In che mondo vogliamo vivere di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 21 aprile 2025 Questo comunicato oggi è stato ripreso integralmente dai quotidiani Il Dubbio e L’Unità. A proposito della ulteriore “chiusura nella chiusura” delle persone detenute in Alta Sicurezza. Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza. Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri in redazione Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, ‘mettere in piazza’ i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto ‘a pane e malavita’ guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io”. Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili. Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure, chi sta trasformando le carceri in luoghi di rabbia e degrado, non invidio chi non crede nella possibilità del cambiamento e vede intorno a sé solo nemici. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio e a guardare avanti e a dare fiducia agli esseri umani, anche quelli che ci sembrano i peggiori. Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ADESIONI I Volontari dell’Associazione Granello di senape Padova ODV Il Coordinamento Carcere Due Palazzi Padova condivide il forte messaggio di dolore e di fiera testimonianza della direttrice di Ristretti.(Granello di Senape ODV Padova/Ristretti Orizzonti, OCV Operatori Carcerari Volontari, OCV Bambini, Cooperativa sociale Giotto, Cooperativa sociale AltraCittà, Cooperativa sociale WorkCrossing, Cooperativa sociale Volontà di Sapere, Teatrocarcere Due Palazzi, Amici della Giotto, Coristi per caso, Matricola Zero, Momart, Pallalpiede, Progetto Jonathan VI, Scuola Edile, Ordine Avvocati Padova, Camera penale Padova Commissione carcere. Terzo Settore Padova. Attilio Favaro, Lucio di Gianantonio, Emmanuela Bortoliero, Concetta Fragasso, Chiara Coppo, Nicola Boscoletto, Gianluca Chiodo, Andrea Basso, Francesca Rapanà, Matteo Marchetto, Giovanni Todesco, Rossella Favero, Massimo Quadro, Antonella Pan, Alessandra Andreose, Alberto Danieli, Cristina Luca, Christine Rossi, Anna Maria Alborghetti, Paola Menaldo, Giulia Lanza, Anna Scarso, Armida Gaion, Silvia Giralucci, Donatella Galante, Adriana Da Rin, Giusy Seminara, Antonio Morossi, Maria Elda Muzzani, Angelo Ferrarini, Antonella Schiavon di ASF-Agronomi e Forestali Senza Frontiere. Biblioteca Tommaso Campanella Casa di reclusione di Padova/Operatori AltraCittà e Granello di Senape. (Marina Bolletti, Agnese Solero, Bruna Casol, Paola Ellero, Sandro Botticelli, Manuela Mezzacasa, Giovanna Guseo, Elena Contri, Rossella Favero) Adolfo Ceretti, docente Università di Milano-Bicocca Maura Gola, responsabile sociale coop.ve sociali presso Ethica onlus Marco Boato, deputato alla Camera per 5 legislature e senatore della Repubblica nella X legislatura Mauro Pescio. Attore, autore e podcaster Antigone Veneto Antonio Bincoletto, Garante delle persone private della libertà del Comune di Padova Luisa Ravagnani, Garante comunale di Brescia Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale e come Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale Guido Pietropoli, Garante del Comune di Rovigo Valentina Calderone, Garante di Roma Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Milano Elisabetta Burla, Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Graziella Bonomi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Mantova Angela Barbaglio, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Vicenza Giovanni Villari, Garante dei detenuti di Siracusa. Mariarosa Ponginebbi, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Piacenza Lucia Risicato, Garante dei detenuti del Comune di Messina Veronica Valenti, Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà personale Comune di Parma Alessandra Gaetani, Garante della C.C. di Como Raimonda Lobina, Garante delle persone private della libertà personale della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Marco Solimano, Garante del Comune di Livorno Tina Zaccato, Garante della C.C. “R. Sisca” di Castrovillari (Cs) Maria Mancarella, Garante Lecce Carlo Carlotto Paola Cigarini Maria Rosa Mondini Maria Luisa Marchetti Carla Chiappini Marina Mancin Paolo Colli Vignarelli Rita Cagnoni, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Andrea Pozza, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Massimo Paccagnella, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Davide Pettenella, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Sebastiano Bellato, presidente Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Casale sul Sile Florence Deray, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Casale sul Sile Tutti i soci de Il Granello di senape Venezia Maria Teresa Menotto - Venezia Isa Carrirolo Emilia Romagna. Se la politica si unisse per far visita ai disastrati Istituti di pena di Valter Vecellio* Il Dubbio, 21 aprile 2025 Sovraffollamento, violenze quotidiane e condizioni di vita al limite: la situazione nelle carceri dell’Emilia-Romagna è critica e richiede una riorganizzazione urgente. In Emilia-Romagna, nello spazio di pochi chilometri, li si trova (e si possono trovare) tutti: la segretaria del Partito democratico Elly Schlein; il presidente dello stesso partito Stefano Bonaccini; l’ex segretario Pierluigi Bersani e un “big” come Dario Franceschini; ci sono poi il presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi e un “padre nobile” come Romano Prodi… Pensa un po’ se si mettessero d’accordo per andare, tutti insieme a bussare ai portoni delle carceri emiliano- romagnole… Perché la situazione delle carceri è di “ordinaria” emergenza, ma nella regione “rossa” e progressista per antonomasia, pare lo sia di più. Il report annuale del Garante dei detenuti fotografa una situazione esplosiva. Per quel che riguarda risse e aggressioni, oltre 4mila episodi di allerta nel 2024, una rissa al giorno, tre agenti aggrediti a settimana e un tentativo di suicidio ogni trentatré ore: 267 nelle carceri in regione, di cui 56 a Bologna. Nell’ultimo anno 129 incendi, 796 danneggiamenti, più di 1.500 atti di autolesionismo. Sette detenuti che si sono suicidati. Bande di nazionalità diverse si fronteggiano a coltellate e sprangate, all’interno si spaccia e consuma alcool. È il sommario della relazione sulla situazione delle carceri in Emilia- Romagna firmato dal Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri. Nel carcere bolognese della Dozza ben 4.174 “eventi critici”; e si sono segnalati solo i più gravi: ferimenti, ritrovamenti di coltelli rudimentali, telefoni cellulari, droga. Quotidianamente gli agenti devono fare i conti con risse, intemperanze, aggressioni. Tra tutti, il problema del sovraffollamento: su 2.980 posti disponibili ci sono 3.500 detenuti; più in generale le celle sono contenitori di tutte le fragilità e violenze della società, discariche nelle quali sono ammassati anche disabili e detenuti con problemi psichici. Per il Garante, non bastano le tradizionali azioni degli istituti e dei territori sul fronte dei reinserimenti: il sistema va “radicalmente rivisto e riorganizzato e questo deve passare necessariamente dalla politica”. Come si diceva: pensa un po’ se Schlein, Bonaccini, Bersani, Franceschini, Zuppi, Prodi si mettessero d’accordo per andare, tutti insieme a bussare ai portoni delle carceri emiliano-romagnole. *Direttore di “Proposta Radicale” Roma. Suicidio a Rebibbia, protesta contro il sovraffollamento e le condizioni di detenzione di Armando Proietti gaeta.it, 21 aprile 2025 Un detenuto di 56 anni con fragilità psichiche si è suicidato nel carcere di Rebibbia a Roma, evidenziando gravi carenze nel sistema penitenziario italiano, tra sovraffollamento, mancanza di assistenza sanitaria e condizioni disumane, che hanno scatenato proteste interne e richieste di riforme urgenti. Questo episodio si inserisce in un contesto di emergenza, segnato da un alto numero di suicidi nelle carceri italiane: dall’inizio del 2024 sono 94 i casi registrati, di cui 29 solo in questo anno. La situazione ha scatenato una protesta all’interno della struttura, in particolare nei locali dell’infermeria. Le rivendicazioni messe in campo dai detenuti e dal personale sanitario sono principalmente rivolte a migliorare le condizioni di custodia e l’assistenza psichiatrica nelle carceri. Andrea Catarci, responsabile dell’Ufficio Giubileo delle Persone e Partecipazione di Roma Capitale, ha descritto la situazione come una forma di “barbarie quotidiana”, denunciando la scelta sistematica di mantenere il sovraffollamento e negare misure alternative alla detenzione. La protesta è un segnale di allarme sulle scelte politiche e giudiziarie che continuano a