire” - Ma al di là delle questioni legali e dei tanti ricorsi che fioccheranno ci sono le difficoltà quotidiane di chi vive degli introiti di questo settore. “Per ora le infiorescenze non le sto vendendo, rischierei grosso”, spiega Abrian Braz, titolare del negozio Mary Jane di Jesolo. “L’80 per cento del mio fatturato proveniva da infiorescenze e derivati. Se non posso più venderle chiudo l’attività perché non basterebbero i prodotti alimentari, le creme, i cosmetici e gli accessori. In questo momento, come altri negozianti, tiro fuori i soldi per coprire le spese. Ma siamo destinati a fallire”. Oltre al fatturato, anche per Braz l’impatto è sull’occupazione: “L’anno scorso avevo due dipendenti. Ora, dopo il decreto, li ho dovuti lasciare a casa”. Dal Veneto alla Liguria, la situazione è la stessa: “Il giorno dopo l’entrata in vigore del decreto ho chiuso il negozio anche perché non abbiamo avuto nessuna indicazione, per esempio, sullo smaltimento, detenzione o denuncia dei prodotti. Ho chiamato il nucleo di tutela agroalimentare dei carabinieri, ma neanche loro hanno indicazioni. Abbiamo paura anche perché i negozi essendo per strada, sono i più esposti ai controlli”, racconta Yuri Aimo che, oltre a essere titolare di un’attività a Genova ed essere stato assolto dopo quattro anni dall’accusa di vendere illegalmente farmaci mentre in realtà erano semplici oli, ha anche un’azienda agricola con 33 dipendenti. “Con loro non abbiamo idea di come muoverci. La nostra consulente del lavoro in 30 anni non ha mai visto un’azienda diventare illegale in 12 ore. Tutta la parte agricola”, spiega Aimo, “non ha ammortizzatori sociali, la Naspi ce l’avrebbero a partire dal dal 2026 perché in questo settore parte l’anno successivo. Abbiamo i dipendenti che si rifiutano di venire a lavorare perché potrebbero essere accusati di favoreggiamento allo spaccio. Non possiamo licenziarli, e non sarebbe neanche corretto, e ora sono in ferie forzate. Non sappiamo cosa fare, abbiamo un magazzino pieno di merce che andrà stoccata ma non c’è nessun protocollo da seguire. Siamo nel caos più totale”. Centri per migranti in Albania, una sentenza aiuta il Governo di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 aprile 2025 La decisione della Cassazione su chi chiede asilo nei Cpr. Intanto a Gjader sono rimaste 30 persone: aumentano atti di autolesionismo e proteste. C’è una sentenza della Cassazione che potrebbe aiutare il governo a sbrogliare alcuni dei problemi incontrati nella seconda fase del protocollo Albania. Quella dedicata ai migranti “irregolari” trasferiti dall’Italia al Cpr di Gjader. La decisione degli ermellini, sezione penale, è di martedì scorso e afferma che se un cittadino straniero chiede asilo mentre si trova in detenzione amministrativa il questore non è obbligato a disporre un nuovo trattenimento entro 48 ore. Finora era questa la prassi adottata nella maggior parte dei casi, con alcune eccezioni nei Cpr lontani dall’attenzione pubblica. Con la domanda di protezione internazionale, infatti, cambia lo status giuridico del migrante e anche il magistrato competente: non più il giudice di pace, ma la Corte di appello. Quest’ultima veniva dunque chiamata a convalidare o meno la misura di privazione della libertà personale, che per i richiedenti asilo risponde a criteri diversi rispetto ai migranti privi di documenti. Secondo questa sentenza, senza il provvedimento dell’autorità amministrativa la Corte d’appello può ritenersi non competente. L’unico termine perentorio per un nuovo intervento del giudice diventa così la scadenza della precedente convalida al trattenimento decisa dal giudice di pace (vale 30 giorni all’ingresso e poi 60 per le successive proroghe). Un orientamento diverso da quello stabilito a dicembre 2024 sempre dalla Cassazione ma in sede civile. Questa decisione è importante per i centri in Albania perché nei giorni scorsi era emerso un errore di sistema: chiedendo asilo da dietro le sbarre di Gjader si creava una situazione giuridica non prevista dal protocollo con Tirana, che consente la permanenza nelle strutture d’oltre Adriatico solo per le “procedure