“Perché loro in carcere e non io?”. Francesco mancherà ai detenuti di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 23 aprile 2025 L’ultima uscita pubblica del Pontefice è stata a Regina Coeli. Non a caso: fu sempre presente tra i più dimenticati degli invisibili. Morto lui, non muore la speranza. Papa Francesco non c’è più. Ci mancherà: lo piangono nelle carceri. Mancherà a quella popolazione ristretta negli istituti di pena a cui Bergoglio era legato da una costante, ininterrotta attenzione. Non a caso l’ultima uscita pubblica di un Pontefice già fiaccato dalla malattia era stata tra i “suoi fratelli detenuti”, a Regina Coeli. Ultimo atto di un Pontificato dedicato agli ultimi tra gli ultimi: a quei detenuti che la politica, le istituzioni, ma anche il mondo della cultura relegano nel dimenticatoio della coscienza. In un anno così significativo per la Chiesa e per il mondo intero, il Papa aveva già scelto di celebrare il giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre, con un gesto andato ben oltre la semplice commemorazione liturgica. Aveva deciso di aprire in quell’occasione la seconda porta del Giubileo nel carcere di Rebibbia, un atto che ha un valore simbolico profondo e una portata che va oltre la sfera religiosa, toccando aspetti sociali, politici ed etici cruciali. Per tutta la durata del suo mandato pontificale Papa Francesco ha affrontato a viso aperto il tema del carcere e dei carcerati. Da sempre, questo Papa aveva mostrato una particolare sensibilità nei confronti dei più vulnerabili e marginalizzati della società. Fin dai suoi primi anni di pontificato, ha spesso parlato della necessità di riformare il sistema penale, mettendo in luce l’aspetto umano della detenzione, spesso dimenticato. Nel 2016, per esempio, aveva già visitato il carcere romano di “Castelnuovo”, offrendo un messaggio di speranza e misericordia. Ma l’apertura della porta del Giubileo a Rebibbia rappresenta un momento particolarmente significativo. Il Giubileo, un anno speciale di grazia e perdono, rappresenta per la Chiesa un’occasione per riflettere sul concetto di misericordia divina e sulla possibilità di redenzione per ogni individuo, indipendentemente dalle sue colpe. La scelta di Papa Francesco di aprire una delle porte giubilari in un carcere, un luogo spesso associato alla punizione e all’emarginazione, risuona come un messaggio forte e provocatorio. Essa non riguarda solo la dimensione spirituale, ma anche quella sociale e politica. Il Papa non si limita a compiere un gesto di pietà, ma ci invita a riflettere sul significato profondo di giustizia, libertà e dignità umana. “Perché sono loro dietro le sbarre, in queste celle, e non io?”, ripeteva. Aprire una porta in un carcere vuol dire simbolicamente aprire una via di accesso alla misericordia, alla possibilità di un nuovo inizio. Nel contesto del Giubileo, un anno che celebra la misericordia di Dio, l’apertura della porta nel carcere di Rebibbia è una chiara affermazione che la misericordia non ha limiti, non esclude nessuno, nemmeno chi ha commesso crimini. Papa Francesco, con il suo gesto, rifiuta l’idea di una giustizia esclusivamente punitiva, che vede nel detenuto una persona irrecuperabile, e propone invece una visione più inclusiva e umanizzante della giustizia. Papa Francesco si è voluto - e saputo - mettere tra i più poveri dei poveri, e tra questi ci sono i carcerati. Quindi, “il carcere è un luogo politico, non è semplicemente un luogo di pietà”. La visita in carcere il giorno dopo Natale è un atto politico, economico, sociale, etico e quindi religioso. La seconda parola, fondamentale, è speranza. Alla speranza è dedicato il Giubileo 2025. Dentro la casa circondariale di Rebibbia, Papa Francesco ne ha restituito un’immagine concreta e a tratti dolorosa: “A me piace pensare alla speranza come all’àncora che è sulla riva e noi con la corda stiamo lì, sicuri […]. Delle volte la corda è dura e ci fa male alle mani… ma con la corda, sempre con la corda in mano, guardando la riva, l’àncora ci porta avanti. Sempre c’è qualcosa di buono, sempre c’è qualcosa che ci fa andare avanti”. Speriamo che, scomparso Papa Francesco, non tornino a scomparire davanti agli occhi, nelle menti e nei cuori delle persone quell’umanità profonda e disperata che affolla le celle delle nostre prigioni. *Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania Noi detenuti meno soli e disperati durante la pandemia grazie a Francesco di Domenico Forgione Il Dubbio, 23 aprile 2025 Costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole sul Covid pronunciata dal Papa in una piazza San Pietro deserta. Nella sezione c’era un silenzio irreale. L’orologio in mezzo al corridoio segnava le 14:50. Come sempre. Chissà da quanti anni. Il tempo in carcere non esiste, che le lancette stiano ferme o si spostino sul quadrante non fa differenza. È un tempo sospeso tra una battitura e l’altra. Dai camerotti e dai cubicoli arrivava in stereofonia la telecronaca di ciò che stava succedendo in piazza San Pietro. I nostri occhi erano tutti incollati in alto, sopra il cancello serrato, fissi sul teleschermo. Un uomo vestito di bianco attraversava la piazza deserta, sotto la pioggia, prima di fermarsi sotto un crocifisso: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda”. Parlava del Covid, ma costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole. Dalla rete a maglia fittissima delle finestre, nelle ore diurne, anche la luce faticava ad entrare. Ci sentivamo soli, maledettamente soli. Dal mondo di fuori arrivavano notizie frammentarie, che stentavamo a comprendere. I camion militari con le bare, l’aggiornamento quotidiano delle vittime della pandemia dai telegiornali che divoravamo. Non ci fidavamo di ciò che ci dicevano da casa. I colloqui erano stati sospesi: restavano le lettere, le telefonate e poi, finalmente, l’introduzione delle videochiamate. L’unico lascito positivo di quella terribile catastrofe sanitaria. Giungevano notizie sui distanziamenti, sulle autorizzazioni per uscire di casa per la spesa, sul controllo poliziesco fino a davanti l’uscio delle porte, sugli inseguimenti, le multe, le denunce. Non capivamo. Paradossalmente, tutte queste precauzioni ci erano state risparmiate. Carcere e distanziamento sono due sostantivi che non possono stare nella stessa frase. Nelle celle, nel cortile: impossibile. Mascherine, neanche a parlarne. Almeno all’inizio. Ma neanche dopo, tranne quando si doveva accedere all’infermeria o alla matricola. Gli ultimi possono anche morire, non fanno rumore. Se così non fosse, i nostri governanti dovrebbero impazzire per i suicidi che si registrano dietro le sbarre. E agli ultimi pensava Papa Francesco. Nel disorientamento generale, lo sentivamo vicino. Avvertivamo la potenza della preghiera, che non chiede il miracolo, bensì la concessione della forza necessaria per affrontare la burrasca. Ognuno la propria. Ci nutrivamo delle sue parole di speranza e della sua compagnia ogni mattina alle sette, quando appariva sui teleschermi dalla cappella di Santa Marta. Molti di noi appresero allora che visitare i carcerati era una delle sette opere di misericordia corporale. Papa Francesco veniva a farci visita tutti i giorni. Nel carcere di Palmi suppliva l’assenza forzata di don Silvio, che fino ad allora era stata la nostra ancora di salvezza. Con le sue parole di conforto, lo sguardo di comprensione, l’indignazione per le troppe ingiustizie che da cappellano avvertiva come conficcate nelle sue carni. In uno degli ultimi incontri prima della cancellazione definitiva di ogni visita, gli avevo proposto di organizzare una via crucis nel cortile. In carcere non mancano i poveri cristi e, fortunatamente, neanche i cirenei compassionevoli, compagni che aiutano l’altro a sorreggere la croce con un gesto di umanità o con una parola di incoraggiamento. Ovviamente, non se ne fece niente. Riuscì però a fare una sortita il giorno di Pasqua, ad affacciarsi dalla porta sul cortile per un saluto, a fare avere a ciascun detenuto un bocconcino con la crema. Ci restava però Papa Francesco. Il rappresentante di una Chiesa che ciclicamente e inutilmente chiede un gesto di clemenza, denuncia la barbarie del carcere, invita alla compassione e alla carità. La mia, la nostra, tutte le solitudini del mondo si condensavano in una macchia bianca raccolta in preghiera sotto la croce. Ci sentivamo un po’ meno soli. “Prima di morire Papa Francesco ha donato 200mila euro ai detenuti dal suo conto” di Andrea Ossino La Repubblica, 23 aprile 2025 Intervista con il delegato del Vaticano alle carceri. Aneddoti, incontri, vittorie e sconfitte. E un fiore accompagnato da una lettera che i detenuti gli hanno affidato per posarlo sulla tomba di Papa Francesco. Monsignor Benoni Ambarus ricorda tutto del rapporto tra il Papa e la popolazione carceraria. È consapevole dell’impegno profuso dal pontefice: “Fino a pochi giorni fa il Santo Padre trascinava il suo corpo a Regina Coeli, per urlare al mondo, con tutta la sua forza, la necessità di prestare attenzione ai detenuti. Gli ultimi suoi averi li ha donati a loro, 200mila euro dal suo conto personale”, dice il Vescovo delegato alla carità e alle carceri. Che non dimentica neanche il risultato. Amaro. “Nonostante il suo enorme impegno, le istituzioni non hanno fatto nulla per dare anche solo un piccolo segnale. Il mio bilancio non è positivo”. Monsignore, iniziamo dalla fine, l’ultima visita in carcere del Papa... “È l’immagine che riassume il rapporto tra il Papa e il mondo penitenziario. Pochi giorni fa era a Regina Coeli. Ricordo un uomo stanco, che si trascinava, ma urlava con la sua presenza il bisogno di attenzione ai detenuti. Si è trascinato per loro, fino all’ultimo respiro. Per questo i carcerati in lui vedevano la speranza. Per loro è morto un padre, è il senso della lettera che mi hanno affidato”. Il rapporto tra il pontefice e i detenuti è stato speciale… “Sia per loro, che in lui ritrovavano la speranza. Sia per lui. Quando ne parlavamo lo vedevo affranto, soffriva pensando alle condizioni delle carceri. Ha mostrato sempre una grande attenzione, ma i suoi appelli sono finiti nel vuoto”. Il Papa non è stato ascoltato? “Le parole, i gesti enormi che ha fatto, le lavande dei piedi, il Giovedì Santo, gli appelli sono stati raccolti poco e tradotti ancor meno in azioni pratiche. Chiedeva di fare di più per ridare dignità alle persone. In occasione di questo Giubileo aveva chiesto uno sforzo. Ma non c’è stata una traduzione completa dei suoi appelli. Come sullo sconto della pena. Una grande tristezza ha avvolto i detenuti quando si sono resi conto che le istituzioni non hanno fatto nulla, neanche un piccolo segnale: un mese, due mesi, magari non per tutti i reati. Come dire: “Te li abboniamo perché crediamo nella tua capacità di rimetterti in piedi”. Pochi giorni di pena in meno? “Per la speranza. Lo ha insegnato il Santo Padre. Piccoli gesti che riaccendono le persone. Per dire che non ci siamo dimenticati di loro”. In questo senso l’apertura della Porta Santa a Rebibbia, la seconda dopo quella di San Pietro, che significato ha? “È la cifra del pontificato. Quando su loro richiesta mi sono fatto portavoce con il Papa per aprire una Porta Santa, lui è stato entusiasta. Era un modo per riaccendere la luce sul mondo dei detenuti. Per loro significa speranza, presenza, rispetto. Di questo sono grato anche al dottor Giovanni Russo (ex presidente del Dap, ndr). Senza di lui non ci saremmo riusciti”. Come avete continuato il cammino del Santo Padre? “Abbiamo trasformato la Porta Santa di Rebibbia in un lievito di animazione pastorale. Due volte al mese circa cinquanta persone entrano in carcere per celebrare insieme ai detenuti. Ma un penitenziario non è uno zoo. Occorre prima capire la forza di questo gesto. Quindi c’è una preparazione sulla realtà del carcere, a cura dei sacerdoti, delle suore, dei volontari, degli stessi detenuti. Subito dopo la celebrazione c’è un altro incontro sul senso dell’evento vissuto, ma anche sul come rimboccarsi le maniche. La Porta Santa sta accendendo la luce”. Ecco, come rimboccarsi le maniche? “Ci sono molte cose che si possono fare, anche semplici. La prima: l’esserci sia durante la detenzione che dopo. Un carcerato recentemente mi ha detto che nessuno è mai andato a trovarlo. Mi ha fatto male e mi ha fatto riflettere. Basta esserci. C’è il bisogno di prendere per mano le persone quando escono. La seconda: provvedere alle necessità dei detenuti. Molti dipendono solo dalla carità. Lo Stato contempla solo il vitto, neanche le scarpe. O hai qualcuno o cammini scalzo. Sono fratelli e sorelle, non persone da dimenticare dietro una porta chiusa a chiave”. Cosa si impara dai detenuti? “La resilienza. Io non so cosa avrei fatto al posto loro. Se non avessi avuto le possibilità che ho avuto, chissà cosa avrei combinato nella vita. Mi hanno insegnato la giusta gerarchia delle cose della vita, come gioire delle cose piccole. È edificante”. Un gesto lontano dai riflettori che il Papa ha fatto per i detenuti? “Quando ho chiesto un contributo, mi ha detto che le finanze erano terminate. Poi ha aggiunto: “Non preoccuparti, ho qualcosa nel mio conto”. Ha inviato 200 mila euro di tasca sua. Ora, con il testamento, vengo a sapere che verrà seppellito grazie a un benefattore. Perché lui ha donato tutto se stesso agli ultimi” Io, il carcere, la censura di Adriano Todaro girodivite.it, 23 aprile 2025 Gli episodi avvenuti in alcune carceri italiane e la mia personale esperienza. Questa settimana non vi farò un elenco delle cose avvenute in campo editoriale. Tratterò un solo argomento, quello relativo a carcere e informazione con una esperienza personale. Leggo, infatti, mentre cerco le notizie in internet, che ai detenuti viene vietato di firmare gli articoli che pubblicano nei giornali realizzati all’interno degli istituti carcerari. Lo denuncia una delle testate più importanti esistente nelle carceri italiane, Ristretti orizzonti che riporta uno scritto di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, già Ministro della Giustizia. Flick scrive che “Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi e iniziative a livello locale e di interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi”. Quindi, si tratta di censura, di una violazione del diritto delle persone. Episodi avvenuti nel carcere di Rebibbia, in quello di Lodi, in quelli di Ivrea e Trento. Nel leggere questi episodi, la mia mente è tornata indietro nel tempo, quando facevo volontariato in carcere e, specificatamente, quando ero direttore responsabile di CarteBollate, periodico esistente ancora oggi nel secondo carcere di Milano, quello definito di Bollate proprio perché costruito a ridosso del comune di Bollate, pochi chilometri da Milano. A Bollate ci sono entrato nel 2003 per conto della