La missione del Papa in carcere: da spazio di punizione a luogo di redenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2025 In Vaticano ha abolito l’ergastolo, introdotto il reato di tortura. Ha condannato il populismo penale, rovesciato la logica della punizione e invitato a riconoscere l’umanità dietro le colpe. Se un’eredità brucia con forza nel pontificato di Papa Francesco appena volto al termine, è la sua crociata contro quell’indifferenza che trasforma le carceri in depositi di umanità dimenticata e il diritto penale in uno strumento di esclusione. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”: il monito del Vangelo di Matteo ha trovato in Bergoglio non un semplice eco, ma un “programma di governo”. Perché Francesco non si è limitato a citare le parole di Cristo - che, nel capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, condanna senza appello chi volta le spalle ai reietti - le ha fatte vibrare nelle celle di tutto il mondo. A soli quattro mesi dall’elezione, l’11 luglio 2013, il nuovo Papa stupiva il mondo varando una riforma penale senza precedenti. Nel cuore dello Stato più piccolo del mondo, aboliva l’ergastolo, introduceva il reato di tortura e sanciva il “giusto processo”. Un atto simbolico potentissimo: la Santa Sede diventava così un faro di civiltà giuridica, superando persino l’Italia - allora ancora priva di una legge sulla tortura e oggi, come ieri, inchiodata al dibattito sull’ergastolo. Fin dai primi anni del pontificato, Francesco ha plasmato la sua riflessione sulla giustizia attorno a due principi che brillano come fari in una notte di derive punitive: la cautela in poenam e il primatum principii pro homine. Davanti all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, nel 2014, li enunciò con la chiarezza di chi sa che il diritto può essere strumento di redenzione o di oppressione. Il primo principio - la cautela in poenam - ribalta la logica delle legislazioni moderne: la pena non deve essere la risposta automatica ai mali sociali, bensì l’ultimo baluardo, quando ogni altra via è fallita. Una verità scomoda in un’epoca in cui il carcere diventa sempre più una “soluzione preventiva”, un luogo dove rinchiudere non solo corpi, ma speranze. Il secondo - il primatum principii pro homine - è un monito a non dimenticare che dietro ogni reato c’è una persona, non un numero. Il diritto penale, per Francesco, deve chinarsi su quell’umanità ferita, non schiacciarla con il peso del castigo. Su queste basi, il Pontefice ha condannato senza ambiguità la pena di morte, le esecuzioni extragiudiziali (“spesso mascherate da fatalità”) e quelle condizioni di sovraffollamento carcerario che la Corte Europea dei Diritti Umani - in due sentenze storiche contro l’Italia (2009 e 2013) - non ha esitato a definire “trattamenti degradanti”. Ma è nella denuncia del populismo penale che papa Francesco ha scavato più a fondo, squarciando l’ipocrisia di chi trasforma il diritto in una clava. Rivolgendosi nel 2019 all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, il Pontefice tuonò contro la deriva perversa di chi vede nella pena “l’unica medicina per ogni male sociale” - una ricetta velenosa, che sostituisce alle politiche di inclusione la comodità del castigo. “Negli ultimi decenni”, spiegò con amarezza profetica, “si è creduto di curare malattie diverse con lo stesso farmaco: la repressione. Non è giustizia, è pigrizia. È la resa di chi preferisce fabbricare capri espiatori anziché costruire comunità”. Le sue parole non risparmiarono nessuno: “Non si tratta più solo di sacrificare vittime agli dei della paura, come nelle società primitive. Oggi si scolpiscono nemici di cartapesta - figure disumane, cariche di ogni minaccia - per giustificare leggi sempre più spietate”. Un meccanismo, denunciò Francesco, che trasforma “il diritto penale in un’arma per dividere”, e che “rinnega la sua anima: proteggere l’umano, non cancellarlo”. Ha smascherato, quindi, il populismo penale: è un inganno antico, ha ricordato il Pontefice, simile a quel meccanismo stereotipato che ha favorito, nel passato, l’espansione delle ideologie razziste. Come ricorda Nessuno tocchi Caino, papa Francesco è “stato non solo un capo spirituale ma anche il Capo di Stato più attento allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti degli ultimi, i carcerati, che in comunione con Marco Pannella ha difeso e visitato fino all’ultimo respiro in quell’opera cristiana di misericordia corporale, “visitare i carcerati”, a cui noi di Nessuno tocchi Caino laicamente e incessantemente cerchiamo di dare corpo”. Rivolgendosi ai detenuti, amava ripetere: “Nessuno può toccarvi la dignità”. E quando nel 2016 lavò i piedi a 12 carcerati - tra cui una donna musulmana - quel gesto diventò un manifesto: lo Stato non deve spegnere la scintilla divina in ogni essere umano, neppure dietro le sbarre. Il 26 dicembre del 2024 ha aperto la Porta Santa del carcere di Rebibbia, nel corso del Giubileo della Speranza 2025. L’ultimo suo atto, quattro giorni prima di morire, è stato quello di aver visitato il carcere romano di Regina Coeli. “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo, la lavanda dei piedi, in carcere”, ha detto il Pontefice durante l’incontro con i detenuti, di varie nazionalità. Papa Francesco ci ha lasciato una sfida: trasformare il carcere da luogo di maledizione a spazio di redenzione. Non solo. In riferimento alla funzione della pena, sempre nell’audizione del 2019, ha proposto il passaggio da una giustizia basata sulla retribuzione a una giustizia basata sulla riparazione, il cui modello è l’icona evangelica del Samaritano: “senza pensare a perseguitare il colpevole perché si assuma le conseguenze del suo atto, assiste colui che è rimasto ferito gravemente sul ciglio della strada e si fa carico dei suoi bisogni”. E siamo alla giustizia riparativa. Dalla Porta Santa aperta Rebibbia all’ultima visita a Regina Coeli: l’impegno di Bergoglio per i detenuti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 aprile 2025 Il Pontefice ha battezzato i penitenziari come luoghi di culto: “Ogni volta che vengo mi chiedo: perché loro e non io”. L’apertura della porta del carcere di Rebibbia da parte di Francesco per celebrare l’inizio dell’Anno santo, subito dopo quella di San Pietro, ha trasformato in una basilica il penitenziario romano. E con esso tutte le prigioni del mondo, con il più sacro e solenne dei crismi. È come se il Papa avesse battezzato quei concentrati di sofferenza come luoghi di culto, potenziale riscatto e salvezza. Un gesto inedito che ha segnato in modo indelebile il pontificato che s’è appena concluso, e legato in maniera indissolubile questo Papa al destino dei detenuti: i diseredati forse più diseredati di tutti, perché marchiati con lo stigma della colpa (vera o presunta poco importa), condannati (o in attesa di giudizio) per crimini forse commessi o forse no. Segregati e dimenticati. Un simbolismo pieno di realismo e realtà, un po’ come quando lo stesso Francesco volle andare al largo di Lampedusa per gettare una corona di fiori nel mare dove erano morti (e hanno continuato a morire) tanti migranti ai quali è stato impedito di arrivare su un’altra sponda di mondo per cercare un futuro diverso e migliore. Quello era l’inizio del papato di Francesco; uno degli atti finali è stato - nemmeno quattro mesi dopo l’apertura della “Porta Santa di Rebibbia” - tornare in una galera, a Regina Coeli, per la lavanda dei piedi, lo scorso giovedì santo. Senza più le forze per farla personalmente, com’era avvenuto nel 2024 in un istituto femminile e nel 2023 in uno per minorenni, ma con la stessa volontà di riaffermare il suo rapporto speciale con i reclusi e un principio generale. Riassunto in quella frase pronunciata all’uscita, con voce flebile ma ugualmente forte: “Ogni volta che vengo mi chiedo perché loro e non io”. Una domanda lanciata a tutti per dire che al di là dei reati, dei giudizi e delle condanne c’è - deve esserci - una visione superiore, divina ma non distante dagli uomini, che considera i detenuti parte integrante del mondo che li tiene separati. Una domanda che richiama responsabilità pubbliche e collettive per i diritti negati a persone abbandonate a se stesse: i reclusi, ma anche gli agenti penitenziari che sono i primi (e troppo spesso gli unici) assistenti sociali chiamati a fronteggiare le situazioni di disagio. E poi gli operatori carcerari in genere, i volontari e tutti coloro che vivono dentro e intorno a quell’universo chiuso di cui papa Francesco ha sempre tentato di aprire le porte. Per mostrarlo a tutti e farlo diventare un pezzo di chiesa intesa come comunità. Con tutti i suoi problemi, primo fra tutti il sovraffollamento quasi cronico, che una classe politica sorda a un tema che non paga sul piano elettorale sembra incapace di gestire. A prescindere dal colore della coalizione di governo. È per questo che le parole di Francesco sul carcere sono quasi sempre cadute nel vuoto di chi per primo era chiamato ad ascoltarle, come del resto quelli di altri papi; basti pensare all’invocazione di un atto di clemenza lanciata da Giovanni Paolo II nel 2002 nell’aula di Montecitorio, raccolta solo parzialmente con un indulto varato quattro anni più tardi (con tempi e condizioni molto discutibili, per via di tutt’altre contingenze). La parola amnistia, che i detenuti romani scrivevano quasi ogni anno nei cuscini di fiori recapitati l’8 dicembre ai pontefici in occasione della cerimonia dell’Immacolata concezione, è rimasta invece - e continua a essere - impronunciabile per i politici. Tanto da lasciare senza seguito persino il messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che invitò il parlamento a prenderla in considerazione per fronteggiare la straordinaria emergenza carceraria. Era l’ottobre 2013, e Francesco era stato eletto Papa da pochi mesi. Aggiungendo subito la propria voce a quella di chi invocava dignità e diritti nelle carceri. Una voce che ha dato sostegno e speranza ai reclusi, e che adesso mancherà loro. Non a caso all’annuncio della sua morte è seguito subito il cordoglio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale e di associazioni come Antigone. Il cui presidente, Patrizio Gonella, ha auspicato che “in ricordo del Papa i governi, a partire da quello italiano, facciano proprio l’appello per un atto di clemenza per le persone detenute”. Auspicio di difficile realizzazione, come ben sapeva il papa che non c’è più. Ma senza stancarsi mai di ripeterlo. Ascoltatelo e varate l’indulto di Patrizio Gonnella* L’Unità, 22 aprile 2025 L’associazione Antigone si unisce al cordoglio per la morte di Papa Francesco. Uno degli ultimi impegni pubblici del Papa è stato lo scorso Giovedì Santo, quando si è recato al carcere di Regina Coeli per incontrare le persone detenute. Si tratta di un appuntamento che il Pontefice aveva rinnovato di anno in anno. “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo, la lavanda dei piedi, in carcere”, aveva detto il Papa. Durante il suo dicastero con frequenza ha manifestato preoccupazione per le condizioni di detenzione, chiedendo anche provvedimenti di clemenza per le persone detenute. Ribadendo questa richiesta e questa vicinanza anche con un gesto fortemente simbolico, aprendo una delle Porte Sante dell’anno giubilare nel carcere di Rebibbia. Auspichiamo che in ricordo del Papa i governi, a partire da quello italiano, facciano proprio l’appello per un atto di clemenza per le persone detenute. *Presidente Associazione Antigone Da oggi, senza Papa Francesco, le persone in carcere sono più sole di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2025 Come primo gesto del suo pontificato, nel marzo 2013 Papa Francesco decise di celebrare la messa del Giovedì Santo nel carcere minorile romano di Casal del Marmo. Papa Francesco ci ha lasciati. Da oggi siamo tutti più soli. Sicuramente lo sono le persone che vivono