riempire le carceri senza affrontare le esigenze di tutela della salute e reinserimento sociale dei detenuti. Il 56enne trovato morto nel carcere di Rebibbia soffriva di disturbi psichici, problema diffuso tra la popolazione detenuta. Malgrado questa fragilità, non ha ricevuto l’assistenza medica adeguata e le attenzioni necessarie per prevenire situazioni di crisi. L’uomo si è impiccato alla porta della propria cella, un metodo tragicamente ricorrente tra i suicidi in carcere. La sua morte avviene in un contesto segnato da una pressione costante sulle strutture detentive, dove la presenza di persone con disturbi mentali spesso non viene gestita in maniera adeguata. Secondo i dati ufficiali, il numero di suicidi nelle carceri italiane nel 2024 ha superato quota 90, una cifra che rivela criticità profonde legate a sovraffollamento, mancanza di personale sanitario e carenza di programmi di supporto psicologico. A Rebibbia, la situazione è particolarmente florida per l’intensità e la gravità dei casi, come hanno evidenziato alcune recenti proteste interne, nate in seguito ai decessi e ai maltrattamenti percepiti dai detenuti. Il quadro sanitario carcerario richiederebbe interventi urgenti, perché si tratta di luoghi dove molte persone arrivano già in condizioni di vulnerabilità e rischiano di aggravare la loro salute a causa delle condizioni ambientali. L’assenza di cure e supporto contribuisce a incrementare il rischio di episodi drammatici come quello avvenuto a Rebibbia. La morte del detenuto ha dato nuovo impulso a una protesta già in corso nei locali dell’infermeria del carcere di Rebibbia. La protesta riflette il malessere di chi si trova in carcere e denuncia la mancanza di risposte concrete per i problemi sanitari e umani all’interno della struttura. I detenuti reclamano assistenza medica adeguata, condizioni di vita dignitose e il rispetto dei loro diritti fondamentali, inclusa la garanzia di un percorso di cura per chi soffre di disturbi mentali. Questi momenti di rivendicazione non riguardano solo la singola struttura, ma il sistema penitenziario nel suo insieme, che non riesce a ridurre il sovraffollamento né a fornire alternative alla detenzione per chi non rappresenta un pericolo. Le carceri sono spesso luoghi in cui si accumulano persone con condizioni complesse, ma senza percorsi di recupero o programmi di riabilitazione abbastanza sviluppati. Il personale infermieristico e sanitario, coinvolto nelle proteste, segnala inoltre difficoltà logistiche e carenze di organico che complicano l’offerta di cure continue. La protesta punta a mettere in evidenza una situazione di emergenza non soltanto sanitaria ma anche sociale e giuridica, dove le richieste di garanzie minime restano in larga parte inevase. Andrea Catarci torna a denunciare l’andamento repressivo della società, una realtà che produce sempre più detenuti per reati minori e casi che spesso potrebbero risolversi con misure alternative. La sua analisi sottolinea come il sistema penale finisca per criminalizzare comportamenti come l’uso di sostanze leggere, la partecipazione a eventi culturali come rave, o condizioni legate a migranti etichettati come clandestini. Catarci ha evidenziato la necessità di una amnistia ampia per i reati minori, percorsi esterni per chi non costituisce un pericolo e un rafforzamento delle attività di reinserimento sociale e lavorativo. Queste misure potrebbero, secondo lui, diminuire notevolmente la popolazione carceraria, aumentando sicurezza e qualità della vita per chi esce dal carcere. Nel suo discorso, Catarci ha espresso critiche anche verso specifiche normative che contribuiscono a ricoprire le carceri di persone non pericolose ma spesso marginalizzate. Tra queste leggi ci sono il decreto Caivano, la legge Fini-Giovanardi sulle dipendenze e la Bossi-Fini sulle migrazioni, ritenute “crea-detenuti” perché imprigionano soggetti per motivi che spesso riflettono limitazioni culturali o sociali. La denuncia si presenta come un appello per cambiare la direzione delle politiche penali italiane, trasformando l’approccio repressivo in un percorso di inclusione e tutela dei diritti. Proprio a ridosso delle festività pasquali, e nel pieno dell’anno del Giubileo voluto da papa Francesco con l’apertura della Porta santa proprio a Rebibbia, la vicenda del suicidio e le proteste avvengono in un clima di forte contrasto simbolico. La Pasqua evoca rinascita e speranza, ma per molti detenuti questi valori restano lontani. Rebibbia, insieme alle carceri di Regina Coeli e Casal del Marmo, rappresenta oggi non solo un luogo di sofferenza ma anche una sfida legata al rispetto dei diritti umani e alla ricerca di una seconda possibilità nella vita. L’istanza posta dalle proteste e dalle denunce si concentra sulla necessità di cambiare le priorità politiche, portando le esperienze e le utopie di rinascita al centro delle agende pubbliche. Il pensiero va alle migliaia di persone relegate a condizioni dure, che hanno bisogno di percorsi concreti per uscire dal carcere, riconquistare spazi di libertà e ricostruire un progetto di vita fuori dalle mura. L’appello che emerge è verso una svolta nelle politiche sociali e giudiziarie che guardino all’umanità dei detenuti e alla loro dignità. Bologna. La “misera e inaccettabile regressione” del carcere minorile bolognatoday.it, 21 aprile 2025 Le avvisaglie dei disordini di ieri c’erano già tutte, ma “sono mancati congrui interventi per stemperare il clima di tensione”, ha detto il garante dei detenuti Antonio Ianniello. Dalla sera di venerdì 18 aprile fino al pomeriggio di sabato 19 aprile sono scoppiati all’interno del carcere minorile del Pratello dei disordini che hanno coinvolto diversi detenuti. Venerdì sera c’è stata una rissa tra quattro reclusi, mentre la mattina di sabato sei di loro si sono asserragliati all’interno di una cella, utilizzando mobili e materassi per evitare il contatto con gli agenti di polizia. L’obiettivo era quello di evitare il trasferimento di uno di loro - da poco maggiorenne - in un istituto penitenziario per adulti. Nell’Istituto penale minorile, sabato, è intervenuto anche il personale del Gruppo intervento operativo (Gio), un reparto della polizia penitenziaria specializzato nel sedare le rivolte dentro le carceri. Nel pomeriggio le operazioni si sono concluse anche grazie all’uso di “forza fisica nella misura strettamente necessaria”, scrive il garante per i Diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna Antonio Ianniello. Ianniello, in una nota diffusa da Palazzo d’Accursio, scrive che “già in occasione di recenti sopralluoghi all’interno dell’istituto la tensione era risultata palpabile. Si deve constatare che non si sia comunque riusciti a porre in essere interventi adeguati proprio per stemperare tale clima al fine di prevenire la degenerazione della situazione sino a questi gravi fatti accaduti”. I “diritti compressi” dei giovani adulti trasferiti alla Dozza - Le riflessioni del garante sono molto dure e mettono in dubbio la possibilità che l’istituzione penitenziaria possa, in queste condizioni, rappresentare una reale “opportunità per la presa in carico dei percorsi detentivi dei ragazzi”. Il numero di reclusi al Pratello è sistematicamente superiore alla reale capienza dell’istituto: “Senza numeri che siano davvero sostenibili - scrive ancora Ianniello - il sistema della giustizia minorile perde la sua specificità e si deteriora, riducendosi alla coatta riproduzione di quanto già si registra nel contesto detentivo degli adulti, e così scivolando verso una lenta, misera e inaccettabile regressione”. Siamo “sempre più nella direzione della più piena assimilazione della detenzione minorile alla detenzione degli adulti”, come testimonia la recente apertura alla Dozza della sezione dedicata ai detenuti provenienti da istituti minorili. Stessa sezione dove, verosimilmente, sarà trasferito uno dei ragazzi coinvolti nei fatti avvenuti tra venerdì e sabato al Pratello. Torino. I Radicali visitano il carcere: Al Lorusso e Cutugno carenze strutturali croniche” La Repubblica, 21 aprile 2025 Sovraffollamento, mancanza di personale, carenze strutturali croniche su igiene, manutenzione, assistenza sanitaria: questa la fotografia del carcere di Torino scattata oggi dalla delegazione del partito radicale al termine di una visita. Una nota informa che a fronte i detenuti sono 1.450 a fronte di una capienza massima di 1.050; nel reparto femminile, dove ci sono anche due celle per le persone con problemi psichiatrici, le recluse sono 108 su 85. Quanto al personale, gli agenti di polizia penitenziaria effettivi sono 700 su un fabbisogno stimato in circa 1.000 unità. “Le gravi carenze strutturali