Il Cpt: “In Italia ci sono condizioni inumane nelle carceri e nei Cpr” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2025 Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) ha pubblicato il suo 34° rapporto annuale, dipingendo un quadro allarmante delle condizioni carcerarie in Europa nel 2024. Due i temi centrali: il sovraffollamento crescente, particolarmente critico in alcuni Paesi occidentali come il nostro Paese, e la persistenza di gerarchie informali tra detenuti in ex Stati sovietici. L’Italia, insieme a Bulgaria, Romania e Turchia, è tra i Paesi citati per criticità specifiche, dal sovraffollamento ai Centri di permanenza per il rimpatrio. Più in generale, nel 2024 il Cpt ha effettuato 20 visite (in Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Repubblica ceca, Danimarca, Francia, Georgia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Serbia, Slovenia, Spagna, Svizzera e Turchia). Ha visitato 181 luoghi di detenzione, tra cui 58 carceri, 75 stazioni di polizia, 18 ospedali psichiatrici, 14 centri di detenzione per immigrati e 4 case di accoglienza. Nel documento emerge subito il quadro italiano, dove nel corso di una visita ad hoc svolta tra il 2 e il 12 aprile dello scorso anno nei quattro Centri di permanenza per il rimpatrio di Milano (Via Corelli), Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma (Ponte Galeria), il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha esaminato regime detentivo, condizioni di sicurezza, garanzie legali e qualità dell’assistenza sanitaria per i migranti trattenuti in attesa di espulsione. In Italia, l’allarme principale riguarda il sovraffollamento: le carceri sono spesso oltre capacità, con inevitabili ricadute su tensioni interne, aumento della violenza tra detenuti e rise dei suicidi sia di persone recluse che di agenti. Alan Mitchell, presidente del Cpt, ha ricordato che ‘ il sovraffollamento mina il funzionamento stesso delle carceri, espone i detenuti a trattamenti inumani e degrada le possibilità di attività utili e preparazione al reinserimento’ e ha invitato il governo a riformare le politiche penali e stanziare risorse adeguate per strutture penitenziarie e servizi di libertà vigilata. Sul fronte dei Centri di permanenza per il rimpatrio, il Rapporto segnala diversi casi di uso eccessivo della forza da parte delle forze di polizia durante interventi critici nei moduli di detenzione, spesso senza un monitoraggio indipendente né una documentazione accurata delle lesioni riportate dai trattenuti. In più, emerge la prassi diffusa di somministrare psicofarmaci non prescritti, in particolare al Cpr di Potenza, e di prolungare l’uso delle manette nei trasferimenti in struttura, comportamenti che il Comitato definisce ‘ inaccettabili’. Il Cpt contesta inoltre il modello di esternalizzazione adottato dall’Italia, con l’apertura di Cpr in Albania, ritenuto incompatibile con gli standard europei. A livello europeo, il Rapporto ribadisce che il sovraffollamento carcerario non è un’emergenza isolata: nel 2024 molti Paesi dell’Europa occidentale hanno registrato popolazioni detenute ben oltre la capacità regolamentare, con esiti chiaramente devastanti sul piano del benessere, della sicurezza e delle attività rieducative. Il CPT sottolinea che esistono già buone pratiche in alcuni Stati, ma rimane indispensabile una volontà politica forte e investimenti mirati per realizzare riforme strutturali. Oltre all’emergenza del sovraffollamento, il Rapporto dedica attenzione al fenomeno della gerarchia carceraria informale, radicata nelle ex repubbliche sovietiche e tuttora presente, seppure con intensità variabile, in nove Stati dell’area (Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania, Moldavia, Russia, Ucraina). La gerarchia era stata incentivata già ai tempi dei Gulag, delegando ai detenuti il controllo degli istituti e delle quote produttive, un’eredità che affonda le sue radici fino all’era zarista. La diffusione di grandi dormitori di massa ha amplificato questo sistema non ufficiale di autogoverno, con la creazione di caste: “i prigionieri di alto livello”, “la casta media” e gli “intoccabili”, relegati ai lavori più umili e soggetti a violenze ed estorsioni. Particolarmente drammatica è la condizione di coloro che occupano il gradino più basso della gerarchia, gli “intoccabili”, costretti a vivere in condizioni di totale segregazione. Questi detenuti sono obbligati a svolgere i lavori più umilianti, come la pulizia delle latrine, e sono costantemente esposti a violenze e sfruttamento. La situazione è talmente grave che il Cpt non esita a paragonarla a una forma di ‘ schiavitù moderna’. La Corte europea dei diritti umani ha riconosciuto in queste pratiche una chiara violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce trattamenti inumani o degradanti. In Lituania, ad esempio, i detenuti classificati come ‘ umiliati’ vivono in condizioni profondamente degradanti, privi di qualsiasi forma di protezione effettiva. Per affrontare questa problematica, il Cpt ha elaborato una serie di raccomandazioni concrete: eliminare i dormitori sovraffollati con più di 50 posti, sostituendoli con celle di dimensioni più contenute; aumentare il numero di agenti penitenziari per garantire una presenza costante nei reparti e interrompere l’isolamento dei detenuti più vulnerabili; implementare programmi di formazione specifici per il personale penitenziario, finalizzati a contrastare efficacemente la subcultura criminale. Nonostante alcuni Paesi come la Georgia e l’Ucraina abbiano compiuto progressi significativi, in altri contesti come la Lituania e la Russia, la situazione rimane critica. Finché questi gruppi manterranno potere e impunità, avverte il Rapporto del Cpt, “i diritti umani dei detenuti resteranno gravemente compromessi e il sistema carcerario non potrà funzionare correttamente”. Il rapporto annuale analizza anche la situazione degli istituti psichiatrici in sette Paesi europei. Nonostante esempi positivi in Danimarca e Norvegia, emergono problematiche significative in molte strutture. Il consenso dei pazienti alle cure viene frequentemente ignorato, con terapie imposte senza adeguata consultazione. Preoccupa l’abuso della contenzione fisica e chimica, particolarmente grave in Ungheria, dove i pazienti legati ai letti sono costretti all’umiliazione di usare pannolini davanti ad altri degenti. In Romania e Serbia, la carenza di terapie psicosociali confina i pazienti all’inattività, con un approccio terapeutico eccessivamente incentrato sui farmaci. Il presidente del Cpt, Alan Mitchell, invoca un cambio di paradigma, esortando gli Stati a investire in strutture comunitarie per evitare ricoveri coatti prolungati. Con un appello finale, il Cpt sollecita un’azione congiunta: in Italia come negli altri Stati europei, è necessario coniugare riforme legislative, nuove infrastrutture e risorse umane sufficienti, per garantire condizioni di detenzione che non rechino danno fisico e morale e che diano la possibilità di un reale percorso di reinserimento nella comunità. Solo così si potranno allontanare i fantasmi del sovraffollamento (come in Italia) e delle gerarchie occulte (paesi ex sovietici) che, ancora oggi, avvelenano le nostre carceri. Criminalizzare la resistenza passiva in carcere è una vergogna di Guido Vitiello Il Foglio, 26 aprile 2025 Alcuni storici ritengono che quella degli internati militari italiani, deportati nei campi di concentramento dopo l’8 settembre, fu una forma di Resistenza passiva contro il nazifascismo. Maligna coincidenza: nelle carceri italiane la protesta pacifica dei detenuti sta per diventare reato. Non c’è miglior modo di celebrare la Liberazione che protestare contro quest’abominio. Ieri il Post ha dedicato un articolo (Ci fu anche una Resistenza “passiva”?) agli internati militari italiani, quei soldati arrestati dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 - furono centinaia di migliaia, forse ottocentomila - che si rifiutarono di combattere contro gli Alleati al fianco dei nazisti e dei repubblichini e furono perciò deportati in appositi campi di concentramento. Davanti alle ripetute offerte di tornare in patria, a patto che si schierassero dalla parte sbagliata e aderissero alla Repubblica Sociale, in larghissima maggioranza gli IMI preferirono sopportare condizioni di internamento inumane. Decine di migliaia trovarono in quei campi la loro morte. Per alcuni storici, dice il Post, la loro “fu una forma di Resistenza passiva contro i nazisti e i fascisti”. Non mi sogno di entrare nella questione storiografica, sulla quale rimando al bel libro di Nicola Labanca, Prigionieri, internati, resistenti (Laterza, 2022). Mi interessa soltanto ragionare sulle assonanze contemporanee di quella formula, e su una maligna coincidenza: proprio in questi giorni, grazie all’abominevole dl sicurezza, nelle carceri italiane la resistenza passiva sta per diventare un reato, sotto l’etichetta di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”. Non venite a dirmi - lo so già - che le patrie galere sono altra cosa dai lager nazisti; ma non provate neppure a convincermi che siano luoghi degni di un paese democratico e di uno stato di diritto: sono la più grande, la più abissale, la più spaventosa vergogna nazionale. Criminalizzare la protesta pacifica e la resistenza nonviolenta dei detenuti è peggio che una legge sbagliata: è una cattiva azione. E non c’è miglior modo di celebrare il 25 aprile - e, insieme, di ricordare “sobriamente” Papa Francesco - che sostenere le iniziative di Nessuno Tocchi Caino e della sua presidente Rita Bernardini, le proteste delle Camere penali, gli allarmi inascoltati dei garanti dei detenuti. Ha abolito il carcere, ma nessuno se n’è accorto di Sergio D’Elia L’Unità, 26 aprile 2025 Almeno un anno di riduzione di pena ai carcerati: Papa Francesco lo ha chiesto fino all’ultimo respiro Papa Francesco è stato non solo un capo spirituale ma anche il Capo di Stato più attento allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti degli ultimi. I migranti che ha accolto e protetto nel loro viaggio della speranza. Come il viaggio approdato nell’isola di Lesbo, alle porte dell’Europa, sbarrate. “Ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa”, gli scrisse poco prima di andarsene Marco Pannella dalla sua stanza all’ultimo piano, “vicino al cielo”. “Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano”. E i carcerati, che Papa Francesco, in comunione con Marco, ha difeso e visitato fino all’ultimo respiro in quell’opera cristiana di misericordia corporale, “visitare i carcerati”, a cui noi di Nessuno tocchi Caino laicamente e incessantemente cerchiamo di d are corpo. Nel 2015 abbiamo conferito a Papa Francesco il nostro Premio L’Abolizionista dell’Anno per il suo impegno contro la pena di morte e non solo. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà - aveva affermato e invocato - sono chiamati a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche dell’ergastolo, che è “una pena di morte nascosta”. E contro la tortura, non solo quella che come primo atto del suo Pontificato classificò come reato che introdusse nei codici vaticani. Ma anche quella “forma di tortura che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza”. Dove “la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”. Dopo il Premio L’Abolizionista dell’Anno”, ci spiace non aver fatto in tempo a consegnare a Papa Francesco anche la tessera ad honorem di Nessuno tocchi Caino che nel 2025 gli abbiamo dedicato “per la sua universale opera di misericordia del Visitare i carcerati, per la sua straordinaria capacità di aprire le porte e i cuori alla speranza”. La conserveremo con cura e amore, quella tessera, nella nostra teca dei ricordi più preziosi e vivi. È indimenticabile e di esempio per le future generazioni il messaggio radicalmente cristiano incarnato da Francesco: non giudicare, chi è senza peccato scagli la prima pietra. La sua opera di identificazione coi poveri cristi messi in croce nelle carceri di tutto il mondo. Chi l’ha mai fatto? Avete mai sentito un capo politico dire “Ogni volta che vengo in carcere la prima domanda che mi faccio è: perché loro e non io”? Papa Francesco lo ha sempre detto, l’ultima volta all’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia. Un atto straordinario quello di aprire la Porta Santa in un luogo chiuso, il carcere e, in tal modo, seduta stante, “liberare” i carcerati. Un atto simbolico, di apertura, con il quale il Papa ha chiuso il carcere. Dopo la tortura, la pena di morte, l’ergastolo e il 41 bis, Papa Francesco - anche se nessuno se n’è accorto - ha abolito il carcere, un istituto anacronistico, ormai fuori dal tempo e fuori dal mondo che del significato lette rale della parola, che dall’aramaico “carcar” trae origine, ha svelato tutta la sua essenza, quella di sotterrare, tumulare. “È un bel gesto quello di spalancare, aprire le porte”, aveva detto Francesco a Rebibbia. “Ma più importante è aprire i cuori alla speranza”. La speranza, Spes contra spem, un altro punto di incontro di Papa Francesco con Marco Pannella, con il suo modo di pensare, di sentire e di agire nella vita e nella lotta politica. L’essere speranza contro ogni speranza è “il vento dello spirito che muove il mondo”, aveva convenuto Marco, nella sua ultima lettera prima di andarsene, indirizzata proprio a Papa Francesco. Ora più che mai dobbiamo su questo fronte fare della sua mancanza una presenza come cerchiamo di fare anche per Marco Pannella. Oggi più che mai, in nome di Papa Francesco, con il sostegno anche dell’azione nonviolenta dello sciopero della fame intrapreso da Rita Bernardini, Nessuno tocchi Caino chiede al Parlamento un atto di clemenza che riconosca a tutti i detenuti un anno di riduzione della pena. Decida il Parlamento, che sia un anno di indulto o un anno di liberazione anticipata speciale. Ma decida, e se non vuole darlo ai carcerati lo conceda a Papa Francesco che lo ha invocato fino all’ultimo, finchè ha avuto un alito di voce, prima di “ritornare alla casa del Signore”. A ben vedere, un anno di riduzione della pena in quest’anno giubilare, sarebbe un anno di grazia e di redenzione per tutti. Non solo per i detenuti, i dannati della terra, ma anche per i detenenti, condannati a condizioni di lavoro infami, e per lo Stato italiano, dannato dalla Giustizia europea per i suoi reiterati trattamenti inumani e degradanti ai danni di persone private della libertà e sottoposte alla sua custodia Superare l’idea ottocentesca della pena, la radice dell’albero delle mele marce di Luigi Debernardi* L’Unità, 26 aprile 2025 La società ci presenta principalmente un solo luogo per scontare la pena: il carcere, e questo indirizza a costruire tutte le discussioni su questo unico tema, creando un circolo vizioso composto dagli stessi problemi e dalle stesse “soluzioni”. Per compiere un passo avanti in termini di civiltà, e non avere un futuro già scritto, dobbiamo avere il coraggio di accogliere una visione diversa, scindendo ciò che funziona da ciò che non funziona nell’attuale sistema penale. La galera, utilizzata in chiave punitiva e non cautelare, è un istituto relativamente giovane che ha origine agli inizi dell’800. La Costituzione italiana ha previsto espressamente che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato; non proponendo però un’alternativa all’istituzione totale preesistente si è generata una divisione nell’opinione pubblica sul carcere in chiave rieducativo-punitiva. In questo scontro, negli ultimi anni ha preso piede la retorica delle “mele marce” che ha portato gli attori politici a prendere posizione dietro l’ottocentesca divisione tra agente e detenuto, guardia e ladro, buono e cattivo. In questo caso, mentre le forze politiche si sono nettamente schierate da una parte o dall’altra, il mondo istituzionale ha dimostrato di sentire l’istintuale bisogno di tutelare il corpo (di polizia penitenziaria) a priori da qualsiasi tipo di contestazione nei confronti del sistema, facendola passare, intenzionalmente o non, agli occhi dei non addetti ai lavori come “un attacco a chi svolge il proprio lavoro onestamente”, e inculcando così il pensiero che, se parliamo di sistema, parliamo esclusivamente degli agenti. Per quanto parlare di sistema implichi anche prendere in considerazione le persone che ne fanno parte, il punto cruciale è comprendere che parte dell’albero, in particolare le sue radici, sono rappresentate dall’attuale idea di pena. La dissonanza cognitiva, quindi, risiede nel pensare che individuando con il termine “mela marcia” la singola persona, automaticamente il resto dell’albero da cui cade codesta mela sia un rimando, solo ed esclusivo, a coloro che devono far rispettare le regole, ossia il corpo di polizia, dimenticandosi così delle radici da cui questo grande albero prende vita. Sicuramente l’albero e il frutto condividono la stessa natura, ossia quella umana (in quanto l’idea di pena è artifizio umano), ma non per questo il frutto deve essere esclusivamente della stessa sostanza dell’albero. In altre parole: il poliziotto che si macchia di gesti violenti non li compie perché appartenente a una categoria di persone ma perché figlio di una società che lo ha educato a un’idea di pena tutto fuorché rieducativa, applicata in un sistema che si compone di spazi tutt’altro che consoni alla riabilitazione della persona; la stessa idea di pena che attualmente si concretizza nella parte terminale del nostro sistema penale: il carcere. Solamente non inciampando in questo tipo di fallacia logica possiamo usare il termine “sistema” in modo lucido. L’esperimento di Stanford ha dimostrato ampiamente il potere dell’ambiente sulle persone che lo vivono, parliamo di spazi studiati e concepiti pochi secoli fa che non fanno altro che insistere su un paradigma basato sull’isolamento che genera tensione. Decidere di allontanare dalla società una persona che ha commesso un reato, isolandola in un luogo senza un programma rieducativo mirato, nel migliore dei casi non porta a nulla. È fondamentale cambiare approccio e cercare soluzioni nuove potenziando quelle che già esistono, ad esempio indirizzando maggiori risorse economiche su progetti, che hanno dimostrato di poter creare un futuro per chi ha sbagliato, a scapito del carcere, utilizzando quest’ultimo realmente solo come extrema ratio. Questo discorso prescinde da ragioni etiche, per quanto esse siano presenti anche nei principi costituzionali, e vuole basarsi su evidenze raccolte nel tempo. I tassi del 68% di recidiva confermano che il sistema non funziona. Inoltre, già dagli inizi del ‘900, una gran mole di ricerche hanno evidenziato l’inefficienza del sistema carcerario come strumento di riabilitazione e prevenzione del crimine. La punizione può essere ritenuta necessaria per rispondere in primis alla tutela della vittima per il danno subito e permettere anche il quieto vivere all’interno di una comunità ma se vogliamo ottenere risultati concreti, per beneficiarne tutti, è necessario sradicare le sue radici ottocentesche, abbandonando una visione meramente punitiva, per adottare soluzioni che abbiano come obiettivo la riduzione dei tassi di recidiva, in attuazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione. *Attivista per i diritti dei detenuti Decreto Caivano, i giudici: a rischio la rieducazione di Simona Musco Il Dubbio, 26 aprile 2025 Sollevata un’altra questione di legittimità davanti alla Consulta: “Con queste norme la giustizia minorile diventa solo punitiva”. Il decreto Caivano compromette uno dei principi cardine del processo penale minorile: la valutazione individuale della personalità del minore. È questo, in sintesi, il cuore dell’ordinanza con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 5-bis, del Dpr 448/1988, introdotto proprio dal decreto. La norma contestata esclude automaticamente l’accesso alla sospensione del processo con messa alla prova per determinati reati considerati gravi - come la violenza sessuale, anche di gruppo, in presenza di specifiche aggravanti - impedendo al giudice qualsiasi valutazione caso per caso. Col paradosso, invece, di consentirla per reati ad elevatissima pericolosità sociale come l’associazione mafiosa. Secondo i giudici romani, questa preclusione contrasta con gli articoli 3, 31 e 117 della Costituzione. La messa alla prova rappresenta infatti uno strumento centrale nella giustizia minorile, volto a favorire il recupero del minore e la sua reintegrazione sociale, attraverso percorsi educativi e riparativi. Privare il giudice della possibilità di valutare la situazione concreta del singolo minore, in nome del solo titolo di reato, vanifica la funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla pena - e ancor più chiaramente nel processo minorile. Nel caso specifico, il minore è accusato di aver baciato e palpeggiato una coetanea senza consenso. Tuttavia, il Tribunale sottolinea come non si tratti di una condotta riconducibile a una “personalità delinquenziale strutturata”, bensì di un episodio isolato, compiuto da un ragazzo incensurato, regolarmente inserito nel contesto scolastico, parrocchiale e sportivo, e disposto a intraprendere un percorso educativo, anche con il supporto dei servizi specialistici. Il giovane ha inoltre manifestato un immediato pentimento, scusandosi con la vittima prima ancora della denuncia, e dimostrando un’autentica consapevolezza del disvalore del suo comportamento. La vittima stessa ha confermato la sincerità delle scuse. Il reato, pur non ritenuto irrilevante ai sensi dell’articolo 27 del DPR 448/88, né suscettibile di perdono giudiziale (che “rappresenterebbe una definizione del processo deteriore”, dal momento che la sentenza sarebbe annotata sul certificato penale del minore fino al compimento dei 21 anni, con danno per la sua immagine e reputazione), richiederebbe - secondo il Tribunale - un’analisi approfondita della personalità del minore, dei contesti di appartenenza, e della sua capacità di recupero. Una possibilità che il comma 5-bis vieta a priori. Ciò in contrasto con la sentenza n. 139/2020 della Corte costituzionale, secondo la quale l’istituto della messa alla prova “è previsto per tutti i reati anche quelli di gravità massima”, ma l’ammissione alla misura dipende dalla valutazione discrezionale del giudice, che deve sempre considerare “la personalità del minore”. E sempre la Consulta, con la sentenza n. 23/ 2025, ha ribadito che l’obiettivo primario della messa alla prova è “favorire l’uscita del minore dal circuito penale”, stimolando una riflessione critica sulla propria condotta, con la speranza che il minore comprenda la gravità della sua azione e possa reintegrarsi nella società in modo positivo. L’automatica esclusione basata sul solo titolo del reato, secondo il Tribunale di Roma, finisce per negare il principio di uguaglianza sostanziale (articolo 3 della Costituzione), impedendo una risposta educativa uniforme e proporzionata alla situazione concreta del minore. E in modo paradossale, osservano i giudici, reati associativi come l’appartenenza a un’organizzazione mafiosa restano ammissibili alla messa alla prova, mentre ne viene escluso il ragazzo protagonista di questo procedimento, riesumando “larvatamente la funzione retributiva della giustizia penale soltanto per alcuni reati”. Un punto critico messo in luce anche dal presidente del Tribunale dei minori di Trento, Giuseppe Spadaro. “Mi sembra vi sia una evidente irrazionale scelta legislativa nel considerare alcuni reati di tale rilevanza criminosa da non poter consentire l’ammissibilità di un percorso di messa alla prova - ha commentato al Dubbio. Ad esempio perché allora non considerare di estrema rilevanza criminosa l’appartenenza ad associazioni di stampo mafioso?”