in carcere e quelle che intraprendono percorsi di migrazione, due categorie alle quali Francesco ha da sempre mostrato la più grande vicinanza. Come primo gesto del suo pontificato, solo due settimane dopo la elezione, nel marzo 2013 Papa Francesco decise di celebrare la messa del Giovedì Santo nel carcere minorile romano di Casal del Marmo. Voi ci siete, io vi ascolto, voi per me siete importanti: questo diceva con quel gesto ai ragazzi detenuti, gli stessi che oggi abitano i nostri istituti penali per minorenni abbandonati a loro stessi da una cultura escludente e punitiva che ha rinunciato al dialogo e all’inclusione sociale. L’estate successiva Francesco si recò a Lampedusa, dove parlò di convivenza pacifica e inclusiva tra italiani e migranti. Nell’epoca dei muri, delle frontiere, dei respingimenti e dei centri in Albania, non si è mai stancato di usare le sue parole più forti per predicare l’accoglienza verso chi arriva alle nostre coste. In quella stessa prima estate da Papa, il Pontefice scelse di introdurre il reato di tortura nell’ordinamento vaticano (quel reato che l’Italia ha impegnato oltre trent’anni per riconoscere) e di abolire la pena dell’ergastolo. Scelte impopolari, in un’epoca segnata dal populismo penale che chiede vendetta e intransigenza soprattutto per le categorie sociali più deboli. ?L’anno successivo, in un memorabile discorso alla delegazione internazionale dei penalisti, Francesco spiegava che contro le derive populiste “la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni”. Non vi è dubbio che Papa Francesco abbia reso fede al proprio nome di costruttore di ponti. Con il cuore e l’intelligenza, ha unito le sponde che troppo spesso ci dividono dalle varie forme di povertà sociale. Prima di morire è voluto tornare a Regina Coeli, accanto a coloro davanti ai quali non smetteva di sorprendersi e di domandarsi perché loro e non lui. Adesso ci si risparmino le lacrime di coccodrillo di chi lo ha sempre contraddetto nelle azioni politiche. E si raccolga invece la sua richiesta di un gesto di clemenza per le carceri e la situazione inumana in cui versano. Ciao Francesco, sei stato un amico, un compagno di viaggio, una speranza. Sei stato il punto più alto della politica mondiale. Ci mancherai per sempre. *Coordinatrice nazionale Associazione Antigone Errori giudiziari, ancora nessuna tutela per le vittime di Valentina Stella Il Dubbio, 22 aprile 2025 La maggioranza frena sulla Giornata per i “casi Tortora”. Accantonate per ora anche le proposte per garantire visibilità alle assoluzioni e riconoscere le responsabilità di chi sbaglia. Come da calendario d’Aula, giovedì 24 aprile la Camera proseguirà l’esame della proposta di legge per l’istituzione della giornata dedicata alle vittime degli errori giudiziari. Molto probabilmente la proposta tornerà in Commissione giustizia: manca la volontà della maggioranza e della premier Meloni di mandare avanti il provvedimento. Questo stop si inserisce all’interno di un elenco più lungo di mancate tutele per chi entra nel sistema giustizia e ne esce poi con le ossa rotte e di mancate responsabilità per chi in quel sistema ha sbagliato. Pensiamo a tutte quelle persone che da indagati o imputati vengono sbattuti sulle prime pagine dei giornali e nelle aperture dei tg e descritti come colpevoli, addirittura mostri prima ancora che arrivi una sentenza definitiva. Poi, quando finalmente viene proclamata l’assoluzione, tutti si dimenticano di quell’innocente messo alla gogna senza motivo. Proprio per questo due anni fa il deputato di Forza Italia Enrico Costa aveva presentato una proposta di legge in materia di pubblicità delle sentenze di assoluzione o proscioglimento che punta a potenziare le attribuzioni del Garante per la protezione dei dati personali affinché possa intervenire entro 48 ore se il direttore o il responsabile di una testata giornalistica, radiofonica, televisiva o online non dia notizia della sentenza assolutoria o di proscioglimento su richiesta dell’interessato nello stesso modo in cui è stata data notizia dell’indagine. Tuttavia la proposta non è stata ancora calendarizzata. Il ministero della Giustizia ha detto “no” anche all’altra proposta targata Costa, quella che prevede di trasmettere al titolare dell’azione disciplinare dei magistrati le pratiche in cui lo Stato risarcisce innocenti ingiustamente incarcerati. “Tutti spendono tante parole quando si verifica un’ingiusta detenzione, ma appena provi a introdurre una norma per andare a verificare se ci sono responsabilità, i magistrati di oggi in servizio, quelli fuori ruolo, quelli di ieri si coalizzano per rispedirla al mittente”, ci dice Costa, perché “sotto sotto, anche al ministero della Giustizia ritengono che gli errori giudiziari non esistono, che siano solo fisiologici effetti collaterali. Ahimè, neanche Bonafede è stato così protettivo”. “No” neanche all’emendamento alla riforma della Corte dei Conti che avrebbe introdotto la responsabilità erariale quando lo Stato paga le ingiuste detenzioni. “E prima ancora hanno pure demolito il fascicolo per la valutazione del magistrato, che portava gli errori ed i flop ad incidere sulle progressioni di carriera. Ahimè, queste proposte ce le siamo votate solo noi di Forza Italia, dagli altri partiti neanche un cenno. Però alla prima occasione tutti pronti a urlare che i magistrati che sbagliano non pagano mai. Su ogni provvedimento reitererò queste proposte. Magari cambieranno idea”, promette Costa. Ma l’elenco non termina qui. A dicembre 2024 il Consiglio dei Ministri diede il via libera allo “Schema di decreto legislativo riguardante la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” che andava a modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale: “Fermo quanto disposto dal comma 7, è vietata la pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Dunque è vietato pubblicare per intero o per estratto tutti quei provvedimenti che incidono sulla libertà personale ma anche quelli relativi alla libertà di determinazione nei rapporti familiari e sociali (divieto di espatrio, obbligo presentazione alla polizia giudiziaria, allontanamento casa familiare, eccetera). Ancora prima con l’approvazione del cosiddetto ddl Nordio “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare” si è previsto che “è sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni se non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Nonostante questo, come rilevato una interrogazione parlamentare presentata dallo stesso Costa al Ministro della Giustizia Nordio, e il cui iter ancora non si è concluso, sono stati pubblicati dai media “stralci testuali di ordinanze di custodia cautelare, ivi compreso il contenuto letterale di intercettazioni telefoniche contenute nell’ordinanza” riguardanti l’inchiesta della procura della Repubblica di Milano nei confronti di dirigenti o ex dirigenti del settore edilizia del comune meneghino. “La procura, in rispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, ha aperto un fascicolo per la violazione dell’articolo 684 del codice penale?” si è chiesto Costa. Ma negli ultimi giorni a sollecitare una critica sempre da parte del deputato di FI è l’inchiesta sul calcio scommesse: “C’è un ragazzo, Niccolò Fagioli, che ha sbagliato, ha pagato sul piano penale e su quello sportivo. Ora, a distanza di oltre un anno vengono morbosamente pubblicate le intercettazioni di quelle vicende ormai definite. Uno schifo assoluto”. Dobbiamo anche registrare che al momento nessun partito si è fatto avanti per depositare in Parlamento la proposta di legge “Zuncheddu ed altri” del Partito radicale, volta a garantire una provvisionale economica a chi alla fine di un processo è stato assolto. Non si farà nulla al momento anche per ridurre l’abuso della custodia cautelare, così come richiesto da una proposta del deputato forzista Tommaso Calderone. Per adesso, dunque, indagati, assolti e vittime di errori giudiziari restano senza tutele. Il diritto penale è laico, la giustizia riparativa vuole trasformarlo in un fatto morale di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 22 aprile 2025 Caro Direttore, di regola preferisco non replicare alle critiche, soprattutto quando non le ritengo condivisibili. Nel caso di Mimmo Passione, però, vorrei fare un’eccezione, non certo giustificata dalla persuasività del suo pensiero. È infatti la seconda volta, dopo un primo “attacco” scritto a quattro mani con Mitja Gialuz, che viene superato il limite della continenza verbale. Affermare che la mia argomentazione è “un’enormità e un’indecenza che si commenta da sola”, oppure accusarmi di essere un visionario stregonesco (Il Dubbio, 26 settembre 2023), sono espressioni che non tanto ledono la mia onorabilità, quanto non fanno onore a chi le ha scritte. Da tempo sostengo che la “conca riparativa” non sia il luogo fiabesco delle emozioni, dei nudi fatti, ma molto più prosaicamente un procedimento incidentale di risoluzione alternativa della questione penale, come attestano inconfutabilmente le previsioni di legge in tema di remissione di querela, circostanze attenuanti e sospensione condizionale della pena. La giustizia riparativa è stata pervicacemente incistata nel processo penale, non solo attraverso l’improvvida previsione dell’art. 129-bis c. p. p., per cui il pm e il giudice “inviano” d’ufficio dinanzi al mediatore, in guisa di pacco postale, il reo (res più che reus), ma anche dalle svariate decine di avvertimenti disseminati in tutto il codice di rito a perenne monito per l’imputato recalcitrante (exhortationes ad poenitentiam). Gli obiettivi dichiarati dall’art. 43 comma 2 d. lgs. n. 150 del 2022 sono il riconoscimento della vittima, attraverso la riparazione materiale e simbolica, la responsabilizzazione dell’imputato, che sottende la confessione e il pentimento, nonché la ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società) ossia il perdono stragiudiziale e collettivo subordinato a tangibili atti di contrizione. Questo è il programma delineato dal legislatore, ben lungi dalla mistica delle emozioni, intriso di una cultura europea vittimocentrica che non si cura della questione cognitiva e della presunzione d’innocenza, ma punta solo alla rielaborazione dell’agito delinquenziale e al perdono della persona offesa. Del resto, “si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima” (art. 12, c. 1, lett. a, dir. 2012/ 29/ UE). Ma torniamo al tavolo del mediatore per comprendere la pericolosa commistione fra diritto e morale. Non c’è nulla di più etico che indurre un presunto innocente ad assumersi la responsabilità per un reato e, al tempo stesso, distinguere, in un preciso ruolo, chi è stato costretto a soccombere all’altrui condotta. Assunzione di responsabilità e riconoscimento delle ragioni altrui, distinguere fra bene e male, delitto e perdono, sono categorie tipiche di un giudizio morale affidato “a un saggio mediatore - psicoanalista o parroco più che giurista - come tale attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto”, secondo la felice definizione di Bruno Cavallone. Rituale di espiazione che si celebra sotto lo sguardo torvo del “Tribunale del popolo”, composto addirittura dalle autorità di pubblica sicurezza, ma senza la presenza del difensore, ospite sgradito ed esplicitamente bandito. Se il reato è (mal) inteso quale rottura di un rapporto interindividuale che deve essere ricomposto, il carattere puramente penitenziale della giustizia riparativa è rappresentato in modo icastico dalla vittima surrogata, una specie di “inginocchiatoio” messo a disposizione dell’imputato nel caso in cui la vittima del reato non esista o non voglia partecipare al percorso riparativo. Pentirsi e pacificarsi con un estraneo che significato può avere, se non quello di un atto simbolico di contrizione intriso di una esasperata visione morale del reato? La laicità del diritto penale, tuttavia, è una conquista di