L’ergastolo è una pena di morte nascosta di Papa Francesco Il Dubbio, 24 aprile 2025 Il discorso che Papa Francesco tenne il 23 ottobre 2014 alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale invocando la dignità di ogni persona. “Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. c’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato”. Illustri Signori e Signore! Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili - in parte! - toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico. Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale. Incitazione alla vendetta - Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. Populismo penale - In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste. I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi - Il principio guida della cautela in poenam Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni. II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine circa la pena di morte - È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziario, e l’uso che di tale pena fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. Da poco tempo, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta. Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. Queste non sono favole: voi lo sapete bene La carcerazione preventiva - quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso - costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà. Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. - L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione - pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale - ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa. Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità. (...) Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime - in particolare i più vulnerabili - quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale - come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione - come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi. Conclusione - La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie. Papa Francesco contro l’ergastolo di Grazia Zuffa* Il Manifesto, 24 aprile 2025 “L’ergastolo non è la soluzione del problema, ma il problema da risolvere”. Scelgo di aprire così, con questa affermazione di Papa Francesco, la mia presentazione. Perché, al di là dei tanti e differenti punti di vista per cui l’ergastolo può essere definito come problema, Papa Francesco ci richiama con forza alla dimensione etica dell’agire per risolvere il problema, appunto. La quale corrisponde alla finalità politica di questo nuovo volume sugli ergastoli, curato per La Società della Ragione. Rovesciando la questione, il no all’ergastolo può diventare la prima pietra del diritto penale minimo: un sistema giuridico basato su criteri affini alla “cautela in poenam”, di cui parlerà molti anni dopo, nel 2014, Papa Francesco in un discorso alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale. La “cautela in poenam” è un’idea guida che contrasta col rigonfiamento della funzione simbolica della pena, essendo “negli ultimi decenni diffusasi la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”, argomenta il Pontefice. Da questa distorta percezione pubblica della pena, discendono a cascata le conseguenze indesiderate sull’intero sistema della giustizia penale: “si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative”. Si arriva così al passaggio chiave del pensiero di Papa Francesco, laddove il rifiuto delle pene estreme diventa il fondamento “di sistema” della pena, seguendo il Primatus principii pro homine: “Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. Si noti: se la ripulsa della pena di morte così come dell’ergastolo è netta, altrettanto lo è delle condizioni carcerarie disumane. In altre parole, il gancio etico della dignità umana, il Primatus principii pro homine, è guida sicura al miglioramento delle condizioni carcerarie, così come al rifiuto dell’ergastolo. Da qui il soffermarsi sulla “forma di tortura” che a volte si applica “mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza”: “con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani provocano sofferenze fisiche e psichiche e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”. Giustizia e vendetta. La giustizia della pena “proporzionata”, che restituisca il senso della sobrietà e della ponderazione (della “coscienza lacerata”, si potrebbe dire) per una misura che incide così gravemente sui diritti fondamentali della persona. Una giustizia che, in quanto pienamente conscia del suo potere d’eccezione, riesca a tenere lontani “le paure e i rancori (che) facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale”, è ancora il Papa a parlare. Questo modo pensoso di intendere la giustizia prende la distanza dalla vendetta, così come dall’impunità del reo. *Tratto da “Contro gli ergastoli” (a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone, Andrea Pugiotto), Futura editrice, 2021 Papa Francesco, dall’inizio alla fine al fianco dei detenuti di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 24 aprile 2025 Le lavande dei piedi nelle carceri romane, la porta del Giubileo a Rebibbia, l’abolizione dell’ergastolo in Vaticano: Jorge Mario Bergoglio ha sempre manifestato la sua vicinanza alle persone recluse: “Mi chiedo: perché loro e non io?”, ha detto il 17 aprile, pochi giorni prima della morte. Tra le tante cose per cui verrà ricordato il dicastero di papa Francesco, scomparso lunedì 21 aprile, c’è sicuramente l’attenzione al carcere e alle condizioni di detenzione che hanno rappresentato un filo che ha legato tutto il suo pontificato. La sua prima visita in un carcere risale al 28 marzo 2013, solo due settimane dopo la sua elezione al soglio pontificio. In occasione del Giovedì Santo si recò all’Istituto penale per minorenni di Casal del Marmo, a Roma, dove celebrò la messa e lavò i piedi a dodici giovani detenuti, tra cui due ragazze (una cristiana e una musulmana). In quell’occasione il Papa, rispondendo alla domanda di un ragazzo detenuto sul perché avesse scelto di essere lì, disse: “È un sentimento che è venuto dal cuore; ho sentito quello. Dove sono quelli che forse mi aiuteranno di più ad essere umile, ad essere servitore come deve essere un vescovo”. Al pastificio dell’Ipm di Casal del Marmo, che dà lavoro ai giovani reclusi, è andata anche un’ultima donazione del papa, da 200mila euro. Ed è stato un Giovedì Santo, nuovamente in un carcere, anche l’ultimo momento fuori da San Pietro a cui il Papa ha partecipato prima della sua scomparsa. Lo scorso 17 aprile, nonostante le sue condizioni di salute precarie, Francesco ha voluto nuovamente essere a contatto con le persone detenute, scegliendo l’Istituto penitenziario di Regina Coeli a Roma. “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo, la lavanda dei piedi, in carcere”, ha detto il Papa in quest’occasione. Nel mezzo di questi due eventi che simbolicamente hanno aperto e chiuso il suo Pontificato, c’è stata, come si diceva, un’attenzione profonda e non scontata. Culminata lo scorso 26 dicembre con l’apertura di una delle Porte Sante giubilari nel carcere di Rebibbia. “È un bel gesto (il primo nella storia dei giubilei, ndr) quello di aprire le porte che significa cuori aperti. Questo fa la fratellanza. I cuori chiusi non aiutano a vivere. La grazia di un Giubileo è spalancare, aprire. Soprattutto i cuori alla speranza”. Proprio in occasione del Giubileo Papa Francesco ha fatto più volte riferimento a provvedimenti di clemenza. ?Già nella Bolla di indizione del Giubileo 2025, intitolata Spes non confundit (“La speranza non delude”), il Pontefice aveva rivolto un appello ai governi affinché adottino provvedimenti di clemenza nei confronti delle persone detenute, promuovendo una giustizia penale aperta alla speranza e al reinserimento sociale. Nella stessa Bolla, il Papa aveva esortato i credenti, specialmente i pastori, a farsi interpreti delle istanze dei reclusi, formando una voce sola che chieda con coraggio? condizioni dignitose per chi è recluso, il rispetto dei diritti umani e l’abolizione della pena di morte. Insomma un richiamo forte per costruire una giustizia più umana e misericordiosa, in linea con il messaggio di speranza del Giubileo. Non solo parole e gesti, ma anche azioni, come quelle che nel luglio del 2013 portarono il Papa, motu proprio, ad abolire la pena dell’ergastolo in Vaticano e a introdurre il reato di tortura. Due temi che pochi mesi dopo, nell’ottobre del 2014, saranno al centro di uno dei più importanti discorsi in materia penale che il Pontefice abbia pronunciato. L’occasione era l’incontro con la delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale. In quella sede, di fronte a giuristi e magistrati, Papa Francesco definì l’ergastolo come una “pena di morte nascosta”, sottolineando come questa privi il condannato della speranza e della possibilità di redenzione. Sulla tortura, invece, denunciò questa pratica inumana soprattutto in riferimento all’isolamento che le persone soffrono nelle carceri di massima sicurezza che può causare gravi sofferenze psichiche e fisiche. Ma, affermò il Papa, “Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione - pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale - ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena”. In quell’occasione il Papa mise in guardia anche contro il populismo penale, con una dichiarazione che vale la pena riportare per intero: “In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”. Mise dunque in guardia sulla necessità di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana. Un pensiero che torna anche nel suo ultimo incontro del 17 aprile scorso quando alle persone detenute disse: “Mi chiedo: perché loro e non io? Questa domanda mi accompagna sempre quando visito un carcere”. Una frase che è al centro del suo pensiero e che ancora la commissione di un reato non a innate presunte propensioni criminali, ma a contesti di emarginazione che violano la dignità delle persone, che negano i diritti e che spesso conducono sulla strada della violenza e del crimine. Se c’è una cosa che lascia dunque in eredità Papa Francesco è l’idea di una pena che rispetti l’uomo, ma che, ancor di più, non cancelli mai la speranza. “Non lasciatevi rubare la speranza. Sempre con la speranza, avanti!” disse quel lontano 28 marzo 2013 nel carcere minorile di Casal del Marmo. E in nome della speranza sarebbe un segno importante che i governi facciano proprie le parole che Papa Francesco ha seminato nei suoi dodici anni di pontificato, con gesti e atti che sappiano restituire quella speranza a chi oggi è in carcere. *Responsabile comunicazione di Antigone “Perché loro e non io?” Il Papa sempre vicino ai detenuti di Ilaria Beretta Avvenire, 24 aprile 2025 Nell’ultimo Giovedì Santo Francesco aveva visitato i ristretti di Regina Coeli e a dicembre aveva aperto una Porta Santa a Rebibbia: ultimi segni di una prossimità concreta e spirituale ai carcerati. “Perché voi e non io?”. Davanti ai carcerati, che durante il suo pontificato ha incontrato per sedici volte nei penitenziari italiani e all’estero, papa Francesco se lo è domandato spesso. L’ultima soltanto pochi giorni fa mentre usciva dalla casa circondariale di Regina Coeli a Roma dove - pur in convalescenza e con una semplice visita privata - non aveva voluto rinunciare a incontrare una settantina di detenuti in occasione del Giovedì Santo. Una tradizione, quella di celebrare oltre le sbarre la Messa in Coena Domini, cominciata in Argentina nel 1999, quando l’allora neo-arcivescovo di Buenos Aires visitò un gruppo di detenuti del carcere di Villa Devoto; e poi diventata fil rouge del pontificato di Bergoglio che proprio all’indomani dell’elezione al soglio pontificio, il 28 marzo 2013, decise di andare a lavare i piedi a dodici giovani reclusi nella capella dell’istituto romano per minorenni Casal del Marmo. Da allora praticamente ogni anno Francesco si ritrovò a ripetere il gesto in un penitenziario diverso. “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo - ricordava lo stesso pontefice giovedì scorso - in carcere. Quest’anno non posso farlo, ma posso e voglio essere vicino a voi. Prego per voi e per le vostre famiglie”. Attraverso visite o semplici chiamate ai carcerati, papa Francesco ha dimostrato ai ristretti una vicinanza concreta ma anche una prossimità spirituale, tesa sempre ad annullare la differenza, apparentemente enorme, tra chi sta dentro al carcere e chi rimane fuori. Come se i detenuti fossero la categoria emblematica di quegli ultimi per i quali si è speso, perché i ristretti sono emarginati dalla società anche fisicamente e già visivamente. “Io non ho il coraggio di dire a nessuna persona che è in carcere: “Se lo merita”. Perché voi e non io? - ribadiva davanti ai reclusi di San Vittore a Milano nel 2017 - Il Signore ama me quanto voi, lo stesso Gesù è in voi e in me, noi siamo fratelli peccatori”. Per il Papa la vicinanza ai carcerati era tale che per portare il dono della speranza, tema dell’intero Anno Santo, in un luogo di reclusione e ristrettezze, lo scorso 26 dicembre Francesco aveva voluto aprire la Porta Santa nella chiesa del Padre Nostro, all’interno del carcere romano di Rebibbia con un gesto che ha fatto la storia: è stata la prima volta che un pontefice ha aperto una Porta Santa non in una basilica ma all’interno di un penitenziario che, però, come dichiarò lui stesso, per un giorno è diventato esso stessa “basilica” . “Io - fu allora il commento del Pontefice - ho voluto spalancare la Porta oggi, qui. La prima l’ho fatta a San Pietro, la seconda è vostra. È un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte. Ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere, per questo la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire, e soprattutto, aprire i cuori alla speranza. Vi auguro molta pace, molta pace. E tutti i giorni prego per voi”. Nel 2016, in occasione di un altro Giubileo, quello straordinario della Misericordia, Francesco aveva voluto che la porta di ogni cella fosse considerata Porta Santa e aveva poi previsto un Giubileo dei carcerati convocandone una delegazione in piazza San Pietro, alla quale aveva ribadito: “Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto”. Francesco non ha mai perso occasione nemmeno di usare il suo ruolo per denunciare i problemi delle carceri italiane, dal sovraffollamento ai suicidi. “Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate, con conseguenti tensioni e fatiche - osservava un anno fa in visita alla Casa circondariale di Montorio, a Verona -. Per questo voglio dirvi che vi sono vicino, e rinnovo l’appello, specialmente a quanti possono agire in questo ambito, affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria. Seguendo le cronache del vostro istituto, con dolore ho appreso che purtroppo qui, recentemente, alcune persone, in un gesto estremo, hanno rinunciato a vivere. È un atto triste, questo, a cui solo una disperazione e un dolore insostenibili possono portare”. Con la Spes non confundit, la bolla con cui indiceva il Giubileo 2025, Francesco proponeva allora ai governi di assumere iniziative che restituissero speranza come “forme di amnistia” o di “condono della pena” per “aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società”. Il valore rieducativo della pena e il reinserimento sociale era, secondo il Papa, un’espressione dell’universalità della Chiesa sempre pronta ad abbracciare tutti, compresi gli ultimi e i reietti trattenuti dietro alle sbarre. Asilo ed espulsioni: la Guida per i diritti dei detenuti stranieri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2025 In un contesto dove la complessità normativa rischia di lasciare indietro i detenuti più “vulnerabili”, nasce la Guida per la persona straniera privata della libertà personale, pubblicazione aggiornata e promossa dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, dalla Clinica Legale Libertà personale e Tutela dei Diritti del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, e dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino. Realizzata con il contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo e del Comune di Torino, la guida si propone come un faro di chiarezza per i detenuti stranieri e per gli operatori penitenziari, offrendo informazioni essenziali su immigrazione, asilo, espulsioni e diritti durante la detenzione. L’idea è nata osservando “l’elevato numero di detenuti stranieri che necessitano di informazioni in merito all’ottenimento o al mantenimento della regolarità di soggiorno in Italia”. La guida, disponibile in italiano, inglese, francese e arabo, nasce, appunto, dall’osservazione di un dato: oltre il 30% della popolazione carceraria italiana è composta da stranieri, molti dei quali affrontano ostacoli burocratici e giuridici per regolarizzare il proprio soggiorno. Partendo da questa esigenza, gli autori hanno confezionato un testo sintetico ma ricco di dettagli pratici, pensato per muoversi con agilità tra codici dell’immigrazione, regolamenti penitenziari e moduli ministeriali. La guida si apre come un percorso che, capitolo dopo capitolo, prende per mano chi è già dietro le sbarre e lo conduce alla scoperta di ogni strumento utile per restare regolare nel nostro Paese. Nel primo capitolo si entra nel vivo del permesso di soggiorno, con suggerimenti su come rinnovarlo in tempo, quando conviene chiederne uno nuovo e come muoversi in fretta in caso di urgenza. Proseguendo, si affronta il tema della protezione internazionale: le tappe per presentare l’istanza d’asilo, i requisiti per vedersi riconoscere lo status di rifugiato o la protezione speciale, fino alle vie legali da battere se la Commissione dice “no”. Il terzo capitolo racconta le espulsioni, spiegando quando possono sostituire o affiancare la detenzione, quali passaggi amministrativi seguire e quali limiti assoluti la legge impone. La guida cerca di fare chiarezza nel districarsi tra i benefici penitenziari, dal permesso premio al lavoro in carcere, dalla liberazione anticipata alle misure alternative come l’affidamento in prova o la semilibertà. Vengono descritte le regole dei colloqui - in presenza, al telefono o via video - per rimanere in contatto con chi sta fuori e con il proprio avvocato. C’è spazio anche per chi pensa a chi deve continuare a scontare la pena in un altro Paese dell’Unione, e per chi, al termine, deve ripartire senza un permesso valido: ecco allora il diritto alla salute, l’iscrizione anagrafica in istituto, il codice Stp (Straniero Temporaneamente Presente). Tutto questo si chiude con un’appendice che elenca le norme fondamentali, come un vero e proprio prontuario di riferimento. Pensata soprattutto per le persone detenute, la Guida diventa subito utile anche per chi lavora in carcere - educatori, mediatori culturali, avvocati, volontari - e per i Garanti, quei custodi indipendenti dei diritti di chi è privato della libertà. In poche pagine trova posto la spiegazione del “kit postale” per i rinnovi, il calendario dei termini da rispettare - talvolta talmente stringenti da trasformarsi in un’arma a doppio taglio - e la lista dei documenti indispensabili: passaporto, carta d’identità, marche da bollo, ricevute del versamento e, quando serve, certificati medici. Qui la Guida brilla per chiarezza: ogni sezione è introdotta da un titolo trasparente e i rimandi facilitano la navigazione; per chi ha poco tempo, le tabelle e i riassunti sono un salvagente prezioso; e l’aggiornamento alla recente sentenza n. 88/ 2023 sui reati ostativi dimostra attenzione alle ultime novità della corte costituzionale. Ma non tutto è perfetto. Spesso si sottolinea che “i tempi in Questura possono essere molto lunghi” senza però dare limiti certi: così, chi legge resta nelle mani di procedure al rallentatore. Inoltre, l’appello ai mediatori culturali o ai Garanti è per molti un’incognita: quanti sono, dove trovarli, come chiederli? Alla fine, rimane il rischio che molti debbano arrangiarsi da soli, senza punti di riferimento esterni quando in carcere manca un educatore o un volontario. La guida è scaricabile dal sito dell’Asgi e distribuita nelle biblioteche degli istituti penitenziari. La sua importanza risiede nel colmare un vuoto informativo che spesso trasforma la detenzione in una trappola giuridica. Decreto Sicurezza, i penalisti: “È incostituzionale. La parola passi alla Consulta” di Enrica Riera Il Domani, 24 aprile 2025 Il prossimo 26 maggio è attesa la decisione per accogliere o no la prima istanza sul provvedimento “securitario” del governo Meloni. C’è una data ed è quella del 26 maggio: tra un mese il giudice del tribunale di Milano dovrà decidere se accogliere o non accogliere l’istanza di legittimità costituzionale del decreto Sicurezza, sollevata, nei giorni scorsi, durante un processo per direttissima dagli avvocati Eugenio Losco e Mauro Striani. La loro è la prima istanza nei confronti del provvedimento introdotto dal governo l’11 aprile che, inasprendo diverse pene, interviene su più fronti: contrasto al terrorismo, tutela delle forze dell’ordine, sicurezza urbana, lotta alla criminalità organizzata e gestione dell’ordine pubblico. Le opposizioni (e non solo) hanno parlato di “deriva securitaria” dell’esecutivo che, tra le altre cose, ha scelto di superare le lungaggini dell’iter parlamentare, trasformando un disegno di legge in un decreto. Ed è proprio questo il punto attorno a cui ruota l’istanza presentata dai legali meneghini che, nel corso della direttissima contro il proprio assistito accusato di resistenza a pubblico ufficiale per non aver rispettato un blocco stradale, hanno presentato la documentazione. “La Corte costituzionale (…) nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di un decreto legge ha affermato che la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell’adozione del predetto atto, di modo che l’eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura in primo luogo un vizio di illegittimità costituzionale del decreto legge che risulti adottato al di fuori dell’ambito applicativo costituzionalmente previsto”. Tradotto: nel caso del provvedimento appena emanato dal governo esistono ragioni di necessità e urgenza tanto d’averlo dovuto introdurre con un decreto legge? Secondo Losco e Striani la risposta sarebbe negativa. Per i legali infatti “vi è assoluta carenza di indicazione dei requisiti”. Ma c’è dell’altro. “L’assoluta mancanza delle straordinarie ragioni di necessità ed urgenza la si può anche evincere dall’iter procedurale di questo testo normativo - si legge nell’istanza dei due legali - Le motivazioni che hanno indotto il governo ad appropriarsi del testo, sottraendolo all’esame del Parlamento, sono state enunciate il 4 aprile (…). Il ministro dell’Interno Piantedosi ha affermato infatti che “per una questione nominale il provvedimento doveva tornare alla Camera in terza approvazione e quindi l’approvazione si sarebbe prolungata. Diamo un tempo certo e sicuro. Non c’è nessuna compressione della volontà parlamentare, solo tempi certi per un provvedimento già andato troppo per le lunghe”. Secondo Losco e Striani, in altre parole, le “giustificazioni” del capo del Viminale riguarderebbero “la tempistica parlamentare e non ragioni fattuali di straordinaria necessità e urgenza”. Poi, per gli avvocati c’è una seconda argomentazione alla base della presentazione dell’istanza: il criterio della omogeneità, più volte invocato dalla stessa Corte costituzionale. “Il decreto sicurezza - si legge ancora nell’istanza - ha un carattere del tutto disomogeneo. Presenta norme in materia di prevenzione alla lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata nel primo capo, norme poste a tutela della sicurezza pubblica nel secondo, norme a tutela delle forze dell’ordine nel terzo, norme a tutela delle vittime dell’usura, e norme di modifica dell’ordinamento penitenziario. Vi sono poi - continua l’istanza - norme come quella sulla cannabis legale, in tema di esibizione dei documenti per l’acquisto di una carta Sim, o quella che pone nuove limitazioni alle navi che prestano attività di soccorso in mare”. È dunque per tutti questi motivi che per gli avvocati il decreto Sicurezza sarebbe incostituzionale. Ora la decisione sulla remissione della questione tocca al giudice. Nel caso quest’ultimo accogliesse l’istanza, l’ultima parola spetterebbe, come accaduto per l’abuso d’ufficio, alla Consulta e ai suoi “giudici della legge”. Dl Sicurezza, l’allarme degli esperti alla Camera: “Aggredita la Costituzione” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2025 Ma ad ascoltarli non c’è nessuno. Le critiche degli studiosi al provvedimento del Governo. La costituzionalista Calvano: “È il segnale di una regressione democratica”. Ma in Commissione ci sono solo quattro deputati. Un “attacco alla marginalità e al disagio”, un provvedimento di “matrice profondamente illiberale e autoritaria” segnale di “una vera e propria regressione democratica”. In audizione di fronte alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, esperti e studiosi demoliscono senza appello il decreto Sicurezza varato dal governo, arrivato a Montecitorio per la conversione in legge. Le critiche non riguardano solo il contenuto del testo - un coacervo di norme securitarie e repressive, tra cui 14 nuovi reati e nove aggravanti - ma soprattutto il metodo: cioè la scelta di trasformare in un decreto legge il contestatissimo ddl Sicurezza, in discussione in Parlamento da oltre un anno e rimasto momentaneamente bloccato per un problema di coperture. “Con questo decreto si entra in una fase nuova rispetto all’abuso della decretazione d’urgenza, aprendo a quella che può essere considerata una vera e propria regressione democratica, con un salto di qualità nell’aggressione alla legalità costituzionale e ai diritti fondamentali”, ha denunciato Roberta Calvano, professoressa ordinaria di Diritto costituzionale all’università Unitelma Sapienza di Roma. Lo strumento eccezionale del decreto legge, ha ricordato, “va utilizzato per quei casi straordinari di necessità ed urgenza che non possono derivare dall’esigenza di aggirare il dibattito parlamentare, pena lo stravolgimento non solo dei rapporti tra fonti, ma degli equilibri della stessa forma di governo”. Convocata per mercoledì mattina, Calvano ha parlato a una platea praticamente deserta: su 63 membri delle due commissioni, ad ascoltarla in presenza c’erano appena quattro deputati, tutti di opposizione, più pochi altri in collegamento. Della maggioranza non si è fatto vedere nessuno a parte il presidente, Ciro Maschio di Fratelli d’Italia. “Sono rimasta abbastanza sconcertata”, dice la professoressa al fattoquotidiano.it. “Noi costituzionalisti ci sgoliamo da anni per difendere il ruolo costituzionale delle Camere, ma ormai sembra di assistere ad una sorta di omicidio del consenziente”, ironizza. Oltre a lei, mercoledì sono stati auditi anche Luca Blasi della Rete No ddl Sicurezza, Antonella Soldo dell’Associazione Meglio Legale, rappresentanti di Coldiretti, Antigone, Arci, Nessuno tocchi Caino e Società della Ragione. Riportando le loro osservazioni, Marco Grimaldi di Alleanza Verdi e Sinistra - uno dei pochi onorevoli presenti - denuncia a sua volta come le audizioni su un provvedimento così importante si stiano svolgendo “nel deserto della maggioranza”: “È un provvedimento affetto da uno sfrenato e incontenibile panpenalismo. Le norme criminalizzano le lotte sociali, le proteste per i cambiamenti climatici, e mascherano intenti discriminatori, come quella che permette il carcere per le donne in stato di gravidanza o con bambini neonati”, attacca. Mentre l’articolo 18, che vieta la commercializzazione di cannabis light, è “un’assurda fatwa” che distrugge “una fiorente attività imprenditoriale con più di 23mila addetti”. Il giorno prima, martedì, le Commissioni avevano ascoltato i rappresentanti della magistratura e dell’avvocatura, per una volta uniti nel denunciare le storture del decreto. Pur con i toni soft che lo contraddistinguono, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi ha sottolineato che la situazione del Paese non sembra “così grave ed esasperata da poter giustificare un provvedimento d’urgenza di questo tipo”: “Un problema di costituzionalità si pone”, ha ammesso. “Per alcuni colleghi c’è una percezione, da parte di molti in generale, che questo tipo di risposta sia un attacco alla marginalità e al disagio, che secondo altri potrebbero necessitare