. Per i giudici, il ricorso allo strumento penale retributivo “non appare come la soluzione al problema della commissione di reati gravi, ma piuttosto come la prova di un insuccesso delle strutture sociali” e di una “pericolosa rassegnazione all’intervento meramente punitivo, quasi sempre inutile, se non dannoso nel percorso evolutivo di un soggetto”. L’eventuale “e tutto da dimostrare aumento quantitativo di imputazioni per i reati ostativi alla messa alla prova individuati dal Legislatore - continua la sentenza - renderebbe ancor di più necessaria una analisi approfondita ed individualizzata della personalità del minore imputato” e del contesto di provenienza per comprendere le ragioni del gesto e poter infine “giungere, nel merito, ad ammettere od escludere la messa alla prova, caso per caso e in relazione non soltanto al titolo di reato”, che diventerebbe altrimenti “l’unico dato certo sul minore” . La norma si pone inoltre in violazione dell’articolo 117 della Costituzione, nella parte in cui impone il rispetto delle carte e delle direttive orientate a privilegiare soluzioni educative e alternative alla detenzione per i minori, anche nei casi di reati gravi. Infine, osserva il Tribunale, tale esclusione automatica introduce un’idea di “non rieducabilità presunta”, in aperto contrasto con la funzione rieducativa della pena sancita dall’articolo 27, comma 3, della Costituzione, oltre che con l’articolo 31, che impone allo Stato di tutelare l’infanzia e promuoverne lo sviluppo. Insomma, il comma 5-bis rischia di tradursi in un ostacolo grave al recupero dei minori autori di reati, da qui la richiesta ai giudici costituzionali di intervenire per ristabilire un equilibrio coerente con i principi costituzionali e sovranazionali che regolano la giustizia minorile. Carriere separate: italiani favorevoli, dicono i sondaggi (ma l’Anm scalpita) di Valentina Stella Il Dubbio, 26 aprile 2025 La battaglia per il referendum sulla separazione delle carriere si giocherà molto sulla comunicazione che verrà offerta ai cittadini dagli attori in gioco: da un lato governo, maggioranza di centrodestra e gran parte dell’avvocatura, dall’altra le opposizioni (tranne Azione e Italia viva) e la magistratura. Quasi sicuramente all’appuntamento plebiscitario non si arriverà dopo aver studiato gli aspetti tecnici della modifica normativa: si tratterà di un giudizio di gradimento del lavoro dei magistrati, e anche di quello di Giorgia Meloni e Carlo Nordio, che hanno investito moltissimo su questa riforma. L’Anm parte in svantaggio, tuttavia sta cercando di risalire la china come meglio può. Ad esempio, con il nuovo Comitato direttivo centrale si è insediata anche un’apposita commissione Comunicazione, presieduta dal sostituto procuratore della Direzione nazionale Antimafia Ida Teresi: è stata lei ad annunciare, nell’ultima riunione del “parlamentino”, che si darà mandato alla società YouTrend di realizzare un’indagine demoscopica: “Dobbiamo capire come parlare a chi, e quali sono i target dei nostri messaggi. Quindi un sondaggio è importante” perché “stiamo vivendo un momento epocale”. Ma qual è adesso e qual è stato il sentimento dei cittadini italiani verso la riforma costituzionale targata Nordio e verso la magistratura in generale? Siamo andati a ripescare recenti e meno recenti sondaggi, sinceri ma anche un po’ fallaci, lontani e vicini ai partiti, certo utili a registrare i rumori e i possibili orientamenti. Lo scorso 20 gennaio il TgLa7 ha reso nota una indagine Swg: il 63% delle persone contattate è favorevole alla separazione delle carriere. Il 30% la ritiene “molto importante” e il 33% “abbastanza importante”. Mentre per 13% la riforma è “poco importante” e il 10% la considera “per niente importante”. La voce “non saprei” raggiunge il 14%. Di segno opposto un sondaggio lanciato il 19 febbraio scorso dal quotidiano Domani: alla domanda “Sei favorevole o contraria/ o alla separazione delle carriere e alla riforma del Csm?” il 75,9 per cento dei partecipanti ha risposto di essere “completamente contrario”. Al quesito sulle ragioni della riforma (“Ritieni che il governo abbia intenti punitivi nei confronti delle toghe, come sostiene l’Anm?”), c’è stata una risposta un po’ meno netta. Secondo la maggioranza “il governo ha individuato nella magistratura un nemico da combattere”, ma la percentuale è calata di quasi dieci punti, con il 66,7 per cento. Qualche giorno prima, il 5 febbraio, era stato pubblicato un sondaggio dell’istituto Tecnè (periodo di valutazione 31 gennaio- 3 febbraio), commissionato dal Giornale Radio Rai a partire dal rilascio del capo della polizia libica Osama Almasri. I risultati: la vicenda è “conosciuta” dal 72% delle persone coinvolte nel sondaggio. Il 43% pensa che il comportamento del magistrato che ha firmato l’atto giudiziario nei confronti degli esponenti del governo sia pretestuoso, e finalizzato a colpire l’Esecutivo, mentre per il 40% è legittimo. Non sa il 17%. Inoltre, per il 41% l’avviso di garanzia a Meloni e ad altri membri del governo per il rimpatrio di Almasri rappresenta una reazione alla separazione delle carriere. Non è così per il 40%. Non sa il 19%. E ancora: alla domanda se una parte della magistratura usi il proprio potere in modo improprio per condizionare le scelte del governo, il 44% ha risposto di sì, il 40% di no e il 16% non sa. Infine: al quesito “se oggi (qualche mese fa, ndr) si svolgesse il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati...”, il 68% degli intervistati ha risposto che voterebbe a favore, il 32% contro. A maggio 2024 era stata l’Eurispes a condividere una fotografia della fiducia degli italiani verso le istituzioni: i cittadini si erano divisi nel giudizio sulla magistratura - il 47% si diceva fiducioso contro il 44% -; esprimeva consenso nei confronti del governo poco più di un terzo degli italiani (36,2%), ma gli sfiduciati restavano la maggioranza (55,4%). Nel 2023 SkyTg24 aveva reso noto un sondaggio realizzato da Quorum/ YouTrend. Non si parlava propriamente di separazione delle carriere ma di una riforma della giustizia complessiva e delle reazioni da parte delle toghe. Riformare il sistema giudiziario, secondo il sondaggio, era una priorità per quasi 3 intervistati su 4. Campione diviso però sulla “possibilità che all’interno della magistratura ci sia una corrente che si sta organizzando per ostacolare attivamente il governo Meloni” : il 40% concordava con quell’affermazione, mentre il 41% era in disaccordo. Il 56% degli interpellati, poi, riteneva che fosse difficile riformare la giustizia perché la magistratura avrebbe potuto attuare ritorsioni sulla politica: un italiano su tre (32%), invece, non concordava con questa affermazione. Benché nel referendum costituzionale non sia previsto quorum, a questi numeri, per avere un quadro ancora più ampio della situazione, vanno aggiunti quelli relativi alla partecipazione al referendum promosso da Partito radicale e Lega nel 2022, per il quale invece il quorum era necessario. Due situazioni diverse, dunque, che tuttavia possono aiutare a capire meglio i confini entro i quali ci muoviamo. I quesiti erano cinque: per nessuno si arrivò al 51% dei votanti. Ciononostante il 74 per cento (circa 7 milioni di cittadini) si espresse a favore della separazione delle funzioni tra giudici e pm. Volendo tirare le somme, sembra proprio che gli italiani siano favorevoli alla riforma, ma le incognite per il prossimo appuntamento referendario restano: quanto peserà la campagna comunicativa dell’Anm? E quanto l’avvicinarsi della fine della legislatura, periodo in cui il favore degli elettori fisiologicamente cala verso il governo? Sassari. Detenuto olbiese muore in cella, la famiglia: “Non è suicidio” di Marco Bittau La Nuova Sardegna, 26 aprile 2025 La Procura di Sassari ha aperto un’inchiesta, l’autopsia sarà svolta il 30 aprile. Più ombre che luci sulla morte improvvisa di un giovane olbiese detenuto nel carcere di Bancali, avvenuta lo scorso 21 aprile. Un caso di suicidio, come subito si è sostenuto? L’ipotesi non ha convinto i familiari del giovane che, assistiti dagli avvocati Abele e Cristina Cherchi, hanno presentato con urgenza una richiesta di indagini alla Procura di Sassari che ha già disposto accertamenti sulle cause della morte. A cominciare dall’autopsia, che il sostituto procuratore Paolo Francesco Piras, pubblico ministero, ha affidato al medico legale Francesco Lubinu. L’esame si svolgerà il 30 aprile a Sassari. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il 21 aprile il detenuto olbiese - 24 anni, in carcere per una serie di furti commessi in città - sarebbe stato trovato morto nella sua cella dal personale di sorveglianza. Sempre secondo la prima ricostruzione, la morte sarebbe stata causata dall’inalazione del gas di una bomboletta usata per riscaldare le vivande. Ipotesi tutte da verificare, infatti la Procura di Sassari ha aperto un fascicolo di inchiesta contro ignoti mentre i familiari del detenuto hanno presentato una dettagliata richiesta di indagini. Tra poche certezze e molti legittimi sospetti, gli avvocati della famiglia hanno chiesto alla Procura di Sassari titolare dell’inchiesta di procedere al sequestro della cella dove è stato trovato il giovane e di tutto il materiale contenuto all’interno. Non solo, gli avvocati hanno chiesto alla Procura di sentire per sommarie informazioni, anche videoregistrate, i compagni di cella del giovane e tutti i detenuti della sezione. Quest’ultima richiesta è stata puntualizzata con la necessità che a svolgere questa attività siano ufficiali di polizia giudiziaria diversi da quelli della polizia penitenziaria che operano nel carcere di Bancali. Allo stesso modo, gli avvocati hanno richiesto alla Procura di sentire i detenuti previo trasferimento in altro carcere, in una sezione protetta, in modo da evitare condizionamenti di alcun genere. Infine la richiesta alla Procura di sentire per sommarie informazioni, anche videoregistrate, il personale medico e infermieristico in servizio a Bancali. Insomma, sentire tutti quelli che possono aver avuto un ruolo nella vicenda. Sono tutte richieste stringenti che spalancano le porte su inquietanti interrogativi. Come dire, il 21 aprile in quella cella di Bancali può essere successo di tutto. “Chi sa parli - è l’appello lanciato dagli avvocati Abele e Cristina Cherchi - rivolgendosi direttamente al nostri studio legale anche in forma riservata. Perché ogni informazione è utile per ricostruire l’accaduto”. Foggia. Pestaggi e abusi sui detenuti, chiesto il processo per 14 persone di Luca Pernice Corriere del Mezzogiorno, 26 aprile 2025 Tortura, rischiano il giudizio dieci agenti, tre medici e una psicologa. Una spedizione punitiva per dare una lezione ad un detenuto considerato “problematico” e a un altro reo di essere intervenuto per difendere