Ottant’anni di libertà, ma il carcere è ancora fuori dalla Costituzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2025 La Liberazione dal nazifascismo e quindi la fine dell’autoritarismo coincidono inevitabilmente con il declino graduale di un modello di carcere tipico delle dittature: un luogo senza limiti al dominio del potere, dove l’esistenza dei diritti fondamentali è negata. Il lento processo di costituzionalizzazione, tra alti e bassi, fatica ancora oggi a compiersi pienamente e conserva l’eco di quella visione fascista in cui, in carcere, il potere non solo è legittimato, ma è chiamato a rivelare il suo volto più spietato. L’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo non è solo una celebrazione della riconquistata libertà, ma un monito a interrogarsi sulle istituzioni che, come il carcere, hanno resistito al cambiamento. Se la dittatura cadde nel 1945, il suo dna autoritario continuò a pulsare nelle celle, nei regolamenti, nella filosofia stessa della pena. Il carcere fascista, figlio del Codice Rocco e del Regolamento del 1931, sopravvisse alla guerra, alla Resistenza, alla nascita della Repubblica, diventando un simbolo di continuità tra due Italie apparentemente opposte. Per arrivare a un cambiamento, bisognerà aspettare il 1975 con la prima riforma dell’ordinamento penitenziario. Negli anni Venti, i tentativi di ammodernamento dell’ordinamento carcerario - avviati durante il primo dopoguerra - subirono un brusco stop. Con il regio decreto del 5 aprile 1928, la “Direzione generale delle carceri e dei riformatori” divenne “Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena”. Arrivarono il Codice penale, firmato da Alfredo Rocco nel 1930, e il nuovo regolamento carcerario del 18 giugno 1931: una traduzione in carne viva dell’ideologia mussoliniana, destinata a tener banco fino al 1975. Il regolamento carcerario del 1931 poggiava su uno schema inflessibile di punizioni e premi, elencando nel dettaglio qualsiasi infrazione e la sanzione corrispondente. Erano proibiti e puniti, ad esempio, i reclami collettivi, il contegno irrispettoso, le parole blasfeme, i giochi, il possesso di carte da gioco, i canti, il riposo in branda durante il giorno senza motivo, il rifiuto di partecipare alle funzioni religiose, persino il possesso di un ago o di un mozzicone di matita, o la lettura di testi politici o con immagini di nudo. Agli ergastolani era consentito scrivere non più di due lettere a settimana ai familiari, sempre a paglia e matita in custodia delle guardie; la stessa persona non poteva riceverne più di una. Diventava obbligatorio indossare la divisa del carcere - a righe per i condannati definitivi - e presentarsi in piedi, con la branda perfettamente rifatta, ogni volta che le guardie entravano per la conta. I giornali politici erano banditi, e ogni quotidiano o settimanale ammesso veniva pesantemente censurato. I colloqui con i parenti avvenivano dietro reti metalliche, sempre sotto orecchio di un agente. Le punizioni spaziavano dall’ammonizione del direttore all’isolamento in cella, con sanzioni come il divieto di fumare, di scrivere, di lavarsi o di radersi per giorni, la sospensione dei colloqui, il ritiro del pagliericcio, fino al “letto di contenzione”, alla camicia di forza e alla cella imbottita. Molte violazioni scatenavano anche denunce penali, con conseguente allungamento della pena. Gli “incentivi” si limitavano all’accesso al lavoro interno o al trasferimento in un carcere aperto. Ogni detenuto veniva schedato in una “cartella biografica” che raccoglieva non solo il suo comportamento in carcere, ma ogni dettaglio della vita familiare: precedenti penali, casi di pazzia, alcolismo, sifilide, suicidio o prostituzione tra i congiunti, condizioni economiche e, ovviamente, le idee politiche di ciascun parente. A questa stretta sorveglianza seguì, il 9 maggio 1932, la legge n. 527, composta di soli cinque articoli sui lavori dei detenuti, sulla ristrutturazione edilizia, sulla contabilità carceraria e sull’assistenza. Mancando un piano di finanziamento dedicato, i lavori edili vennero affidati ai modesti stanziamenti del ministero dei Lavori pubblici, insufficienti a risolvere i problemi strutturali. Il carcere non era più luogo di redenzione, ma di annientamento. Ogni detenuto, politico o comune, diventava un numero, un corpo da piegare. Le carceri in fiamme - La fine del fascismo viene sancita anche da evasioni e rivolte carcerarie. Come si apprende dal libro “Camosci e girachiavi: Storia del carcere in Italia” di Christian G. De Vito, nel luglio del 1943, a Torino, 300 evasi dalle Nuove; a Milano, i colpi dei fucili in San Vittore; a Roma, sangue a Regina Coeli; a Bari, 19 morti sotto il fuoco dell’esercito. Le carceri esplodevano, specchio di un Paese in lotta. I partigiani liberavano detenuti politici, come a Spoleto e Belluno, mentre l’8 settembre 1943 segnava l’inizio di una nuova resistenza dietro le sbarre. Ma la Liberazione non portò la rivoluzione attesa. Il 22 luglio 1945, a Regina Coeli, centinaia di detenuti si ribellarono chiedendo amnistia e dignità. Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, visitò il carcere romano promettendo riforme: “Qui non c’è un carcere, ma un campo di concentramento”. Ma subito dopo l’apparente simpatia dispose circolari e decreti che irrigidirono la disciplina. La disposizione del 14 agosto 1945 invocava “ordine e disciplina” e vietava la libera circolazione dei detenuti; il decreto del 21 agosto militarizzava il Corpo degli agenti di custodia, cementando un’anima militare nel sistema penitenziario. La disciplina degli agenti, già severamente definita dal Regolamento del 1937, ne risultò rafforzata. La repressione di Togliatti - Scoppiarono proteste e la repressione si abbatté. Della stessa rivolta di Regina Coeli, Togliatti diede in pubblico una lettura opposta a quella che aveva potuto riscontrare nei fatti: la descrisse come una protesta organizzata da elementi fascisti e volta al sovvertimento del nuovo Stato democratico. Così avvenne anche per la rivolta di Pasqua del 1946 a San Vittore (definita “La Pasqua rossa”), nel corso della quale rimasero uccisi quattro detenuti e un giovane agente penitenziario, che con il suo intervento bloccò i reclusi e permise l’arrivo dei rinforzi, circa un migliaio tra poliziotti, carabinieri e militari. Al termine, il carcere risultò completamente distrutto, oltre 100 detenuti rimasero feriti e tutti i reclusi ritenuti responsabili furono trasferiti in massa in altri stabilimenti penitenziari. Per un vero cambiamento contro le logiche autoritarie ereditate dal fascismo, ci volle la riforma penitenziaria del 1975, la quale introdusse principi di trattamento rieducativo, abolendo la sorveglianza militare diretta e privilegiando opzioni alternative alla detenzione. Ma nei fatti le carceri nostrane soffrono ancora di quel retroterra culturale. Oggi, con il decreto sicurezza, soprattutto con l’introduzione del reato di rivolta, persino passiva, sembra evocarsi un ritorno al passato. Ma in questi 80 anni, dalla Liberazione a oggi, la passività di fronte a un potere che lascia morire in carcere, mentre produce sempre nuovi casi di “morte viva” (ergastoli e perenni proroghe del 41 bis con tanto di abusi puntualmente condannati dalla Corte Europea), equivale a un tradimento della Costituzione. All’ombra di mura antiche - concepite per isolarci dagli “altri” - si gioca ancora oggi la sfida più delicata di una democrazia: proteggere la società senza cancellare le persone. Se è vero che il carcere deve servire a rispondere a un danno, non a perpetuare la sofferenza, resta aperto il compito di chiudere davvero con un passato di umiliazioni e controlli asfissianti. Nel ricordare chi, ieri, ha varcato le sbarre della libertà con la forza delle proprie idee, l’impegno di una democrazia matura è rimettere al centro la persona, ostacolare la riproposizione di logiche autoritarie e spingere perché le mura non siano più sinonimo di annullamento, ma di possibilità di rinascita. “Vietato protestare”. Così in carcere il Governo abolisce la Costituzione di Francesco Petrelli* L’Unità, 25 aprile 2025 Sovraffollamento e suicidi continuano ad aumentare, ma l’esecutivo pensa solo a stroncare il diritto di manifestare dei detenuti. Sovraffollamento, morti per suicidio e per malattia, aumento del disagio fisico e psichico, sembrano oramai rappresentare l’unico orizzonte possibile e il solo irreversibile futuro del nostro sistema carcerario. Ma anziché cogliere in questa drammatica realtà la necessità ed urgenza di provvedimenti che riducano al più presto la pressione del sovraffollamento e lo squilibrio oramai intollerabile fra risorse disponibili e numero di detenuti, si avverte la sola insopprimibile pulsione di dotare il carcere di nuovi strumenti repressivi. Poiché il Parlamento è dotato di regole “farraginose”, il reato di “rivolta” viene riproposto con un Decreto Legge di immediata entrata in vigore. Il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” trasforma infatti il carcere in un luogo separato dal mondo ordinario. Un luogo diverso all’interno del quale non valgono le stesse regole della società civile. Una realtà distopica nella quale sono diversi i limiti fra il lecito e l’illecito, nella quale condotte inoffensive divengono reato. Il “carcerato” viene così trasposto in una dimensione altra che non è la stessa degli altri esseri umani. Ogni protesta pacifica, viene criminalizzata e dunque irragionevolmente parificata alla protesta violenta. In barba ad ogni principio costituzionale di ragionevolezza e di proporzionalità. Sovraffollamento, morti per suicidio e per malattia, aumento del disagio fisico e psichico, sembrano oramai rappresentare l’unico orizzonte possibile e il solo irreversibile futuro del nostro sistema carcerario. Ma anziché cogliere in questa drammatica realtà la necessità ed urgenza di provvedimenti che riducano al più presto la pressione del sovraffollamento e lo squilibrio oramai intollerabile fra risorse disponibili e numero di detenuti, si avverte la sola insopprimibile pulsione di dotare il carcere di nuovi strumenti repressivi. Poiché il Parlamento è dotato di regole “farraginose”, il reato di “rivolta” viene riproposto con un Decreto Legge di immediata entrata in vigore. A volte le norme penali, al di là della loro oggettiva violenza, fatta di pene spropositate e di equivalenze irrazionali (i “centri di trattenimento” - dove non vi sono autori di reati equiparati al carcere), possiedono un formidabile contenuto simbolico. Il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” trasforma infatti il carcere in un luogo separato dal mondo ordinario. Un luogo diverso all’interno del quale non valgono le stesse regole della società civile. Una realtà distopica nella quale sono diversi i limiti fra il lecito e l’illecito, nella quale condotte inoffensive divengono reato. Il “carcerato” viene così trasposto in una dimensione altra che non è la stessa degli altri esseri umani. Valgono regole differenti e il reato è definito da circostanze del tutto prive di determinatezza da valutare di volta in volta. Il reato sussiste o non sussiste in base al “numero” dei disobbedienti a al “contesto” della disobbedienza. Per stabilire se la disobbedienza pacifica integri una “rivolta” valgono principi solo in apparenza ragionevoli: occorre infatti stabilire se con la quella disobbedienza si impediscono atti necessari alla gestione di “ordine” e “sicurezza”. Per comprendere quanto sia poco ragionevole un simile criterio basta considerare come all’interno di un carcere ogni atto serve inevitabilmente a tali fini. Ogni protesta pacifica, viene così criminalizzata e dunque irragionevolmente parificata alla protesta violenta. Parificata anche quanto alla pena, in barba ad ogni principio costituzionale di ragionevolezza e di proporzionalità. Si tratta di norme dal contenuto al tempo stesso intimidativo ed ideologico, che hanno come scopo, non solo quello di fornire un più duttile e pervasivo strumento di repressione, ma anche quello di modificare la percezione stessa del concetto di carcere. Dentro e fuori le sue mura. Trasformandolo in un luogo di sepoltura di condannati, estraneo del tutto alla società civile. Ogni spazio di vita all’interno del carcere viene così progressivamente ridotto, non solo nel nome dell’ordine e della sicurezza, ma anche nel segno di più brutali bilanciamenti. La presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo crede che sia “necessaria una stretta sui video collegamenti e sulle videochiamate” perché “servono soltanto per aiutare i parenti dei reclusi e non la polizia penitenziaria”. Non solo si dimentica quale fondamentale sostegno al mantenimento di una dignitosa serenità dei detenuti sia il contatto, anche solo visivo, con i familiari, mogli e figli minori spesso nella oggettiva impossibilità di avere incontri in presenza. Ma si incentiva così, con queste pericolose e indebite contrapposizioni, l’idea che detenuti e detenenti non possano collaborare al medesimo fine della risocializzazione, ma che debbano essere necessariamente posti in conflitto fra loro, dimenticando che il motto dell’arma della penitenziaria è: “mantenere viva la speranza è il nostro compito”, non “spegnere ogni speranza”. Sembra, tuttavia, che sia questo il sentimento più diffuso quando si pensa al carcere. Quello di rendere la pena il più afflittiva possibile, trasformando il carcere, da strumento di riab litazione, in una pura macchina di retribuzione e di repressione. Il carcere così ridotto, non serve più a migliorare gli uomini, a ridurre il fenomeno della recidiva, ad aumentare la sicurezza, ma solo a consolare la collettività, ad aumentarne, ingannandola, la sicurezza percepita. *Presidente dell’Unione Camere Penali Disubbidire è l’unica uscita di sicurezza di Franco Corleone L’Unità, 25 aprile 2025 Di fronte al dramma delle carceri il Governo vara per decreto la repressione di proteste e dissenso. Nel nome della sicurezza troppo spesso si compiono misfatti: ultima prova eclatante è il decreto legge pubblicato l’11 aprile sulla Gazzetta Ufficiale in cui sono presenti mostruosità giuridiche senza neppure la giustificazione di necessità e urgenza come richiede la Costituzione. Una prova di arroganza, di disprezzo del Parlamento e di violenza istituzionale. Vale la pena concentrarsi su un punto particolare, cioè la criminalizzazione della resistenza passiva e della nonviolenza in carcere con la previsione di condanne fino a otto anni. Anni di galera per il mancato rientro in cella dopo l’ora d’aria, la battitura delle sbarre, il rifiuto del carrello del cibo e delle terapie, forse persino per il digiuno. Azioni certamente legate alla denuncia delle condizioni di vita inaccettabili a causa del sovraffollamento e per rivendicare diritti fondamentali. Questa scelta dal punto di vista simbolico rappresenta un messaggio assai pericoloso, non solo per i detenuti ma per le associazioni della società civile, infatti configura un incentivo al ricorso ai mezzi violenti per contrapporsi alle misure liberticide. È quindi conseguente la costituzione di un Gruppo intervento operativo (Gio) per sedare proteste e rivolte e l’acquisto per la Polizia penitenziaria di 18.700 scudi antisommossa, di 2.400 nuovi sfollagente e di 10.200 caschi per difendersi o per colpire. Intanto, troppi detenuti continuano a morire; già 28 sono i suicidi avvenuti quest’anno e le altre cifre della catastrofe sono davvero impressionanti. Non si può chiedere ai detenuti di esporsi pericolosamente. Occorre che sorga un movimento di opposizione alle leggi ingiuste e razziste con forme originali di obiezione di coscienza. Ad esempio, nel Risorgimento e nella Resistenza fu praticato il boicottaggio fiscale del tabacco, oggi si potrebbe mettere in crisi il gioco d’azzardo. È stimolante la lettura di un giornale del Partito Socialista Italiano, “Il Terzo Fronte”, scritto da Ignazio Silone nel 1942 in Svizzera con un invito a una azione a oltranza di disubbidienza civile. La disobbedienza civile veniva lì spiegata come un fatto di coscienza individuale ma che, se praticata da un gran numero di persone, si sarebbe rivelata come un’arma politica d’immensa potenza, un’arma capace di paralizzare l’apparato repressivo della dittatura, una forma di lotta incruenta e accessibile a tutti. La parola d’ordine Disubbidire veniva declinata in suggerimenti di precisi comportamenti: ignorare le leggi e agire come se non esistessero; applicare alla lettera le leggi realizzando il contrario di quanto voluto dall’autorità; non pagare le tasse, la luce elettrica, il gas o pagare a un falso indirizzo; avanzare reclami, proteste, ricorsi a ogni occasione, mettere in moto senza necessità o per futili motivi i pompieri, la polizia, i giudici; lavorare male, nel caso di impieghi statali. Alcuni suggerimenti per i lavoratori: gli operai avrebbero dovuto sabotare la produzione di guerra, i ferrovieri e i tranvieri ritardare i trasporti. Ignazio Silone argomentava: “La disobbedienza civile può dare un senso ideale alla nostra lotta di liberazione. Sarà un fatto nuovo nella storia del nostro Paese. Il Partito Socialista chiede agli Italiani qualcosa d’insolito, ma non d’impossibile. Attraverso la disobbedienza civile l’individuo esce dall’atomismo pauroso”. Un’indicazione di metodo da far rivivere in tempi di ferro e fuoco. Uscita di sicurezza. La pena e il senso di umanità di Rita Bernardini vita.it, 25 aprile 2025 Uno dei primi atti di governo di Bergoglio fu l’abolizione dell’ergastolo in Vaticano. Lo fece nel luglio 2013, pochi mesi dopo esser stato eletto. “Un messaggio anche per l’Italia”, dice la presidente di Nessuno Tocchi Caino. “La nostra Costituzione dice che “le pene” non possono essere contrarie al senso di umanità”. Se penso a questo decennale di pontificato di Papa Francesco non posso che partire dalla parola “pena”, quella dell’ergastolo, che lui volle abolire per la Città del Vaticano, nel luglio 2013, pochi mesi dopo esser stato eletto. Un messaggio anche per l’Italia. Anche la nostra Costituzione, all’articolo 27, parla di pena, seppure al plurale. Ricorda che “le pene” non possono essere contrarie al senso di umanità. E d’altra parte le nostre carceri sono definite istituti penitenziari, c’era evidentemente già in chi ha scritto questi testi fondamentali, la volontà di punizione che, nel gergo giuridico, sarebbe “retribuzione”. C’è anche la parte risocializzante, come recita l’articolo 27, quando parla di rieducazione: una parte, come sappiamo, che nella realtà lascia molto a desiderare. Anche nell’immaginario collettivo la pena viene sempre associata al carcere, non si considerano pene le pene alternative, che sono comunque forme di punizione. Non si considera pena la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà. Misure che sono previste dal nostro ordinamento, nel quale sono state rafforzate anche grazie alla riforma Cartabia, la messa alla prova e le pene sostitutive. Sull’ergastolo, di Papa Francesco mi ha colpito moltissimo, perché la reputo di altissimo spessore, sia politico sia giuridico, quella lezione magistrale che fece ai giuristi dell’Associazione internazionale di diritto penale, nel 2014. In quell’occasione infatti cominciò a usare espressioni anche molto forti: “L’ergastolo è una pena di morte nascosta”, disse, e quindi è ipocrita cercare di mascherarla. Oppure, anche rispetto al carcere duro, in quella lectio, parlò dell’isolamento e dei luoghi che causano sofferenze psichiche e fisiche che finiscono per incrementare sensibilmente la tendenza al suicidio. Per me Francesco resta il pontefice che ha lavato i piedi ai detenuti in occasione della messa in Coena Domini. Uno dei massimi gesti di umiltà, lavare i piedi. Cominciò nel carcere minorile di Casal del Marmo, nel 2013, e poi a Rebibbia, a Regina Coeli e ha continuato nelle carceri di Paliano e di Velletri. Pensiamo a tutti quelli che dicono “buttiamo via la chiave” e pensiamo al pontefice che, chinandosi sui piedi di questi uomini, usava l’espressione: “Perché tu e non io?”