civiltà alla quale non si può rinunciare senza avere ben presente che “la giustizia che insegue l’etica è espressione di uno stato autoritario”, come ha affermato in una recente intervista Margherita Cassano, fonte non certo sospetta di visoni stregonesche. I fautori del nuovo approccio non percepiscono nemmeno il rischio insito nella scelta ideologica di attribuire alla pena una diversa finalità riparativa. Corrompere il paradigma laico della rieducazione significa imporre al condannato manifestazioni di interesse e di sensibilità nei confronti della vittima o del suo surrogato, ossia un atteggiamento moralmente caratterizzato. L’alternativa irenica al giusto processo è solo una pericolosa illusione. Come si può accettare lo scenario che vede l’imputato senza difesa dinanzi al “sano sentimento” del popolo espresso dalle associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato (ad esempio, donne maltrattate e simili), dagli enti locali (magari governati da chi propugna la castrazione chimica), dalle autorità di pubblica sicurezza (ovviamente ispirate da dottrine efficientiste law and order) o dai servizi sociali (art. 45 d. lgs. n. 150 del 2022)? Il riferimento storico all’esperienza nazionalsocialista ha una sua logica pertinenza se si vuole denunciare il rischio che la versione “passionale” della giustizia riparativa contenga in sé il germe del sistema penale etico. Del resto, l’approccio emozionale e di comunità è quello che oggi invoca l’ergastolo aggravato per crudeltà. *Ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano Bicocca La scomunica dei mafiosi, il gesto pubblico del Papa in Calabria di Davide Imeneo* Corriere della Sera, 22 aprile 2025 Il 21 giugno 2014 Mario Bergoglio in visita pastorale in Calabria è intervenuto su una delle più brutali manifestazioni della ‘ndrangheta: l’assassinio del piccolo Cocò Campolongo. Nel giorno della sua morte la Calabria ricorda papa Francesco con gratitudine e commozione. Non solo per le sue parole di misericordia, non solo per l’attenzione agli ultimi, ma per un gesto che ha segnato una svolta epocale: la scomunica pubblica e inequivocabile ai mafiosi, pronunciata nel cuore del Meridione, a Cassano allo Ionio. Era il 21 giugno 2014, e Jorge Mario Bergoglio si trovava in visita pastorale in una Calabria ferita da una delle più brutali manifestazioni della ‘ndrangheta: l’assassinio del piccolo Cocò Campolongo, ucciso a tre anni e bruciato con il nonno in un’auto. A Cassano, il Papa incontrò i detenuti, i giovani, i malati, i poveri. Ma fu durante la Messa, celebrata davanti a migliaia di fedeli, che il suo grido risuonò con forza inaudita. “Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”. Una frase che fece il giro del mondo. Non si trattava di una mera denuncia, ma di un atto pastorale e teologico che sanciva la radicale incompatibilità tra Vangelo e criminalità organizzata. Per la prima volta un Papa, dal Sud dell’Italia, pronunciava in modo così diretto la parola “scomunica”, collocando la mafia fuori dal popolo di Dio. Quella presa di posizione - incisiva, profetica, irrevocabile - non fu un gesto isolato. Francesco proseguì nel suo pontificato favorendo un’azione di purificazione delle devozioni popolari, accolta poi dalle singole diocesi e dalle conferenze episcopali regionali. La ‘ndrangheta, così come altre organizzazioni mafiose, a volte aveva goduto di un’ambigua tolleranza. Con Cassano, tutto cambiò. Le parole di Francesco non furono solo un gesto comunicativo efficace, ma una vera e propria svolta nel magistero petrino, il completamento di un percorso iniziato da San Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, quando disse, rivolto ai mafiosi: “Un giorno verrà il giudizio di Dio!”. Se Wojty?a lanciò l’ultimo avvertimento, Francesco dichiarò la rottura: chi sceglie la mafia sceglie la morte spirituale. In quella stessa omelia, Francesco parlò della ‘ndrangheta come “adorazione del male e disprezzo del bene comune”, un culto idolatrico del potere e del denaro. Il messaggio era chiaro: non ci può essere spazio per ambiguità tra fede e criminalità. La Chiesa - anche grazie al magistero di Francesco - si è fatta “ospedale da campo” anche nel contrasto alla mafia, camminando accanto ai familiari delle vittime, sostenendo le cooperative che utilizzano beni confiscati alle mafie, educando i giovani alla legalità. Oggi, mentre la Chiesa universale piange la scomparsa del Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, la Calabria lo ricorda come colui che ha tracciato una linea netta tra il bene e il male, restituendo dignità al Vangelo. La scomunica dei mafiosi fu un gesto di sollievo verso un popolo schiacciato dalla paura, un’esortazione alla conversione, una difesa della fede autentica. Papa Francesco ha lasciato alla Chiesa - e all’Italia - un’eredità che non può essere ignorata: la profezia della verità, anche quando costa. *Direttore Avvenire di Calabria Violenza contro le donne: al via i corsi di recupero per uomini maltrattanti di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2025 È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che definisce criteri, modalità e linee guida per i corsi di recupero dei soggetti condannati per reati di violenza contro le donne e violenza domestica. Al via i corsi di recupero per uomini maltrattanti. È stato pubblicato, infatti, in Gazzetta Ufficiale il decreto del 22 gennaio 2025, del ministro della Giustizia di concerto con la ministra per la famiglia, che definisce criteri, modalità e linee guida per i percorsi di recupero destinati ai soggetti condannati per reati di violenza contro le donne e di violenza domestica. Codice Rosso Rafforzato: corsi di recupero uomini maltrattanti - A prevedere i suddetti percorsi di recupero è la legge n. 168/2023 (meglio nota come Codice Rosso Rafforzato) che ha modificato l’articolo 165, quinto comma, c.p., stabilendo che “nei casi di condanna per il delitto previsto dall’art. 575, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis, nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, 1° comma, numero 1, e 2° comma, la sospensione condizionale della pena è sempre subordinata alla partecipazione, con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati, accertati e valutati dal giudice, anche in relazione alle circostanze poste a fondamento del giudizio formulato ai sensi dell’art. 164”. Gli oneri derivanti dalla partecipazione ai corsi di recupero sono a carico del condannato. Corsi di recupero presso i Cuav - Soltanto i Cuav (Centri per uomini autori o potenziali autori di violenza) sono gli unici soggetti a poter svolgere i percorsi di recupero sempre che siano inseriti in elenchi gestiti da enti pubblici e locali, enti del servizio sanitario o del terzo settore. L’elenco dei CUAV accreditati è istituito e tenuto presso il ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. La domanda di accreditamento va inviata entro il 30 aprile di ogni anno, comprovando il possesso dei requisiti richiesti. Requisiti che sono piuttosto stringenti, sia strutturali che esperienziali, tra cui l’aver maturato comprovate esperienze e competenze professionali specifiche nei riguardi degli uomini autori di violenza sulle donne, requisiti formativi, registrazione presso il RUNTS, requisiti di onorabilità (dei soci, degli associati, degli amministratori, dei rappresentanti e dei responsabili). Il procedimento di accreditamento deve essere concluso entro trenta giorni dal ricevimento della domanda. Linee guida per lo svolgimento dei corsi di recupero - Tramite l’allegato A, parte integrante del decreto, sono state adottate anche le linee guida per lo svolgimento delle attività e dei programmi di recupero per gli uomini autori di violenza. Tra le previsioni, vi è innanzitutto il lavoro in rete dei CUAV che devono operare in modo integrato con la rete dei servizi socio-sanitari e assistenziali territoriali oltre che con la rete dei servizi anti-violenza. Le linee guida prevedono altresì che la valutazione iniziale dei soggetti, la predisposizione dei programmi, lo svolgimento e la valutazione dell’esito dei percorsi vengano svolte da equipe dedicate, multidisciplinari, costituite da professionisti/e adeguatamente e specificamente formati e aggiornati sul tema della violenza di genere e dell’intervento con gli autori. I percorsi di recupero devono, inoltre, essere strutturati in modo da consentire al giudice, all’atto dell’ammissione del condannato al beneficio della sospensione condizionale della pena, di definire la tipologia e la durata più idonee, anche tenendo conto del tipo di violenza commessa e delle esigenze del caso concreto. La richiesta di accesso al percorso deve essere avanzata al CUAV personalmente dall’interessato, anche congiuntamente al proprio difensore. A questo punto, il CUAV svolgerà i colloqui di valutazione iniziali al fine di verificare la sussistenza delle condizioni necessarie per lo svolgimento del percorso. Per garantire la sicurezza della vittima, viene esclusa qualsiasi tecnica di mediazione tra le parti ed evitato ogni eventuale contatto e, laddove necessario, ciò potrà avvenire unicamente tramite il rappresentante processuale o i servizi che hanno in carico la vittima stessa. Alla fine del percorso svolto, la valutazione finale (a cura dell’equipe), verificherà il raggiungimento degli obiettivi specifici definiti nel programma e sarà trasmessa all’UEPE. “In Ungheria carceri disumane”, pakistano resta in cella in Italia di Massimiliano Peggio La Stampa, 22 aprile 2025 Pakistano arrestato ad Asti era ricercato dalle autorità ungheresi. La corte d’Appello respinge la richiesta di estradizione. Le carceri di alta sicurezza dell’Ungheria non garantiscono i diritti fondamentali dei detenuti. Per questo motivo Muhammad Naveed, il pakistano trentenne arrestato lo scorso febbraio dalla Squadra Mobile con l’accusa di essere un trafficante internazionale di migranti, dovrà restare in Italia e non potrà essere consegnato alle autorità ungheresi. Così ha deciso la Corte d’Appello di Torino respingendo l’esecuzione del mandato di arresto internazionale europeo, accogliendo le istanze del suo legale, Jacopo Evangelista. Resterà comunque in carcere perché è accusato del tentato omicidio di un connazionale, un migrante in cerca di un passaggio per raggiungere la Spagna, gettato la notte del 24 novembre scorso dal balcone di un palazzo di via Guttuari 18, nel corso di un sequestro di persona a scopo estorsivo. Sbarre disumane. Come hanno insegnato il caso di Ilaria Salis e altre vicende processuali, le carceri ungheresi non rispetterebbero le condizioni di umanità. Questo il tasto su cui ha fatto leva il suo legale. Aspetti accolti dai giudici che, nel loro provvedimento, hanno fatto riferimento alle osservazioni sollevate dal Consiglio d’Europa, su “criticità attinenti al trattamento dei detenuti”, “maltrattamenti fisici, in particolare di stranieri immigrati”, “abuso fisico e verbale da parte del personale con manifestazioni di violenza fisica verso le persone ristrette e atteggiamenti razzisti nei confronti di soggetti stranieri”. Non solo: le autorità ungheresi, nonostante le richieste dei giudici italiani, non sono state in grado di comunicare il penitenziario di destinazione, impedendo “qualsiasi valutazione delle modalità di trattamento”. Elementi essenziali, secondo la corte, per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. In ogni caso le accuse mosse dalle autorità italiane sono molto più gravi di quelle contestate in Ungheria. Il sospetto è che l’uomo faccia parte di un’organizzazione internazionale che gestisce il traffico di esseri umani attraverso la tratta balcanica. Una rete criminale diffusa tra l’Asia e l’Europa che lucra sul flusso di migranti. Anche ricorrendo alla violenza. Come la vicenda avvenuta ad Asti, smascherata dalla polizia. Vittima un giovane di origine pakistana, Hammad, di passaggio in