invece di una risposta diversa. Questa risposta è quindi interpretata da alcuni come puramente repressiva e non in sintonia con le esigenze di chiarimento e di dialogo che il Paese propone”, ha aggiunto. Lanciando pure una provocazione velenosa alla politica: “Qui di tecnico c’è davvero poco. Nel decreto legge ci sono decisioni di carattere politico. E oggi ci viene chiesto un giudizio politico che invece in altri casi”, leggasi separazione delle carriere, “non è gradito”. Durissimo anche Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali, il “sindacato” degli avvocati penalisti che contro il provvedimento sciopereranno dal 5 al 7 maggio: le norme del decreto, denuncia, “sembrano criminalizzare determinate condotte di marginalità e di dissenso individuando categorie di persone come il manifestante, il disobbediente, l’imbrattatore, l’occupante, l’irregolare, come se fossero appunto categorie da criminalizzare. Stiamo andando verso un diritto penale totale, che aggredisce tutte le forme del disagio”, attacca. E definisce la sostituzione del ddl con un decreto legge “una modalità offensiva delle prerogative del Parlamento”. Martedì era stato ascoltato anche Alfonso Celotto, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre, secondo cui il nuovo reato di blocco stradale introdotto dal decreto contrasta con il diritto di resistenza garantito dalla Costituzione, mentre il divieto di coltivare la cannabis light viola il diritto comunitario. Secondo Celotto, la trasformazione del blocco stradale da illecito amministrativo in reato (punito fino a due anni di carcere) cozza con “uno dei grandi principi di libertà riconosciuti dalla nostra Assemblea costituente, il diritto di resistenza”, che è sempre stato garantito come fondamento della disobbedienza civile, e in questo modo “non esiste più”. La stretta sulla cannabis light, invece, “crea un problema rispetto al diritto dell’Unione europea, perché si limita la circolazione di una merce in maniera sproporzionata, violando il principio di mutuo riconoscimento”. Inoltre, esiste un regolamento Ue che “consente coltivazione e diffusione della canapa industriale”: la norma del decreto, quindi, “non è solo incostituzionale, ma anche disapplicabile in ambito comunitario”. Infine, ricorda Celotto, esiste “il principio di affidamento, che non consente al legislatore di cambiare idea se non in maniera ragionevole: se dal 2016 la canapa è coltivabile liberamente, non puoi dire da oggi con decreto legge che non si coltiva più”. Dl Sicurezza, la Procura di Foggia solleva dubbi di costituzionalità di Alessandro Barbano Quotidiano del Sud, 24 aprile 2025 Il decreto-sicurezza del Governo, entrato in vigore lo scorso aprile, finisce sotto la lente della magistratura. La Procura della Repubblica di Foggia ha sollevato davanti al Tribunale una questione di legittimità costituzionale riguardante due nuove aggravanti introdotte dal Decreto-Legge n. 48 del 2025, ritenute potenzialmente in contrasto con principi fondamentali della Costituzione italiana. È il primo intervento di questo tipo da parte di un pubblico ministero, che accende i riflettori sull’impianto normativo voluto dall’esecutivo. Il caso riguarda un procedimento penale a carico di alcuni imputati accusati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali nei confronti di agenti della polizia ferroviaria in servizio presso la stazione di Foggia. Due le aggravanti contestate: una per aver commesso il reato in prossimità di una stazione ferroviaria (art. 61 n. 11 decies c.p.), l’altra per aver opposto violenza a pubblici ufficiali durante l’esercizio delle loro funzioni (art. 337 co. 3 c.p.). Secondo la Procura, però, queste disposizioni sollevano “seri dubbi di compatibilità” con gli articoli 3, 25, 27 e 77 della Costituzione. In particolare, le nuove aggravanti non rispetterebbero il principio di ragionevolezza e parità di trattamento, finendo per punire più gravemente condotte simili solo in base al contesto spaziale o alla qualifica dell’agente coinvolto. Un’impostazione che - secondo i magistrati - appare sproporzionata e incoerente rispetto alla struttura ordinaria del diritto penale. Ma le critiche vanno oltre il merito delle norme. L’accusa punta il dito anche sul metodo: l’introduzione delle aggravanti tramite decreto-legge - strumento riservato a casi di “straordinaria necessità e urgenza” - sarebbe in questo caso ingiustificata. La Procura osserva infatti come le motivazioni addotte nel testo siano generiche e apodittiche, mentre il lungo iter parlamentare che ha preceduto il provvedimento contraddirebbe l’urgenza invocata. Un utilizzo “strumentale” della decretazione d’urgenza, che rischia di svuotare le prerogative del Parlamento e comprimere la possibilità per i cittadini di conoscere e comprendere le nuove regole, stante l’assenza di un congruo periodo di vacatio legis. Il giudice si è riservato sulla questione e ha rinviato ogni decisione all’udienza fissata per il 17 giugno. La notizia è stata resa pubblica dalla rivista “Sistema penale”, diretta dal giurista Gian Luigi Gatta, tra i primi accademici a segnalare le criticità del decreto-sicurezza. Il caso foggiano potrebbe aprire la strada a un più ampio scrutinio giuridico del decreto, la cui legittimità è destinata ora a essere discussa non solo nelle aule parlamentari, ma anche in quelle giudiziarie. Una battaglia di principio, tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti costituzionali, che si preannuncia centrale nei mesi a venire. Da oggi in vigore i nuovi limiti alle intercettazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 aprile 2025 Durata fissata a 45 giorni. Fase transitoria da chiarire. Eccezioni per i più gravi reati. In vigore da oggi, giovedì 24 aprile, la nuova disciplina delle intercettazioni, che, per la prima volta, introduce un limite di durata, individuato in 45 giorni. La previsione fortemente contestata dalla magistratura, in particolare dai pubblici ministeri, debutta senza un’esplicita disciplina della fase transitoria, aprendo quindi la strada a possibili incertezze sull’applicazione della novità alle indagini in corso. Rischio di criticità - A evidenziare il rischio di criticità una nota delle camere penali per le quali, sulla base del principio del tempus regit actum “non è chiaro, quanto al computo del limite complessivo dei 45 giorni e al momento di emersione degli elementi che giustificano la prosecuzione delle operazioni stesse, se la nuova previsione normativa debba applicarsi anche ai procedimenti penali in corso ovvero solamente a quelli di nuova iscrizione”. La legge, la n. 74 del 2025, oltre a istituire l’inedito paletto cronologico, ne ammette anche una possibile trasgressione, ammettendo la possibilità di una proroga in caso di assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore, giustificata dalla presenza di elementi specifici e concreti. Questi ultimi devono poi essere oggetto di espressa motivazione. Quando non valgono i 45 giorni - In ogni caso, il limite di 45 giorni non vale per alcuni reati, comunque considerati di particolare gravità: in particolare per i reati di criminalità organizzata, per quelli commessi con metodo mafioso o per agevolare un’associazione mafiosa, per le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, per i reati commessi con finalità di terrorismo, per il sequestro di persona a scopo di estorsione, per la minaccia via telefono, per i reati informatici e contro la inviolabilità dei segreti. Il limite di 45 giorni non si applicherà alle indagini su questa tipologia di reati, confermando una specificità che già la legislazione attuale riconosce su altri versanti, come per esempio per quanto riguarda i presupposti. Per questi ultimi infatti, è previsto che gli indizi da “gravi” scalano a “insufficienti” e l’”indispensabilità” per le indagini si abbassa a “necessità”. Il confronto con i Paesi Ue - Limiti alla durata delle intercettazioni sono stabiliti anche in altri Paesi europei. L’indagine comparativa condotta dalla commissione Giustizia del Senato, infatti, ricorda che in Francia, dopo la riforma del 2016, la durata non può essere superiore a quattro mesi e le operazioni possono proseguire alle stesse condizioni di forma e di tempo, senza che la durata complessiva dell’intercettazione possa superare un anno o due anni nelle indagini per i reati più gravi. In Germania, l’ordine per la sorveglianza delle telecomunicazioni e la sorveglianza acustica al di fuori di locali privati deve essere generalmente limitato a un massimo di tre mesi e non può essere prorogato per più di tre mesi per un totale massimo di sei mesi; la sorveglianza acustica di locali privati, invece, deve essere generalmente limitata a un periodo di un mese e non può essere prorogata per più di un mese. In Spagna, la durata massima iniziale degli ascolti è di tre mesi, prorogabili per periodi successivi di pari durata sino a un periodo massimo di diciotto mesi. L’intervento in vigore, oggi, è tuttavia solo l’ultimo di una serie in materia di disciplina degli ascolti. Tutta la legislatura ne è infatti stata costellata. Via via sono state introdotte misure con obiettivo di tutela della privacy, freni contro gli ascolti “a strascico”, con effetti su altri procedimenti, obblighi di rendicontazione economica per i pm sui costi delle operazioni, rafforzamento delle motivazioni sull’uso dei trojan. Caso Elmasry, le carte erano pronte ma Nordio non firmò di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 aprile 2025 Il tribunale dei ministri verso la chiusura del fascicolo. Una decisione politica alla base del rilascio del boia. Anche la Cpi attende il governo. Il pomeriggio di martedì 21 gennaio era tutto pronto in via Arenula: il Dipartimento affari di giustizia aveva preparato le carte richieste dalla Corte d’appello di Roma per confermare l’arresto, avvenuto due giorni prima a Torino, del capo della polizia giudiziaria libica Osama Elmasry, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Il ministro Carlo Nordio, però, ha deciso di non firmare e così, dando seguito al parere del procuratore generale, ai giudici non è rimasto che dichiarare il “non luogo a provvedere”, con conseguente scarcerazione dell’aguzzino e rapidissimo rimpatrio a Tripoli a bordo di un volo di Stato. Queste sono le conclusioni fattuali alle quali, dopo aver acquisito tutti i documenti del caso e aver ascoltato diversi funzionari del ministero della Giustizia e del Viminale, sarebbero arrivate le tre giudici del tribunale dei ministri - Maria Teresa Cialoni, Donatella Casari e Valeria Cerulli - che entro martedì dovranno decidere se archiviare o meno il fascicolo aperto dal capo della procura di Roma Francesco Lo Voi per favoreggiamento e peculato a carico della premier Meloni, del sottosegretario Mantovano e dei ministri Nordio e Piantedosi. Il problema vero è tutto di natura procedurale e riguarda l’incrocio tra l’articolo 716 del codice di procedura penale (che impone di consultare il ministero della Giustizia per le convalide degli arresti eseguiti nei casi d’urgenza) e la legge numero 237 del 2012 sulle modalità di esecuzione della cooperazione giudiziaria, che all’articolo uno dice che il Guardasigilli “dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale” e all’articolo 4 attribuisce le competenze in materia alla Corte d’Appello di Roma. Insomma il margine per sostenere che le mancate risposte alle sollecitazioni della Corte da parte di Nordio siano state decisioni politiche esiste, e questa potrebbe essere la via di fuga per il governo, cioè la considerazione che chiude il fascicolo senza conseguenze. Il problema è che, sin qui, tra i vari interventi che si sono susseguiti dentro e fuori dal Parlamento, i ministri che si sono esposti sul caso Elmasry si sono sempre ben guardati dall’ammettere che la sua liberazione e il suo rimpatrio fossero scelte politiche. Anzi, Nordio ha sempre sostenuto di essere stato assalito da una considerevole quantità di dubbi legali sulle carte prodotte dall’Aja sul boia di Tripoli. Quello che il Guardasigilli non è mai stato capace di spiegare, in questo quadro, è perché non abbia fatto una telefonata alla Cpi per sanare le supposte anomalie: sui documenti arrivati in via Arenula, infatti, erano presenti sia un numero sia un indirizzo email ai quali rivolgersi in caso di dubbi. Nordio, però, ha ignorato la cosa, trincerandosi dietro i cavilli che a suo dire rendevano irricevibili le richieste dell’Aja. Fatto sta che la Cpi ancora aspetta che l’Italia presenti una sua memoria difensiva per spiegare i motivi della mancata esecuzione del provvedimento d’arresto. Il governo ha chiesto una proroga fino al 6 maggio. Inizialmente i tempi erano più stretti (la prima scadenza era al 17 marzo, poi al 17 aprile) ma tra il viaggio a Washington di Meloni e il fatto che c’è un procedimento in corso in Italia - quello davanti al tribunale dei ministri -, il governo è sempre riuscito a evitare di fornire la sua versione della storia. Quello che più si teme, da palazzo Chigi in giù, è infatti il fascicolo italiano, che potrebbe portare a un’inchiesta “vera” dalle conseguenze non del tutto prevedibili. Aprire un contenzioso con la Corte penale internazionale, invece, per quanto non semplicissimo, potrebbe diventare questione di carattere politico, cogliendo anche il vento che in tutto il mondo spira da destra contro le istituzioni internazionali. Le preoccupazioni sul fronte interno, peraltro, si riflettono pesantemente anche sulla burocrazia del ministero della Giustizia. Dopo l’addio del capo del Dipartimento affari giudiziari Luigi Birritteri, anche il capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria Gaetano Campo è sul punto di andare via. Il 14 aprile scorso ha fatto richiesta per rientrare in ruolo in Veneto. La decisione definitiva, per entrambi, passerà per il vaglio del Csm. Il padre detenuto “deve stare con i figli”: una conquista dei diritti per i genitori in carcere di Daniele Oppo La Nuova Ferrara, 24 aprile 2025 Una recente sentenza della Corte Costituzionale “originata” all’Arginone. Una previsione dell’ordinamento penitenziario ledeva il diritto dei minori. Ha in parte a che vedere con Ferrara una delle ultime sentenze della Corte Costituzionale che riguarda