di frontiera o rimpatrio”. In pochi giorni tre casi sono finiti davanti alla Corte d’appello di Roma, che ha detto no alla detenzione. Il primo, un cittadino del Marocco, al rientro in Italia è stato chiuso nel Cpr di Bari ma anche qui ha vinto l’udienza davanti alla locale Corte d’appello ed è tornato libero. Adesso è possibile che le autorità di polizia non trasmettano le nuove richieste di convalida entro due giorni dalla richiesta di asilo. Certo, i difensori dei migranti potranno sempre fare domanda di riesame della misura detentiva. A quel punto, però, bisognerà capire se questa finirà davanti al giudice di pace, l’unico che finora ha convalidato la reclusione in Albania, o alla Corte d’appello. Intanto oltre Adriatico le cose peggiorano ogni giorno. Al momento nel Cpr ci sono 30 persone. In totale ne erano state portate 41: una è stata rimpatriata in Bangladesh, ma passando dall’Italia; tutte le altre, in pratica una su quattro in appena quindici giorni, sono state rimandate indietro per motivi giuridici o sanitari. Nel centro si stanno moltiplicando proteste, risse, atti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Ogni tanto i familiari dei reclusi riescono a sapere qualcosa in più: i racconti descrivono situazioni analoghe a quelle che si ripetono nei Cpr attivi sul territorio nazionale, tra violenze e abuso di psicofarmaci. Con l’aggravante che in questo caso tutto avviene in un altro paese, con un diverso sistema sanitario, più lontano dalle famiglie. Quando il Papa fa tacere le armi: la sfida del prossimo conclave di Tommaso Sonno L’Espresso, 27 aprile 2025 La scelta del nuovo Pontefice, oggi più che mai, assegna ai cardinali una responsabilità che va ben oltre la sfera spirituale: decidere chi guiderà una delle poche voci globali capaci di influenzare davvero la pace e gli equilibri geopolitici mondiali. Non ha un esercito, non firma trattati di pace, non dispone di sanzioni né droni. Eppure, quando il Papa parla, in certe parti del mondo si smette di sparare. È quanto emerge dallo studio “Dear Brothers and Sisters: Pope’s Speeches and the Dynamics of Conflict in Africa”, pubblicato come Centre for Economic Policy Research Discussion Paper da Mathieu Couttenier (ENS de Lyon), Sophie Hatte (ENS de Lyon), Lucile Laugerette (ENS de Lyon), e Tommaso Sonno (Università di Bologna): i discorsi pronunciati dai Papi dalla Basilica di San Pietro, quando menzionano esplicitamente un Paese africano in relazione alla pace, sono seguiti da una riduzione della probabilità di conflitti pari al 23% nelle settimane successive. Ma dietro questa media si nasconde una realtà più complessa: l’impatto varia radicalmente a seconda del Pontefice che pronuncia il discorso. Giovanni Paolo II, quando interveniva, determinava una riduzione della probabilità di conflitti vicina al 90%. Durante il suo pontificato, Papa Francesco, pur con effetti mediamente più contenuti (attorno al 21%), si distingueva per la capacità di influenzare un numero più ampio di tipologie di violenza, comprese quelle a bassa intensità, spesso invisibili agli occhi dei media internazionali. Diverso il caso di Benedetto XVI. Con la sua natura più dottrinale ed ortodossa, non mostra in media effetti pacificatori. In alcuni contesti, al contrario, i suoi discorsi coincidono con un aumento della conflittualità, specie nei teatri interreligiosi più delicati. Emblematico in questo senso il discorso di Ratisbona del 2006, in cui Benedetto XVI citò un imperatore bizantino che criticava l’Islam, provocando reazioni accese e proteste in molte parti del mondo musulmano. L’osservazione scientifica che evidenzia una concreta diminuzione dei conflitti dopo certi discorsi papali smentisce le critiche interne che riducono l’azione del Papa a mera retorica simbolica e conferma che la scelta del nuovo Pontefice, oggi più che mai, assegna al conclave una responsabilità che va ben oltre la sfera spirituale: decidere chi guiderà una delle poche voci globali capaci di influenzare davvero la pace e gli equilibri geopolitici mondiali. L’evidenza emersa - fondata su più di venti anni di dati, migliaia di eventi violenti