Italia, attirato in una trappola con la promessa di aiutarlo a raggiungere la sua destinazione. Ospitato nell’alloggio di via Guttuari, è stato aggredito nella notte e ricattato da Muhammad Naveed e da un complice: “Se non ci dai 15 mila euro ti gettiamo giù dalla finestra”. Non riuscendo ad ottenere quella somma, lo hanno preso per le gambe, messo a testa in giù e lanciato dal terzo piano. Dopo la caduta, il giovane non era strato soccorso ma spostato altrove per allontanare i sospetti. Poco dopo un passante lo aveva trovato e aveva chiamato il 118. Ricoverato in coma e con le ossa spezzate - Ricoverato in coma e con le ossa spezzate, Hammad era rimasto per giorni incosciente. Nei brevi momenti di lucidità era riuscito a fornire alcuni dettaglia sull’abitazione in cui era stato ospitato quella notte. Il suo caso era rimasto per settimane avvolto nel mistero: la svolta è arrivata quando la polizia ha ricevuto dall’Ungheria il mandato internazionale di arresto a carico Muhammad Naveed, rintracciato ad Asti. Ispezionando la sua abitazione, gli investigatori hanno riscontrato alcuni dettagli compatibili con il racconto del giovane. Da lì le indagini, che hanno portato al suo arresto per tentato omicidio. Codice della Strada: riforma Salvini sotto esame della Consulta Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2025 Anche il Tribunale di Pordenone ha sollevato la questione di costituzionalità sull’articolo 187 del codice. Il Tribunale di Pordenone ha mandato gli atti alla Corte costituzionale affinché si pronunci sulla correttezza della decisione - operata con la recente riforma del codice della strada (l. n. 177/2024) - di eliminare dall’articolo 187 (“Guida dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti”) il riferimento allo “stato di alterazione psico-fisica del conducente”. Il caso era relativo ad una signora fermata - alla Vigilia di Natale del 2024 - alla guida di un veicolo dopo aver assunto sostanze oppiacee in un momento precedente alle 24/72 ore rispetto all’incidente stradale. Su sollecitazione della stessa Procura, il Tribunale di Pordenone ha deciso di sollevare questione di legittimità costituzionale: secondo i giudici nella modifica legislativa ci sono vari profili di incostituzionalità. Secondo il tribunale sembra ‘manifestamente irragionevole e iniquo ritenere necessaria e sufficiente, ai fini della penale responsabilità, la mera positività del soggetto ad una determinata sostanza stupefacente, senza effettuare alcuna indagine sugli effetti di tale dato sulla capacità di guida’. Così facendo, infatti, ‘viene sanzionata penalmente anche la condotta del soggetto che, non riportando alcuna sintomatologia ricollegabile all’avvenuta assunzione, si pone alla guida senza provocare alcun pericolo di lesione all’incolumità stradale e la sicurezza dei suoi utenti. Tra i vari parametri costituzionali invocati dal Tribunale, spicca quello di “offensività”, il quale risulterebbe violato dalla logica punitiva - riscontrabile nella modifica legislativa - del cosiddetto ‘diritto penale d’autore’, teso più a sanzionare la disobbedienza in quanto tale che una condotta che abbia effettivamente creato un pericolo. Per il tribunale, sarebbero ravvisabili anche problemi di pura e semplice comprensione su quali siano i comportamenti sanzionati, non essendo state fornite ai cittadini ‘chiare indicazioni su come distinguere ciò che è lecito da ciò che è illecito’, con la conseguenza che ‘chi abbia assunto per qualsiasi ragione sostanze stupefacenti o psicotrope viene esposto ad uno stato di obiettiva e insuperabile incertezza circa la rilevanza penale della sua futura condotta di guida’. Anche perché, nella versione precedente, la necessità di accertare la sussistenza dello stato di alterazione psicofisica comportava l’onere, in capo al giudice, di accertare che la condotta del soggetto rappresentasse un pericolo. Roma. “Papa Francesco nel carcere di Regina Coeli tra i dimenticati” di Conchita Sannino La Repubblica, 22 aprile 2025 La direttrice del penitenziario romano visitato dal Pontefice cinque giorni fa: “Era molto sofferente eppure ha sorriso a ciascun detenuto: un segno per tutti noi”. “Era molto sofferente. Eppure ha sorriso a ciascuno dei detenuti, con la carrozzina è voluto passare in mezzo a loro. Si vedeva che quella visita era un ultimo segno, un commiato a loro e un messaggio per noi, per tutti”. Claudia Clementi è la direttrice del carcere di Regina Coeli. Ed è stata lei ad accogliere Francesco, di giovedì santo, nell’ultima visita compiuta fuori del Vaticano da un pontefice ormai consapevole di vivere i suoi ultimi giorni. È il Papa che a dicembre aveva varcato Rebibbia per il via (laico) all’Anno Santo: un penitenziario che diventa vera chiesa, luogo di offerta ma anche di speranza. Direttrice Clementi, lei c’era a Rebibbia, quattro mesi fa? “Sì, non l’avevo mai visto da vicino. Mi avvicinai, gli affidai l’auspicio: Santità, l’aspetto a Regina Coeli” E si aspettava di rivederlo, giovedì scorso? “No. È stata una visita totalmente a sorpresa, organizzata in pochissime ore. Pensi che siamo stati avvertiti direttamente dal Vaticano solo mercoledì. Con la raccomandazione che tutto sarebbe stato confermato di giovedì mattina … Si capiva che fisicamente doveva costargli, ma lui voleva tornare in carcere in mezzo ai detenuti. A ogni costo”. Francesco voleva stare da solo con loro: né ministri né politici... “Ci era stato comunicato il carattere privato, quasi intimo, di quella visita. Credo che la scelta di quel giorno corrispondesse al suo desiderio, messo in pratica negli anni precedenti, di celebrare la lavanda dei piedi proprio tra i detenuti. Stavolta le sue condizioni non lo consentivano ma era come se lo avesse fatto”. Come lo ha trovato? “Molto provato. Non aveva quasi voce, solo un filo esilissimo. Riusciva a dire poche parole. Eppure, allo stesso tempo, emanava una forza, una volontà estrema di essere in quel luogo, e soprattutto con chi è privato della libertà. Il suo corpo come significativa testimonianza, senza bisogno di parole”. E le persone detenute? “In settanta hanno partecipato al rito nella Rotonda, tutti scelti tra le varie sezioni. Si è recitato il padre nostro, lui ha impartito la benedizione. Mi ha colpito che ci avesse chiesto di lasciare lo spazio tra le varie file di sedie, voleva passare con la carrozzina, al loro fianco. Ognuno ha voluto omaggiarlo, con un pensiero, un oggettino. Lui ha donato loro un rosario, sorrideva, e poi passava quei foglietti ai collaboratori, un cenno per dire: conserviamo tutto”. E una volta fuori ha detto: “Ogni volta che vengo in carcere, mi chiedo: perché loro e non io”... “L’ho letta dopo, quella frase. Che dice tutto, o molto, del pontificato. Gli ultimi, i meno considerati in assoluto, sono i primi a cui dava importanza, il suo centro”. Eppure i suoi appelli, così come quelli del presidente Mattarella, per il destino dei detenuti, per la dignità delle loro condizioni, sembrano tutti caduti nel vuoto... “La sua parola e i suoi gesti ci interpellano tutti, questo è sicuro. Ci lascia un’eredità preziosa e una grande responsabilità”. Roma. Quando Papa Francesco venne a visitare il carcere di Casal del Marmo di Paola Severino La Repubblica, 22 aprile 2025 Il racconto dell’ex Ministro della Giustizia: “Si inginocchiò sul pavimento, rifiutando anche un cuscino. Aveva due scarpe grosse da contadino, un simbolo di rinuncia al potere terreno”. Ricordo bene la sera in cui Papa Francesco venne eletto: mi trovavo in via Arenula in uno degli ultimi giorni del mio mandato di Ministro della Giustizia e attraverso lo schermo della televisione vidi comparire, insieme a milioni di altre persone, quella immagine così iconica del nuovo Papa che si affacciava al balcone e salutava la folla in quel suo modo semplice e profondo, cui ci saremmo negli anni abituati, ma che ci disse subito tante cose, anche attraverso quegli occhi brillanti il cui messaggio arrivava sincero e diretto. In quello stesso momento sentii il grande desiderio di accompagnare il Papa a fare una visita al carcere. Sarebbe stato uno degli ultimi atti del mio mandato e uno dei primi del Santo Padre, ma certo non mi sembrava facile entrare in contatto con lui. Mi venne però l’idea di chiamare Marco Tarquinio, mio vecchio amico e direttore all’epoca del quotidiano l’Avvenire. Detto fatto, e poche ore dopo il Papa aveva deciso di venire a visitare il carcere minorile di Casal del Marmo il successivo giovedì santo e di fare la lavanda dei piedi a 12 giovani detenuti. Ma le sorprese non erano finite, perché Francesco si presentò all’appuntamento a bordo di una piccola utilitaria grigia, accompagnato da un disperato responsabile della sicurezza vaticana che ancora non aveva metabolizzato il nuovo corso delle trasferte papali. La cerimonia si svolse nella più grande commozione: uno dei ragazzi prescelti svenne addirittura per l’emozione, il Papa si inginocchiò sul pavimento, rifiutando anche il conforto di un cuscino e dalla sua tonaca spuntarono due scarpe grosse, più adatte ad un contadino che ad un Pontefice. Quelle scarpe diventarono subito il simbolo della sua rinuncia a tutto ciò che poteva ricordare anche vagamente il potere terreno. Ma quando si passò ai discorsi, subito dopo la liturgia, tutti comprendemmo la grandezza della sua missione: via i testi che entrambi avevamo scritto, si parlava solo a braccio e si puntava dritto all’anima di questi ragazzi, a loro volta presi da un turbamento non comune in giovani cui la vita aveva mostrato il volto più duro ed aggressivo. È stato così che ci siamo abituati ad un Papa sempre attento ai bisogni e al rispetto della dignità degli “ultimi” che simbolicamente ha voluto iniziare e concludere la sua grande missione con una visita al carcere. Quella che ha voluto realizzare qualche giorno fa a Regina Coeli, quando il peso della sua grave malattia lo avrebbe certamente sconsigliato, rappresenta uno dei punti più alti del suo testamento spirituale. Milano. I detenuti scrivono il loro grazie a Francesco: “Un giorno di sofferenza per noi” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 22 aprile 2025 Gli avevano scritto l’ultima volta due mesi fa, il giorno in cui era stato ricoverato e cioè poco prima di partire a loro volta per Roma dove dovevano cantare per lui al Giubileo degli Artisti. E ora, pochi minuti dopo la notizia della morte di papa Francesco, i detenuti del reparto La Nave di San Vittore hanno scritto di nuovo. “Oggi è un giorno di sofferenza per noi”. Comincia così la lettera di Salvatore dal reparto La Nave di San Vittore. Scritta di getto, neanche un’ora dopo la notizia. Bisogna sapere che di solito nei giorni festivi non sono previste attività particolari per le persone detenute. C’è la messa, per chi ha il permesso di uscire dalla cella. Ma per il resto poco o niente, in genere la giornata si consuma giocando a carte o guardando la tv. E appunto perché l’ha visto improvvisamente scritto in tv, a metà mattina, anche al reparto la Nave di San Vittore c’è stato uno che l’ha gridato per primo: “È morto il Papa”. E da una cella all’altra il grido è rimbalzato: il Papa, il Papa. La dottoressa Giuliana Negri di Asst Santi Paolo e Carlo, da cui il reparto è gestito, in quel momento è di turno. E lo sa molto bene anche lei quanto gli ospiti del reparto fossero affezionati a questo Papa. Per carità, tutti i detenuti d’Italia lo erano: primo pontefice nella storia a spalancare una porta santa del Giubileo dentro un carcere, la visita a Regina Coeli pochi giorni prima di morire, i ripetuti appelli contro il sovraffollamento... certo che lo amavano tutti. Ma qui alla Nave avevano un motivo in più: li aveva invitati a cantare per lui al Giubileo degli Artisti. Da Milano a Roma, con il loro coro. Tutto pronto, compresa l’autorizzazione dei giudici. Invece, due giorni prima, il ricovero. Gli avevano scritto anche allora. Lettere di