il compagno. Sarebbe questo il movente delle violenze avvenute l’11 agosto del 2023 all’interno del carcere di Foggia ai danni di un detenuto, originario di Bitonto, invalido al 100 per cento e affetto da gravi disturbi psichiatrici, picchiato con violenza e crudeltà da un compagno di Taranto. Per quella vicenda la procura di Foggia ha chiesto il rinvio a giudizio per 14 persone: dieci agenti della polizia penitenziaria, tre medici e una psicologa. Per loro le accuse sono a vario titolo di concorso dei reati aggravati di tortura, abuso d’ufficio, abuso di autorità contro arrestati o detenuti, omissione d’atti d’ufficio, danneggiamento, concussione, falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale in atti pubblici, soppressione, distruzione e occultamento di atti veri. Il 15 settembre prossimo si svolgerà l’udienza preliminare davanti al gup del tribunale di Foggia Cecilia Massarelli. Una inchiesta partita dopo una lettera giunta il 17 agosto del 2023 al tribunale di Foggia e scritta da un altro detenuto che descrisse cosa accadde all’interno di quella cella aggiungendo di “essere pronto a testimoniare”. Secondo quanto emerso dalle indagini, uno dei due detenuti era considerato da tempo come “problematico”. Due mesi prima dell’aggressione - secondo l’accusa - aveva minacciato una ispettrice della polizia penitenziaria con uno sgabello e graffiandola con le unghie sulla fronte. Il carattere particolare del detenuto - affetto da patologie psichiatriche sfociate in atti autolesivi aveva portato il personale della polizia penitenziaria a chiedere più volte il suo trasferimento in un altro istituto. Il gip nell’ordinanza aveva evidenziato che si è trattato di “una lezione”, sia per dare sfogo alla rabbia repressa da tempo che per far capire ai due detenuti che non era il caso di continuare con simili condotte. Secondo quanto ricostruito dal gip, l’11 agosto del 2023 gli agenti della polizia penitenziaria sarebbero entrati nella cella del detenuto “problematico”, iniziando a picchiarlo. Gli indagati - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare avrebbero agito “utilizzando il loro numero soverchiante per impedire qualsiasi possibile reazione difensiva”. Gli indagati che avrebbero agito “con violenze gravi e con crudeltà” provocando alla vittima lesioni al capo, a un occhio e al torace, acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico. Nel corso delle indagini sarebbe stata documentata la predisposizione e la sottoscrizione di atti falsi finalizzati a nascondere le violenze e a impedire che venissero emesse a carico dei due detenuti le diagnosi delle lesioni riportate. Il detenuto bitontino sarebbe stato costretto a firmare un documento in cui ammetteva di aver dato in escandescenze e negava di essere stato picchiato. All’altro detenuto, invece, fu fatto firmare un documento che lo dipingeva come testimone di comportamenti violenti del compagno di cella, con il quale si sarebbe sentito minacciato. Asti. Garante dei detenuti pro-Duce, il caso in Parlamento: “Il ministro risponda” di Laura Secci La Stampa, 26 aprile 2025 Interrogazione del parlamentare Fornaro (Pd). Il centrodestra astigiano reagisce: “Indicata da FdI, non la conoscevamo. Ci siamo fidati”. Si accusa un’apparente vertigine logica nell’osservare il centrodestra che governa Asti. Solo apparente. Il sindaco in corteo intona “Bella Ciao”. E non la mastica a metà come i calciatori con l’Inno di Mameli. Lui, Maurizio Rasero, ha le spalle aperte e lo sguardo fiero di un soldato all’Alzabandiera. Mentre il presidente del consiglio comunale Federico Garrone ricorda che i valori del Papa sono gli stessi, preziosi, del 25 Aprile. Com’è possibile che la stessa giunta pochi giorni fa abbia eletto a garante dei detenuti Stefania Sterpetti, medico in pensione con la passione per post nostalgici in cui inneggia al Duce e augura la morte a Cesare Battisti? Un voto sulla fiducia - “Ci siamo fidati, dando comunque ai consiglieri libertà di voto - spiega il primo cittadino, mal celando un boccone che gli rallenta la digestione - Un partito della maggioranza ha proposto la candidatura della dottoressa e alcuni consiglieri l’hanno sostenuta. Non tutti”. La nuova garante è stata eletta con 14 voti su 30 del Consiglio comunale. Dodici hanno avallato la candidatura di Domenico Massano, attivista di Amnesty International (nominativo proposto e votato dal centrosinistra), due Luca Tomatis, sostenuto dal Gruppo Giovani Astigiani. Due schede bianche. Tra i banchi della maggioranza a non essersi allineati sul nome indicato da Fratelli d’Italia sarebbero, secondo indiscrezioni, il presidente del consiglio Federico Garrone, e la consigliera Carlotta Accomasso. “Molti hanno votato non conoscendo in modo approfondito la storia e tantomeno i post sui social- aggiunge Rasero - Io stesso non avevo motivo di sospettare nulla. So che è una persona onesta, il resto l’ho appreso dopo”. Una sorta di apertura di credito verso un partito, più che verso la persona. L’ordine di scuderia - Che l’ordine di scuderia sia partito da Fratelli d’Italia non è un mistero. Il primo, rimasto anche l’unico, a difendere Sterpetti a spada tratta è l’onorevole e coordinatore comunale di FdI Marcello Coppo che derubricando la questione in “accanimento mediatico e politico della sinistra” difende “una donna che ha sempre rappresentato un esempio di dedizione e sobrietà istituzionale”. Il tentativo di chiuderla qui però non trova sponda nel resto del centrodestra. “Quello che ritengo gravissimo è il post sul Duce. Lunedì affronteremo la questione nella riunione di maggioranza” assicura il sindaco. Una partita che rischia di spaccare la maggioranza. “Se non fa un passo indietro da sola…Del resto l’abbiamo votata noi - spiega il consigliere Renato Berzano - La prossima volta di sicuro faremo più attenzione. Tutti quelli di FdI devono fare un’evoluzione democratica. Siamo una destra moderna e moderata”. Intanto l’elenco di chi chiede le dimissioni si infoltisce. Dopo la prima denuncia dei consiglieri Vittoria Briccarello (UnitiSiPuò) e Michele Miravalle (Pd), una reazione a catena. Dalla Commissione Pari Opportunità della Provincia (di cui Sterpetti fa parte), alla Camera penale di Asti che nel dirsi “attonita per la scelta” la boccia come “totalmente inidonea al ruolo”. Richieste al momento disattese. “La dottoressa mi ha chiamato e si è detta disponibile a fare un passo indietro qualora glielo chiedessi” precisa il sindaco. Senza dimissioni, non resta che aggrapparsi a una visione probabilistica che apre la porta a variabili ignote. “Io, per carattere, non sono portato a condannare nessuno a vita. Sono per dare sempre a tutti una seconda possibilità - conclude Berzano - Magari saprà svolgere al meglio il ruolo che le è stato assegnato”. Interrogazione parlamentare - La questione si sposta in parlamento con un’ interrogazione di Federico Fornaro (Pd) al ministro della Giustizia. “A causa delle esternazioni pubbliche segnalate dai consiglieri comunali e riportate dai media, appare del tutto evidente l’inadeguatezza del neoeletto garante locale del comune di Asti a svolgere il delicato compito attribuitogli dalla legge in materia di tutela delle persone private della libertà. Chiediamo se sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e se, a fronte degli stessi, intenda adottare iniziative di competenza, anche di carattere normativo, al fine di definire in maniera più stringente i requisiti per la nomina dei garanti dei diritti dei detenuti in ambito territoriale, allo scopo di evitare situazioni quali quella segnalata”. Ferrara. Detenuti in fabbrica: il progetto è decollato di Giovanni Poggi Il Resto del Carlino, 26 aprile 2025 Un’opportunità per i detenuti, un beneficio per le aziende: è questo il messaggio lanciato dall’associazione Seconda Chance, che si occupa di facilitare l’inserimento lavorativo dei detenuti nelle imprese italiane. Nata nel 2022 da un’iniziativa della giornalista Flavia Filippi, l’associazione collabora con il Ministero della Giustizia e ha già raccolto più di 470 offerte di lavoro in aziende di primo piano. La rete di Seconda Chance si sta ampliando anche in Emilia-Romagna, dove i primi risultati sono già evidenti, come dimostra il caso dell’azienda Inci Srl di Renazzo. Sempre in Regione, Seconda Chance ha già iniziato a costruire una solida rete di collaborazioni, coinvolgendo Confindustria e Confcommercio. Abbiamo parlato con Alessio Toselli, titolare di Inci Srl di Renazzo. “Tutto è nato per caso - racconta -. Leggendo un articolo sul giornale, ho scoperto che un’azienda toscana aveva assunto un detenuto. Conoscevo il titolare e l’ho contattato per capire come avesse fatto. È stato lui a mettermi in contatto con Flavia Filippi. Le procedure burocratiche hanno richiesto un po’ di tempo - spiega Toselli - il supporto dell’associazione è stato fondamentale”. Il detenuto assunto ha trovato subito la sua dimensione lavorativa: “La persona aveva già esperienza in realtà simili alla nostra - spiega Toselli -. L’abbiamo inserita nel reparto taglio del ferro, dove si è trovata perfettamente a suo agio”. Toselli sottolinea come l’integrazione sia stata un successo non solo per il detenuto, ma per l’intero team aziendale: “All’inizio eravamo un po’ titubanti, ma abbiamo deciso di provare e ne siamo contenti. Queste persone, pur avendo commesso errori, hanno capacità valide e meritano una seconda opportunità. Per noi è stata un’esperienza positiva”. Venezia. Pena alternativa e nuovi posti letto: il progetto della Caritas di Marta Gasparon genteveneta.it, 26 aprile 2025 Una promessa lanciata l’anno scorso dal Patriarca in occasione della visita del Papa nella Casa di reclusione femminile della Giudecca, che potrebbe prendere forma già entro il 2025. A parlarne è il direttore della Caritas diocesana, Franco Sensini. Una trentina di posti letto a disposizione di detenuti e ristrette, per garantire loro un graduale accompagnamento verso l’esterno, affinché ricostruiscano la propria autonomia e dignità. È il progetto che dovrebbe prendere forma entro il 2025 (o comunque coinvolgendo parte del 2026), a cui sta lavorando la Caritas diocesana in sinergia con la Diocesi, in linea con l’impegno assunto dal Patriarca Francesco in occasione della visita di Papa Bergoglio in città, e nella Casa di reclusione femminile della Giudecca, nell’aprile dell’anno scorso, quando promise al pontefice che avrebbe portato avanti un’iniziativa di questo tipo, a favore dell’ambiente carcerario. L’obiettivo - o quantomeno l’auspicio - è quello di ultimare il tutto entro l’anno giubilare in corso, coinvolgendo Casa Mons. Vianello a Campalto, Casa San Giuseppe alle Muneghette a Castello, Casa San Giovanni XXIII a piazzale Roma e un appartamento dell’Ater a Marghera. L’abitare, tema centrale - Una progettualità descritta dal direttore della Caritas diocesana, Franco Sensini, che fa riferimento alla collaborazione avviata con la Fondazione Esodo, “di cui siamo diventati soci proprio per aiutare il mondo delle carceri”. Fondazione che può contare su un accordo di collaborazione sostenuto da Regione e Cassa delle ammende, per sostenere dei percorsi di riabilitazione connessi proprio al tema dell’abitare. “Questione, questa, particolarmente urgente e complessa alla luce del sovraffollamento registrato soprattutto nella Casa circondariale di Santa Maria Maggiore. Una problematica - osserva Sensini - che potrebbe trovare un aiuto prezioso nelle pene alternative, tuttavia non attivabili in assenza di un luogo esterno in