i diritti dei genitori in stato di detenzione, in relazione alla possibilità di accudire i propri figli. La decisione, infatti, arriva dopo che il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva promosso un giudizio di legittimità costituzionale di una norma dell’ordinamento penitenziario dopo che un detenuto, noto per una lunga serie di truffe online con vittime anche ferraresi, ristretto al tempo nel carcere di Ferrara, aveva chiesto di essere ammesso al regime di detenzione domiciliare speciale per poter accudire i due figli minorenni. Lo stesso giudizio era stato promosso, su un diverso caso, anche dal Tribunale di Venezia. A trovare accoglimento è stata la richiesta - peraltro proposta solo in via subordinata - dal giudice felsineo. “La norma esaminata dalla Corte - spiega un comunicato che accompagna la sentenza - consente di disporre la detenzione domiciliare della madre condannata anche quando i figli siano affidati al padre. Invece, il padre che sia stato condannato può essere ammesso alla detenzione domiciliare soltanto ove risulti che la madre sia morta o comunque sia impossibilitata a prendersi cura dei figli, e non vi sia modo di affidarli a persona diversa dal padre”. La Corte, con la sentenza numero 52/2025, pubblicata solo pochi giorni fa, ha ritenuto che è costituzionalmente illegittimo il divieto di concedere al padre la detenzione domiciliare quando la madre sia deceduta o impossibilitata a occuparsi dei figli, ma questi possano essere affidati a terze persone. Era proprio il caso del detenuto all’Arginone, i cui figli erano stati affidati alla loro sorella maggiore. Quella disposizione di legge, secondo i giudici costituzionali, lede gli interessi preminenti del minore, impedendogli di fruire della relazione continuativa con almeno uno dei genitori, che in linea di principio deve essere loro assicurata. Tutto ciò sempre valutando la pericolosità sociale del genitore detenuto, quindi la possibilità che possa fuggire o compiere altri reati una volta ucito dal carcere, e valutando costantemente, tramite i servizi sociali, l’adeguatezza delle cure prestate. Insomma la richiesta non deve essere un escamotage tramite il quale si “sfruttano” i figli minori per poter uscire dal carcere. Non viola, invece, i principi costituzionali il diverso trattamento, stabilito dall’ordinamento penitenziario, per la donna e l’uomo condannati che abbiano figli di età non superiore a dieci anni ovvero gravemente disabili. In questo caso è rimessa alle discrezionalità del legislatore una valutazione di maggiore equiparazione. L’interesse del detenuto deve essere bilanciato con le esigenze di controllo dell’Amministrazione penitenziaria di Giuseppe Molfese njus.it, 24 aprile 2025 Con sentenza n. 15838 del 23 gennaio-23 aprile 2025, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che dalla condizione detentiva possono derivare limitazioni anche significative alla ordinaria sfera dei diritti della persona e ciò anche in conseguenza dell’adozione di misure organizzative dell’Amministrazione penitenziaria volte a garantire, all’interno degli istituti, l’ordine e la sicurezza interna e, con essi, il trattamento rieducativo, cui la pena deve essere necessariamente finalizzata secondo la previsione dell’art. 27, comma 3, Cost. Pertanto, deve essere in questa sede ribadita l’esistenza di un ambito di discrezionalità riconosciuto all’Amministrazione penitenziaria attraverso cui definire le modalità di esercizio di alcuni diritti che l’ordinamento riconosce alle persone detenute (Cass. pen., sez. I, 7 luglio 2020, n. 23533; Cass. pen., sez. VII, 16 luglio 2013, n. 7805; Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2013, n. 767); discrezionalità che si esplica in provvedimenti che devono, comunque, essere improntati al rispetto dei fondamentali canoni di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità (Cass. pen., sez. I, 4 dicembre 2020, n. 4030) e non debbono sostanzialmente inibire la fruizione dei diritti stessi, restando altrimenti sindacabili in sede giurisdizionale (Cass. pen. sez. VII, 29 maggio 2014, n. 373). Dunque, salva la possibilità di adottare atti amministrativi di contenuto organizzativo riconducibili al legittimo esercizio di una potestà organizzatoria dell’Amministrazione penitenziaria, finalizzata all’attuazione dei suoi compiti istituzionali e, in particolare, ai compiti definiti dalla legge penitenziaria e del regolamento di esecuzione, le previsioni di tali atti debbono essere ragionevoli e proporzionate alle esigenze organizzative da soddisfare e tali aspetti sono sindacabili in sede giurisdizionale (Cass. pen., sez. I, 15 febbraio 2023, n. 24711; Cass. pen., sez. I, 1° marzo 2022, n. 10421), costituendo i canoni della ragionevolezza e proporzionalità un limite all’esercizio della potestà amministrativa, distinto dal merito, questo non sindacabile, delle scelte di amministrazione. Sempre in premessa, va ricordato che, coerentemente con le considerazioni più sopra espresse, le limitazioni ai diritti della persona detenuta sottoposta al regime differenziato devono essere giustificate dalle esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza proprie di tale regime. Diversamente, come più volte ricordato dalla Corte costituzionale, esse finirebbero per diventare ingiustificate e per risolversi in un irragionevole surplus di afflittività, che il Giudice delle leggi ha più volte sottolineato essere incompatibile con i principi costituzionali (al riguardo, si vedano, tra le altre, le sentenze nn. 97 del 2020 e 351 del 1996). Ciò sul rilievo che l’introduzione di un regime “incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione”, “si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario”, dotata “di valenza meramente e ulteriormente afflittiva” (così la sentenza n. 186 del 12 ottobre 2018). Sullo specifico tema in argomento, attinente alla possibilità per i detenuti di utilizzare, nella camera di pernottamento, strumenti tecnologici quali sono i compact disk (CD), al fine di integrare l’offerta musicale assicurata dai canali televisivi e radiofonici si è già espressa questa Corte che, in recenti decisioni (Cass. pen., sez. I, 28 settembre 2022, n. 49280; Cass. pen., sez. I, 30 settembre 2021, n. 43484; Cass. pen., sez. I, 25 giugno 2021, n. 29819) in questa sede interamente condivise, ne ha approfondito gli snodi problematici. Il primo di essi attiene - come osservato nelle citate pronunce - alla legittimità stessa dell’autorizzazione, da parte delle direzioni degli istituti penitenziari, all’uso di lettori CD per la fruizione di contenuti musicali, tenuto conto che, come ricordato dall’Amministrazione ricorrente, le norme di Ordinamento penitenziario fanno espresso riferimento all’impiego dei suddetti dispositivi per le sole esigenze di lavoro di studio, ovvero per la consultazione di materiale giudiziario. Secondo la Suprema Corte, le richiamate previsioni, storicamente datate, non valgano a stabilire una preclusione assoluta di utilizzo dello strumento per finalità diverse dalla consultazione di testi, rese attuali dall’evoluzione tecnologica; ciò anche considerato che la possibilità di ascoltare musica per mezzo dei CD rientra, a pieno titolo, nel contesto di quei “piccoli gesti di normalità quotidiana” che la Corte costituzionale ascrive ai legittimi ambiti di libertà residua del soggetto detenuto. E, tuttavia, se non può negarsi che l’Amministrazione penitenziaria possa consentire l’acquisto di CD musicali e l’uso dei relativi supporti, questa soluzione non può ritenersi imposta in ogni situazione e contesto. L’interesse del detenuto, pur qualificato sotto il profilo trattamento, deve essere bilanciato con le esigenze di controllo dell’Amministrazione penitenziaria, particolarmente avvertita il proprio nei casi in cui, come quello in esame, il soggetto sia sottoposto a regime penitenziario differenziato. L’art. 41 bis Ord. pen. prevede infatti una serie di limitazioni all’ordinario trattamento intramurario, volte a impedire che il detenuto possa liberamente comunicare con l’esterno, mantenendo un legame con l’ambiente delinquenziale di provenienza e continuando, per tale via, a partecipare alle attività illecite proprie del gruppo criminale di riferimento. In questa prospettiva, l’eventuale autorizzazione all’acquisto del lettore di CD musicali da parte della direzione d’istituto dovrebbe assicurare la piena salvaguardia di così pregnanti esigenze di sicurezza, ben potendo tali strumenti esser oggetto di manipolazione, al fine di introduzione in istituto di contenuti illeciti; di qui la necessità di assoggettarli a adeguate verifiche preventive come avviene, del resto, per il CD di tipo ammesso e per i relativi supporti. Si è dunque condivisibilmente affermato, nelle sopra citate pronunce, che il Tribunale, prima di riconoscere il diritto del detenuto utilizzare dei lettori CD per uso ricreativo, verifichi se tale utilizzo, pure in assoluto non precluso dalla normativa vigente, possa nondimeno comportare inesigibili adempimenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria, in relazione agli indispensabili interventi su dispostivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione del carcere, di non consentirne l’utilizzo. Scelta che, implicando un apprezzamento della possibilità di soddisfare le esigenze ricreative dei detenuti alla luce delle risorse disponibili, rientrerebbe in un ambito di legittimo esercizio del potere di organizzazione della vita degli istituti penitenziari. Scarica la sentenza: https://www.njus.it/pdf/schede/documento.php?id=9520 Campania. Aumentano i reati commessi da minori: in 6.200 fermati o denunciati in un anno di Francesco Parrella Corriere del Mezzogiorno, 24 aprile 2025 È allarme sul sovraffollamento delle carceri: “A dicembre nei 15 istituti penitenziari della regione si contavano 7.509 detenuti su 5.584 posti disponibili”. Poi l’appello: “Indulto per chi deve scontare meno di un anno”. “I reati commessi da minori stanno aumentando”. Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, e portavoce nazionale della conferenza dei garanti territoriali, alla presentazione del Rapporto annuale 2024 nell’aula Siani in Consiglio regionale, ha evidenziato che l’anno scorso in Campania 6.200 under 18 sono stati fermati, denunciati, affidati a servizi sociali, accompagnati dai genitori, messi alla prova, mandati nelle comunità e, per reati più gravi, nelle carceri. Di questi, 2.005 sono stati presi in carico dai servizi sociali, 38 di loro sono stati l’anno scorso accusati di tentato omicidio, 6 di omicidio consumato 4 di tentato omicidio stradale. E nelle carceri campane sono tanti anche i giovanissimi (402) dai 18 ai 24 anni. Poi ci sono le persone anziane: 594 detenuti di età compresa tra i 60 e i 69 anni, e 143 con oltre 70 anni. Allarme sovraffollamento - Continua intanto a crescere il numero dei detenuti in Italia (62.137 a marzo 2025, a fronte di 46.839 posti disponibili). E anche in Campania la situazione è preoccupante: a dicembre 2024 nei 15 istituti penitenziari della regione si contavano 7.509 detenuti su 5.584 posti disponibili. Ma è sui minori che si concentra il dato più allarmante: 6.200 under 18 l’anno scorso solo in Campania (14mila in Italia). “Dal sovraffollamento delle carceri scaturiscono situazioni di forte criticità”, afferma il Garante nella sua relazione. In Campania nel 2024 si sono registrati 20 decessi di cui 11 suicidi (in Italia i decessi sono stati 246 e i suicidi 90). Il penitenziario di Poggioreale guida la classifica regionale del sovraffollamento con un indice pari a 155,45%. Seguono Benevento con 154,55%, Salerno con 154,18%, Sant’Angelo dei Lombardi con 146,15%, Ariano Irpino con 131,6% e Bellizzi Irpino con 116,38%. Tra i 7.509 detenuti nelle carceri campane 892 sono stranieri e 349 sono donne. L’appello di garante: “Serve un indulto” - Nel corso della presentazione del Rapporto 2024 il Garante campano dei detenuti ha rinnovato l’invito al ministro della Giustizia Carlo Nordio a fare un provvedimento di indulto, nonostante la contrarietà espressa dallo stesso Guardasigilli, per il quale indulto e amnistia non sono la strada per risolvere il problema. Eppure, argomenta Ciambriello che cita il caso della Campania, “qui ci sono 814 detenuti, non per reati di sangue né di camorra o di corruzione, che stanno scontando un anno di carcere e 374 con una condanna di 6 mesi. Ora io dico ai direttori delle carceri, vediamo come possiamo mandare queste persone in misure alternative al carcere”. Stesso discorso per i tossicodipendenti detenuti. “In Campania - evidenzia il Garante - ce ne sono 1.709, oltre a 620 malati di mente, in una regione che ha solo 2 Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), e Poggioreale conta solo 2 psichiatri. Liberiamoci - è l’appello di Ciambriello al Consiglio regionale - dalla necessità del carcere per questi detenuti, e mettiamo in campo misure alternative in comunità terapeutiche. Se facciamo questo, eviteremo il sovraffollamento, i suicidi, i tentativi di suicidio e saremo un Paese più democratico”. Roma. Viaggio dentro Rebibbia: “Il carcere è un buco nero, ascoltateci” di Simona Musco Il Dubbio, 24 aprile 2025 Faccia a faccia coi reclusi di Rebibbia, che chiedono ai giornalisti di aprire uno squarcio sull’universo chiuso degli istituti penitenziari: “La parola può costruire ponti”. “Il carcere è un buco nero. Ci vogliono zitti e buoni”. Il microfono è in mano a un personaggio politico. Il palcoscenico, però, non è quello a cui per anni è stato abituato. Si tratta di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma. La sua voce rimbomba nella sala “Meta” del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso: uno stanzone semplice ma elegante, con pareti bianche a mattoncini e finestre alte, sbarrate, sul lato destro. Il lungo corridoio che conduce alla sala Meta è spezzato da una serie di cancelli blu. A sinistra si può intravedere un campo da gioco, simulacro di un mondo che per un po’ rimarrà fuori. Alemanno, magro, in giacca azzurra acetata, spiega ai giornalisti seduti alla sua sinistra com’è la vita in carcere: un buco nero, appunto, dove finiscono non solo le persone, ma anche le parole - prima abbondanti durante il lungo percorso delle indagini