vicinanza e di preghiera. E adesso, poco dopo quel grido lanciato da un compagno, Salvatore ha ripreso la penna in mano. “Ci è giunta la notizia - ha scritto a nome di tutti i detenuti del reparto - che il nostro Santo Padre ci ha lasciati ed è tornato alla casa del Signore. Negli ultimi mesi ha portato avanti il Suo ministero con fatica ma non ha mai voluto staccarsi dai propri fedeli e da tutti quanti stanno vivendo da emarginati e oppressi. Ci ha donato la Sua presenza nel giorno della Resurrezione insieme a Gesù rinato dalle tenebre della morte e con le Sue parole ha rinnovato l’invito alla Fede e alla Speranza, esortandoci a credere che “la speranza non delude” e che “Gesù morto e risorto è il cuore della nostra Fede”. Papa Francesco ha voluto lasciare la vita terrena nel giorno dell’Angelo è proprio come un Angelo si è librato e si è ricongiunto all’amore di Dio Padre. Veglia su di noi - con questa invocazione si conclude la lettera - e guidaci nella nostra vita nuova, condotta nel Tuo nome e nel nome del Signore”. Firmato: “I detenuti del reparto La Nave di San Vittore, Milano”. Torino. Detenuta invalida rimane in carcere nonostante due ordinanze, l’appello dei Radicali di Elisa Sola La Stampa, 22 aprile 2025 Rovasio, associazione Marco Pannella: “Manca un reparto psichiatrico per le donne, c’è solo per i maschi. Nessuna risposta dal Dap nonostante la nostra segnalazione”. Sta tutto il giorno, e anche la notte, rannicchiata sul lettino della sua cella. In silenzio. La testa rivolta verso il muro. Non dice una parola. La sua compagna di stanza, una detenuta che lavora per alcune ore, e che per il resto della giornata si prende cura di lei, dice: “Il problema non è se mangia o se beve. Perché quello lo fa. Il punto è che lei ha smesso di parlare. Si è chiusa completamente. Forse non ci riconosce nemmeno più”. Detenuta psichiatrica invalida da mesi in cella - Nella sezione femminile del carcere Lorusso e Cutugno il tempo sembra bloccato. Passano i giorni e le settimane. Ma lei, questa donna di 50 anni, detenuta psichiatrica invalida al 100 percento, è sempre lì. In una cella. Da quattro mesi. Dopo due ordinanze distinte, due scritte in tre mesi, nelle quali il tribunale di sorveglianza di Torino stabilisce che quella donna non debba stare lì. Ma in una comunità sanitaria. Mancanza di strutture sanitarie per detenuti psichiatrici - La direzione delle Vallette, e anche la direzione sanitaria del carcere, si sono attivati per cercarle un posto. “Ma non ce ne sono, al momento, nelle strutture sanitarie adatte ai pazienti psichiatrici come lei che devono finire di scontare una pena”, spiega Sergio Rovasio, presidente dell’associazione Marco Pannella. Visita dei radicali e denuncia delle condizioni - Domenica, insieme a una delegazione del partito radicale, con il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, Rovasio è andato a fare visita alle persone detenute. Il giro è partito dalla sezione femminile. “I problemi che ci segnalano le donne sono tanti - spiega Rovasio - a partire dal cibo, che è sempre lo stesso e a volte non buono. Mangiano spesso riso scotto o freddo. Le detenute ci raccontano anche che vivono con scarafaggi e muffe. Ma la questione più grave riguarda la sanità. Alle Vallette esiste una nuova struttura psichiatrica, ristrutturata da poco, ma c’è posto solo per i maschi”. Non esiste un motivo logico per spiegare questa disparità di trattamento. Pare che sia una questione di spazi. Reparto psichiatrico solo per uomini - Dopo che l’ex reparto Sestante, oggetto di una vecchia indagine della magistratura, era stato demolito, al Lorusso e Cutugno era stata costruita una nuova sezione psichiatrica, per 22 detenuti. Ma solo nella sezione maschile, come in precedenza. Nella sezione femminile gli spazi non sarebbero adeguati e abbastanza grandi per ospitare un reparto analogo. Inoltre, pesa la questione numerica. I detenuti maschi alle Vallette sono circa 1400, le femmine un centinaio. Gestione delle detenute psichiatriche - Cosa succede quando alle Vallette arriva una detenuta con problemi psichiatrici? Se c’è posto, viene messa in una delle due stanze più vicine ai posti di guardia. Sono celle dedicate per le detenute psichiatriche. Se il posto non c’è, va in una cella comune. Il caso ignorato della detenuta invalida - Anche se sta male. E anche se in carcere non dovrebbe proprio stare. Come nel caso della donna di cui abbiamo scritto la scorsa settimana su La Stampa. “Abbiamo scritto più volte al Dap per segnalare l’assenza di una sezione femminile psichiatrica, ma non abbiamo mai ricevuto risposta”, precisa Rovasio. E aggiunge: “Ho visto la detenuta invalida. Le ho detto di essere forte. Di resistere e di mangiare. Lei mi ha guardato un attimo ma poi e si è buttata di nuovo sul cuscino. Non ha mai parlato. Temiamo per la salute di lei e delle persone come lei. In quel piano del carcere si era già suicidata una donna. E domenica la compagna di cella che l’aveva trovata ci ha raccontato tutta la scena. Dopo molto tempo è ancora sotto choc”. Sovraffollamento nella sezione femminile - Poi, c’è il problema del sovraffollamento. I radicali hanno contato, nella sezione femminile, posti per 85 persone. Ma sono 108 le detenute costrette attualmente a condividere spazi vecchi e stretti. Ci sono anche due bambini, in queste celle, insieme alle madri. Problemi strutturali nelle sezioni maschili - Domenica la delegazione dei radicali ha fatto visita anche ai detenuti delle sezioni maschili. In quella dove vivono i 45 detenuti studenti, su tre docce ne funziona solo una. Ma è solo uno dei problemi esistenti. Appello per la riforma del sistema carcerario - L’avvocato Luca Calabrò, che tutela la detenuta invalida, dice: “Al di là della situazione della mia assistita, bisogna ripensare l’intero sistema carcerario. Le strutture sono spesso fatiscenti e degradate, manca personale e mancano gli strumenti. In questo contesto non è possibile pensare al carcere come luogo per la riabilitazione del detenuto”. Bologna. Sindacati e Garante sui disordini al Pratello: “Sovraffollamento e poco personale” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 22 aprile 2025 Chiesto un incontro urgente al direttore dell’istituto minorile. “In occasione di recenti sopralluoghi e confronti con i ragazzi, la tensione era risultata palpabile”. “Situazione prevedibile”. Lo dicono in tanti nei giorni immediatamente successivi alla rivolta che tra venerdì e sabato scorsi si è verificata al carcere minorile del Pratello. Ed è per questo che adesso chiedono conto ai vertici dell’amministrazione di quanto accaduto. A partire dal Garante per i detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, che ha già sollecitato un incontro urgente al direttore del Centro giustizia minorile di Bologna, Antonio Pappalardo. Tra i primi a sollevare perplessità su ciò che si poteva fare e non è stato fatto, il garante dei detenuti del Comune di Bologna, Antonio Ianniello, che poche ore dopo l’intervento dei reparti speciali, chiamati da Roma per ripristinare l’ordine interno all’istituto, ha spiegato come “in occasione di recenti sopralluoghi e confronti con i ragazzi, la tensione era risultata palpabile”. Nonostante questo “non si è comunque riusciti a porre in essere interventi adeguati proprio per stemperare tale clima al fine di prevenire la degenerazione della situazione sino ai fatti gravi accaduti”. Ianniello ricorda che “i numeri dei ragazzi presenti sono ormai al di sopra della capienza regolamentare (40) senza alcuna soluzione di continuità (sempre intorno ai 50 le presenze). Per il garante “senza numeri che siano davvero sostenibili il sistema della giustizia minorile perde la sua specificità e si deteriora, riducendosi alla coatta riproduzione di quanto già si registra nel contesto detentivo degli adulti, e così scivolando verso una lenta, misera e inaccettabile regressione”. Ancora più diretti Antonino Soletta e Salvatore Bianco della Fp-Cgil secondo cui “il sovraffollamento che la struttura vive da anni, sommata alla cronica carenza di personale, hanno innescato ciò che si temeva e che ha portato alla totale perdita di controllo della situazione da parte della direzione”. Per il sindacato della polizia penitenziaria “la scelta unilaterale adottata dal Dipartimento giustizia minorile di aprire il secondo piano della struttura si è rivelata fallimentare ed altamente rischiosa e, quanto accaduto lo certifica ampiamente, considerato che la rissa tra i detenuti ristretti sui due piani ha dato avvio ai disordini successivi”. Tra l’altro “l’apertura del padiglione per giovani adulti alla Dozza, non si è dimostrata una valida alternativa al sovraffollamento e neanche a evitare le prevaricazioni che si verificano sistematicamente tra minori e giovani adulti”. Infine “gestire due realtà così a distanza è evidentemente difficoltoso per la direzione ed il comandante”. Da qui per dire che, se le cose non cambieranno, la Fp-Cgil, assieme alle altre sigle della penitenziaria, non si siederà più al tavolo delle trattative con l’amministrazione. E che le cose non vadano bene neppure alla nuova sezione per giovani adulti della Dozza, lo dicono gli stessi detenuti. Non a caso cinque dei venti ragazzi della stessa sezione hanno presentato, tramite il garante Cavalieri, un ricorso al magistrato di sorveglianza per chiedere di essere spostati. Milano. La giustizia riparativa funziona: aumentano le richieste di incontri di Federica Zaniboni La Repubblica, 22 aprile 2025 Dal 2024 a oggi 128 casi in cui sono intervenuti i mediatori per mettere a confronto l’autore di un reato con la vittima dello stesso. Ecco come funziona. Novanta casi nel 2024 e 38 nei primi mesi del 2025. A Milano la giustizia riparativa entra anche nei fascicoli più delicati, in particolare in quelli di omicidio e violenza sessuale, con programmi costruiti su misura dagli esperti del centro del Comune. “In altre province arrivano spesso dinieghi perché le procedure di accreditamento delle strutture sono in ritardo. Questo Tribunale si è mosso in modo molto coraggioso”. Federica Brunelli, socia fondatrice della Cooperativa Dike - che da oltre vent’anni lavora nella risoluzione dei conflitti - è una dei 20 mediatori impegnati sul territorio. Figure che si occupano, in sostanza, di formulare i programmi, valutare la fattibilità dei percorsi e accompagnare passo dopo passo le persone coinvolte. Nel ruolo imparziale di “facilitatori del dialogo”, in tre partecipano poi agli incontri tra le vittime e gli autori di reato. Una possibilità regolamentata con la riforma Cartabia, alla quale si può accedere “in tutte le fasi del procedimento penale e per qualsiasi tipo di reato”. Come spiega Brunelli, le segnalazioni partono dall’autorità giudiziaria, che è la prima a dover autorizzare il percorso. Poi la palla passa al centro di giustizia riparativa, al quale viene chiesto innanzitutto di valutare la fattibilità. “Prevalentemente si tratta di reati contro la persona e contro il patrimonio. Ogni caso è a sé e i percorsi vengono definiti valutando storia per storia”. Nei mesi scorsi, racconta, ci sono stati casi di omicidio nei quali è stato possibile organizzare un incontro con i familiari della vittima. Qualora non ci fosse disponibilità, vengono individuate vittime di reati analoghi che abbiano interesse nel prendere parte a un programma. “Siamo molto attenti ad accostare le esperienze”, sottolinea. Con l’aumento delle denunce per i reati da codice rosso - in particolare violenza sessuale e stalking -, crescono anche le richieste di giustizia riparativa. “Spesso le vittime non se la sentono di incontrare il proprio aggressore, ma accettano di dialogare con un autore dello stesso reato. Accade quando c’è bisogno capire cosa passa per la testa di chi agisce in un certo modo”. La difficoltà, a volte, è individuare la vittima, “come nei procedimenti per spaccio di droga: lì si studiano dei