. La lezione inascoltata di Francesco: peccato e reato non coincidono di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 25 aprile 2025 Nelle stesse ore in cui il mondo ricordava l’impegno di Papa Francesco per un carcere meno truce, il Parlamento discuteva il decreto legge sicurezza. Papa Francesco è stato un nostro compagno di lotte per assicurare diritti e dignità nelle carceri. Inascoltati noi, inascoltato lui. Monsignor Benoni Ambarus, delegato del Papa a occuparsi di carceri e carità, nel ricordare che Francesco ha donato i suoi ultimi averi a favore dei ragazzi reclusi nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, con amarezza ha constatato come il bilancio del suo mandato sia da considerarsi del tutto negativo a causa dell’inerzia colpevole di governi e governanti. “Ogni volta che entro in carcere mi domando perché loro e non io”, era il suo mantra. Questa frase l’ha ripetuta anche giovedì scorso nella sua ultima visita istituzionale, nel carcere romano di Regina Coeli. Papa Francesco aveva dei tratti paragonabili a quelli di Johnny Cash quando andò a cantare nelle prigioni di Folsom e St. Quentin. Sia papa Francesco che Johnny Cash si sono presentati ai detenuti come fossero uno di loro. Non hanno mai parlato o cantato dall’alto verso il basso. Quella di Francesco non era una frase di circostanza. Nel dire ai prigionieri che era uno di loro voleva rompere con la superbia morale di chi stigmatizza i detenuti come nemici da abbattere. L’amministrazione penitenziaria ha dato la sua disponibilità a far partecipare alcuni detenuti ai funerali di Francesco. Se potessero ci andrebbero tutti i sessantaduemila detenuti ammassati nelle prigioni italiane, nonché quelli che lui ha incontrato in giro per il mondo. Papa Francesco non ha mai chiesto pietà per i carcerati. Quando parlava di detenuti come capri espiatori, di cautela nella pena, di ergastolo come pena di morte nascosta, di diritto penale razzista, di mettere al bando la tortura aveva in testa un progetto sociale, giuridico e culturale fortemente critico nei confronti del potere neoliberale che produce una giustizia selettiva e di classe. Sia nel suo discorso del 2014 rivolto all’associazione internazionale dei penalisti che nell’enciclica Fratelli tutti del 2020, riecheggiano parole e concetti che nulla hanno a che fare con la retorica della redenzione che fino ad allora aveva caratterizzato il pietismo cattolico verso i carcerati peccatori. Le sue parole chiave sono altre: dignità, solidarietà, uguaglianza. Il detenuto non è visto come un peccatore ma come qualcuno che ha commesso una violazione di legge. Peccato e reato non coincidono. E la legge è un prodotto artificioso dell’uomo. Francesco ha scritto che “negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”. I peccatori sono gli altri, ossia quelli che hanno tradito il diritto penale liberale provocando la sua degenerazione antidemocratica nel diritto penale del nemico. Ancora una volta ci aiuta la musica d’oltreoceano. Orphans: Brawlers, Bawlers and Bastards cantava Tom Waits. Sono i poveri, gli esclusi, i reietti, gli immigrati i nuovi nemici contro cui si rivolge la spirale repressiva. Non si era mai sentito un Papa dire che “c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”. Nelle stesse ore in cui il mondo ricordava l’impegno di papa Francesco per un carcere meno truce, il parlamento discuteva il decreto legge sicurezza. Altro che cautela nella pena. Qualora dovesse essere approvato il nuovo reato di rivolta penitenziaria che punisce chi protesta in modo nonviolento, saranno seppelliti in carcere ragazzi, persone con problemi psichiatrici, tossicodipendenti. È un passo di non ritorno verso il passato e la premodernità punitiva. Cantava Guccini: l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto. È un Dio che è morto quello che fa marcire in galera i prigionieri. Papa Francesco lo sapeva bene e ce lo ha ricordato stazione per stazione durante la Via Crucis in pieno lockdown. Ha provato a rimettere in moto il meccanismo dell’empatia. A giudicare dalla risposta dei nostri governanti, purtroppo non ci è riuscito. *Presidente Associazione Antigone La morte di Papa Francesco porta via il Postulante della dignità per ciascun detenuto di Lucio Motta filodiritto.com, 25 aprile 2025 L’incessante monito di un Papa che ha incarnato fino all’ultimo l’interrogativo evangelico “ero carcerato… e mi hai visitato” (Mt. 26, 26). Si è speso sino all’ultimo, ha levato alto il grido per la dignità di ogni detenuto, è stato vicino, prossimo, a ciascuno sino al giovedì santo prima della morte, coerente con tutto il suo vissuto evangelico di misericordia, speranza e dignità. La crociata di Bergoglio contro quell’indifferenza che trasforma le carceri in depositi di umanità dimenticata e il diritto penale in uno strumento di esclusione. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”: il monito del Vangelo di Matteo ha trovato in papa Francesco non un semplice eco, ma un “programma di governo”. Egli non si è limitato a citare le parole di Cristo - che, nel capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, condanna senza appello chi volta le spalle ai reietti - le ha fatte vibrare nelle celle di tutto il mondo. Era l’11 luglio 2013, quando il nuovo Papa varava una riforma penale senza precedenti. Nel cuore dello Stato più piccolo del mondo, aboliva l’ergastolo, introduceva il reato di tortura e sanciva il “giusto processo”. Un atto simbolico potentissimo: la Santa Sede diventava così un faro di civiltà giuridica, superando persino l’Italia - allora ancora priva di una legge sulla tortura e oggi, come ieri, inchiodata al dibattito sull’ergastolo. Papa Francesco ha plasmato la sua riflessione sulla giustizia attorno a due principi: la cautela in poenam e il primatum principii pro homine. Davanti all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, nel 2014, li enunciò con la chiarezza di chi sa che il diritto può essere strumento di redenzione o di oppressione. Il primo principio - la cautela in poenam - ribalta la logica delle legislazioni moderne: la pena non deve essere la risposta automatica ai mali sociali, bensì l’ultimo baluardo quando ogni altra soluzione è fallita. Una verità scomoda in un mondo in cui il carcere diventa sempre più una “soluzione preventiva”, un luogo dove rinchiudere non solo corpi, ma speranze. Il secondo - il primatum principii pro homine - è un monito a non dimenticare che dietro ogni reato c’è una persona, che non va confuso il reo con il reato, l’uomo con l’errore. Il diritto penale, per Francesco, deve chinarsi su quell’umanità ferita, non schiacciarla con il peso della punizione. Il messaggio postulante di papa Francesco è la traduzione perseverante dell’immagine di Papa Wojtyla chinato sul suo attentatore Ali A?ca e gli stringe le mani in un gesto di infinito perdono. Papa Bergoglio ha condannato senza ambiguità la pena di morte, le esecuzioni extragiudiziali e quelle condizioni di sovraffollamento carcerario che la Corte Europea dei Diritti Umani - in due sentenze storiche contro l’Italia (2009 e 2013) - non ha esitato a definire “trattamenti degradanti”. Ma Bergoglio è andato oltre, con la denuncia del populismo penale ha scavato più a fondo, squarciando l’ipocrisia di chi trasforma il diritto in una clava. Nel 2019 il Papa pronunciò parole vibrate contro la deriva perversa di chi vede nella pena “l’unica medicina per ogni male sociale” - una ricetta velenosa, che sostituisce alle politiche di inclusione la comodità del castigo. “Negli ultimi decenni”, spiegò con amarezza profetica, “si è creduto di curare malattie diverse con lo stesso farmaco: il carcere. Non è giustizia, è pigrizia. È la resa di chi preferisce fabbricare capri espiatori anziché costruire comunità”. “Non si tratta più solo di sacrificare vittime agli dei della paura, come nelle società primitive. Oggi si scolpiscono nemici di cartapesta - figure disumane, cariche di ogni minaccia - per giustificare leggi sempre più spietate”. Un meccanismo, denunciò Papa Francesco, che trasforma “il diritto penale in un’arma per dividere”, e che “rinnega la sua anima: proteggere l’umano, non cancellarlo”. Ha smascherato, quindi, il populismo penale: è un inganno antico, ha ricordato il Pontefice, simile a quel meccanismo stereotipato che ha favorito, nel passato, l’espansione delle ideologie razziste. Papa Francesco è stato non solo un pastore ma anche il Capo di Stato più attento allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti degli ultimi, i carcerati, che ha difeso e visitato fino all’ultimo respiro in quell’opera cristiana di misericordia corporale, “visitare i carcerati”. Rivolgendosi ai detenuti, amava ripetere: “Nessuno può toccarvi la dignità”. E quando nel 2016 lavò i piedi a 12 carcerati - tra cui una donna musulmana - quel gesto diventò un manifesto: lo Stato non deve spegnere la scintilla divina in ogni essere umano, neppure dietro le sbarre. Il 26 dicembre del 2024 ha aperto la Porta Santa del carcere di Rebibbia, nel corso del Giubileo della Speranza 2025. L’ultimo suo atto, quattro giorni prima di morire, è stato quello di far visita al carcere di Regina Coeli. Papa Francesco ha lasciato una sfida: trasformare il carcere da luogo di maledizione a spazio di redenzione. Egli ha incessantemente ammonito e chiesto il passaggio da una giustizia basata sulla retribuzione a una giustizia basata sulla riparazione, il cui modello è l’icona evangelica del Samaritano: “senza pensare a perseguitare il colpevole perché si assuma le conseguenze del suo atto, assiste colui che è rimasto ferito gravemente sul ciglio della strada e si fa carico dei suoi bisogni”, e che sul Golgota che porta Cristo sulla croce, incontra il Cireneo che in silenzio si carica della croce e la conduce sino al sacrificio Siamo alla giustizia riparativa. Papa Francesco ha continuato negli ultimi mesi, difronte allo sterminio dei suicidi in carcere, ad invocare un gesto di clemenza. Con la Lettera di Francesco ai capi di Stato perché concedano l’indulto a coloro che “ritengano idonei a beneficiare di tale misura”, affinché “questo tempo segnato da ingiustizie e conflitti, possa aprirsi alla grazia che viene dal Signore”. Il gesto simbolico già compiuto nel 2000 da Giovanni Paolo II e poi nel 2002. Anche Bergoglio aveva lanciato lo stesso invito per il Giubileo dei carcerati del 2016. Ora per il Giubileo della Speranza Papa Francesco ha aperto una Porta Santa a Rebibbia. È un colpo di scalpello sulla pietra, un’eco che rompe il silenzio tombale su quella che ormai è diventata una strage quotidiana: i suicidi in carcere. La politica tace, ma Francesco no. Il Papa ha fatto di quella pietra scartata una pietra angolare, proprio come dice il Vangelo. E lo ha fatto in un clima dove il vento, invece di soffiare verso la misericordia, porta con sé polvere di punitivismo, di vendetta istituzionalizzata. Il carcere sembra essersi allontanato anni luce dallo spirito della misericordia invocata da papa Roncalli. Diciamolo senza tanti giri di parole: il carcere è ormai fuori dalla Costituzione. Non ha più nulla a che vedere con la rieducazione, con la tensione al recupero, con il reinserimento. È una landa di cemento e disperazione che risponde a una sola logica: quella della pena come vendetta. Papa Francesco, che, con un gesto apparentemente semplice, apre una Porta Santa in un carcere e ci mostra l’unica via che ha senso: quella del perdono, della speranza, della dignità. In un mondo che ha perso la fiducia nell’uomo, il Papa è rimasto l’ultimo custode di una scintilla di umanità. Una porta che non è solo un passaggio simbolico, ma un invito a ripensare tutto: la pena, il carcere, la giustizia. Forse è tempo di ricordare che la forza di uno Stato non si misura dai muscoli che esibisce, ma dalla capacità di credere ancora nel recupero degli ultimi. I gesti di Papa Roncalli e di Papa Francesco sono lì a ricordarcelo: c’è sempre una pietra scartata che può diventare testata d’angolo. Luigi Manconi: “Francesco, così vicino ai detenuti da sentirsi uno di loro” di Ilaria Dioguardi vita.it, 25 aprile 2025 “Ogni volta mi chiedo perché mai io non sono lì dentro”. Lo disse Francesco all’uscita dal carcere Regina Coeli di Roma. Luigi Manconi ricorda proprio questa frase: “Avvertire la tentazione del male ci turba. Rimuoviamo il carcere perché ci fa paura come una delle tragiche possibilità della nostra avventura umana”. “La novità e la grandiosità della figura di Papa Francesco è che ha saputo trovare la dimensione spirituale in questa sua attenzione per tutto ciò che costituisce la sofferenza delle persone, la loro condizione di disumanità, nel destino dei migranti, dei poveri, dei detenuti”. A parlare è Luigi Manconi, già docente di Sociologia dei fenomeni politici, una vita in militanza a difesa dei diritti. Manconi, Papa Francesco è stato sempre vicino agli ultimi, ai fragili, ai sofferenti. In particolare, alle persone detenute. Cosa ci vuole dire? Io ricordo che qualche anno fa lui disse che, quando era a Buenos Aires, era frequentissimo il suo visitare le carceri, la sera. Così raccontò. Io non so se fosse una sorta di parabola oppure il racconto di un’esperienza reale, perché sembrava quasi eccessivo raccontare di un suo recarsi nelle carceri così frequentemente. Fatto sta che l’ha fatto spesso pure da Papa, e questo, ancora una volta, resta un’eccezionale testimonianza. Vanno ricordate per esempio le parole all’uscita da una sua visita nell’istituto Regina Coeli di Roma. Quali parole? “Ogni volta che vengo in carcere mi chiedo perché mai le parti non andrebbero invertite, cioè perché mai io non sono lì dentro e i detenuti non sono fuori”. È una frase, come spesso quelle di Francesco, semplice, aneddotica, elementare. Però dietro c’è una saggezza fondamentale, cioè l’idea che sfugge a tanti, persino ad alcuni tra coloro che nel carcere svolgono la loro attività di volontariato, che nel carcere si interessano. Cosa sfugge a tanti? Sfugge che il destino umano, la sua deperibilità, la sua precarietà sono tali che il carcere è una tragica possibilità per tutti. Non esistono i predestinati al carcere e quelli che, invece, sono predestinati a non capitarci mai dentro. Non è così, in alcun modo. La caduta, l’errore, il reato sono alla portata di tutti, a partire dal peccato originale per chi ci crede, e per chi non ci crede a partire dall’imperfezione dell’essere umano. Il nostro rapporto difficile col carcere, e la nostra tendenza a rimuoverlo, nasce proprio da questo processo che riguarda il nostro inconscio. L’idea, cioè, che in carcere ci sono coloro che hanno ucciso, violentato, rubato, rapinato, usato violenza, ingannato. E l’idea inconscia che anche noi siamo stati (o siamo o saremo) tentati da quello, cioè dall’uccidere, dal rubare, dal rapinare, dal violentare, dall’ingannare. Se non cediamo a quella tentazione, e quindi siamo fuori e non dentro, è perché è successo qualcosa, cioè una buona educazione, oppure un innamoramento che ci ha portato lontano da quella tentazione, o delle buone relazioni oppure una vita sociale piena. Avvertire nel nostro inconscio che la tentazione del male esiste anche per noi, ci turba. Anzi, come direbbe Freud ci “perturba”. E questo ci porta a rimuovere il carcere, perché in sostanza ci fa paura