e dei processi, poi improvvisamente mute. Perché di carcere si parla poco. È un tema “stagionale” - se ne discute a Natale, a Pasqua e durante l’estate, quando ci sono meno notizie o quando certi argomenti sono più adeguati - dice un altro detenuto, uno dei partecipanti al laboratorio di giornalismo che ogni mercoledì Stefano Liburdi, giornalista de Il Tempo, conduce con un gruppo di loro. A organizzare il faccia a faccia tra detenuti e giornalisti è stato il Cnel, in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata, che ha attivato il progetto “Università in Carcere”. “Ma sa cosa scrivono i giornali quando parlano di carcere?”, chiede mentre ci riaccompagna all’uscita Serena Cataldo, assegnista di ricerca del progetto Rome Technopole. “Del personaggio famoso che si è iscritto. Niente numeri, niente significati. Solo quello”. Molti dei presenti nella sala Meta sono studenti della facoltà di Scienze della Comunicazione. L’idea è quella di riportare la parola dentro il carcere, aprire una finestra tra il dentro e il fuori. O meglio costruire un “ponte”, la parola più pronunciata della giornata, tra chi la società vuole tenere nascosto e chi, fuori, non vuole vedere. Ogni detenuto è una storia, e ogni storia richiede tempo: l’unico antidoto contro un racconto che toglie dignità ai detenuti e agli indagati. “È un mondo che merita di essere raccontato”, insiste Alemanno. Chiede un intervento sul regolamento del Dap - “risale al 1975”, fa notare uno degli studenti del laboratorio - per scrivere nuove regole che permettano di raccontare davvero il carcere. E toglierlo dal cono d’ombra. Nella saletta, seduti a coppie alle scrivanie color legno, i detenuti del braccio G8 ascoltano con attenzione. Alcuni hanno l’aria accigliata. “Quando qualcuno muore in carcere scrivete una riga e poi ve ne dimenticate”, dice un uomo, liberandosi finalmente di un peso. Sembra diffidare dei presenti, che possono solo annuire. Eppure tra loro ci sono alcuni dei giornalisti più sensibili al tema, come dice Alessandro Barbano, direttore de L’Altra Voce, che conduce i lavori insieme a Marina Formica, ordinaria di Storia Moderna a Tor Vergata. Forse non abbastanza per loro. “Quella che vedete qui è una sezione che sembra un Grand Hotel a confronto di altre”, spiega ancora l’ex sindaco. “Ma questa stanza non rappresenta l’intero carcere. Basterebbe fare due rampe di scale per vedere le celle: rimarreste scioccati. Dove una volta ci si stava in quattro ora ci stanno sei persone”. E non è nemmeno il peggio. “Qualche giorno fa dovevo fare una visita - spiega -. Mi sono preparato, ma poi la scorta non è arrivata. Il mio era un controllo da niente, ma pensate a quanta gente malata succede. Quello delle scorte è un problema serio”. Un detenuto in maglia verde e occhiali prende la parola: “Io ci tengo all’ambiente, penso che tutti vorremmo uscire da qui e respirare aria pulita”, racconta. “Vedo in tv il governo celebrare la giornata dell’ambiente, poi mi giro e mi ricordo che qui dentro l’acqua deve scorrere tutto il giorno per sostituire il frigorifero. Ma se ci facessero lavorare, magari, potremmo fare una colletta e comprarli”. Un concetto semplice ma che racchiude dentro mille significati. Un altro detenuto ha conseguito una laurea in Giurisprudenza. Stava per prenderne una seconda, ma a quattro esami dalla fine il magistrato di sorveglianza gli ha negato il permesso premio: il suo fine, a detta del giudice, non era “rieducativo, ma edonistico”. E ci ha rinunciato. “Ecco come viene intesa la cultura in carcere”, osserva. Eppure, dice, è proprio la cultura ciò che serve per costruire quel ponte: per riabilitare, per ricominciare, per dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione, più volte rievocato, soprattutto dall’avvocato penalista Iacopo Benevieri, responsabile della Commissione per la linguistica giudiziaria dell’Ucpi. Un articolo che qualcuno, aggiunge un altro uomo, vorrebbe stracciare. “C’è chi pensa che il sovraffollamento si risolva costruendo nuove carceri. Ma perché nessuno spiega a questi politici che mentre loro progettano nuove strutture, per le quali ci vogliono anni, il numero dei detenuti aumenta di 450 unità al mese? Quando avranno finito, sarà ancora troppo tardi”, sottolinea. Un altro, in carcere da oltre tre anni e mezzo e ormai prossimo alla fine della pena, ricorda che la gru per il reparto G10 è lì dal giorno del suo ingresso, senza che sia mai stato posato un solo mattone. “Il tasso di affollamento in Italia è in media del 140%, il più alto in Europa”, denuncia. Un dato che, secondo lui, rende vana qualsiasi riforma. “Ci sono norme e norme, ma poi ogni giudice di sorveglianza le applica come vuole. Qui c’è gente di 83, 87 anni. Ma che ci deve fare una persona a quest’età in carcere? Qualunque cosa abbia fatto, a cosa serve?”, si inalbera. “Si potrebbero scarcerare 15mila persone. Persone malate. Ma non lo fanno. Raccontatele queste cose, fate ascoltare la nostra voce. Rompete questo silenzio”, incalza. Poi c’è chi racconta la propria storia. Storie note, che hanno infiammato la cronaca giudiziaria italiana. Tanto, forse troppo, fino a influenzare la giustizia. Un giovane detenuto, in dolcevita bianco e pantalone cammello, scandisce piano le sue parole: “Sapete quanto hanno influito i media sulla mia condanna?”. Si professa innocente. Ribalta la versione ufficiale - che non possiamo riportare per motivi di identificabilità - e la racconta da un punto di vista ignorato, vero o falso che sia. Ma il punto è un altro: “I giornali hanno scavato nella mia vita e in quella della mia famiglia. Ma loro non c’entrano nulla con me. Perché nessuno ha voluto parlare col mio avvocato? Perché nessuno gli ha chiesto la nostra versione dei fatti? Perché nessuno viene qui a intervistarmi per sapere cosa ho da dire? Leggete le mie carte, parlate col mio avvocato”. Silenzio in sala. Poi la precisazione: “Non possiamo trasformare questo incontro in un’intervista, non siamo autorizzati”, spieghiamo sotto l’occhio attento della direttrice Teresa Mascolo. Ma non era quello il punto. Il punto era mostrare il potere della parola: che può creare, guarire, ma anche distruggere. “Sarei disposto a fare l’ergastolo se potessi far sparire da internet tutte le falsità dette su di me, affinché mio figlio non le legga mai”, conclude. Una storia, la sua, simile a quella di un altro ragazzo. Anche lui giovane, troppo giovane. Tuta verde, tatuaggi, voce ferma: “I giornali scelgono una versione e la portano fino in fondo”. Un j’accuse chiaro e senza sconti. L’incontro è finito, tocca andare via. Bisogna ripercorrere al contrario lo stesso corridoio, lo stesso campo fuori dalle finestre, lo stesso blu. In attesa, tra un angolo e l’altro, si scorgono bambine aggrappate alle mani delle madri, che cercano informazioni o attendono il turno per i colloqui con i loro compagni, mariti, coi padri dei loro figli, chiamati a gran voce non appena la delegazione di giornalisti si avvia verso l’uscita. “Aria!”, urla un piantone. Fuori il sole brucia. Sotto una cycas, un gatto nero dorme tranquillo, indifferente alla linea invisibile che separa il dentro dal fuori. Roma. “Il carcere è un buco nero”: lo sfogo di Alemanno dal carcere di Rebibbia di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 aprile 2025 “Non è accettabile che i detenuti siano condannati al silenzio e che i giornalisti non possano mostrare le condizioni fatiscenti delle carceri”, dice l’ex sindaco di Roma, recluso a Rebibbia. Le critiche dei detenuti alla politica e alla magistratura di sorveglianza per l’emergenza sovraffollamento. “Entrare in carcere oggi significa entrare in un buco nero, isolato dal resto del mondo. E’ necessario quindi cercare di stabilire un contatto tra chi vive il carcere e l’esterno, ma è impossibile farlo se noi detenuti non abbiamo la possibilità di raccontare l’esperienza che viviamo, rilasciando un’intervista, o se i giornalisti non possono mostrare al pubblico l’ambiente, spesso fatiscente, in cui siamo costretti a vivere. Non è accettabile che il carcere sia un buco nero e i detenuti siano condannati al silenzio”. Parole di Gianni Alemanno, recluso dallo scorso 31 dicembre nel carcere romano di Rebibbia, dove ieri si è svolto un incontro tra i detenuti e alcuni giornalisti, promosso dalla direttrice dell’istituto di pena, Teresa Mascolo, con la collaborazione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) e dell’Università di Roma “Tor Vergata”. Un’iniziativa volta, appunto, ad aprire le porte del carcere all’esterno, in questo caso dando vita a una riflessione collettiva sul rapporto tra informazione e carcere. Siamo nel reparto G8, uno dei più moderni del carcere di Rebibbia. La saletta dedicata all’incontro si riempie via via che i giornalisti, ma soprattutto i detenuti, prendono la parola. Alemanno non è l’unico volto noto. Si intravede nelle retrovie anche Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade, in carcere dal 12 aprile dopo essere stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione per la strage di Acqualonga, avvenuta il 28 luglio 2013 nei pressi di Monteforte Irpino (Avellino). Un autobus precipitò da un viadotto dell’autostrada, causando la morte di 40 persone e il ferimento di molti altri passeggeri. Castellucci è stato condannato per disastro colposo e omicidio colposo, con una sentenza che - come spiegheremo nei prossimi giorni - sembra seguire più la logica dello scalpo che quella penale. Presente anche Gabriele Bianchi, condannato insieme al fratello Marco per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte (il primo a 28 anni, il secondo all’ergastolo). Il dolore per la morte di Papa Francesco è percepibile nei volti e nelle parole dei detenuti. “Era lui il nostro ponte tra il carcere e l’esterno”, afferma uno dei reclusi. Proprio nella casa circondariale di Rebibbia, lo scorso 26 dicembre il Papa aveva voluto aprire la seconda Porta Santa del Giubileo, un gesto senza precedenti nella storia della Chiesa. L’ultima uscita pubblica del Papa, prima della morte, è avvenuta in maniera molto simbolica al carcere romano di Regina Coeli, in occasione del Giovedì Santo. Per quel giorno, scopriamo nel corso dell’incontro, Papa Francesco aveva pensato di tornare proprio a Rebibbia, ma le sue condizioni fisiche non gli hanno consentito di svolgere un viaggio più lungo rispetto a quello necessario per andare a Regina Coeli. I detenuti lamentano il “trattamento stagionale” riservato dagli organi di informazione al tema delle carceri: “Il carcere è sui giornali ad agosto, a Natale e a Pasqua. Poi viene dimenticato”. “Siamo abbandonati a noi stessi”, ribadisce un altro detenuto. Ma al centro delle riflessioni critiche dei reclusi non ci sono soltanto i media. C’è “la politica, di ogni colore, che fa annunci su come saranno migliorate le condizioni di vita in carcere e poi sparisce, mentre noi viviamo in uno stato di emergenza che non fa che peggiorare”. E c’è la magistratura, soprattutto quella di sorveglianza. “Quindicimila detenuti avrebbero diritto di accedere alle misure alternative al carcere, ma questa possibilità viene negata dai giudici di sorveglianza”, lamentano i detenuti, sottolineando anche la mancanza di uniformità di giudizio della magistratura. Il tribunale di sorveglianza di Roma, ad esempio, è dei più riluttanti ad applicare quanto previsto dall’ordinamento penitenziario, rispetto ad altri tribunali del paese. Ma l’applicazione della legge non dovrebbe essere uguale per tutti? In sala c’è anche un detenuto di 83 anni. Durante il confronto si alza e consegna alla direttrice del carcere di Rebibbia un testo da lui scritto, intitolato “Lettera a mio padre”, in cui confida di non ricordare neanche più il senso di libertà. “Sono il più anziano del carcere”, dice, ma viene subito corretto da un agente penitenziario: “No, un altro detenuto ha 87 anni”. Tutto è possibile in questo buco nero chiamato carcere. Anche l’impensabile. Roma. Papa Francesco, l’ultimo atto di amore: donare oltre 200mila euro ai detenuti Il Messaggero, 24 aprile 2025 Una donazione destinata al pastificio del carcere minorile di Casal del Marmo. È stato questo il gesto del Pontefice rivelato dal monsignor Benoni Ambarus, per tutti “Don Ben”, ausiliare di Roma che Bergoglio ha voluto accanto a sé per l’apertura della Porta Santa della chiesa del Padre Nostro nel penitenziario romano di Rebibbia. “Fino a pochi giorni fa il Santo Padre trascinava il suo corpo a Regina Coeli, per urlare al mondo, con tutta la sua forza, la necessità di prestare attenzione ai detenuti. Gli ultimi suoi averi li ha donati a loro, 200mila euro dal suo conto personale”, ha detto a Repubblica il Vescovo delegato alla carità e alle carceri. Poi una critica alle istituzioni: “Nonostante il suo enorme impegno, le istituzioni non hanno fatto nulla per dare anche solo un piccolo segnale. Il mio bilancio non è positivo”. A testimonianza della sua vicinanza e la sua sensibilità per le tematiche del mondo della detenzione, Francesco è stato a Regina Coeli nel giovedì santo, pochi giorni prima di morire: “Ricordo un uomo stanco, che si trascinava, ma urlava con la sua presenza il bisogno di attenzione ai detenuti. Si è trascinato per loro, fino all’ultimo respiro. Per questo i carcerati in lui vedevano la speranza. Per loro è morto un padre, è il senso della lettera che mi hanno affidato”, ha detto Don Ben. Sui soldi donati aggiunge: “Quando ho chiesto un contributo, mi ha detto che le finanze erano terminate. Poi ha aggiunto: “Non preoccuparti, ho qualcosa nel mio conto”. Ha inviato 200 mila euro di tasca sua. Ora, con il testamento, vengo a sapere che verrà seppellito grazie a un benefattore. Perché lui ha donato tutto se stesso agli ultimi”. Papa Francesco nei suoi anni di apostolato ha fatto visita alle carceri di tutto il mondo, invocando sempre segni tangibili di speranza per coloro che vivono da reclusi e non da esclusi. Samuele Ciambriello, garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, nonché portavoce nazionale della conferenza dei garanti territoriali, lo ricorda così: “Consentitemi questo doloroso e al tempo stesso, dolce ricordo. Papa Francesco non solo ha fatto del carcere e degli ultimi uno dei punti centrali del suo Ministero, ma ha certificato il suo impegno aprendo la Porta Santa nel carcere di Rebibbia, lo scorso 26 dicembre, trasformando il penitenziario in una basilica”. “In questi anni del Ministero - prosegue nel suo ricordo - le centinaia di visite nelle carceri, le lavande dei piedi annuali alle detenute e ai detenuti, sono stati per laici e cattolici uno stimolo non solo a rendere il carcere più umano, ma a liberarsi dalla necessità del carcere. Appare chiaro, alla luce di queste tangibili testimonianze, che simili gesti, più volte da tanti potenti e da politici italiani ricordati, si debbano trasformare in atti concreti, attraverso un provvedimento trasversale che riconosca a tutti i detenuti un atto di clemenza nell’anno del Giubileo, attraverso un indulto o una riduzione della pena. Tutto ciò - conclude Ciambriello - per essere coerenti con l’eredità morale, civile e religiosa che ci ha lasciato di Papa Francesco. Insomma, la politica, sul carcere tra il dire ed il fare ci deve mettere il coraggio e non il mar!”