geolocalizzati e incrociati con le parole dei Papi - impone una riflessione che va oltre i confini della teologia. I dati comprendono tutti i discorsi pubblici dei Papi, raccolti dagli archivi ufficiali del Vaticano e filtrati per contenuti legati alla pace e all’Africa. Gli eventi violenti sono mappati su base settimanale e organizzati a livello di celle di 55 km quadrati che coprono tutto il continente africano. A questi si affiancano dati originali sulla presenza capillare delle chiese cattoliche nel continente, informazioni sui vescovi e sulla leadership politica locale, nonché un’analisi sistematica della diffusione mediatica dei messaggi papali, monitorando quotidiani locali e le pagine Facebook delle diocesi. In particolare, osserviamo che nei 1-3 giorni successivi a ciascun discorso papale, le notizie vengono riprese con alta frequenza dai media locali, in lingua locale, attraverso giornali e social media ecclesiastici. È a seguito di questa eco mediatica che si registra la riduzione dei conflitti. Per testare la specificità di questo effetto, abbiamo replicato lo stesso approccio su un altro attore globale: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche in questo caso, le dichiarazioni ufficiali che menzionano un paese africano vengono rapidamente riprese dai media locali. Tuttavia, a differenza di quanto osservato per i discorsi papali, non si rileva alcuna riduzione significativa della violenza armata nelle settimane successive. È un contrasto che suggerisce come non sia solo il contenuto, ma anche la fonte del messaggio - e la sua percezione - a fare la differenza. Un ulteriore tassello arriva proprio dalle percezioni soggettive: nei giorni successivi ai discorsi del Papa, le persone intervistate nei sondaggi di opinione dichiarano un aumento della rilevanza della religione nella loro vita quotidiana e una maggiore fiducia nei leader religiosi. Questi cambiamenti nei sentimenti e nelle attitudini aiutano a spiegare perché l’effetto dei messaggi papali non si esaurisca nella comunicazione, ma si traduca in comportamenti collettivi capaci di ridurre le violenze a livello locale. In un contesto globale caratterizzato da un’instabilità geopolitica come non si è mai vista negli ultimi decenni, questi risultati sottolineano la particolare importanza delle prossime settimane. Il prossimo conclave non sarà soltanto un passaggio spirituale. Sarà anche una decisione geopolitica. Letti oggi, questi dati illuminano una responsabilità storica che ricade sui cardinali chiamati a eleggere il prossimo Papa. Non è solo una questione di spiritualità, di equilibri interni alla Chiesa, o di modernità rispetto ad una società che evolve. È anche, inequivocabilmente, una questione di pace. Il Papa è, nei fatti, un attore globale. E lo è in modo anomalo, perché il suo potere è tutto simbolico e linguistico. Ma proprio per questo è efficace: nessuna diplomazia può competere con l’universalità della sua parola. Il messaggio è semplice: scegliere il Papa significa scegliere chi guiderà una delle ultime istituzioni planetarie rimaste. E se è vero che un discorso può spegnere un conflitto, allora è lecito domandarsi: il prossimo Papa saprà parlare la lingua giusta? Non è solo il pastore di un miliardo di fedeli. È una voce che può far tacere le armi. E oggi, il mondo lo sa. Speriamo che anche il prossimo conclave lo tenga a mente. *Tommaso Sonno, Professore Associato, Università di Bologna Nel realismo di Francesco la strada per una vera pace di Massimo Cacciari La Stampa, 27 aprile 2025 Viene a mancare la sola voce che invitava a ragionare di politica. Il suo approccio puntava alla salvaguardia del destino della cristianità. Vi è una storia provvidenziale ed eterna che guida il corso delle nazioni? Chissà quante volte papa Bergoglio si sarà posto il problema. Per un uomo di fede impossibile non credere che essa si riveli nel nostro stesso agire, malgrado nel suo accadere storico rimanga inafferrabile. Anche il non credente, tuttavia, quando si sforza di interpretare tale accadere, è costretto a ricorrere non solo a nessi causali, ma anche a una qualche idea di finalità. Dobbiamo