Lila (Lega italiana lotta all’ Aids) con lo scopo e l’obiettivo di tenere un corso di giornalismo a un gruppo di detenuti che si erano messi in testa di creare un giornale, una pubblicazione per parlare dei loro problemi, così da creare un “ponte” con il mondo esterno. Ci dovevo restare qualche mese e, invece, ci sono restato per cinque anni. Una esperienza, quella del carcere, esaltante e proficua che mi ha dato la possibilità di crescere, di capire le dinamiche del carcere, appunto, di conoscere un mondo che sino a quando non lo tocchi con mano non lo conosci e non lo puoi capire. Una realtà, quella dei giornali delle carceri, molto interessante. Negli anni in cui ero volontario in carcere, nei 206 istituti di pena italiani erano presenti più di 50 giornali pensati e scritti dai detenuti. Il giornale - a Bollate - era stato così creato. Si era formata una redazione tutta composta da detenuti e da qualche volontario esterno, un periodico che, numero dopo numero, diventava “grande”, dove si facevano inchieste, dove i detenuti-redattori non si piangevano addosso ma scrivevano di quello che avveniva anche all’esterno del carcere. Ricordo bene un’inchiesta sulla recidiva dove i detenuti-redattori si erano messi a spulciare i dati nazionali e veniva fuori che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva, corrispondeva a un risparmio per la collettività di circa 51 milioni di euro l’anno. E poi l’inchiesta sul costo dei detenuti, con tabelle risultanti che in quegli anni ogni detenuto costava alla collettività 138 euro giornaliere. E poi tanto altro: dall’inchiesta sul cibo alle poesie perché la poesia dà la possibilità di “evadere”. E poi l’autofinanziamento per le spese del giornale (toner ecc.). E così un detenuto s’inventa le fotografie da inviare alle famiglie. La direzione acconsente e così quel detenuto con una macchinetta fotografica fotografa, a pagamento, quei detenuti che vogliono inviare alle famiglie lontane il loro ritratto, la prova che stanno bene. Importanti anche gli incontri che, come redazione, abbiamo organizzato con personaggi esterni al carcere. Personalmente sono molto fiero di essere riuscito a portare in carcere, a parlare con i detenuti, un sopravvissuto di Mauthausen così da raccontare loro la sua tragica esperienza. Il carcere era diretto, in quegli anni, da una donna molto aperta e intelligente ma anche dura quando era necessario esserlo. Doveroso è però ricordare che il carcere di Bollate è uno delle carceri “modello”. In quel carcere, il detenuto ci arriva dopo un percorso dove ha dimostrato di potersi “redimere”. Se sgarri, la custodia attenuata nelle altre carceri non la trovi di certo. A Bollate, ad esempio, le celle rimanevano aperte a esclusione del momento della “conta”. A Bollate si studiava e si studia (diversi i laureati), si lavora e, incredibilmente, si fa volontariato nei vari settori esistenti all’interno di Bollate, ad esempio allo sportello giuridico o in biblioteca. Tutto bene, dunque? Bollate resta, comunque, un carcere con le dinamiche dei luoghi di detenzione, con le contraddizioni esistenti in qualsiasi società. In questa piccola città-comunità abbiamo, dunque, iniziato a fare, con molta fatica, il periodico CarteBollate. I giornali delle carceri dipendevano quasi tutti dai direttori degli istituti di pena (a esclusione, in quel momento da Ristretti Orizzonti del carcere di Padova). Fin da subito noi abbiamo invece deciso di essere autonomi dalla direzione. CarteBollate è stato uno dei primi periodici registrato in Tribunale, con un giornalista come direttore iscritto all’Ordine. E io, oltre a essere il direttore ero anche il proprietario della testata. Come dicevo, in carcere si riflettono le stesse dinamiche dell’esterno e pur avendo la fortuna di avere una direttrice aperta e intelligente, dopo un po’ di anni, nel 2007, c’è uno scontro fra la redazione e la direzione del carcere. Il tutto avviene per una poesia. C’è un detenuto a cui muore la madre. Il detenuto chiede al giudice di sorveglianza (nello specifico, una donna), di poter partecipare al funerale. Il permesso viene negato e un detenuto-redattore commenta con una poesia il diniego della magistrata. In redazione valutiamo che la poesia è ben scritta e non è offensiva e, quindi, per noi è da pubblicare. Non la pensa così la direttrice di Bollate che blocca la stampa del giornale. Quindi riunioni su riunioni, scazzi con la direzione. Insomma, tutto come fuori dal carcere quando un editore non vuole un giornale fatto in un certo modo. Come direttore-proprietario, non ho molto spazio di manovra. E così decido di dare le dimissioni. Collaboro ancora per qualche tempo poi, terminati gli impegni che avevo assunto precedentemente, vado via. Questo perché sono convinto che il giornalismo non deve avere mai una funzione notarile. Succede un fatto e il giornale lo riporta. No! Il giornale deve stimolare la ricerca, portare quelle notizie che gli altri non portano per pavidità o per convenienza. I giornali tutti, dalla grande testata, ai piccoli debbono essere critici, pungolo nei confronti del potere costituito, qualunque esso sia. A me non interessava fare il bollettino interno del ghetto. E non mi piaceva che i detenuti venissero considerati - da molti volontari - come “poverini” che avevano sbagliato, che bisognava scusarli, a prescindere. No. Se non si comportavano bene nel lavoro redazionale io dovevo “sgridarli”, come avviene in qualsiasi redazione. E non è un caso che per due anni di seguito, nel 2005 e nel 2006, il “Gruppo Cronisti Lombardi Guido Vergani” ha premiato con il primo premio CarteBollate. Una esperienza, quella del giornale del carcere, molta proficua che ricordo con nostalgia perché in quegli anni ho conosciuto persone disponibili, intelligenti, affabili. Con loro sono maturato, ho avuto la possibilità di conoscere un mondo che non conoscevo e che non avrei mai potuto conoscere se non entrando in carcere. La contraerea dal carcere e altre storie di Alessandro Gilioli Internazionale, 23 aprile 2025 Nel carcere di Foggia, per la prima volta in Italia, gli agenti sono stati muniti di fucili con telerilevamento e puntatori laser per sparare ai droni con cui vengono introdotti dall’esterno cellulari e droga. L’iniziativa è stata definita “operazione contraerea”. A Lecce un detenuto ha ottenuto un risarcimento di 24 euro per essere stato costretto per quasi due anni a vivere in una cella in condizioni inumane. Nel carcere di Cassino (Frosinone) c’è stata una rivolta dei detenuti per la mancanza di acqua calda e di cure mediche. Nel carcere di Piacenza c’è stata una rivolta per via del sovraffollamento. Nelle carceri della regione Emilia-Romagna c’è un tentativo di suicidio ogni 33 ore. Nel carcere di Torino è detenuta da quattro mesi una donna affetta da schizofrenia paranoide e dichiarata invalida al 100 per cento. Nel carcere di Opera (Milano) c’è un detenuto in regime di 41bis, affetto dal morbo di Alzheimer, che non sa più nemmeno dove si trova e perché. Nel carcere di Terni c’è stato il primo incontro affettivo e sessuale di un detenuto con la moglie, così come stabilito dalla corte costituzionale. L’85 per cento delle strutture penitenziarie italiane, però, non ha gli spazi adatti (le cosiddette “stanze dell’amore”). Il diritto all’affettività rischia quindi di rimanere a lungo lettera morta per la maggior parte dei detenuti, nonostante la decisione della consulta sia di oltre un anno fa. Tre giovani detenuti del carcere minorile di Palermo sono evasi segando le sbarre e calandosi con le lenzuola annodate, ma sono stati tutti arrestati nel giro di poche ore. Nelle montagne di Foresto Sparso (Bergamo) è stato arrestato un latitante di sessantuno anni che da diversi mesi viveva nascosto nel bosco. A Bologna i carabinieri hanno arrestato un latitante afrodiscendente e nel loro comunicato stampa hanno spiegato di averlo controllato perché “indossava un paio di occhiali da sole vintage molto appariscenti”, e sono stati richiamati “dal look del soggetto che non poteva passare inosservato”. “Né necessario, né urgente: solo dannoso” avvocati e pm bocciano il dl sicurezza di Angela Stella L’Unità, 23 aprile 2025 Dl sicurezza al vaglio degli esperti: sono iniziate, infatti, ieri le audizioni nelle commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia della Camera. Anm e Ucpi si sono trovate d’accordo nello stigmatizzare la scelta di un decreto legge e la spinta panpenalistica. Il primo a prendere la parola è stato proprio Cesare Parodi, vertice dell’Anm: “Seguivamo con interesse da più di diciotto mesi i lavori parlamentari, abbiamo poi appreso della scelta di optare per la decretazione di urgenza. Non voglio fare valutazioni di costituzionalità - ha spiegato Parodi - Evidentemente il Governo ha ritenuto, così, all’improvviso, la sussistenza di un’urgenza che per l’anno precedente non era stata riscontrata”. Quindi ha aggiunto: “A molti di noi non era parsa così grave la situazione, così esasperata da giustificare un intervento di questo genere. Ci potranno essere colleghi, avvocati, che presenteranno domande di costituzionalità e valuteremo le risposte della Corte costituzionale se ci saranno domande di questa natura”. Sul merito ha proseguito: “Un aspetto che ci ha colpiti riguarda il contenuto numerico del provvedimento: sono previsti quattordici nuovi fattispecie di reati e nove nuove aggravanti che hanno provocato un oggettivo inasprimento del sistema sanzionatorio. Dobbiamo tenere presente il sovraffollamento carcerario: abbiamo 62 mila detenuti per 50 mila posti. Tale situazione si riverbera in fatti drammatici come i suicidi. Allora mi chiedo: considerato che un aumento delle fattispecie non è in sintonia con la situazione carceraria, perché farlo? E se invece il provvedimento non è destinato ad aumentare la popolazione carceraria, allora perché farlo? Nella mia personale esperienza la realtà piemontese conosce forme di antagonismo - ho appurato che i cittadini difficilmente vengono dissuasi dalle sanzioni, ho quindi dubbi sulla efficacia preventiva della norma. Anzi forme di contrasto che vengono penalizzate potrebbero portare a risposte più forti, non dico sfidare il sistema ma assumere uno spirito ancora più combattivo”. “Le scelte che sono state fatte sono scelte politiche - ha detto ancora Parodi - Ciò mi porta a pensare che ci viene chiesto un giudizio politico, che in molti altri casi non è gradito quando l’Anm manifesta la sua opinione su questi temi. Di tecnico c’è poco, c’è molto di natura politica”. Allora cosa fare gli hanno chiesto alcuni commissari: “riportare le pene ad un maggiore criterio di ragionevolezza e proporzionalità per far vedere ai cittadini che non c’è una volontà di totale oppressione”. Dopo di lui, è intervenuto il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli che ha ricordato innanzitutto l’astensione del 5, 6 e 7 maggio contro il dl sicurezza. Poi ha spiegato: “si tratta di un articolato normativo che rivela una matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli. Tale approccio autoritario appare ora aggravato dalla scelta dello strumento del decreto legge in palese assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che ha interrotto l’iter del DDL AC 1660-A, incidendo così sulle prerogative del Parlamento, in una materia, qual è quella penale, che richiederebbe, al contrario, la massima espansione del dibattito parlamentare”. Ucpi dunque “auspica che il Parlamento voglia riappropriarsi a pieno della propria centrale funzione democratica, intervenendo sul testo del Decreto Legge e recependo così le forti critiche che allo stesso sono state da più parti mosse con forza”. Infine per l’avvocato Michele Passione: “con l’art. 15 la modifica proposta prevede che anche le donne incinte, o madri di infante inferiore ad un anno, possano essere oggetto di incarcerazione, sebbene presso un istituto a custodia attenuata. Si tratta, all’evidenza, di una norma manifesto, dimentica del superiore interesse del bambino, di cui alle regole di Bangkok, che tra l’altro non si misura con il dato obiettivo della scarsissima presenza degli Icam (che restano comunque strutture inadeguate al sostegno di madri e bambini) sul nostro territorio, e provocherebbe una ulteriore lesione del principio di territorialità della pena”. Infine tra le disposizioni maggiormente censurabili per l’esperto c’è “la criminalizzazione del dissenso all’interno delle carceri anche a fronte di condotte criticabili (e persino illecite) tenute intra moenia dal personale di polizia o da altri operatori penitenziari. Negato l’ascolto, punito il dissenso si propone il ritorno ad un modello detentivo fondato sull’obbedienza acritica”. Ucpi e Anm contro il dl sicurezza: critiche sulla costituzionalità di Valentina Stella Il Dubbio, 23 aprile 2025 Denunciato l’approccio “populista e autoritario” della norma, con gravi ripercussioni sui diritti umani. Ucpi e Anm compatte nel criticare metodo e merito del dl sicurezza. La sede sono state le commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera che ieri hanno iniziato il giro di audizioni. Il primo a prendere la parola è stato proprio Cesare Parodi, presidente del “sindacato” delle toghe: “Seguivamo con interesse da più di diciotto mesi i lavori parlamentari, abbiamo poi appreso della scelta di optare per la decretazione di urgenza. Non voglio fare valutazioni di costituzionalità - ha spiegato Parodi - Evidentemente il governo ha ritenuto, così, all’improvviso, la sussistenza di un’urgenza che per l’anno precedente non era stata riscontrata”. Quindi ha aggiunto: “A molti di noi non era parsa così grave la situazione, così esasperata da giustificare un intervento di questo genere. Ci potranno essere colleghi, avvocati, che presenteranno domande di costituzionalità e valuteremo le risposte della Corte costituzionale se ci saranno domande di questa natura”. Sul merito ha proseguito: “Un aspetto che ci ha colpiti riguarda il contenuto numerico del provvedimento: sono previsti quattordici nuovi fattispecie di reati, nove nuove aggravanti che hanno provocato un oggettivo inasprimento del sistema sanzionatorio. Dobbiamo tenere presente il sovraffollamento carcerario: abbiamo 62mila detenuti per 50mila posti. Tale situazione si riverbera in fatti drammatici come i suicidi. Allora mi chiedo: considerato che un aumento delle fattispecie non è in sintonia con la situazione carceraria, perché farlo? E se invece il provvedimento non è destinato ad aumentare la popolazione carceraria, allora perché farlo? Nella mia personale esperienza - la realtà piemontese conosce forme di antagonismo - ho appurato che i cittadini difficilmente vengono dissuasi dalle sanzioni, ho quindi dubbi sulla efficacia preventiva della norma. Anzi forme di contrasto che vengono penalizzate potrebbero portare a