. Asti. Bufera sulla Garante dei detenuti che inneggia al Duce e augura la morte a Battisti di Paolo Viarengo La Stampa, 24 aprile 2025 “Una designazione che “lascia attoniti”. Anche la Camera penale di Asti prende posizione contro la Garante dei detenuti Stefania Sterpetti, finita nella bufera per una serie di post pubblicati sui social network negli anni passati in cui inneggiava al Duce e auspicava la morte dell’ex terrorista Cesare Battisti. La Camera penale parla di “commenti assolutamente incompatibili con il delicatissimo ruolo che andrà a ricoprire, ovvero di tutelare i diritti dei detenuti tramite un costante monitoraggio delle condizioni di vita inframurarie”. Nel 2024 sono stati 90 i detenuti che si sono tolti la vita in Italia e nei primi mesi del 2025 siamo già a 28. È sufficiente guardare a questi numeri, secondo l’ente che riunisce gli avvocati astigiani, presieduto da Davide Gatti “per ritenere decisamente inadeguata una persona che, con riferimento allo sciopero della fame annunciato da un detenuto” ne auspicava sostanzialmente la morte. Le frasi incriminate - “Visto che non c’è la pena di morte, fosse la volta buona che Cesare Battisti si toglie di mezzo da solo”. Questo l’augurio all’ex terrorista che annunciava lo sciopero della fame. E postando una foto di Benito Mussolini “che ha dato agli italiani la sanità gratuita”, il commento con i caratteri in maiuscolo. Per rafforzare il concetto, casomai non fosse chiaro: “Non pensate che sia giunto il momento di fare qualcosa? È vergognoso assistere impassibili alla distruzione del nostro popolo, della nostra cultura. Noi siamo italiani. I migranti sono ciarpame”. Gli amanti di Crozza non avrebbero dubbi, è l’ultimo sfogo isterico di Napalm51. Geniale. Peccato che la comicità non c’entri. Il mittente di questi messaggi è la nuova Garante dei detenuti di Asti Stefania Sterpetti. La storia - Illustre medico chirurgo in forza all’ospedale cittadino nonché componente della commissione Pari Opportunità della Provincia, è stata eletta nella seduta di martedì dal Consiglio comunale di Asti con 14 voti a favore su 30 consiglieri presenti. Sterpetti, che appena contattata da La Stampa ha fatto sparire i post da Facebook, gioca in attacco senza prendere le distanze da quanto scritto. “Alcuni post personali, estrapolati dal contesto e deformati ad arte, sono stati strumentalizzati a puro scopo politico, in un’operazione di rappresaglia che ormai tristemente caratterizza una certa parte della sinistra”. A supportarla arriva da Roma anche il deputato di Fratelli d’Italia Marcello Coppo: “Dispiace constatare che ci sia ancora chi, a sinistra, ritiene legittimo attaccare persone non per ciò che fanno o per come lavorano, ma per il fatto di non appartenere al loro campo ideologico”. Il tentativo è di spostare nell’inflazionato calderone della polemica politica affermazioni che, come sottolinea il segretario della Cgil provinciale Luca Quagliotti, “fanno venire la pelle d’oca”. “La nuova garante non ha alcuna esperienza del mondo carcerario - aggiunge Quagliotti - non ha mai svolto attività di volontariato in carcere e, da ciò che posta, sembra più una giustiziera che un garante”. A sollevare il caso nella seduta del consiglio comunale sono i due consiglieri dell’opposizione Vittoria Briccarello (UnitiSiPuò) e Michele Miravalle (Pd). “Esplorando le copiose esternazioni pubbliche via social della neo eletta garante comunale” - attaccano - si leggono anche insulti a rappresentanti politici con termini quali “mongolino” e “demente”. La neo garante dichiara che preferisce “essere considerata razzista” e paragona i migranti a “ciarpame”, rilanciando in modo seriale post di “fake news di stampo razzista”. Il caso, dai confini astigiani si sposta a Roma. Il caso politico - “Una garante dei detenuti che si augura il loro suicidio rimpiangendo la pena di morte e definisce i migranti “ciarpame” dovrebbe essere immediatamente rimossa dall’incarico - afferma il vicecapogruppo di Avs, alleanza verdi sinistra, alla Camera, Marco Grimaldi - Come è possibile che questa persona sia stata nominata dal Consiglio comunale per un ruolo di delicata attenzione ai diritti umani?”. Dello stesso avviso anche Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone, associazione che si batte per la tutela dei diritti di chi ha perso la libertà. “Nei giorni della morte di Papa Francesco, che si è battuto per i diritti delle persone recluse e contro la pena di morte - sottolinea - ad Asti si fa una scelta di partito e si nomina in questo importante ruolo un’attivista di Fratelli d’Italia, senza alcuna esperienza specifica nel monitoraggio delle condizioni di detenzione e che pubblicamente rilascia dichiarazioni che, di fatto, contravvengono al ruolo che le viene assegnato”. L’altro candidato - In corsa per il posto da Garante nella votazione, segreta, anche Domenico Massano, attivista di Amnesty International e di Effatà, associazione che si occupa del sostegno ai detenuti, che ha ottenuto 12 voti. Due voti a Luca Tomatis, assistente sociale, sostenuto da Giovani Astigiani, lista civica che, come FdI, sostiene il sindaco di Asti, Maurizio Rasero. Due le schede bianche. La sua candidatura era stata portata avanti in Consiglio comunale dal capogruppo di FdI, Federico Cirone, che l’aveva presentata come “una persona di grande valore, con doti di empatia e comunicazione”. Propaganda e comunicazione, ricorda l’Accademia della Crusca, non sono sinonimi. Milano. Il mio viaggio da volontaria in carcere di Angelica Giambelluca* personemagazine.it, 24 aprile 2025 Terzo giorno di volontariato in carcere. Ho iniziato da poco a fare la volontaria nel carcere di Bollate, un’esigenza che sentivo da tempo e che finalmente sono riuscita a realizzare. Ma un conto è immaginarsi dietro a quelle sbarre, altro conto è viverlo per davvero. Ed è davvero un altro conto. Al terzo giorno inizio a farmi un’idea più precisa del mio ruolo, inizio a capire meglio le mille regole della struttura, inizio a riconoscere volti, voci, modi di fare. Un codice unico che appartiene solo a queste mura e a queste persone, e che fuori di qui sarebbe a mala pena comprensibile. Una delle prime cose che mi hanno colpito è la stessa strutturala della Casa di Reclusione di Bollate: questa è la definizione corretta, e differisce dalla casa circondariale dove si trovano detenuti definitivi, ma soprattutto imputati in attesa di giudizio. Qui ci sono solo i definitivi. Qui ci arrivi se te lo meriti, perché Bollate è diverso da tutte le altre carceri italiani, con celle sempre aperte, molti laboratori, molte opportunità di lavoro all’interno della struttura: un percorso fatto apposta per preparare i detenuti che - prima o poi- usciranno. E come ho già avuto modo di dire, prima o poi, escono tutti. Anche chi ha l’ergastolo, a determinate condizioni, e dopo un certo numero di anni, può uscire o ottenere permessi premio. Per cui qui si viene dopo un’attenta analisi del percorso fatto, e ci si rimane se si rispettano le regole. Bollate ha un tasso di recidiva del 30%, altrove siamo oltre il 60%. Significa che forse questo modello funziona. Dicevo che la prima cosa che mi ha colpito è la stessa struttura: padiglioni enormi di cemento, il cui grigio è interrotto da colori sgargianti che circondano le finestre rettangolari. Quasi a ricordare che qui si espia una pena, ma si può sempre trovare un senso, un colore, un significato, anche a questa esistenza ristretta. Di fronte al carcere c’è un ospedale, l’IRRCS Galeazzi. Sono proprio uno di fronte all’altro, divisi da una striscia d’asfalto. E dal filo spinato. Da una parte c’è il grigiore del carcere, dall’altra il bianco brillante dell’ospedale, una struttura nuova e bellissima, da togliere il fiato. Chi sta in carcere e si affaccia dalle finestre sbarrate, vede l’ospedale. Il primo pensiero che ho avuto è a cosa pensano i detenuti che vedono quel panorama. Perché l’ospedale è l’unico scorcio della vita là fuori che possono vedere abbastanza da vicino. Per il resto, solo tetti che si confondono con il cemento. Chissà se i detenuti e le detenute si immaginano le persone che percorrono quei corridoi dell’ospedale, liberi di andare e venire. Se si immaginano lì, se preferirebbero essere lì, magari nei reparti più intensivi, piuttosto che stare dove stanno. Pensieri astratti che forse io, al loro posto, farei. La seconda cosa che mi ha colpito sono le persone che incontro al mattino nel parcheggio. Mentre io mi accingo a passare i controlli mostrando il mio documento - e lasciando il cellulare che per nessun motivo si può portare all’interno- queste persone entrano da un’altra porta. E non sono mai a mani vuote: portano sacchi pieni di oggetti e alimenti, vestiti. Stanno a testa bassa, non riesco quasi mai a vederli in faccia. Alcuni sono coppie di anziani, altri sono soli con passeggino al seguito. Ecco, i genitori con i bambini piccoli sono davvero un pugno in un occhio. Immagino vengano a trovare l’altro genitore in carcere, madre o padre. E mi metto nei panni, senza riuscirci, di quei bambini. Se sono troppo piccoli, magari non capiscono. Se hanno dai 5 anni in su, qualche domanda iniziano a farsela. Perché poi arriva l’altro pugno dello stomaco legato a questo scenario: la sezione destinata ai colloqui con i famigliari. La vedo ogni volta che attraverso il cortile principale per entrare nelle sezioni del carcere. C’è quella interna, che intravedo da fuori - io non ci posso andare - solo dalla scritta COLLOQUI scritta con la vernice sulla porta e da qualche farfalla disegnata su uno sfondo giallo, un timido tentativo di rendere quel percorso più gradevole alle famiglie. Quello che vedo bene è invece l’area esterna, un giardino con tavolini e scivoli o giochi per bambini. Recintato. Ogni volta che passo lì vicino, mi fermo. Mi si blocca il respiro. Mi immagino un bimbo che prova a giocare su quei giochi, mentre mamma e papà parlano, mentre uno sfrutta ogni piccolo secondo per parlare con l’altra, e conta gli attimi che gli rimangono per giocare con suo figlio. So che, se sono lì, è perché se lo meritano. Ho già smarcato il tema, e so che non devo farmi impietosire. Ma non riesco a non emozionarmi ogni volta che vedo quel luogo. Come stridono quegli scivoli colorati con l’ambiente che li ospita, come devono sentirsi quei bambini a giocare pochi minuti con quel genitore che vedono una volta a settimana, quando va bene, chiedendosi il perché, senza ricevere sempre una risposta. Come devono sentirsi quei genitori rimasti fuori a tenere insieme faccia e famiglia, a provare a fare finta di niente, fare come se fossero visite normali, come quelli che vanno a visitare le persone ospitate a pochi passi da lì, in ospedale. Eccolo il corto circuito nella mia mente: da parte persone che visitano famigliari malati, dall’altra persone che visitano detenuti. Tutti soffrono, per motivi diversi. Ma qui la sofferenza non ha un contorno preciso, non è legata a una diagnosi, a una degenza, ma a una scelta, o una serie di scelte, sbagliate, gravi, gravissime… che hanno provocato a loro volta sofferenze. Qui la sofferenza è un buco nero, di cui non capisci l’inizio e la fine. E annienta tutti: chi l’ha provocata, chi l’ha subita, chi è qui per lavorare, contenere, educare, reinserire. Aiutare. La sofferenza qui non risparmia nessuno. Dopo questa passeggiata iniziale che mi prepara a quello che verrà là dentro, entro nel carcere vero e proprio, e mi dirigo al settimo reparto, dove svolgo volontariato nel guardaroba gestito dall’associazione di cui faccio parte. Qui i detenuti in difficoltà economiche possono chiedere vestiti, accessori per l’igiene personale, possono farsi aggiustare gli occhiali e gli orologi rotti. Possono passare per fare due chiacchiere. E qui passo due ore e mezza ad ascoltare storie, a leggere volti, a osservare atteggiamenti. Il tutto per provare a capire, perché io sono qui perché voglio capire. E la prossima volta vi racconterò cosa sto capendo. *Giornalista professionista, direttrice responsabile di “Persone, Medicina & Società” Perugia. “Destinati al vento”, spettacolo con i detenuti attori teatrostabile.umbria.it, 24 aprile 2025 Torna per la sua settima edizione il progetto “Per Aspera Ad Astra - riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” con lo spettacolo Destinati al vento, in scena giovedì 15 maggio alle 18 presso la Casa Circondariale di Capanne e lunedì 19 maggio alle 19.30 al Teatro Morlacchi di Perugia. La messa in scena diretta da Vittoria Corallo, promossa da Acri (l’Associazione nazionale delle fondazioni di origine bancaria) realizzata con il sostegno di Fondazione Perugia e prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria, è il settimo capitolo di una ricerca portata avanti insieme ai detenuti - alcuni già tra i protagonisti delle precedenti sei edizioni di “Per Aspera ad Astra” all’interno della Casa Circondariale di Capanne - pensata per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti. Dal 2018 “Per Aspera ad Astra” ha portato percorsi di professionalizzazione nei mestieri del teatro in più di 20 carceri italiane coinvolgendo oltre 1.000 detenuti. In questa edizione sono 16 le compagnie teatrali e 12 le fondazioni di origine bancaria che in tutta Italia realizzano progetti di