In che mondo vogliamo vivere di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2025 Questo comunicato oggi è stato ripreso integralmente dai quotidiani Il Dubbio e L’Unità. A proposito della ulteriore “chiusura nella chiusura” delle persone detenute in Alta Sicurezza. Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza. Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri in redazione Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, ‘mettere in piazza’ i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto ‘a pane e malavita’ guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io”. Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili. Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure, chi sta trasformando le carceri in luoghi di rabbia e degrado, non invidio chi non crede nella possibilità del cambiamento e vede intorno a sé solo nemici. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio e a guardare avanti e a dare fiducia agli esseri umani, anche quelli che ci sembrano i peggiori. Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ADESIONI I Volontari dell’Associazione Granello di senape Padova ODV Il Coordinamento Carcere Due Palazzi Padova condivide il forte messaggio di dolore e di fiera testimonianza della direttrice di Ristretti.(Granello di Senape ODV Padova/Ristretti Orizzonti, OCV Operatori Carcerari Volontari, OCV Bambini, Cooperativa sociale Giotto, Cooperativa sociale AltraCittà, Cooperativa sociale WorkCrossing, Cooperativa sociale Volontà di Sapere, Teatrocarcere Due Palazzi, Amici della Giotto, Coristi per caso, Matricola Zero, Momart, Pallalpiede, Progetto Jonathan VI, Scuola Edile, Ordine Avvocati Padova, Camera penale Padova Commissione carcere. Terzo Settore Padova. Attilio Favaro, Lucio di Gianantonio, Emmanuela Bortoliero, Concetta Fragasso, Chiara Coppo, Nicola Boscoletto, Gianluca Chiodo, Andrea Basso, Francesca Rapanà, Matteo Marchetto, Giovanni Todesco, Rossella Favero, Massimo Quadro, Antonella Pan, Alessandra Andreose, Alberto Danieli, Cristina Luca, Christine Rossi, Anna Maria Alborghetti, Paola Menaldo, Giulia Lanza, Anna Scarso, Armida Gaion, Silvia Giralucci, Donatella Galante, Adriana Da Rin, Giusy Seminara, Antonio Morossi, Maria Elda Muzzani, Angelo Ferrarini, Antonella Schiavon di ASF-Agronomi e Forestali Senza Frontiere. Biblioteca Tommaso Campanella Casa di reclusione di Padova/Operatori AltraCittà e Granello di Senape. (Marina Bolletti, Agnese Solero, Bruna Casol, Paola Ellero, Sandro Botticelli, Manuela Mezzacasa, Giovanna Guseo, Elena Contri, Rossella Favero) Adolfo Ceretti, docente Università di Milano-Bicocca Maura Gola, responsabile sociale coop.ve sociali presso Ethica onlus Marco Boato, deputato alla Camera per 5 legislature e senatore della Repubblica nella X legislatura Mauro Pescio. Attore, autore e podcaster Antigone Veneto Antonio Bincoletto, Garante delle persone private della libertà del Comune di Padova Luisa Ravagnani, Garante comunale di Brescia Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale e come Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale Guido Pietropoli, Garante del Comune di Rovigo Valentina Calderone, Garante di Roma Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Milano Elisabetta Burla, Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Graziella Bonomi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Mantova Angela Barbaglio, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Vicenza Giovanni Villari, Garante dei detenuti di Siracusa. Mariarosa Ponginebbi, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Piacenza Lucia Risicato, Garante dei detenuti del Comune di Messina Veronica Valenti, Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà personale Comune di Parma Alessandra Gaetani, Garante della C.C. di Como Raimonda Lobina, Garante delle persone private della libertà personale della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Marco Solimano, Garante del Comune di Livorno Tina Zaccato, Garante della C.C. “R. Sisca” di Castrovillari (Cs) Maria Mancarella, Garante Lecce Carlo Carlotto Paola Cigarini Maria Rosa Mondini Maria Luisa Marchetti Carla Chiappini Marina Mancin Paolo Colli Vignarelli Rita Cagnoni, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Andrea Pozza, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Massimo Paccagnella, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Davide Pettenella, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Sebastiano Bellato, presidente Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Casale sul Sile Florence Deray, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Casale sul Sile Tutti i soci de Il Granello di senape Venezia Maria Teresa Menotto - Venezia Isa Carrirolo Anche i detenuti vanno rispettati, la politica non ignori le parole del Papa di Gabriele Elia L’Edicola del Sud, 20 aprile 2025 Chi ha vissuto un periodo in carcere porta con sé un’esperienza unica e difficile da descrivere a chi non l’ha mai conosciuta. Nelle celle si crea una comunità intensa, dove ogni giorno si condividono non solo il cibo e i compiti quotidiani, ma anche emozioni e ricordi. Ogni detenuto diventa parte di un microcosmo in cui le regole non scritte, stabilite dai più esperti, diventano fondamentali per mantenere l’ordine e la dignità, nonostante le condizioni di vita spesso precarie. Le celle, sovraffollate e fatiscenti, possono sembrare un luogo di desolazione, ma in realtà sono teatro di ingegnosità quotidiana. Ogni pezzo di legno o lattina viene riutilizzato in modi creativi per risolvere problemi pratici, rendendo la vita più vivibile. E sorprendentemente, tra i detenuti ci sono veri e propri chef che, con pochi ingredienti, preparano piatti che spesso superano le aspettative di chi mangia all’esterno. Ma nonostante questi momenti di solidarietà e creatività, c’è un’ombra che incombe: il sovraffollamento. Le celle, già inadeguate, diventano un vero e proprio inferno, contribuendo a una situazione di stress insostenibile. I numeri parlano chiaro: il tasso di suicidi tra i detenuti è allarmante e rappresenta una tragedia che non possiamo ignorare. Ogni vita spezzata è una vita di speranza e di potenziale perduta. È giunto il momento di affrontare con serietà questo problema. Dobbiamo chiedere a gran voce un cambiamento: più risorse per le strutture penitenziarie, maggiore attenzione alle condizioni di vita e, soprattutto, politiche efficaci per ridurre il sovraffollamento. Ogni detenuto merita una chance di rieducazione e reinserimento, non una condanna a vita in condizioni disumane. Facciamo sentire la nostra voce, perché nessuno dovrebbe sentirsi così solo e abbandonato, né dentro né fuori da quelle mura. Insieme, possiamo fare la differenza. L’amore in carcere, a Terni la prima stanza dedicata ai colloqui intimi di Eleonora Camilli La Stampa, 20 aprile 2025 Un grande cuore sopra la spalliera del letto matrimoniale, la scritta “Ti amo” impressa sulle pareti. E poi quadri che raffigurano paesaggi, la scena romantica di un uomo e una donna a cena e una cicogna. Potrebbe sembrare una qualsiasi camera d’albergo pensata per la luna di miele di due neo sposi, è invece la prima “stanza dell’amore” per i detenuti in Italia, un locale allestito per i colloqui intimi in carcere degli ospiti con le mogli o compagne. A fare da apripista è la casa circondariale Sabbione di Terni, che da due giorni permette di usufruire del diritto all’affettività. Il primo ad entrare nei due locali attrezzati al piano terra, una stanza da letto e un bagno con doccia, è stato venerdì mattina alle 8, un uomo campano che due mesi fa aveva fatto ricorso, chiedendo di poter incontrare privatamente la compagna. Il giudice del tribunale di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, analizzando il caso aveva dunque sollevato la questione di costituzionalità poi accolta dalla Consulta. E dato due mesi di tempo al carcere per adeguarsi. Così nel penitenziario della cittadina umbra sono stati gli stessi detenuti, che lavorano al Mof (Manutenzione Ordinaria Fabbricati) a imbiancare i locali e arredarli con dipinti e murales per rendere l’ambiente più confortevole e decisamente meno freddo. “È un piccolo miracolo all’interno di una situazione drammatica - commenta il senatore del Partito democratico Walter Verini, tra i primi a entrare nei nuovi spazi per un sopralluogo -. Nello stesso carcere di Terni oggi ci sono 600 detenuti a fronte di una capienza massima di 400 persone. Non solo, ma mancano anche figure di polizia penitenziaria. Eppure, dopo la sentenza della Corte costituzionale e grazie alla tenacia del giudice Gianfilippi si è riusciti a realizzare questo passo avanti, che non risolve ma di sicuro va valorizzato”. Per ora sono previsti, previa autorizzazione, non più di tre colloqui al giorno della durata media di due ore. Tutta la biancheria, lenzuola e asciugamani, vengono portate dall’esterno e controllate sia in entrata che in uscita per ragioni di sicurezza. Chi incontra il