risposte più forti, non dico sfidare il sistema ma assumere uno spirito ancora più combattivo”. “Le scelte che sono state fatte sono scelte politiche - ha detto ancora Parodi -. Ciò mi porta a pensare che ci viene chiesto un giudizio politico, che in molti altri casi non è gradito quando l’Anm manifesta la sua opinione su questi temi. Di tecnico c’è poco, c’è molto di natura politica”. Allora cosa fare?, gli hanno chiesto alcuni commissari: “Riportare le pene ad un maggiore criterio di ragionevolezza e proporzionalità per far vedere ai cittadini che non c’è una volontà di totale oppressione”. Dopo di lui, è intervenuto il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli che ha ricordato innanzitutto l’astensione del 5, 6 e 7 maggio contro il dl sicurezza. Poi ha spiegato: “Si tratta di un articolato normativo che rivela una matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli. Tale approccio autoritario appare ora aggravato dalla scelta dello strumento del decreto legge in palese assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che ha interrotto l’iter” del ddl omonimo, “incidendo così sulle prerogative del Parlamento, in una materia, qual è quella penale, che richiederebbe, al contrario, la massima espansione del dibattito parlamentare”. L’Ucpi, dunque, “auspica che il Parlamento voglia riappropriarsi a pieno della propria centrale funzione democratica, intervenendo sul testo del decreto legge e recependo così le forti critiche che allo stesso sono state da più parti mosse con forza”. Infine per l’avvocato Michele Passione “con l’articolo 15 la modifica proposta prevede che anche le donne incinte, o madri di infante inferiore ad un anno, possano essere oggetto di incarcerazione, sebbene presso un istituto a custodia attenuata. Si tratta, all’evidenza, di una norma manifesto, dimentica del superiore interesse del bambino, di cui alle regole di Bangkok, che tra l’altro non si misura con il dato obiettivo della scarsissima presenza degli Icam (che restano comunque strutture inadeguate al sostegno di madri e bambini) sul nostro territorio, e provocherebbe una ulteriore lesione del principio di territorialità della pena”. Infine tra le disposizioni maggiormente censurabili per l’esperto c’è “la criminalizzazione del dissenso all’interno delle carceri anche a fronte di condotte criticabili (e persino illecite) tenute intra moenia dal personale di polizia o da altri operatori penitenziari. Negato l’ascolto, punito il dissenso si propone il ritorno ad un modello detentivo fondato sull’obbedienza acritica”. Audito anche l’Ocf con Mario Scialla e Carlo Morace. Il caso Almasri torna ad agitare il Governo, tra Cpi e Tribunale dei ministri di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 aprile 2025 Il Governo ha chiesto e ottenuto una nuova proroga, al 6 maggio, per l’invio alla Corte penale internazionale della sua memoria difensiva sul caso del generale libico arrestato a gennaio e poi scarcerato e rimpatriato in Libia. Attesa nei prossimi giorni la decisione sull’indagine che vede coinvolti Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano. Il governo italiano ha chiesto e ottenuto una nuova proroga, al 6 maggio, per l’invio alla Corte penale internazionale (Cpi) della sua memoria difensiva sul caso di Osama Njeem Almasri, il capo della polizia penitenziaria libica arrestato in Italia lo scorso 19 gennaio su mandato di arresto internazionale della Corte dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità, poi scarcerato e rimpatriato in Libia due giorni dopo con tanto di volo di stato. Si tratta della seconda proroga chiesta e ottenuta dal governo Meloni: la scadenza iniziale per l’invio della documentazione era stata fissata dalla Corte al 17 marzo; il governo aveva poi chiesto di avere più tempo ed era stato soddisfatto, con una nuova deadline fissata al pomeriggio di ieri. E’ attesa invece nei prossimi giorni, entro martedì 29 aprile, la decisione del Tribunale dei ministri nei confronti della premier Giorgia Meloni, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, per i quali la procura di Roma ha ipotizzato i reati di favoreggiamento e peculato (e nei confronti di Nordio anche di omissione di atti d’ufficio) proprio in relazione alla mancata esecuzione del mandato di arresto della Cpi a carico di Almasri. Il generale libico, accusato di crimini gravissimi tra cui tortura, stupro e omicidio, venne fermato il 19 gennaio a Torino dalla Digos, il giorno dopo l’emissione di un mandato di arresto internazionale da parte della Cpi. Prima di procedere all’arresto, la Digos non consultò il ministro Nordio, che per legge ha competenza esclusiva in materia (l’articolo 2 della legge n. 237/2012 stabilisce che “i rapporti con la Cpi sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia, al quale compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte e di darvi seguito”). Di conseguenza, il giorno successivo (il 20 gennaio) la procura generale di Roma avvertì il ministro Nordio dell’arresto irrituale, sollecitandolo a comunicare le proprie “determinazioni” per eventualmente sanare l’errore procedurale. Nelle ore successive, la risposta di Nordio non è mai arrivata. Così la Corte d’appello di Roma non ha potuto fare altro che dichiarare il “non luogo a provvedere” e l’immediata scarcerazione di Almasri, poi rimpatriato in Libia con un volo della Compagnia aeronautica italiana, vettore utilizzato dai nostri servizi segreti. Chiamato a dare spiegazioni in Parlamento, prima con una richiesta di informativa, poi in occasione di una mozione di sfiducia (respinta dalla Camera) nei suoi confronti, Nordio ha criticato la Cpi per le “imprecisioni, omissioni e discrepanze” che a suo parere caratterizzavano il mandato di arresto a carico di Almasri, e che erano talmente gravi da impedire l’immediata esecuzione del provvedimento. Dalla Corte penale internazionale hanno replicato che questi vizi di forma non erano di competenza del Guardasigilli (bensì del difensore di Almasri) e che comunque sono stati corretti con l’emissione di un secondo mandato di arresto il 24 gennaio. In quella data, però, il generale libico era già stato liberato e rimpatriato. Nordio non ha mai chiarito per quale ragione non rispose mai alla richiesta giunta dalla procura generale di Roma volta a sanare l’arresto di Almasri, determinando così la liberazione del ricercato. Appare evidente che la mancata risposta di Nordio non è stata dovuta a un cavillo giudiziario, ma a una chiara volontà politica del governo. Tuttavia, sull’Italia pende l’obbligo di dare seguito ai mandati d’arresto della Cpi ai sensi del trattato istitutivo, e questo complica non poco la faccenda. Il Tribunale dei ministri dovrà decidere se archiviare l’indagine nei confronti dei vertici del governo oppure inviare il fascicolo alla procura di Roma per chiedere al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti degli indagati. Da Palazzo Chigi emerge la volontà del governo di attendere che il tribunale definisca la vicenda giudiziaria prima di inviare la memoria difensiva all’Aja. “Detenzione inumana”, risarcimento per detenuto nella cella con meno di 3 mq per 1.474 giorni di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 23 aprile 2025 Secondo la Corte di Cassazione: non sarebbero state valutate dal magistrato di Sorveglianza prima e dal tribunale poi le condizioni del trattamento degradante. Per “1474 giorni”, un detenuto del carcere Lorusso e Cutugno “non ha fruito dello spazio minimo di tre metri quadrati, come determinato al netto degli arredi fissi e del locale adibito a servizio igienico”: il che equivale - secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu, ndr) e della Cassazione - alla presunzione “della sussistenza di un trattamento degradante o inumano”; a meno che non ci siano, contemporaneamente, breve durata della detenzione, dignitose condizioni carcerarie e una sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella, mediante lo svolgimento di adeguate attività. Tre condizioni che - secondo l’avvocato Nicola Bonino, difensore dell’uomo - non sarebbero state compiutamente valutate dal magistrato di Sorveglianza prima e dal tribunale poi, rigettando l’istanza di risarcimento. Da qui, il ricorso (fondato) in Cassazione e l’annullamento con rinvio dell’ordinanza, per una nuova valutazione. Il ricorso si riferisce a un periodo di detenzione nel penitenziario torinese “protrattosi dal 6 agosto 2018 al 4 ottobre 2023”, oltre cinque anni; durante i quali, anche per lunghi periodi - di 371 e 305 giorni, anche - l’uomo avrebbe patito un trattamento degradante o inumano. In breve - secondo lo stesso ricorso - da parte dei giudici della Sorveglianza ci sarebbe stata “una omessa valutazione delle fonti di prova”, in “relazione alla interpretazione dalla giurisprudenza della Cedu e dalla giurisprudenza di legittimità”. In particolare - sempre secondo la tesi difensiva - il ricorrente ha trascorso in regime chiuso i periodi detentivi dal 19 agosto 2019 al 6 settembre 2019, dal 17 ottobre 2019 al 22 ottobre 2019 e dal 28 ottobre 2019 al 7 novembre 2019. E ancora, il tribunale di Sorveglianza avrebbe negato “la misura compensativa risarcitoria sulla base della ritenuta presenza di fattori compensativi”, tali da ribaltare il pregiudizio di trattamento inumano, e consistiti nell’aver trascorso la maggior parte delle ore diurne in regime di apertura della cella e per aver partecipato all’interno dell’istituto ad attività scolastica e ricreativa. Dando così conto “solo a due dei requisiti idonei a integrare i fattori compensativi (attività ricreative e scolastiche e natura semiaperta della detenzione)”; ma “omettendo di valorizzare la durata dello stato detentivo”. Che, in questo caso, “si è protratto per cinque anni, in uno spazio sotto i tre metri quadrati”. Qui - secondo la Cassazione - il tribunale ha pertanto “pretermesso qualsiasi valutazione della sussistenza dell’ulteriore fattore compensativo, consistente nella durata della detenzione”. Morale, “sotto tale profilo si riscontra la totale mancanza di motivazione”. Questi i rimedi risarcitori previsti per trattamenti inumani: uno sconto di pena di un giorno per ogni dieci di pena già eseguita e - quale rimedio riparatorio - il risarcimento del danno nella misura di otto euro per ciascuna giornata di inumana detenzione. Maltrattamenti in famiglia, la Consulta frena su sospensione responsabilità genitoriale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2025 La Consulta, sentenza numero 55 depositata oggi, boccia l’automatismo affermando che il giudice deve poter valutare la situazione caso per caso nell’interesse del minore. Non è nell’interesse del minore fissare un rigido automatismo tra la condanna per maltrattamenti in famiglia e la sospensione dalla potestà genitoriale, prescindendo dunque da ogni valutazione circa la situazione concreta venutasi a creare dopo il delitto. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 34 depositata oggi, richiamando la “progressiva emersione della centralità dell’interesse del minore nel sistema normativo”. Ed aggiungendo così un’altra pronuncia ad un percorso iniziato nel 2012 con la sentenza n. 31 sulla “alterazione di stato”. È stato così dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 34, secondo comma, del codice penale nella parte in cui non consente al giudice di valutare in concreto se - a seguito della condanna per il delitto di maltrattamenti in famiglia commesso, in presenza o a danno di minori, con abuso della responsabilità genitoriale (articolo 572, secondo comma, del codice penale) - corrisponda all’interesse del minore applicare anche la pena della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale. Nel caso specifico, il Tribunale di Siena riconosciuta la responsabilità dei genitori, ex articoli 81 e 572, secondo comma, cod. pen., “perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ponevano in essere abitualmente, con finalità educative, condotte violente ed aggressive nei confronti dei figli minori conviventi”, non poteva far altro che applicare la sanzione accessoria della sospensione dalla potestà genitoriale. E ciò, nonostante durante il dibattimento, fosse emersa la ricomposizione del quadro familiare. E allora per il rimettente la “automatica applicazione della pena accessoria” “appare suscettibile di produrre effetti nocivi nell’interesse del minore”; ed in particolare “l’interesse del minore, da valutare in concreto, alla preservazione del nucleo familiare”, di qui i dubbi di legittimità costituzionale. L’articolo 34, secondo comma, del codice penale, ricorda la decisione, prevede che, in caso di condanna per delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale, sia automaticamente applicata anche la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta. Per la Consulta “il rigido automatismo che impone al giudice di applicare la pena accessoria in questione non consente una valutazione in concreto dell’interesse del minore a vedere recisa, sia pure temporaneamente, o mantenuta, nonostante l’irrogazione della pena principale, quella relazione tra genitori e figli (nella quale agli obblighi derivanti dalla responsabilità genitoriale corrisponde il diritto del minore ad essere mantenuto e istruito dai genitori) in tutte quelle ipotesi - di cui costituisce esempio il caso all’esame del giudice rimettente - in cui risulti accertata la ricomposizione del quadro familiare e l’interesse del minore possa risultare meglio protetto, quindi, senza che sia sospesa la responsabilità genitoriale, venendone altrimenti paradossalmente leso”. Sul punto la Corte richiama quanto stabilito con la sentenza n. 102 del 2020, quando è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli articoli 2, 3, 30 e 31 Cost., l’articolo 574-bis, terzo comma, cod. pen., “nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale”. Osservando che “tale pena accessoria presenta caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre pene previste dal codice penale, dal momento che, incidendo su una relazione, colpisce direttamente, accanto al condannato, anche il minore, che di tale relazione è il co-protagonista”. “Anche l’odierna norma censurata - prosegue la Consulta - pone l’irragionevole presunzione assoluta che, a fronte di una condanna del genitore per il reato di maltrattamenti in famiglia, l’interesse del minore sia sempre e soltanto tutelato sospendendo il genitore dall’esercizio della responsabilità genitoriale”. “Al contrario, le norme costituzionali evocate a parametro (artt. 2, 3 e 30 Cost.) impongono che sia il giudice penale a valutare se la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale sia, in concreto e alla luce dell’evoluzione, successiva al reato, del rapporto tra figlio e genitore, la soluzione ottimale per il minore, in