formazione e di teatro. Quest’anno a Perugia, il progetto ha previsto un corso di recitazione e rielaborazione drammaturgica e un corso di Illuminotecnica e fonica teatrale all’interno della Casa Circondariale, e ha coinvolto studenti e studentesse dei licei G. Alessi, G. Galilei, B. di Betto, A. Pieralli. Destinati al vento - le note di regia di Vittoria Corallo - I fili d’erba se li porta il vento, li trascina in direzioni tutte diverse, di continuo, quando è più forte fa saltare la terra su cui affondano le loro radici esili. Essere Destinati al vento è l’attesa inerme di uno sradicamento, e anche una predisposizione d’animo: da una parte sta l’impotenza di fronte al mondo che cambia velocemente, trainato dalle stagioni economiche, che hanno il potere di stravolgere la vita di moltissime persone; e da un’altra sta l’incanto che si genera in chi aspetta l’arrivo del vento per far viaggiare l’immaginazione verso avventure vegetali e animali, capaci di allargare, per un momento, lo spazio striminzito della propria realtà. Così è per Marcovaldo che alterna i volumi della sua esistenza, quello del suo corpo che abita tra le fitte maglie della vita di città, ritmata dal lavoro di manovale in una fabbrica e dalle esigenze della sua famiglia, e quello del suo sguardo che gonfia dettagli impercettibili di un idillio di natura d’altrove. La scrittura scenica si compone a partire da alcuni intrecci tematici e narrativi emersi dalla lettura di Marcovaldo di Italo Calvino e dalla visione del documentario Roger and Me di Michael Moore, uniti in uno sguardo rivolto ai movimenti sociali ed economici contemporanei. La struttura dei racconti che vedono Marcovaldo protagonista si appoggia sul susseguirsi delle stagioni, qui la trama incrocia i cicli stagionali, avvicendando quelli ambientali a quelli economico sociali. Le trasformazioni lasciano delle orme in una mappa immaginaria del tempo, in cui si possono seguire a ritroso i passi del futuro, nostro contemporaneo, che Italo Calvino aveva già immaginato. Marcovaldo manifesta un’estraneità ineluttabile al mondo reale, come se ci fosse capitato per forza. Non si riconosce nella vita ritagliata sulla misura del lavoro, nè tantomeno riconosce la città come il proprio habitat, allora sposta lo sguardo verso i particolari nascosti tra le crepe del cemento, per sentire che qualcosa ancora vive, sotto terra, negli alberi, nel vento. Info e prenotazioni - Entrambi gli spettacoli sono a ingresso gratuito e aperti a tutta la cittadinanza. Per l’evento di giovedì 15 maggio alla Casa Circondariale è possibile inviare una email all’indirizzo: promozione@teatrostabile.umbria.it entro giovedì 8 maggio. Per lo spettacolo di lunedì 19 maggio al Teatro Morlacchi sarà possibile prenotare i biglietti a partire da mercoledì 30 aprile, registrandosi sulla piattaforma Eventbrite. Il link per la registrazione sarà diffuso online tramite i canali di comunicazione del Teatro Stabile dell’Umbria e di Fondazione Perugia. Cristina “Nikita” Pinto, 22 anni in carcere, racconta cosa vuol dire essere giovani camorristi di Arnaldo Capezzuto Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2025 È il racconto di una ragazza, che a 16 anni impugnò un’arma per diventare un’affiliata del clan del Rione Traiano guidato dai fratelli Mario e Nunzio Perrella, quest’ultimo in un interrogatorio con il magistrato Franco Roberti affermò: “Dottò, a’ munnezza è oro”. Il soprannome di “Nikita” come la protagonista del film di Luc Besson se l’è visto affibbiare direttamente dal boss per la sua abilità nell’uso della pistola. Dopo 22 anni di carcere, Cristina ha imparato a guardare il vero volto del male. Senza scelta, morte o carcere. Non ha mai collaborato con lo Stato, si è assunta le proprie responsabilità di fronte alla legge prendendo coscienza di cosa sia la piovra della criminalità organizzata. È una testimone senza fronzoli, cruda e reale dal di dentro della camorra. Ed è proprio a Pianura che è tornata, dopo tanti anni, per presentare questo libro dalle parole autentiche e senza retorica. Ti affacci dalle finestre della “Casa della Cultura e dei Giovani” di Pianura, intitolata alla vittima innocente Francesco Pio Maimone, 18 anni per sempre, e ti trovi davanti uno scenario di degrado e abbandono assoluto. Qui, nei decenni, la camorra si è fatta Stato costruendo abitazioni, garantendo tranquillità a chi lavora nella piccola illegalità e a chi, invece, è parte del sistema del pizzo, dei traffici di droga e del contrabbando. È il volto dei “clan di prossimità” a cui molti giovanissimi aspirano per garantirsi un futuro di rispetto e potere. Un destino quasi ineluttabile. Un disastro generazionale. Poco o nulla è cambiato da quando Cristina Pinto, Nikita, impugnava la sua pistola per conto del boss. Anzi, forse le cose sono peggiorate. All’azione di magistratura e forze dell’ordine che hanno in parte disarticolato i vecchi clan, c’è la risposta dei nuovi gruppi criminali che per violenza e brutalità somigliano ai narcos messicani. Il quartiere Pianura è un laboratorio, diviso in zone, con altrettanti micro clan a impedire ‘invasioni’ reciproche. Equilibri molto instabili: ci si contende una strada, una piazza, una piccola area d’influenza. Si può morire per un nulla, per un sospetto, una diceria, uno scambio di persona, un proiettile vagante. Così è sempre stato. Come per Fabio De Pandi, 11 anni per sempre. Era il 21 luglio 1991, una domenica sera, mentre al Rione Traiano sta salendo in macchina, scoppia l’inferno: un commando del clan Puccinelli, spara in strada nel tentativo di colpire il rivale Perrella (ex alleato). Una pallottola gli toglie la vita. Come quella sera del 10 agosto 2000 Luigi Sequino era in macchina sotto casa sua con l’amico Paolo Castaldi, si erano fermati a parlare delle vacanze. Poi, il rumore degli spari. Trucidati, entrambi. Avevano venti e ventuno anni. Quei due ragazzi, incensurati, erano stati uccisi per errore. Scambiati per guardaspalle di un boss. E poi l’oggi. L’atroce omicidio di Gennaro Ramondino, il 20enne trucidato a colpi di pistola la notte tra il 31 agosto e il 1 settembre scorso in un sottoscala in una strada di campagna di Pianura. Il presunto killer è un ragazzo di 16 anni che non ci ha pensato su due volte a sparare contro il suo amico. C’era poi la scena del crimine, che andava ripulita. E c’era da liberarsi del corpo. Da qui l’idea di trascinare Ramondino in campagna e lì dare fuoco ai suoi resti. Una storia, quella del 16enne, che non inizia certo con questo delitto. Era già sotto custodia cautelare per aver preso parte a un tentato omicidio. E ancora prima c’è l’omicidio di Andrea Covelli, 27 anni, torturato e ucciso il cui corpo venne ritrovato il 1 luglio del 2022 in contrada Pignatiello sempre a Pianura. Un altro agguato scatta la notte del 12 marzo 2023 nella zona degli chalet di Mergellina nel mirino finisce Antonio Gaetano, 19 anni, alias ‘Biscotto’, un agguato che sarebbe scaturito da una lite con esponenti di un clan di Pianura. E ancora l’uccisione - lo scorso 2 marzo - del pregiudicato Pasquale D’Anna, 34 anni. Insomma, di fronte a questo orrore quotidiano, il racconto crudo di Cristina Pinto in “Nikita. Storia di una camorrista” può aiutare ad aprire gli occhi e capire che le camorre sono il male assoluto e nessuno si può girare dall’altra parte. Femminicidi, la lezione all’Italia che arriva dalla Francia di Barbara Carnevali La Stampa, 24 aprile 2025 L’opinione pubblica transalpina si interroga dibattendo di Gisèle Pelicot quanto della serie tv su Marie Trintignant. Nel nostro Paese invece si ripete un copione identico: non è servito neanche lo choc per la morte di Giulia Cecchettin. In questi giorni, in Francia, si discute di una miniserie che tratta di violenza contro le donne: “Da rockstar ad assassino - Il caso Cantat”. Non ha le ambizioni estetiche di “Adolescence”, ma merita di essere guardata: ripercorrendo con la sensibilità di oggi un caso di cronaca di venti anni fa è un’esperienza esemplare di straniamento storico. L’attrice francese Marie Trintignant fu uccisa nell’estate del 2003, in un albergo di Vilnius, dal compagno Bertrand Cantat. Il carismatico cantante del gruppo rock Noir Désir la massacrò di botte nel corso di una lite dovuta a gelosia, lasciandola in coma per ore prima di chiamare i soccorsi. Processato in Lituania, Cantat fu condannato a otto anni di carcere per omicidio preterintenzionale, ma ne scontò solo quattro. L’epilogo della storia si estende al suicidio della moglie, Krisztina Rády, la cui testimonianza era stata decisiva per dimostrare la tesi dell’incidente. La ricostruzione lascia intendere che anche lei sia stata vittima di abusi prima e dopo la morte di Marie. Cantat non ha mai perso il sostegno dei fan e ha poi cercato di rilanciare la sua carriera musicale. Ma il suo ritorno in scena si è scontrato con l’ostilità dell’opinione pubblica maturata in seguito al movimento MeToo. La serie è sensazionalistica e un po’ superficiale; affronta la vicenda da troppi punti di vista, interrogandosi, oltre che sulla violenza di genere, sull’omertà dell’industria discografica e sul rapporto tra arte e morale. Il suo interesse risiede nel materiale documentario, in particolare quello relativo al dibattito mediatico sul crimine che oggi sarebbe definito “femminicidio” ma che all’epoca fu commentato come “delitto passionale”. Non solo chi difendeva Cantat ma anche opinionisti neutrali empatizzavano con l’assassino, rilasciando dichiarazioni che oggi sembrano allucinanti. Che grande storia d’amore finita male! Marie se l’era cercata: castrante, isterica, poteva “uccidere con le parole”. Bertrand l’amava troppo. Più che un crimine, un dramma: come non essere gelosi di una donna che ha avuto quattro figli da quattro mariti diversi? (Le ultime frasi sono di un collaboratore degli Inrockuptibles, rivista culturale della sinistra alternativa). A ripetere queste assurdità erano persone normali, spesso in buona fede - come una giornalista intervistata che ammette di faticare a riconoscersi nelle opinioni di allora, e non si dà pace all’idea di essere stata complice di un tale accecamento collettivo. La cecità della giornalista è stata anche la mia, la nostra. Ne soffre chiunque sia immerso in un ordine simbolico, nell’ideologia di un sistema sociale. Chi ci vive dentro non può vederla, la considera trasparente, come un pesce non fa caso all’acqua in cui nuota. Chi osserva l’acquario da fuori perché appartiene a un altro sistema di valori, come un visitatore straniero o come la spettatrice del 2025, viene colto dalla vergogna e dall’orrore: come era possibile, solo due decenni fa, e nella civilissima Francia, parlare di una donna uccisa a pugni e calci come se fossimo nella Sicilia dei film di Germi? La visione della serie suscita altre domande. Come avvengono le mutazioni ideologiche? Come si passa da un regime percettivo e valutativo fondato su costumi patriarcali alla critica che li mette in causa? Una risposta approfondita meriterebbe un libro, ma suppongo che le svolte avvengano per l’azione congiunta di piccole trasformazioni progressive - le gocce che scavano la roccia - e di cambi di paradigma comparabili a rivoluzioni. Su un piano agiscono le rivendicazioni dei movimenti e dei partiti politici, le modifiche del diritto, l’educazione familiare e scolastica, la diffusione e l’imitazione di nuovi costumi. Sull’altro, gli eventi improvvisi e irreversibili che squarciano il cielo di carta: qualcuno grida per la prima volta “Il re è nudo!”, e nulla sembra più come prima. Da questo punto di vista, le conclusioni suggerite dalla miniserie appaiono condivisibili: l’equivalente della presa della Bastiglia per la rottura dell’incantesimo patriarcale è stato probabilmente il MeToo. Un’altra questione, di ordine diverso, riguarda la situazione italiana. Il confronto con lo stato del discorso pubblico in Francia è deprimente. Dopo una stagione dominata dalle rivelazioni sui casi di incesto e allo stupro collettivo di Gisèle Pelicot, sono usciti i risultati della commissione parlamentare sulle violenze sessiste e sessuali nel mondo dello spettacolo; le inchieste ora coinvolgono la scuola, e si parla del fenomeno - boccaccesco ma sintomatico, anche perché molto esteso - del voyeurismo nelle piscine pubbliche (filmare sotto le gonne è un reato in Francia). La stessa vitalità nel mondo intellettuale: per citare solo qualche lettura recente, la filosofa Manon Garcia ha appena pubblicato il pamphlet femminista Vivere con gli uomini; la sociologa del diritto Irène Théry ha descritto in Moi aussi (Anch’io) l’intreccio tra la storia della giurisprudenza sessuale e la sua esperienza biografica di adolescente molestata. Leggendo i giornali francesi ci si sente parte della riflessione collettiva su un sistema ormai percepito come intollerabile - un dibattito controverso, non immune da ingiustizie ed eccessi (quale rivoluzione ideologica non ne comporta?). Ma che costringe l’opinione pubblica a confrontarsi con i presupposti inaccettabili della nostra forma di esistenza, e a immaginare delle vie d’uscita. Passando le Alpi, si ritorna nell’acquario. Malgrado lo choc per Giulia Cecchettin ci abbia fatto credere che qualcosa si fosse definitivamente smosso, il copione continua a ripetersi identico: Ilaria Sula, Sara Campanella. Allo sgomento collettivo dopo i casi di cronaca seguono analisi impressionistiche o solo psicologiche, mentre servirebbe un approccio sistemico, cioè globale, in cui tutte le scienze umane e sociali collaborino con la filosofia. Mancano soluzioni concrete, proposte e iniziative politiche che vadano oltre il richiamo generico all’importanza dell’educazione affettiva. Molti storcono il naso persino davanti alla parola femminicidio. Viene da chiedersi se una delle possibili cause di questa incoscienza non sia il diniego del MeToo. Il discorso pubblico dominante nel nostro paese sembra considerarlo una minaccia felicemente scongiurata, una caccia alle streghe puritana che non avrebbe ragione di essere da questa parte dell’oceano - per non parlare di chi, nemmeno troppo celatamente, attribuisce al movimento la colpa suprema dell’elezione di Trump. Qualunque sia la ragione dell’apnea italiana, rivedere i filmati del processo Cantat offre una spinta per