detenuto deve anche firmare un consenso informato. Dopo ogni colloquio privato le stanze vengono igienizzate e bonificate, come previsto dalle linee guida del Dap, pubblicate dall’amministrazione penitenziaria solo dieci giorni fa, l’11 aprile, proprio in vista dell’esecuzione della sentenza. Sono esclusi dalla misura i detenuti in regime di 41 bis e 14 bis, nonché coloro che sono in isolamento sanitario o che hanno commesso qualche infrazione negli ultimi sei mesi. “Quella di venerdì è stata la mia novantaseiesima visita in un carcere e conoscendo bene la situazione, posso dire che questa iniziativa è straordinaria anche per come il personale penitenziario, in affanno, si è reso collaborativo - aggiunge Verini -. E questo mentre siamo in presenza di un governo che volta le spalle al sovraffollamento e che affronta il tema carceri alla Don Abbondio, non curante dei danni che farà anche il nuovo decreto sicurezza”. Il parlamentare dem ricorda che in altri Paesi i colloqui intimi sono la normalità da anni e non un evento eccezionale come da noi: “Se il trattamento all’interno è umano, non pura vendetta e afflizione, una volta fuori la persona avrà un altro atteggiamento: investire in socialità è investire in sicurezza, gli altri lo hanno capito da tempo”. E in Europa sono diversi gli Stati che hanno spazi dedicati all’intimità tra i detenuti e i loro partner: è il caso dei parloirs familiaux e delle unités de vie familiale in Francia: locali appositamente concepiti per le visite di familiari adulti, di durata più o meno estesa, senza sorveglianza continua e diretta. Lo stesso è previsto in Spagna e in molti istituti penitenziari tedeschi, dove sono ammesse visite di lunga durata. Dopo il primo esperimento ternano anche altre carceri dovranno adeguarsi. “La circolare del Dap disciplina le modalità di svolgimento dei colloqui intimi, demandando ai provveditori e ai direttori il compito di garantire questo diritto - sottolinea il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella. Molto è stato rinviato a loro e ora il diritto dovrà essere pienamente assicurato a livello territoriale. Ci auguriamo che tutte le carceri si adeguino per tempo. Le sentenze della Consulta vanno rispettate. Non ci sono più giustificazioni per ulteriori ritardi. Abbiamo bisogno di promuovere un modello detentivo che sia più umano e che guardi alla Costituzione per costruire reali percorsi di reinserimento sociale”. Un mondo senza carcere? di Luciano Manicardi Messaggero di Sant’Antonio, 20 aprile 2025 Davvero è utopistico immaginare una società senza carcere, dove in cella finisce solo chi si è macchiato di reati particolarmente gravi o è a rischio di reiterazione? La segregazione carceraria interviene sulle dimensioni antropologiche dello spazio e del tempo rendendo il primo uno spazio chiuso e il secondo un tempo vuoto. La privazione della libertà e la limitazione delle relazioni riducono il carcerato a esistenza corporale. Ha scritto Vittorio Foa, riflettendo sugli anni passati in carcere tra il 1935 e il 1943: “Non c’è futuro. La speranza vien meno. Il tempo si svuota”; la detenzione provoca il “progressivo svanire della volontà”. Un uomo privato di volontà è ancora un uomo? Foa mette in dubbio la validità del sistema carcerario: “Riesce difficile concepire la possibilità di emenda del reo quando la sua libertà di volere è schiacciata”. A distanza di quasi un secolo dalle osservazioni di Foa e tenendo conto dei cambiamenti a cui il sistema carcerario in Italia (si pensi alla legge Gozzini del 1986) e in altri Paesi è stato sottoposto per renderlo rispettoso della dignità umana del recluso, il giudizio di fondo non solo non è cambiato, ma per certi versi dev’essere radicalizzato. La situazione reale di molti istituti carcerari nel mondo presenta gravi situazioni di degrado: maltrattamenti verbali e fisici, sovraffollamento, mancanza d’igiene, carenze nell’assistenza sanitaria, consumo di droghe, abusi sessuali. E i suicidi sono frequenti. Ma il problema è più radicale. La legge sull’ordinamento penitenziario (1975) recita: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Ma forse le condizioni della pena carceraria in quanto tale sono inconciliabili con la dignità umana. La Costituzione afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27). Ma nella realtà la situazione è ben distante dal dettato costituzionale e dalle buone leggi esistenti in tema di esecuzione penale. Se la Costituzione parla di “pene” al plurale (non intendendo solo il carcere, ma una pluralità di sanzioni possibili), di fatto quel plurale è divenuto il singolare della pena detentiva. Molti oggi rilevano il fallimento dell’istituzione carceraria perché non raggiunge i fini di riabilitazione e reinserimento che pure si prefigge, perché resta imprigionata in una logica punitiva e si rivela essere un istituto anacronistico, costoso, inefficace (come mostrano gli alti tassi di recidiva), e spesso dannoso. Il carcere va inteso come extrema ratio, come eccezione, non come regola non appena si manifesta un reato. Il nemico più forte da vincere qui è la mentalità retributiva rigida, il modo di sentire di tanti che si esprime nel “se la sono meritata, chiudeteli in carcere e gettate la chiave”, dimenticando che “l’idea che se il male è amaro come il fiele anche la cura deve esserlo, è un’idea magica non medica” (Avishai Margalit). Ha ragione Ralf Dahrendorf: “L’ora del legista e del politico servono a ben poco senza l’ora del cittadino”. Su questo anche i cristiani sono chiamati a una conversione. Papa Francesco, pensando alla condizione penosa dei carcerati propone “ai Governi che si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena” (Spes non confundit 10) e pone come fondamento le disposizioni bibliche sull’anno giubilare (Lv 25) e le parole di Gesù che inaugurano l’anno di grazia del Signore, che comporta la liberazione dei prigionieri (Lc 4,18-19). Il riferimento all’anno giubilare biblico è importante, perché il giubileo istituzionalizza una rivoluzione permanente (liberazione degli schiavi, remissione dei debiti, restituzione delle terre) che trova poi espressione nell’umanità sovversiva di Gesù. Il giubileo pone il principio del non per sempre: lo schiavo ebreo non sarà schiavo per sempre, ma fino al giubileo (Lv 25,40). Il passato non fissa in modo definitivo in una situazione, ma vi è ancora una possibilità di futuro e di libertà. Il giubileo è una rottura instauratrice e creatrice. Alla luce di questo sia la pena di morte che l’ergastolo sono soluzioni inammissibili, ma nel contesto della profezia giubilare biblica occorre inserire l’abolizione del carcere (riservandolo come extrema ratio nei casi di delitti gravi e di protezione della società da rischi di reiterazione di crimini), mettendo in campo sanzioni e percorsi alternativi tra cui anzitutto i cammini di giustizia riparativa. Il carcere non è una necessità e una società può essere pensata senza di esso. La sua abolizione non è un’utopia, ma un percorso difficile, lungo. Eppure, come si è giunti all’abolizione della schiavitù, della segregazione razziale in Sudafrica, così è possibile operare per questo obiettivo. Essendo chiaro che il carcere è un problema di umanità e di civiltà che riguarda la società. Infatti, il carcere, “occultamento di una parte della società che la società “per bene” non vuole vedere” (Gustavo Zagrebelsky), dice qualcosa non solo su chi vi è dentro, ma anche su chi ne è fuori. “Numeri inaccettabili”, il Partito Radicale trascorrerà le feste pasquali con detenuti agi.it, 20 aprile 2025 Per le festività pasquali il Partito Radicale ha previsto visite in diverse carceri italiane. Lo annuncia una nota congiunta della tesoriera del partito, Irene Testa, e del segretario Maurizio Turco denunciando i “numeri impressionanti” della popolazione carceraria italiana nonché l’urgenza di far rientrare la situazione nella legalità. La popolazione detenuta rammentano i due esponenti radicali supera di circa 15mila detenuti in più la capienza regolamentare di 43 mila posti. Si tratta, sottolineano, di “una condizione ormai insostenibile delle nostre strutture penitenziarie” che ha visto, “negli ultimi 5 anni, con l’aumentare del sovraffollamento, un maggior numero di detenuti suicidi: 62 nel 2020; 59 nel 2021; 84 nel 2022; 68 nel 2023; 91 nel 2024; 20 da inizio 2025”. Della popolazione carceraria, proseguono, “circa il 30% per cento ha un residuo di pena inferiore a tre anni, soglia che rappresenta il limite di pena per l’accesso alle misure alternative della semilibertà e dell’affidamento in prova, il che dimostra come in Italia il sistema delle misure alternative si sia sostanzialmente inceppato”. Anche per ricordare la grave situazione in cui versano gli istituti, “da domani visiteremo le carceri di Prato, Udine, Palermo, Catania, Trapani, Torino, Milano, Napoli Rimini, La Spezia, Genova, Chiavari, Sanremo, Roma, Alghero”. Le visite saranno aperte dalla tesoriera del partito, Irene Testa. “Occorre che la politica tutta