quanto rispondente alla tutela dei suoi preminenti interessi”. Altro passaggio importante è quello in cui la Corte interpella il Legislatore: “Resta affidata alla prudente considerazione del legislatore - si legge - se il giudice penale sia l’autorità giurisdizionale più idonea a compiere la valutazione di effettiva rispondenza all’interesse del minore di un provvedimento che lo riguarda, o se invece tale valutazione possa essere meglio compiuta dal tribunale dei minorenni…”. Campania. Sovraffollamento, suicidi e sanità negata, uno specchio delle carceri italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2025 Questa mattina, presso il Consiglio Regionale della Campania, sarà presentata la Relazione Annuale 2024 del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello. Un documento di 269 pagine che dipinge un quadro drammatico non solo per la regione, ma emblematico delle criticità del sistema penitenziario italiano nel suo complesso: sovraffollamento cronico, emergenza salute mentale, aumento dei suicidi, carenze nel reinserimento lavorativo e un approccio securitario che aggrava l’emergenza. In Campania sono rinchiusi 7.509 detenuti, ma i posti disponibili sono appena 5.584: un tasso di sovraffollamento del 134,5%. A Poggioreale viaggia al 155,45%, a Benevento al 154,55% e a Salerno al 154,18%. Celle pensate per accogliere uno, spesso ospitano due o tre persone, con il risultato di tensioni continue e violazioni degli standard minimali di spazio (3 metri quadri per detenuto). In Italia, il dato nazionale è ancora più allarmante: 61.861 detenuti contro 46.839 posti. Emerge che servono misure alternative urgenti, e come sottolinea il garante Ciambriello nel rapporto, ben 2.747 detenuti campani scontano pene residue inferiori a 3 anni, adatte a percorsi extra murari. Il 2024 è stato l’anno con il più alto numero di suicidi in carcere da 30 anni: 90 a livello nazionale, 11 in Campania (4 a Poggioreale). Tra le vittime, spicca il dato sugli stranieri: 44 dei 90 suicidi nazionali riguardano detenuti non italiani, 3 dei quali in Campania. A questi si aggiungono 214 tentativi di suicidio, 1.080 atti di autolesionismo e 629 aggressioni tra detenuti, con il solo Poggioreale che registra 345 autolesionismi e 36 tentativi di suicidio. Dietro ogni numero, c’è un uomo o una donna che vive l’angoscia ogni giorno. Personale allo stremo - A fronte di 3.706 agenti previsti su tutto il territorio regionale, ne risultano in servizio 3.265. A Poggioreale e Secondigliano il rapporto con i detenuti è sempre più sbilanciato, mentre funzionari giuridico- pedagogici e personale amministrativo rimangono in sensibile sottorganico: basti pensare che a Poggioreale ci sono solo 20 funzionari giuridico- pedagogici per 2.084 ristretti. Tra le oltre 362 persone con patologie psichiatriche e 433 casi di necessità odontoiatriche, mancano spesso figure essenziali: psichiatri, tecnici della riabilitazione, ortopedici e cardiologi. Le Atsm (Articolazioni per la tutela della salute mentale) sono solo a Santa Maria Capua Vetere, Secondigliano e Salerno, mentre in altri istituti restano sospese. Le visite esterne saltate sono 3.350, contro 862 negate per difficoltà logistiche. Sul piano psichico, almeno 100 reclusi convivono con la depressione e altri 92 con sindromi nevrotiche, senza che vi sia un’offerta strutturata di supporto psicologico e psichiatrico. In Campania le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza si riducono a due soli presidi: la Rems di San Nicola Baronia e quella di Calvi Risorta, che ospitano in tutto appena 39 uomini (19 nella prima, 20 nella seconda). Ogni struttura offre dieci camere doppie, ma la mancanza di mediatori linguistico- culturali a Calvi Risorta rende complicata la comunicazione con chi arriva da contesti diversi; qui, come altrove, si avverte la carenza di psichiatri, infermieri e di personale addetto alla vigilanza, nonostante il prezioso contributo di tre associazioni locali che animano laboratori di cucina, orticoltura e teatro. Anche a San Nicola Baronia si registra l’urgenza di potenziare l’equipe psichiatrica: la sede, isolata dai mezzi pubblici, conta in media 18 uscite settimanali - momenti fondamentali per il reinserimento, ma spesso messi a rischio da spazi e risorse limitati. Tra gli eventi critici segnalati nel corso dell’anno, spiccano due allontanamenti e altrettanti atti di autolesionismo, mentre un piccolo barlume di speranza arriva dall’iscrizione universitaria di un internato, che ha sostenuto con successo alcuni esami. “Con questo dato - ricorda il Garante Ciambriello - rinnovo l’appello, ai sensi del comma 5 dell’art. 123 del Regolamento, affinché la Giunta regionale proceda senza indugi alla realizzazione di una nuova Rems, adeguando l’offerta di cure psichiche e psichiatriche alle reali esigenze del territorio”. Donne e minori - Le detenute in Campania sono 351, di cui 41 straniere, ma l’unico istituto a custodia attenuata per madri - l’Icam di Lauro - è stato chiuso dopo costosi lavori. Dal 20 maggio le donne di Pozzuoli sono state trasferite in blocco, anche fuori regione, spezzando legami familiari fondamentali. E poi c’è la situazione delle carceri minorili. La riforma “Decreto Caivano” ha aumentato del 30% i minorenni negli Ipm, portandoli a 99 in Campania e 278 presi in carico. Tra i 14- 17 anni, i reati principali sono rapine (283), furti (171), lesioni (506) e omicidi volontari (44), quasi triplicati rispetto al 2023. Nei due istituti minorili (Nisida e Airola) si contano 323 eventi critici, tra cui 213 infrazioni disciplinari e 9 autolesionismi. I Centri di Prima Accoglienza (Cpa) rappresentano la prima tappa del percorso giudiziario per i minorenni fermati in flagranza o accompagnati dagli agenti: alle dipendenze del Procuratore della Repubblica per i minorenni, questi centri accolgono i ragazzi fino all’udienza di convalida, che il Gip è tenuto a celebrare entro 96 ore dalla detenzione, valutando se confermare il fermo o applicare una delle misure cautelari previste per l’età. In Campania ne operano tre: quello di Napoli, il centro femminile di Nisida e il Cpa di Salerno, che nel 2024 hanno ospitato 169 giovani. Di questi, 163 erano fra i 14 e i 17 anni (solo 24 stranieri), mentre 6 avevano tra i 18 e i 25 anni (2 stranieri): un’inversione di tendenza rispetto al panorama nazionale, dove a prevalere nei Cpa sono i minori non comunitari. Questo dato sottolinea una specificità campana, dove i ragazzi italiani restano la maggioranza tra gli accolti. Il Garante Ciambriello conclude il rapporto con una grande amarezza. Spiega che oggi dovremmo parlare del “carcere della Costituzione” come voluto dalla nostra carta fondamentale. Eppure, sottolinea che “è difficile parlare di un “carcere nella Costituzione” perché, semplicemente, non esiste nella realtà, non esiste, oggi, un carcere che incarni i principi costituzionali”. Nonostante il carcere della costituzione sia un luogo ideale e, secondo alcuni, una mera utopia irrealizzabile, Ciambriello chiosa: “sicuramente un obiettivo ancora lontano ma, almeno io credo, essenziale per affrontare seriamente questo problema”. La Campania, con le sue criticità, è un microcosmo del fallimento delle politiche carcerarie italiane. L’appello è per una riforma che privilegi misure alternative, investa in salute mentale e lavoro, e restituisca al carcere la sua funzione costituzionale: rieducare, non punire. Sassari. Detenuto muore in carcere a dopo aver inalato gas ansa.it, 23 aprile 2025 Nel carcere di Bancali un detenuto di 36 anni, originario del nord Africa, è stato trovato privo di vita nella sua cella dagli agenti di polizia penitenziaria. Quando i poliziotti hanno aperto la porta della cella hanno trovato l’uomo riverso per terra con accanto la bomboletta da fornello e un forte odore di gas. Nella cella c’era anche un altro detenuto che non si era accorto di nulla. A denunciare l’ennesima tragedia accaduta nel carcere sassarese è il sindacato Sappe: “Sono ancora in corso gli accertamenti per capire se la causa della morte del detenuto, avvenuta con l’inalazione del gas della bomboletta che legittimamente i detenuti posseggono per cucinare e riscaldare cibi e bevande, sia la deliberata volontà di togliersi la vita o le conseguenze di uno sballo finito male. Ma certo è che l’uomo è morto e questo è un fatto triste e grave”, spiega il delegato Sappe per la Sardegna, Antonio Cannas. “È ora che al posto delle pericolosissime bombolette a gas, a volte trasformate anche in bombe contro il personale di polizia penitenziaria, si dotino le carceri di piastre elettriche per riscaldare il cibo dei detenuti. Già da tempo, come primo sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe ha sollecitato i vertici del Dap per rivedere il regolamento penitenziario, al fine di organizzare diversamente l’uso e il possesso delle bombolette di gas”, conclude Cannas. “Quel che sta succedendo nelle ultime settimane nelle carceri, tra suicidi, aggressioni, risse, evasioni, è di inaudita gravità ed è la conseguenza dello scellerato smantellamento delle politiche di sicurezza delle carceri attuato nel passato. Il sistema penitenziario, per adulti e minori, si sta sgretolando ogni giorno di più e ha assoluta necessità di interventi urgenti”, aggiunge il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Torino. Susan, morta di fame e sete: chiesta l’archiviazione per i 4 medici del carcere di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 23 aprile 2025 I dottori erano accusati di non essere intervenuti in tempo. Ma le consulenze mostrano la correttezza del loro operato. Si è chiusa con un’archiviazione l’inchiesta sulla morte di Susan John, 42 anni, che l’11 agosto 2023 si è lasciata morire di inedia nella sezione femminile del carcere Lorusso e Cutugno. Quattro medici della casa circondariale (difesi dagli avvocati Francesco Bosco e Gian Maria Nicastro) erano accusati di omicidio colposo: nell’ipotesi iniziale, non avrebbero fatto abbastanza per tentare di salvare la donna e soprattutto non sarebbero intervenuti tempestivamente perché venisse ricoverata. Nelle scorse settimane però è stato lo stesso pm Mario Bendoni a chiedere l’archiviazione, sulla scorta di ben due consulenze tecniche che hanno acclarato la bontà dell’operato dei sanitari. Il capo d’imputazione attribuiva a vario titolo il mancato ricovero d’urgenza della detenuta quando era ormai a rischio della vita e il ritardo “senza giustificato motivo” nel ricovero programmato. Susan John aveva varcato le porte del carcere il 22 luglio per scontare una condanna definitiva a dieci anni e quattro mesi per sfruttamento e tratta di essere umani: alcune connazionali l’avevano accusata di essere una maman, ovvero colei che si occupa di reclutare nel paese d’origine donne da destinare alla prostituzione. La donna aveva lasciato a casa con il marito due figli piccoli, di cui uno autistico: proprio l’allontanamento dai bambini avrebbe scatenato in lei quel senso di impotenza e solitudine che nei giorni successivi l’aveva spinta al digiuno. A dare il primo allarme era stata la polizia penitenziaria, perché Susan rifiutava cibo, acqua e persino le cure dei medici. Fino al primo malore, il 4 agosto. In quell’occasione era stata accompagnata in ospedale priva di sensi dopo una caduta, ma era stata dimessa nel giro di poche ore senza particolari raccomandazioni, anche perché aveva rifiutato esami e terapie. Il monitoraggio sanitario era proseguito dietro le sbarre, ma la donna aveva continuato a non mangiare e bere, perdendo peso a vista d’occhio. Il 9 agosto il Tribunale di Sorveglianza aveva autorizzato il ricovero nel repartino delle Molinette, che però ci sarà mai. L’11 agosto la donna era stata trovata senza vita in carcere. L’autopsia aveva individuato la causa del decesso in “un’insufficienza cardiaca acuta in conseguenza di un’aritmia maligna”, un problema che potrebbe essere stato aggravato dal rifiuto di bere per diciotto giorni. Nel referto autoptico si ipotizzava che, sebbene non avesse labbra secche e segni di disidratazione, potesse aver subito uno scompenso elettrolitico: una carenza di liquidi che avrebbe compromesso l’attività del cuore. Quello di Susan John fu il 42esimo suicidio in carcere del 2023, seguito poche ore dopo da quello di Azzurra Campari, 28 anni, detenuta nell’articolazione per la tutela mentale. In seguito ai due episodi, anche il guardasigilli Carlo Nordio visitò l’istituto di pena e promise di utilizzare le caserme dismesse per trasferire i detenuti meno pericolosi. Una promessa che, a oggi, non ha mai visto la luce. Bologna. “Bergoglio? Un antipapa”, il post choc del dirigente della Giustizia minorile di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 23 aprile 2025 Il Ministero: “Disposta un’indagine conoscitiva”. Bergoglio? “Un antipapa, vestito da Papa. Ora fondamentale un conclave pre 2013 per un vero Papa”. O, in alternativa, “un vescovo usurpatore”, che si sarebbe impadronito della Chiesa a fronte di dimissioni “non valide” di Benedetto XVI e che non avrebbe nemmeno impartito “la benedizione Urbi et Orbi” di domenica, prima dell’ultimo bagno di folla in piazza San Pietro. Il Santo Padre, scomparso il lunedì di Pasquetta, è uno dei bersagli più frequenti dei post rilanciati dal canale Telegram “Logos e Libertas” che, scorrendolo, non ha mai risparmiato nemmeno l’Oms, l’Unione Europea, e non ha mai fatto mistero di tesi no vax, no green pass, ma anche di idee contrarie alla migrazione, ai diritti Lgbtq+ e chi più ne ha più ne metta. A gestire il canale Telegram una persona che ha già fatto profondamente discutere per le proprie posizioni negazioniste e contrarie ai vaccini durante la pandemia di Covid (che ha definito “l’Apartheid 2020-22”), Antonio Pappalardo, ovvero il direttore della Giustizia minorile di Emilia-Romagna e Marche. Il capo del Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità, Antonio Sangermano, ha immediatamente disposto “una indagine conoscitiva circa le affermazioni ascritte al dirigente `ad interim´ del Centro per la Giustizia Minorile dell’Emilia-Romagna, Antonio Pappalardo contro Papa Francesco”. Tale indagine è volta ad accertare se ricorrano profili di responsabilità disciplinare a carico del suddetto pubblico funzionario. Lo rende noto il ministero. “Saranno adottati - ha inoltre detto il capo dipartimento - tutti provvedimenti ritenuti necessari a preservare e tutelare l’immagine e il prestigio dell’amministrazione della Giustizia”. La senatrice del Pd, Sandra Zampa, aveva chiesto l’intervento e provvedimenti da parte del Guardasigilli, Carlo Nordio: “Parole che offendono la memoria di Francesco e tutta la Chiesa ma anche i cittadini italiani - ha detto la Zampa -. Parole che ledono la dignità dell’istituzione di cui Pappalardo fa parte. Parole che rivelano gravissimi orientamenti e sentimenti nei confronti dei migranti e in particolare dei minori stranieri non accompagnati dei quali per il suo ruolo è chiamato a occuparsi”. Da qui la richiesta “al ministro Nordio e al sottosegretario Andrea Ostellari di acquisire i testi diffusi da Pappalardo e di prendere immediati provvedimenti nei suoi confronti - ha ribadito Zampa. Presenterò un’interrogazione ma rivolgo al ministro la richiesta di procedere immediatamente nei confronti di questo dirigente, perché la sua presenza in quel ruolo è incompatibile con ciò che emerge dai post che lui stesso ha diffuso (a quanto pare tramite telefono di servizio)”. Una richiesta alla quale si era associata anche la segretaria del Pd bolognese, Federica Mazzoni: “Ancora di più allarmano i recenti provvedimenti” in materia di giustizia minorile, continua Mazzoni, perché le figure poste ai vertici di questo settore “devono avere in testa il ruolo rieducativo della pena e il reinserimento formativo, educativo e sociale dei minorenni e dei ragazzi negli istituti penali”. Poi un coro analogo di voci da tutto il centrosinistra bolognese: i consiglieri comunali di Bologna Detjon Begaj e Porpora Marcasciano (Coalizione civica), Antonella di Pietro e Mery De Martino (Pd), Giacomo Tarsitano (lista Lepore) e Filippo Diaco (lista Conti). Ma sottoscrivono anche i consiglieri regionali Simona Larghetti (Avs), Lorenzo Casadei (M5s) e Simona Lembi consigliera (Pd). “Riteniamo siano necessarie le sue dimissioni dall’incarico o la revoca dello stesso incarico da parte del ministero della Giustizia. Ci sembra chiaro che il destino di centinaia di ragazzi e ragazze negli Istituti penali minorili e nelle comunità dove sono accolti i minori stranieri non accompagnati non può essere nelle sue mani. I contenuti che pubblica nel suo canale Telegram sono all’opposto dei valori che dovrebbero guidare il ruolo che ricopre e le responsabilità che ne derivano”, scrivono i consiglieri comunali. Verona. La droga e il vuoto: i ragazzi che don Andrea prova a salvare di Viviana Daloiso Avvenire, 23 aprile 2025 “Don, ma perché quelli che vanno in chiesa non ci salutano?”