provare a tirare la testa fuori dall’acqua. Non c’è giustizia ambientale senza quella sociale di Guido Viale Il Manifesto, 24 aprile 2025 L’eredità di Francesco. Un cristianesimo che ha spinto al centro di una nuova visione non il dominio dell’uomo sul resto del mondo, ma la cura del creato. Forse nessun papa come Francesco ha suscitato il bisogno di una riflessione profonda e sentita su sé stessi e sul mondo non solo in una parte consistente del cattolicesimo, ma anche tra un grande numero di non credenti. Ma difficilmente un papa ha suscitato anche tanta ostilità: non solo tra coloro di cui contrastava apertamente pensiero e azioni su questioni centrali come migrazioni, guerre, clima, diseguaglianze, tecnica, economia e tanti altri. Ma anche e soprattutto in buona parte della gerarchia ecclesiastica e in Vaticano, vero covo di malaffare, cinismo e mancanza di spirito evangelico. Cose con cui Francesco ha dovuto fare i conti con cautele da papa, soprattutto sui temi cosiddetti “sensibili” come aborto, fine vita, genere, divorzio, sacerdozio femminile e laico, ecc., che i suoi avversari (ora in attesa di una rivincita) hanno sempre anteposto a quelli evangelici della cura del creato, delle vittime, dei poveri, degli emarginati, dei sofferenti. D’altronde non c’è politico che non abbia reso un omaggio formale a papa Francesco e alla sua enciclica Laudato si’, e che non torni a renderlo in quest’ora della sua morte. Ma non ce n’è uno solo, in tutto il mondo, che ne abbia preso il messaggio in seria considerazione. Il suo pontificato è stato ininterrottamente caratterizzato da iniziative e gesti che ne sottolineavano i messaggi: dalla visita a Lampedusa in ricordo dei migranti lasciati morire in mare al cammino solitario in piazza San Pietro per promuovere la solidarietà al tempo del covid; dalla celebrazione del giubileo in un paese africano e nel carcere di Rebibbia agli incontri effettuati o solo tentati per cercare di por fine alle guerre in corso. Ma tutte le sue iniziative e i suoi viaggi sono stati sorretti e guidati da una vera e propria rivoluzione della tradizione cattolica: da un cristianesimo che ha spinto al centro di questa nuova visione non il dominio dell’uomo sul resto del mondo, ma la cura del creato: unica autentica cornice del rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni, della nostra Terra sofferente, dell’essere umano (Francesco non lo indica mai con il termine uomo, per non escludere la donna), non signore ma custode del mondo. È questo il contenuto centrale dell’enciclica “Laudato si’” (2015), un documento straordinario per la compattezza con cui sono stati riuniti in poche pagine, con semplicità e chiarezza pari solo alla profondità, tutti i problemi fondamentali del nostro tempo. Molti dei temi trattati si ritrovano già in elaborazioni dell’ecologia profonda e dell’ecofemminismo, che Francesco ha saputo raccogliere e rielaborare, insieme ai tanti spunti fornitigli dalle culture indigene dell’Amazzonia, a cui ha voluto dedicare addirittura un sinodo, finalizzato a “inculturare” - è il termine usato: cioè innestare - il messaggio evangelico nella sensibilità per la natura di popoli fedeli a costumi e credenze tradizionali. Ma non è solo - com’è stato detto - l’essere state enunciate da “un capo di Stato” ad aver reso così importanti le verità dell’enciclica, bensì il nesso inscindibile che essa ha saputo tracciare tra giustizia ambientale e giustizia sociale, tra “il grido della Terra” e quello degli oppressi, tra l’urgenza di salvare e risanare l’ambiente e le rivendicazioni e le lotte dei poveri della Terra. Quell’enciclica forse è stata letta più dai non credenti che dai cattolici: questa almeno è la nostra esperienza di cultori, divulgatori e interpreti dei suoi contenuti, impegnati nella loro articolazione in ogni angolazione sia della vita quotidiana che dei grandi eventi politici, sociali, climatici e ambientali, in qualità di attivisti dell’associazione Laudato si’, che abbiamo fondata pochi mesi dopo la sua pubblicazione. Un documento la cui lettura va integrata almeno con altri tre: il discorso del 2014 al primo incontro dei movimenti popolari, un vero e proprio incitamento rivolto agli ultimi a battersi per i propri diritti; l’enciclica Fratelli tutti (2020), progetto e perorazione di un assetto sociale fondato sulla solidarietà e la condivisione e non sulla competizione e l’appropriazione; e l’esortazione Laudate Deum (2023), un ultimo e quasi disperato richiamo a ricordarsi della crisi climatica, rivolto a tutto il mondo, ma soprattutto ai potenti della Terra, in un tempo in cui la corsa a fare la guerra ha fatto dimenticare quasi a tutti che il nostro mondo è sull’orlo di un baratro. Ma in tutti questi documenti, come in tutte le circostanze in cui l’attività di Francesco è stata resa pubblica, non è mai mancato il tratto della delicatezza, della attenzione, della disponibilità e anche della verve - compresa la sua penultima comparsa avvolto in un poncho, un abito sicuramente più adatto ai successori di Pietro - che ha distinto il suo pontificato da quelli di tutti i papi che lo hanno preceduto. Un tratto che lo ha reso il vero erede del santo di cui ha voluto prendere il nome. Piccolo (e sobrio) promemoria per il 25 aprile di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 24 aprile 2025 La ricorrenza della Liberazione avviene nei giorni del lutto per la morte del pontefice. Celebrarla come si deve non è una mancanza di rispetto per nessuno. Derubricarla a un fatto di ordine pubblico sarebbe invece una doppia mancanza di rispetto. Siamo ancora disorientati dalle preoccupazioni del ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, che teme “balli e canti scatenati” in occasione degli 80 anni dalla Liberazione. E sinceramente non sappiamo come rassicurarlo se non tentare di convincerlo ad avere più fiducia nel senso di responsabilità degli organizzatori e nella saggezza popolare. Questa ricorrenza avviene nei giorni del lutto per la morte del pontefice. Celebrarla come si deve non è una mancanza di rispetto per nessuno. Derubricarla a un fatto di ordine pubblico sarebbe invece una doppia mancanza di rispetto. Nei confronti della nostra Storia, della Repubblica e della sua Costituzione. E anche della stessa memoria di un Papa che aveva voluto semplificare le sue esequie perché assomigliassero il più possibile a quelle di un cittadino cristiano e che mai avrebbe voluto intralciare il ricordo solenne dei tanti, anche e soprattutto cattolici, che diedero la vita per le nostre libertà. In occasione della Liberazione, la Fondazione Corriere della Sera ha realizzato un nuovo episodio della serie Il Corriere racconta a cura di Tommaso Pellizzari. Sarà ascoltabile venerdì su Corriere.it. Ha come titolo Il 25 aprile 1945 in via Solferino. È ricostruita la giornata della Liberazione e le ore che la precedettero. Con il racconto di redattori e tipografi (che assicuravano già da tempo la stampa clandestina di Unità è Avanti!). E di come venne realizzato, grazie soprattutto a Gaetano Afeltra, il giornale insurrezionale di quel giorno (con la testata Il Nuovo Corriere), sotto la direzione di Mario Borsa, scelto anche dal Cln, il Comitato di liberazione nazionale. Dino Buzzati ricorderà così quei momenti, nel ventennale della Liberazione, il 25 aprile del 1965: “Rivedo la febbre di quella notte nella redazione del giornale, la ricomparsa di colleghi spariti da parecchi mesi, i volti nuovi, quegli occhi spiritati e felici come di avanguardie di esercito vittorioso, rivedo le strade di Milano all’alba incredibilmente morte, i primi drappelli di partigiani, la città che adagio adagio si risveglia e riscuote, non osando ancora credere a ciò che sta succedendo, la pace, finalmente, la libertà”. Sempre nell’edizione del 25 aprile del 1965 vi era un commento di Enrico Emanuelli, preoccupato da un’inchiesta realizzata in un liceo milanese. Su cento intervistati soltanto venticinque sapevano che cosa era stato il Fascismo. Ed erano passati solo vent’anni! Chi è senza memoria, concludeva la sua analisi Emmanuelli, “non ha il metro giusto per misurare i tempi in cui vive”. I padroni del presente e il pretesto del passato di Marco Follini La Stampa, 24 aprile 2025 L’invito del governo affinché le celebrazioni del 25 aprile siano “sobrie” è apparso come una via di mezzo tra un’ovvietà e un’offesa. È del tutto scontato infatti che i giorni del lutto per la scomparsa del Pontefice debbano essere improntati al rispetto del dolore collettivo. Ma è anche assai probabile che quell’inopinato richiamo alle buone maniere venuto da Palazzo Chigi voglia essere un modo, non proprio disinteressato, per derubricare i “festeggiamenti” antifascisti. Quasi che quei raduni, quei discorsi, quei cortei avessero in sé qualcosa di ludico, di non appropriato. O magari di troppo divisivo. Il fatto è che in quel richiamo alla “sobrietà” delle date altrui sembra di ravvisare una volta di più quella sorta di doppiezza con cui la nuova destra vive il passato alla vecchia maniera. Pagando l’obolo di una doverosa presa d’atto. Ma contemporaneamente insinuando che dietro il tripudio per la liberazione del paese al tempo che fu si nasconda qualcosa d’altro. O meglio, qualcosa che appartenga solo agli altri. Come se dalle parti del governo e della maggioranza si restasse sempre in sospeso tra i doveri e i sentimenti. Ora, non c’è dubbio che la sobrietà sia sempre una buona causa. E dunque lì per lì vorrebbe quasi voglia di rendere omaggio all’invito governativo. Tanto più che esso si deve intendere in qualche modo rivolto agli stessi autori, che di quel parlare sottovoce e di quell’indole alle buone maniere non si può certo dire che tendano ad abusare. Fosse così, sarebbe giusto appunto dar ragione all’autore di quel richiamo alle regole del lutto nazionale. Ma il timore in questo caso è che il galateo sia più una scusa che un progetto, più una circostanza che un’intenzione. Il che ci riporta dentro l’arena -sia pure per affrontarsi anche solo a colpi di accenti e di sfumature. Il fatto è che, a dispetto di alcune delle sue buone intenzioni, questa destra sembra sempre aver bisogno di ravvivare il sentimento polemico e di trovare avversari verso cui puntare il dito. E quegli avversari il più delle volte sembra andarseli a cercare proprio nel passato. Poiché essa immagina di essere padrona del presente e di aver quasi -quasi- ipotecato il futuro. Ma può confidare in questo suo primato solo a patto che sul passato cali una fitta coltre di opacità. E non si rende conto invece che in politica è proprio il passato che contiene la maggior quota del nostro destino. Capirlo troppo tardi non salverà né le coscienze, né il potere. E forse neppure le buone maniere. Sono molto preoccupata per i giovani e la loro salute mentale di Marta Businaro Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2025 Non tutti questi ragazzi hanno genitori assenti o insegnanti incompetenti, dobbiamo smetterla di nasconderci dietro alle dita puntate ora verso questo ora verso quello. Siamo colpevoli tutti. Sono una psicologa psicoterapeuta e criminologa e, come i miei colleghi, sono molto preoccupata. Preoccupata per quello che l’umanità sta diventando e per la totale indifferenza che ruota attorno ai giovani e alla loro salute mentale. I ventenni che “vogliono spaccare il mondo” non esistono quasi più. La grinta, la vitalità, i tormenti, le passioni degli adolescenti sono appiattiti e impalliditi, così come la loro capacità di provare autentiche emozioni. Molti dei nostri giovani sono divenuti “morti viventi”, senza passioni, prospettive, valori, smarriti in un qui e ora dove tutto è apparenza e niente ha più senso. Mel mio studio sento, dai giovani, storie di morte: ricerca spasmodica di esperienze sessuali a partire dai 12-13 anni, esperienze completamente prive dei correlati affettivi e amorosi ma ridotte a prestazioni pornografiche da condividere con i coetanei in una sorte di gara a chi lo fa di più; utilizzo di sostanze e alcool già dalle scuole medie per “disinibirsi abbastanza per fare sesso” o per “sballarsi perché tutto è piatto e noioso”; biasimo della povertà e del diverso; ricerca ossessiva del denaro e della ricchezza attraverso furti o prostituzione; ricerca spasmodica della perfezione fisica con ricorso a chirurgia estetica invasiva anche nella minore età; totale perdita dei valori di lealtà, amicizia, fratellanza, solidarietà; caratteri sempre più tendenti al narcisismo (otterrò ciò che voglio ad ogni costo, anche calpestando gli altri), godimento nella sofferenza dell’altro e livelli bassissimi di empatia e di intelligenza emotiva; autostime fragilissime fondante sul consenso ricevuto attraverso i like e il numero di follower. Spaventa, inoltre, la riduzione drastica del livello cognitivo e della capacità espressiva, riduzione del vocabolario e delle capacità linguistiche, dove tutto quello che non trova più modo di essere comunicato viene agito: se mi lasci ti uccido; se mi fai un torto ti ammazzo; se sono in disaccordo ti picchio. Non tutti questi ragazzi hanno genitori assenti o insegnanti incompetenti, dobbiamo smetterla di nasconderci dietro alle dita puntate ora verso questo ora verso quello. Siamo colpevoli tutti. La società è volgare, violenta, incolta, gretta, narcisistica. Il messaggio menzognero che rimbomba in ogni dove è “puoi essere tutto quello che vuoi, ottenere tutto quello che vuoi”, e in questa corsa inarrestabile all’impossibile, non importa quanti restano indietro, quanti periscono. Nemmeno le più alte cariche istituzionali si salvano più dal degrado dell’offesa e della menzogna: si può dire qualsiasi cosa, anche la più bassa e volgare, senza più vergogna. La politica fa la guerra all’istruzione quando non la usa per la propria propaganda; si oppone all’educazione affettiva e sessuale da parte degli esperti nelle sedi educative ma non fa nulla per limitare l’accesso, da parte dei minori, alla pornografia, dove regnano violenze e soprusi e dove i giovani ormai imparano a relazionarsi tra loro. Se il cambio di direzione non sarà corale, se non saremo in grado, come adulti di assumerci la responsabilità dello sterminio di giovani menti in atto, saremo destinati ad assistere all’autodistruzione delle nuove generazioni.