come una delle tragiche possibilità della nostra avventura umana. Cosa la colpisce della pastorale di Francesco? C’è una cosa che mi colpisce. Questa pastorale di Francesco è stata letta in questi giorni assai criticamente, come se fosse una sorta di tendenza “sociologizzante” del Papa, e addirittura “socialisteggiante”, corrispondente cioè alla sua impostazione tutta terrena, militante addirittura, della sua missione. Io penso che le cose non stiano affatto così. Come stanno le cose, secondo lei? Penso che l’aspetto più importante della pastorale di Francesco sia stato di portare la dimensione del sacro nella cura del dolore del mondo. Quindi, non una sorta di estremismo militante, cioè una sorta di concentrazione sugli aspetti materiali della vita degli esseri umani. Ma all’opposto, la capacità di trovare, in quegli aspetti materiali, una dimensione spirituale. La differenza è enorme perché, nel primo caso, avremmo un Papa dimentico della sua missione spirituale. E sarebbe grave perché la missione spirituale è il primo compito di un pontefice, di un capo della cristianità. Qual è la novità e la grandiosità della figura di Francesco? La novità e la grandiosità della figura di Papa Francesco è che ha saputo trovare la dimensione spirituale in questa sua attenzione per tutto ciò che costituisce la sofferenza delle persone, la loro condizione di disumanità, nel destino dei migranti, dei poveri, dei detenuti. Se non ci fosse tale dimensione spirituale, il Papa sarebbe da considerare come un leader politico, un capo, un trascinatore sociale. Ma io non la vedo affatto così, la vedo nel senso opposto, nella capacità di questo Papa di trovare il senso del sacro dentro quella dimensione di sofferenza. Mi sembra che questa sia stata la cosa più importante che ci abbia consegnato. Il che passa attraverso questa indicazione fondamentale: il dolore è sofferenza, è patimento dei corpi, è materialità delle condizioni di privazione. Tutto questo, a mio avviso, consente di trovare nelle parole e negli atti del Papa una pastorale del corpo fino a elaborare una sorta di teologia del dolore, che arriva fino all’ultimo tempo del suo pontificato. Il fatto che abbia non solo non occultato, ma al contrario, resa pubblica la propria malattia, mi sembra qualcosa di importante. È come se avesse voluto dare un senso intenso e più tangibile (in questo senso uso il termine “materiale”) della sofferenza umana per come si manifesta nella vita degli esseri umani: caduchi, cagionevoli, imperfetti, quali noi siamo. In un articolo per la Repubblica, lei ha scritto: “In un mondo dove le figure morali tendono a esaurirsi o ad appannarsi irreparabilmente, l’autorità spirituale di Francesco è ancora viva e trae alimento proprio dalla capacità di “patire insieme”... È proprio così. È stato partecipe del dolore del mondo, non per un processo mentale, non per una cognizione intellettualistica. Al contrario, la sua è una cognizione del dolore che parte dal proprio corpo, arriva al corpo delle persone che in tutto il mondo patiscono e, infine, torna a lui. La sua è stata una ostensione del dolore, proprio un’ostensione in senso liturgico, nel presentare al mondo il dolore. Mi ha colpito l’atto di offrirlo, di mostrarlo. Infatti, le parole del testamento di Francesco dicono: “Offro la mia sofferenza”. Marta Cartabia: “Papa Francesco guardava i detenuti e diceva: perché loro e non io?” di Errico Novi Il Dubbio, 25 aprile 2025 La presidente emerita della Consulta ed ex ministra della Giustizia: “L’ho visto chinarsi nella lavanda dei piedi, le recluse piangevano tutte”. Prima di essere ministra guardasigilli, Marta Cartabia è stata presidente della Consulta. E nel tempo tra i due incarichi, ha pubblicato un libro che ha contribuito a cambiare la cultura del carcere, “Un’altra storia inizia qui”, scritto col criminologo Adolfo Ceretti. Una testimonianza che raccoglie la lezione di Carlo Maria Martini, l’esperienza della spiritualità cristiana messa di fronte al dolore della pena, della reclusione. Che Papa Francesco e Marta Cartabia si ritrovassero uniti nella stessa convinzione, nella stessa ostinata affermazione della pietà, dell’umanità che deve sempre sorreggere il sistema penitenziario, era naturale. Ed è successo anche materialmente grazie al rito della lavanda dei piedi, al gesto che il Santo Padre ha virtualmente ripetuto anche a quattro giorni dalla fine, quando si è presentato fra i reclusi di Regina Coeli, pur privo ormai delle forze per chinarsi un’ultima volta. Presidente Cartabia, ha un ricordo personale, forte, di Papa Francesco? Le va di raccontare qualche episodio o anche semplicemente una convinzione che questo Pontificato ha scosso dentro di lei? Francesco ci ha abituati alle sue visite in carcere. Ogni anno, il pomeriggio del Giovedì Santo, si recava in un istituto penitenziario per la lavanda dei piedi. Anche quest’anno ha visitato il carcere di Regina Coeli per Pasqua, anche se non era più in condizioni di fare la lavanda dei piedi. Nel 2022 ho assistito personalmente a uno di questi momenti. Eravamo a Civitavecchia ed erano state prescelte alcune donne per ricevere quel gesto. Si erano preparate con cura. Avevano scelto i loro vestiti migliori. Si erano acconciate al meglio i capelli. Le mani curate, lo smalto sulle unghie. Una di loro era gravemente disabile, ma le compagne l’assistevano in tutto perché potesse partecipare. L’attesa dell’arrivo del Papa era piena di trepidazione per tutti. E poi, mentre lui si chinava su ciascuna di quelle donne, su ciascuno di quei piedi, tutte piangevano di commozione. La commozione di chi si sente guardato. La commozione di chi riceve una attenzione immeritata. La commozione di chi riscopre la sua dignità. Se c’è qualcosa di veramente cristiano, è in questa scena... Alla fine della celebrazione ci siamo salutati personalmente: il Pontefice mi ha ringraziato per un piccolo mio libro che gli avevo fatto avere e ha commentato il titolo “Filtrerà sempre un raggio di sole”. Il titolo è una frase di Eugenio Perucatti, uno straordinario direttore del carcere di Santo Stefano, a Ventotene, ormai chiuso da tempo, che avevo visitato alcuni mesi prima, e il piccolo libro racconta la sua storia. Il Papa era stato molto colpito da quelle poche pagine. Il titolo riecheggiava uno dei suoi più grandi insegnamenti: quante volte ha ripetuto che il carcere deve avere sempre avere una finestra, un orizzonte, una speranza. E invece, degli ultimi giorni, colpisce che il mondo secolarizzato, soprattutto la società, la politica e il sistema mediatico occidentali, scoprano improvvisamente la centralità della Chiesa e del cattolicesimo: c’è da temere che l’attenzione, legata allo straordinario carisma di Francesco, sia un sussulto solo effimero o pensa che l’emozione di questi giorni possa mantenere vivo, anche dopo, lo sguardo verso il messaggio della Chiesa? E c’è secondo lei un nesso tra la possibilità di conservare nella coscienza collettiva il pensiero di Francesco e la capacità della Chiesa di proseguire nel percorso di rinnovamento interno? Ben vengano anche i sussulti emotivi, se sono una occasione per innescare domande profonde in ciascuno, se aiutano a immergersi nelle ragioni ultime della sua testimonianza e a interrogare se stessi alla luce dell’eredità umana e spirituale che Papa Francesco ha lasciato a tutto il mondo. Francesco colpiva per la sua umanità. “Pronto? Sono Papa Francesco”: quante persone hanno ricevuto personalmente, nascostamente, anche senza il clamore mediatico di alcuni casi noti, un segno di attenzione in replica a una lettera, o in un momento di difficoltà? Tutti, credenti e non credenti, rimanevano colpiti dai suoi gesti di attenzione alle persone, dal suo bisogno di stare in mezzo alla gente, fino all’ultimo giorno, con l’uscita a sorpresa in piazza San Pietro la domenica di Pasqua. La Chiesa continuerà a colpire e ad essere un punto di riferimento per tutti nella misura in cui saprà parlare all’umanità di ciascuno. Ai bisogni, alle inquietudini, alle domande di senso che ogni uomo e ogni donna si porta dentro di sé. L’interrogativo sulla capacità di raccogliere - e di riproporre, come lei giustamente auspica - l’eredità di Francesco risuona forte per alcune delle questioni che il Papa ha trattato con più tenacia, certamente per la pena e il carcere. Crede ci sia una possibilità di conservare quel messaggio nella consapevolezza collettiva, quanto meno in Italia, dove il tema della detenzione è particolarmente delicato? Quando Francesco entrava in carcere ripeteva una domanda che, ad ascoltarla bene, è davvero sconvolgente: “Perché loro e non io?”. Chi di noi avrebbe il coraggio di farsi una domanda simile? Chi mai avrebbe il coraggio di esternarla pubblicamente? È una domanda che può sorgere solo in chi guarda all’altro per la comune umanità prima di ogni altra considerazione. È da questo sguardo che può ripartire ogni vita e può ripartire anche una nuova riflessione pubblica e condivisa sulla punizione, sul carcere e su tutti i suoi problemi. Senza contrapporre le ragioni della sicurezza a quelle dell’umanità della pena. Perché chi ha responsabilità dentro il carcere lo sa bene che “un carcere più umano è anche un carcere più sicuro”, come mi ha ricordato un ispettore della polizia penitenziaria di un istituto di pena milanese che ho visitato di recente. Francesco e le carceri, don Grimaldi: “Non dimenticheremo i suoi gesti profetici” di Gigliola Alfaro agensir.it, 25 aprile 2025 L’ispettore generale dei cappellani ricorda la sua attenzione agli ultimi: “Ha voluto dire all’umanità tutta che questa porzione di popolo ha bisogno di riscatto, di essere accolta, di non essere giudicata”. Non ha voluto far mancare, anche nel suo ultimo Giovedì Santo, benché sofferente, la sua presenza accanto ai detenuti della casa circondariale di Regina Coeli, per dire ancora una volta al mondo, alla società tutta, di non condannare, di non puntare il dito verso chi ha sbagliato e di offrire sempre possibilità di recupero. Papa Francesco ha avuto sempre a cuore i detenuti. Tanti i gesti profetici compiuti, come l’apertura della Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, che ha segnato un momento storico nella storia dei Giubilei ordinari. Infatti, è stata la prima volta in cui, oltre alle Porte Sante che, come abitualmente accade, sono state aperte nelle quattro basiliche papali romane, ne è stata aperta una anche in un penitenziario. Della vicinanza di Papa Francesco ai detenuti parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Papa Francesco ha sempre acceso i riflettori sul mondo carcerario... Fin dall’inizio del suo ministero petrino ha voluto segnare il suo impegno pastorale stando accanto agli ultimi, a chi non ha voce. Questa esperienza già l’aveva vissuta nel suo ministero episcopale a Buenos Aires: ha voluto continuare questa sua opera accanto ai poveri, agli ultimi anche da pontefice. Come sacerdote e ispettore dei cappellani nelle carceri italiane, sono grato a Papa Francesco per tutte le volte che ha indicato il carcere come luogo di riscatto e che ha mostrato che bisogna avere a cuore i detenuti e aiutarli a rialzarsi, dando loro fiducia. Papa Francesco, tutte le volte che è andato a visitare i detenuti nelle carceri, non solo italiane, ma anche all’estero, ha voluto esprimere questa vicinanza della Chiesa, dicendo che non condanniamo, non puntiamo il dito, ma invitando i detenuti a credere nell’infinita misericordia di Dio. Incontrando i detenuti il Papa ha sempre detto di chiedersi: “Perché voi e non io?”. Cosa ci dice questo? Il Papa andando a visitarli donava ai detenuti una speranza viva. E la sua domanda “Perché voi e non io?” ci fa pensare che entrare in carcere, purtroppo, oggi può essere facile. Tanti detenuti sono entrati in carcere anche per piccoli reati, per i quali ci sarebbe potuto essere anche l’affidamento ai servizi sociali. Le parole di Francesco ci fanno anche capire che il carcere è un luogo di frontiera con il quale la pastorale della Chiesa continuamente si confronta. La grande attenzione del Papa al mondo delle carceri è anche testimoniata dalla sua scelta di aprire nel carcere di Rebibbia la seconda Porta Santa per il Giubileo... Il Giubileo che stiamo celebrando abbraccia tutti: i malati, i poveri, il popolo di Dio, i preti, i vescovi. Il Papa ha voluto inserire in questo abbraccio di fede e speranza anche i detenuti, che ha portato sempre nel cuore. Francesco ha voluto compiere un gesto profetico aprendo una Porta Santa nel carcere di Rebibbia. È una Porta che si spalanca all’interno e all’esterno: fa entrare la società dentro, ma permette anche ai detenuti che vogliono riscattarsi di uscire fuori e di essere accolti nella società. Papa Francesco ha anche amato compiere il gesto della lavanda dei piedi con i detenuti il Giovedì Santo e quest’anno, che non ha potuto farlo per le sue condizioni di salute, comunque è andato a Regina Coeli a visitare i detenuti. Anche questo un segno di quell’attenzione particolare che ha avuto verso i ristretti... Papa Francesco, in questi anni, ha scelto di celebrare la Messa in Coena Domini non nella basilica di San Pietro, ma in diverse carceri italiane per vivere questo gesto, che non è un rito vuoto. Lavando i piedi ai detenuti, il Santo Padre ha voluto dire agli uomini di oggi e alla Chiesa intera che la missione della Chiesa è servire: come diceva anche don Tonino Bello è “la Chiesa del grembiule”, la Chiesa che si china davanti alle povertà. Papa Francesco chinandosi davanti ai detenuti ci ha fatto capire che non ci può essere disprezzo verso coloro che hanno sbagliato, non dobbiamo puntare il dito né emarginare. Chinandosi sui piedi dei detenuti e lavando loro i piedi, Francesco ci ha ricordato che la Chiesa è al servizio degli ultimi e dei poveri. Dal primo momento ha detto che il suo sogno era una Chiesa povera per i poveri. E ha dato concretezza a questo con i suoi gesti profetici di cui ha disseminato il suo pontificato. Come si sta vivendo in carcere la morte di Papa Francesco? Innanzitutto a Regina Coeli, l’ultimo carcere visitato da Papa Francesco, pochi giorni prima della sua scomparsa, si sta vivendo una grande tristezza: i detenuti hanno capito che il Papa andando da loro ha voluto dare un ultimo abbraccio a tutti i detenuti del mondo. Come poi ha fatto il giorno di Pasqua quando ha voluto abbracciare tutta l’umanità, con la benedizione Urbi et Orbi ha voluto far sentire la sua presenza e la sua vicinanza al mondo intero anche negli ultimi momenti della sua vita terrena. I detenuti di tutte le carceri hanno sentito la sua vicinanza paterna e per questo avvertono il dolore del distacco. Ma i gesti di Papa Francesco verso il mondo del carcere sono stati così forti e profetici che sono anche una preziosa eredità per il suo successore e per il mondo intero. Papa Francesco ha segnato una grande rotta per la Chiesa: una grande strada maestra, la strada del Vangelo. Ci saranno dei momenti di preghiere negli istituti penitenziari? I cappellani stanno già celebrando Eucaristie e promuovendo momenti di preghiera con i detenuti e il personale delle carceri. Anche attraverso la preghiera resta vivo il ricordo di Papa Francesco. Qual è la sua eredità per il mondo carcerario? Il pontefice, incontrando spesso i detenuti, ha voluto dire ai governi, alla Chiesa, all’umanità tutta che questa porzione di popolo ha bisogno di riscatto, di essere accolta, di non essere giudicata. Per tutti noi che operiamo nel mondo del carcere e per gli stessi detenuti Papa Francesco resterà non solo un profeta della pace, ma un successore di Pietro che ha fatto degli ultimi il senso della sua vita e del suo impegno pastorale. Carceri, tra emergenza e problemi cronici. Intervista a Irma Conti di Giuseppe Ariola L’Identità, 25 aprile 2025 L’emergenza carceri è un problema al quale è chiamata innanzitutto la politica a dare una risposta. L’individuazione delle possibili soluzioni passa però inevitabilmente attraverso il contributo di chi fa i conti tutti i giorni con la dura realtà dei penitenziari. Ne abbiamo parlato con Irma Conti, componente del Garante Nazionale dei detenuti, che recentemente ha partecipato a un interessante convegno sul tema organizzato dall’associazione Uniti nel Fare, presieduta da Renata Polverini. Possibile che quella delle carceri sia una situazione di perenne emergenza? “Con il compianto Felice Maurizio D’Ettore, ci siamo subito resi conto, nelle 58 visite effettuate insieme nei primi 6 mesi del nostro mandato, fino a pochi giorni prima della sua drammatica scomparsa avvenuta il 22 agosto 2024, e nelle successive - l’ultima che ho effettuato il 17 aprile presso il penitenziario di Fossombrone alla presenza del Sottosegretario con delega ai Detenuti Andrea Ostellari - che non si tratta di emergenza, la situazione è cronica e patologica. L’emergenza è nella risposta che anche l’Autorità Garante (GNPL) che oggi unitamente al Presidente Riccardo Turrini Vita e al Prof. Mario Serio ho l’onore ed il compito di rappresentare, su mandato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, deve dare”. Su cosa verte l’attività del Garante? “Nelle oltre 80 visite nelle carceri, effettuate tutte con spirito di conoscenza e cooperazione, la constatazione è unanime: un tratto umano e deciso dell’Amministrazione penitenziaria in strutture che devono rinascere, in alcuni casi, dalle macerie e con piante organiche e funzionari amministrativi che mancano da decenni! Con D’Ettore abbiamo da subito incardinato un costante e quotidiano raccordo con il DAP e segnatamente oltre che con il dott. Giovanni Russo, con la Dott. Lina Di Domenico, oggi Capo facente funzioni. Abbiamo declinato il nostro