croniche riguardo l’igiene, la manutenzione e l’assistenza sanitaria della struttura - prosegue il comunicato - continuano ad essere denunciate oltre che dai detenuti anche dal personale, nonostante gli sforzi organizzativi della Direzione del carcere. La mancanza di risorse e interventi straordinari rende di fatto impossibile il superamento delle gravi criticità”. La delegazione era composta da Sergio Rovasio, Presidente dell’Associazione Marco Pannella, Chiara Vangelista e Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti per il Piemonte e Chiara Vangelista. Agrigento. “I nuovi reati non fermano i suicidi in carcere”: la giustizia si ferma altri tre giorni di Gerlando Cardinale agrigentonotizie.it, 21 aprile 2025 La camera penale di Agrigento aderisce all’astensione proclamata dell’Unione nazionale contro il decreto sicurezza. Altri tre giorni di sciopero degli avvocati penalisti agrigentini. La camera “Giuseppe Grillo” di Agrigento ha deliberato l’adesione alla tre giorni di astensione indetta dall’Unione nazionale dal 5 al 7 maggio. L’associazione che rappresenta i penalisti, presieduta da Angelo Nicotra, ha comunicato, come da prassi, ai vertici degli uffici giudiziari e della Procura della Repubblica che nei giorni della protesta non ci saranno udienze se non quelle previste dal codice di autoregolamentazione ovvero con imputati o indagati detenuti. L’oggetto della nuova astensione è legato alla protesta contro il decreto sicurezza. “Inutile introduzione di nuove ipotesi di reato - si legge nella delibera dei penalisti agrigentini -, molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso, introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione, - prosegue la camera “Giuseppe Grillo” - consequenziale aumento della popolazione carceraria, ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento, insufficienza degli interventi per ridurre sia il sovraffollamento carcerario in crescita progressiva sia il tragico fenomeno dei suicidi in carcere che ha raggiunto il numero record nel 2024”. Amore e giustizia: una diade inconciliabile? di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2025 La Pasqua è certamente un tempo di amore, il più alto amore, quello che ha come misura l’esperienza che Gesù vive di sentirsi abbandonato dal Padre. Una esperienza che lacera la carne e l’anima. Un dolore, però, che nella paradossale logica dell’amore evangelico, redime. Un’esperienza che, per questo, nell’interpretazione Cristiana, rappresenta l’apice dell’amore di Dio per le sue creature. Eppure, questo dolore che si fa amore è un dolore ingiusto. È un dolore che arriva a causa di accuse ingiuste, di un processo ingiusto, di una condanna ingiusta. E allora può l’amore convivere con l’ingiustizia o amore e giustizia dovrebbero invece condurci nella stessa direzione? È la domanda, questa, che troviamo al cuore della riflessione del filosofo francese Paul Ricoeur, cuore dove si annida una dialettica sottile e radicale, quella che riguarda non tanto due mondi separati, ma due modalità dell’agire etico, due tensioni che si sfidano, si intrecciano, si correggono a vicenda. È possibile - si chiede Ricoeur - gettare un ponte tra la poetica dell’amore e la prosa della giustizia. Tra l’inno e la regola formale?” (Amore e giustizia, Morcelliana, 2019, p. 31). Il punto di partenza dell’analisi del filosofo francese è la cosiddetta questione del “chi?”. Chi è il soggetto e come si può passare dalla concezione antropologica dell’agire a quella etica, giuridica e politica della responsabilità dell’azione? Ricoeur affronta tale questione a partire dal concetto di “imputazione”. “Una rapida analisi semantica - spiega, infatti, Ricoeur - rivela l’anteriorità del concetto di imputazione rispetto a quello di responsabilità. In questo senso, esso non si riduce al suo rapporto con l’obbligo di riparare ai danni, come nel diritto civile, e a quello di subire la pena, come nel diritto penale. Prima di queste espressioni giuridiche dell’obbligazione - continua - vi è l’obbligazione di rendere conto e, prima ancora, vi è l’atto d’imputazione che consiste nel mettere sul conto di qualcuno un’azione, che, in seguito, può essere lodata o biasimata” (Persona, comunità e istituzioni, 1994, p. 8-9). Quello di “imputazione” è l’atto attraverso il quale all’atto attribuiamo l’azione al suo autore. La precondizione per poter chiedere conto di tale azione e per poter considerare qualcuno responsabile di tale azione. Questo gesto è il fondamento semantico che consente di dire che qualcuno ha fatto qualcosa, e quindi è responsabile. Da questa imputazione discende la responsabilità morale, giuridica e politica. Ricoeur insiste: rendere conto non è solo un fatto giuridico, ma un atto antropologico, un’espressione della nostra struttura etica più profonda. A partire da questo concetto originario, poi, l’etica di Ricoeur si sviluppa lungo tre assi intrecciati: la stima di sé, la sollecitudine per l’altro e la giustizia. Il primo punto riguarda il fatto che l’individuo si riconosce come capace di agire, di promettere, di narrare la propria vita. Questa stima non è narcisismo, ma condizione per agire responsabilmente. “Qualunque sia il rapporto con gli altri e con le istituzioni - scrive al riguardo Attilio Danese - non ci sarebbe soggetto responsabile se non potesse stimarsi in quanto capace di agire intenzionalmente, ossia secondo delle ragioni riflesse. La stima di sé, così concepita, non è una forma raffinata di egoismo o di solipsismo. Il termine ‘sé’ e la per mettere in guardia contro la riduzione a un io centrato su sé stesso. Del resto, il sé verso cui si dirige la stima e il termine riflessivo di tutte le persone grammaticali (anche la seconda e la terza persona sono capaci di stima di sé, definita mediante l’intenzionalità e mediante l’iniziativa). (Persona e sviluppo nel tempo del post-liberismo, 1990, p. 77). Il secondo aspetto è quello che concerne la “sollecitudine per l’altro”, il movimento di sé verso gli altri. Nella relazione personale diretta, l’incontro con il volto dell’altro, evoca la dimensione dell’amore, della compassione, dell’amicizia. In un rapporto in cui l’altro non è mai strumento ma sempre fine. “Pur sottoscrivendo le analisi di Lévinas sul volto e sull’alterità - continua Danese - ossia sul primato dell’appello venuto dall’altro, Ricoeur preferisce fondare l’etica sulla nozione di reciprocità che istituisce l’altro come simile e l’io come il simile dell’altro. Senza reciprocità o, per impiegare un concetto caro ad Hegel, - senza ‘riconoscimento’, l’alterità si collocherebbe ad una distanza insormontabile” (Ibid.). Il terzo elemento costitutivo di questa triade è quello della “giustizia”. La giustizia riguarda il “terzo”. Quando un soggetto, cioè - lo sconosciuto, il cittadino, l’altro anonimo - entra in gioco, allora non basta più la sollecitudine. Serve una struttura impersonale che assicuri l’equità e che trascenda l’informalità delle relazioni personali per darsi forma istituzionale. Se la sollecitudine è la risposta che deriva dall’incontro con il volto dell’altro, cosa fare quando l’altro un volto non ce l’ha? Quando parliamo di milioni di sconosciuti o di persone che non sono ancor nate? Lì, dice Ricoeur, entra in gioco la giustizia come istituzione. L’etica, per essere efficace in una società complessa, deve incarnarsi in forme oggettive, regole, leggi, procedure. Mentre l’amore è personale e quindi parziale, la giustizia tende all’universalità. C’è una bellezza fragile e potente nell’idea di giustizia di Ricoeur. Non è la freddezza imparziale della bilancia che pesa diritti astratti con la benda sugli occhi, né la rigidità delle leggi blindate in codici senza volto. La sua giustizia è una giustizia umanizzata, una tensione costante tra il rigore dell’equità e la dolcezza dell’amore, tra l’oggettività delle istituzioni e il calore della sollecitudine. La giustizia non è il primo nome dell’etica, ma è ciò che arriva quando l’amore da solo non basta più. Non perché sia inferiore o secondaria, ma perché l’amore è parziale, mentre la giustizia vuole essere universale. L’amore si rivolge a un “tu” preciso: all’amico, all’amato, al vicino. La giustizia, invece, si rivolge ai “terzi” sconosciuti che pure reclamano qualcosa da noi, pur non essendoci mai incontrati. Arriva dunque il punto nel quale “All’esame separato delle ragioni dell’amore e della giustizia deve ora seguire la loro dialettica” (Amore e giustizia, p. 31). Questo passaggio così critico dall’amore alla giustizia non implica quindi un avvicendamento, ma rappresenta piuttosto un movimento dialettico. “L’amore non è un sostituto della giustizia. Domanda di più della giustizia. Chiede