smetta di voltarsi dall’altra parte”, concludono i radicali. Il Decreto Sicurezza piace solo al Governo di David Allegranti La Nazione, 20 aprile 2025 Il Decreto Sicurezza fra le altre cose introduce il reato di rivolta all’interno di un carcere (e nei Cpr), che va a colpire persino chi resiste passivamente. Eppure in certi casi la protesta (pacifica, beninteso) è l’unica possibilità per cercare di farsi ascoltare nelle carceri sovraffollate. Il nuovo decreto sicurezza licenziato dal governo piace in sostanza solo alla maggioranza. Diversi giuristi hanno denunciato il ricorso, ancora una volta, alla decretazione d’urgenza. Ma poi c’è il merito del nuovo pacchetto sicurezza, che la giunta dell’Unione delle Camere Penali considera una vera iattura: “Inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso, introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione, consequenziale aumento della popolazione carceraria, ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento, insufficienza degli interventi per ridurre sia il sovraffollamento carcerario in crescita progressiva sia il tragico fenomeno dei suicidi in carcere che ha raggiunto il numero record nel 2024”. Il Decreto Sicurezza fra le altre cose introduce anche il reato di rivolta all’interno di un carcere (e nei Cpr), che va a colpire persino chi resiste passivamente. Eppure in certi casi la protesta (pacifica, beninteso) è l’unica possibilità per cercare di farsi ascoltare nelle carceri sovraffollate e fatiscenti, nelle quali ci si continua a suicidare (il caso di Sollicciano è stato più volte affrontato da La Nazione). Il diritto penale è una risorsa scarsa, andrebbe usato con parsimonia. Il governo invece continua a inventare nuovi reati, anche se poi cerca di dare la colpa ai giudici. Al che appare un po’ bizzarro che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ammetta - meglio tardi che mai! - che il problema c’è e che alcune soluzioni pensate fin qui dal governo non sono utili: “Il numero dei suicidi in carcere è vero che è aumentato, ma era intollerabile anche quando erano meno”, ha detto al Senato giovedì della settimana scorsa. E poi “È un fenomeno radicato nel sistema carcerario che non può essere risolto né con una legge, né con l’aumento dell’edilizia carceraria”. Beh, ma allora perché non fare ricorso, anche in questo caso, alla decretazione d’urgenza? Una volta tanto il carattere emergenziale - anche se ormai quello che doveva emergere è già emerso - ci sarebbe. Ma il governo è preso da altro. Dal pacchetto sicurezza, appunto. Eppure, come ha notato l’associazione italiana di professori di diritto penale “pensare di garantire la sicurezza dei cittadini facendo esclusivo affidamento sul diritto penale è illusorio. Come confermano studi scientifici condotti a livello nazionale e internazionale, la creazione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene non può garantire di per sé migliori livelli di sicurezza per i cittadini, né risolvere le cause - economiche, sociali, culturali - alla base delle forme di criminalità che si intendono contrastare… Gli investimenti per la sicurezza pubblica, pur non assenti nel ‘pacchetto sicurezza’, hanno purtroppo un peso marginale nel contesto del decreto-legge”. Ancora una volta, sottolinea l’associazione, “la politica sembra preferire il diritto penale ‘a costo zero’, rinunciando a promuovere investimenti che potrebbero realmente migliorare il benessere sociale”. Sicurezza collettiva compresa. De Chiara (Anm): “Nordio non vuole risolvere i problemi della giustizia” di Giulia Merlo Il Domani, 20 aprile 2025 Il vicepresidente dell’Anm Marcello De Chiara: “Il ministro sa del sovraffollamento e che mancano magistrati. Gli manca la volontà politica di intervenire. Quella ce l’ha solo sulla separazione delle carriere”. Incontro franco, ma risposte concrete poche. Questo è il bilancio in sintesi dell’incontro tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e l’Associazione nazionale magistrati. Il momento è teso con la riforma della separazione delle carriere alle porte e la constatazione del vicepresidente dell’Anm, Marcello De Chiara, è netta: “Manca la volontà politica di incidere sui veri problemi della giustizia”. Vicepresidente, lei dice che con Nordio c’è però stata convergenza sui problemi del sistema, al netto delle vostre posizioni inconciliabili sulla separazione delle carriere... L’interlocuzione è stata franco e il ministro ha mostrato di voler intraprendere un confronto sui temi dell’efficienza della giustizia, il che è certamente positivo. Tuttavia, quel che mi ha colpito è stato il fatto che, pur riconoscendo la validità della nostra analisi dei problemi della giustizia, alla fine è mancata l’assunzione di impegni concreti. Su tutte le questioni fondamentali, ha risposto che attualmente mancano le risorse necessarie per gli interventi indispensabili per assicurare un servizio giustizia all’altezza delle aspettative dei cittadini. Per esempio? Nordio ha riconosciuto il dato della scopertura di organico sia di magistrati che del personale amministrativo, ma nei fatti ha dimostrato che manca una reale volontà di porvi rimedio in modo adeguato. Un esempio concreto è la stabilizzazione del personale dell’ufficio del processo, introdotto con il Pnrr. É vero che una parte del personale è stata stabilizzata, ma si tratta di sole 3000 unità a fronte delle 12mila attualmente impiegate, per altro di personale già formato e che ha maturato una esperienza professionale che oggi è diventata irrinunciabile. Lo stesso si può dire per il sovraffollamento delle carceri: il ministro ha convenuto che la situazione è grave, ma ha anche addotto la non opportunità politica di adottare interventi immediati, nonostante la situazione rischi di ledere i diritti fondamentali dei detenuti. Insomma, nessun impegno concreto, nonostante il ministro dica il contrario. Perché parla nello specifico di assenza di volontà politica? L’argomentazione del ministro è che mancano le risorse. Il che però sembra solo in parte, visto che il governo sta puntando tutto su una riforma costituzionale che avrà dei costi di attuazione di non trascurabile entità. Si tratterà di creare un altro Csm e una Alta corte di giustizia con personale e strutture nuove, quindi si va incontro a uno sforzo finanziario importante. Ma su questo c’è la volontà di investire, mentre sulle questioni che poniamo noi la risposta è che manca la copertura economica. Ecco perché attribuisco un significato anche politico alla volontà del ministro: la scelta su dove investire è chiara. La Giunta si è mostrata dialogante, ma il governo vi attribuisce una eccessiva ideologizzazione contro la separazione delle carriere... È vero che la Giunta attuale è il frutto di una sintesi di sensibilità diverse e certamente ha voluto fortemente un confronto con il governo. Questo però non può escludere la ferma volontà di continuare la campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica rispetto ai rischi della separazione delle carriere. Certamente istituiremo un comitato referendario, come già deliberato nel dicembre scorso, avendo cura di rispettare il carattere non ideologico e politico della nostra campagna. Lo immagino aperto all’adesione di soggetti esterni ma non di partiti politici, perché la campagna contro la riforma non assuma connotazioni politiche. Questo comitato deve avere una immagine di imparzialità. Il che è un tema rilevante. Al Csm è stata depositata da un laico di centrodestra una pratica per creare linee guida per gli interventi pubblici dei magistrati. Servirebbero? Di questo si è parlato molto anche dentro l’Associazione ed è stata approvata una mozione, che opera un prudente bilanciamento tra contrapposti valori. Io penso che non si possa vietare o limitare la partecipazione a priori dei magistrati anche a iniziative politiche e partitiche, perché non necessariamente la partecipazione in sè è lesiva dell’immagine di imparzialità delle toghe. Fondamentale è piuttosto che il magistrato, non solo nell’esercizio delle funzioni, ma anche nel confronto con interlocutori esterni, si preoccupi di tutelare la sua immagine di imparzialità, manifestando le opinioni sempre con rigorosa continenza ed equilibrio. Una restrizione che limitasse la partecipazione sempre e comunque sarebbe lesiva del diritto di manifestazione del pensiero, essendo invece necessario che, anche in tali occasioni, il magistrato sappia conformare il suo comportamento in modo da non destare nel pubblico alcun sospetto di parzialità. Si tratta però di principi già affermati nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale. La tesi opposta, prospettata da alcuni nel caso del pm Stefano Musolino che partecipò a un dibattito No Ponte e criticò il dl Sicurezza, è che basta la sua presenza perché il magistrato comprometta il suo apparire imparziale... Il Csm ha archiviato la pratica contro Musolino, non sollevando alcun rilievo nei suoi confronti. Io sono convinto che la partecipazione possa sempre