programmi che prevedono il coinvolgimento della dimensione comunitaria. L’incontro, ad esempio, si può organizzare con una madre che non si sente tranquilla nel portare i propri figli al parco per via dei pusher. Oppure con il sindaco del Comune in cui è accaduto il fatto”. Può essere coinvolto, in sostanza, “chiunque si senta ferito in un qualche modo dal reato”. Non mancano poi i casi che riguardano i colletti bianchi, come quelli per truffa o bancarotta. “Ci è capitato di fare la mediazione non tanto con i creditori, quanto più con i dipendenti dell’impresa che patiscono gli effetti distruttivi del reato commesso dal loro capo. Ad esempio, una segretaria che viene interrogata perché portava gli assegni in banca: magari non ha colpe, ma nel frattempo attraversa una tempesta”. La mediazione, talvolta, può anche incontrare “dei limiti”. Succede con i maltrattamenti in famiglia, che prevedono una “violenza fisica e psicologica” sulla vittima. Il rischio, spiega Brunelli, “è che non si riescano a spezzare certe dinamiche” e che “la partecipazione all’incontro avvenga perché si è ancora legati a un rapporto di dominio”. Ancora più indispensabile, in quei casi, è valutare la tipologia di programma più adatto. Il centro milanese gestito da Dike tramite bando pubblico può contare su 17 mediatori della cooperativa e tre dipendenti pubblici. “Alla fine del percorso, ci si occupa di scrivere una relazione finale. Non vengono mai rivelati i contenuti dello scambio, ma si dà atto dell’esito riparativo raggiunto”. Milano. Giustizia riparativa, la storia di Daniel: “Ho rivisto dopo 7 anni il ragazzo che mi aggredì” di Federica Zaniboni La Repubblica, 22 aprile 2025 Il 24enne fu rapinato da tre giovani nel 2018: uno di loro ha chiesto la giustizia riparativa e così i due si sono incontrati in carcere. “Sono andato in carcere e ci siamo rivisti. Dopo tanto tempo, gli ho detto cosa ho provato durante l’aggressione”. Daniel, 24 anni, racconta così l’incontro con il suo rapinatore, avvenuto nella sala colloqui della casa circondariale di Monza. Per la prima volta dopo sette anni si è trovato faccia a faccia con lui, un ragazzo di qualche anno più grande e finito in cella per altri reati. Seduti al tavolo con loro anche tre mediatori. “Abbiamo parlato per due ore, mi ha raccontato la sua storia, ha detto che ai tempi aveva un po’ di problemi. Alla fine mi ha dato la mano e mi ha chiesto se potesse abbracciarmi”. Acconsentendo di partecipare al programma di giustizia riparativa, Daniel ha messo un punto a una storia iniziata quando aveva appena 17 anni. Una rapina finita con un pugno al volto e un trauma che si è portato dietro per anni. “È la sera di Halloween 2018 - ricorda - e sto tornando a casa col treno. La stazione è deserta. Mi si avvicinano tre ragazzi più grandi. Sono ubriachi, hanno in mano delle bottiglie. Uno di loro mi toglie il cappellino dalla testa, quando provo a reagire cerca di prendermi il cellulare”. Quando Daniel scende dal treno il gruppetto lo segue. “Uno di loro, quello più ubriaco, mi corre dietro e mi sferra un pugno. Poi, puntandomi contro una chiave, mi prendono il telefonino”. Daniel inizia a correre verso casa, “chiedendo aiuto a chiunque incontri, ma nessuno mi dà retta”. Una volta raggiunta l’abitazione e chiamata la polizia, Daniel e il padre tornano verso la stazione per cercare il gruppetto. “Li troviamo e nasce una piccola colluttazione. Io ho paura. Mio padre grida aiuto, arrivano gli agenti. Li portano in caserma e da allora non vengo a sapere più nulla per i sette anni successivi”. La svolta arriva quando l’aggressore finisce a processo per altri reati e Daniel viene chiamato a testimoniare. “Dopo l’udienza ricevo una telefonata dal centro di giustizia riparativa. Mi dicono che c’è la possibilità di fare questo percorso. All’inizio - ammette - sono molto scettico”. Ma dopo un primo incontro con i mediatori, durante il quale gli viene spiegato cosa accadrà e quali sono gli obiettivi del percorso, Daniel si convince: “Mi sono detto “tanto non ho nulla da perdere”. E magari riesco a capire il perché lo ha fatto”. Con questo stato d’animo, qualche mese dopo è stato accompagnato nel carcere di Monza, dove l’altro ragazzo è detenuto. “Non sapevo nemmeno io come avrei reagito”, racconta. “I mediatori sono stati molto d’aiuto, perché mi hanno spiegato che in qualsiasi momento, se non me la fossi sentita, avrei potuto tirarmi indietro e interrompere tutto”. Poi, l’incontro con il ragazzo. “Gli ho chiesto il perché. La sua unica risposta è stata che era ubriaco e aveva assunto sostanze. Ho capito che non c’era un vero motivo, era la sua routine”. In quelle due ore trascorse nella sala colloqui, l’uno di fronte all’altro, i ragazzi hanno ripercorso tutto dall’inizio. Le loro vite prima della rapina, durante e dopo. “Io gli ho detto quello che ho provato, che da allora ho perso tutta la sicurezza che avevo dentro di me, che non ho più avuto autostima”. Lui, a quel punto, sorprendentemente “mi ha incoraggiato. Mi ha fatto notare che loro erano in tre contro uno e che, anzi, ero stato coraggioso a cercare di reagire. Mi ha detto che ero piccolino e che non era colpa mia se non ero riuscito a fare nulla”. Parole importanti per Daniel, che per anni ha portato dentro di sé il peso di essersi sentito tanto vulnerabile. “È stato un incontro molto positivo. I mediatori ci hanno aiutato a esprimerci su ciò che pensavamo e a riflettere”, conclude. “Se l’ho perdonato? Quello no, mi sento ancora una vittima. Però adesso ho capito”. Torino. Misure alternative al carcere: 83 persone accompagnate al lavoro nel primo anno di Gabriele Farina quotidianopiemontese.it, 22 aprile 2025 L’iniziativa, finanziata dalla Regione Piemonte, si rivolge a persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Sedici nuovi posti di lavoro attivati, dieci corsi di formazione avviati, 21 persone inserite con successo nel mondo del lavoro autonomamente, 45 soggetti orientati nel percorso occupazionale e circa 150 imprese contattate, di cui 90 coinvolte stabilmente e 41 già disponibili ad assumere. Sono i risultati concreti raggiunti nel primo anno di attività del Progetto Impresa Accogliente, resi noti nel corso dell’Assemblea dei soci dell’associazione La Goccia di Lube, svoltasi nella sede di via Cottolengo 22 a Torino, presso l’Ufficio Pastorale Migranti. L’iniziativa, finanziata dalla Regione Piemonte, si rivolge a persone sottoposte a misure alternative alla detenzione - adulti e giovani - residenti a Torino e nell’hinterland. In totale sono 83 le persone prese in carico nel corso della prima annualità, tutte accompagnate in un percorso di reinserimento lavorativo attraverso azioni concrete e personalizzate. Il progetto è guidato dall’associazione La Goccia di Lube, Ente del Terzo Settore attivo da anni nell’ambito dell’inclusione sociale, in coordinamento con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e l’Ufficio Servizio Sociale Minorenni. Fondamentale il supporto delle 14 realtà del mondo economico torinese coinvolte in qualità di partner: cooperative, aziende profit e altri enti del territorio. L’assemblea ha rappresentato anche un momento di bilancio interno per l’associazione, con l’approvazione del rendiconto consuntivo 2024 e il rinnovo del consiglio direttivo, in gran parte riconfermato. Il Progetto Impresa Accogliente si conferma così una risposta concreta al bisogno di inclusione lavorativa per persone in situazioni di fragilità, contribuendo allo stesso tempo alla sicurezza e alla coesione sociale del territorio. L’eredità immensa del Papa della misericordia di Emiliano Fittipaldi Il Domani, 22 aprile 2025 Bergoglio ha imboccato la strada della radicalità. Un’onda mai cheta che ha travolto regole e consuetudini, stereotipi e certezze. Ha tenuto la sua rotta governando da monarca assoluto, seguendo sempre e solo il suo intuito. Negli ultimi 12 anni papa Francesco non è stato solo la guida spirituale dei cattolici. Amato, odiato, venerato e criticato, Bergoglio è stato un titano della scena sociale e politica mondiale: un papa ribelle, un prete venuto dai confini del mondo che ha rovesciato il Vaticano come un calzino, un vescovo “insubordinato” che ha rimesso nel cuore della sua pastorale le parole di Cristo. Per Francesco i poveri, gli ultimi e le periferie del mondo devono essere il vero, unico “centro” della missione della chiesa, che ha provato - a volte con efficacia, altre meno - a trascinare fuori da una crisi atavica. Crisi che ha il suo focolaio proprio in Europa e negli Stati Uniti, culle di quel cattolicesimo “romano” da cui Bergoglio ha preso le distanze fin dal primo giorno del pontificato. Ecco: non si può comprendere il senso del potente e caotico papato appena terminato se si dimentica l’origine traumatica della sua ascesa. Cioè le dimissioni storiche di Benedetto XVI, il teologo tedesco fiaccato dall’ingravescente aetate, ma soprattutto dagli scandali economici e della pedofilia che hanno travolto il suo breve regno. Il gesuita che sceglie a sorpresa il nome del poverello d’Assisi si è così caricato sulle sue spalle un’ecclesia devastata da lotte intestine e da una reputazione di organismo ormai marcio e decadente. Per la sua missione Bergoglio imbocca così la strada della radicalità: colpire con opere e parole la “corrotta curia romana” (polarizzando la differenza tra il “papa buono” e i “cardinali cattivi”) e basare il pontificato sulla strategia del “moto perpetuo”. Francesco è stato un’onda mai cheta che ha travolto regole e consuetudini, stereotipi e certezze, attraverso un movimentismo che spesso non ha avuto mete e obiettivi definiti, e che si è concentrato, oltre che sulle riforme - mancate - della burocrazia e della dottrina, soprattutto sulla postura da dare dalla sua nuova chiesa. Che per Francesco deve aprirsi a tutti, con l’obbligo evangelico di dialogare con chi è stato da sempre escluso, attuando appieno i dettami del Concilio Vaticano II. Il pontificato di Francesco ha creato speranze impensabili, aperto spiragli geopolitici (il viaggio a Cuba, lo storico incontro con Kirill, la fiducia malriposta nella Russia) spaccature profonde tra progressisti e conservatori, tensioni con molti episcopati nazionali, che hanno fatto ventilare ribellioni e scismi. Il papa ha tenuto la sua rotta governando da monarca assoluto, seguendo sempre e solo il suo intuito. Con un’attenzione primaria ai messaggi sociali, religiosi e culturali da veicolare ai media, che ha gonfiato con un profluvio di interviste, apparizioni tv, libri, motu propri, che rendono il pontificato appena finito uno dei più complessi e contraddittori della storia contemporanea. Per capire davvero il peso dell’eredità di Francesco servirà dunque tempo e la giusta distanza, ma nessuno potrà mai dubitare della grandezza e del coraggio di chi ha tentato, con tutta la sua forza, di rimettere il sentimento della misericordia al centro di ogni cosa. Migranti, poveri, detenuti: le battaglie della Chiesa di Francesco di Don Luigi Ciotti La Stampa, 22 aprile 2025 Gli esseri umani gli stavano a cuore più di certe rigidità dottrinali. Mi addolora che alcuni che lo celebrano in morte non lo abbiano ascoltato da vivo. Papa Francesco ha spalancato le porte della Chiesa, l’ha voluta aperta come il sepolcro di Cristo nel giorno della Resurrezione. Non credo sia un caso se il Padre l’ha chiamato a sé proprio in questo giorno così carico di significato. “Non cercate tra i morti colui che è vivo”, dice l’Angelo alle donne venute a onorare il corpo di Gesù. E Francesco ci ha sempre spronato a costruire una Chiesa più viva, più consapevole, più in relazione col mondo. “Una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade”. È proprio in questa dimensione della strada che ci siamo incontrati. La strada come luogo di domande, di verifica del nostro sapere e persino del nostro credere, dove l’astrazione si misura e talvolta si scontra con