di andare fino al fondo della sua pretesa universale, rompendo le barriere culturali e storiche del suo campo effettivo di applicazione, fino in fondo alla sua cura per la singolarità insostituibile delle persone, all’incontro della sua tendenza a sussumere i casi particolari sotto delle regole, fino in fondo al suo progetto di fare prevalere la sollecitudine della cooperazione sull’equilibrio degli interessi ben compresi.” (Persona, comunità e istituzioni, p. 12). La sollecitudine è la categoria intermedia, il ponte tra l’amore personale e la giustizia istituzionale. Non è solo un sentimento, ma una modalità di relazione che implica attenzione, responsabilità, reciprocità. Essa nasce nel volto dell’altro, come in Lévinas, ma trova in Ricoeur un’espressione più articolata: la sollecitudine riconosce l’altro come capace, come soggetto degno di stima, e lo accompagna fino alla dimensione pubblica della cittadinanza e del diritto. Perché per Ricoeur l’etica non può fermarsi al “faccia a faccia”. Se restassimo solo nell’orbita dell’amore, del dialogo personale, dell’empatia, l’etica si chiuderebbe in una cerchia troppo ristretta. Ed ecco che compare il “terzo”, il luogo dell’alterità impersonale: colui che non posso amare ma a cui devo giustizia. Da una parte, scrive Attilio Danese nell’Introduzione a Persona, comunità e istituzioni, “L’amicizia fa da figura paradigmatica di un rapporto interpersonale animato dalla sollecitudine. In essa, infatti, si suppone l’uguaglianza, si esige la reciprocità, si stabilisce la reversibilità. L’altro interpella l’io, che risponde con una sollecitudine che sancisce la stessa stima di sé; il tu convoca, l’io risponde responsabilmente”. Dall’altra “È il terzo elemento dell’interazione, però, che impedisce che l’io debba tutto sé stesso all’altro e dunque anneghi nel tu. Giustamente a tal proposito nota Lévinas: ‘Se io fossi solo con l’altro, gli dovrei tutto. Ma c’è il terzo [...] Il terzo è altro rispetto al prossimo, ma anche un altro prossimo, ma anche un prossimo dell’Altro e non unicamente il mio similè. Nello stesso tempo, è la presenza del volto che impedisce al terzo di prendersi tutto e sovrastare con la sua neutralità la dimensione personale” (p. 19). I due processi, perciò, sono in un rapporto dialettico di verifica reciproca. La giustizia è quindi quel dispositivo normativo che traduce la sollecitudine in diritti, in regole, in eguaglianza. Ma è più di questo perché non dimentica i volti dei singoli. Agisce con la benda sollevata e la spada inguainata. La sfida di Ricoeur è mantenere, nel cuore stesso dell’istituzione, la memoria dell’amore. La giustizia non deve cancellare la sollecitudine, ma istituzionalizzarla, renderla equa, stabile, diffusa. “Dove trovare il paradigma di una tale tensione vivente? - Si chiede il filosofo nella parte finale del suo Amore e Giustizia - Mi pare possa essere cercato nel frammento Discorso della montagna in Matteo e nel Discorso della pianura in Luca - risponde - dove, in un solo e medesimo contesto, il comandamento “nuovo” - amare i nemici - e la “regola d’oro” si trovano giustapposti” (p. 32). Da una parte l’”economia del dono”, dell’amore sovrabbondante e dell’eccedenza e dall’altra la logica della reciprocità giusta, dell’equivalenza. L’imperativo dell’amare il nemico ha una natura sovra-etica, dice Ricoeur, perché nasce dall’amore gratuito di Dio che è salvezza dalla schiavitù d’Egitto. “Poiché ti è stato donato, dona a tua volta (…) in forza di questo poiché, il dono si rivela esser fonte di obbligazione” (p. 35). Mentre il movimento dell’amore al nemico è un movimento direzionale - ama perché sei stato amato. Un movimento tipico della reciprocità indiretta, la logica dell’equivalenza incarnata dalla “regola d’oro” si muove in maniera bi-direzionale o circolare - ama chi ti ha amato. Questa è la logica equivalente della reciprocità diretta dove le parti in gioco - l’agente e il paziente, ciò che si fa e ciò che viene fatto, l’agire e il subire - benché insostituibili sono dichiarati interscambiabili, reversibili. La conciliazione, la sintesi dialettica tra la logica dell’abbondanza e quella dell’equivalenza sembra davvero impossibile. Ad attestarlo sembrano esserci perfino le parole di Gesù che mentre esorta all’amore sovrabbondante condanna quello equivalente. “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso” leggiamo infatti in Luca 6, 32-35. “Tale apparente condanna della Regola d’oro non può non inquietarci - scrive Ricoeur - poiché la regola di giustizia può essere considerata come una rideclinazione in termini formali della Regola d’oro”. Una rideclinazione che trova il suo compimento nel secondo principio di giustizia di John Rawls: il principio di differenza secondo cui ogni possibile forma di disuguaglianza può essere ritenuta legittima solo se va primariamente a vantaggio di coloro che sono più svantaggiati. “Questa formula - chiosa Ricoeur - equivale ad eguagliare le parti per quanto lo permettano le disuguaglianze imposte dall’efficienza economica e sociale” (p. 38). Ma se la logica della sovrabbondanza mette in crisi quella della reciprocità e la regola di giustizia è figlia, per così dire, di quest’ultima, avremmo allora una giustizia sociale screditata e contraria, in fondo, alla logica dell’amore vero, contraria al “comandamento nuovo”. Ma perché, allora, sia il “comandamento nuovo” che la Regola d’oro compaiono entrambi contigui sia nel Discorso della Montagna che nel Discorso della Pianura? È possibile un’altra interpretazione - scrive Ricoeur - secondo la quale il comandamento d’amore non abolisce la Regola d’oro, ma la reinterpreta nel senso della generosità, come un canale non solo possibile ma necessario di un comandamento che, in forza del suo statuto sovra-etico, accede alla sfera etica solo al prezzo di comportamenti paradossali ed estremi (…) a chi ti percuote una guancia, porgi anche l’altra” (p. 39). È lo stesso “estremismo” di Francesco, di Gandhi, di Martin Luther King. Può la giustizia sociale incarnare la stessa logica? “Se la sovra-morale - risponde Ricoeur - non deve scivolare in non-morale, o addirittura in immoralità - ad esempio in viltà -, deve passare attraverso il principio di moralità, riassunto nella Regola d’oro e formalizzato dalla regola di giustizia. Ma l’affermazione reciproca non è men vera” (p. 40). Ricoeur ci dice quindi che dalla logica della sovrabbondanza non proviene una critica alla regola della reciprocità ma ad una delle sue possibili interpretazioni, quella che vede la reciprocità solo come uno scambio di equivalenti, un do ut des, “io do affinché tu dia”. Ma la logica della sovrabbondanza - “dona poiché ti è stato donato” - corregge l’affinché della massima utilitaristica “e salva - conclude il filosofo - la Regola d’oro da un’interpretazione sempre possibile” (ibid.). Ma l’analisi non termina qui. Occorre sviluppare il secondo polo della tensione dialettica. Se è vero, infatti, che la logica della sovrabbondanza mette in crisi e “raddrizza”, per così dire, la logica della reciprocità, non è forse possibile che quest’ultima possa mettere in crisi e dunque “raddrizzare” anche la regola di giustizia? Ricoeur ne è convinto. “Così come la Regola d’oro, lasciata a sé stessa, s’abbassa al rango di massima utilitaristica, nello stesso modo la regola di giustizia, lasciata a sé stessa, tende a subordinare la cooperazione alla competizione, o piuttosto ad attendere dal solo equilibrio di interessi rivali il simulacro della cooperazione” (p. 42). Se questo senso di giustizia non sarà “toccato e segretamente sorvegliato” dalla poetica dell’amore, dalla logica della sovrabbondanza, dalla profezia del “comandamento nuovo”, allora il rischio che esso diventi nient’altro che una “variante sottilmente sublimata dell’utilitarismo” sarà più che concreto. “Solo l’affinità segreta con il comandamento d’amore salva il secondo principio di giustizia di Rawls da questa ricaduta in un irriflesso utilitarismo” (p. 42). Giungiamo quindi ad una conclusione che supera l’antinomia inziale tra le due logiche dell’azione sociale attraverso la creazione di una tensione dialettica che non elimina il contrasto ma che rende la giustizia “il medio necessario dell’amore”. “Proprio perché l’amore è sovra-morale - scrive Ricoeur - esso entra nella sfera pratica ed etica solo sotto la guida della giustizia (…) attraverso l’azione sinergica di amore e giustizia”. Qual è la conclusione di questa operazione? Quale la rilevanza pratica di questa operazione di mediazione dialettica tra la logica dell’amore e quella della giustizia? La constatazione del fatto che l’espressione di un equilibrio tra le due logiche - sul piano individuale, ma