mandato con la funzione di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà (tra i quali il carcere ed i centri per gli immigrati) allo scopo di individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle. Inoltre, il Garante nazionale ha il compito di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette, di nostra competenza. Il carcere ha bisogno di equilibrio, concretezza e dinamismo perché noi incontriamo vite umane, padri, madri, figli, persone sole, anziani. Persone che hanno infranto il patto sociale ed allo Stato è demandato il potere di condannare ed il dovere di rieducare ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. Al GNPL, nell’ambito della cooperazione interistituzionale, quale meccanismo nazionale di prevenzione della tortura, compete anche l’individuare la soluzione, onde evitare, secondo il noto brocardo: ‘se non porti la soluzione diventi parte del problema’. È questo il dovere di cui oggi mi sento parte integrante, nella tutela dei diritti delle persone private della libertà personale. Citando Papa Francesco siamo in ‘un vero e proprio cambio d’epoca’. Affrontiamo la sfida, assumendocene le responsabilità”. Quali sono le principali criticità che incontrate? “Oltre alla sanità, al trattamento - lavoro, la dignità delle persone non può non tener conto delle condizioni strutturali a cui si sta ponendo, in maniera emergenziale, riparo. Basti pensare che il 35% degli istituti risalgono al 1950: celle ancora senza docce, copiose perdite di acqua, tubature ostruite o da sempre non funzionanti. Queste le 3 criticità fondamentali affrontate con priorità assoluta, tenendo ben presente il mandato del nostro Presidente della Repubblica. La quarta area di interesse sono le oltre 19 mila persone che hanno una pena al di sotto dei tre anni. La nostra attenzione è massima e la cooperazione con la Magistratura di Sorveglianza essenziale. Allo stato lo studio dell’IA applicabile alla fase dell’esecuzione penale. Con il tempo i detenuti scontano la loro pena e con il tempo dobbiamo rispondere alle loro istanze. Non è accettabile che un’istanza per la concessione della misura alternativa venga decisa a distanza di anni. Gli strumenti normativi ci sono, dobbiamo far funzionare, semplificare e velocizzare l’esecuzione penale in uscita, verso la riconquista della libertà ed il reintegro sociale”. Prima ha citato Papa Francesco. Tra i suoi tanti lasciti c’è anche la grande attenzione ai problemi delle carceri … “Mi auguro che il faro che il Santo Padre ha acceso sul carcere illumini la società tutta, anche per far superare stereotipi e pregiudizi, così da renderla pronta ad accogliere le persone che hanno pagato la loro pena”. Dl Sicurezza, critiche nelle audizioni alla Camera. “Torsione securitaria, rischio per la democrazia” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 aprile 2025 Proseguono nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera le audizioni sul dl sicurezza. Ieri è intervenuto per primo Roberto Zaccaria, già professore di istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Firenze, che in apertura ha sottolineato che “questo dl ha una caratteristica particolare: ha avuto l’effetto di mettere d’accordo professori di diritto, Anm e Ucpi e ciò non avviene di frequente”. Ha poi annunciato che il 28 aprile verrà reso noto un appello sottoscritto da “oltre duecento giuspubblicisti” di cui ha anticipato alcuni punti. Innanzitutto con il passaggio da ddl a dl si è messo in atto un “aggiramento gravissimo e privo di adeguata giustificazione dell’articolo 72 della Costituzione” che “incide sulle prerogative dei parlamentari”. Entrando poi nel merito: “Il tema della sicurezza rischia di trasformarsi in un valore ideale fondante, spesso coniugato con il gemello ordine pubblico che il costituente non volle introdurre in Costituzione, e che non ha alcuna cittadinanza”. Per Zaccaria siamo dinanzi ad una “torsione securitaria” per cui “si tutela più l’autorità che la libertà, andando a ledere i principi democratici”. Infine, ha detto il costituzionalista, “il dl introduce una pericolosa forma di repressione del dissenso che, invece, è elemento fondamentale della democrazia”. Ha preso poi la parola il professore avvocato Vittorio Manes: “Si continua a scommettere nell’overdose punitiva, che, da molto tempo, caratterizza l’esperienza italiana, dove la “pressione penale” è stata sempre in costante, irrefrenabile aumento, sino ai livelli parossistici raggiunti nell’era del “populismo penale”. Negli ultimi due anni, in particolare, stiamo vivendo una stagione di ubriacatura punitiva, durante i quali sono state inserite nel codice di rito 48 nuove fattispecie di reato, e solo con il dl se ne aggiungono 14 insieme a 9 aggravanti”. Manes ha tenuto a ricordare che “ogni qualvolta che si introduce una nuova fattispecie di reato la sfera della libertà risulta compressa e ci si allontana dal modello di Stato di Diritto e ci si avvicina allo Stato di polizia”. Per l’esperto, poi, “è solo una illusione quella di creare una overdose di deterrenza” con questi provvedimenti. Secondo Manes, “oggi, come un secolo fa, si invoca più diritto penale, in ogni sua forma, più deterrenza mediante minaccia di pena, e più carcere come unica e prioritaria risposta, quali che siano i destinatari diretti e indiretti degli “effetti collaterali” della pena custodiale, il tutto nell’esibito intento di fronteggiare problemi di sicurezza inconsistenti e con la recondita finalità di guadagnare consenso al cospetto degli elettori, a cui si propina la farmacopea punitiva anche come arma di distrazione di massa dai problemi reali”. Mentre in carcere “i problemi reali esistono davvero, come ci ricordano i tassi di sovraffollamento medio superiori al 130% su scala nazionale, e come testimonia drammaticamente - dopo il tragico record dei 90 suicidi nell’anno passato - il ventesimo, lancinante suicidio a cui si è già arrivati nel corso di questo primo scorcio del 2025”, ha concluso il professore. Due giorni fa era stata audita anche l’associazione Nessuno tocchi Caino. Sono intervenuti Sergio d’Elia, segretario, Rita Bernardini, presidente ed Elisabetta Zamparutti, tesoriere. Rita Bernardini che, a proposito della resistenza nonviolenta in carcere, ha ricordato i 20.000 detenuti in sciopero della fame a sostegno dell’approvazione dei decreti attuativi della riforma seguita agli Stati generali sul carcere, ha affermato che “il decreto sicurezza non si cala nella realtà del carcere quale è oggi, spesso privo di umanità e, a causa del sovraffollamento, di trattamenti degradanti della dignità umana”, e ha citato come esempio la visita fatta a Pasqua nel carcere femminile di Rebibbia dove ha trovato due giovani madri, portate dai domiciliari in carcere con i loro bambini senza che avessero compiuto alcuna infrazione, sol perché i loro piccoli avevano compiuto un anno. Anche a fronte di questa irragionevolezza ha annunciato, a partire dalla mezzanotte di ieri, uno sciopero della fame “per fare riflettere i parlamentari, sempre più espropriati dei loro diritti, affinché siano espunte le parti più manifestamente incostituzionali del provvedimento”. Sergio d’Elia, sull’introduzione del reato di resistenza passiva, volto a criminalizzare anche il dissenso espresso in forme nonviolente, ha dichiarato che “pensare che l’ordine e la sicurezza di un istituto penitenziario possano essere assicurati dalla minaccia di sanzioni (che peraltro già esistono) e dalla esclusione dai benefici (che peraltro è già prevista) è la solita illusoria convinzione del valore deterrente della pena”. Elisabetta Zamparutti ha ricordato come l’Italia faccia parte di organizzazioni internazionali che hanno criticato anch’esse il decreto a partire dal Commissario europeo per i diritti umani, Michael O’Flaherty, che già aveva chiesto di non approvare, senza radicali modifiche il testo del ddl Sicurezza (ora riprodotto nel dl), perché in contrasto con la Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Il dl sicurezza arriverà nell’Aula della Camera lunedì 26 maggio. Mentre ieri sarebbe dovuta proseguire la discussione sulla proposta di legge atta a istituire la giornata dedicata alle vittime degli errori giudiziari ma è stato tutto rinviato al 6 maggio. Rita Bernardini: sciopero della fame contro il dl sicurezza di Angela Stella L’Unità, 25 aprile 2025 Audizioni di Nessuno Tocchi Caino e poi dei giuristi. I giudizi sono unanimi e di condanna. Introdotti quattordici nuovi reati e nove aggravanti. Ennesimo digiuno nonviolento della radicale Rita Bernardini, questa volta contro il dl sicurezza. Lo ha annunciato due giorni fa dinanzi alle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera durante l’audizione di Nessuno Tocchi Caino di cui è presidente. A proposito della resistenza nonviolenta in carcere, Bernardini ha ricordato i 20.000 detenuti in sciopero della fame a sostegno dell’approvazione dei decreti attuativi della riforma seguita agli Stati generali sul carcere, ha affermato che “il decreto sicurezza non si cala nella realtà del carcere quale è oggi, spesso privo di umanità e, a causa del sovraffollamento, di trattamenti degradanti della dignità umana”, e ha citato come esempio la visita fatta a Pasqua nel carcere femminile di Rebibbia dove ha trovato due giovani madri, portate dai domiciliari in carcere con i loro bambini, senza che avessero compiuto alcuna infrazione, sol perché i loro piccoli avevano compiuto un anno. Anche a fronte di questa irragionevolezza ha annunciato, a partire dalla mezzanotte di ieri, uno sciopero della fame “per fare riflettere i parlamentari, sempre più espropriati dei loro diritti, affinché siano espunte le parti più manifestamente incostituzionali del provvedimento”. Sergio d’Elia, a proposito dell’introduzione del reato di resistenza passiva, volto a criminalizzare anche il dissenso espresso in forme nonviolente, ha dichiarato che “pensare che l’ordine e la sicurezza di un istituto penitenziario possano essere assicurati dalla minaccia di sanzioni (che peraltro già esistono) e dalla esclusione dai benefici (che peraltro è già prevista) è la solita illusoria convinzione del valore deterrente della pena”. Elisabetta Zamparutti ha ricordato come l’Italia faccia parte di organizzazioni internazionali che hanno criticato anch’esse il decreto a partire dal Commissario europeo per i diritti umani, Michael O’Flaherty, che già aveva chiesto di non approvare, senza radicali modifiche, il testo del ddl Sicurezza (ora riprodotto nel dl), perché in contrasto con la Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Il dl sicurezza arriverà nell’Aula della Camera lunedì 26 maggio. Ieri è intervenuto invece Roberto Zaccaria, già professore di istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Firenze, per il quale con il passaggio da ddl a dl si è messo in atto un “aggiramento gravissimo e privo di adeguata giustificazione dell’art. 72 della Costituzione” che “incide sulle prerogative dei parlamentari”. Per Zaccaria siamo dinanzi ad una “torsione securitaria” per cui “si tutela più l’autorità che la libertà, andando a ledere i principi democratici”. Infine, ha detto il costituzionalista, “il dl introduce una pericolosa forma di repressione del dissenso che, invece, è elemento fondamentale della democrazia”. Ha preso poi la parola il professore avvocato Vittorio Manes: “si continua a scommettere nell’overdose punitiva, che, da molto tempo, caratterizza l’esperienza italiana, dove la pressione penale è stata sempre in costante, irrefrenabile aumento, sino ai livelli parossistici raggiunti nell’era del populismo penale. Negli ultimi due anni, in particolare, stiamo vivendo una stagione di ubriacatura punitiva, durante i quali sono state inserite nel codice di rito 48 nuove fattispecie di reato, e solo con il dl se ne aggiungono 14 insieme a 9 aggravanti”. Manes ha tenuto a ricordare che “ogni qualvolta che si introduce una nuova fattispecie di reato la sfera della libertà risulta compressa e ci si allontana dal modello di Stato di Diritto e ci si avvicina allo Stato di polizia”. Per l’esperto, poi, “oggi come un secolo fa si invoca più diritto penale, in ogni sua forma, più deterrenza mediante minaccia di pena, e più carcere come unica e prioritaria risposta, quali che siano i destinatari diretti e indiretti degli “effetti collaterali” della pena custodiale, il tutto nell’esibito intento di fronteggiare problemi di sicurezza inconsistenti e con la recondita finalità di guadagnare consenso al cospetto degli elettori, a cui si propina la farmacopea punitiva anche come arma di distrazione di massa dai problemi reali”. Mentre in carcere “i problemi reali esistono davvero, come ci ricordano i tassi di sovraffollamento medio superiori al 130% su scala nazionale, e come testimonia drammaticamente - dopo il tragico record dei 90 suicidi nell’anno passato - il ventesimo, lancinante suicidio a cui si è già arrivati nel corso di questo primo scorcio del 2025” ha concluso il professore. Aveva attaccato il Papa e i migranti: via Arenula rimuove Pappalardo di Errico Novi Il Dubbio, 25 aprile 2025 Il dirigente della giustizia minorile in Emilia Romagna aveva definito Francesco un “antipapa”. In una lettera il Coa di Bologna aveva chiesto a Nordio di intervenire. Un “funzionario pubblico” che non solo esprime “giudizi gravemente lesivi” nei confronti del Santo Padre ma che assume anche “atteggiamenti di intolleranza non celati nei confronti di cittadini extracomunitari” non è adeguato al “ruolo” e alla “funzione esercitata”, quella di “vertice regionale di un settore particolarmente delicato dell’Amministrazione della Giustizia qual è quello della Giustizia minorile”. Lo aveva scritto il Coa di Bologna, in una lettera al guardasigilli Carlo Nordio, a proposito di Antonio Pappalardo, il dirigente della Giustizia minorile per Emilia- Romagna e Marche che, tra le altre cose, aveva definito Francesco un “antipapa”. Ieri via Arenula ha dato seguito alle proteste dell’Ordine forense e di altre componenti della società civile e, dopo aver avviato martedì scorso un’indagine conoscitiva sulla vicenda, ha rimosso il funzionario. Il caso era deflagrato in seguito ad alcune frasi pubblicate su telegram da Pappalardo subito dopo la morte del Pontefice. In un post, appunto, Bergoglio era stato definito “un antipapa, vestito da Papa”. E “ora”, aveva aggiunto l’ormai ex capo della Giustizia minorile in Emilia, sarebbe “fondamentale un conclave pre 2013 per un vero Papa”. Negli ultimi 12 anni la Chiesa sarebbe stata ostaggio di “un vescovo usurpatore”, che avrebbe approfittato delle dimissioni “non valide” di Benedetto XVI. Oltre che sul pontificato di Francesco, Pappalardo si era spinto a obiettare persino sulle scelte che il Santo Padre appena scomparso aveva compiuto nelle ultime ore di vita: aveva censurato il fatto che Bergoglio non avesse impartito “la benedizione Urbi et Orbi” nella domenica di Pasqua, quando ha voluto incontrare i fedeli e attraversato via della Conciliazione sulla Jeep. Parole diffuse come detto su un canale telegram, “Logos e Liberas”. Un profilo dove gli attacchi a Francesco sono stati solo la più recente clamorosa espressione. In passato vi erano apparse tesi anti- migranti, altre contrarie ai diritti delle persone omosessuali, ma soprattutto erano state rilanciate e postate affermazioni alquanto estreme sul covid e sui vaccini, con attacchi all’Organizzazione mondiale della sanità e all’Ue. Non che in passato quei post non avessero attirato una certa pubblica attenzione: basti pensare che Pappalardo aveva bollato il periodo pandemico come “l’Apertheid del 2020- 22”. Ma appunto, gli attacchi rivolti a Bergoglio poche ore dopo la morte hanno costituito la classica goccia che fa traboccare il vaso. Intanto ci sono state dure reazioni anche da parte della politica bolognese, e del Pd in particolare: la senatrice dem Sandra Zampa, per esempio, si era soffermata sui “gravissimi orientamenti e sentimenti” che Pappalardo avrebbe reso pubblici “nei confronti dei migranti e in particolare dei minori stranieri non accompagnati dei quali per il suo ruolo è chiamato a occuparsi”. E intanto da via Arenula già era partita la verifica sulle esternazioni di Pappalardo: una nota diffusa martedì dal ministero informava che “il capo del dipartimento Giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, ha immediatamente disposto una indagine conoscitiva circa le affermazioni ascritte al dirigente ‘ ad interim’ del Centro per la Giustizia minorile dell’Emilia- Romagna, Antonio Pappalardo contro Papa Francesco”. L’indagine, aveva aggiunto il comunicato, “è volta ad accertare se ricorrano profili di responsabilità disciplinare a carico del funzionario”. Sangermano aveva assicurato che sarebbero stati adottati “tutti i provvedimenti ritenuti necessari a preservare e tutelare l’immagine e il prestigio dell’Amministrazione della Giustizia”. Fino alla decisione con cui ieri Pappalardo è stato rimosso. Un caso molto particolare, delicato anche viste le tensioni recenti che l’ex dirigente si era trovato a gestire nel carcere minorile bolognese del Pratello, nel quale poco prima di Pasqua erano stati assunti severi provvedimenti nei confronti di alcuni giovani reclusi ritenuti leader di una rivolta. Sono circostanze che spiegano la posizione assunta dall’Ordine degli avvocati di Bologna, intervenuto appunto con la lettera inviata a Nordio, allo stesso Sangermano, al Consiglio nazionale forense e all’Ocf. “Intolleranza, pregiudizio e odio non sono sentimenti che ben si sposano con l’importante incarico di responsabile di Giustizia minorile, ruolo che dovrebbe denotare umanità, accoglienza, anche in virtù del contesto in cui