il concreto della vita. Spesso il Papa ha dimostrato che la vita degli esseri umani, con le loro fragilità e contraddizioni, gli stava a cuore più di certe rigidità dottrinali. Ha amato i poveri, gli ultimi, i diseredati, i maltrattati del pianeta, e ha messo in guardia questo nostro mondo sempre più diseguale sui rischi che tutti corriamo se abbandoniamo una parte dell’umanità all’ingiustizia. Ricordo con emozione la prima volta che ci siamo incontrati, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno del 2014. Lui aveva accettato di incontrare un migliaio di famigliari delle vittime innocenti delle mafie nella Chiesa di San Gregorio VII a Roma, regalando loro un incoraggiamento fraterno e sincero: “Preghiamo insieme, tutti quanti, per chiedere la forza di andare avanti, di continuare a lottare contro la corruzione”. Aveva però anche chiamato in causa “i grandi assenti”, “gli uomini e le donne mafiosi”. “Per favore, cambiate vita, convertitevi, fermatevi, smettete di fare il male! - aveva implorato -. Convertitevi, lo chiedo in ginocchio; è per il vostro bene. Ancora c’è tempo, per non finire all’inferno”. Parole altrettanto forti hanno segnato, più di recente, l’incontro con un gruppo di donne che stanno faticosamente rompendo il legame con le famiglie mafiose di origine. “Siete nate e cresciute in contesti inquinati dalla criminalità mafiosa, e avete deciso di uscirne. Benedico questa vostra scelta, e vi incoraggio ad andare avanti. Immagino che ci siano momenti di paura, di smarrimento... è normale. In questi momenti pensate al Signore Gesù che cammina al vostro fianco. Non siete sole, continuate a lottare”. Il suo messaggio si è sempre espresso in queste due forme: vicinanza a chi soffre e denuncia di ciò che causa la sofferenza. E una grande spinta a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per cambiare le cose. L’abbiamo sentita, questa spinta, anche quando ci ha accolti in Vaticano per il convegno sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie: un tema che non si pensava potesse rientrare fra gli interessi della Chiesa, e che lui ha invece sentito importante nella sua concretezza e capacità di incidere nel contrasto al male e nella ricostruzione del bene comune. Oggi leggiamo e ascoltiamo molte parole di cordoglio, anche da parte di persone “in vista”, con responsabilità ai vertici dell’economia e della politica. È un bel segnale. Ma suscita invece dolore constatare che alcuni di coloro che lo celebrano in morte, non hanno mai raccolto le sue raccomandazioni da vivo! Anzi hanno fatto scelte del tutto opposte, non solo alle parole del Papa, ma anche alla Parola evangelica di cui Francesco è stato puntualissimo interprete. Questa incoerenza si smaschera facilmente se pensiamo ad alcuni temi in particolare, primo fra tutti quello delle migrazioni. “Deportare le persone lede la dignità umana”, aveva scritto pochi giorni prima di essere ricoverato, come reazione ai migranti in catene negli Stati Uniti, ma anche a quelli sballottati da una costa all’altra del Mediterraneo, nel tragico tentativo di “spostare altrove” problemi che sono in realtà volti, nomi, corpi e speranze umane. Pensiamo a un altro argomento scomodo, quello delle carceri. Papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa del Giubileo nella Chiesa del carcere di Rebibbia, mentre la vigilia di Pasqua si è recato nel carcere di Regina Coeli. “La reclusione - ha detto - non è lo stesso di un’esclusione, dev’essere parte di un cammino di reinserimento nella società”. Nessun appello per l’indulto o l’amnistia ha però mai trovato ascolto. E che dire dell’ambiente o delle ingiustizie sociali? Il monito a una “conversione ecologica” è stato costantemente ignorato: troppo difficile rovesciare i nostri stili di produzione e consumo. Troppi privilegi messi a rischio da una concezione nuova dell’economia come strumento al servizio delle persone, quando masse di persone senza tutele oggi invece “servono” all’arricchimento di pochi. I poveri, che Papa Francesco aveva più di tutti nel cuore, sono ancora tanti, e immensamente poveri. Le guerre, contro le quali ha tuonato - è davvero il caso di dirlo - fino all’ultimo respiro, non concedono respiro ai popoli martoriati. Privati della sua guida, dobbiamo cedere alla disperazione? No, perché il lutto che viviamo porta in sé il segno della speranza e della Resurrezione. “La speranza non delude” è l’esortazione scelta per l’anno giubilare, e oggi più che mai Papa Francesco ci chiede di non deludere chi ancora ripone speranza nel nostro impegno. Glielo dobbiamo, e lo dobbiamo a noi stessi, di tenere il suo passo, e la sua strada. L’Ue ha alzato i muri per i migranti: così è stato svuotato il diritto d’asilo di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 22 aprile 2025 Dal 2003 i governi teorizzano il protocollo Italia-Albania. Ora l’esecutivo europeo accelera le tappe. Da Bruxelles viene lanciato un messaggio chiaro: il diritto alla protezione internazionale è selettivo. “Una possibilità potrebbe essere quella di istituire zone protette nei paesi terzi, dove chi arriva negli stati membri e chiede asilo potrebbe essere trasferito per l’esame della sua richiesta”. Ventidue anni fa un documento gettava le basi dell’attuale approccio europeo alle politiche migratorie. Un testo che teorizzava una nuova modalità di gestione dei flussi attraverso la costruzione di centri di transito nei paesi extra Ue. Il progetto prevedeva il coinvolgimento di organizzazioni come Oim e Unhcr, e si proponeva di avere un effetto deterrente alla migrazione. L’idea è contenuta in una lettera del 10 marzo 2003 firmata dal premier britannico laburista Tony Blair e indirizzata al presidente di turno del Consiglio europeo, l’allora primo ministro greco Kostas Simitis. Il disegno immaginato da Blair è oggi diventato realtà con il protocollo Italia-Albania. Quella che la premier Giorgia Meloni definisce una soluzione innovativa non è altro che una tendenza europea che da vent’anni si sta affermando e che, “invece di regolare un fenomeno strettamente dipendente dall’economia, pone come prioritaria la dimensione della sicurezza a scapito della tutela dei diritti e delle libertà”. È così che Chiara Favilli, docente di diritto dell’Ue all’università di Firenze racconta il percorso intrapreso da Bruxelles. Un percorso che ha portato nel 2024 all’approvazione del Patto Ue per la migrazione e l’asilo, un pacchetto di riforme che comprime al massimo il diritto di asilo, senza però favorire canali di ingresso legali. Il Patto punta sull’applicazione generalizzata di procedure accelerate, l’aumento delle espulsioni e l’uso delle zone di frontiera in un regime detentivo per la valutazione della domanda. “Paesi sicuri” - Il 16 aprile l’esecutivo dell’Ue ha bruciato le tappe proponendo di anticipare alcuni elementi del Patto: le procedure accelerate per tutte le nazionalità con tassi di accoglimento delle domande di asilo inferiori al 20 per cento; la facoltà per gli stati membri di designare paesi sicuri. E proprio su questo la Commissione ha tracciato la via formalizzando una lista comune di paesi sicuri, includendo Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco e Tunisia, dove sabato sono state condannate per cospirazione 40 persone, tra oppositori e attivisti. “Un elenco evidentemente orientato verso la lista stilata dall’Italia”, nota Favilli, che definisce “grezzo” il testo presentato, con “nozioni che non hanno alcun tipo di pregnanza giuridica”. C’è di più, l’anticipazione dimostra che “l’attuazione del protocollo Italia-Albania non è possibile con la legislazione vigente”. Per la docente, c’è un’inversione di tendenza: la Commissione ha dimostrato sostegno alle politiche dei governi, abdicando al proprio ruolo di orientamento verso obiettivi comuni. L’approccio perseguito dalla presidente Ursula von der Leyen va in questa direzione. In carica dal 2019, per assicurarsi un secondo mandato, ha saputo interpretare l’onda a destra e fare della questione migratoria la sua strategia politica accelerando, prima delle elezioni europee, la firma di accordi con paesi terzi per esternalizzare le frontiere. La proposta della Commissione “assomiglia più a un messaggio politico che a una proposta normativa. Ed è uno strumento di legittimazione politica dell’intesa con l’Albania”, dice Salvatore Fachile, avvocato e socio di Asgi. “La proposta sminuisce il ruolo della Corte di giustizia Ue, chiamata a una decisione che in Italia ha assunto una dimensione politico-normativa enorme”, spiega Fachile. “Si dà un segnale sul fatto che non ci saranno margini di discussione su questi temi”, sulla scia di quanto sta accadendo in Italia, dove alle sentenze dei giudici che non hanno convalidato i trattenimenti in Albania il governo ha risposto con uno scontro tra poteri. La pronuncia della Corte è attesa entro l’estate. “Potrebbe introdurre un principio utile anche in vista delle modifiche e, nonostante le pressioni politiche, ribadire i limiti derivanti dai diritti fondamentali”, dice Favilli. La svolta securitaria - Dal 2003 in poi, ci sono state diverse proposte analoghe, scartate però per ragioni di opportunità o di convenienza, anche economica. “L’attentato alle Torri Gemelle ha condizionato la realizzazione delle politiche migratorie dell’Unione, che allora avevano appena preso avvio. È stato visibile in tutte le norme europee adottate, con un’ulteriore spinta dopo la crisi dei rifugiati tra il 2015 e il 2017”, spiega Favilli. L’anno chiave è stato il 2016, quando la Commissione ha presentato il Nuovo quadro giuridico di partenariato con i paesi terzi, aprendo a diverse forme di cooperazione, come l’accordo Italia-Libia del 2017 e i partenariati strategici più recenti. Anche l’intesa con l’Albania è una di queste e “la Commissione - sottolinea Favilli - sta facendo tutto quello che è nel suo potere per far sì che il Protocollo si realizzi”. La linea securitaria dell’Ue emerge anche nel linguaggio. “Dalla prima agenda europea del 2015, comincia a cambiare”, evidenzia Fachile, “la Commissione inizia a chiedere agli stati un atteggiamento sperimentale, irregolare. Ogni sei mesi aveva una sfumatura più aggressiva verso l’idea che gli stati hanno una supremazia anche sul rispetto delle norme”. Secondo l’avvocato il diritto di asilo è stato censurato invertendo la logica della regola e dell’eccezione. “Anche se formalmente il diritto di asilo non può essere abrogato, perché rappresenta un pilastro della democrazia occidentale moderna, nella pratica può essere svuotato prevedendo un numero di eccezioni così elevato da lasciare solo l’involucro”. L’approccio securitario di Bruxelles è dimostrato anche dal rafforzamento, anno su anno, dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere: il vero muro dell’Unione. Dal 2023 a oggi il budget a disposizione di Frontex è aumentato di oltre cento milioni l’anno. Nel 2023 era di 829 milioni di euro, diventati poi 922 milioni nel 2024 fino a superare la quota di un miliardo (1.1) nel 2025. Dieci anni fa era di circa 6,3 milioni di euro. Le prime tre voci del bilancio sono quelle relative al personale, all’acquisto degli equipaggiamenti militari per sorvegliare le frontiere terrestri e marine, e alle operazioni di rimpatrio. Queste nel 2024 hanno costituito il 23 per cento della spesa, 146,2 milioni di euro (67.8 milioni nel 2022). Solo lo 0,2 per cento del budget è destinato a questioni relative ai diritti umani, nonostante le accuse di coinvolgimento dell’agenzia nei respingimenti dei migranti. Dalla Spagna all’Ungheria - L’Italia non è l’unica ad aver contribuito a sgretolare il diritto all’asilo. Lo hanno fatto anche la Spagna, a Ceuta e Melilla, l’Ungheria al confine con la Serbia, la Grecia, coi respingimenti illegali alle frontiere. Il nostro paese è però quello che si è prestato all’operazione più spaventosa: “L’accordo con la Libia, con cui ha delegato alle milizie