anche su quello giuridico sociale e politico - è perfettamente praticabile. Ma Ricoeur va ancora oltre definendo “perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile” il compito di incorporare in maniera tenace “via via un grado supplementare di compassione e generosità in tutti i nostri codici - dal codice penale alle norme di giustizia sociale”. Un augurio che di questi tempi non posso che fare mio. Gli auguri di Mattarella: “La Pasqua ispiri giustizia e dialogo” di Federica Valenti agi.it, 21 aprile 2025 Un richiamo e una speranza rivolta a tutti, anche a coloro che “professano fedi diverse dal cristianesimo e i non credenti”, affinché “la memoria della Resurrezione possa ispirare” il “perseguimento del bene comune” come obiettivo “ancorato ai valori di giustizia ed equità, imprescindibili per la pacifica convivenza e la prosperità dei popoli”. È questo l’augurio che Sergio Mattarella rivolge in occasione della Pasqua. Nel messaggio indirizzato a Papa Francesco, il Presidente della Repubblica coglie l’occasione per rinnovare al pontefice “i più fervidi auspici di benessere personale” e rivolgergli “con affetto” i “migliori auguri” del “popolo italiano” per la Pasqua e per la “festività di San Giorgio”, il 23 aprile, onomastico di Jorge Bergoglio. “Santità, sono lietissimo di porgerLe, a nome della Repubblica Italiana e mio personale, gli auguri più sentiti di buona e santa Pasqua”, esordisce Mattarella, nel messaggio a Papa Francesco. Unità tra le chiese cristiane - “Quest’anno tutte le Chiese cristiane celebreranno in una stessa data la festa più importante dell’anno liturgico. Tale coincidenza, fortemente simbolica, esorta alla ricerca del dialogo e dell’unità”, sottolinea il Capo dello Stato. “Auspico che, associata al Giubileo della Speranza, la ricorrenza pasquale rechi conforto a comunità che in diversi continenti spesso vivono situazioni di conflitto o di pericolo”, chiede Mattarella. Messaggio agli italiani - Il Presidente, poi, dall’account ufficiale del Quirinale, invia un messaggio agli italiani: “Alle concittadine e ai concittadini auguro sentitamente buona Pasqua e vi unisco un particolare ringraziamento per gli auguri che mi sono stati rivolti in questi giorni per la mia salute”, scrive Mattarella, che nei giorni si è sottoposto all’impianto di un pacemaker al cuore. La proposta di legge Pd contro la vendita di armi e coltelli ai minori anche online di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 21 aprile 2025 Debora Serracchiani: c’era un buco nella norma, la pena è sempre accompagnata da prevenzione e formazione. Mai più vendita di armi e coltelli ai minori. Anche online. Lo prevede una proposta di legge appena depositata che tenta di fermare il fenomeno degli accoltellamenti tra i minori. Nel testo nuove sanzioni anche penali per chi vende senza accertare che l’acquirente non è maggiorenne. L’articolo 1 prevede infatti “l’arresto fino a tre anni con l’ammenda da 100 a 10.000 euro”. E l’art. 2 la “sospensione della licenza commerciale per un periodo da trenta giorni a tre mesi, che si applica anche in caso di vendita mediante commercio elettronico”. Ma anche percorsi di formazione e recupero. L’art. 3 individua “percorsi di durata non inferiore a 10 ore annuali finalizzati alla prevenzione della violenza, all’uso consapevole delle armi e alla conoscenza della responsabilità penale”, da realizzare mediante tra le scuole, “gli ordini professionali, le università, l’Anm e le forze dell’ordine”. La proposta prende le mosse dagli ultimi casi di cronaca. L’ultimo che ha visto accoltellare a morte un diciassettenne è stata sabato notte a Francofonte, in provincia di Siracusa, sia pure ad opera di un ventunenne. Ma è ancora fresco il ricordo di Thomas Christopher, 17 anni, ammazzato con 25 coltellate a Pescara, probabilmente per un debito di droga di 250 euro, per il quale sono sotto accusa due sedicenni. Un fenomeno preoccupante, anche alla luce di un nuovo contesto: un aumento significativo degli omicidi volontari commessi da minori di 18 anni. Secondo la criminalpol dal 4% dell’anno scorso si è saliti all’11% del numero complessivo. Molti di questi compiuti proprio con armi da taglio. Prima firmataria della proposta di legge la dem Debora Serracchiani che spiega come mai l’introduzione di un nuovo reato nel codice penale, l’art. 696 bis vendita di armi a minori, anziché di una semplice aggravante specifica. “Assieme a un gruppo di colleghi, fra i quali Walter Verini e Filippo Sensi, ci siamo accorti che c’era un buco nella norma. Ed era proprio quello relativo alla vendita online: a oggi non c’è alcuna verifica sull’età di chi acquista un coltello sul web”. All’obiezione “nel Pd non eravate contrari a nuovi aumenti di pena, soprattutto dopo il decreto Caivano?” Serracchiani replica: “Sì. Ma abbiamo voluto coprire quel buco nella norma e soprattutto prevedere che la pena sia sempre accompagnata da prevenzione e formazione”. E aggiunge: “Secondo gli esperti molti ragazzini tendono a replicare quello che vedono sui social anche non sapendo che a 14 anni diventano imputabili. Quindi nelle scuole, con il contributo di forze dell’ordine o magari delle camere penali o altri, oltre a ricevere una formazione culturale va spiegato loro cosa rischiano. Anche perché dopo il decreto Caivano i minori finiscono sempre più facilmente in carcere saltando i percorsi di recupero come la messa alla prova, per il reinserimento nella vita sociale”. Una persona con disabilità può aspettare di Francesca Polizzi L’Espresso, 21 aprile 2025 La nuova norma ritarda a entrare in vigore ed estende il periodo di sperimentazione invece di applicarsi su tutto il territorio. Così il diritto ad autodeterminarsi viene sospeso. Poter vivere una vita autonoma e indipendente nella comunità, su base paritaria, secondo i propri desideri e capacità, significa che alle persone con disabilità devono essere garantiti la protezione sociale e i servizi di supporto adeguati alla complessità dei loro bisogni e delle loro preferenze personali, seguendo un approccio centrato sulla persona”. È quello che si legge nella Carta di Solfagnano, redatta lo scorso ottobre durante il primo G7 inclusione e disabilità. Ma il percorso per rendere concrete le priorità delle persone con disabilità incontra ogni giorno degli ostacoli. E tra queste difficoltà c’è anche la proroga della legge che mette a rischio la loro autodeterminazione. La riforma rappresenta un cambiamento profondo. L’obiettivo è superare una logica istituzionalizzante, puntando sulla permanenza nella comunità e sulla piena partecipazione alla vita sociale. Per rendere concreto questo approccio, si introducono una serie di interventi: dal rafforzamento dei servizi sociali sul territorio alla revisione delle procedure per il riconoscimento della disabilità, fino alla promozione di progetti per la vita indipendente e, infine, la valorizzazione di gruppi di persone esperte capaci di accompagnare chi ha bisogni complessi. La proroga alla nuova legge non è solo un’anomalia giuridica, ma presenta diverse criticità. Anziché entrare subito in vigore, la norma prevede una fase di sperimentazione. “Ma le leggi si applicano, non si sperimentano”, denuncia Alice Sodi, attivista di Persone, coordinamento nazionale contro la discriminazione delle persone con disabilità. Dopo l’annuncio del rinvio al 2027 da parte della ministra per le disabilità Alessandra Locatelli, diverse associazioni - tra cui Persone, Movimento Antiabilista e Unasam - stanno facendo rete contro il depotenziamento della misura. “Per le persone con disabilità certi temi e rivendicazioni sono un’emergenza, eppure finiscono sempre in secondo piano”, afferma Ilaria Crippi, attivista impegnata sulle questioni legate all’accessibilità. “Bisognerebbe chiedersi cosa ci impedisce di considerare i diritti delle persone disabili una priorità e perché, invece, continuiamo a trattarli come qualcosa che si può rimandare, proprio come sta accadendo con questa riforma”. È stato annunciato l’allargamento della sperimentazione - dal 30 settembre 2025 - ad altre dieci province (Alessandria, Lecce, Genova, Isernia, Macerata, Matera, Palermo, Teramo, Vicenza, Provincia autonoma di Trento, Aosta) che si vanno ad aggiungere alle nove già individuate in precedenza (Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste). Saranno ampliati i territori e le patologie prese in considerazione (oltre ad autismo, sclerosi multipla e diabete mellito di tipo 2 già individuati in precedenza, sono state aggiunte anche le cardiopatie, le broncopatie, l’artrite reumatoide e le malattie oncologiche), ma queste modifiche rimangano un tentativo parziale di rispondere alle necessità