avvenire, in ogni sede, con modalità perfettamente compatibili con il nostro ruolo di magistrati. Anzi, è importante che il magistrato possa partecipare, ma che lo faccia sempre tutelando la sua immagine e quella della categoria, per esempio astenendosi dall’esternare le sue posizioni politiche. A proposito del dl Sicurezza, l’Anm ha espresso una posizione critica. Perché? Le nostre critiche riguardano il piano tecnico. Non condividiamo una politica giudiziaria che punta a introdurre nuove figure di reato, per condotte che non sono realmente offensive. Il diritto penale, invece, dovrebbe essere sempre l’extrema ratio, visto anche che il governo dispone di un armamentario di strumenti sanzionatori che già può utilizzare Mi sembra che sia una scelta che risponde alle aspettative di una parte dell’elettorato, ma che avrà conseguenze negative sul piano dell’efficienza, perché produrrà un incremento abnorme di procedimenti penali. La linea del governo sembra quella di usare lo strumento penale soprattutto in ottica populistica. Roma. Detenuto si impicca a Rebibbia: è il 29esimo suicidio nelle carceri italiane in 4 mesi La Repubblica, 20 aprile 2025 L’uomo, di 56 anni, si è tolto la vita impiccandosi sull’uscio della porta aperta della cella. Il Garante: “Le cose potevano andare diversamente”. “Nella Casa di reclusione di Rebibbia, ieri sera un uomo si è tolto la vita. Non sappiamo, non possiamo sapere le intime cause di quel gesto. È l’ennesima dimostrazione di un sistema che, nonostante l’impegno degli operatori sanitari e penitenziari, non funziona e che invece viene continuamente sovraccaricato di domande a cui non può rispondere”. Lo dichiara il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia. “Sappiamo - prosegue il Garante - che si trattava di un uomo di 56 anni, di nome Gianluca Bennato, in carcere da tempo e con un fine pena ancora lontano, alloggiato nella sezione dedicata ai detenuti con problemi psichici, ma non era destinato a una Rems, perché sempre riconosciuto responsabile delle sue azioni”. Secondo Anastasia, “avrebbe potuto però essere ammesso a un’alternativa alla detenzione per motivi di salute, ma la caccia alle streghe in atto nel nostro Paese contro chiunque sia o sia stato in carcere e le carenze del sistema di assistenza psichiatrica territoriale rendono difficile trovare e concedere alternative”. Il segretario generale di Uilpa, Gennarino De Fazio, fa notare che “nelle stesse ore all’Istituto Penale per Minorenni di Bologna 6 ristretti provocavano gravi disordini, per fortuna rientrati a notte inoltrata”. Sempre ieri, prosegue, “nella Casa circondariale di Terni si realizzava il primo colloquio intimo (almeno ufficiale) di un detenuto. Nella contraddizione delle carceri odierne si fa l’amore e si fa la guerra. Così, mentre il mondo cristiano celebra la Resurrezione, le carceri, presso cui Papa Francesco si è recato nuovamente giovedì scorso, continuano a sprofondare negli inferi e con esse detenuti e operatori, in primis quelli del Corpo di polizia penitenziaria a cui poco interessa delle chiacchiere e dei distintivi partoriti a giorni alterni e chiederebbero solo che venissero riconosciuti i loro diritti, almeno quelli fondamentali. Più di 16mila reclusi oltre i posti disponibili, 18mila agenti mancanti al fabbisogno della Polizia penitenziaria, celle anguste e fatiscenti, luoghi di lavoro insalubri e pericolosi, turni e carichi di lavoro massacranti, traffici illeciti, violenze di ogni genere e aggressioni, 3.500 quelle subite dalle donne e dagli uomini con il basco azzurro nel 2024, questa la tragica realtà. E, paradossalmente, il presunto potenziamento di bulimici apparati centrali, presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e circoscrizionali, presso i Provveditorati regionali e interregionali, continua a indebolire e sfaldare le sedi carcerarie, sempre più sofferenti e disgregate”. Treviso. Detenuto morto in carcere, interrogazione in Parlamento di Paolo Calia Il Gazzettino, 20 aprile 2025 “Ogni anno in Italia si registrano decine di morti in carcere sulle cui circostanze è necessaria una maggiore attenzione, per non parlare del numero di suicidi in drammatico aumento”. Il caso di Gennaro Martino, il detenuto morto nel carcere di Treviso lo scorso 29 marzo, arriva in parlamento. Rachele Scarpa, deputata del Pd, presenterà un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere di fare chiarezza. Secondo la relazione di ispezione esterna disposta dalla Procura, la morte sarebbe riconducibile a cause naturali. Tuttavia, la famiglia del detenuto ha sporto querela segnalando evidenti lesioni sul corpo e ha richiesto l’autopsia, giudicando non esaustiva l’analisi iniziale. Una successiva perizia medico-legale di parte ha evidenziato elementi incompatibili con un decesso naturale, sollevando il sospetto di una possibile aggressione o asfissia meccanica. Tutti aspetti che spingono la famiglia a chiedere ulteriori approfondimenti. “Di fronte a questi elementi - afferma Rachele Scarpa - è doveroso fare piena luce sulle circostanze della morte di Martino”. Da qui la richiesta rivolta al ministro Nordio: “Chiediamo al ministro se intenda promuovere accertamenti più approfonditi e se ritenga opportuno rafforzare i protocolli di tutela dei detenuti, soprattutto nei casi in cui vi siano precedenti legati all’uso di sostanze o episodi di violenza”. È da tempo che Scarpa si occupa di quanto accade nelle carceri italiane. “L’interrogazione - precisa - sollecita inoltre a fare di più sulla trasparenza e sull’efficacia delle verifiche condotte in caso di decessi in ambito carcerario, chiedendo l’istituzione di un monitoraggio sistematico e la garanzia di un’informazione completa per i familiari delle persone decedute”. E conclude: “Ogni anno in Italia si registrano decine di morti in carcere sulle cui circostanze è necessaria una maggiore attenzione, per non parlare del numero di suicidi in drammatico aumento. È un fenomeno che non può essere considerato fisiologico. Lo Stato ha il dovere di garantire la sicurezza e l’incolumità delle persone private della libertà, e di assicurare che ogni morte sia indagata con rigore e trasparenza”. Bologna. Ipm Pratello, ancora tensioni. Trasferiti i più facinorosi. Il reato è rivolta in carcere di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 20 aprile 2025 I due già maggiorenni, con precedenti specifici, portati in strutture per adulti. L’altro si è barricato fino a sera nella sua cella, poi è stato accompagnato a Roma. Un’altra giornata di tensione al Pratello. Venerdì sera la protesta, nata da una rissa tra giovani detenuti ospiti del primo piano contro detenuti del secondo, per sedare la quale il comandante della penitenziaria e un altro agente sono rimasti feriti, era sfociata in barricate di letti e armadi, con i ragazzi che si rifiutavano di rientrare nelle loro stanze. Ieri mattina, le proteste sono ricominciate quando alcuni dei protagonisti dei disordini della sera prima - sei in totale - sono stati informati che sarebbero stati trasferiti in altre strutture. I maggiorenni, che avevano già tenuto analoghe condotte nelle strutture di Milano e Torino, in istituti per adulti. Dopo il primo trasferimento, con due giovani nordafricani portati nelle carceri di Reggio e Modena, l’altro ragazzo che doveva essere spostato, un minorenne che doveva essere portato in un Ipm a Roma, si è barricato con altri all’interno di una cella, rifiutandosi di uscire. Di nuovo al Pratello, assieme alla penitenziaria, sono dovuti intervenire ancora polizia e carabinieri. In via de’ Marchi sono arrivati il garante per i detenuti Antonio Ianniello, l’assessora alla Sicurezza Matilde Madrid e la consigliera Simona Larghetti, che hanno incontrato il direttore dell’istituto Alfonso Paggiarino. La situazione è rimasta tesa fino al tardo pomeriggio. Dopo una sfiancante trattativa e dopo l’arrivo delle squadre del Gio (gruppo di intervento operativo) da Firenze e Roma, anche il giovanissimo, che sarebbe tra l’altro l’animatore della rivolta della sera prima, è stato trasferito. Tutti risponderebbero di rivolta in carcere, un nuovo reato introdotto dal decreto Sicurezza. Una situazione che rappresenta plasticamente lo stato di difficoltà in cui versa il Pratello, dove ieri mattina, prima dei trasferimenti, i detenuti erano 49, su una capienza massima di 40 e con il Cpa chiuso per ristrutturazione. Una situazione denunciata anche dalla Camera Penale, che ha espresso “preoccupazione per i recenti eventi critici”, sottolineando come “il dato allarmante attiene alla percentuale di ragazzi ristretti in custodia cautelare (circa l’80%) e che ha registrato un aumento importante in seguito all’entrata in vigore del Decreto Caivano”. Una situazione che pesa sull’Ipm di Bologna, “da sempre fiore all’occhiello tra gli Ipm del territorio nazionale, per l’eccellente gestione e la qualità delle attività trattamentali e formative”, ora invece “foriero di importanti problematiche di convivenza tra i ragazzi”. Per cui i