si opera”, aveva ricordato il Coa. E aveva fatto notare come i “giudizi lesivi” della memoria di Bergoglio, o la “intolleranza” che altri post di Pappalardo svelerebbero nei confronti degli extracomunitari, portino gli avvocati del capoluogo emiliano “a manifestare seri dubbi sull’effettiva imparzialità che deve connotare l’agire di qualsiasi pubblico funzionario nell’esercizio delle proprie funzioni, tanto più quando si tratta di ruoli che implicano la gestione di soggetti minori privati della loro libertà personale e sottoposti alla custodia dello Stato”. Wissem Latif, ucciso da uno Stato forte con i deboli di Giuseppe De Marzo L’Espresso, 25 aprile 2025 Dopo un calvario nel Cpr di Roma e in ospedale, è morto dimenticato e legato. Ora gli sia data giustizia. È morto legato mani e piedi a un letto di ospedale, tenuto in contenzione per più di cento ore, sedato, dopo quattro anni di calvario in cui non ha conosciuto altro che privazione della libertà e della dignità, senza avere commesso alcun reato. Wissem Ben Abdel Latif aveva 26 anni il 28 novembre 2021, quando la sua vita è stata orribilmente spezzata. Dopo un’agonia silenziosa, dimenticato in un corridoio dell’ospedale “San Camino” di Roma, dove era stato ricoverato su disposizione dello psichiatra, a causa delle condizioni in cui era stato ridotto nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) della capitale. Aveva attraversato il Mediterraneo, partendo da Kebili, un piccolo paese della Tunisia, e arrivando a Lampedusa il 3 ottobre 2021, con l’obiettivo di andare in Francia dallo zio per lavorare in una pizzeria e aiutare la famiglia a casa. E invece ha vissuto sulla sua pelle tutta la trafila dell’orrore dei tempi: confinato sulle navi quarantena, poi nel Cpr di Ponte Galeria, uno dei tanti lager in cui chi governa costringe le persone migranti, infine, senza aver avuto un giorno di libertà, è stato prima ricoverato e contenuto all’ospedale “G.B. Grassi” di Ostia e poi trasferito al “San Camino” dove, sempre contenuto, è stato sottoposto a un trattamento farmacologico molto pesante, nonostante i parametri clinici denunciassero il peggioramento delle sue condizioni di salute. Dopo più di cento ore legato, senza mai essere assistito da un mediatore, il suo cuore ha smesso di battere. Qualche giorno prima, il 24 novembre, il giudice di pace di Siracusa aveva annullato in via provvisoria il provvedimento di respingimento e di trattenimento presso il Cpr di Ponte Galeria, decidendo di rimetterlo immediatamente in libertà. Wissem non avrebbe mai dovuto essere rinchiuso, come denuncia l’avvocato della sua famiglia, Francesco Romeo. Invece nessuno gliel’ha detto e lui è morto per arresto cardiaco causato dai sedativi somministrati in dosi superiori alla terapia prescritta, secondo la tesi della Procura. Per un trattamento al quale non aveva mai dato il consenso, nemmeno inquadrato da un regime di trattamento sanitario obbligatorio. La famiglia è stata informata della sua morte solo dopo quattro giorni. “Nostro figlio era sano. Che cosa gli hanno fatto?”, ripetono Henda e Kamal Latif, mamma e papà di Wissem. Come qualsiasi genitore al mondo, non accettano di perdere un figlio, figurarsi in questa maniera. Fa male, molto male. Vogliono verità e giustizia, per lui e perché tragedie così non accadano più. Con questo obiettivo si sono costituiti in giudizio e su loro impulso, a marzo 2022, è nato il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”, sostenuto da molte realtà, tra cui Baobab Experience, Memoria Mediterranea e Rete dei Numeri Pari. Lo scorso 9 aprile i genitori di Wissem erano a Roma per partecipare all’udienza preliminare per omicidio colposo e falso a carico dell’infermiere. Nonostante le responsabilità non possano essere scaricate su un singolo operatore e gli errori si mischino con gli orrori. Conseguenza di una politica che da anni criminalizza la povertà, reprime chi è considerato invisibile, perseguita la solidarietà, rifiuta la cooperazione. La verità è che Wissem è morto con lo Stato addosso, ucciso da un Paese forte con i deboli e debole con i forti. Il processo è stato rinviato al 10 settembre. Il Comitato ha lanciato una campagna di sottoscrizione per sostenere le spese e garantire la presenza dei genitori. La sua storia riguarda tutti e tutte. Facciamo Eco! Roma. Il ricordo del Papa tra i detenuti a Rebibbia. Alemanno: “Qui in 40 anni è tutto peggiorato” di Nello Trocchia Il Domani, 25 aprile 2025 Una mattina con i carcerati che frequentano il corso di Scienze della comunicazione dell’Università di Tor Vergata. Raccontano le condizioni di detenzione e la rabbia di fronte alle promesse dei politici che puntualmente non vengono mantenute. “Tanto chi chiede conto delle cose che dicono?”. Quindici minuti. È il tempo oltre il quale papa Francesco non poteva spostarsi negli ultimi giorni della sua vita. Un limite giustificato dalle condizioni cliniche, un dettaglio che gli ha vietato di incontrare per l’ultima volta i detenuti di Rebibbia, il carcere romano dove il Pontefice aveva aperto la porta santa, lo scorso dicembre. Voleva salutarli come è riuscito a fare con i reclusi di Regina Coeli, l’altro istituto di pena della città. “Siamo comunque contenti che ci abbia pensato negli ultimi giorni della sua vita”, racconta la direttrice, Teresa Mascolo. Il particolare della visita sfumata è stato raccontato dai vertici del carcere durante un incontro tra i detenuti e i giornalisti. Qui dentro, tra celle, blindo e grate, la fede è una speranza, a volte l’unica, e il papa un esempio perché “a differenza di politica e stampa che, in questo inferno, non ci vogliono mettere piede, si è occupato di noi”, dice un recluso. L’incontro inizia a metà mattinata. Dietro i banchi con gli altri detenuti arriva poco prima dell’inizio Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma, in carcere dallo scorso dicembre dopo la revoca dei servizi sociali per aver violato le prescrizioni imposte. In seconda fila c’è anche Giovanni Castellucci, l’ex ad di Autostrade, condannato a sei anni di detenzione per la strage del 28 luglio del 2013 quando un bus precipitò dal viadotto dell’Acqualonga nella zona di Monteforte Irpino, ad Avellino, causando la morte di 40 persone. Alcuni dei presenti frequentano il corso di scienze della Comunicazione dell’Università di Tor Vergata che, insieme al Cnel, ha promosso questo confronto. Si inizia con brevi interventi dei giornalisti, il mea culpa per una categoria che vivacchia tra copia incolla, notizie censurate, indagati già colpevoli e la morale che si sostituisce al diritto. Poi tocca ai detenuti che squadernano senza troppa retorica i problemi del carcere da un osservatorio, il reparto G8, che è un modello a Rebibbia. “Ci sono qui dentro persone ultraottantenni. La gente muore quasi ogni giorno dentro una cella, ma nessuno se ne accorge, come se non esistessimo”, racconta il primo detenuto. Il carcere è un tema stagionale, un articolo a Pasqua, uno a Natale e l’altro a Ferragosto. “Dovremmo parlare di recidive, di come si abbattono, di quanto sia importante uscire da qui dentro diversi. Bisogna scegliere tra la sicurezza e la cultura, se c’è lavoro e formazione noi siamo una risorsa o altrimenti continueremo a essere dei dimenticati”, dice un altro ospite di Rebibbia che dietro le sbarre si è laureato in Giurisprudenza. La recidiva, lo dicono tutte le statistiche, si abbatte con la formazione e l’inserimento lavorativo, meno recidiva significa più sicurezza, ma il carcere è usato come lavatoio di ogni male. Negli ultimi due anni, con la destra al governo, sono aumentati i reati, aggravate le pene ed elevato a sistema il modello panpenalistico: carcere e manganello. L’ultimo capo del Dap, Giovanni Russo, dimissionario dal dicembre scorso e mai sostituito dal governo, aveva promesso in un anno l’aumento dei detenuti al lavoro, è rimasta una delle tante promesse mai mantenute. “Tanto chi chiede conto delle cose che dicono? Quando il ministro dice “faremo carceri nuove” nessuno gli dice che il reparto g10 dovevano consegnarlo anni fa ed è ancora in costruzione, che mentre costruisci nuovi istituti, intanto, aumenta il numero dei reclusi ed è tutto inutile. Voi giornalisti dovete chiedere conto”, è il parere di un altro detenuto che punta l’indice contro le interviste accomodanti nelle quali il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, può raccontare come formidabile la sua disastrosa gestione dell’universo giustizia. I suicidi fissano ogni anno un nuovo record, il sovraffollamento è alle stelle con oltre 60 mila detenuti. Alemanno: “Peggio di 40 anni fa” - Tra loro c’è chi ha superato gli 80 anni di età. “Leggetela voi, leggetela voi”, dice un detenuto mentre consegna ad Alessandro Barbano, che modera l’incontro, una lettera. È rivolta al padre spirituale, parla di peccati e perdono, parla della libertà smarrita e di quello che verrà. Si emoziona mentre le sue parole risuonano nell’aula Meta, si nasconde il volto tra le mani, ha 83 anni ed è ancora lì. Alemanno interviene per denunciare il buco nero del carcere dove tutto si perde, dove tutto diventa inaccessibile e ignoto. “Sono qui per la seconda volta, negli anni ottanta fui arrestato per un reato politico. Eravamo in quattro in cella, ora siamo sei. La situazione è peggiorata. Se salite due piani insieme a me ed entrate in una cella sembra di tornare all’ottocento”, dice. Eppure nella recente festa della penitenziaria, in piazza del Popolo, c’era un modellino di cella da 10 metri quadrati per due ospiti. I modellini per cancellare la realtà. “Avevo una visita l’altro giorno, niente di grave, ma la scorta non si è presentata, c’è una questione di cure negate di cui nessuno sembra importarsene più di tanto”, conclude Alemanno. Ha ragione, la sanità, le cure, i farmaci e il cibo restano questioni irrisolte che aumentano il disagio. Gli interventi si susseguono, c’è chi ricorda le responsabilità dei partiti anche di sinistra nell’aver trasformato il carcere in un luogo dimenticato, chi non intravede nulla di buono all’orizzonte: “Cosa vuoi pensare quando un sottosegretario (Andrea Delmastro Delle Vedove, ndr) sembra goda pensando all’aria che manca ai detenuti nell’auto”, dice. Le due ore di confronto volano via veloci, tra gli ultimi interventi quello di Gabriele Bianchi, condannato a 28 anni, il fratello all’ergastolo, nel processo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il ventunenne ucciso in un pestaggio a Colleferro in provincia di Roma il 6 settembre 2020. Ribadisce quanto detto in aula, racconta e chiede ascolto, ma non è il luogo per le interviste, vanno autorizzate, ribadisce la direttrice. Il tempo del confronto è finito. Un agente urla “Aria”, dalle celle escono i detenuti, attraversiamo il corridoio, ritiriamo gli effetti personali e il cellulare. A un passo dall’uscita beviamo il caffè, si chiama Galeotto, all’interno dell’istituto c’è la torrefazione dove lavorano nove detenuti. Pochi metri prima di salutare Rebibbia incrociamo l’ultima scena che racconta il carcere. “Vieni di qua, papà è di qua”, dice una mamma afferrando la figlia piccola per mano. È l’ora del colloquio. Asti. La Garante dei detenuti: “Non sono fascista né anti-fascista, oggi festeggio in famiglia” di Laura Secci La Stampa, 25 aprile 2025 Stefania Sterpetti: “Sono vittima della macchina del fango”. “Chiariamoci subito. Io non sono fascista. Perché il fascismo non esiste più”. Stefania Sterpetti, la garante dei detenuti di Asti finita nella bufera per i post un cui inneggia al Duce e augura la morte a Cesare Battisti, risponde con quel piglio che gli analisti chiamerebbero passivo-aggressivo. “Non ho mai fatto male a una mosca io. Non mi merito questa macchina del fango. Mi danno della fascista. Ma come potrei esserlo. Il fascismo è morto”. Perché allora ha postato una foto che inneggia a Mussolini sul suo profilo Fb? È morto anche lui. .. “Ma infatti è una cosa vecchia di anni”. Vecchia, ma non così tanto... “Ma non è di oggi. Pensi che manco me la ricordavo più. È stata tirata fuori ad arte dall’opposizione per attaccarmi visto che sono di destra”. Comunque ha rimosso i post. Un modo per dissociarsi da quanto pensava? “Io non ho rimosso proprio nulla! Stavo guardano la partita quando è scoppiata questa polemica. Sono andata a vedere sulla mia pagina perché non riuscivo a capire a cosa si riferissero gli attacchi. E non ho trovato nulla. Dicevo, ma dov’è? Cerca qui, cerca lì. Non c’era niente”. Che partita stava guardando? “Genoa -Lazio. Mi piace il calcio”. Tiriamo a indovinare... tifa per la Lazio... “E certo. Sono romana”. I post chi può averli rimossi secondo lei? “Non ne ho idea, vorrei saperlo anche io. Qualcuno di sicuro è entrato nel mio profilo. Farò denuncia alla polizia postale per scoprire chi è stato. Sono vittima di una violazione gravissima”. Lei non li avrebbe mai rimossi? “Certo che no. Sarebbe stato da cretini”. In che senso? “Mi dica lei che senso avrebbe rimuoverli dopo? Semmai uno li toglie prima che scoppi la bufera mica quando ormai è tardi. Sarebbe da stupidi e io non mi reputo una persona stupida”. Venendo ai contenuti. In uno dei post ha augurato la morte a Cesare Battisti che aveva iniziato lo sciopero della fame... “Io da medico con 40 anni di onorata carriera non ho mai augurato la morte a nessuno. Non mi ricordo neanche che cosa ho scritto”. Glielo ricordiamo. Ha scritto: “Visto che non c’è la pena di morte, fosse la volta buona che si toglie di mezzo da solo… “Ma sarà stata una cosa buttata lì di getto”. In qualità di medico e nuovo Garante dei detenuti, adesso vuole precisare qualcosa su queste parole “buttate lì di getto”? “Sì. Che sono state strumentalizzate dalla sinistra. Perché è pure il 25 aprile e devono sempre soffiare sul fuoco attaccando la destra. Lo fanno tutti i giorni con la Meloni su qualunque cosa”. A proposito di 25 aprile. Lei non è fascista. Può dirsi antifascista? “No. Perché dovrei? Se il fascismo non esiste non ha senso dirsi antifascisti. Poi basta con queste discussioni della sinistra su chi lo dice e chi no”. Però festeggia? “Cosa devo festeggiare?”. L’anniversario della Liberazione dal nazifascismo... “Sì quello sì. Sono come tutti gli italiani. Festeggiano tutti”. Lei in che modo? “Guardi io ho una famiglia. Dei nipoti e tante cose serie a cui pensare”. Tra queste di certo c’è il suo nuovo incarico. Cosa intende fare per migliorare le condizioni dei detenuti del carcere di Asti? La struttura è fatiscente, le celle sovraffollate. “Ho in mente molte cose, ma non le posso riassumere così in una telefonata”. Ce ne dica una? “Ne parleremo più avanti. L’argomento è talmente vasto. E adesso devo andare. Ho una visita medica”. Un’ultima domanda. L’hanno accusata di essere razzista. Lo è? “Io? Ma se ho un sacco di amici di colore. Di tutte le nazionalità, rumeni…”. Ha scritto che i migranti sono “ciarpame” e, citando Mussolini, che vengono prima gli italiani… “Non me lo ricordo. Ma mi sento di dirle che non sono parole mie!”. Erano riferite alla sanità. Il Duce nell’immagine che lei ha postato rivendicava il merito di “aver dato agli italiani la sanità gratuita”. Un settore che, da medico, lei ben conosce... “E certo. Chiunque può confermarlo, io sono sempre stata in favore della sanità pubblica. Non di quella privata. La salute è un diritto di tutti che dobbiamo garantire”. Prima agli italiani? O garantire a tutti? “Questa è una domanda cattiva. La saluto. E si ricordi: non sono una cattiva persona, mi creda”. Asti. Garante dei detenuti, l’appello dei volontari: “Nomina da ripensare, non perdano un’altra occasione” lavocediasti.it, 25 aprile 2025 Nell’acceso dibattito si inserisce, per tramite del proprio segretario Giuseppe Passarino, anche l’associazione Effatà che opera presso la casa circondariale di Asti. Che peccato! Che peccato perdere l’occasione così significativa rappresentata dalla nomina di un nuovo Garante comunale delle persone private della libertà e non farne un momento che avrebbe potuto illuminare l’importanza della giustizia sociale e della dignità umana. Che peccato, quando chi ha il privilegio di essere al servizio della comunità sceglie di manifestare il suo potere invece di privilegiare lo spirito di servizio, dimenticando che la vera “Politica” parte dall’ ascolto e dal riconoscimento delle competenze, anche quelle di chi non la pensa come te. Che peccato vedere sfumare l’opportunità di essere un garante di chi ha perso la libertà personale, di portare conforto e speranza a chi vive ai margini. Che peccato ignorare le parole di Papa Francesco, così potenti nel loro richiamo alla compassione e all’accoglienza, e non tradurle in azioni concrete. Che peccato, inteso proprio in senso cristiano, dove il peccato non sta solo nell’errore ma nella consapevolezza di poter scegliere il bene e decidere altrimenti. Ma è proprio nel “che peccato” che si cela la possibilità di redenzione. L’umiltà di riconoscere gli errori, di mettere da parte la vanità e di ritornare al vero spirito di servizio, può trasformare un peccato in occasione di grazia. Chi si proclama cattolico praticante ha il dovere morale e spirituale di fare questo passo, di lasciare che l’umiltà superi l’orgoglio e che il cuore torni alla sua missione originaria: servire gli altri con amore. Che peccato anche dal punto di vista di coloro che semplicemente hanno a cuore i valori della solidarietà e della coesione sociale indicati dalla Costituzione. Ancora una volta chi ne ha la possibilità, ci ripensi non perda un’altra occasione. Per i volontari dell’Associazione Effatà, il segretario Giuseppe Passarino Fermo. Libro del cordoglio in carcere: “Il Papa credeva in loro. Così potranno ricordarlo” di