delle persone con disabilità. “Una sperimentazione di questo tipo non avrà nessun valore: saranno poche decine le persone per territorio che potranno accedervi. Quindi quale tipo di dato dovrebbe emergere?” si interroga Sodi. “Finché il diritto di vita indipendente non diventa qualcosa di garantito per tutte le persone non è un sistema che funziona”, aggiunge invece Crippi. La sperimentazione doveva partire a gennaio 2025 per concludersi nel dicembre dello stesso anno, ma non sono chiare le ragioni della sua estensione. Un altro problema è costituito dal non aver comunicato all’osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (Ond) lo slittamento temporale per l’applicazione del decreto. Inoltre, a dicembre 2026 scade il tempo giuridicamente stabilito entro il quale è possibile proporre emendamenti migliorativi. Ci sono, infatti, dei correttivi da suggerire: “Il decreto presenta un difetto di delega perché, mentre nella legge di delegazione viene ribadito il riferimento alla “deistituzionalizzazione”, questo termine scompare nel decreto 62”, precisa Sodi. Un altro problema è rappresentato dal ruolo delle grandi associazioni che, nel corso degli anni, sono diventate interlocutori istituzionali “rivestendo contemporaneamente la veste di rappresentanti dei diritti delle persone con disabilità e gestori di servizi”, racconta Sodi. Si configura così un conflitto d’interesse “perché queste associazioni risultano i più grandi gestori di servizi sul territorio italiano”. L’obiettivo della deistituzionalizzazione, inoltre, crea un corto circuito: le strutture esistenti devono capire se e come riconvertire la loro funzione. In questo contesto, la proroga della riforma sembra una strategia per guadagnare tempo. Con l’entrata in vigore della norma le persone potrebbero immediatamente esigere il proprio progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato che ha una configurazione diversa rispetto a quanto previsto dalla legge 328/2000. Secondo quest’ultima, il progetto di vita viene redatto attingendo ai servizi già presenti sul territorio, invece “nel progetto di vita previsto dalla riforma si parte dalla persona, dall’indagine dei suoi desideri e aspettative” dice Sodi. La riforma richiede anche una riorganizzazione del sistema di welfare. “Si vuole far coincidere la riforma con l’attuale sistema dei servizi che è proprio ciò che dovrebbe cambiare. C’è una tendenza conservatrice - conclude Sodi - che sembra un modo per poter dire di aver fatto una sperimentazione e aver constatato che la riforma è troppo complessa da attuare”. Migranti. “Saremo giudicati dalla storia” di Alberto Riccadonna La Voce e il Tempo, 21 aprile 2025 “Quando vedi migranti condotti via con le manette, hai la sensazione di un pezzo di umanità che viene ferita profondamente. Credo che ci sarà un giudizio di coloro che verranno dopo di noi. E per i credenti c’è anche un giudizio del Signore”. Queste parole pronunciate dal cardinale Repole alla Tg Rai dopo la celebrazione delle Palme e rilanciata da un’intervista del quotidiano “La Stampa” a proposito dei migranti trasferiti con le fascette ai polsi dall’Italia in Albania (Cpr), nell’attesa di un provvedimento di espulsione, hanno suscitato migliaia di reazioni a Torino e in tutt’Italia: tanti messaggi di gratitudine per aver denunciato il crescente clima di disprezzo nei confronti dei migranti, ma anche tante critiche per aver interrogato le procedure italiane di sicurezza e aver avere espresso pena per stranieri liquidati dai contestatori come “delinquenti, ladri e stupratori”. Repole non ha messo in discussione la legge. Ha comunicato sofferenza di fronte alla scena dei migranti trattati indistintamente come criminali, anche senza aver pene da scontare. Vari elementi fanno al momento ipotizzare che sulla nave diretta in Albania si sia andati fuori dalla legge ed è questo che tanti osservatori stanno chiedendo di verificare, per evitare che gli eventuali illeciti diventino metodo. Ma qui sta il problema di queste giornate convulse: il Ministero degli Interni ha parlato di persone pericolose, peròha rifiutato di diffondere i dossier. Perché? I parlamentari che hanno visitato i 40 trasferiti in Albania riferiscono di situazioni che in punto di legge non giustificano l’umiliazione. Un giovane del Bangladesh, tradotto in manette, è già stato riportato in Italia perché non doveva neppure essere trasferito. Nel Cpr allestito in Albania è quasi inesistente l’assistenza legale dei reclusi e per questo ci si deve affidare alla testimonianza di coloro che l’hanno visitato: hanno riferito di persone perseguite per il reato di immigrazione clandestina, che la legge punisce con ammende in denaro, mai con la reclusione; hanno segnalato la presenza di persone pregiudicate, però con pene già scontate. Quanti di questi individui sono pericolosi? Tutti? Oppure si è generalizzato? Il Garante nazionale del Detenuti - per bocca del giurista Mario Serio, rappresentante dal Governo Meloni - ha ammesso che le fascette ai polsi “non possono essere generalizzate e indistinte; vanno calibrate su esigenze individuali ben specificate e devono essere proporzionate”. La questione non è di lana caprina. Il tema della dignità da garantire a ogni essere umano - tanti o pochi non importa - è la chiave di volta di ogni convivenza, così come il tema del rispetto da esprimere in ogni situazione, a partire dai gesti pubblici e dalle istituzioni dello Stato. L’acquiescenza comporta rischi incalcolabili non solo per gli stranieri, anche per gli italiani, ed è questo il campanello d’allarme fatto suonare dall’Arcivescovo di Torino. Da settimane - a partire dal caso del Cpr di Torino - Repole sta riconoscendo alle istituzioni dello Stato la difficoltà di gestire il fenomeno migratorio, ma sta anche invocando il rispetto delle dignità delle persone recluse nei Cpr. Questo il punto: non abbassare la guardia per non cadere nella deriva della barbarie (“penso che a Torino si stia cercando di fare il meglio per garantire che le persone trattenute siano trattate con umanità”). “Il fatto che esistano fenomeni di illegalità e che li si debba combattere quando si manifestano - ha detto il cardinale rispetto alla vicenda dell’Albania - non consente in nessun modo di generalizzare né autorizza l’umiliazione di una categoria di intera di persone”. Che una parte della politica italiana costruisca il suo consenso soffiando sul fuoco dell’odio è fuori discussione. Il ministro Salvini, non è la prima volta, si è sentito libero di deridere le persone trasferite in Albania: “sono irregolari, al posto delle manette dovevamo forse regalargli un uovo di Pasqua?”. Il linguaggio del disprezzo è un cancro pericoloso e sta diffondendosi, in Italia come negli Stati Uniti dove l’Amministrazione Trump libera le strade dai migranti definendoli “spazzatura”. Repole chiede di vigilare sui gesti e sulle parole: “non sempre misuriamo la portata delle parole che pronunciamo. Il linguaggio non è innocuo, racconta un modo di vedere l’umanità. Qualcuno potrebbe pensare che alcuni hanno il diritto di avere tutta la dignità e altri no: non mi sembra cristiano. In questi giorni di preparazione alla Pasqua stiamo meditando la Passione di Cristo, che è stato trattato da reietto”. Poi fra i credenti vi sono opinioni diverse. Quelle che si appuntano sul rispetto delle persone e quelle che pongono l’accento sul bisogno di legalità. Preoccupanti sono le manifestazioni di offesa e completa chiusura, come questa - una delle tante - ricevuta nei giorni scorsi dalla Segreteria dell’Arcivescovo: “Lei Cardinale si deve vergognare - scrive il signor C.B. - Lei si è dimostrato un anti italiano come i partiti di sinistra. Non vogliamo clandestini in Italia; lei e tutto il Vaticano, vergognosamente progressista, dovete mettervelo bene in testa. Basta clandestini, iniziamo le deportazioni come fa Trump. Andate in Africa a leggere il Vangelo e non cercate di arruolare nuovi adepti aprendo le porte alla spazzatura umana. Vergogna, vergogna, vergogna”. Migranti. La Corte Costituzionale boccia la nuova disciplina del processo in Cassazione Il Dubbio, 21 aprile 2025 Per i giudici questa procedura non rispetta i principi costituzionali stabiliti dagli articoli 3 e 24 della Costituzione, che garantiscono il diritto al contraddittorio e il diritto di difesa. La Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittima una parte della nuova disciplina del processo di cassazione sulla convalida del trattenimento degli stranieri espulsi o richiedenti protezione internazionale, introdotta dal decreto-legge numero 145 del 2024. La parte contestata riguarda l’applicazione della norma prevista per il processo di legittimità in