penalisti rivolgono un appello non solo alle istituzioni, ma anche all’autorità giudiziaria, perché valutino con la “massima cautela” l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Caserta. Don Salvatore Saggiomo nominato Garante provinciale dei detenuti di Vincenzo Cimmino fanpage.it, 20 aprile 2025 Il prelato, sacerdote della diocesi di Aversa, ha ricoperto per anni il ruolo di cappellano presso il carcere di Secondigliano a Napoli. La provincia di Caserta ha un nuovo garante dei detenuti. È don Salvatore Saggiomo, sacerdote della Diocesi di Aversa e viceparroco della Chiesa San Massimiliano Maria Kolbe di Giugliano in Campania. Il prelato assume così una carica rimasta vacante per almeno quattro anni. Si occuperà dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale a titolo completamente gratuito. Una nomina, quella del religioso, che rappresenta un passo in avanti significativo per la promozione e il rispetto dei diritti umani e il miglioramento delle condizioni di vita di chi sta scontando una pena detentiva. “Assumo questo incarico con senso di responsabilità e dedizione” ha commentato il neo-garante per il casertano, “consapevole delle sfide che mi attendono. Il mio impegno sarà rivolto a garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute e a promuovere percorsi di reintegrazione sociale efficaci. Chi sbaglia è giusto che paghi, ma con dignità”. Don Saggiomo ha voluto anche ringraziare il Presidente facente funzioni della Provincia di Caserta Marcello De Rosa e il Vescovo di Aversa Angelo Spinillo. Noto per il suo impegno nella giustizia sociale e nella difesa dei più vulnerabili, il prelato ha ricoperto per anni il ruolo di cappellano presso il carcere di Secondigliano a Napoli. Lì ha dimostrato di avere grande attenzione verso il reinserimento sociale dei detenuti, offrendo loro supporto morale e promuovendo diverse iniziative volte alla loro reintegrazione. Don Saggiomo, giornalista e cofondatore con Gennaro Panzuto dell’associazione “NCO - Niente camorra oggi”, è anche attivamente impegnato nella prevenzione della criminalità e nella promozione di percorsi alternativi per i giovani del territorio campano. Tra i compiti che si ritroverà ad affrontate, il monitoraggio delle strutture detentive per assicurare il rispetto della dignità umana, la promozione dei programmi volti al reinserimento per i detenuti, la collaborazione con le istituzioni e le organizzazioni del terzo settore, la sensibilizzazione del pubblico e il dialogo costante con i giudici per la tutela dei diritti individuali dei singoli. La Provincia di Caserta ha recepito il ruolo del garante nel 2020, con una delibera. Brescia. Via Crucis, riflettori sul carcere: “Non dimenticare chi ha sbagliato” di Francesco Alberti Giornale di Brescia, 20 aprile 2025 Don Stefano Fontana: “Un mondo di invisibili”. “È bastato un giorno per passare da una vita irreprensibile a compiere un gesto che è stato per me la morte: ho tolto la vita ad una persona”. E ancora: “Non mi ero accorto che il male lentamente cresceva dentro di me. Finché una sera è scoccata la mia ora delle tenebre: in un attimo, come una valanga, mi si sono scatenate contro tutte le memorie delle ingiustizie subite in vita”. Ed ecco allora che “la rabbia ha assassinato la gentilezza, ho commesso un male immensamente più grande di tutti quelli che ho ricevuto”. Sono alcuni dei passaggi della riflessione scritta da un detenuto di Canton Mombello, una delle meditazioni che hanno accompagnato le stazioni della Via Crucis organizzata dalla parrocchia di Sant’Afra in città: il Venerdì santo è stata così l’occasione per accendere, una volta in più, i riflettori sulla situazione del carcere di Canton Mombello, una struttura obsoleta e inadeguata, tra le più sovraffollate d’Italia. La Via Crucis e il penitenziario cittadino sono stati anche i protagonisti di Messi a fuoco, il programma di Teletutto dedicato all’attualità condotto da Andrea Cittadini. Le meditazioni della Via Crucis sono state curate dalla cappellania della Casa circondariale Nerio Fischione di Brescia e dai volontari in carcere del Vol.ca. Quattordici persone hanno meditato sulla Passione di Gesù Cristo rendendola attuale nelle loro esistenze. Tra loro un volontario, un agente di Polizia penitenziaria, un detenuto. “I testi, sono stati scritti in prima persona, ma si è scelto di non mettere il nome - ha raccontato don Stefano Fontana, cappellano di Canton Mombello che ha guidato la Via Crucis -: chi ha partecipato a questa meditazione ha voluto prestare la sua voce a tutti coloro che, nel mondo, condividono la stessa condizione. Nel silenzio delle prigioni, la voce di uno desidera diventare la voce di tutti”. Protagonisti della puntata anche il senatore del Pd Alfredo Bazoli e Antonio Fellone, segretario provinciale del Sinappe. Canton Mombello è una struttura ottocentesca che ospita 370 detenuti a fronte di una capienza di 220 posti; da decenni si parla di un nuovo carcere a Brescia. Fellone ha dichiarato che il progetto (che può contare su 53 milioni di fondi statali) partirà entro quest’anno e si concluderà in tre anni. Molto dubbioso su queste tempistiche (per usare un eufemismo) il senatore Bazoli. Il progetto prevede la realizzazione di un nuovo padiglione a Verziano, sacrificando parte dell’area verde, aree che verranno recuperate acquisendo terreni limitrofi. Ma in realtà, com’è stato sottolineato ieri sera, è un progetto che risolve solo parzialmente il problema: i 240 posti che verranno realizzati (quando verranno realizzati) non sono comunque sufficienti per poter chiudere Canton Mombello; in ogni caso sarebbe un significativo passo avanti. Come ha detto il senatore Bazoli, citando un famoso detto bresciano, “piuttosto che niente, meglio piuttosto”. Il racconto di come si viva all’interno del penitenziario è arrivato direttamente dalle parole di una persona (ora ai domiciliari) che ha scontato parte della sua pena nella struttura bresciana (la sua testimonianza è stata raccolta tramite messaggi WhatsApp). “L’isolamento al carcere milanese di Opera - ha spiegato - sembra un salottino inglese rispetto a Brescia. Canton Mombello è una struttura fatiscente, con celle sovraffollate dove si vive in condizioni disumane. D’estate si arriva 46 gradi, d’inverno si gela. C’è solo una soluzione possibile: il carcere va abbattuto”. Il vescovo Pierantonio Tremolada ha voluto dedicare un progetto giubilare proprio ai detenuti, “Via dei bucaneve, 25” punta a supportare il percorso di reinserimento nella società (e nella vita) per chi ha scontato la propria pena. “Il carcere di Canton Mombello - ha concluso don Fontana - è in mezzo alla città, ma sembra essere invisibile. Noi lavoriamo perché sia riconosciuta la dignità dei carcerati e di chi lavora nella struttura”. San Gimignano (Si). Vive in una cella foderata di libri e si laurea da dietro le sbarre di Salvatore Mannino Corriere Fiorentino, 20 aprile 2025 L’uomo, 50 anni, siciliano, è detenuto in regime di massima sicurezza, e ora dottore in Scienza della formazione. Il professor Navone dell’Università di Siena: “Mi ha emozionato l’impegno che ci ha messo”. La sua è una resurrezione metaforica dall’inferno della galera, grazie allo studio, che ben si inquadra nel clima dei giorni di Pasqua. Accusato di mafia, anche se lui si è sempre dichiarato innocente, condannato a quasi dieci anni di carcere, è riuscito ad ottenere la laurea magistrale in Scienza della Formazione “frequentando” l’università da dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza. Lunedì scorso, 14 aprile, la discussione della tesi e la proclamazione del titolo di dottore nel campus di Arezzo dell’università di Siena. Il titolo della ricerca con la quale il protagonista si è presentato davanti alla commissione è già significativo dell’intento con il quale lui ha affrontato gli ultimi due anni dei corsi accademici: “La formazione e il lavoro rendono l’uomo libero”. La sintesi di un lavoro che nella sua seconda parte è in gran parte autobiografico, come spiega il professor Gianluca Navone, responsabile del polo universitario penitenziario senese, cui sono iscritti un centinaio di detenuti, che lo ha seguito da vicino nel suo percorso universitario. Nome e cognome restano coperti dal segreto per ragioni di privacy e anche di sicurezza. Di lui si sa che è sulla cinquantina, siciliano della parte occidentale dell’isola, rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di San Gimignano, provincia di Siena, dove sta scontando l’ultimo anno di una pena inflittagli per associazione mafiosa. Non ha mai commesso delitti di sangue ma sarebbe stato nella cerchia di un boss di prima grandezza, circostanza che lui ha sempre negato. In primo grado i giudici gli avevano dato ragione, ma in appello è invece arrivata la condanna, pesante, che gli è costata la reclusione in alcuni delle carceri più dure della penisola. Molti, nella sua stessa condizione, avrebbero affrontato la pena con protervia o con disperazione, oppure con la cupa depressione