. Il gruppo dei ragazzi è riunito sulla panchina davanti alla chiesa. Parlano ad alta voce, giocano a pallone disturbando i passanti, ascoltano la musica a palla coi telefonini. Sono una quindicina, la sera arrivano a trenta e più: italiani, africani, marocchini, latinos. Il più grande ha 16 anni, il più piccolo forse 12. Siamo a Borgo Roma, periferia di Verona, un punto imprecisato della linea 21 che parte dalla stazione ogni 15 minuti col suo carico di multietnicità e di preoccupazione: l’autobus attraversa gli storici quartieri operai della città, oggi forse più poveri di allora, per finire la sua corsa davanti all’ospedale della città. La parrocchia, a metà percorso, è quella del Gesù Divino Lavoratore: un edificio imponente, un po’ sinistro. Il prete è don Andrea Ronconi, classe 1971, da sempre in prima linea coi ragazzi “difficili”. A fine gennaio è finito sui giornali e le tv locali per essersi preso a cuore la vicenda di Nora, la giovane di appena 15 anni che proprio a Borgo Roma era nata e cresciuta e che è morta di overdose in un casolare abbandonato poco fuori Verona. Una delle tante vite interrotte dalla droga (a proposito: sono 24 da inizio anno, anche se nessuno ne parla) che qui - ripetono i vecchi - c’è sempre stata, ma che oggi passa per lo più attraverso le mani dei “pesci piccoli”. Dove può fare malissimo. Nora l’ha uccisa. Gli altri li prende, li stravolge, li conduce dritti in carcere prima dei 18 anni. E tra questi, spesso, ci sono stati e ci sono i ragazzi della panchina del don. “Non vi salutano perché fate casino, perché lasciate sporco, perché a volte bestemmiate” dice il don con un mezzo sorriso di rimprovero. Qualcuno ride, qualcuno sbuffa, tutti sanno che ha ragione: in passato l’oratorio (che conta su due campetti da calcio illuminati fino a sera, anche d’inverno, “se sono qui so che non fanno disastri altrove”) il sacerdote qualche volta l’ha chiuso proprio per eccesso di bestemmie. O perché non si tenevano addosso le magliette. Una volta, perché è sparito un cellulare: “Era l’estate degli Europei di calcio, avevamo messo un maxi-schermo di fianco alla chiesa e permettevamo a tutti di venire a vedere le partite e tifare insieme - racconta -. A un certo punto la doccia fredda del furto e la mia decisione che li ha lasciati senza parole: niente finale, se il cellulare non tornava al suo proprietario. Qualche ora dopo eccolo spuntare sul mio tavolo”. Marachelle? Nient’affatto. Dal Covid in avanti il gruppo s’è allargato a dismisura e alcuni ragazzi hanno cominciato a delinquere in maniera seria: furti, estorsioni, spaccio. Si sono dati anche un nome, i Qbr, l’acronimo di “Quei bravi ragazzi”, ma anche di “Quartiere Borgo Roma”: un marchio da gang, scritto sui muri, usato sui social. “Nel 2022 la prima retata: ne hanno arrestati 16 in un colpo solo” ricorda don Andrea. Con accuse pesantissime. In carcere, a Montorio, hanno chiesto subito di vedere il “loro don”. Lui ci è andato senza battere ciglio. Lì è nata l’idea anche di farsi avanti come garante per i percorsi di messa alla prova pensati per alcuni di loro: alla firma per l’accordo con il Tribunale e i Servizi sociali s’è presentato il sacerdote, i primi ragazzi che sono usciti hanno iniziato a lavorare tra la parrocchia e l’oratorio. Che per loro è anche una casa: “Il filo rosso che li accomuna è la fragilità delle famiglie che hanno alle spalle - continua il don - e quelle famiglie io le conosco tutte. Spesso c’è solo un genitore, che quasi sempre è la madre, e altrettanto spesso in casa vivono i fidanzati delle sorelle, le famiglie dei cugini o degli zii lontani. Gli adolescenti, in contesti di questo tipo, sono quasi del tutto invisibili: nessuno si occupa di loro, nessuno si preoccupa del rendimento scolastico o del fatto che ci vadano, a scuola”. E loro, i ragazzi, sognano le scarpe e le maglie firmate, che costano tanti soldi, i soldi facili che si fanno solo con la droga. Alla prima messa in prova hanno partecipato Juri e Mohamed. Juri era il capo della banda, il vero “cattivo”. Una parola che per don Andrea non esiste: “Molti mi chiedevano se non avevo paura, se non ero un po’ matto a prendermi a cuore dei ragazzi così “cattivi”. Il punto è che loro non sono cattivi, i cattivi ragazzi non esistono. Esistono ragazzi che fanno cose cattive, o che le hanno fatte, ma che possono farne anche di buone”. La sfida di guardarli con gli occhi di Dio, e non con quelli degli uomini, è la rivoluzione che la giustizia nel nostro Paese non riesce ad accogliere: punirli e basta, rinchiuderli nelle carceri minorili più che mai sovraffollate e pensare di poter buttare la chiave, non risolve nulla. Quando escono, ricominciano daccapo a delinquere, perché conoscono solo quella strada. “Io provo a insegnare loro una cosa molto semplice: che si può riparare al male facendo il bene, di più, che si può riparare col bene lì dove si è fatto il male” spiega don Andrea. Dove il “bene” sono le aiuole piene di primule, coltivate con cura da Juri nel parco giochi riqualificato dietro l’oratorio in cui i bambini giocano e le mamme sulle panchine sorridono. O le cicche di sigarette e le cartacce lasciate attorno alla chiesa, che Mohamed raccoglie una ad una in un rito studiato nei dettagli che si ripete uguale tutte le mattine: le anziane signore, che col passare delle settimane hanno imparato a conoscerlo, adesso sì che lo salutano. E lui per la prima volta si sente guardato, apprezzato, si sente qualcuno. È la strada dell’educazione, “l’unica possibile - insiste don Andrea -, l’unica che porta frutto: loro, Juri e Mohamed, hanno capito che possono essere altro, che possono essere utili e avere un ruolo nella vita della comunità in cui vivono. Gli altri ragazzi della banda, vedendo quelli che prima erano i loro capi diventare volontari e cambiare in questo modo, restano scossi, si interrogano. Alcuni decidono di seguirli: dopo di loro ne ho avuti altri 4 in messa alla prova. Altri per la prima volta toccano con mano che c’è un’altra possibilità”. Il sacerdote non è da solo: accanto a lui c’è un seminarista, Simone, i volontari della parrocchia, mentre a Borgo Roma ci sono anche l’Educativa di strada dei Servizi sociali, il Comune, il Gruppo San Vincenzo, le associazioni sportive e di teatro, tutti al lavoro in rete per offrire occasioni di incontro e di ascolto dei ragazzi. I ragazzi li vanno a cercare al parco, si siedono con loro, organizzano tornei, propongono attività. In oratorio, poi, orbitano quasi un centinaio di adolescenti “normali”, che diventano più di 300 d’estate col Grest, ed educare significa aprire la porta a tutti, invitarli insieme ai ragazzi della panchina alle merende, o alle spaghettate, spiegare ai genitori preoccupati che ci si salva soltanto tutti insieme. “Nora no, non siamo riusciti a salvarla. In parrocchia non era passata mai. Quando sono venuti a dirmi che era morta, che sua mamma viveva a duecento metri dalla chiesa, ho deciso che dovevo andare a trovarla e farmi carico di tanto dolore”. Il gesto di don Andrea ha unito la comunità musulmana e quella cristiana, il prete è stato poi invitato in moschea per i funerali della quindicenne, ha fatto il suo coraggioso appello ai presenti: sentirsi corresponsabili nell’educazione dei giovani per offrire loro un futuro migliore. Poi la preghiera in stazione, dove per l’occasione da Roma è arrivato un altro sacerdote in prima linea contro la droga, don Antonio Coluccia: “L’ho raggiunto e mi sono presentato. Ha detto cose che condivido. Il mio pensiero però era fisso su Moussa, il giovane di 19 anni che proprio lì è stato ucciso a fine ottobre da un agente che aveva aggredito. Un ministro disse, di lui, che non gli sarebbe mancato. A me invece, che pure non lo conoscevo, manca ogni giorno. È un altro ragazzo che non siamo riusciti a salvare”. Treviso. Le vecchie bici tornano in vita grazie ai detenuti. “Così donano libertà” di Elena Dal Forno Corriere del Veneto, 23 aprile 2025 Dieci biciclette abbandonate, un gruppo di detenuti pronti a rimetterle in sesto e dieci donne migranti che monteranno presto in sella. È il cuore del progetto “Non solo pane e comunità solidali”, che punta a favorire l’autonomia e l’inclusione delle donne migranti anche attraverso la mobilità sostenibile. Ieri mattina, grazie alla collaborazione di Ca’ Sugana, la Fiab ha ricevuto dieci biciclette recuperate da furti, denunce o semplicemente abbandonate, rimaste per mesi nei magazzini comunali. Ora prenderanno nuova vita: sono già state trasferite nel carcere di Treviso, dove i detenuti si occuperanno della riparazione. Una volta pronte, saranno donate alle destinatarie del progetto. Le beneficiarie sono donne straniere residenti nell’area della “Grande Treviso”, che non hanno la possibilità di acquistare una bicicletta e, spesso, non conoscono nemmeno le regole della strada. Proprio per questo, insieme alla consegna, verrà organizzato un corso su sicurezza e circolazione: un piccolo ma significativo passo verso l’indipendenza. “Una bicicletta può sembrare poco, ma per molte donne significa libertà: poter accompagnare i figli a scuola, andare al lavoro, vivere la città” spiega Susanna Maggioni, vicepresidente nazionale e presidente di Fiab Treviso che aggiunge: “Ringraziamo il Comune per questo gesto concreto, che dà forza al progetto”. L’iniziativa è parzialmente finanziata dalla Regione Veneto e coordinata da una rete di associazioni locali, con I-Care come capofila. Collaborano anche Cielo Blu Odv, Uomo Mondo Odv, Cism, Aion Aps e Solidarietà a Colori. A riparare le bici sarà la cooperativa Alternativa Ambiente, da anni impegnata nell’inserimento lavorativo dei detenuti attraverso percorsi formativi. Molte delle biciclette arrivate ieri sono in condizioni critiche, ma saranno sistemate e rimesse in strada entro un mese. Non è la prima volta che Fiab promuove un’azione del genere: già lo scorso anno, con l’associazione MoMi (Monigo Migranti), una decina di giovani ospiti della Caserma Serena avevano seguito un corso sul Codice della Strada e ricevuto bici attrezzate con luci e giubbini catarifrangenti. Melfi (Pz). Lavorare in carcere, una bella “impresa” basilicata24.it, 23 aprile 2025 “Ci sono date che non si possono dimenticare, una di queste sarà ricordata nella Casa Circondariale per detenuti ad Alta Sicurezza di Melfi,- ha dichiarato la Direttrice Maria Rosaria Petraccone - perché l’ 11 aprile scorso è stato possibile concretizzare, quanto previsto dall’art. 20 dell’Ordinamento Penitenziario, dedicato al lavoro dei detenuti, che sancisce in maniera puntuale che “il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato” questo sta a significare che non può comportare un inasprimento della pena, ma è considerato una forma di organizzazione necessaria alla vita della comunità carceraria”. Lo scorso 11 aprile, infatti, accade che grazie alla sensibilità dell’impresa appaltatrice dei lavori di ristrutturazione edile, in ottemperanza a quanto contemplato dal D.P.R. 230/2000, due ristretti hanno firmato il contratto come operai; evidente è stata l’emozione sui loro volti e la soddisfazione da parte di tutti gli operatori dell’Amministrazione penitenziaria nell’accogliere la proposta. Il titolare dell’impresa ha manifestato, attenzione e sensibilità verso la condizione di chi è detenuto e, attraverso la condivisione di obiettivi comuni a quelli degli operatori penitenziari, si è reso disponibile ad offrire una concreta opportunità trattamentale a due ospiti di questa Struttura, assumendoli alle proprie dipendenze, con un contratto a tempo determinato, rendendo attuabile quanto previsto dalla Legge Smuraglia. Un importante obiettivo che è stato raggiunto grazie ad un’azione sinergica tra la Magistratura di Sorveglianza di Potenza - Dr.ssa M.T. Petrocelli -la Direttrice della Casa Circondariale di Melfi - Dott.ssa M.R. Petraccone - il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria - Dirigente Dottor. G. D. Telesca - i Funzionari giuridico pedagogici dell’Area Trattamentale e Funzionari dell’Area Contabile, e l’assistente dell’Area Tecnica. È stata accordata fiducia a detenuti che hanno dato prova della volontà di riscattarsi socialmente, avendo intrapreso un graduale percorso positivo verso la risocializzazione, con l’intento di contribuire alla vita sociale ed economica ed accrescere il senso di responsabilità anche nei confronti della comunità, di sé stessi e dei loro familiari. Bologna. “Visioni Riparative tra dentro e fuori” di Antonella Cortese Ristretti Orizzonti, 23 aprile 2025 È cominciato con il primo incontro Visioni Riparative tra Dentro e Fuori, il progetto finanziato dal bando regionale Dgr 903/24, che parte dal paradigma della Giustizia