materia di mandato d’arresto europeo consensuale, che stabilisce che la Corte di Cassazione giudichi in camera di consiglio sui motivi di ricorso e sulle richieste del procuratore generale senza l’intervento delle parti. Migranti, violazione del diritto di difesa - Secondo la sentenza numero 39, la Corte ha ritenuto che questa procedura non rispetti i principi costituzionali stabiliti dagli articoli 3 e 24 della Costituzione, che garantiscono il diritto al contraddittorio e il diritto di difesa. La nuova disciplina stabilisce che nel giudizio di cassazione sulla convalida del trattenimento si debba applicare il modello processuale del mandato d’arresto europeo consensuale, che non consente un confronto dialettico tra le parti. Questo modello, pur utile per l’efficienza e la velocità del processo in materia di mandato d’arresto, risulta inadeguato per il giudizio sulla convalida del trattenimento, dove sono coinvolti diritti di libertà fondamentali e un maggiore spazio per il contraddittorio. La Corte ha sottolineato che il procedimento previsto per il mandato d’arresto europeo consensuale è troppo semplificato rispetto alle necessità di un processo che coinvolge il trattenimento di uno straniero, dove è fondamentale la possibilità per le parti di presentare e difendere le proprie argomentazioni. Per questo, la Corte ha ritenuto che la disciplina corretta da applicare fosse quella prevista per il mandato d’arresto ordinario, che pur mantenendo un certo grado di semplicità, assicura maggiori garanzie giuridiche, inclusa la possibilità di un’udienza in camera di consiglio. Concludendo, la Corte ha specificato che, sebbene abbia operato una modifica immediata per rimediare alla violazione riscontrata, resta comunque la possibilità per il legislatore di intervenire per modificare ulteriormente la disciplina del giudizio di legittimità in materia di convalida del trattenimento, purché tale modifica rispetti i principi costituzionali. Migranti. 48 ore in missione per TOM: continue richieste d’aiuto e la tristezza per chi torna in Libia di Erasmo Palazzotto* Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2025 Siamo arrivati a Lampedusa verso ora di pranzo dell’11 aprile. Questa è la nostra quarta missione di monitoraggio di quella che continua ad essere una delle frontiere più letali al mondo. La traversata non è stata facile, ma dovevamo arrivare in zona operativa prima che si aprisse la finestra meteo che avrebbe consentito di nuovo le partenze dalla sponda sud. Siamo un piccolo equipaggio di 9 persone: Tiziano, il nostro comandante, è un velista di lungo corso e con Francesco, il Presidente di Sailing4BlueLab, è stato il motore di questo progetto; Giammarco, detto anche Mambo, e Francesca, anche loro come i primi due sono velisti e marinai straordinari, compongono il nostro rescue team oltre a far navigare la nostra barca. Martina e Giovanni sono il nostro personale sanitario, lavorano al pronto soccorso di Bologna, lei rianimatrice e lui infermiere, fanno parte del Laboratorio di salute popolare di Bologna. Valentina lavora al numero verde di Arci ed in questa missione fa la guest care, ovvero si occupa di tutto ciò che può servire alle persone che assistiamo e cerca di spiegargli cosa sta succedendo e cosa succederà dal momento in cui vengono soccorse. Poi c’è Alain, un compagno di Secure Populaire France, anche lui marinaio di lungo corso è venuto per capire come la sua organizzazione può aiutare il nostro progetto. E poi ci sono io che in questa missione faccio il capomissione, ruolo che turniamo con Francesco e con Maso che a questo giro non è a bordo e che con Alessandra e Margherita ci supportano con il coordinamento di terra. E poi c’è lei, la nostra barca: Nihayet Garganey VI, con un nome talmente impronunciabile che alla fine la chiamiamo soltanto Garganey (non che sia meglio), ma le vogliamo un sacco di bene è una gran bella barca sicura ed affidabile. È una delle due barche messe a disposizione del progetto da Sailing4BlueLab, un circolo navigante, un’associazione di gente di mare che ha dato l’input alla nascita del progetto Tutti gli occhi sul Mediterraneo (TOM) e che insieme ad ARCI e a Sheep Italia ne è promotrice. ?Siamo arrivati a Lampedusa verso ora di pranzo dell’11 aprile e dopo una piccola pausa per sistemare un piccolo guasto al motore siamo ripartiti, rotta sud-ovest per posizionarci a 40 miglia da Lampedusa in quella che chiamano la “banana route” da dove transitano tutte le imbarcazioni che riescono a sfuggire alla cattura delle motovedette libiche donate dal Governo Italiano e che deportano di nuovo le persone nei lager da cui erano riuscite a fuggire. Comincia così la nostra quarta missione di monitoraggio di quella che continua ad essere una delle frontiere più letali al mondo. Non siamo soli, in questo tratto di mare insieme a noi ci sono altre 4 barche a vela che come noi monitorano e assistono le imbarcazioni in difficoltà e la nave Aita Mari della ong spagnola Salvamento Maritimo Umanitario. Nadir, la barca vela della ong tedesca RescueShip, e Trotamar III del Collettivo Compass sono posizionate più a sud poco dentro la zona Sar Libica, noi di TOM, Safira di Mediterranea e Dakini la più piccola delle barche a vela stiamo più a nord nella zona SAR Maltese. Comunichiamo spesso per scambiarci informazioni, e cercare di coprire quanto più spazio di mare possibile, ma le distanze sono enormi e così quando arriva la prima segnalazione di una imbarcazione in difficoltà Nadir che è la più vicina si trova circa 3 ore di navigazione. Le barche a vela non sono assetti veloci, ne pensate per fare soccorso e quindi tutti chiediamo l’intervento dei mezzi delle guardie costiere limitrofe, quella Maltese e quella Italiana. Per tutte le tre ore di navigazione le richieste di soccorso rimarranno senza risposta ed alla fine Nadir sarà costretta a prendere a bordo le persone e risalire lentamente verso Lampedusa. La segnalazione arriva da Alarm Phone che la manda ai centri di coordinamento dei soccorsi italiano e maltese e mette in copia anche le imbarcazioni della società civile presenti in mare in quel momento. Passa poco che arriva un’altra segnalazione questa volta arriva da SeaBird3 un aereo della ong SeaWatch che sorvola il mediterraneo centrale supportare il lavoro delle navi e individuare le imbarcazioni in difficoltà: un gommone con più di 80 persone a bordo, alcune sedute anche sui tubolari che rischia di andare a fondo. Si trova a più di 70 miglia dalla nostra posizione per arrivare fin lì ci vorrebbero quasi 11 ore, chiediamo ad Aita Mari che vediamo sui radar più vicina se stanno andando loro, ci dicono di sì, ma poco dopo ci comunicheranno che purtroppo non hanno fatto in tempo, sono arrivati prima i libici ed hanno catturato tutti. La giornata è scandita da continue richieste di soccorso una è arrivata via radio anche da Eagle1 l’aereo di Frontex che perlustra la zona Sar anche lui in cerca di imbarcazioni. Avevamo visto su Flight radar che volava dalle 13 circa sulla stessa area e sia noi che Safira ci stavamo dirigendo lì per vedere cosa stava accadendo. Soltanto alle 15.30, due ore dopo che avevano fatto il primo avvistamento hanno diramato una richiesta di soccorso a tutti i mezzi in area. Siamo rimasti tutti sorpresi nel sentire il MayDay Relay rilanciato da Frontex, dovrebbe essere la normalità, lo prevedono le leggi internazionali a tutela della sicurezza in mare, ma da molti anni ormai non accade più. Pensiamo quindi che la situazione sia grave, per chiedere a tutte le imbarcazioni in zona di recarsi lì più velocemente possibile devono stare per andare a fondo. Scriviamo tutti alle autorità competenti ripetendo la stessa storia: “Siamo barche a vela, non siamo mezzi idonei al soccorso, siamo attrezzati per fornire prima assistenza e stabilizzare la situazione dotando le persone di giubbotti salvagente, ma chiediamo l’immediato intervento di mezzi di soccorso della Guardia Costiera”… nessuna risposta. Quando Safira arriva per prima sul posto una motovedetta della Guardia Costiera italiana stava ultimando le operazioni di soccorso. Tiriamo tutti un respiro di sollievo, ci scriviamo tra capi missione. Per fortuna stavolta sono intervenuti, non è la prima volta: accade sempre più spesso quando le imbarcazioni non si trovano in Sar libica, ma questa volta più a sud del solito, ne siamo felici. Se c’è una cosa che ci accomuna tutti in questo tratto di mare è la consapevolezza che noi non dovremmo esserci e che gli Stati dovrebbero adempiere al loro dovere di soccorrere chi si trova in difficoltà noi speriamo che un giorno tutto questo torni ad essere la norma e non l’eccezione, come accadeva ai tempi di Mare