dalla quale si fanno distruggere i tanti che non resistono all’esperienza carceraria, specie quella dei penitenziari di massima sicurezza. Non lui che invece ha trovato nell’università un’alternativa di vita capace di restituirgli la speranza. Diploma di scuola superiore tecnica alla mano, ottenuto quando era ancora un libero cittadino, il detenuto senza nome aveva già conseguito la laurea triennale all’università di Urbino, quando era ancora rinchiuso in un altro istituto di massima sicurezza, quello di Fossombrone, nelle Marche. Poi il trasferimento a San Gimignano e la decisione di arrivare fino al massimo grado degli studi, quello magistrale: Scienza della formazione, uno dei dipartimenti nati dalla vecchia facoltà di magistero che per l’ateneo di Siena si trova nel campus del Pionta ad Arezzo. Lo hanno seguito il professor Navone, il dottor Gioele Barcellona, che gli ha fatto da relatore di laurea, e alcuni studenti tutor, quelli cioè che hanno curato più da vicino il percorso universitario del neo-dottore facendogli da tramite con l’ateneo e il dipartimento. Anche loro meritano di essere ricordati: Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto. Gli esami, spiega Navone, li ha affrontati in parte dentro il carcere, con il professore di turno che entrava nel penitenziario, dove c’è un’ala apposita, e in parte al campus aretino, con dei permessi speciali. “Ma quello che mi ha emozionato di più - racconta il docente - è stato l’impegno che ci ha messo. La sua cella è foderata di libri e anche quando, di recente, si è dovuto ricoverare in ospedale per un intervento piuttosto serio ha continuato a studiare. Siamo andati a trovarlo alla vigilia dell’operazione e lo abbiamo trovato immerso fra gli appunti, le dispense e i volumi. Dico la verità. Al suo posto non ce l’avrei fatta e mi sarei piuttosto preoccupato della malattia”. Poi finalmente, il gran giorno della laurea, nel quale gli si è stretta intorno tutta la famiglia: c’erano la moglie, una delle figlie anche lei in dirittura di arrivo all’università, l’anziano padre, i fratelli e i nipoti. L’altra figlia doveva affrontare l’ultimo esame universitario ed è stato lui a chiederle di rimanere in Sicilia a prepararsi. Davanti alla commissione il laureando si è presentato da solo, senza scorta di agenti penitenziari, con un permesso speciale previsto per occasioni come questa, doveva solo rientrare a San Gimignano entro un determinato orario. C’è stata anche una festicciola con i parenti, l’hanno incoronato con il lauro come da tradizione per tutti i neo-laureati. “Ce l’ho fatta - tra le sue poche parole - ed è una rivincita pure per ribadire la mia innocenza. Nella tesi ho voluto raccontare la mia esperienza dentro il sistema carcerario, con dati oggettivi e pure con il mio vissuto personale”. Se la storia del detenuto con la laurea finisce qui, il professor Navone ha un altro cruccio: “Di recente - spiega - il Dap (il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia) ha introdotto una stretta sulla base della quale i detenuti nelle carceri di massima sicurezza devono rimanere in cella almeno 16 ore al giorno. Il che significa la fine dello studio che prima i detenuti iscritti all’università conducevano in comune. Uno scambio di punti di vista ed esperienze che era utile a tutti, impedito adesso da questa norma inutilmente punitiva. Mi auguro che sia cambiata al più presto”. Milano. I detenuti di San Vittore contro l’indifferenza di Jessica Chia Corriere della Sera - La Lettura, 20 aprile 2025 I reclusi di oggi si confrontano con i reclusi di ieri (ebrei, prigionieri politici). Un laboratorio realizzalo dalla Fondazione Memoriale della Shoah e Cdec. L’indifferenza è il veleno della società. È non pensare che abbiamo tutti lo stesso diritto alla vita. Sono le storie dimenticate e consumate nella solitudine di tragedie personali. È la discriminazione. Andrea, Irene e Laura, detenuti del carcere di San Vittore a Milano, riflettono (nei testi che hanno inviato a “la Lettura” e che pubblichiamo in queste pagine) su quella stessa parola scelta da Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, per essere scolpita nella pietra del muro-installazione del Memoriale della Shoah. Come loro, sul tema hanno iniziato a confrontarsi il mese scorso detenuti e detenute a San Vittore, luogo spesso invisibile a occhi esterni, che stanno portando avanti anche una riflessione intorno a un altro concetto, con cui hanno a che fare ogni giorno: la libertà. Gli ottant’anni dalla Liberazione diventano così l’occasione per fare “incontrare” i detenuti di oggi con le testimonianze di chi fu incarcerato proprio qui durante la guerra, in un progetto intitolato San Vittore: esperienze di ieri, voci di oggi realizzato dalla Fondazione Memoriale della Shoah di Milano con la Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec). Cioè un laboratorio di scrittura - della durata di un anno con appuntamenti bimensili - realizzato con l’Associazione Amici della Nave Odv e avviato in coordinamento con la direzione della Casa circondariale, grazie alla collaborazione degli educatori del carcere, che coinvolge il reparto femminile del carcere e quello maschile de La Nave (reparto di trattamento avanzato per la cura delle dipendenze) gestito dall’Asst Santi Paolo e Carlo. Durante quest’anno di lavoro i detenuti entreranno in contatto con le testimonianze scritte (conservate dall’Archivio del Cdec) delle persone che tra il 1943 e il 1945 furono rinchiuse in quanto ebrei o/e oppositori politici al regime nazifascista e che furono incarcerati nei raggi IV, V e VI del penitenziario milanese. Occasione per pensare intorno alla personale esperienza di vita e di detenzione, entrare in contatto con la nostra storia (in particolare per chi viene da un altro Paese e da tradizioni differenti) e avere l’occasione per portare fuori da quel luogo la propria voce, il proprio vissuto. Il progetto sarà presentato al pubblico martedì 22 aprile al Memoriale della Shoah (con la partecipazione di sei detenute) e i loro elaborati scritti saranno raccolti, e poi presentati al pubblico, a distanza di un anno dall’inizio del progetto. “L’iniziativa è nata da un nostro interesse per le condizioni marginali di migranti e detenuti - spiega a “la Lettura” Marco Vigevani, direttore della Commissione cultura e eventi della Fondazione Memoriale della Shoah - ma questa volta volevamo dare un senso un po’ diverso all’anniversario della Liberazione, ispirandoci sempre alle idee di Liliana Segre e al suo monito contro l’indifferenza. Parleremo di quello che è avvenuto a San Vittore prima della Liberazione, nel periodo tragico tra il 1943 e il 1945, in cui anche Segre fu detenuta col padre nel quinto raggio. Ci auguriamo che da questa riflessione possa venire un arricchimento storico per gli stessi detenuti, sia per conoscere il luogo in cui si trovano, sia per riflettere sulla loro condizione oggi. Non sono parallelismi: in quello stesso luogo la condizione dei detenuti era allora terribile, oggi c’è comunque una situazione che la società intorno non vuole vedere”. Finora il laboratorio ha proposto due incontri preparatori in cui sono stati introdotti testi storici che raccontano la detenzione dell’epoca, le richieste alle famiglie e le testimonianze delle condizioni di vita a San Vittore (come quelle che pubblichiamo in anteprima in questo grafico). È stato dato un inquadramento dell’epoca; la spiegazione di che cosa sia un archivio e le differenze di detenzione, in una sorta di relazione tra ieri e oggi. “Il nostro istituto si occupa storicamente di Shoah. L’archivio è ricco di documentazione sulle vicende degli ebrei che hanno subito arresti e deportazioni, donati spesso dai famigliari delle vittime”, spiega Laura Brazzo, vicedirettrice della Fondazione Cdec e responsabile dell’Archivio storico. Tra questi materiali ci sono anche le lettere di Fausto Levi (1892-1943), ebreo antiquario incarcerato a San Vittore nel 1943 e poi deportato ad Auschwitz, e mai più tornato. O la testimonianza di Renata Caminada (1921-1993), arrestata in seguito a una delazione nell’aprile 1945, poi liberata il 26 dai partigiani. Si possono trovare anche testimonianze di non ebrei come Antonio De Bortoli, detto “Il Barba”, che depose nel 1967 per le indagini in corso in Germania per il processo contro il criminale nazista Friedrich Bol3hammer, ritenuto responsabile delle deportazioni dall’Italia. De Bortoli era un partigiano cattolico attivo nel Varesotto; fu detenuto prima a Como, poi a Milano e infine nel campo di concentramento di Fossoli (Modena). “San Vittore: esperienze di ieri, voci di oggi ci permette di utilizzare la nostra documentazione d’archivio per un’attività di impatto sociale - prosegue Brazzo - fuori dagli schemi consueti di ricerca e divulgazione. E ci mette al servizio di una comunità di cittadini sempre più ampia e varia”. “Spero che l’esperienza del laboratorio possa rappresentare un momento di crescita per chi vi parteciperà - conclude Eliana