riparativa al quale si ispira, per promuovere la cultura dell’incontro, della mediazione e della riparazione tra dentro e fuori dal carcere. È infatti in seno alla società, ai suoi conflitti e alle sue naturali contraddizioni che si generano comportamenti lesivi, violazioni delle norme penali e giuridiche. È nella comunità che si pone in ascolto, che include e non respinge, che affronta le difficoltà evitando irreparabili rotture che isolano, spesso reiterando comportamenti illeciti e dannosi, il luogo in cui è possibile trovare una mediazione, un risarcimento, una riparazione, una possibile ricucitura. Il 9 aprile nella Casa di Quartiere Montanari, alla presenza di una trentina di persone, con le esperte mediatrici penali Maria Inglese e Germana Verdoliva della scuola di Adolfo Ceretti - uno dei padri della mediazione e della Giustizia riparativa in Italia - è stato affrontato il tema: “Una nuova idea di giustizia a partire dall’ingiustizia. La mediazione sociale e il coinvolgimento della comunità”. Le relatrici hanno coinvolto il pubblico in un esercizio di cittadinanza attiva e responsabile, rintracciando nelle parole e nel linguaggio il seme di una giustizia spesso difficile da definire. È, in effetti, più semplice rispondere alla domanda opposta: che cos’è l’ingiustizia per ognuno di noi? Partendo dal nostro vissuto è possibile aprirsi ad una comunicazione consapevole, a un riconoscimento delle ingiustizie che anche l’altro ha subito. Provare, insieme, a trovare un ponte, quindi un avvicinamento. Georg Simmel, filosofo e sociologo tedesco, riferisce all’umano la caratteristica capacità di unificare e conciliare “…costruire un camminamento è una prestazione specificamente umana…il ponte rappresenta l’estensione della sfera della nostra volontà allo spazio.” Le due sponde collegate dal ponte restano nettamente separate ma in comunicazione, cercando un punto di contatto, un riconoscimento reciproco, un equilibrio tra le parti, come precisa Maria Inglese riferendosi alla Giustizia riparativa. Se subiamo un’offesa, siamo davvero in grado di esercitare queste capacità? Il ponte crolla, la rottura è avvenuta e l’unica cosa possibile per non restare sotto i detriti per sempre è ricostruire, cominciando con un’impalcatura che permetta l’avvicinamento delle sponde per arrivare ad una costruzione nuova, sicuramente diversa dalla precedente, ma non per questo meno stabile ed efficace. Ne risulta che la mediazione ben riuscita è come l’impalcatura, invisibile e provvisoria, perché la costruzione la fanno le parti e il mediatore è solo una figura di passaggio, uno specchio riflettente. “La mediazione è reciproco riconoscimento, quello che viene a mancare quando è in atto un conflitto. Questo è il momento imprescindibile senza il quale nessuna azione riparativa è possibile” specifica Germana Verdoliva. Numerose le domande anche in merito alla ricaduta della giustizia riparativa nelle diverse fasi del processo, come previsto dalla riforma Cartabia, che vede questo paradigma in affiancamento alla giustizia penale, e non in sostituzione. Chi e cosa riparerà al torto subito? L’azione riparativa comunitaria, di cui cominciano ad esserci esperienze, ridefinisce i luoghi che cambiano di senso attraverso l’attivazione della comunità, delle persone che si incontrano comunicando il proprio disagio conseguente all’azione dell’altro. Ma la risposta alla domanda iniziale, quando possibile, non può che essere definita di volta in volta dato che non esiste una soluzione unica e valida per tutti per riparare al torto. Nella Giustizia riparativa una delle figure fondamentali è la vittima, spesso lasciata al suo destino e a confrontarsi in solitudine con il suo dolore. Con Marco Bouchard - ex magistrato italiano e presidente onorario della Rete Dafne Italia, rete nazionale per l’assistenza alle vittime di reato - il 28 maggio alle 16.30 nella Sala del Consiglio del Quartiere Navile - Via di Saliceto, 3/20 approfondiremo il tema provando a ricostruire la storia della Giustizia riparativa con focus dedicato alle vittime di reato. Asti. L’alternanza scuola - lavoro? In carcere di Domenico Coviello vita.it, 23 aprile 2025 Ad Asti, due appassionati docenti di un liceo di Scienze umane prospettano agli studenti un Pcto particolare: un percorso di dialogo con i detenuti del locale penitenziario, da cui trarre un lavoro comune. Grazie alle associazioni e al Centro servizi volontariato, ne è nata una pubblicazione che sarà presentata al “Salone del libro”. Dimenticate la serie Netflix Adolescence, gli incel, la manosfera e l’intelligenza artificiale. E mettetevi in marcia lungo le strade della realtà che non fa notizia in televisione. Scoprirete gruppi di adolescenti che fanno uno stage scolastico in carcere fino a scrivere un libro con gli ergastolani e a raccontare loro, in un reciproco scambio di esperienze dal vivo, alcune delle proprie emozioni più profonde. Sono i frutti di un lavoro svolto ad Asti e durato mesi, promosso da Giuseppe Passarino, segretario dell’associazione Effatà-Volontari del carcere. Uno storico, battagliero collettivo, fondato da Tecla Fornaca e operativo da quasi 30 anni, che ha coinvolto un gruppo di detenuti della Casa di reclusione ad alta sicurezza della città del Monferrato, in coordinamento con gli educatori dell’Area trattamentale del carcere, l’associazione Fuori Luogo, il Cpia (istituto statale di istruzione per adulti) e il Centro servizi volontariato Asti e Alessandria - Csvaa. Si tratta di un lavoro che il 18 maggio avrà una piccola grande consacrazione. Perché il libro Una penna per due mani (Team Service Editore) - quella dei ragazzi e quella dei reclusi - sarà presentato al pubblico al Salone del Libro di Torino 2025, dopo la presentazione in carcere, a febbraio, e quella, nei giorni scorsi, alla Biblioteca astense Giorgio Faletti. Il volumetto è “un ponte tra due mondi” sintetizza la presidente di Effatà, Maria Luisa Bagnadentro. Ovvero il mondo extramurario e quello intramurario, per dirla in gergo. Fra i quali, massiccio come lo fu quello di Berlino, c’è un muro costituito non solo da barriere di cemento, sbarre e cancellate dei penitenziari. Ma più ancora dall’invisibile e apparentemente solidissima barriera di pregiudizi, disprezzo e indifferenza di molti dei cittadini ‘liberi’ nei confronti dei ‘prigionieri’. Serve piuttosto “il coraggio di stare anche dalla parte di Caino”, si osserva dalle pagine di Gazzetta Dentro, il giornale fatto dai detenuti di Asti sotto il coordinamento di Domenico Massano e Marinella Bruno di Effatà. “Ho avuto modo di constatare che (gli studenti, ndr) entravano con un immaginario non del tutto reale”, scrive Mario (nome di fantasia, ndr) nel suo pezzo per il foglio del penitenziario, pubblicato anche sulla Gazzetta d’Asti, “prova ne sia che loro stessi hanno ammesso che precedentemente pensavano tutt’altro; qualcuno ha detto: “Uscendo sono caduti muri e stereotipi sul carcere e sui detenuti”. Sì, perché studenti e detenuti si sono incontrati di persona più volte, superando paure e timidezze iniziali fino a scambiarsi testi scritti e a confrontarsi su fatti di attualità ed esperienze personali “talvolta anche molto drammatiche”, scrive la professoressa Lombardi nell’introduzione. Durante l’ultimo incontro, spiega la docente, “è stato sorprendente vedere come i ragazzi non abbiano esitato a consegnare le loro storie e i loro vissuti” agli adulti reclusi. È la legge della fiducia, per dirla col professor Tommaso Greco, giurista dell’Università di Pisa, sostenitore della necessità di rinnovare lo spirito che sta alla base di leggi e norme in Italia. Ed è la potenza della realtà. Quando la si incontra di persona, invece di limitarsi a immaginarla, si scopre che non è come pensavamo. E che non sempre è peggiore della fantasia, anzi. Per questo di “ponti di comprensione” e di “strumento di cambiamento e di speranza” scrive nella prefazione al libro dei detenuti e degli studenti la direttrice della Casa di reclusione, Giuseppina Piscioneri. Ma Una penna per due mani è anche un’opera che, all’epoca di Amazon e dell’ebook, riscatta il potere della carta. Non è soltanto un libro scritto a più mani, ma fra le mani bisogna rigirarselo: ha una duplice copertina, e una doppia, e speculare, linea di lettura. Seguendo una direzione si possono leggere i testi degli studenti; capovolgendo il libro e seguendo l’altra, quelli dei detenuti. A ciascuna poesia, racconto o riflessione di un recluso corrisponde un testo analogo, per stile espositivo e tema affrontato, scritto da una studentessa o da uno studente. Pagine di versi, testi, fiabe, fumetti e meditazioni, intercalate da illustrazioni a colori, muovono dall’estremità delle due opposte copertine e convergono al centro del volumetto dove due disegni sigillano l’opera fronteggiandosi come per abbracciarsi: la cella disadorna di un prigioniero con le sbarre alla finestra e la camera con vista sul mondo di un adolescente. È così che la stanza, il luogo dell’intimità personale, è per Giada “una tela in bianco dove dipingo i colori dei miei sentimenti” e per Alessandra il luogo fra le cui pareti “le emozioni s’incontrano in un abbraccio di pensieri”. Il detenuto Tiziano (altro nome inventato come anche quelli che seguono, ndr), invece, nella sua stanza-cella non si vorrebbe addormentare. Perché “mi giro e mi rigiro, ti cerco nel mio sogno. / Vorrei poterti stringere. Unico desiderio mio, poterti ancora amare / ma è lì nel triste sogno / che destandomi / mi accorgo che posso solo immaginare. / Soffro e mi rattristo / ed è così che mi ritrovo da solo a farneticare”. Un libro in cui i carcerati riesaminano le loro storie, come quella di Anthony, che interrogandosi su “che cosa ho nel cuore?”, spiega di essere inizialmente arrivato in Italia “il Bel paese, per inseguire il mio sogno: diventare un calciatore per diventare qualcuno”. Ma puntualizzano anche che cosa pensano di certi giornalisti, come Arturo, secondo cui “umiltà e giornalismo sono due sostantivi che difficilmente vanno insieme (…) soprattutto per chi interpreta questa professione come esercizio di potere e non come un servizio e ricerca della verità”. Dal canto loro, voltato il libro, ecco che gli studenti riflettono sullo scandalo di Ilaria Salis ammanettata ai polsi e alle caviglie, e legata a un guinzaglio, nell’aula del tribunale di Budapest. O raccontano al lettore la liberazione di Nelson Mandela: il trionfo della resistenza, e la storia di Sacco e Vanzetti: uccisi per un pregiudizio. Sfolgorano come lampi nel buio le pagine di Una penna per due mani. Anime di ragazzi all’alba della vita e di adulti che hanno perduto la libertà si mettono a nudo e mozzano il fiato: davanti al lettore scorrono sogno, purezza, nostalgia, rimpianto, l’abisso della depressione, la forza dell’amore. “L’amore è ciò che ti salva quando tutto è ormai perduto, / è la forza che ti rialza. / L’amore è nelle ali di chi ti protegge a costo della vita (…) / L’amore non ha regole, non segue le leggi e non ha barriere. / L’amore non smette di esistere, è più forte di ogni cosa anche delle sbarre” scrivono Rebecca e Giada. E a loro fa eco il detenuto Carlo in Alba di primavera, versi dedicati a sua figlia Luciana: “Mio respiro e luce dell’amore di Dio / bianca e candida / come il fiore di mandorlo / è la tua pelle / e belli come il sole sono i fiori di marzo / e tu sei fiore di luce per noi tutti”. Come diceva il poeta Mario Luzi, Chronos è il nostro padrone. Verità di vita che, in carcere, mostra il suo volto feroce. In modo particolare per chi è all’ergastolo ostativo, come Tullio: “L’infido rumore del silenzio, lo scorrere del tempo così vuoto e lento. Riempie la tua vita… e abbandona il malcontento. Ma tu sei forte, sai che non è questo il tuo momento prima, poi con la morte, finirà questo tormento”, Dalle sconfitte tuttavia si può imparare, a cominciare da quando siamo adolescenti. “Ho imparato a parlare di più, ad ascoltare davvero, senza giudizi, senza fretta”, scrivono Arianna e Giorgia raccontando della propria partecipazione alla lotta della loro mamma contro la depressione, “ho scoperto che la vulnerabilità non è una debolezza, ma è il coraggio di mostrarsi per quello che si è, con tutte le paure e insicurezze”. Il punto è che, come scrive il detenuto Octave, “non importa se la vita picchia più duro di noi e finiamo al tappeto; quello che conta davvero è trovare la forza di realizzarsi e di combattere, procedendo come insegna Rocky al suo discepolo: un pugno alla volta, un passo alla volta, un round alla volta”. Il progetto, vincitore del primo premio di un bando regionale, è stato finanziato dalla Cassa delle ammende del ministero della Giustizia e ha avuto il patrocinio di Regione Piemonte e Comune di Asti, oltreché del penitenziario. A condurlo con cura e perseveranza sul fronte scolastico sono stati i professori Giorgio Marino e Paola Lombardi con gli studenti delle classi quinte del Liceo delle Scienze umane “Augusto Monti” di Asti. Verona. “Traguardi” organizza un incontro dedicato al carcere di Montorio veronasera.it, 23 aprile 2025 “Necessario pensarlo parte integrante della nostra comunità”. Il movimento civico promuove un incontro dedicato al carcere veronese per riflettere sulle condizioni di vita dei detenuti e delle detenute. Prosegue l’impegno del movimento civico Traguardi per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni della casa circondariale di Montorio. Dopo la visita effettuata lo scorso 16 aprile insieme a “Nessuno Tocchi Caino” e a Verona Radicale, Traguardi torna dunque a dare voce a chi vive quotidianamente la realtà del carcere, organizzando l’incontro pubblico “Voci dal carcere. In ascolto della Casa Circondariale di Montorio-Verona”. L’appuntamento è fissato per questa sera, mercoledì 23 aprile alle ore 20.45 presso il Circolo Primo Maggio di Montorio. Si tratterà di un momento di confronto e ascolto aperto alla cittadinanza, con l’obiettivo di accendere i riflettori su una situazione spesso dimenticata. Tra le criticità segnalate in una nota dal movimento civico Traguardi, figurano in particolare “un perenne sovraffollamento, la difficoltà di accesso alle cure mediche e psichiatriche, la mancanza di personale e l’aumento dei suicidi”. A prendere la parola questa sera saranno Don Carlo Vinco, garante dei detenuti del carcere di Montorio, Ivan Salvadori, docente di Diritto penale all’università di Verona, ed Elena Brigo, presidente della cooperativa Panta Rei. A moderare il dialogo sarà Tommaso Cipriani, membro del direttivo di Traguardi. Durante la serata sarà possibile ascoltare anche la testimonianza diretta di chi ha vissuto l’esperienza del carcere, offrendo uno sguardo autentico e umano dall’interno delle mura. Nonostante la gestione degli istituti penitenziari sia una competenza del ministero della