il compito di bloccare i richiedenti asilo applicando la legge libica”, ricorda Fachile. L’accordo Roma-Tirana è un altro tassello e l’ultimo decreto del governo, il 37/2025, che ha trasformato i centri in Albania in Cpr, “è un’apertura di orizzonte richiesta dalla Commissione”, spiega l’avvocato, “per giungere all’approvazione del nuovo regolamento rimpatri. Un percorso normo-sociale: far sì che una società digerisca un istituto per facilitare la sua approvazione normativa”. Per 25 anni l’Ue ha gestito la politica migratoria con un approccio difensivo e repressivo, trascurando la dimensione economica. Per Favilli, “ha mancato completamente il suo appuntamento con la storia e ha dimenticato che l’unica deterrenza all’immigrazione irregolare è quella regolare”. Migranti. Quelle migliaia di euro per espellere un bengalese senza permesso di soggiorno di Giacomo Puletti Il Dubbio, 22 aprile 2025 Polemiche sui costi dei Cpr in Albania Calenda: “Basta così, non funzionano”. I Centri in Albania “non funzionano”. È un ritornello ormai costante quello che arriva dalle opposizioni sulle strutture fatte costruire dal governo a Schengjin e Gjader e ormai trasferiti in Cpr. Ieri i centri sono tornati alle cronache per la storia di Fahim, venditore di rose bengalese la cui vicenda è stata citata anche dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Ma la storia è stata ripresa dalle opposizioni a dimostrazione del fallimento, dal loro punto di vista, del progetto di rimpatri che coinvolge l’Albania. “Quando lanciammo industria 4.0 per la prima volta presentammo obiettivi quantitativi per ognuna delle misure: quella sul venture capital non funzionò e non ebbi alcun problema ad ammetterlo e chiuderla - ha scritto il leader di Azione, Carlo Calenda, ripostando la notizia - Non comprendo, ma forse è la mentalità aziendale, perché in politica non si possa semplicemente dire: questa iniziativa non ha funzionato e la cambieremo. I centri in Albania non funzionano. Viceversa avremmo bisogno di più centri per i rimpatri in Italia. La soluzione appare dunque piuttosto lineare”. Ma facendo un passo indietro è utile ricordare la storia di Fahim, partendo proprio dal comunicato del Viminale. È il ministero dell’Interno infatti a dare la notizia del ritorno nel suo paese di un cittadino del Bangladesh, con il ministro Piantedosi che spiega: “Sarà il primo di molti”. Ma, spiega Repubblica, far fare al trattenuto quattro viaggi in una settimana è costato circa 6mila euro. Ovvero il doppio del costo medio di un rimpatrio. Quattro volte perché Fahim, che faceva il venditore di rose nei ristoranti di Roma, aveva qualche piccolo precedente penale ed era privo di permesso di soggiorno, era finito a Ponte Galeria dopo essere risultato irregolare durante un controllo. Non essendosi opposto all’espulsione, proprio quando avrebbe dovuto presentarsi davanti al giudice di pace, Fahim è stato trasferito prima a Brindisi e poi a Schengjin, in Albania. Lì è rimasto una settimana, poi è tornato in Italia e ha preso un volo per il Bangladesh. Dunque Fahim verrà ricordato come il primo rimpatriato dal Cpr albanese, ma non dall’Albania. Perché il protocollo firmato con Tirana non lo prevede e quindi per lui e per gli altri che seguiranno, resta comunque l’obbligo del rientro in Italia prima del volo di rimpatrio. Considerando che le misure di sicurezza previste per i trasferimenti degli immigrati da espellere prevedono la presenza di due poliziotti per ciascuno di loro, è evidente che i costi ulteriori dei viaggi vanno moltiplicati per tre ad ogni tratta. E dunque, un’espulsione che avrebbe potuto essere fatta direttamente dall’Italia al costo medio di un rimpatrio stimato dal Viminale in circa 2800 euro, ha visto aumentare la spesa dei viaggi da Roma a Brindisi prima e da Brindisi all’Albania andata e ritorno per tre persone. Possibili problemi per la strategia del governo arrivano dalla Corte di Appello di Roma, la quale ha stabilito che non può essere trattenuto nel Cpr in Albania lo straniero che, dopo il trasferimento della struttura, chiede la protezione internazionale. I giudici si sono pronunciati sul caso di un extracomunitario trasferito a Gjader lo scorso 11 aprile, dopo essere stato espulso dalla prefettura di Napoli il 31 marzo. Nel corso della sua permanenza del Cpr l’uomo ha manifestato la volontà di presentare la domanda di protezione internazionale, formalizzata il 17 aprile. Questo passo, secondo la Corte, fa sì che lo straniero debba rientrare in Italia. Considerato che chiunque oggi si trovi nei centri in Albania può fare richiesta d’asilo, il rischio è che il Cpr rimanga a breve di nuovo vuoto. Ma oltre alla questione Albania, le opposizioni alzano la voce anche su altre vicende, come quella che riguarda la Tunisia, dopo le condanne per oltre 40 oppositori accusati di aver cospirato contro lo Stato e il presidente Saied. “L’azzeramento dell’opposizione attraverso una giustizia pilotata dimostra quello che abbiamo sempre sostenuto - ha detto il segretario di Più Europa Riccardo Magi Saied è uno spietato dittatore e la Tunisia non può ricevere il riconoscimento automatico nella lista dei paesi sicuri: Meloni e Von der Leyen ne prendano atto”. Migranti. Dopo Gjader il Cpr di Bari. Domani l’udienza di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 aprile 2025 Chiedendo asilo ha mandato in tilt la nuova fase del protocollo: il trentenne marocchino è arrivato in Italia ma non è stato liberato. Se la Corte d’appello pugliese bocciasse questa prassi il governo sarebbe nei guai. Il trentenne marocchino che chiedendo asilo ha aperto una nuova crepa nel protocollo Roma-Tirana è stato trasferito a Bari. È sbarcato domenica. Nonostante la richiesta di convalida del suo trattenimento fosse stata respinta dalla Corte d’appello della capitale, però, non è tornato in libertà: è finito nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) del capoluogo pugliese. L’ipotesi più verosimile è che sia stato formalmente rilasciato e poi daccapo fermato e trattenuto sulla base di un nuovo provvedimento. Così domani comparirà di fronte alla Corte d’appello di Bari per una nuova udienza di convalida. Oggi gli avvocati analizzeranno tutte le carte per approfondire tutti i dettagli della vicenda. La prassi solleva diverse perplessità giuridiche, se il giudice dovesse ritenerla illegittima il guaio per il governo sarebbe doppio: significherebbe che con la richiesta di asilo presentata nel centro di Gjader i migranti non solo possono ottenere il rientro in Italia ma anche la libertà. Ripercorriamo la vicenda, anticipata su il manifesto di domenica. Venerdì 11 aprile H. A. è stato portato dal Cpr di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, a quello di Gjader, in Albania, insieme ad altre 39 persone. Sei giorni dopo ha fatto domanda di protezione internazionale. Il suo status giuridico è dunque cambiato: da cittadino straniero “irregolare” a richiedente asilo. In questi casi è necessaria una nuova richiesta di trattenimento che il questore della capitale, a cui la legge affida la responsabilità sui centri d’oltre Adriatico, ha presentato lo stesso giorno. Con il cambio di status giuridico questa non è finita davanti al giudice di pace, competente sugli “irregolari”, ma alla Corte d’appello, a cui il governo ha assegnato la materia della detenzione dei richiedenti asilo dopo averla sottratta alle sezioni specializzate in immigrazione del tribunale civile. Per l’Albania decide quella di Roma che, appunto, non ha convalidato. È venuto così alla luce un errore di sistema nel protocollo con Tirana. Questo consente la permanenza dei cittadini stranieri nei centri in Albania “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o rimpatrio”. Le seconde riguardano i migranti “irregolari”, le prime i richiedenti asilo mai entrati nel territorio nazionale: solo a loro si possono applicare le procedure di frontiera per l’esame della domanda di protezione. Se questa viene presentata nel Cpr di Gjader da parte di cittadini stranieri provenienti dall’Italia si apre un terzo caso che non è previsto dal testo dell’accordo internazionale. Dunque la detenzione non è possibile. L’utilizzo delle strutture d’oltre Adriatico è stato esteso anche ai migranti in situazione di irregolarità amministrativa con il decreto del 27 marzo. In base alla nuova normativa possono essere trasferite dall’Italia persone che non hanno mai chiesto asilo oppure che se lo sono visto rifiutare. Il cittadino marocchino rientra nella prima categoria. La situazione sarebbe stata in parte diversa per una “domanda reiterata”, avanzata dopo aver già ricevuto un diniego. Anche in questo caso, però, la procedura di esame della richiesta sarebbe stata diversa da quella definita “di frontiera”. Pure in questa circostanza, quindi, la detenzione in Albania esula dal protocollo. Resta da capire cosa accadrà a Gjader nei prossimi giorni. Se anche gli altri migranti decideranno di fare domanda d’asilo il centro si svuoterà un’altra volta. Potrebbe accadere comunque, ma sarebbe ancora più probabile se la Corte di appello di Bari liberasse H.A. A QUEL PUNTO la nuova fase dell’accordo con Tirana più che un gran pasticcio rappresenterebbe per il governo un vero e proprio boomerang. Rompiamo il silenzio sulle proteste in Turchia di Dario Nardella* Corriere della Sera, 22 aprile 2025 Un mese fa l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, segnale evidente della deriva autoritaria del Presidente Erdogan. Preoccupa il silenzio della comunità internazionale. Caro Direttore, è trascorso un mese dall’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, segnale evidente della deriva autoritaria del Presidente Erdogan contro ogni opposizione. Da allora le proteste non si sono fermate. Tra queste, la grande manifestazione di Maltepe a Istanbul, alla quale ho preso parte come delegato del Partito Socialista Europeo. La protesta è trasversale: giovani, famiglie, lavoratori, anziani, e tutte le principali formazioni politiche, dai kemalisti alla sinistra, marciano unite sotto lo slogan “diritto, legge, giustizia”. Proprio nei giorni scorsi si è aperto il processo a circa 100 dei manifestanti arrestati, tra cui otto giornalisti. Imamoglu, il candidato più temuto da Erdogan, è stato anche privato del titolo di laurea, necessario per la candidatura. È apparso una sola volta di fronte ai giudici nel carcere di massima sicurezza di Sliviri, dove alla nostra delegazione è stata negata la visita. Il suo staff mi riferisce che è in buone condizioni e fiducioso nella mobilitazione popolare. Una svolta in Turchia non è impossibile. Accanto all’opposizione del CHP, è il popolo turco a guidare la reazione: continua il boicottaggio dei prodotti vicini al governo e cresce il dissenso nonostante la repressione. La stampa è quasi del tutto silenziata, e il governo non rilascia notizie sulle centinaia di persone ancora detenute, tra cui avvocati e artisti. L’economia è in crisi: investitori in fuga, lira in caduta libera. Anche questo contribuisce a indebolire Erdogan. La posta in gioco va oltre. C’è in gioco il futuro democratico di un paese strategico per la NATO e cruciale per la stabilità del Mediterraneo e per la questione migratoria che riguarda l’Europa. Preoccupa, però, il silenzio della comunità internazionale. Nessuna condanna chiara dagli Usa di Trump, né dal Governo Meloni che, dopo la visita del Ministro Crosetto ad Ankara, ha confermato un vertice bilaterale con la Turchia a Roma. In quella sede l’Italia non potrà tacere di fronte a un paese che resta ufficialmente candidato all’ingresso nell’Ue. Ma è l’assenza di una voce forte dell’Europa a deludere. Non basta la cancellazione delle missioni della Commissione o il dibattito del Parlamento Europeo senza risoluzioni. Serve un’azione chiara, politica ed economica. Perché il futuro democratico della Turchia riguarda anche noi. *Europarlamentare Pd