Angelica Malvatani Il Resto del Carlino, 25 aprile 2025 Il prefetto nella Casa circondariale per permettere agli ospiti di lasciare un pensiero per Francesco: “Il suo ultimo saluto è stato a Regina Coeli”. Papa Francesco era convinto che chi sta in carcere ha bisogno più di tutti di compassione e dignità. Ogni volta che usciva dopo una visita si chiedeva: “Perché loro e non io? È un caso che siano loro dietro le sbarre e io fuori”, e apriva la porta Santa dentro un carcere, era qui il giovedì santo per la lavanda dei piedi e trovava sempre amore e comprensione. Per questo è parso del tutto naturale portare anche nella Casa di reclusione di Fermo il libro del cordoglio per la sua morte, custodito dalla Prefettura di Fermo. Il prefetto Edoardo D’Alascio è stato ieri mattina personalmente a portare il libro, a vivere un momento di preghiera e raccogliere i pensieri dei detenuti per Francesco che non c’è più ma resto nei pensieri di tutti. “Un’idea ponderata e un’attenzione che ritengo necessaria per persone che vorrebbero manifestare la loro vicinanza e partecipare alla scomparsa del Santo Padre e non possono farlo fisicamente”, ha spiegato il prefetto, Abbiamo pensato di organizzare un momento di vicinanza così, così come con il direttore generale Ast Roberto Grinta abbiamo pensato anche per l’ospedale, luoghi in cui la sofferenza è al centro, come era al centro della missione di papa Francesco. Un messaggio di partecipazione importante”. il prefetto spiega che anche per chi non potesse andare fisicamente in prefettura a firmare il libro c’è la possibilità di scrivere una mail all’indirizzo istituzionale, tutti i messaggi saranno poi consegnati all’Arcivescovo di Fermo Rocco Pennacchio: “È stato un modello e un esempio specie per chi come me si occupa delle istituzioni, lui è stato testimone di partecipazione e passione e amore per le comunità”. La direttrice del carcere, Serena Stoico ha consentito ieri ai detenuti di riunirsi in palestra per pregare insieme: “Il papa ci ha detto con grande decisione che i detenuti devono essere considerati parte della società nella quale dovranno rientrare. Lui stesso ha donato 200 mila euro per un carcere minorile, per le attività lavorative. Solo quattro giorni prima della sua morte è tornato a Regina Caeli, aveva un legame fortissimo con questi luoghi di dolore che ci lascia in custodia”. Il vescovo emerito, Armando Trasarti, che a Fermo è cappellano del carcere, spiega che Papa francesco aveva un rapporto speciale con i sofferenti: “I detenuti sono quelli più lontani e impropriamente non sono considerati parte della società civile. Una sorpresa che arrivi qui il libro del cordoglio, affascinante questo gesto, l’ultimo viaggio del Papa del resto è stato il saluto ai carcerati il giovedì santo, la porta santa l’ha aperta in carcere, per chi ha davvero bisogno di misericordia. La speranza è una parola difficile ma qui la si porta dando dignità alla persona che vale sempre, per quello che è e per quello che ha fatto, con l’accoglienza, l’ascolto, la mancanza di giudizio”. Firenze. Una mostra sulle carceri per combattere i pregiudizi sui detenuti Il Messaggero, 25 aprile 2025 A Firenze sarà esposta nella Basilica della Santissima Annunziata una mostra sulle carceri per combattere i pregiudizi nei confronti delle persone detenute. Un ponte tra arte e giustizia sociale prende forma nel cuore di Firenze con “Poesia e salvezza”, l’esposizione inaugurata oggi nel Chiostro grande. Protagonista dell’esposizione è l’artista siciliana Gessica La Pira, che attraverso 45 opere originali si propone di abbattere i pregiudizi che gravano sulle persone detenute e di contribuire attivamente al loro reinserimento nella società. La mostra resterà aperta al pubblico fino al 2 maggio e l’ingresso è gratuito. Si potrà partecipare tutti i giorni dalle 10.30 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00. La mostra, visitabile gratuitamente fino al 4 maggio, ha un duplice obiettivo: sensibilizzare il pubblico sull’importanza del superamento dello stigma carcerario e raccogliere fondi a sostegno di progetti di reinserimento per detenuti ed ex detenuti delle carceri fiorentine di Sollicciano e Gozzini. Le opere in esposizione, tutte realizzate con tecnica mista su tela, saranno infatti messe in vendita, e il ricavato sarà interamente destinato a queste iniziative. Curata da Francesca Roberti e ideata dalla criminologa Giovanna Ottavi, la mostra si distingue per una poetica visiva intensa e meditativa. Le tele di La Pira, dominate da luce e tonalità di bianco, evocano una dimensione sacrale e femminile, simbolo di rinascita e purezza. Il percorso artistico esplora la perdita dell’identità culturale nella società contemporanea, in un dialogo continuo tra simbolismo e introspezione. “L’intento è quello di sensibilizzare il pubblico verso una direzione che vede l’arte come necessità dello spirito, come responsabilità”, ha spiegato La Pira durante l’inaugurazione. “Educare alla bellezza vuol dire educare alla speranza. L’essere umano, la nostra identità e la cultura sono bussole indispensabili per uno stato sociale che non deve arrendersi, che deve includere ogni forma di umanità e mantenere la singolarità di ogni vita”. La dimensione sociale dell’iniziativa è stata ribadita anche da Giovanna Ottavi, che da anni lavora al fianco dei detenuti attraverso il centro diurno Attavante e l’associazione C.I.A.O. “È importante che chi visiterà la mostra superi paure e pregiudizi verso chi ha vissuto l’esperienza del carcere”, ha sottolineato. “Ogni detenuto ha una storia e, una volta scontata la pena, ha diritto a essere reintegrato come persona nella collettività”. Il progetto gode del patrocinio del Comune di Firenze, della Regione Toscana e del Consiglio Regionale della Toscana. Catanzaro. Il teatro incontra la solidarietà grazie ai giovani detenuti corrieredellacalabria.it, 25 aprile 2025 Una serata di teatro, impegno civile e solidarietà: è questo il cuore dell’iniziativa promossa dalla Camera Penale di Catanzaro e dall’associazione A.C.S.A. & STE Ets, in collaborazione con l’Istituto Penitenziario Minorile di Catanzaro. Il prossimo 7 giugno, al Teatro Comunale di Catanzaro, andrà in scena la commedia di Eduardo De Filippo “Uomo e galantuomo”, interpretata dai giovani detenuti dell’IPM. L’evento nasce da una proposta spontanea degli stessi ragazzi, desiderosi di contribuire concretamente a una causa importante: sostenere il progetto “We Will Make Your Dream Come True” che da anni permette di realizzare i sogni di tanti piccoli pazienti dei reparti pediatrici dell’Azienda ospedaliero-universitaria “Renato Dulbecco”. Un progetto che trova sempre il sostegno del commissario straordinario dell’AOU, la dottoressa Simona Carbone. Un gesto carico di significato che testimonia la forza dei percorsi di rieducazione attraverso la cultura e il valore della responsabilità sociale anche in contesti difficili. Il progetto rappresenta infatti un’opportunità concreta per abbattere stereotipi e distanze, mostrando come l’impegno, la creatività e la volontà di riscatto possano generare bellezza e utilità. È il segno di un cammino possibile: quello della rieducazione attraverso l’arte, dove le parole, i gesti e il lavoro collettivo diventano strumenti di crescita e responsabilità. È anche un modo per sfidare i pregiudizi, per mostrare che anche nei contesti più difficili possono germogliare umanità, consapevolezza e generosità. Per rendere possibile tutto questo, c’è bisogno del sostegno di tutti. Gli organizzatori lanciano un appello a istituzioni, associazioni, cittadini: aiutare a coprire le spese vive dell’evento per fare in modo che ogni singolo euro del biglietto vada a chi ne ha davvero bisogno. È molto più di uno spettacolo: è una chiamata alla solidarietà, un invito a credere che la giustizia possa essere anche riparativa, umana, condivisa. I particolari dell’evento, il contributo delle associazioni protagoniste di questo momento corale di solidarietà, verranno resi noti nei prossimi giorni nel corso di una conferenza stampa. Perché sui muri ci sono ancora le svastiche di Alessandro Portelli La Stampa, 25 aprile 2025 Nel classico di Guglielmo Petroni “Il mondo è una prigione” ripubblicato, oggi si trovano le domande che non abbiamo avuto il coraggio di farci nel dopoguerra. Pubblichiamo la prefazione di Sandro Portelli a “Il mondo è una prigione” di Guglielmo Petroni (Premio Strega nel 1974), ripubblicato da La Nave di Teseo e da oggi, 25 aprile, in libreria. Questo libro, “Il mondo è una prigione”, è uno di quelli che tu leggi dieci volte e dieci volte hai letto dieci libri diversi, perché è pieno di possibilità, è pieno di strade che si aprono e che ti si aprono. Rileggendolo l’ultima volta, mi sono accorto che non lo stavo affatto leggendo come un libro sulla Resistenza o come un libro sulla guerra, io lo stavo leggendo come un libro sul dopoguerra. Un libro che è in qualche modo sul nostro presente: pensate alla Nota 1960 verso la fine, “ora che ne abbiamo viste di tutti i colori, che vediamo coi nostri occhi di nuovo le svastiche disegnate sui muri”. Noi lo leggiamo adesso e ci parla adesso. La ragione per cui l’ho letto come un libro sul dopoguerra - anche se Guglielmo Petroni scrive che la guerra è ancora in corso - è che credo che la dimensione della storia che racconta sia contemporaneamente storica, biografica ma anche metaforica e, se vogliamo, allegorica: il fascismo, via Tasso, la tortura sono dei fatti molto concreti, molto specificatamente storici, ma sono anche una figura della sfida alla nostra comune umanità. La Liberazione, quello che succede nel momento in cui Petroni esce da via Tasso, è un trovarsi - per usare un suo aggettivo - smarriti di fronte alla sfida di una difficile, complicata, solitaria libertà. Pensiamo a che cosa era l’aria che si respirava in Italia nel dopoguerra, quando questo libro incontra le difficoltà che incontra, che sono le stesse difficoltà di Se questo è un uomo, ma che sono le stesse difficoltà dei reduci di Auschwitz che nessuno vuole stare a sentire: noi siamo in un paese che ha furore di ricordare e furore di dimenticare, e cerca contemporaneamente di raccontarsi la storia che ha vissuto e allo stesso tempo cerca di dimenticarsela: un paese in cui la dimenticanza sta dentro i rituali del ricordo. Ecco che una pretesa, un’aspettativa di narrazione soddisfacente, di narrazione epica, è una pretesa che significa “raccontiamoci solo le cose che ci piacciono, raccontiamoci solo le cose che sono andate bene, raccontiamoci solo le cose che ci danno speranza - e le cose che ci fanno di sperare, le cose che ci fanno soffrire e le cose che ci fanno dubitare di noi stessi le mettiamo in qualche modo fra parentesi”. Quando Petroni rimpiange la prigione è un passo che rinvia direttamente all’ultima famosa lettera di Giaime Pintor quando dice apertamente “Se non fosse stato per la guerra noi avremmo vissuto la nostra vita parlando di ragazze”, cosa che più o meno dice anche Petroni qua; o all’ultima lettera di Bartolomeo Vanzetti quando dice “Se non fosse per la vostra condanna a morte, se non fosse per la passione con cui ci avete condannati, io e il mio amico Nicola Sacco avremmo vissuto da calzolai e pescivendoli ignoti e dimenticati dalla storia”. Ecco, lì tu hai un momento in cui la sfida ti chiama e Petroni non ha nessun bisogno di spiegare il perché - anche se è chiarissimo il perché, cioè il momento in cui descrive in due righe il fallito sciopero del 3 maggio ‘44, quando dice a un certo punto “si dimostrò che il popolo non si piega agli oppressori”. Ecco, allora la domanda è: “E poi nel tempo ordinario, quello normale, tu che fai? Soprattutto, tu che fai quando hai avuto un’esperienza di cosa è possibile, di quello di cui noi siamo capaci, quello di cui sono capaci gli esseri umani e quello di cui sono capace io?”. Penso che questo sia un libro del dopoguerra proprio per la sua struttura di memoria. Petroni prima racconta la Liberazione e poi ci racconta, perché il punto di vista è del dopo. Quel passo memorabile in cui lui si trova a doversi rifugiare nella tana di una volpe, condividendola con l’animale, a me ricorda le celebri memorie di Frederick Douglass, schiavo in America, che scrive la sua autobiografia di schiavo e descrive esattamente la stessa cosa: il dovere condividere lo spazio con le bestie, cioè l’essere arrivato al limite di che cosa significa essere umano. Però c’è una differenza profonda: perché nella storia di Douglass quel momento estremo è l’inizio di un processo di liberazione, mentre qui Petroni di quel momento estremo ne ha esperienza quando la Liberazione in teoria è già avvenuta; e questo lascia un dubbio, lascia una perplessità, lascia una domanda profonda su Se questo è un uomo, su “devi dimenticare di essere un uomo”, su che cosa è possibile. È successo, quindi può succedere ancora - come dice Levi - e davanti a questa difficoltà, a questo problema universale, io credo che questo sia l’esatto contrario di un libro intimista - ovviamente col senno di poi e col senno di chi ha avuto maestri tra allora e adesso; ma insomma un libro che è difficile trattare come un libro intimista, un libro in cui sulla base di un’esperienza concreta, specifica, ci si pone delle domande universali, che sono universali senza mai divenire astratte, senza mai divenire generiche, perché la misura dell’umano, la misura della libertà è verificata su quell’esperienza specifica, per cui la concretezza di quello che accade sorregge il vigore allegorico, universalizzante di questa narrazione. Pensiamo allora a questa difficoltà di ricordare e dimenticare al tempo stesso che ha la nostra cultura e alla sfida che Petroni lancia alla fine - quando parla della necessità soltanto di una “soluzione morale” che “poteva mettere sul nuovo cammino me, i miei amici, i miei coetanei, i miei connazionali”. Una soluzione morale “l’uomo la trova solo cercando le verità universali che delle tragedie che l’attorniano hanno segno nelle proprie sensazioni, nei sentimenti sepolti in fondo al cuore”: più scavi dentro l’individuo, più trovi l’universale. Ma la soluzione morale è esattamente la cosa che il nostro paese ha tentato disperatamente di non fare, perché quello che Petroni ci propone qui è guardarci nello specchio per vedere di che cosa siamo capaci, e ci dimentichiamo che i torturatori sono universalmente umani, sono tedeschi e sono italiani e in questo libro sono tutte e tre le cose. Nel momento della Liberazione, l’Italia ha evitato di fare i conti con che cosa era stata e con che cosa aveva fatto: i criminali di guerra italiani non solo non sono stati processati, ma ce li siamo ritrovati spesso in ruoli d’importanza istituzionale e soprattutto non ci siamo domandati che cosa avevamo fatto e che cosa siamo stati. Petroni, dal punto di vista di un’esperienza assolutamente personale e profonda, ha la capacità invece di straniare tutto quello che accade e guardare - pensiamo agli aggettivi che usa: “serenità”, “calma”, “placidità”. Qui chiaramente ci sono meccanismi di difesa, il rimpianto - penso anche a un’altra autobiografia partigiana molto meno potente di questa, anche se significativa, quella di Marisa Musu, dove lei dice le stesse cose rispetto alla condanna a morte: “Tutto quello che mi dispiaceva era tutto quello che non avevo fatto” -, il pensare a quello che non hai fatto, ti difende da quello che sta succedendo, come anche l’uscire da sé e il guardarsi, questo “Bravo Memo” (come gli amici chiamavano Guglielmo), questa dimensione spettatoriale che permette un rigore etico e un rigore politico che non hanno bisogno del vocabolario dell’etica e della politica. Queste cose Petroni ce le getta in faccia e ci dice “E adesso che è finita, che cosa fate? Che cosa facciamo? Chi siamo?”. La mancata risposta a queste domande di Petroni è la ragione per cui oggi abbiamo le svastiche sui muri delle nostre città, è la pretesa di non affrontare quella soluzione morale, rigorosa, durissima nei nostri stessi confronti che innerva ogni parola di questo libro. Ecco, io credo che pensandolo non come una testimonianza del ‘44, ma come una sfida per il ‘45 fino al 2025, questo libro ce lo dobbiamo portare sempre con noi perché come tutti i classici è contemporaneamente un libro legatissimo a un tempo ma anche capace di funzionare in tutti i tempi e dire cose diverse per ciascun momento della nostra storia. 