cui vivere. Attraverso la Fondazione gestiamo degli spazi che metteremo a disposizione. Non si tratta di abitazioni, ma di una soluzione, di un percorso legato alla pena alternativa o ad un periodo transitorio in attesa di tornare alla propria vita”. Le ristrette finora hanno potuto contare sulla Casa San Giovanni XXIII, ma il nuovo progetto prevede che gli 8 posti letto lì a disposizione - che potrebbero anche aumentare di un paio di unità nel caso in cui fossero condotti alcuni interventi di manutenzione - vengano presto destinati agli uomini. Le donne saranno accolte invece alle Muneghette, dove i lavori sono già stati ultimati e dove saranno messi a disposizione 6-7 posti letto, con possibilità di avere due stanze da destinare all’accoglienza di mamme con il proprio figlio. “Da metà maggio saremo sicuramente operativi”, afferma Sensini. Per quanto riguarda gli uomini, il direttore segnala un’altra novità attuata attraverso la Fondazione Esodo; o meglio, grazie al suo braccio operativo, la Cooperativa sociale Nova. “L’Ater ha messo a disposizione un appartamento a Marghera, che verrà arredato dalla Caritas: 5 i posti letto nell’ambito di pena alternativa, fine pena ed eventuali permessi premio. A breve firmeremo il contratto. La Diocesi porta avanti questa progettualità a favore del mondo delle carceri gratuitamente. Non vi sono convenzioni su cui possiamo contare. Tutto si basa su volontariato e fondi derivanti dall’otto per mille, segno evidente della carità e della generosità”. Il 29 aprile intanto è in programma un incontro con Rita Bressani, garante dei detenuti. Tra le azioni a favore dei detenuti, anche il recupero della Casa Mons. Vianello a Campalto, della Diocesi, già in passato utilizzata. “Strutture come questa vanno rese conformi alle normative e necessitano di un riammodernamento - dice Sensini -. Per garantire loro quella dignità e bellezza che contribuisce a far sentire le persone in un luogo accogliente”. Sensini ricorda il ruolo prezioso dei cappellani di Casa di reclusione femminile e di Santa Maria Maggiore, don Paolo Bellio e don Massimo Cadamuro, oltre che di religiose e volontari. “A Campalto i posti letto saranno 10. Si sta procedendo a progettazioni e autorizzazioni per poter poi dare il via al restauro, che potrebbe partire verso fine estate. L’obiettivo, completare il tutto entro l’anno, ma va tenuto conto delle incognite”. Un ampio parco e i due piani dell’edificio ne contraddistinguono gli spazi, da assegnare in caso di fine pena, pena alternativa e permessi premio. “Per il futuro? Creare forme di sinergia con istituzioni a livello regionale, proseguendo quanto già fatto con la Fondazione Esodo per consolidare le iniziative in questo settore. È il secondo anno che lavoriamo anche a contatto con le scuole: la Caritas nazionale ha siglato un accordo col Miur per un protocollo dedicato alla formazione a livello di volontariato, che vorremmo applicare anche in Veneto. Portare il tema delle carceri tra gli studenti, permette di far conoscere questo tema tra i giovani e di fare prevenzione in termini di legalità, rispetto e solidarietà”. Milano. I detenuti scrivono il loro grazie a Francesco: “Un giorno di sofferenza per noi” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 26 aprile 2025 Gli avevano scritto l’ultima volta due mesi fa, il giorno in cui era stato ricoverato e cioè poco prima di partire a loro volta per Roma dove dovevano cantare per lui al Giubileo degli Artisti. E ora, pochi minuti dopo la notizia della morte di papa Francesco, i detenuti del reparto La Nave di San Vittore hanno scritto di nuovo. “Oggi è un giorno di sofferenza per noi”. Comincia così la lettera di Salvatore dal reparto La Nave di San Vittore. Scritta di getto, neanche un’ora dopo la notizia. Bisogna sapere che di solito nei giorni festivi non sono previste attività particolari per le persone detenute. C’è la messa, per chi ha il permesso di uscire dalla cella. Ma per il resto poco o niente, in genere la giornata si consuma giocando a carte o guardando la tv. E appunto perché l’ha visto improvvisamente scritto in tv, a metà mattina, anche al reparto la Nave di San Vittore c’è stato uno che l’ha gridato per primo: “È morto il Papa”. E da una cella all’altra il grido è rimbalzato: il Papa, il Papa. La dottoressa Giuliana Negri di Asst Santi Paolo e Carlo, da cui il reparto è gestito, in quel momento è di turno. E lo sa molto bene anche lei quanto gli ospiti del reparto fossero affezionati a questo Papa. Per carità, tutti i detenuti d’Italia lo erano: primo pontefice nella storia a spalancare una porta santa del Giubileo dentro un carcere, la visita a Regina Coeli pochi giorni prima di morire, i ripetuti appelli contro il sovraffollamento... certo che lo amavano tutti. Ma qui alla Nave avevano un motivo in più: li aveva invitati a cantare per lui al Giubileo degli Artisti. Da Milano a Roma, con il loro coro. Tutto pronto, compresa l’autorizzazione dei giudici. Invece, due giorni prima, il ricovero. Gli avevano scritto anche allora. Lettere di vicinanza e di preghiera. E adesso, poco dopo quel grido lanciato da un compagno, Salvatore ha ripreso la penna in mano. La lettera è quella che vedete in foto. “Ci è giunta la notizia - ha scritto a nome di tutti i detenuti del reparto- che il nostro Santo Padre ci ha lasciati ed è tornato alla casa del Signore. Negli ultimi mesi ha portato avanti il Suo ministero con fatica ma non ha mai voluto staccarsi dai propri fedeli e da tutti quanti stanno vivendo da emarginati e oppressi. Ci ha donato la Sua presenza nel giorno della Resurrezione insieme a Gesù rinato dalle tenebre della morte e con le Sue parole ha rinnovato l’invito alla Fede e alla Speranza, esortandoci a credere che “la speranza non delude” e che “Gesù morto e risorto è il cuore della nostra Fede”. Papa Francesco ha voluto lasciare la vita terrena nel giorno dell’Angelo è proprio come un Angelo si è librato e si è ricongiunto all’amore di Dio Padre. Veglia su di noi - con questa invocazione si conclude la lettera - e guidaci nella nostra vita nuova, condotta nel Tuo nome e nel nome del Signore”. Firmato: “I detenuti del reparto La Nave di San Vittore, Milano”. Roma. “Io, innocente in carcere, e quell’abbraccio di Papa Francesco” di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 aprile 2025 La storia di Roberto Giannoni. L’ex bancario ha trascorso un anno in carcere ingiustamente. Il padre morì di crepacuore un mese prima del processo e la madre un mese dopo la sua assoluzione. Poi Giannoni divenne volontario in carcere e nel 2016 il Pontefice lo chiamò a raccontare la sua storia a piazza San Pietro: “Nessun Papa ha voluto così bene ai detenuti. Si sentiva portatore della croce”. “Non dimenticherò mai l’abbraccio di Papa Francesco in piazza San Pietro, davanti a 40 mila persone. In quel momento lo percepii come un mio fratello. Papa Francesco è sempre stato fratello dei detenuti e delle vittime delle ingiustizie, come me”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Roberto Giannoni, ex funzionario di banca, che nel 1992 finì al centro di un clamoroso caso di malagiustizia: venne arrestato nell’ambito di un’inchiesta antimafia e trascorse un anno in carcere da innocente (di cui 10 mesi in regime di 41 bis), prima di essere assolto dopo sei anni da ogni accusa. Nel frattempo perse il posto di lavoro, il padre morì di crepacuore un mese prima dell’inizio del processo e la madre un mese dopo la sua assoluzione, anche lei sfinita dalle sofferenze causate dalla vicenda giudiziaria. Nel 2000 Giannoni ha iniziato a fare il volontario in carcere con un’associazione e nel 2016 ha avuto modo di inviare la sua testimonianza alla Santa Sede, che stava organizzando il Giubileo del Volontariato. Tra le migliaia di testimonianze, Papa Francesco ne scelse cinque da far raccontare in piazza San Pietro. Tra queste anche quella di Giannoni. L’evento si tenne il 4 settembre 2016, davanti a 40 mila persone. Un’esperienza ancora ben impressa nei ricordi di Giannoni: “Quando sentii chiamare il mio nome, mi alzai per andare al centro del palco. Passai davanti al Papa, che era seduto, e gli feci un inchino. Lui mi sorrise, come se mi conoscesse. Ero molto emozionato e quel suo sorriso mi tranquillizzò molto. Raccontai la mia storia davanti a migliaia di persone. Poi quando mi girai per tornare indietro mi ritrovai il Papa dietro di me: si era alzato per venirmi incontro. Mi abbracciò come un amico e mi disse: ‘Bravo Roberto’. Gli risposi sussurrando: ‘Santo Padre, spero tanto che i miei genitori da lassù ci stiano guardando’”. “Quando ero in carcere piangevo dalla mattina alla sera”, racconta Giannoni. “Con il mio pianto arrivavo a commuovere gli altri detenuti: si fermavano immobili a vedermi piangere, senza sapere come comportarsi. Pensavo soprattutto ai miei genitori che erano a casa e che dovevano affrontare la quotidianità con le persone che conoscevano”. “Il mio primo compagno di cella fu capace di una umanità povera, sincera. Lui, che stava soffrendo, capì la mia sofferenza”, aggiunge Giannoni, che tornò in libertà dopo un anno di carcere, con la necessità di ricostruire da zero la sua vita. Il 16 dicembre 1998 il tribunale di Livorno assolse Giannoni da tutte le accuse (tra cui addirittura quella di associazione a delinquere di stampo mafioso), a distanza di sei anni, sei mesi e sei giorni dall’arresto. Due anni dopo, l’ex bancario iniziò l’attività di volontariato in carcere, durata ben 21 anni e fatta di quasi 600 visite negli istituti di pena. “Il conforto del compagno di cella, che mi ha aiutato a superare il pianto, mi è rimasto impresso. In carcere si perde il rumore delle macchine, il senso della velocità, gli odori, tutto. Io cercavo di portare ai detenuti queste cose, perché una volta che si esce dal carcere si entra in un mondo che non si riconosce più”, spiega. La morte di Papa Francesco ha profondamente addolorato Giannoni: “Frequentando il carcere ti accorgi che ci sono moltissime persone che hanno bisogno di essere aiutate, talmente tanto che pendono dalle tue labbra. Papa Francesco sentiva che i detenuti avevano bisogno di ascolto e di aiuto, ma che nessuno se ne fregava, a partire dalla politica. Anche perché, come dico sempre, il carcere non porta voti”. Il 26 dicembre Papa Francesco ha voluto aprire la seconda Porta Santa del Giubileo nel carcere di Rebibbia e la sua ultima uscita pubblica è avvenuta al carcere di Regina Coeli, in occasione del Giovedì Santo. Giannoni non ha dubbi: “Nessun Papa come Francesco ha voluto così bene ai detenuti. Francesco si sentiva portatore della croce e ha voluto portare questa croce così pesante fino agli ultimi giorni della sua vita”. Verbania. Lettera dal carcere a Francesco: “Grazie, Papa degli ultimi” di Cristina Pastore La Stampa, 26 aprile 2025 Lorenzo e Michele avevano incontrato il Pontefice nel 2022. Per loro quella giornata rappresenta un ricordo indelebile. Incontrare Papa Francesco, anche solo per pochi minuti, per tutti è stato qualcosa di speciale, per Lorenzo e Michele di più. Erano detenuti tre anni fa quando con una delegazione della comunità carceraria di Verbania lo avvicinarono durante un’udienza generale, e ancora adesso sono in cella. La notizia della morte di Francesco li ha raggiunti nella casa circondariale di Pallanza, dove hanno imparato a ricamare. L’invito del Papa ad andarlo a trovare era arrivato dopo che gli avevano mandato un loro lavoretto. “Ogni punto è un pensiero” gli avevano scritto. Per prepararsi all’incontro in Vaticano avevano fatto anche