giustizia e non del Comune, per Traguardi (che vede in Claudia Annechini, presidente dell’ottava circoscrizione, una delle sue voci più attive), il tema delle carceri è da sempre centrale e “da seguire con attenzione e impegno”. L’incontro è gratuito e aperto alla cittadinanza: “In una società che voglia definirsi giusta e inclusiva, il carcere deve offrire un tempo e uno spazio dedicati alla ricostruzione della persona. - commenta Tommaso Cipriani di Traguardi - Questo significa garantire l’accesso alla psicoterapia, a cure mediche adeguate, allo studio, al lavoro, ai legami familiari. Senza questi strumenti, è difficile immaginare che la detenzione possa produrre un cambiamento positivo. È necessario ripensare il rapporto della nostra comunità con il carcere, - conclude Tommaso Cipriani - affinché non venga più visto come un non-luogo o come un inquilino scomodo presente sul nostro territorio, ma che sia invece inteso come parte integrante della nostra comunità”. Quella lezione di Bergoglio contro il populismo penale di Graziano Arancio Il Dubbio, 23 aprile 2025 Un’occasione persa. O forse, semplicemente, un’occasione che non abbiamo voluto cogliere. Era il 23 ottobre 2014 quando Papa Francesco, parlando all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, pronunciò uno dei discorsi più lucidi. Un’occasione persa. O forse, semplicemente, un’occasione che non abbiamo voluto cogliere. Era il 23 ottobre 2014 quando Papa Francesco, parlando all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, pronunciò uno dei discorsi più lucidi, coraggiosi e profetici che io ricordi su giustizia, pena e dignità della persona. Non parlò ex cathedra, ma come uomo tra gli uomini. Eppure, da avvocato penalista, non ho potuto che avvertire la forza di un messaggio che andava dritto al cuore della nostra funzione. Quel discorso non era un’omelia: era una requisitoria. Era l’atto d’accusa di un uomo di fede contro il populismo penale, contro la vendetta travestita da giustizia, contro i sistemi repressivi che umiliano la persona nel nome della sicurezza. Francesco denunciò senza mezzi termini la dilagante tendenza a costruire nemici sociali, a usare il carcere come unica risposta ai mali collettivi, a dimenticare che la pena ed il carcere soprattutto devono (o dovrebbero essere) sempre extrema ratio. Disse che l’ergastolo è una pena di morte nascosta, che la carcerazione preventiva abusiva è una forma contemporanea di pena illecita, che l’isolamento è tortura. Disse parole che ancora oggi mi bruciano dentro: “Si tortura non solo nei centri clandestini, ma anche nelle carceri ufficiali, nei commissariati, nei reparti psichiatrici”. Ma soprattutto, ricordò a noi giuristi qual è la nostra missione: contenere gli eccessi del potere penale, difendere i diritti dei più vulnerabili, opporci alla deriva punitiva anche quando è scomodo, anche quando è impopolare. Eppure, come spesso accade con le parole scomode, vennero ascoltate poco. E, tra quei pochi che ascoltarono, ancora meno furono coloro che ne furono davvero scossi. Quante volte in questi anni si è visto, in aula, il trionfo della semplificazione, della paura, del sospetto trasformato in condanna? Quante volte si deve spiegare, quasi giustificare, perché si difende l’indifendibile, perché si invoca la dignità anche di chi ha sbagliato? La verità è che quel discorso è ancora lì, vivo, pronto. E il fallimento non è stato di Papa Francesco. È nostro. Di noi avvocati, magistrati, legislatori, giornalisti, cittadini. Perché noi abbiamo preferito cedere al richiamo facile del giustizialismo piuttosto che metterci in discussione. Si deve ripartire da quelle parole. Rileggerle, farle leggere. Perché chi lavora nel diritto penale sa che ogni condanna che calpesta la dignità, ogni pena sproporzionata, ogni processo sommario, non rafforza la giustizia: la tradisce. E se è vero che l’uomo può essere crudele, allora il diritto, come disse il Papa, deve essere la sua cura. Non un’arma in più. Abbiamo ancora tempo per ascoltare. Per cambiare rotta. Ma serve coraggio. E coscienza. Francesco, predicatore più apprezzato che ascoltato. Che ne sarà della sua eredità? di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 23 aprile 2025 Ambiente, guerre, migranti, povertà. Le parole del pontefice sono state spesso ignorate dai governanti della terra. Ma quante di queste tematiche rimarranno priorità della chiesa cattolica? Per un papa come Francesco che fino all’ultimo ha cercato e voluto rapportarsi alle persone, fossero o no cristiani, “fedeli”, praticanti, quella immagine del suo incedere lento e solo in pieno Covid, il 27 marzo 2020 sul sagrato della basilica di San Pietro bagnata dalla pioggia, coglie un momento molto doloroso, ma al tempo stesso emblematico. In un certo senso tutti siamo diventati vulnerabili di fronte alla pandemia, tutti avevano bisogno della sua preghiera. In un certo senso il papa interpretava quel bisogno universale e gli dava voce. Era solo, solo lui, proprio lui che del rapporto con i “fedeli” aveva già fatto un cardine del suo papato, che dai cosiddetti “bagni di folla” traeva visibilmente conforto ed energia. Dalla parte dei deboli - Ripetutamente, eppure non in maniera costruita ad arte, la sua predicazione è stata indirizzata a tematiche universali: la difesa dell’ambiente, la fine delle guerre, l’accoglienza dei migranti, la marginalità. Per questo suo schierarsi dalla parte dei deboli, dei vulnerabili, di coloro che meno hanno è stato spesso criticato. Ma la compassione e la misericordia sono sentimenti che non debbono necessariamente basarsi su analisi raffinate e tradursi in strategie che tengano conto di costi e benefici. Profeti e predicatori non sono in competizione con economisti, sociologi, studiosi di geopolitica anche se, talvolta, è sbagliato prescindere da quanto grazie a loro conosciamo. Le distanze fra quanto la predicazione di Bergoglio ha domandato in termini di scelte politiche, ambiente, guerre, migrazioni e povertà, e quanto i capi di governo, democratici e non, hanno fatto in questi anni, sono abissali. Non a caso, quei problemi si sono sostanzialmente aggravati. Nessuna voce da sola può riuscire se non si crea una massa critica di stati, preferibilmente democratici, con unità di intenti e condivisione di obiettivi. Questa può essere definita la tragedia della contemporaneità. Con le sue prediche Bergoglio l’ha fatta risaltare in tutta la sua incomprimibile complessità. Oggi, parte non piccola della mole di commenti positivi sulla predicazione di papa Francesco appartiene alla sfera dell’ipocrisia, quell’omaggio involontario che il vizio (e i suoi cultori, i viziosi) fa alla virtù, ipocrisia facile, forse inevitabile, sicuramente da criticare. Qualcosa da criticare nella predicazione del papa c’è, non soltanto dal mio personale punto di vista: quello che attiene alla vita, quando ancora non c’è, interruzione della gravidanza, e quando è diventata umiliante e non più tollerabile, ovvero, come porvi termine. Sono tematiche sulle quali il papa è rimasto fortemente, pigramente tradizionalista. Nel complesso, Francesco è probabilmente stato non una voce clamante nel deserto, ma un papa di minoranza nella comunità del clero, non solo nella Curia romana, tollerato, ma non approvato. Giusto e opportuno chiedersi, certamente lui stesso ci ha pensato, quante delle sue posizioni sociali e più propriamente politiche, largamente progressiste, continueranno a influenzare le valutazioni e le prassi della chiesa cattolica. Nel conclave prossimo venturo centootto dei centotrentacinque cardinali che hanno diritto di voto sono stati nominati da lui. Una qualche affinità di idee e condivisione di priorità e obiettivi, peraltro non posta come precondizione della nomina, è abbastanza, ma quanto?, probabile. Quei cardinali continueranno la ricerca della pace, giusta duratura, la difesa dell’ambiente, la riduzione della povertà e della marginalità? Quante di queste tematiche rimarranno priorità della chiesa cattolica? Solo così il lascito del pontificato di Francesco sarà fermento di crescita culturale, morale e politica, della vita nelle comunità. *Accademico dei Lincei La battaglia di Francesco (persa) contro il cattivismo di Luca Bottura La Stampa, 23 aprile 2025 “Non c’è nulla di più cattolico che morire il lunedì dell’Angelo per non rubare la scena al Signore il giorno di Pasqua”. Così Jimmy Kimmel, il più popolare conduttore americano di Late Show, nella puntata di ieri. A seguire, una serie di battute su JD Vance, tra cui questa: “Dopo aver incontrato il Papa, Vance ha twittato che avrebbe pregato per la sua salute. Ora sappiamo che è scarso anche in quello”. Le avesse fatte in Italia, sarebbe partita una discreta lapidazione. Ma non è questo il punto: siamo un Paese bigotto e qualunquista, che si indigna per tutto quasi sempre a casaccio, con logiche tribali e/o per puro amichettismo personale. Tutto normale. Il punto è che a scagliare più di una pietra sarebbero stati in massima parte quelli che, per tutto il Pontificato di Francesco, hanno trattato Sua Santità come una specie di Lenin travisato, un nemico dell’identità occidentale, un eretico che - oddio - predicava il Vangelo in tutti i suoi punti. Soprattutto quelli sulla compassione, la solidarietà, la fratellanza. Gli stessi che ieri sui social hanno rivendicato senza un briciolo di vergogna la comunanza col Santo Padre: i Vannacci, le Santanchè, i Salvini, i Malan, il circo meloniano che è appena riuscito nel suo più grande trionfo: proclamare il 25 aprile lutto nazionale. Eppure non è sempre stato così. Appena eletto, lo straordinario carisma di Jorge Maria Bergoglio scintillava come una girandola di Carnevale sulla consapevole bruma da Sant’Uffizio di Benedetto. Ora: se sei cattolico, il Papa è infallibile. Quindi ti vanno bene tutti, devono andarti bene. Che siano Giovanni XXIII o Pio XII. Persino i Borgia, per dire. Ma noi senza Dio, che alla fede sostituiamo la condivisione di valori, noi che siamo fuori dal club ma ne apprezziamo diverse regole, non tutte, quelle sull’aborto da esempio no… noi, quasi istintivamente, preferiamo chi costruisce ponti invece che abbatterli. Non so se ricordate “Il mio Papa”. Fu un settimanale patinato, frutto di quel clamoroso allargamento di fanbase - mi scuso per il termine - che fece di Francesco, per un amen, una specie di popstar. Uscito nel marzo di 11 anni fa, viaggiò lungamente sopra le 100.000 copie. Conteneva di tutto: c’era persino il cruciverba papale. Constava di edizioni in spagnolo, portoghese, filippino. Il Vescovo di Roma ne usciva come una specie di supereroe bonaccione, misericordioso, instancabile. Chiuse nel 2020, in epoca Covid. Ma a ucciderlo fu un altro virus: il cattivismo che ieri ci illude, oggi ci illude. Se Giovanni Paolo II lottò, vincendo, contro il comunismo (sulla pedofilia, va registrato qualche successo in meno), e Ratzinger contro il relativismo (pur relativizzandosi, a un certo punto, dal soglio di Pietro), Francesco ha dovuto combattere, purtroppo soccombendo, a un mondo che odia il prossimo suo come sé stesso. A spanne, molti di quelli che compravano Il mio Papa animati, anche, dalla speranza di un pianeta più giusto e pacificato, sono diventati nel frattempo guerrieri da tinello che si difendono da nemici immaginari. Insufflati da fuori. Per interesse. Politico, economico. Spesso entrambe le cose. “Il Papa degli Ultimi”, l’hanno definito ieri le aperture di addirittura tre testate nazionali. Ed è proprio questo che l’ha reso inviso ai cattolici da messa domenicale, cui aveva ricordato la necessità di abbinare affermazioni e prassi. Oggi, difendere gli ultimi scatena, spessissimo, a comando, il livore dei penultimi. Che godono dei migranti che affondano, convinti di aver assestato un bello sganassone al cosiddetto “woke”. Mentre i terzultimi mangiano loro in testa. E così via. Riuscite a immaginare qualcosa di più “woke” del figlio di Dio che si fa ammazzare per redimere l’umanità? In questa girandola di inconsapevolezza pelosa, che ci fotografa come meglio non si può, e ritrae al contempo le piaghe di un Occidente pasciuto cui questo Papa piaceva poco, emergono un paio di minuti televisivi emblematici. Raiuno, tarda mattinata: arriva la notizia che Francesco non c’è più. Poco dopo partirà l’edizione straordinaria. Ma è ancora in onda un programma che ogni giorno istruisce gli italiani alla paura, con storiacce di sangue e gossip in proporzione variabile. Rivedetelo. L’empito teatrale con cui la conduttrice comunica la dipartita del Papa è un cerchio che si chiude. Purtroppo, con noi dentro. Le parole dei leader politici per il Papa suonano falsissime: ai funerali sarà una fiera dell’ipocrisia di Riccardo Noury* Il Domani, 23 aprile 2025 Se su cento cose ne ha dette ottanta giuste, ha vinto per distacco enorme nei confronti dei principali leader politici e dei loro vassalli. Una delle cose che più mi ha impressionato nei giorni successivi alla morte di Papa Bergoglio è stata la voglia di sentirsi appartenenti alle sue parole da parte di persone e gruppi laici, agnostici, atei. Il motivo è semplice: Francesco ha usato parole del mondo, non solo della chiesa. Da Papa venuto dal Sud del mondo, ha parlato delle persone escluse, povere, estromesse dal lavoro e da prestazioni fondamentali come quelle sanitarie. Ha rivendicato dignità e diritti per le persone in carcere. Ha preso le parti delle persone che subiscono l’impatto spaventoso delle guerre: vi muoiono o ne fuggono, diventando migranti, richiedenti asilo e rifugiate. Ha denunciato l’irresponsabilità e il cinismo di chi vende armi, prosperando su quelle guerre. Dalla Striscia di Gaza all’ultimo dei conflitti dimenticati, non ha dimenticato niente e nessuno. Ha chiesto pace, ha detto no alla guerra. Ha aborrito gli ossimori. Non dimentico, certo, le parole contro gli omosessuali, contro i medici che praticano l’aborto e ovviamente contro le donne che cercano di esercitare quel diritto, il suo cadere nella trappola della inesistente “ideologia gender”. Ma, di fronte ai doppi standard, al cinismo, all’arroganza dei principali leader politici e dei loro vassalli, di fronte allo scempio che questi hanno fatto e stanno facendo della protezione internazionale dei diritti umani, del multilateralismo e della giustizia sovranazionale, Francesco ha fatto una figura da gigante. Se su cento cose ne ha dette ottanta giuste, ha vinto per distacco enorme nei confronti di chi a malapena di giuste ne ha dette sì e no dieci, a essere ottimisti. Per questo, le parole di cordoglio e di compianto di tanti leader politici oggi suonano falsissime: sono le parole di coloro che si barcamenano tra paci ingiuste e guerre giuste, che cercano di scaricare esseri umani lungo le sponde sud ed est del Mediterraneo o nelle carceri centramericane, che danno