scientificamente ammettere che la Natura non abbia alcuno scopo, ma come “sopportare” che ciò valga anche per la nostra storia? Alcune grandi configurazioni geopolitiche coinvolgenti intere civiltà segnano questa storia e la loro evoluzione può forse indicare quale destinazione abbia il nostro presente. Ma in modo del tutto indeterminato. La politica è il regno di Epimeteo, solo il passato è, e sempre approssimativamente, chiaro al nostro sguardo. A questo sguardo dovrebbe apparire evidente la rivoluzione che il mondo ha conosciuto nell’ultimo secolo, il punto cui è giunta e quali possibili eventi ci si possa realisticamente attendere. Il primato dell’Occidente europeo crolla a cavallo della prima Grande Guerra, dopo che le sue formidabili ondate hanno sommerso l’intero globo (la popolazione di origine europea era un terzo di quella mondiale all’inizio del ‘900). Ma non fu il tramonto dell’Occidente, bensì l’affermazione di quello americano. Questa translatio imperi appare già inarrestabile ben prima del suicidio europeo del ‘14-’18: nel 1871 il Pil americano supera per la prima volta quello britannico, e da quel momento esso mantiene il primato. Una resilienza davvero imperiale! È primato economico, militare, tecnologico e certamente anche culturale-scientifico. Oggi la quota del Pil americano-britannico sul totale mondiale è ancora ampiamente superiore al 30%, analoga a quella di 30 anni fa, mentre per i Paesi dell’Unione europea è scesa dal 26% al 18% (inutile ricordare che all’inizio del ‘900 superava il 50%). L’Occidente è zoppo d’Europa, della sua unità politica, della missione che essa si era data dopo due Guerre mondiali scatenate dal suo interno, quella di essere fattore di pace, di reciproco riconoscimento tra i grandi spazi politici, di un nuovo diritto internazionale. La crisi dell’Occidente è il tramonto che pare inarrestabile di ogni ragione d’essere d’Europa, che non si riduca a logiche di mercato. Questa drammatica situazione era chiara allo sguardo di papa Bergoglio: la fine della centralità europea è qui vissuta dal punto di vista della cristianità, che fino al Novecento costituiva la trama fondamentale della “famiglia” europea, resistendo ai tremendi assalti del suo perenne bellum civile. Papa Bergoglio tenta il contraccolpo: i destini della cristianità vanno “salvati” dal tramonto d’Europa. Ma può darsi un Orbis, un Globo, senza Capitale, senza Urbs? Anche il sismografo più potente oggi non lo potrebbe predire. Intanto viene certamente a mancare la sola voce che nell’attuale frastuono invitava a ragionare di politica. La voce del realismo proprio della grande tradizione ignaziana. L’uomo fa la storia, ma quasi mai comprende quale storia sia. Si muove spesso da infante tra fraintendimenti, equivoci, cieche speranze, vane attese, astuzie e inganni dal fiato cortissimo, valutazioni erronee dell’avversario e delle proprie stesse forze. Nulla è forse più irragionevole di pensare che il suo agire possa seguire una linea di ragionevolezza. E tuttavia rimane necessario compiere ogni sforzo per convincerlo a essa, fidando sul suo stesso egoismo: il rischio di distruggere sé stessi quando si opera senza valutare responsabilmente la situazione è immenso. E l’Europa ne ha fatto fino in fondo l’esperienza. Eppure sembra non bastarle ancora. A papa Bergoglio, venuto da finis Terrae, ciò sembrava uno scandalo inconcepibile. Come è possibile una politica dell’Occidente che non riconosce la valenza rivoluzionaria dell’affermarsi di nuove potenze economiche, militari, tecniche e scientifiche e non si muove perciò lungo la rotta di un riassetto multipolare, policentrico degli equilibri internazionali? Come è possibile, in questo quadro, ritenere che il destino della Russia fosse segnato per sempre dall’opera puramente disgregatrice di figure alla Eltsin? La Chiesa cattolica sa bene, lo sapeva benissimo quel papa che ha contribuito in misura forse decisiva al crollo dei regimi comunisti, Karol Wojtila, che la Russia è una grandezza irriducibile alla misura dei suoi Zar, dei suoi Stalin, figurarsi dei suoi Eltsin o oggi dei suoi Putin. Una grandezza tragica, che