uno stendardo, che gli avevano portato in dono, ricamato con un milione e trecentomila punti, e dunque un contenitore di una miriade di riflessioni, speranze, angosce. Adesso che Papa Francesco non c’è più, avvertono il vuoto lasciato da colui che aveva sempre incarnato la vicinanza agli ultimi. E tra questi ci sono coloro che, come Lorenzo e Michele, devono saldare conti con la giustizia degli uomini. “Per noi quel momento fu una carezza al cuore: con poche parole ci ha incoraggiato e trasmesso consigli preziosi colmandoci di gioia” scrivono in una lettera consegnata alla direttrice del carcere di Verbania Claudia Piscione. “Vorrebbero - riporta la direttrice - che questo loro biglietto potesse unirsi ai segni di cordoglio e riconoscenza che stanno giungendo da tutto il mondo in memoria di papa Francesco”. “Con la sua scomparsa - scrivono Lorenzo e Michele - per noi viene meno un punto di riferimento. È stato il pontefice degli emarginati e della cura del creato. Ci ha insegnato il coraggio del cambio di rotta per trovare una via che non distrugga, ma coltivi, ripari e custodisca”. Al Papa Lorenzo e Michele rivolgono un ultimo grazie: lo ricorderanno nelle loro preghiere sapendo come il Santo Padre nelle sue dava precedenza ai fragili, i “beati”, secondo la buona novella, del Regno dei cieli. Lorenzo e Michele, che attraverso il carcere stanno cercando un’occasione di riscatto, sono tra gli 80 detenuti della casa circondariale di Pallanza impegnata nel costruire esempi di rieducazione e opportunità di inclusione sociale. Grazie a una rete di enti, associazioni, volontari e della cooperativa il Sogno si riesce a mettere in campo progetti di formazione professionale e inserimento lavorativo come la mensa sociale Gattabuia e il laboratorio Banda biscotti. Morire di pena oggi. In carcere Storie d’ingiustizia e vite spezzate di Annibale Gagliani Corriere del Mezzogiorno, 26 aprile 2025 “Ogni atto di ribellione esprime nostalgia per l’innocenza e una richiesta all’essenza dell’essere”. Albert Camus rifletteva nella costruzione de L’uomo in rivolta su un problema filosofico attuale per la giustizia italiana: il suicidio come atto liberatorio contro la profonda inquietudine. Una condizione trattata con sensibilità e sguardo incisivo da Alessandro Trocino nel suo ultimo saggio “Morire di pena - 12 storie di suicidio in carcere” (Editori Laterza). Un dato in costante crescita allarma il sistema carcerario nostrano: la media di oltre ottanta suicidi di detenuti all’anno su un campione di oltre cinquanta istituti penitenziari coinvolti, senza contare le numerose rivolte contro le guardie e la gestione precaria dell’ordine dovuta al sovraffollamento delle strutture. A ciò si affiancano le decine di gesti estremi delle guardie carcerarie, che pongono i riflettori su un senso di smarrimento che va al di là dello status. Trocino, giornalista del Corriere della Sera, esperto di cronaca nazionale e politica parlamentare, ripercorre le storie più sconcertanti della vita italiana dietro le sbarre, componendo una mappa di ingiustizie disseminate per tutto lo Stivale: Damiano Cosimo Lombardo nella Casa circondariale di Caltanissetta; Stefano Dal Corso nel carcere di Oristano; Fabiano Visentini nella casa circondariale di Montorio (Verona); Rodolfo Illich nel carcere di Udine; Umberto Paolillo nella casa di reclusione di Turi (Bari); Hafedh Chouchane nella casa circondariale di Modena; Sasà Piscitelli nel carcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno); Jordan Jeffrey Baby nel carcere di Pavia; Ben Sassi Fedi nella casa circondariale di Sollicciano (Firenze); Mohamed Andrea nel carcere di Salerno. Il libro si poggia sui pilastri intellettuali della letteratura e della filosofia che hanno analizzato le condizioni dei detenuti nella storia, invocando il dovere per lo Stato di permettere un percorso di reinserimento nella società produttiva - per citarne alcuni Albert Camus, Cesare Beccaria, Michel Foucault, Goliarda Sapienza e Franz Kafka. L’autore compone la sua ricerca confrontandosi con associazioni come Sbarre di Zucchero e Nessuno Tocchi Caino, realtà che vigilano sui diritti dei detenuti, osservando esperienze virtuose come i giornali scritti in carcere, fonte cristallina delle emozioni di chi non conosce libertà - CarteBollate (San Vittore), Ristretti Orizzonti (Padova). Trocino spiega il messaggio che intende trasmettere al lettore: “Scrivere di queste vite perdute non è solo un omaggio alla loro memoria, ma è anche un gesto politico, un modo per parlare di diritti negati e di tribunali, di norme contraddittorie e di burocrazia assassina, temi che ci riguardano tutti da vicino. Perché molte di quelle che ho raccontato sono storie di malagiustizia. Di inerzie, ritardi, omissioni, errori, superficialità, ignoranza e di tutto quel grumo di inefficienza e sufficienza che ci accompagnano nella nostra vita civile e che, in quel mondo a parte che è il carcere, finiscono per moltiplicarsi e causare drammi e disperazione”. Corruzione, povertà, lavoro e migranti: gli altri temi scomodi di Francesco di Antonio Grana Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2025 Ignorati dai potenti che ora lo celebrano. Nel suo pontificato il Papa ha saputo parlare senza mezze misure ai governanti del mondo. Compresi quelli che lo applaudono pur essendo agli antipodi del suo pensiero. Quasi tutti i potenti del mondo hanno onorato la memoria di Papa Francesco. Di ora in ora, subito dopo la notizia della sua morte, le agenzie di stampa sono state inondate dalle dichiarazioni di apprezzamento dei politici di ogni schieramento per il Pontefice più mediatico della storia. Ma Bergoglio è stato anche un uomo che ha saputo parlare con estrema chiarezza di temi scomodi, soprattutto per chi governa le sorti del mondo, bastonando i potenti senza usare mezze misure, rifiutando l’ipocrita linguaggio politicamente corretto. Tornano alla mente le durissime parole di condanna della corruzione, degli interessi di partito, dei dottori del dovere e dei sepolcri imbiancati che Bergoglio pronunciò nell’omelia della messa alla quale, il 27 marzo 2014, nella Basilica Vaticana, parteciparono 492 parlamentari italiani. Applausi e standing ovation sono arrivati anche da chi è agli antipodi dal magistero del Pontefice argentino, a dimostrazione che l’ipocrisia e l’opportunismo non guardano in faccia alla coerenza. “Ora che non c’è più”, ha affermato il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, “Papa Francesco viene universalmente celebrato da tutti. Nello scomposto teatro dell’ipocrisia dei vaniloqui, le celebrazioni coinvolgono anche chi ha continuato a ignorare i suoi messaggi di dolore per le ingiustizie nel mondo, i suoi moniti contro le parole di odio e la logica della guerra”. E ha aggiunto: “Il modo migliore per ricordare Papa Francesco è non lasciare cadere nel vuoto i suoi insegnamenti, la sua personale testimonianza. Il modo migliore per onorarlo è essere scomodi, con azioni ferme e scelte conseguenti”. Ci sono quattro temi che possono evidenziare bene la distanza tra il magistero di Bergoglio e i leader politici che oggi lo applaudono, senza, però, averlo condiviso in vita: corruzione, povertà, lavoro e soprattutto migranti. Corruzione - Francesco, il 13 marzo 2013, è stato eletto anche per sconfiggere la corruzione in Vaticano. Nell’intervista a ilfattoquotidiano.it in occasione del decennale del suo pontificato, Bergoglio rivelò che era stata proprio la corruzione a farlo soffrire maggiormente nei suoi dieci anni di regno: “Non parlo solo della corruzione economica, dentro e fuori il Vaticano, parlo della corruzione del cuore. La corruzione è uno scandalo. A Napoli, nel 2015, dissi che spuzza. Sì, spuzza. La corruzione fa imputridire l’anima. Bisogna distinguere il peccato dalla corruzione. Tutti siamo peccatori, tutti! Anche il Papa e si confessa ogni quindici giorni. Ma non dobbiamo scivolare dal peccato alla corruzione. Mai! Nella Chiesa, come nella politica e nella società in generale, dobbiamo sempre mettere in guardia dal grave pericolo della corruzione. È molto difficile che un corrotto possa tornare indietro: una tangente oggi e una domani. Per questo i mafiosi sono scomunicati: hanno le mani sporche di soldi insanguinati. Fanno affari con le armi e la droga. Uccidono i giovani e la società. Uccidono il futuro. Bisogna essere chiari: nella Chiesa non c’è posto per i mafiosi! I beati Pino Puglisi e Rosario Livatino non sono scesi a patti con la mafia e perciò hanno pagato con le loro vite”. Povertà - Il debutto del pontificato di Francesco mise subito in crisi i privilegi di cardinali e vescovi della Curia romana: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Un chiarissimo programma di governo contenuto nel nome scelto come Papa. Il richiamo a san Francesco d’Assisi, infatti, voleva sintetizzare proprio questa vicinanza agli ultimi, a coloro che sono scartati dalla società, alle periferie, non solo geografiche, ma esistenziali. Lo rivelò subito lo stesso Bergoglio: “Alcuni non sapevano perché il vescovo di Roma ha voluto chiamarsi Francesco. Alcuni pensavano a Francesco Saverio, a Francesco di Sales, anche a Francesco d’Assisi. Io vi racconterò la storia. Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero”. Indimenticabile una sua celebre massima: “Ricordiamoci che è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi: niente di più. Soltanto in questo è lecito guardare dall’alto in basso. Ma noi cristiani dobbiamo avere lo sguardo di Cristo, che abbraccia dal basso, che cerca chi è perduto, con compassione. Questo è, e dev’essere, lo sguardo della Chiesa, sempre, lo sguardo di Cristo, non lo sguardo condannatore”. Lavoro - Il tema del lavoro è stato fondamentale nel magistero di Francesco. Nella sua visita pastorale a Cagliari, la seconda in Italia, il 22 settembre 2013, Bergoglio denunciò con forza “una sofferenza che uno di voi ha detto che “ti indebolisce e finisce per rubarti la speranza”. Una sofferenza - la mancanza di lavoro - che ti porta - scusatemi se sono un po’ forte, ma dico la verità - a sentirti senza dignità! Dove non c’è lavoro, manca la dignità! E questo non è un problema della Sardegna soltanto - ma c’è forte qui! - non è un problema soltanto dell’Italia o di alcuni Paesi di Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia; un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro. Dio ha voluto che al centro del mondo non sia un idolo, sia l’uomo, l’uomo e la donna, che portino avanti, col proprio lavoro, il mondo. Ma adesso, in questo sistema senza etica, al centro c’è un idolo e il mondo è diventato idolatra di questo “dio-denaro”. Comandano i soldi! Comanda il denaro! Comandano tutte queste cose che servono a lui, a questo idolo. E cosa succede? Per difendere questo idolo si ammucchiano tutti al centro e cadono gli estremi, cadono gli anziani perché in questo mondo non c’è posto per loro! Alcuni parlano di questa abitudine di “eutanasia nascosta”, di non curarli, di non averli in conto… “Sì, lasciamo perdere…”. E cadono i giovani che non trovano il lavoro e la loro dignità. Ma pensa, in un mondo dove i giovani - due generazioni di giovani - non hanno lavoro. Non ha futuro questo mondo. Perché? Perché loro non hanno dignità! È difficile avere dignità senza lavorare. Questa è la vostra sofferenza qui. Questa è la preghiera che voi di là gridavate: “Lavoro, lavoro, lavoro”. È una preghiera necessaria. Lavoro vuol dire dignità, lavoro vuol dire portare il pane a casa, lavoro vuol dire amare! Per difendere questo sistema economico idolatrico si instaura la “cultura dello scarto”: si scartano i nonni e si scartano i giovani. E noi dobbiamo dire no a questa ‘cultura dello scarto’. Noi dobbiamo dire: “Vogliamo un sistema giusto! Un sistema che ci faccia andare avanti tutti”. Dobbiamo dire: “Noi non vogliamo questo sistema economico globalizzato, che ci fa tanto male!’” Al centro ci deve essere l’uomo e la donna, come Dio vuole, e non il denaro!”