25 aprile, la memoria e il dolore di Venanzio Postiglione Corriere della Sera, 25 aprile 2025 Il ricordo della Liberazione e il lutto per il Papa non sono incompatibili. Quella mattina. Qui. Al Corriere. Nella stessa sala dove Luigi Albertini aveva salutato la redazione e la libertà di stampa, novembre 1925, “con il cuore gonfio d’amarezza”. Ora ci sono i giornalisti, i tipografi, i partigiani, c’è una ferita di vent’anni da ricucire, Dino Buzzati si prepara a scrivere l’articolo di cronaca, si combatte ancora per le strade, è il 25 aprile del ‘45. Il titolo del “nuovo” Corriere è un pezzo di storia: “Milano insorge contro i nazifascisti”. L’editoriale di Mario Borsa urla “Riscossa”, esalta “il popolo che rialza la testa” e allo stesso tempo si appella alla ragione: “Non ci devono essere vendette individuali, ma ci deve essere giustizia”. Cuore e testa. Sobrietà vera, nelle ore più drammatiche. Dopo tanto tempo è difficile fare un bilancio, ma alla fine è intuitivo. E la prima cosa che viene in mente è la più chiara: dopo 20 anni di dittatura, ne abbiamo avuti 80 di libertà e di democrazia. Grazie alle truppe alleate e grazie ai partigiani, di ogni colore, di varie opinioni, di svariati orientamenti, che hanno ridato valore, dignità, immagine all’Italia, sottraendola (in parte) alla voragine della disfatta. La realtà dei fatti e la riconciliazione nazionale: tutte e due indispensabili, come ogni 25 Aprile, la verità è sacra ma non è una clava. Il partigiano Johnny, nel romanzo, strepitoso, di Beppe Fenoglio, finisce tra i combattenti comunisti e si sente a disagio, lo dice in inglese: “I’m in the wrong sector of the right side”, sono nel settore sbagliato della parte giusta. Cambia brigata, passa con i badogliani, i moderati, e continua la Resistenza. Nell’altro fronte, quello opposto, c’era Auschwitz. Come ricorda Liliana Segre alla nostra Alessia Rastelli: “In Italia le leggi razziali furono emanate dal regime mussoliniano e quando, a 13 anni, fui deportata da quell’antro oscuro della Stazione Centrale di Milano, dove oggi sorge il Memoriale della Shoah, a spingerci a calci e pugni sui treni non furono solo i nazisti ma anche zelanti militi fascisti della Repubblica sociale”. Superfluo ogni commento. Siamo nei cinque giorni di lutto nazionale per la morte di papa Francesco. Oggi gli 80 anni della Liberazione, domani i funerali del Pontefice, con migliaia di fedeli e i leader del mondo. Lutto e Festa, insieme, come in un romanzo sudamericano dove tutto è reale e tutto è surreale. Il governo ha chiesto “sobrietà” per i cortei del 25 Aprile (non era necessario) e una fetta della sinistra si è subito indignata. Non sembrava il paladino della sobrietà, papa Francesco, non era proprio il primo aspetto del suo carattere. Come ha scritto Ferruccio de Bortoli, così non si rende onore a un Pontefice “che aveva voluto semplificare le sue esequie perché assomigliassero il più possibile a quelle di un cittadino cristiano e che mai avrebbe voluto intralciare il ricordo solenne dei tanti che diedero la vita per le nostre libertà”. Bergoglio che scomunica una festa, in effetti, è un cortocircuito logico. Poi, certo, oggi i cortei dovranno essere colorati e però sereni, anche vivaci ma in nessun caso aggressivi e violenti: oppure diventeranno un boomerang ideale e politico. E questo vale in generale, al di là dei funerali del Papa già alle porte. Il termine “lotta” forse è sbagliato, sicuramente è abusato. Se qualcuno pensa di bruciare le bandiere e spaccare le vetrine o insultare il prossimo, non sfida il lutto ma la civiltà stessa, e vale sempre la massima di Joseph Pulitzer: “Tutti possono aspirare a tutto, l’unica qualifica di cui un uomo può ritrovarsi in possesso già alla nascita è quella di idiota”. Gli scontri degli anni Settanta sono lontani e nessuno li rimpiange: più passa il tempo e più appaiono la caricatura (tragica) della Resistenza, anche perché Forlani ha sempre avuto poco di Mussolini. I giorni del dolore e i giorni della memoria, uniti per caso, non sono incompatibili. Solo la fantasia della politica, ancora una volta, come in un eterno ritorno, ci racconta che da queste parti la situazione è grave ma non è seria. Sono passati 80 anni esatti, quell’editoriale di Mario Borsa sembra scritto adesso: “Il domani ci serba un grave compito, ma l’opera di ricostruzione delle nostre case sarà nulla al confronto dell’opera di ricostruzione delle nostre coscienze. Ci riusciremo? Certo, se ci proveremo con fede e senza paura”. Con fede e senza paura. Diciamo che c’è ancora molto da lavorare. Lottare per una vita migliore. Il senso profondo del 25 aprile di Piero Ignazi* I Domani, 25 aprile 2025 Ovunque in Europa, al momento della fine della guerra, scoppia la voglia di vivere. I ragazzi e le ragazze danzano tutta la notte nella prima estate di pace, scrivono i giornali francesi, e nella Roma liberata si balla in tutte le piazze, tanto da suscitare le proteste di un Vaticano così lontano dall’oggi. La Liberazione del 25 aprile riporta indietro le lancette dell’orologio a un tempo perduto di possibile serenità, di possibile costruzione di una vita nuova. Ora che “la guerra è finita, è giunto il momento dell’amore”, conclude così la sua storia di quel periodo William Hitchcock. L’orgia di morte che ha travolto il nazismo e i suoi servi, soprattutto laddove hanno incontrato una resistenza armata come in Italia, in Francia e nei Balcani fino alla Grecia, ha steso un’ombra tale da provocare una reazione di segno opposto. La pace irrompe nelle società con due fondamentali domande di libertà, fisica e politica. Da un lato, si è riaccesa l’aspettativa della sicurezza personale, libera dall’arbitrio del più forte, anche se gli anni dell’immediato Dopoguerra, ovunque in Europa, sono contrassegnati da un lascito di violenza “ordinaria” che si interromperà solo negli anni Cinquanta; dall’altro, esplode la possibilità di parlare, incontrarsi, manifestare, organizzarsi, di essere non più dei numeri, dei figuranti di adunate o carne di cannone nei campi di battaglia, ma persone che prendono il destino nelle loro mani. La politica postbellica - La memoria della guerra forgia la politica postbellica. Il ruolo delle emozioni, del vissuto personale, del ricordo degli eventi tragici di quegli anni definisce le prospettive con cui si guarda al mondo esterno e al futuro. La guerra che mette a repentaglio la vita stessa è un gigantesco produttore di emozioni: nulla è più potente, violento e incontrollabile. Poiché, come scrive Martha Nussbaum, le emozioni sintetizzano e fissano all’interno di una persona il significato di quanto accade fuori di essa, il vissuto di tanti uomini e tante donne di questa fase tra vita e morte marca un territorio percettivo e affettivo su ogni piano. E anche la politica ne è investita. Il 1945 viene caricato a tal punto di significato da coloro che hanno vissuto quei momenti da forgiare una visione collettiva, e miti popolari, che segnano uno spartiacque con quanto è successo. La liberazione ne fa parte a pieno titolo. Quando si ricompone, o si crea ex novo, un quadro di istituzioni e norme, in quel passaggio si forgiano identità e fedeltà politiche. Come negli anni Venti del Novecento, quando viene esteso introdotto il suffragio universale maschile, le masse che votano per la prima volta definiscono gli assetti politici per lungo tempo, congelando le alternative partitiche, altrettanto in un passaggio emotivamente sovraccarico di aspettative, fossero di protezione, di ritorno al passato o di mutamento, le scelte che si adottano nell’immediato Dopoguerra sono destinate a rimanere. Gioia di vivere - Al di là di alcune specificità nazionali, come la nascita di un grande partito cattolico repubblicano in Francia, e la formazione di un fronte conservatore-borghese liberale in Germania, e l’affermazione, in alcuni casi per brevi periodi, dei partiti comunisti, i sistemi partitici presentano un assetto che richiama quello del passato. L’Italia segue anch’essa lo stesso schema con la particolarità, sulla scia francese, di un nuovo, grande partito cattolico al suo centro. Il primato dei partiti confessionali in tutta Europa non può sorprendere: la guerra ha portato, inevitabilmente, oltre alle sue brutalità, a uno scavo interiore sul senso della vita. E alla ricerca di un messaggio di protezione che solo la chiesa poteva offrire con credibilità. A questo sentimento si affianca anche l’irrefrenabile gioia di vivere. Le folle festanti che accolgono gli alleati e i partigiani il 25 aprile sono troppo evidenti per celare il messaggio della liberazione. Scrive Ulrich Simon esule ebreo a Londra, “avevamo tutti un’urgenza terribile di trovare una vita migliore”. C’era chi si era impegnato per poterla realizzare. Altri invece cantavano inni alla bella morte. Non possono essere messi sullo stesso piano. Sarebbe tempo che tutti lo riconoscessero. *Politologo Salute mentale dei giovani, uno su cinque soffre di ansia o depressione: come insegnare la resilienza di Valentina Rorato Corriere della Sera, 25 aprile 2025 Indagine inglese: una combinazione tossica di disuguaglianze sanitarie e asocialità, causata dall’interruzione della scuola, ma anche della routine e delle relazioni sociali durante la pandemia, ha creato una tempesta perfetta. I bambini e i ragazzi sono in crisi e stanno attraversando una vera e propria tempesta perfetta per la loro salute mentale: un giovane su 5, tra 8 e 25 anni, soffre di una forma di ansia e depressione, secondo dati recenti del Servizio sanitario nazionale inglese. Il 20,3% di questi bambini o ragazzi ha 8-16 anni, il 23,3% 17-19 anni e il 21,7% è nella fascia più grande (20-25 anni). Quali sono le cause? Una combinazione tossica di disuguaglianze sanitarie e asocialità, causata dall’interruzione della scuola, ma anche della routine e delle relazioni sociali durante la pandemia, ha creato una tempesta perfetta per la cattiva salute mentale nei giovani. Genitori in difficoltà economica - L’indagine dimostra, inoltre, che più di un bambino su 4 di età compresa tra 8 e 16 anni (26,8%) con un potenziale disturbo mentale ha un genitore in difficoltà economica, che non può permettersi che il figlio prenda parte ad attività extrascolastiche. I ragazzini di 11/16 anni, sempre con probabili disturbi mentali, corrono un rischio 5 volte maggiore di essere vittime di bullismo rispetto ai coetanei che non ne soffrono (36,9% contro 7,6%). È anche più probabile che siano perseguitati online (10,8% rispetto al 2,6%). Questa, però, non è una fotografia che riguarda solo il Regno Unito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nel mondo tra il 10 e il 20% dei soggetti da 0 a 18 anni soffre di disturbi mentali; il 75% delle patologie psichiatriche esordisce prima dei 25 anni e la metà presenta sintomi prima dei 14 anni. Esposizione a eventi stressanti - La preoccupazione è grande e gli esperti si stanno interrogando sull’esistenza reale di una crisi della salute mentale o, più semplicemente, se i giovani non sono abbastanza resilienti. I ricercatori del Boston Children’s Hospital hanno recentemente condotto uno studio longitudinale che esplora gli effetti sui bambini dell’esposizione a eventi stressanti, come può essere stata la pandemia, a diversi tipi di traumi (abusi, negligenza e violenza o incidenti) e quanto la resilienza familiare sull’esperienza influisca sui sintomi internalizzanti ed esternalizzanti della psicopatologia nell’infanzia. I risultati, pubblicati su Communications Psychology, evidenziano fattori specifici che potrebbero influenzare l’insorgenza di problemi di salute mentale a seguito di eventi di vita difficili. Ansia, depressione, iperattività - I disturbi internalizzanti, come ansia, depressione, ritiro sociale e dolore psicosomatico, comportano l’indirizzamento di disagio ed emozioni verso l’interno. Al contrario, i disturbi esternalizzanti si manifestano come comportamenti disfunzionali diretti verso l’esterno, come aggressività, impulsività, iperattività e sfida all’autorità. Secondo la ricerca, gli eventi stressanti vissuti a 1-2 anni e a 2-3 anni prevedevano sintomi internalizzanti solo nelle bambine. Confrontarsi con il mondo - “Aspetti della resilienza familiare, tra cui livelli più elevati di impegno, capacità di affrontare le sfide e senso di controllo, hanno ridotto il rischio di interiorizzare i sintomi, mentre solo un maggiore senso di controllo ha ridotto il rischio di esternalizzare i sintomi all’età di 7 anni, anche nel contesto di un trauma”, scrivono gli autori. La resilienza, quando si parla di bambini, non può essere una responsabilità individuale; quindi, non può dipendere solo dal loro volere. La capacità emotiva di resistere e adattarsi affonda le radici nel sostegno che si riceve da amici, familiari e comunità, sia a scuola sia nelle attività sociali e sportive. La salute mentale dei bambini - come si legge incrociando i dati - viaggia di pari passo con i finanziamenti ai servizi per le famiglie e per i più piccoli, perché la resilienza si allena non nella solitudine della propria casa, ma confrontandosi con il mondo, in contesti controllati e culturalmente validi. Migranti. Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa: “I Cpr italiani? Condizioni pessime” di Marco Bresolin e Eleonora Camilli La Stampa, 25 aprile 2025 Dopo l’ispezione in quattro strutture, evidenziata la mancanza di un regime di attività, l’approccio sproporzionato alla sicurezza, la qualità variabile dell’assistenza sanitaria e la mancanza di trasparenza nella gestione da parte di fornitori privati. Le condizioni dei Cpr italiani “sollevano interrogativi sull’applicazione di tale modello da parte dell’Italia in un contesto extraterritoriale, in particolare in Albania”, dove il governo ha deciso di riconvertire i centri inizialmente destinati all’esame delle domande dei richiedenti asilo. È l’allarme lanciato nel rapporto annuale del comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa, che torna sulla situazione dei Centri per il rimpatrio dei migranti dopo il report diffuso a dicembre che aveva scatenato la reazione irritata del governo. Alla luce delle ispezioni effettuate nell’aprile scorso in quattro Cpr (quello di via Corelli a Milano, quello di Gradisca d’Isonzo, quello di Palazzo San Gervasio a Potenza e quello di Ponte Galeria a Roma), gli esperti dell’istituzione che ha sede a Strasburgo criticano le “pessime condizioni materiali, la mancanza di un regime di attività, l’approccio sproporzionato alla sicurezza, la qualità variabile dell’assistenza sanitaria e la mancanza di trasparenza nella gestione da parte di fornitori privati”. Nello specifico, vengono denunciati “diversi casi di maltrattamenti fisici e un ricorso eccessivo alla forza da parte del personale di polizia” nei confronti delle persone detenute, oltre alla “diffusa pratica di somministrazione regolare di psicofarmaci senza prescrizione medica” nel centro di Potenza, così come “l’ammanettamento prolungato durante i trasferimenti verso i Cpr”. Il comitato chiede inoltre di “rivedere la configurazione dei Cpr”, sia per quanto riguarda le condizioni di detenzione, sia per “gli aspetti carcerari”, come le sbarre alle finestre. Nel rapporto, più in generale, si sottolineano “i gravi problemi” del sistema penitenziario italiano, citando - tra gli altri - il sovraffollamento, l’applicazione del regime di detenzione, la violenza e le relazioni col personale penitenziario. “L’aumento dei suicidi tra i detenuti e il personale - segnala il rapporto - è un sintomo acuto di questa crisi”. In questo quadro il presidente del Comitato per la tortura Alan Mitchell e il segretario esecutivo Hugh Chetwynd non escludono di far visita anche nel cpr albanese. Attualmente i centri per il rimpatrio attivi in Italia sono dieci, a cui si aggiunge la struttura di Gjader neo riconvertita per il trattenimento degli irregolari. “Il Comitato europeo è giustamente preoccupato per le condizioni dei centri - sottolinea Gianfranco Schiavone, membro dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione -. Tutte le caratteristiche di degrado che abbiamo sempre denunciato in Italia si amplificano in un luogo lontano, dove è impossibile per un avvocato recarsi e per un familiare fare una visita, così come per le associazioni entrare senza la presenza dei parlamentari”. Per questo il Tavolo asilo, che racchiude tutte le principali associazioni che si occupano di migrazione in Italia, sta progettando nuove visite per monitorare il protocollo con Tirana. Che anche nella nuova veste di Cpr presenta non poche criticità. Un solo migrante, un venditore di rose, è stato ad oggi rimpatriato. Ma con un volo partito dall’Italia. Un altro migrante ha invece chiesto asilo sul suolo albanese. Anche lui è stato riportato indietro e una volta a Bari rimesso in libertà dato il suo status di richiedente protezione. “Questa decisione del giudice è corretta - aggiunge Schiavone. E potrebbe rimettere tutto in discussione”. Intanto anche nel nostro paese continuano le denunce per la situazione dei cpr italiani. Secondo Amnesty International le condizioni delle strutture non sono conformi alle norme e agli standard internazionali. E non rispettano la dignità umana: luoghi “restrittivi, spogli e carenti” da tutti i punti di vista, non solo igienico sanitari. Migranti. Ci sono volute 20 mail per salvarli di Ammiraglio Vittorio Alessandro L’Unità, 25 aprile 2025 Un particolare cui si aggrappa chi, come chi scrive, si ostina a discernere il cuore e la forza di molti uomini della Guardia costiera dalla politica anti-migratoria sovrapposta dal Viminale al salvataggio della vita umana in mare. La Guardia Costiera ha condotto l’ultimo suo salvataggio nel canale di Sicilia in condizioni di estrema difficoltà, spendendo una perizia che poche organizzazioni del soccorso in mare posseggono in tutto il mondo. L’instancabile cruscotto di Sergio Scandurra per Radio Radicale ha incrociato la posizione delle unità di soccorso con le proibitive condizioni di mare registrate in quelle ore - dalle 20,30 alle 23,30 di martedì scorso - nell’area situata a circa 70 miglia a sud di Lampedusa: un inferno di raffiche di vento con picchi di 50 nodi e mare 6 dal quale le due motovedette accorse da Lampedusa hanno tratto in salvo 86 naufraghi (uno non ce l’ha fatta, per ipotermia). Il barcone in legno era partito da Zuara in Libia per ritrovarsi, dopo qualche ora, proprio nel vortice di tempesta che un piccolo natante stracarico difficilmente riuscirebbe ad affrontare. Mentre partivano da Lampedusa due motovedette della classe 300 (tra le più agili e resistenti), il Centro di soccorso della Guardia costiera ha chiesto a due navi in transito (Aegeas e Oslo Carrier 2) di offrire ridosso al barcone in balia delle onde e, completate le quanto mai complicate operazioni di trasbordo, i naufraghi, tutti adulti bengalesi, sono stati infine sbarcati al molo Favaloro di Lampedusa. La cronaca non avrebbe altro da aggiungere