priorità al riarmo anziché a salute, scuola e lavoro, che plaudono per un mandato d’arresto internazionale ed esprimono disapprovazione per un altro. Alla fine verranno tutti a Roma, sabato. Sarà una convention di coccodrilli. Una fiera dell’ipocrisia. *Portavoce di Amnesty International Italia Terzo settore e Iva: tassa a danno del non profit senza vantaggi per lo Stato di Stefano Tassinari* Corriere della Sera, 23 aprile 2025 Dal 1° gennaio 2026 verrà meno l’esclusione Iva sui contributi supplementari versati dai soci per enti senza scopo di lucro. Dal 1° gennaio 2026, per bloccare una procedura d’infrazione europea, verrà meno l’esclusione Iva sui contributi supplementari versati dai soci a favore di associazioni senza scopo di lucro prive di natura commerciale, incluse quelle del Terzo settore. Tra queste vi sono le attività svolte con i propri soci sulle quali si regge larga parte della vita dell’associazionismo del Terzo settore, e per loro è solo prevista la mera esenzione dell’Iva e neanche su tutto. Lo Stato non incasserà un euro in più, mentre sarebbe un duro colpo a tanta coesione sociale. Per questo il 15 aprile abbiamo promosso assieme ad Arci, un evento per rilanciare la proposta del Forum del Terzo settore che, limitandosi appunto alle sole associazioni del Terzo settore, prevede l’esclusione dall’Iva solo per le attività senza diretta corrispondenza tra contributi versati dai soci e costi effettivi sostenuti, rispettando così le norme europee. Esclusione che per altro è concessa, senza limiti, ad altri enti non di Terzo settore. Come evidenziato dai responsabili di altre associazioni: gruppi scout, associazioni parrocchiali, centri giovanili, centri anziani, associazioni teatrali, gruppi sportivi e migliaia di altre esperienze non solo vengono gravate di adempimenti poco sostenibili, ma sono svilite, trattate come se fossero negozi o imprese e disconosciute nella loro identità di mutuo aiuto e partecipazione, riconosciuta dalla Riforma del Terzo settore, perché quei contributi riguardano una condivisione delle spese delle attività, e non una vendita di prestazioni o altro. Si genera valore, ma esclusivamente, come affermato tra gli altri dalla Responsabile nazionale all’Organizzazione dell’Agesci, Loredana Sasso, “un valore che è umano, sociale, ambientale, culturale”. Tanti parlamentari intervenuti, di maggioranza e opposizione, si sono impegnati a sostenere la proposta e il Governo, per voce del viceministro Bellucci, a trattarla concretamente. Non è una questione che si può affrontare con esenzioni (che sono le benvenute per altre situazioni rivolte a non soci). Per il diffuso valore sociale e solidale, radicato da tanto impegno gratuito nelle nostre comunità, va recuperata l’esclusione che rende ragione della natura mutuale, associativa, dell’essere e fare insieme associazione. *Responsabile nazionale Terzo settore Acli Referendum, il silenzio non è d’oro di Vincenzo Vita Il Manifesto, 23 aprile 2025 Si avvicina la scadenza del voto sui referendum: quattro sul lavoro e uno sulla cittadinanza. Silenzio pressoché totale dei media. Lasciamo stare, ovviamente, queste giornate, dedicate (non sempre bene e spesso con elogi di maniera da parte di chi non l’ha mai sopportato) alla scomparsa di Papa Francesco. Servirebbero approfondimenti rigorosi e lontani dalle retoriche farisaiche, che fanno di Bergoglio un santino e non una figura indigesta per guerrafondai e affaristi, dentro il tempio e pure fuori. Torniamo ai referendum. Si tratta di una scadenza fondamentale, perché tocca alcuni meccanismi determinanti della deriva neoliberista -licenziamenti illegittimi, tutele per i lavoratori delle piccole imprese, precariato, sicurezza sul lavoro- e dello spirito vessatorio contro i migranti. Se è vero che la commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai (2 aprile, in vigore dal 6) e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (8 aprile, in vigore dal 9) hanno emanato i rispettivi regolamenti che disciplinano le diverse forme di comunicazione, è altrettanto vero che la disciplina classica della par condicio poco si adatta alle caratteristiche dei referendum. In tale consultazione chi va a votare in gran parte si esprime per l’abrogazione di leggi e commi in questione, mentre è il raggiungimento del quorum richiesto ad essere il vero problema. Parliamo dei referendum abrogativi, mentre differente sarebbe il caso di quelli confermativi. Non a caso il segretario di +Europa Riccardo Magi ha immaginato un ricorso alla giustizia amministrativa contro le scelte regolamentari, proprio per sottolineare la necessità di privilegiare l’informazione sui quesiti rispetto alla mera conta cronometrica del Si e del No. Insomma, ben vengano le tribune elettorali, ma a poco servono se sono collocate in orari non centrali e se non vi è soprattutto una adeguata spiegazione di testi e contesti. Se, ad esempio, si riproducesse l’affluenza nelle cabine delle ultime consultazioni per il parlamento europeo, i referendum fallirebbero. Giustamente, il segretario della Cgil Maurizio Landini ha insistito e insiste proprio su tale nodo, l’altra faccia della posta in gioco generale. Del resto, i dati che si possono leggere sul sito della Rai raccolti dall’Osservatorio di Pavia sottolineano che il vulnus risiede nella carenza di attenzione e di racconto mediatico. Briciole di secondi dedicati ad argomenti concreti legati alla vita reale delle persone. Non va. Una correzione immediata diviene indispensabile, per non rendere l’apparato pubblico e privato complice di una violazione della Costituzione, che fa dei referendum un vero potere statuale. Non solo. La stessa routine dei talk andrebbe rivista, inserendo la scadenza dell’8 e 9 giugno tra le priorità dell’agenda e delle scalette. Naturalmente, le maglie strette della par condicio scatteranno nel cosiddetto periodo protetto, che di prassi è l’ultimo mese. A maggior ragione, quindi, nello spazio che precede e accompagna tribune e messaggi autogestiti (12 maggio) è cruciale che se ne parli. Bene o male non importa, ma che se ne discuta. Altrimenti non solo si perderà un’occasione di tale rilievo per l’universo del lavoro e per i migranti che vivono in Italia (il tempo per l’acquisizione della cittadinanza si dimezzerebbe da 10 a 5 anni), ma si darà un colpo letale allo stesso istituto referendario. E sembra che in simile direzione si orientino il governo e la maggioranza di destra, assai sensibili verso quello che getta sabbia nei motori dell’involuzione in corso. Quest’ultima scarta gli strumenti della rappresentanza e del voto consapevole, per dare spazio al premierato populista. Non casualmente, gli stessi partiti contrari hanno tardato a chiarire alla commissione di vigilanza i propri orientamenti, la cui assenza impedisce l’organizzazione dei confronti radiotelevisivi. Nella tendenza verso i lidi della cosiddetta democratura, attenzione a non sottovalutare la manomissione dell’istituto del referendum abrogativo con il boicottaggio del quorum. La partita si gioca subito, non nello scadenzario tradizionale della legge 28. Iran. Ahmadreza Djajali, da nove anni ostaggio di Riccardo Noury* Il Manifesto, 23 aprile 2025 Lo scienziato arrestato e condannato a morte per aver rifiutato di fare la spia per le autorità della Repubblica islamica. In un paese normale, sarebbe stato alla guida della risposta alla pandemia da Covid-19 o dei soccorsi a popolazioni terremotate o alluvionate. Purtroppo, Ahmadreza Djajali è nato in Iran e lì è stato arrestato il 25 aprile del 2016. A proposito di paesi normali, ha il passaporto svedese, ha lavorato presso università prestigiose di Svezia, Belgio e Italia (a Novara, dal 2012 al 2015 presso il Crimedim, il Centro di ricerca sulla Medicina dei disastri dell’Università del Piemonte orientale) ma nessuno governo dei tre paesi in questione ha fatto granché per lui. Djalali è uno degli ultimi ostaggi nelle mani delle autorità iraniane. Non possiamo che definirli così: persone innocenti incarcerate e, in alcuni casi, condannate (nel suo caso, all’impiccagione) per reati inesistenti e trattenuti fino a quando lo stato di origine non dà qualcosa in cambio: soldi, favori giudiziari o altro che non si sa. In questi anni molte persone con passaporto occidentale sono tornate a casa: statunitensi, francesi, inglesi, belghe, svedesi, italiane. Molte, ma non tutte. Il 30 ottobre scorso Jamshid Sharmahd, con passaporto tedesco, è stato messo a morte. Nel 2016, quando era già con moglie e figli a Stoccolma, Djajali accetta un invito a recarsi in Iran: un’occasione per rivedere parte della sua famiglia. Si rivela una trappola. Viene fermato il 25 aprile. Le autorità iraniane gli propongono di carpire, nella comunità scientifica internazionale che frequenta con successo, qualche segreto, possibilmente israeliano. Secca la sua risposta: “Sono uno scienziato, non una spia”. Lo urlerà a lungo, dapprima a chi lo interroga, poi ai suoi carcerieri, in seguito durante il processo, infine dal braccio della morte. Perché la vendetta è immediata: in neanche un anno, arriva la condanna definitiva alla pena capitale per “spionaggio verso un’entità ostile” (leggi: Israele). Amnesty International in Belgio, Italia e Svezia, avvia subito una campagna per chiedere l’annullamento della condanna e la scarcerazione. Le diplomazie di Roma e Bruxelles, cui capiterà a loro volta di dover gestire la situazione di connazionali in ostaggio a Teheran, affidano al governo svedese il compito di capo-fila del negoziato: Djalali ha passaporto svedese, dunque se la veda Stoccolma. Stoccolma se la vede, sì, ma molto male. Accetta la politica degli ostaggi iraniana e, nel giugno del 2024, ottiene il ritorno in patria di due suoi prigionieri: un funzionario dell’Unione europea e un cittadino in cattive condizioni di salute. In cambio torna in Iran Hamid Nouri, condannato in via definitiva all’ergastolo per il ruolo avuto nel massacro delle prigioni del 1988: appena finita la guerra con l’Iraq, il regime iraniano passò alla resa dei conti coi nemici interni, trucidando migliaia di detenuti politici. Djalali è escluso dallo scambio. Eppure, più volte le autorità giudiziarie di Teheran avevano annunciato la sua imminente esecuzione per imporre la trattativa. Perché a Stoccolma siano tornati due e non tre svedesi e quello rimasto in Iran fosse l’unico condannato a morte, non è noto. Quello che è noto è come sta Djalali alla vigilia del suo nono anno di carcere. Lo ha raccontato, ed è passato quasi un anno, Louis Arnaud, cittadino francese, ennesima pedina della politica degli ostaggi, scarcerato nel giugno 2024: “Quest’uomo è poco più che un’ombra, è magrissimo e molto pallido. Non c’è rimasto molto di lui”. Djalali è ormai ridotto pelle e ossa, ha problemi cardiaci, gastrite, ulcera e ha perso i denti. Che la sua situazione sia gravissima se n’è reso conto anche il governo svedese. Il 7 marzo il ministero degli Affari esteri di Stoccolma ha convocato l’ambasciatore iraniano chiedendo che Djalali sia scarcerato al più presto per motivi umanitari. Da allora è passato un mese e mezzo e non è cambiato nulla. La vita dell’ostaggio Ahmadreza Djajali, in attesa di essere scambiato con non si sa più chi o cosa, è appesa a un filo. Se non ci saranno a breve sviluppi positivi, il boia iraniano di turno rischia di non dover neanche scomodarsi a uscire di casa. *Portavoce di Amnesty International Italia Brasile. La lettura riduce la pena: il programma che aiuta i detenuti a redimersi Il Dubbio, 23 aprile 2025 Il programma “Remição pela Leitura” consente ai reclusi di scontare giorni di pena per ogni libro letto, con benefici anche per il reinserimento sociale. In Brasile, i detenuti possono ridurre la loro pena di quattro giorni per ogni libro letto e recensito, con una riduzione massima di 48 giorni all’anno. Il programma, chiamato “Remição pela Leitura” (“Redenzione attraverso la lettura”), è attivo da oltre dieci anni e offre uno spunto interessante per altri Paesi, come l’Italia, alle prese con il sovraffollamento carcerario e i suoi tragici effetti, come l’alto numero di suicidi nelle carceri. Secondo il programma, ogni libro preso in prestito e analizzato attraverso una relazione scritta consente al detenuto di ottenere un abbattimento della pena. Ogni anno, il detenuto può beneficiare di dodici libri, e il meccanismo premia la collaborazione e la riflessione, anziché concentrarsi esclusivamente sulla punizione. Questo sistema, che rispetta il principio di rieducazione della pena, ha visto numerosi successi, contribuendo alla diminuzione della recidiva e all’inclusione sociale dei detenuti. In Brasile, dove il tasso di recidiva supera l’80% e le carceri sono sovraffollate, la lettura ha assunto un ruolo cruciale nella vita dei detenuti. Chi partecipa al programma legge in media nove volte di più rispetto alla popolazione generale, e molti di loro non avevano mai aperto un libro prima della detenzione. Il funzionamento del programma è rigoroso: il detenuto deve scegliere un libro (narrativa, saggistica, poesia, evitando testi violenti) e, dopo averlo letto, scrivere una relazione che verrà valutata da una commissione. Se approvata, la pena viene ridotta di quattro giorni. Inoltre, il programma è stato adattato per includere audiolibri e testi in Braille, così da coinvolgere anche chi ha difficoltà visive o di alfabetizzazione. Le case editrici, come Carambaia, contribuiscono a dare visibilità alle migliori recensioni scritte dai detenuti, permettendo loro di mostrare la propria identità e, attraverso questo, aumentare l’autostima. Anche altri Paesi, come Kazakistan, Uzbekistan e Russia, stanno seguendo l’esempio del Brasile, con programmi simili. Il programma “Remição pela Leitura” potrebbe essere una soluzione ideale anche per l’Italia, dove la Costituzione stabilisce che la pena deve tendere alla “rieducazione del condannato” (art. 27, comma 3). In un sistema carcerario italiano che, come in Brasile, deve affrontare il sovraffollamento, l’adozione di misure rieducative potrebbe portare a significativi benefici per la società, riducendo la recidiva e migliorando la reintegrazione sociale dei detenuti. Un esempio positivo in Italia è il carcere di Bollate, dove il 16% dei detenuti recidivi è molto inferiore alla media nazionale, dimostrando che il reinserimento attraverso il lavoro e l’educazione può davvero fare la differenza. Il programma di lettura e lavoro in Brasile e a Bollate dimostra che l’investimento nella riabilitazione porta benefici concreti: meno crimine, minor costo per il sistema giudiziario e maggiore sicurezza per tutti. Come ha scritto Cesare Beccaria nel suo “Dei delitti e delle pene”, la pena non deve tormentare o affliggere, ma impedire al reo di danneggiare nuovamente la società, promuovendo la sua reintegrazione.