Nostrum. Un’altra segnalazione, un altro gommone stracarico sempre in Sar libica, le motovedette sono in movimento, ma stavolta Aita Mari è più vicina e riesce ad effettuare il soccorso, sono una nave attrezzata per farlo, hanno tanta esperienza alle spalle e sapere che ci sono loro ci rassicura tutti. Le condizioni meteo stanno peggiorando velocemente, cominciamo tutti a fare rotta verso Lampedusa per cercare riparo, Nadir è ancora lontana con 47 persone soccorse a bordo di una barca di soli 18 metri. Dakini e Safira fanno rotta verso il porto, noi decidiamo di attardarci un po’ nel caso qualcuno fosse ancora in mare e decidiamo di rimanere fino alle prime luci dell’alba quando abbiamo saputo che entrerà in assetto operativo Aurora una imbarcazione veloce di Sea Watch che è in grado di operare come operano le motovedette, partendo direttamente da Lampedusa. Alle 2 del mattino però arriva l’ultima segnalazione, le onde sono già alte più di 2 metri, un gommone con 75 persone a bordo ed almeno 7 bambini è in difficoltà, stanno andando a fondo chiedono aiuto, ma si trovano in SAR libica non arriveranno i soccorsi. Tracciamo una rotta, sono circa 65 miglia 9 ore di navigazione al massimo della nostra velocità, prenderemo in pieno la bufera. Per fortuna Aita Mari è ancora in zona e sulla rotta del rientro si è avvicinata e Trotamar III che si trovava ancora più a sud raggiunge per prima l’imbarcazione e riesce a stabilizzarla in attesa che arrivino i soccorsi della nave più grande. Sono salvi, possiamo riprendere la nostra rotta ed aspettare di ritrovarci tutti a Lampedusa per festeggiare perché anche oggi nessuna vita è andata perduta grazie alla presenza della flotta civile nel Mediterraneo centrale. Resta la tristezza per quelle 80 persone che non ce l’hanno fatta e che sono tornate nell’inferno dei centri di detenzione libici in un Paese dove anche le Nazioni Unite non hanno più accesso perché non devono esserci testimoni delle torture e delle violenze che subiscono ogni giorno migliaia di persone da parte delle autorità che i governi europei continuano a finanziare. Adesso siamo in porto al riparo, sperando che nessuno si trovi in mare con questo tempo, ma pronti a fare la nostra parte se fosse necessario, come sempre. Perché è la cosa giusta da fare. *Ex deputato Pd e presidente Commissione d’inchiesta Regeni Tunisia. L’altro volto della “stabilità”: repressione, processi-farsa e persecuzioni di Giuseppe Gagliano notiziegeopolitiche.net, 21 aprile 2025 Dietro le lusinghe della stabilità e le promesse della cooperazione sul fronte migratorio, la Tunisia del presidente Kais Saied si sta trasformando in uno dei teatri più oscuri della repressione politica e sociale nel Mediterraneo. A dispetto della retorica della sicurezza e dello sviluppo, Tunisi segue un copione che richiama sinistramente quello del vicino Egitto, dove la parabola autoritaria di Abdel Fattah al-Sisi ha ormai cancellato ogni traccia del risveglio democratico nato dalle Primavere arabe. L’obiettivo, in entrambi i casi, è lo stesso: neutralizzare l’opposizione interna, controllare ogni spazio di dissenso, mantenere il potere con la forza e con il silenzio. Il 4 marzo 2025 si è aperto a Tunisi un processo che difficilmente potrà essere definito equo da qualsiasi osservatore indipendente. Quaranta oppositori politici, tra cui avvocati, imprenditori, giornalisti, militanti per i diritti umani e figure di spicco come Rached Ghannouchi, leader storico del partito Ennahda, e Abir Moussi del Partito Desturiano Libero, sono stati accusati di “cospirazione contro lo Stato”. Il 19 aprile, le condanne sono state emesse: pene durissime, in alcuni casi fino alla possibilità della pena capitale. Tra i capi d’accusa, anche presunti contatti con l’ex ambasciatore italiano Francesco Saggio, oggi consigliere del “Piano Mattei” promosso da Roma. Non è solo una questione giuridica, ma l’esempio perfetto di come si costruisce un sistema repressivo con parvenze legali. La stessa strategia fu adottata da al-Sisi in Egitto con le ondate di arresti tra il 2013 e il 2016, che decapitarono l’opposizione dei Fratelli Musulmani e delle forze laiche. Un modello già rodato, che Tunisi riprende con precisione chirurgica. Tra settembre 2024 e gennaio 2025 almeno 84 persone, prevalentemente omosessuali e donne trans, sono state arrestate in diverse città tunisine con l’accusa di atti contrari alla morale pubblica. Le tecniche impiegate dalle forze dell’ordine ricordano i metodi più vili della polizia egiziana: agenti infiltrati nelle app di incontri, ricatti, esami anali forzati (una pratica condannata dall’ONU come tortura), uso illecito di informazioni personali estratte da smartphone. Non è solo una persecuzione morale: è un messaggio lanciato alla società intera. Nessun comportamento non conforme sarà tollerato. Nessuna voce fuori dal coro sarà accettata. Anche in questo, l’eco del Cairo è assordante. La Tunisia, che un tempo vantava aperture relative sui diritti civili, si riallinea oggi alle politiche più retrive del mondo arabo. L’arresto dell’avvocata e influencer Sonia Dahmani l’11 maggio 2024, per dichiarazioni critiche verso il governo, è un altro segnale inequivocabile. Accusata di “diffusione di notizie false”, rischia cinque anni di carcere. Le accuse, vaghe e politicamente motivate, rientrano nella logica di criminalizzazione della parola libera. Altri giornalisti e content creator sono stati condannati con imputazioni come “indecenza pubblica” e “offesa alla morale”, spesso con pene detentive. È la stessa strategia adottata in Egitto con giornalisti del calibro di Mahmoud Hussein (Al Jazeera), incarcerato senza processo per quattro anni. È la normalizzazione dell’eccezione, l’uso della legge come strumento di intimidazione, non di giustizia. Il maggio 2024 ha segnato un ulteriore punto di svolta. Circa 400 migranti - tra cui rifugiati sudanesi - sono stati arrestati e deportati nei deserti di frontiera con Algeria e Libia, senza cibo né acqua. Una violazione flagrante del diritto internazionale, giustificata con la retorica della “sicurezza nazionale”. La realtà? È il prodotto di un meccanismo perverso, in cui l’UE, con il Memorandum del 2023, ha esternalizzato il controllo delle frontiere a regimi autoritari, in cambio della pace migratoria. In cambio dei fondi europei Saied, come al-Sisi, si erge a “guardiano del confine sud” dell’Europa. La repressione interna diventa così un dettaglio trascurabile, se in cambio si ottiene il contenimento dei flussi migratori. L’affondo autoritario è figlio anche di una crisi economica senza precedenti. Con un’inflazione galoppante, disoccupazione diffusa e un debito pubblico fuori controllo, Saied ha stretto ancora di più il pugno del potere: Costituzione iper-presidenzialista nel 2022, scioglimento del Parlamento, controllo diretto sul sistema giudiziario. Le elezioni presidenziali del 2024, vinte con l’89% dei voti ma con un’affluenza del 28,8%, sono state definite “farsa” da Amnesty International e da diverse ONG. L’Egitto insegna: in tempi di crisi, l’autoritarismo si nutre della paura e della propaganda. Saied, come al-Sisi, costruisce la propria legittimità su una narrazione di ordine, moralità e patriottismo, mentre silenzia ogni forma di dissenso. Di fronte a tutto questo, l’Occidente tace o, peggio, applaude. La Tunisia è oggi un partner strategico per l’UE in materia di migrazioni e sicurezza. La visita di alti funzionari europei e italiani, tra cui esponenti legati al “Piano Mattei”, viene sbandierata come segno di cooperazione, mentre si chiudono gli occhi su arresti arbitrari, torture e persecuzioni. Il rischio è quello di ripetere lo stesso errore fatto con l’Egitto: sostenere un regime autoritario in nome della stabilità e poi ritrovarsi con un Paese sull’orlo dell’esplosione, con una società civile azzerata e una generazione senza speranza. Quando la repressione esploderà, come sempre accade, ci si stupirà. Ma l’Occidente, ancora una volta, non potrà dire di non sapere. Il parallelo tra Tunisia ed Egitto non è solo retorico, ma strutturale. Entrambi hanno attraversato il sogno delle Primavere arabe, entrambi hanno scelto, o subito, il ritorno a un autoritarismo di Stato, entrambi sono oggi coccolati da un’Europa miope, disposta a sacrificare i diritti umani sull’altare della sicurezza. Eppure la storia insegna che la repressione non è mai definitiva. Le carceri possono zittire, ma non cancellare. E prima o poi, sotto la superficie della paura, riaffiorano le domande, la rabbia, il coraggio. E sarà allora che, come già accaduto, i volti ora silenziati torneranno a parlare. E l’Occidente sarà chiamato, di nuovo, a scegliere da che parte stare.