. Migranti - Francesco scelse Lampedusa, l’8 luglio 2013, come prima visita apostolica in Italia del suo pontificato. Parole durissime quelle pronunciate durante l’omelia della messa nell’isola porta d’Europa: “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta per favore”. E aggiunse: “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati” responsabili senza nome e senza volto”. E ancora: “Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”. Sul tema dei migranti, Francesco ha ripetuto più volte: “Desidero riaffermare che la nostra comune risposta si potrebbe articolare attorno a quattro verbi fondati sui principi della dottrina della Chiesa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. Il Papa non si è mai stancato di ribadire con estrema chiarezza questa sua posizione, soprattutto ricevendo i leader che attuavano politiche diametralmente opposte alle sue sul tema dei migranti. Bergoglio ha sempre avuto il coraggio di non arretrare mai di un millimetro dalle sue posizioni, senza timore di esprimerle a voce alta, sottolineando anche l’ipocrisia dei suoi ascoltatori. Emma Bonino: “Francesco mi disse di continuare la lotta per migranti e detenuti” di Umberto Di Giovannangeli L’Unità, 26 aprile 2025 Francesco è stato anche il “Papa dei gesti”. Molto spesso imprevisti e imprevedibili. Spiazzanti. Come quel 5 novembre 2024, quando il Papa era sulla strada di ritorno dalla Gregoriana, dove in mattinata aveva incontrato la comunità accademica, e a un tratto la nota Fiat 500L bianca, invece di proseguire dritto per Casa Santa Marta ha deviato verso una via del centro di Roma. Francesco ha voluto fare sosta a casa di Emma Bonino. Una visita del tutto a sorpresa. Al termine il Papa, una volta uscito dal portone dell’abitazione, è stato avvicinato da alcune persone incuriosite che gli hanno domandato in che condizioni avesse trovato Bonino. “Benissimo”, ha risposto il Pontefice, “lei è sempre cordiale”. Quell’indimenticabile incontro, la leader storica dei Radicali, già ministra degli Esteri e Commissario europeo tra il 1994 e il 1999, per gli Aiuti umanitari, l’immortalò così su X: “Stamane, con enorme sorpresa e piena di emozione, Sua Santità mi ha fatto una graditissima visita”, si legge. “Di Papa Francesco emerge sempre l’aspetto umano straordinario. Già dai presenti che ha voluto donarmi, un meraviglioso mazzo di rose e dei cioccolatini. Sono rimasta molto colpita dalla forza e comprensione dimostratami già dal suo saluto ‘cerea’ tipico piemontese, per le nostre origini comuni. E avermi detto di essere ‘un esempio di libertà e resistenza’ mi ha riempito di gioia”. Una gioia che adesso s’intreccia Indissolubilmente con il dolore per la scomparsa del pontefice: “Ho accolto con profonda commozione la notizia della morte di Papa Francesco e con un enorme senso di vuoto. La tristezza è mitigata dal fatto che Papa Francesco, anche se duramente provato dalla malattia, fino all’ultimo ha voluto e saputo esercitare in pienezza la sua funzione, senza risparmiarsi, e con gioia. Rimarrà per me e per tanti come me la sua instancabile azione di difesa della vita e dei diritti dei tanti dimenticati o ignorati o discriminati dagli uomini, come i detenuti e i migranti. Su questo in particolare, oltre che sui temi francescani dell’ambiente, anche per noi politici laici la sua predicazione è stata un imprescindibile punto di riferimento e di incontro. Porterò per sempre nel cuore con profonda riconoscenza l’emozione del nostro ultimo incontro, quando sorprendendomi venne a visitarmi in un momento particolarmente faticoso della mia malattia, infondendomi coraggio e speranza”. È con questo lungo e toccante messaggio sul suo profilo X che Emma Bonino, ha dato il suo addio a Papa Francesco. In passato Francesco ed Emma Bonino si sono incontrati più volte, a partire dal 4 novembre 2015 quando l’ex ministra degli Affari esteri aveva preso parte all’udienza generale del mercoledì in Aula Paolo VI. Insieme al procuratore aggiunto di Roma, Michele Prestipino, e a Maria Rita Parsi, Bonino aveva presentato le nuove iniziative a favore dei bambini profughi da parte della fondazione “La fabbrica della pace”. Lo stesso anno il Papa aveva telefonato alla esponente politica ammalata di tumore ai polmoni, per informarsi sulle sue condizioni di salute. L’8 novembre 2016 il Papa l’aveva poi ricevuta in udienza privata nel Palazzo Apostolico. La Sala Stampa vaticana riferiva allora che “il colloquio si è focalizzato soprattutto sui temi dei flussi migratori, dell’accoglienza ai migranti e della loro integrazione”. Proprio per l’opera a favore dei migranti, Papa Francesco aveva elogiato la parlamentare e fondatrice di + Europa durante un incontro informale a Santa Marta con il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, sempre nel 2016. Emma Bonino, disse di Francesco in quell’occasione, “ha offerto il miglior servizio all’Italia per conoscere l’Africa”. Parlando con l’Unità, Bonino ricorda con emozione quel 5 novembre di un anno fa, ll giorno della visita di Francesco e il messaggio, profetico, che le lasciò accomiatandosi: “Sono vecchio, morirò, continua tu le nostre battaglie”. Le battaglie sulle carceri, sui migranti. Idee di libertà, di apertura, di inclusione, di umanitarismo, che hanno unito Francesco ed Emma, così diversi e così vicini in tante battaglie di civiltà. Quale definizione darebbe di Papa Francesco e del suo pontificato pensando anche a quell’incontro del 5 novembre? Il Papa ha condiviso con me due o tre opinioni su alcuni temi, in particolare carceri e su immigrati. Su altri temi avevamo opinioni totalmente diverse, come sull’aborto e l’eutanasia. Quando è venuto a trovarmi, improvvisamente, abbiamo parlato soprattutto di carceri e immigrati, delle tante guerre colpevolmente ignorate, questioni su cui Papa Francesco si è sempre speso con coraggio e amore verso il prossimo che prescindeva da qualsiasi appartenenza etnica o religiosa. Non mi interessa aggiungere la mia alle innumerevoli definizioni che in questi giorni sono state appiccicate al Papa defunto, tantomeno unirmi al coro degli ipocriti che hanno scoperto le sue “virtù” postume ignorando bellamente le sue indicazioni da vivo. Sui diritt dei tanti dimenticati o ignorati o discriminati dagli uomini, come i detenuti e i migranti, non siamo stati “Fratelli tutti”. I miei, che sono di Brà, mi hanno detto che la sua famiglia, che è di Asti, praticamente attaccati, è quella che sa di più della storia della famiglia Bergoglio, quando sono partiti con la nave, vivendo la condizione di immigrati, che Francesco ha conosciuto di persona. L’ha vissuta e non solo visitata. Due temi, le carceri e i migranti, che hanno caratterizzato il pontificato di Bergoglio fino ai suoi ultimi giorni di vita, basti pensare alla visita ai detenuti del carcere romano di Regina Coeli, giovedì scorso. Arrivato poco prima delle 15, trascorse circa mezz’ora nel penitenziario: “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo, la lavanda dei piedi, in carcere. Quest’anno non posso farlo, ma posso e voglio essere vicino a voi. Prego per voi e per le vostre famiglie”, disse il Pontefice. Sulla difesa dei più indifesi Francesco ha parlato molto, ma quanto è stato ascoltato, senatrice Bonino? Zero. Almeno a me questo pare, che non sia stato minimamente ascoltato, né sulla questione carceri né su quella degli immigrati. Almeno per quanto riguarda i potenti della Terra, o sedicenti tali, Francesco ha predicato nel deserto. Mentre parliamo, pensando alla sua famiglia, mi è venuto in mente che, sulla storia degli immigrati, Papa Francesco ha esperienza diretta, il ricordo di quando da bambino lo piazzarono sulla nave con i suoi genitori. Tutti si sono cimentati in aggettivazioni. Chi l’ha definito il Papa del popolo, chi il Papa degli umili etc. Non c’è molto di “coccodrillesco” in questi riconoscimenti postumi? Ma è sempre stato così e sempre lo sarà. Quando qualcuno muore si espande una dose massiccia di ipocrisia. Che sia lui o Pannella o chi per esso. Chiunque dopo morto viene sempre santificato. Una cosa è certa: nella sua geopolitica, Francesco più che alla vecchia Europa ha guardato ai continenti giovani: l’America latina, l’Africa, l’Asia. Continenti che lei, senatrice Bonino, ha visitato più volte da parlamentare, ministra degli Esteri e Commissaria europea. Penso che sia uno dei temi che più ci ha accomunato. La mia esperienza in Africa, soprattutto, e anche la consapevolezza che è ripresa la guerra in Sudan. Questo ci ha avvicinato tantissimo. Lui sapeva delle mie avventure in Africa perché l’Africa era piena di comboniani che lo informavano. Senza addentrarci in un “toto papabili”, c’è l’idea di un Papa nero, africano come successore di Francesco. Cosa potrebbe significare per la Chiesa? Questo non lo so. Però è sicuro che se non è una suora, se fosse un africano non mi parrebbe questa grande sorpresa. Anche in questa occasione, l’Italia non si è fatta mancare polemiche politiche. Il Governo ha decretato cinque giorni di lutto nazionale, dentro i quali cade anche il 25 Aprile, con le celebrazioni della Liberazione dal nazifascismo. Sono polemiche veramente assurde e francamente faccio fatica a comprenderne le ragioni della loro persistenza. Sono anche un segno del degrado a cui è giunta la politica nel nostro Paese? Non esageriamo tutte le volte. Il degrado c’è già di per sé, senza bisogno di tirarlo in ballo tutte le volte e su tutte le questioni. Il problema è come ne verremmo fuori, se è possibile. Il fascismo mi ha sedotto da giovane, poi ho scoperto la libertà critica di Marco Erba Avvenire, 26 aprile 2025 La Festa della Liberazione è una ricorrenza sempre nuova, sempre attuale, anche dopo ottant’anni. Ogni totalitarismo, di qualsiasi colore esso sia, è infatti la negazione di quell’umano che ha come fondamento la libertà di dire chi si è con le parole, con le azioni, con le scelte. Per questo la Liberazione va sempre celebrata: perché è una festa grazie alla quale, ogni anno, abbiamo l’occasione di riscoprire la nostra umanità, la nostra essenza di donne e uomini liberi. Ma il fascismo esercita ancora un grande fascino su molte persone, moltissime delle quali giovani o giovanissime. Me ne accorgo non solo dai fatti di cronaca, ma anche tutti i giorni, tra i banchi di scuola. È un fenomeno diffuso per tutta la penisola, da Sud a Nord, da Est a Ovest. Quando sento dire che “in Italia ci vorrebbe Mussolini di nuovo al governo” mi viene da ridere. Perché non Napoleone, o Giulio Cesare, o Alessandro Magno, o Ottaviano Augusto? Il passato è passato, ogni ipotesi di copia e incolla è semplicemente surreale. Mi viene da sorridere, ma non troppo, anche quando sento dire che “il Duce ha fatto pure cose buone”. Ma certo che le ha fatte; com’è possibile non combinare nulla di positivo in vent’anni di governo? Anche sotto il regime sovietico la metropolitana di Mosca fu sviluppata in maniera molto efficiente. Ma giustificare lo stalinismo o il fascismo sulla base delle linee metropolitane o della bonifica dell’Agro Pontino è pura follia. Se un padre padrone reclude in