come tale va considerata e trattata. E tuttavia, nel momento stesso in cui la Chiesa, ripeto già con Wojtila, richiama l’Occidente a non illudersi che la Russia possa rassegnarsi alla perdita assoluta del proprio ruolo di grande potenza, con altrettanto realismo essa si rivolge al Cremlino: la sua sconfitta nella guerra fredda è irrevocabile, la sua rinuncia a ogni velleità di poter interferire con le decisioni dei governi degli Stati dell’Est ex patto di Varsavia deve essere affermata incondizionatamente. Non sono i loro governi, ma i loro popoli a volere entrare, dopo decenni di dittatura straniera, in tutti gli organismi dell’alleanza occidentale. È solo a partire dal riconoscimento di questa realtà che sarà poi possibile discutere delle forme dell’allargamento della Nato, dell’Unione e dei rapporti da stabilire con la Federazione russa. Solo su questa base sarà possibile giungere a un vero trattato di pace. Altrimenti saranno armistizi nella continuità della guerra civile, fino a quando questa, nell’impossibilità di essere vinta dalla sola Ucraina per quanto armata, non coinvolgerà direttamente tutta l’Europa, e così per la terza volta l’Europa non coinvolgerà l’intero Globo nella catastrofe. La terza guerra mondiale sta ricomponendo i suoi pezzi e i leader di questo mondo somigliano sempre più ai ciechi di Brueghel l’uno all’altro appoggiati in marcia verso il fosso. Che siano sordi alla voce della misericordia, pazienza, si provino almeno ad ascoltare quella del realismo che papa Bergoglio ha anche rappresentato, secondo lo spirito della grande forma politica che la Chiesa cattolica è pure stata in tutta la sua storia. Stati Uniti. Per la Casa bianca l’Afghanistan è un “Paese sicuro”: a casa i rifugiati di Nadia Addezio Il Manifesto, 27 aprile 2025 Non sussistono più le condizioni, stop ai Tps concessi dopo la disfatta Usa a Kabul. Status di protezione in scadenza per 11 mila rifugiati afghani. Rimpatri di massa anche da Pakistan e Iran. A partire dal 20 maggio, gli oltre 11mila afghani che hanno ricevuto lo status di protezione temporanea (Tps) rischiano di essere espulsi dagli Stati uniti. Lo ha stabilito il 21 marzo la segretaria alla Sicurezza interna Kristi Noem che considera l’Afghanistan un paese dove non sussistono più i requisiti per il riconoscimento del Tps. Con il ritiro delle truppe statunitensi e della coalizione Nato dall’Afghanistan e il ritorno al potere dei talebani nell’estate del 2021, il Dipartimento della sicurezza interna (Dhs) aveva concesso nella primavera del 2022 lo status di protezione temporanea per l’Afghanistan. Le condizioni umanitarie ed economiche nel paese avevano, infatti, convinto l’allora amministrazione Biden a concedere il Tps ai cittadini afghani. Valido per 18 mesi e successivamente esteso al 20 settembre 2023, lo status era stato rinnovato per il periodo dal 21 novembre 2023 al 20 maggio 2025. Poi, la battuta d’arresto. “Lasciare scadere il TPS per gli afghani avrà un impatto negativo su migliaia di beneficiari, sulle comunità che li hanno accolti e sulle aziende americane che li hanno assunti”, ha dichiarato Jennie Murray, Presidente e Ceo del National Immigration Forum, in un comunicato stampa del gruppo no-profit. Murray ha aggiunto: “Esortiamo l’amministrazione a riconsiderare la decisione di porre fine al Tps per l’Afghanistan, compresi gli alleati afghani che hanno combattuto a fianco dei nostri militari”. All’indomani dell’evacuazione da Kabul dell’agosto 2021, a molti afghani era stata accordata nell’ambito dell’Operazione Allies Welcome la “libertà umanitaria vigilata” (humanitarian parole), un permesso temporaneo di ingresso e permanenza negli Stati uniti concesso per motivi umanitari urgenti. Altri avevano ottenuto il diritto al “visto speciale per immigrati” (Siv), riservato a coloro che avevano prestato assistenza al governo o all’esercito statunitense. Altri ancora avevano avuto accesso al programma Usrap (U.S. Refugee Admissions Program), destinato ai rifugiati. Nell’attesa che le domande per i vari lasciapassare fossero recepite e approvate, alcuni afghani avevano nel frattempo fatto richiesta