Onofrio, presidente dell’Associazione Amici della Nave -. Quasi certamente faticosa, anche per le tante e diverse sensibilità etniche, culturali, religiose, anagrafiche, che assai più oggi di ottant’anni fa si trovano a convivere all’interno di un carcere e spesso all’interno della stessa cella. Quindi esperienza di ascolto, esercizio e allenamento di accoglienza nella diversità”. Firenze. “Poesia e salvezza”, 45 opere per raccontare l’umanità oltre le sbarre firenzetoday.it, 20 aprile 2025 L’arte di Gessica La Pira in mostra nel Chiostro Grande della SS. Annunziata a Firenze, per dare voce a chi ha vissuto il carcere e sostenere progetti di reinserimento sociale. Inaugurazione mercoledì 23 aprile. È stato presentato ieri alla stampa, presso lo storico caffè letterario Giubbe Rosse, il progetto espositivo “Poesia e Salvezza”, ideato dall’artista Gessica La Pira e curato da Francesca Roberti. L’inaugurazione è prevista per mercoledì 23 aprile alle ore 18.30, nella suggestiva cornice del Chiostro Grande della SS. Annunziata a Firenze. Andrà avanti fino al 2 maggio compreso. L’iniziativa, che intreccia arte e impegno sociale, nasce da un’idea della criminologa Giovanna Ottavi e si propone di sostenere i percorsi di reinserimento nella società per persone ex detenute. La mostra, che sarà inaugurata, presenterà 45 opere di Gessica La Pira realizzate con tecnica mista su tela, dove dominano la luce e il colore bianco, simbolo di una dimensione sacrale legata al principio della vita e al femminile. Il percorso espositivo affronta il tema della perdita di identità culturale nella società contemporanea, attraverso un linguaggio introspettivo e simbolico. “L’intento è quello di sensibilizzare il pubblico verso una direzione che vede l’arte come necessità dello spirito, responsabilità. Educare alla bellezza vuol dire educare alla speranza. L’essere umano, la nostra identità, la cultura devono essere considerate bussole necessarie per continuare nel cammino di uno stato sociale che non deve arrendersi, che deve mantenere una distanza tra ‘mondo reale’ e ‘mondo digitale’, che deve includere ogni forma, non smarrire la singolarità che caratterizza ogni vita umana e deve essere rivolto all’umanità intera.” - commenta Gessica La Pira. “Collaboro con il Centro Diurno Attavante e l’Associazione C.I.A.O., che operano negli istituti penitenziari fiorentini, offrendo supporto a detenuti, ex detenuti e alle loro famiglie, in collaborazione con gli operatori trattamentali. È importante che chi visiterà la mostra superi paure e pregiudizi verso chi ha vissuto in carcere. Ogni detenuto ha una sua storia e, una volta scontata la pena, merita di essere trattato come una persona, con il diritto di reintegrarsi nella società” - commenta Giovanna Ottavi. Il ricavato della vendita delle opere della mostra “Poesia e Salvezza” sarà destinato a progetti di reinserimento per detenuti ed ex detenuti delle carceri di Sollicciano e Gozzini, promossi dalle associazioni C.I.A.O. e Centro Diurno Attavante. Il progetto è patrocinato dal Comune di Firenze, dalla Regione Toscana e dal Consiglio Regionale della Toscana. Milano. Dalle “stelle” alle sbarre: a cena nel carcere di Bollate di Andrea Cuomo Il Giornale, 20 aprile 2025 Una serata “In Galera”, il ristorante dentro il penitenziario. Tra camerieri detenuti, vini “galeotti” e cotolette vestite. Chester è filippino. Parla benissimo l’italiano, è ironico e sornione. Fa il cameriere in un ristorante nell’hinterland milanese. È bravo, perfino elegante, indossa con stile il sorriso. La sera, come ogni suo collega, fa ritorno dalla famiglia. Ma solo da poco. “Sono in affidamento al lavoro, posso dormire a casa. Ma ogni giorno lavoro qui”. Qui, per Chester, è il ristorante In Galera nel carcere di Bollate, l’unico in Italia all’interno di un penitenziario accessibile a pranzo e a cena da persone a piede libero e dallo stomaco capiente. Chef e manager a parte, vi lavorano soltanto detenuti, che guadagnano uno stipendio e si riappropriano della cultura del lavoro. In Galera esiste dal 2004. Si definisce ristorante gourmet, parola forse un po’ eccessiva e poi qui dentro forse non sanno che il fine dining, là fuori, è in crisi. Diciamo che qui si viene per mangiare del buon cibo senza pretese avanguardistiche, in un ambiente curato e a un prezzo discreto, ma soprattutto per fare un’esperienza inconsueta forse perfino elettrizzante. Se dovessi dargli un voto, io che recensisco locale per mestiere, gli darei 72 su 100. Un voto in più, forse, per il buon Chester: 73, toh. Arrivo al carcere di Bollate dopo aver prenotato telefonicamente, è sera, piove piano, e mi aspetto chissà quali seccature burocratiche: documenti, metal detector, il telefono da lasciare all’ingresso. E invece un signore elegante e alquanto silenzioso mi indica dove parcheggiare e poi mi accompagna al ristorante senza complicazioni. Cento passi “bagnati” (il tipo non condivide con me il suo ombrello pur capiente) ed ecco l’ingresso. L’interno è luminoso, pulito, curato un po’ asettico. Alle pareti grandi poster con le locandine di film a tema carcerario: “Fuga da Alcatraz”, “Le Ali della Libertà”, “Il Miglio Verde”. Chiunque abbia allestito questo posto non era certo a corto di ironia. Il ristorante è pieno per metà, l’atmosfera è rilassata. Chester mi porta il menu: la proposta è basata su classici della cucina milanese e italiana. Assaggio un buon Tortino di zucchine e porri all’acqua di pomodoro, dei Mondeghili con zabaione salato che avrei gradito più croccanti, degli onestissimi Ravioloni al caciocavallo con pancetta croccante, gamberi rossi e scorzetta di limone. Per secondo azzardo una Cotoletta alla milanese “vestita” con rucola e pomodorini che non metterei nella mia top five milanese ma è a dir poco corretta, con osso, non troppo battuta e quindi medio-alta, con una panatura ben aderente alla carne. Il prezzo, 25 euro, quello sì rimarchevole considerando quanto costa altrove. Assaggio anche del Cacciucco alla livornese estremamente ricco, sfamerebbe due persone, ma lo scorfano ha davvero tante spine e va mangiato con attenzione. Chiudo con una zuppa inglese - dolce nonnesco che sta tornando di gran moda, hurra! - molto densa e piacevole. La carta dei vini è ben fornita e piuttosto tradizionale, i ricarichi sono onesti. Ci sono anche i vini dell’azienda agricola I Germogli, della vicina San Colombano, dai nomi carcerari: Il Ricercato è un rosso da uve Croatina, Barbera, Uva Rara e Cabernet, come del resto Il Galeotto. Chiedo di conoscere lo chef, Chester trasecola e mi chiede: “È sicuro?”. Daniele Fatarella, elbano, arriva perplesso, si vede che non è abituato a salutare i clienti, non è un “cuoco artificiale”. Incassa i miei commenti, torna a sedersi in un angolino dietro la cassa. Ah, a proposito di cassa, conto di 72,50 euro con una bottiglia di Primitivo divisa in due. Speriamo che al ritorno non mi fermi la polizia con l’alcol-test. Non vorrei dover tornare qui nel giro di poche ore e non da cliente. Padova. Edizioni Messaggero: triplicate le adesioni al “Libro sospeso” da donare ai detenuti agensir.it, 20 aprile 2025 La catena di carità avviata dalle Edizioni Messaggero Padova (Emp) coinvolgendo i lettori era iniziata a dicembre scorso in alcune carceri di Piemonte e Valle d’Aosta, con l’adesione degli enti EssereUmani e L’eremo del Silenzio di Juri Nervo, e in Sardegna e in Veneto, rispettivamente con la Casa di carità arti e mestieri di Nuoro e Pove del Grappa (Vi). E ora, in poco meno di quattro mesi di attività, le adesioni sono triplicate con l’estensione del servizio in altre sette regioni - Lazio, Emilia Romagna, Lombardia, Marche, Molise, Puglia e Toscana - per un totale di 11 regioni coinvolte. A fare da volano all’iniziativa di solidarietà avviata da Emp è stato in questo caso il coinvolgimento dell’Ordine francescano secolare d’Italia (Ofs) e dell’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane, che vigila sul servizio religioso svolto dai cappellani negli istituti penitenziari. I laici francescani portano i libri inviati gratuitamente da Emp direttamente ai detenuti, oppure, laddove non abbiano l’autorizzazione a entrare nelle case circondariali, hanno dato vita a una sorta di staffetta per il passaggio dei libri ai cappellani delle case circondariali dove operano, che li consegnano a loro volta alle persone ristrette. Ecco come funziona il “Libro sospeso” di Emp, il progetto solidale della casa editrice antoniana che mira a supportare i detenuti in diverse regioni d’Italia: i lettori scelgono uno o più libri dalla sezione dedicata sul sito www.edizionimessaggero.it e li inseriscono nel carrello aderendo all’iniziativa, seguendo i passi indicati fino al momento del pagamento. Il libro viene poi spedito a uno degli enti coinvolti che hanno aderito al progetto, il quale si occuperà di fare giungere il libro donato da ciascun lettore nelle carceri scelte. Le Edizioni Messaggero Padova sostengono integralmente le spese di spedizione dei “libri sospesi” donati dai