casa sua moglie e i suoi figli, è violento e oppressivo con loro, ma, essendo un ottimo cuoco, serve loro piatti prelibati, chi oserebbe dire che è un buon padre perché fa anche cose buone? Quando invece sento evocare il nazismo e il fascismo come soluzioni forti, che potrebbero risolvere molti problemi, mi preoccupo. Come si può evocare convintamente regimi che hanno cancellato dignità e umanità in nome di una migliore incisività di governo, peraltro soltanto presunta? Poi però, per onestà, sono costretto a fermarmi e a pensare a me stesso adolescente, tra la fine delle medie e i primi anni delle superiori. Devo confessarlo: anche io, allora, inneggiavo al duce e al fascismo. Perché? Perché ero fragile. Mi sentivo spesso inadeguato al mondo, non all’altezza delle situazioni e degli altri. Vissi un periodo di chiusura in casa, che i miei migliori amici seppero rompere. Subivo piccoli soprusi; forse non si può parlare di bullismo, ma di certo venivo preso di mira da quelli che vedevo come i più forti, quelli del cui gruppo io non avrei mai fatto parte. Così inneggiavo al fascismo, un regime duro e forte, come io non ero e avrei voluto essere. Come ne sono uscito? Grazie a due persone. La prima è un prof di lettere che, in una discussione in classe, mi chiese perché mi dichiarassi neofascista. Io rimasi in silenzio: non sapevo cosa rispondere. Quel prof non mi urlò contro, non perse la pazienza, non usò la sua autorità schiacciandomi con la forza (quello lo facevano i fascisti), ma mi sfidò sul terreno tipico della democrazia: il pensiero critico, la discussione, il rendere ragione di ciò che si afferma. Ne uscii sconfitto: dovetti fare i conti col fatto che il mio fascismo era una maschera inconsistente. La seconda persona fu l’allora presidente delle Acli della mia città, che mi invitò a partecipare a un viaggio in Polonia organizzato proprio dalla sua associazione. Fu ad Auschwitz che cambiò tutto, per sempre, perché lì vidi l’orrore: i mucchi di capelli, le valigie, le protesi strappate ai deportati. Le camere a gas, i forni crematori. Ne uscii annichilito. Quelli erano gli alleati del duce e del fascismo. Il fascismo aveva introdotto anche in Italia le aberranti leggi razziali. Il fascismo aveva spedito lì tante persone. Dopo Auschwitz mi vergognai delle mie affermazioni passate e imparai a pensare mille volte e a studiare bene prima di parlare. Perché le parole possono ferire, possono calpestare la dignità dei vivi e dei morti. Cosa ho imparato da tutto questo? Che il neofascismo tra i giovani non si può combattere solo con la repressione. Se gridi a un adolescente che le sue idee sono aberranti e anticostituzionali quello fa peggio e le afferma, per reazione, con ancora più forza. Ma il neofascismo non si combatte neanche strumentalizzando il 25 aprile, trasformando la festa della Liberazione in una festa di parte. Il 25 aprile è una ricorrenza fondativa di tutti: ricorda la fine della barbarie, l’inizio della democrazia. I partigiani erano di ogni colore, non solo comunisti. Sarebbe bello vedere in piazza più bandiere tricolori che bandiere di partito; sarebbe bello rendere il 25 aprile una festa inclusiva, dove ritrovarci tutti sui valori essenziali del nostro vivere insieme. Ridurre il 25 aprile a una mera clava contro il governo di turno è strumentale, divisivo, del tutto inutile. Il neofascismo si combatte in altri modi: ne suggerisco due. Il primo è la diffusione del senso critico, che si fonda sul dibattito, sull’esporsi con le proprie idee, sulla capacità di argomentare. In questo la scuola, chiamata a essere meno nozionistica e più capace di far crescere sensibilità e competenze, ha un ruolo fondamentale. Il secondo modo è raccontare storie, perché le storie generano empatia e consapevolezza. Sono storie le testimonianze e sono storie i libri di scuola e i saggi. Sono storie i documentari e sono storie i romanzi. Noi esseri umani siamo intessuti di narrazione fin dalle origini: una narrazione appassionata e insieme intellettualmente onesta, non può che far crescere e aiutarci in tempi, come i nostri, in cui certe forme di barbarie sembrano fare nuovamente capolino. Se il Governo non rispetta il diritto alla ricerca e alla cura di Filomena Gallo* La Stampa, 26 aprile 2025 Maurizio Fravili ha 68 anni, è malato di Parkinson dal 2020, nel 2023 ha scritto ad Agnete Kirkeby chiedendo di poter accedere alla fase clinica sperimentale delle ricerche per la cura del Parkinson in Svezia. Ma la risposta è stata che possono accedere solamente i pazienti inglesi e svedesi. Maurizio, alla luce del peggioramento della sua salute e con la speranza che presto arrivi una cura, il 1° marzo 2024 ha scritto al Ministro della Salute chiedendo che anche in Italia la ricerca possa utilizzare gli embrioni non idonei per una gravidanza, per trovare cure innovative e speranze per chi soffre perché in Italia questa possibilità è vietata. È trascorso più di un anno e il ministro Orazio Schillaci non ha mai risposto a Maurizio. Però questo Governo intende intervenire con una norma che renda l’embrione adottabile. Ma gli embrioni non sono persone, sono cellule. In Italia è l’evento nascita che conferisce diritti e doveri. I bambini in stato di abbandono sono adottabili, non le cellule. Le cellule si donano per un uso eterologo oppure per la ricerca. Il Ministro Sirchia nel 2004 identificava due categorie di embrioni tra quelli crioconservati prima del 2004: quelli in attesa di futuro utilizzo e quelli dove le coppie erano irreperibili o firmavano un documento di abbandono. Gli embrioni abbandonati, 3.700 quelli prodotti prima della legge 40, dovevano essere trasferiti presso la Biobanca di Milano per incentivare gli studi sulla crioconservazione. Per il suo allestimento sono stati spesi oltre 400mila euro, ma gli embrioni sono ancora presso i centri di PMA e non sono mai stati trasferiti. Per legge, non possono essere usati per la procreazione assistita con eterologa totale, perché le norme sulla sicurezza sono successive alla loro produzione. Non possono essere utilizzati per la ricerca, perché la legge 40 lo vieta. Ma soprattutto, contrariamente a quanto vuole fare il Governo, non possono essere adottati. Nell’ordinamento italiano e in quello europeo, le cellule - comprese quelle embrionali - sono equiparate ai tessuti. Se non idonee per una gravidanza, possono essere donate per la ricerca, con il consenso della coppia, ma non possono avere personalità giuridica. Attribuire personalità giuridica agli embrioni significherebbe modificare l’articolo 1 del Codice Civile, che lega tale riconoscimento alla nascita. Un passo del genere metterebbe in discussione l’intero impianto normativo su cui si fondano i trapianti, le tecniche di procreazione medicalmente assistita e persino il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Nel resto del mondo, gli embrioni non idonei vengono utilizzati nella ricerca scientifica. In alcuni casi, la ricerca ha già raggiunto la fase clinica. Rispettare il diritto alla scienza, e quindi il diritto alla cura per le persone affette da patologie gravi, dovrebbe essere una priorità per qualunque istituzione. Per questo motivo abbiamo scritto anche noi come Associazione Luca Coscioni al Ministro della Salute, Orazio Schillaci, chiedendo che venga emanato un decreto che destini gli embrioni abbandonati o non idonei per una gravidanza alla ricerca scientifica, garantendo così che non vadano sprecate risorse preziose, e che si contribuisca allo sviluppo di nuove cure e conoscenze. La politica non può continuare a ignorare questi temi. Serve trasparenza, responsabilità e un impegno concreto per garantire il diritto alla salute, alla scienza e all’autodeterminazione delle persone. Per Maurizio e per tutti coloro che sperano nella ricerca per una cura. *Avvocata e Segretaria Nazionale dell’Associazione Luca Coscioni Migranti. La libertà per l’attivista Maysoon Majidi: “Un bisogno, come il cibo e l’acqua” di Marika Ikonomu Il Domani, 26 aprile 2025 Dopo oltre 300 giorni di reclusione, perché accusata di aver aiutato a gestire l’imbarcazione che ha portato 77 migranti in Italia, è stata assolta per non aver commesso il fatto. Essere libere non significa solo non essere più in carcere: anche ora che non è più reclusa, “sente la mancanza di libertà”. Ha un sogno: mettere in luce la criminalizzazione dei rifugiati attraverso l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione. “La libertà è una parola che non può essere descritta. So solo che è una necessità, come si ha bisogno di acqua e cibo”. Maysoon Majidi, attivista per i diritti umani e regista curdo-iraniana, parla della libertà dopo aver passato oltre 300 giorni di carcere in Italia. Fuggita dall’Iran con il fratello per la sua attività politica, ha vissuto prima nel Kurdistan iracheno per poi andare in Turchia, dove si è imbarcata per raggiungere le coste calabresi. Ma appena arrivata in Italia, il 31 dicembre 2023, è stata arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: due persone su 77 passeggeri - poi diventate irreperibili - l’hanno inizialmente accusata di aver aiutato chi guidava l’imbarcazione. Nonostante gli accusatori non siano più stati sentiti, gli inquirenti hanno basato l’impianto accusatorio su queste testimonianze. Impianto che è stato sgretolato dal collegio del tribunale di Crotone, che lo scorso 5 febbraio ha assolto Majidi perché non ha commesso il fatto. La detenzione e l’attivismo - Dal primo giorno l’attivista di 29 anni, ha definito le accuse della procura ingiuste: “Non mi aspettavo che in Italia si cercasse un trafficante su una barca di rifugiati”, aveva detto a Domani. Il corpo è diventato esile per i ripetuti scioperi della fame fatti in carcere, che l’hanno portata a pesare 38 chili. Ma ha sempre rivendicato davanti ai giudici e di fronte alla procura la sua estraneità e ha ostinatamente smontato le accuse degli inquirenti, una a una. Oltre ad aver messo in luce le falle di un sistema che l’ha accusata, senza averle garantito i diritti che le spettavano: il diritto alla difesa e a conoscere le incriminazioni a suo carico in una lingua conosciuta. Per Majidi essere libere non significa solo non essere più in carcere: anche ora che non è più reclusa, “sente la mancanza di libertà”. Uscita dalla cella “con uno sguardo diverso sul mondo” e senza alcuna pretesa di portare una trasformazione, ha però un sogno: “Fare qualcosa per l’articolo 12” del Testo unico sull’immigrazione, la norma che ogni anno criminalizza centinaia di persone migranti, accusate di aver fatto parte dell’equipaggio delle imbarcazioni che arrivano in Italia. L’articolo 12 - Secondo la narrazione del governo, sarebbero coinvolte nel traffico, ma spesso non hanno contribuito alla gestione della barca e, altrettanto spesso, hanno materialmente guidato senza avere nulla a che fare con il traffico di esseri umani. Dopo la strage di Cutro, il decreto Piantedosi ha ulteriormente aggravato la pena. Ora il rischio è di essere condannati fino a sedici anni di carcere e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo. Amnesty International chiede che l’articolo 12 venga adeguato al protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, adottato nel 2000 e ratificato dall’Italia, che riconosce il traffico di esseri umani solo quando vi è un vantaggio economico. E che vengano introdotti canali di accesso legali e sicuri in mancanza dei quali i viaggi irregolari e il contatto con i trafficanti sono le uniche vie possibili per chi cerca di fuggire da contesti di crisi.