per il Tps in modo da garantirsi una protezione temporanea. Secondo Global Refuge, a settembre 2024 si contavano circa 9.630 afghani beneficiari dello status, mentre all’inizio di quest’anno erano tra gli 11mila e i 13mila. Ora, la decisione dell’amministrazione Trump esporrà gli afghani al rischio di espulsione, alla perdita dell’impiego garantito dal Tps, nonché alla privazione dello status legale, rendendoli di fatto “irregolari” o “senza documenti”. Anche la separazione familiare rientra tra le possibili conseguenze, laddove gli altri membri della famiglia potrebbero avere status migratori diversi. La situazione negli Usa si somma alle espulsioni di massa che stanno attuando il Pakistan e l’Iran proprio nei confronti degli afghani: Islamabad avrebbe deportato 979.486 persone dal lancio del “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali” alla fine del 2023. Con la scadenza fissata al 31 marzo e prorogata al 30 aprile della Afghan Citizen Card (Acc) - documento che assicura dal 2017 uno status legale temporaneo agli afghani -, dall’inizio del mese corrente sarebbero state espulse tra 60mila e 80mila persone, secondo l’Oim e l’Unhcr. Anche Teheran ha approvato a fine 2024 un piano di deportazione per il rimpatrio di 2 milioni di rifugiati afghani. E tra marzo dell’anno scorso e marzo 2025 sono state deportate più di 1,12 milioni di persone, riporta il portavoce del Comando delle forze dell’ordine del paese, Saeed Montazer al-Mahdi. Intanto in Afghanistan la crisi umanitaria multilivello resta profonda. Le violazioni dei diritti umani continuano senza sosta e i rimpatri forzati rischiano di aggravare ulteriormente uno scenario già fortemente critico. Iran. Nove anni fa l’arresto di Ahmadreza Djalali, inutili gli appelli alla scarcerazione di Emanuele Azzità Corriere di Torino, 27 aprile 2025 Per il dottor Ahmadreza Djalali l’esecuzione potrebbe essere imminente. Era il 25 aprile 2016. Il ricercatore medico iraniano residente in Svezia, Ahmadreza Djalali, veniva arrestato senza un mandato al suo arrivo all’aeroporto di Teheran. Djalali è uno scienziato di medicina delle catastrofi, studia per migliorare la capacità operativa degli ospedali in paesi colpiti da disastri, terrorismo e conflitti armati. Dal 1997 al 2007 aveva lavorato nel suo Paese nella gestione delle catastrofi naturali, ma poi era venuto in Europa per perfezionarsi in Svezia, in Belgio e in Italia. Borsista al Centro di Ricerca in Medicina d’emergenza e dei Disastri (Crimedim) dell’università del Piemonte Orientale, dal 2012 al 2016 ha risieduto a Novara. Nove anni fa era tornato al suo Paese su invito per delle conferenze alle Università di Teheran e Shiraz. Aveva accettato di buon grado anche per poter rivedere i suoi familiari, invece era una trappola. Da circa 3.300 giorni è internato nel famigerato carcere di Evin (dove a dicembre c’è stata anche Cecilia Sala) con l’accusa di essere una spia di Israele. Processato dal Tribunale Rivoluzionario di Teheran senza prove reali, senza la presenza di un avvocato di difesa, il 21 ottobre 2017 è stato condannato a morte per impiccagione. Circa un mese dopo il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria (un organismo dell’Onu per il rispetto dei Diritti Umani) ha fatto richiesta formale al governo della Repubblica Islamica per informazioni sulla detenzione del dottor Ahmadreza Djalali: nessuna risposta. Nel 2018 il medico è apparso alla televisione iraniana per leggere (sotto minaccia di ritorsioni su ùi familiari) una confessione scritta dai suoi carcerieri. L’esecuzione della condanna a morte, fissata per il 21 maggio 2022, è stata poi sospesa. In tutti questi anni, molte sono state le iniziative di governi e organismi internazionali per ottenere la scarcerazione di Ahmadreza Djalali e il rispetto dei più fondamentali diritti dell’uomo. Tutto è stato inutile. All’inizio di marzo di quest’anno, per notizie per l’aggravarsi dello stato di salute dello scienziato, il ministero degli esteri svedese ha chiesto nuovamente la sua scarcerazione immediata. Per tutta risposta, le autorità iraniane hanno definito la cosa “priva di fondamento”.