se non che l’intervento è avvenuto in acque libiche, come non accadeva dacché l’Italia ha affidato alle milizie locali le mansioni di inseguimento in mare e trattenimento dei migranti. Un particolare cui si aggrappa chi, come chi scrive, si ostina a discernere il cuore e la forza di molti uomini della Guardia costiera dalla politica anti-migratoria sovrapposta dal Viminale al salvataggio della vita umana in mare. Migranti. Gjader, il Cpr si sta svuotando. Altri due migranti tornano in Italia di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 aprile 2025 Hanno chiesto asilo, così la Corte d’appello di Roma ha negato il trattenimento in Albania. Intanto il Comitato anti tortura del Consiglio d’Europa critica i centri extra territoriali e presto potrebbe visitarli. Inesorabile come il corso di un fiume la consapevolezza che con la richiesta di asilo si torna in Italia e forse anche in libertà si sta facendo strada tra i cittadini stranieri reclusi in Albania. In questi giorni le navi delle autorità italiane avranno da fare la spola tra un lato e l’altro dell’Adriatico: ieri la Corte d’appello di Roma ha rifiutato di convalidare la richiesta di detenzione di due nuovi richiedenti protezione internazionale, mentre già domani sono in programma altre udienze analoghe. Le domande d’asilo stanno crescendo ed è lecito pensare che presto saranno avanzate da tutte le persone recluse. Come raccontiamo da sabato su queste pagine, nella seconda fase del protocollo con Tirana, che coinvolge i migranti “irregolari” deportati dal territorio nazionale, c’è un errore di sistema: chiedendo asilo da dietro le sbarre del Cpr di Gjader si crea una situazione giuridica non prevista nell’accordo firmato dalla premier italiana Giorgia Meloni e dall’omologo albanese Edi Rama. Questo, infatti, consente la permanenza nelle strutture solo per le “procedure di frontiera o rimpatrio”. Per tale ragione i giudici della capitale, cui il governo ha assegnato la competenza, non possono che bocciare i provvedimenti di trattenimento di questi richiedenti asilo disposti dalle autorità di polizia. Perché, molto semplicemente, non hanno una base legale. A svelare il baco è stato H. A., il trentenne marocchino che la scorsa settimana, per primo, ha fatto domanda di asilo. La Commissione territoriale l’ha bocciata a tempo di record: in meno di 24 ore. Ha però utilizzato una procedura di dubbia legittimità che l’avvocato Donato Pianoforte ha contestato nel ricorso. Nel frattempo, parallelamente, è andata avanti la questione del trattenimento. È finita davanti alla Corte d’appello di Roma che, appunto, l’ha negato. Così domenica il cittadino straniero è stato portato a Bari. Qui nei suoi confronti è stato disposto un nuovo trattenimento, nuovamente cassato l’altro ieri dalla Corte d’appello locale. Lo stesso percorso potrebbero seguire le altre due persone attese oggi sulle coste pugliesi. Da capire se nei loro casi il questore troverà un diverso comma di legge per tentare di ottenere il via libera alla detenzione. Ieri intanto nuove critiche al protocollo Albania sono arrivate dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa, la principale organizzazione a difesa dei diritti umani in Europa, che include 46 Stati di cui 27 membri della Ue. Nel suo rapporto annuale ha evidenziato le tante criticità dei Cpr italiani. Problemi riscontrati l’anno scorso nelle ispezioni di quattro delle dieci strutture attive sul territorio nazionale, nello specifico i Cpr di: Milano, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervasio. Già lo scorso dicembre il comitato aveva denunciato l’abuso di psicofarmaci, la violazione di obblighi e impegni assunti dagli enti gestori, l’uso eccessivo della forza da parte della polizia e in generale le pessime condizioni di detenzione. L’Italia aveva risposto che il degrado delle strutture dipende dagli atti di vandalismo dei migranti e che i casi trattati nel rapporto non sono stati oggetto di indagine penale. Ieri il Cpt ha aggiunto una questione in più: le tante falle di questo modello di detenzione amministrativa ne mettono “in discussione l’applicazione […] da parte dell’Italia in un contesto extraterritoriale”. Per vederci più chiaro potrebbe visitare presto le strutture d’oltre Adriatico. Il Pd ha colto la palla al balzo e affermato che il nuovo rapporto “demolisce il modello Albania”. Invece nessuna dichiarazione, da parte di nessun esponente dell’opposizione, è arrivata sul fatto che la deportazione dei migranti “irregolari” dall’Italia non sta funzionando e sono le stesse persone recluse che stanno svuotando dall’interno il Cpr di Gjader. No al colonialismo, sì al riscatto. Il “vento africano” di papa Francesco di Luca Attanasio Il Domani, 25 aprile 2025 Dal Sud Sudan al Congo, Bergoglio ha levato la sua voce contro lo sfruttamento, lo schiavismo e per i diritti del continente. È il papa che più di tutti ha “africanizzato” il collegio cardinalizio: una scelta che peserà sull’elezione del successore. Jorge Bergoglio veniva “dalla fine del mondo”, come ebbe e a dire in occasione del primo saluto subito dopo la nomina, ma da un contesto che, seppur colonizzato e parte del Sud globale, era molto differente dall’Africa. Ugualmente, in dodici anni di pontificato, Francesco ha progressivamente saputo e voluto porre l’Africa al centro della chiesa e ha contribuito a inserirla nell’agenda geopolitica internazionale. Con la sua insistenza sull’essere chiesa in “uscita” e sulla necessità di raggiungere le periferie fisiche ed esistenziali, l’ultimo papa ha inteso e fatto intendere che il futuro della sua chiesa e del mondo intero si giocassero lì e ha gradualmente assunto una coscienza più chiaramente decolonizzata anche grazie al contributo che alla chiesa universale hanno dato figure emergenti di prelati africani. Francesco passerà alla storia come il papa che più di tutti ha “africanizzato” il collegio cardinalizio: ha creato in tutto 18 cardinali provenienti o residenti in Africa. Ha nominato più cardinali africani lui in 12 anni che i suoi due predecessori in 35: 18 contro 16. Dei 252 cardinali viventi al momento, solo 135 hanno diritto di voto nel conclave. Di questi 18 sono africani (15 creati da Francesco). Nel C9, il Consiglio dei cardinali suoi collaboratori più stretti, ha voluto il cardinal Friedolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa ed esponente di spicco di una chiesa africana che comincia ad avere un peso e che qualcuno immagina come possibile papa nero. Quando decise di istituire il Giubileo straordinario della Misericordia, Bergoglio inaugurò l’anno santo volando a Bangui, capitale del Centrafrica, e aprì lì la porta santa della cattedrale il 29 novembre 2015, in un periodo in cui il paese viveva un conflitto durissimo. Forte espansione - Francesco ha ereditato un cattolicesimo africano in forte espansione. Dal 1980 ha registrato un incremento nel numero di battezzati che rasenta il 250 per cento. L’Africa comprende il 20 per cento dei cattolici del pianeta e il numero di fedeli è passato da 272 milioni nel 2022 a 281 milioni nel 2023, con un aumento del 3,31 per cento. Ma l’attenzione di Francesco per l’Africa non va ascritta solamente ai numeri in ascesa. Il papa argentino ha guardato all’Africa, oltre che con gli occhi del pastore, con quelli dello statista, del mediatore di pace e giustizia. Ha seguito con costante attenzione le tante emergenze umanitarie in quel continente non solo facendo i classici appelli all’Angelus ma attuando una serie di strategie e gesti importanti se non clamorosi. Come quando, nell’aprile del 2019, nell’imminenza della settimana santa, invitò a Roma, ufficialmente per un ritiro spirituale, il presidente della Repubblica del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit e il vicepresidente - e nemico storico - Riek Machar. Il più giovane paese al mondo (si è reso indipendente dal Sudan nel 2011) viveva dal 2013 una spaventosa guerra spesso oggetto di apprensione del pontefice. Al termine degli incontri tenutisi a Casa Santa Marta, Bergoglio, tra lo sgomento di tutti gli astanti, a cominciare dal personale del cerimoniale, si inchina e bacia i piedi a tutti i presenti. Il gesto, compiuto su leader politici dal curriculum bagnato di sangue, e le parole successive “Vi esorto a cercare ciò che vi unisce, a partire dall’appartenenza allo stesso popolo, e superare tutto ciò che vi divide” ha un forte impatto e contribuirà a una successiva relativa pacificazione e alla tenuta (purtroppo con recenti e gravi scricchiolii, ndr) del governo di unità nazionale. Papi in viaggio - Giovanni Paolo II è andato 14 volte in Africa e visitato 42 stati (in un pontificato di oltre 27 anni). Benedetto XVI è andato solo due volte in Africa (Camerun, Angola e Benin) in otto anni. Francesco in 12 anni ha visitato 10 paesi africani: Kenya, Uganda e Centrafrica nel 2015, l’Egitto nell’aprile 2017, il Marocco, il Mozambico, il Madagascar e Mauritius nel 2019 e Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 2023. I viaggi, il vento africano portato nel collegio cardinalizio o in occasione del Sinodo sulla Sinodalità (2021-24), la nomina di tanti nuovi vescovi africani, hanno contribuito a cambiare la visione del papa del continente che ha assunto sempre più negli anni, accanto a quello pastorale, un profilo geopolitico. Già in Centrafrica, nel 2015, decise di deviare verso uno dei quartieri musulmani di Bangui fino a quel punto off-limits per qualsiasi cristiano, e incontrare la popolazione inscenando un gesto di richiamo alla concordia tra fedi in un momento in cui le tensioni religiose nel paese avevano raggiunto dimensioni spaventose. La visita condusse a un accordo di tregua (una pace più solida fu raggiunta cinque anni dopo). In Marocco Francesco richiamò senza mezzi termini il Re Mohammed VI a “rispettare i diritti dei migranti”. In Madagascar, in un paese dilaniato da problemi ambientali, si scagliò contro i devastatori della terra. Ma il capolavoro politico africano di Francesco, si compie nel corso del viaggio in Sud Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo del 2023. Nel discorso pronunciato nell’incontro con le autorità e la società civile a Kinshasa il 31 gennaio - passato alla storia come il manifesto panafricanista e anticoloniale di Bergoglio - riassunse la visione che la chiesa e il mondo dovrebbero finalmente assumere nei confronti dell’Africa, depurata da razzismo, sfruttamento, schiavismo. Spine nel fianco - In “Giù le mani dell’Africa!”, lo slogan gridato dal grande stato centro-africano, gravato da instabilità politica e povertà endemica sebbene sia il più ricco di materie prime al mondo, unitamente a “Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare” c’è tutto il credo dell’ultimo papa maturato dopo anni di contatto fisico e morale con il continente. L’Africa, più recentemente, ha rappresentato anche una grossa spina nel fianco di Francesco. Nei primi mesi del 2024, all’indomani della pubblicazione del documento Fiducia Supplicans che autorizzava la benedizione delle coppie dello stesso sesso, in Africa ci fu una vera e propria sollevazione. Le conferenze episcopali insorsero, in alcuni casi minacciando lo scisma. Il Cardinal Ambongo, arcivescovo di Kinshasa e fedele consigliere, dovette prendere il primo aereo per Roma e mediare un compromesso. Alla fine il papa dovette fare un passo indietro e dichiarare: “Per loro, l’omosessualità è qualcosa di ‘brutto’ da un punto di vista culturale; Non lo tollerano”. Nel prossimo conclave, quindi, i 18 cardinali africani votanti avranno di sicuro un peso maggiore rispetto ai precedenti, non solo in termine numerico ma anche politico. Su alcuni temi come giustizia sociale, affrancamento da culture coloniali ed eurocentriche, ambiente, migranti potrebbero essere molto in linea con Francesco. Ma su argomenti più pastorali o dottrinali alcuni esponenti africani, primo fra tutti il guineano Sarah, faranno valere posizioni molto più conservatrici. Tutti, però, conservatori e progressisti africani, dovranno in qualche modo una nuova rilevanza proprio a papa Francesco. Stati Uniti. Cento violazioni in 100 giorni. L’assalto Usa ai diritti umani di Giovanna Branca Il Manifesto, 25 aprile 2025 Alison Parker di Human Rights Watch commenta il report dell’organizzazione. “La democrazia americana si sta dirigendo verso un regime che rifiuta ogni nozione di giustizia”. Cento attacchi ai diritti umani in cento giorni, quelli raggiunti ieri dall’amministrazione di Donald Trump. La lista è stilata da un report di Human Rights Watch “per illustrare - dice al manifesto la vicedirettrice dell’ufficio statunitense dell’organizzazione, Alison Parker - la magnitudine di ciò che questo governo sta facendo alle vite delle persone comuni negli Stati uniti e in tutto il mondo”. È importante notare come questa lista, che ha l’aspetto di un bollettino di guerra, riguardi danni arrecati a “ogni aspetto della vita delle persone”: dalla loro “capacità di sfamare se stesse e i propri figli”, all’aspettativa di “ricevere un trattamento giusto e imparziale da parte del governo”. Dal “diritto alla salute” alla “previdenza sociale, la libertà di parola, la possibilità di accedere alle informazioni e manifestare il proprio dissenso”. Molte delle violazioni citate sono note: hanno occupato in queste settimane le prime pagine dei giornali. A partire dal ritiro dall’accordo di Parigi che, si legge nel report, accelererà il cambiamento climatico ai danni non solo degli statunitensi - i secondi produttori al mondo di gas serra - ma di milioni di persone in tutto il mondo. Uno dei casi più gravi è quello delle “sparizioni forzate” di centinaia di migranti. La vicenda di Kilmar Abrego Garcia, finito in una prigione di massima sicurezza del Salvador, ha fatto il giro del mondo e rischia di precipitare gli Usa in una crisi costituzionale dopo il rifiuto dell’amministrazione Trump di riportarlo negli Stati uniti nonostante gli ordini dei giudici. “Una chiara dimostrazione - dice Parker - di come questa amministrazione si senta al di sopra della legge”. Tanti casi analizzati dal report di Hrw sono però passati sotto i radar dei media, bombardati quotidianamente da decine di dichiarazioni, ordini esecutivi, assalti alla legge. Un esempio fra i tanti: la revoca di un ordine esecutivo dell’ex presidente Joe Biden che istituiva un registro federale delle forze di polizia dove venivano annotati i casi di cattiva condotta e violenza, per fare in modo che i dipartimenti di polizia non riassumessero quegli agenti. O l’attacco ai diritti dei nativi, penalizzati su ogni fronte - a partire dalla revoca delle già poche agevolazioni disposte per l’amministrazione degli affari tribali. In molti sono al corrente di uno dei punti denunciati con maggior forza dal report: la guerra dichiarata dal governo americano alle misure Dei (diversità, equità e inclusione), che ha fatto sì che in istituzione pubbliche e private sia stata abbandonata ogni linea guida sull’inclusione delle minoranze. A partire dalla comunità afroamericana, con i docenti che sono arrivati ad autocensurarsi sull’insegnamento della storia dello schiavismo, e anche sulle pari opportunità di genere. Ma resta ignoto ai più che, dopo aver sospeso le indagini dell’Ufficio per i diritti civili, il dipartimento di Giustizia è arrivato a ordinare contro-indagini sulla “discriminazione inversa” nei confronti dei bianchi. In questo, i giornalisti hanno un ruolo fondamentale anche se, come osserva ancora Parker, “le loro voci e le loro testate sono minacciate”. “A fornirne le prove è proprio l’attività giornalistica, ma a minare la comprensione di ciò che accade, facendo il gioco dell’amministrazione Trump, c’è anche la pratica di prestare troppa attenzione al caos deliberatamente messo in scena: “Riportare le dichiarazioni dell’amministrazione, o le sue politiche caotiche, ha meno importanza della realtà vissuta dalla gente negli Stati uniti”. Le violazioni riportate ha Hrw sono troppe per essere elencate, da quelle alla legge internazionale - ancora una volta sui diritti delle persone migranti, alle quali è ora proibito anche solo presentare domanda d’asilo - a quelle dei dati sensibili e della privacy dei cittadini, con le squadre del Doge di Elon Musk che gettano i dati di milioni di americani in pasto all’intelligenza artificiale, e a “opachi algoritmi”. Abbiamo chiesto a Parker perché, secondo lei, la risposta delle opposizioni, compresa quella di piazza e nonostante le manifestazioni che si sono cominciate a vedere nelle ultime settimane, sia ben più silenziosa rispetto al primo mandato di Trump. “Il movimento per i diritti umani - dice - è basato sulle azioni delle persone normali, che si fanno avanti ed esigono le libertà essenziali a cui tutti gli esseri umani hanno diritto”. “Le manifestazioni delle scorse settimane ne sono una prova, e ce ne aspettiamo altre. Per prendere parola e assembrarsi liberamente le persone fanno affidamento su quegli stessi diritti umani che ora sono sotto attacco: la posta in gioco è molto alta”. È il rischio dello scivolamento nell’autoritarismo: “La democrazia americana è eretta su valori di libertà e eguaglianza ma non ha mai rispettato allo stesso modo i diritti di tutti - americani neri, comunità Lgbt, donne e molti altri gruppi storicamente svantaggiati”. Ma questi gruppi, “e ora tutta la popolazione degli Stati uniti, affrontano ora minacce nuove e crescenti. La democrazia americana si sta dirigendo rapidamente verso un regime che rifiuta ogni nozione di giustizia, uguaglianza e dignità umana, e che denigra alcune persone per distrarre l’attenzione da mosse politiche ed economiche a beneficio di una piccola minoranza”.