lettori e coordinano il processo con le realtà coinvolte. Una catena di bene iniziata con l’avvio dell’Anno giubilare e che continua coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone, detenute e non. Un segno in linea con quanto indicato da Papa Francesco che nella Bolla di indizione del Giubileo 2025 così scriveva: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati a essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Un’iniziativa, quella di Emp, con cui tutti possono diventare segno di speranza e donare speranza anche a chi è recluso. Info: per donare un “libro sospeso” https://www.edizionimessaggero.it/keyword/libro-sospeso-28.html per adesioni come ente che opera a favore dei detenuti: Edizioni Messaggero Padova, tel. +390498225777 - emp@santantonio.org. Crotone. La storia di un ex detenuto diventa un cartone animato di Antonio Anastasi Quotidiano del Sud, 20 aprile 2025 Premio Europa per il monitoraggio civico degli studenti del liceo “Pitagora” di Crotone. La storia di un detenuto diventa cartone animato. I ragazzi volano a Bruxelles. La storia di riscatto di un ex detenuto diventa un cartone animato grazie agli studenti del liceo classico Pitagora di Crotone, che hanno vinto un premio europeo e presto voleranno a Bruxelles per presentare alla Commissione Ue il loro progetto su un cambiamento possibile. Anzi reale. Il team di ragazzi si chiama “Insid3 out”. Il “3” si riferisce all’articolo della Costituzione che si occupa di diritti sociali. Quelli calpestati dalle mafie. Ma cambiare si può. Lo raccontano bene gli studenti crotonesi, che hanno vinto il Premio Europa nell’ambito del progetto “A scuola di Open Coesione”. Un percorso didattico innovativo finalizzato a sviluppare principi di cittadinanza attiva e consapevole attraverso attività di ricerca e monitoraggio civico dei finanziamenti pubblici. Un’iniziativa nazionale di open government, coordinata dal Dipartimento per le Politiche di Coesione e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La premiazione si terrà il prossimo 9 maggio, in occasione della Festa dell’Europa, a Napoli, presso il Campus Universitario di San Giovanni a Teduccio. Successivamente, a Bruxelles, gli studenti incontreranno i referenti della Commissione europea per confrontarsi sul lavoro di monitoraggio civico realizzato. In questa attività di cittadinanza attiva, fortemente voluta dalla dirigente scolastica Natascia Senatore, gli studenti, coordinati dalla professoressa Rossella Frandina, sono stati supportati dal Centro Europe Direct di Gioiosa Jonica e dall’Istat. Il progetto monitorato, pubblicato di recente su Monithon, la più grande piattaforma europea di monitoraggio civico indipendente, è “Realizzazione di work-experience per soggetti in misura penale pregressa o attuale”. Programmatore e beneficiario è la Regione Calabria, attuatore il Consorzio Jobel. L’aspetto più innovativo consiste nella capacità di Jobel di coinvolgere il Terzo settore e le aziende operanti sul territorio calabrese realizzando un modello di inclusione sociale in cui chi ha finito di scontare la pena ha potuto confrontarsi con la realtà lavorativa. Gli studenti del Pitagora hanno raccontato, attraverso le tecniche del data journalism, la storia di di Giovanni Bifezzi, ex detenuto e oggi custode del Museo di Pitagora, il parco tematico gestito dal consorzio che negli anni è diventato il principale contenitore culturale di Crotone. Una storia assai commovente che funziona da monito. Una storia in tre tempi. Prima il reato, poi l’arresto e la vita in prigione. Ma c’è anche un quarto tempo, quello del riscatto. Un tempo che diventa, nella creatività dei giovani studenti, una storia raccontata attraverso un cartone animato. Una storia di donne e uomini che lottano per una cultura del cambiamento dando centralità ad un lavoro che diventa una possibilità concreta per restituire dignità a persone e territori. Nella trama non ci sono solo i momenti positivi che hanno portato alla possibilità per gli ex detenuti di ricostruirsi una vita. C’è l’ansia e la disperazione di chi prende coscienza del suo errore. Ci sono, nel racconto di Bifezzi, gli anni “privi di luce, perché in carcere anche i tuoi occhi si abituano al buio”. Tra lacrime e sorrisi, rammenta il forte e sincero sentimento che lo ha spronato a riprendersi una vita: l’amore incondizionato per una figlia che è il centro della sua esistenza. Nel luglio 2012 ha terminato di scontare la pena. Poi, il reinserimento sociale grazie a chi gli ha offerto una seconda possibilità, il Consorzio Jobel. “Se qualcuno non avesse creduto in me, forse, avrei sbagliato di nuovo. Ed io, invece, volevo una vita che fosse mia”, ripete. Bifezzi insiste sull’importanza per i giovani, che si ritrovano in situazioni simili a quella che egli stesso ha affrontato, di trovare uno scopo nella vita, di fare della famiglia l’elemento fondamentale della propria esistenza, di lavorare. “Non è facile uscire dal carcere. Un mio compagno, dopo aver trascorso gran parte della sua vita dietro quattro sbarre, una volta uscito non sapeva come ricominciare. È morto qualche settimana dopo”. Nella parte finale del video-racconto, mentre Giovanni è seduto accanto ad una ragazza del team Insid3 out, squilla il telefono. Il suo volto si illumina. Sorride. È la figlia. Deve andare a prendere il nipote in piscina. È un nonno felice. Oggi la sua vita è piena. Il reinserimento sociale è possibile. Inside and out. Teatro in carcere, “esperienza italiana un esempio all’estero” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 20 aprile 2025 Il Coordinamento nazionale del teatro in carcere esiste da 14 anni. L’obiettivo è valorizzare le esperienze di compagnie di attori-detenuti che da decenni operano in diversi istituti. Nel 2011, quando nacque, il Coordinamento vide la partecipazione di 12 carceri. “Oggi aderiscono oltre 40 esperienze in 14 regioni italiane; ma circa 70 istituti sono stati coinvolti nelle nostre attività”, racconta il presidente Vito Minoia, che sin dagli studi universitari in sociologia a Urbino si occupa di teatro sociale. Il suo maestro è Emilio Pozzi, storico del teatro con cui nel 1996 ha fondato la rivista “Catarsi - teatri delle diversità”. È del 2013 il protocollo tra il Coordinamento e il Ministero della Giustizia; il rinnovo ogni 3 anni, l’ultimo a maggio 2022. Con la firma del documento, l’ente ha iniziato a celebrare la Giornata del teatro in carcere (27 marzo), cui si è affiancata anche quella della danza (29 aprile). In mezzo alle due ricorrenze, una fitta rassegna di spettacoli delle compagnie di detenuti all’interno e all’esterno degli istituti. L’attività di Minoia parte nel 1994 nel carcere di Modena, poi a Pesaro nel 2002, “grazie a un invito rivoltomi dalla direzione educativa dell’istituto, dove abbiamo strutturato un progetto continuativo che non si è mai fermato”, racconta. Si tratta dell’esperienza dell’Associazione culturale cittadina universitaria Aenigma, che ha all’attivo due compagnie teatrali all’interno della casa circondariale. Una, “Lo Spacco”, è mista e prosegue dal 2006. L’attività nell’istituto della città marchigiana ha suscitato la curiosità dell’Unesco. Una sua “costola”, L’International theatre institute (Iti) guarda al lavoro del Coordinamento dal 2017. “Mi è stato chiesto, a partire dall’esperienza italiana - dice Minoia - di costruire un network internazionale del teatro in carcere. Nel 2019 una delegazione ha visitato la casa circondariale di Pesaro. Tra un paio d’anni potremo avviare una nuova associazione con un premio dedicato. Questo conferma che l’Italia è capofila nelle attività teatrali in carcere”. Dal protocollo con il Ministero della Giustizia è scaturito anche il Festival annuale del Teatro in carcere Destini incrociati, giunto alla sua decima edizione, l’ultima a Pesaro nel dicembre 2023. Quattro giorni all’anno in una città diversa; “è itinerante - dice Minoia - e si tiene nelle realtà con esperienze più consolidate e che hanno maggiori aiuti istituzionali”. E la prossima? “Partiremo il 24 settembre con un’anteprima a Firenze, poi a Livorno e a Gorgona dal 25 al 27 settembre”, svela Minoia. Nella casa di reclusione dell’isola toscana è attiva la compagnia Teatro popolare d’arte, diretta da Gianfranco Pedullà. Il Festival è costruito dal basso: il Coordinamento nazionale invia una manifestazione d’interesse a tutti gli istituti, sia per adulti che per minori, ma anche alle realtà della giustizia minorile e di comunità. Una commissione artistica seleziona i progetti, che verranno poi messi in scena o rappresentati durante il Festival. “Entro fine maggio - spiega Minoia - chiunque potrà spedire proposte articolate di partecipazione, o con spettacoli teatrali o con video. La rassegna video, ovviamente, favorisce quei contesti dove è inimmaginabile il trasferimento sotto scorta”. E a proposito di logistica, il sostegno istituzionale è essenziale. “Il Ministero ci aiuta anche nel collegamento tra istituti penitenziari che hanno visto le proprie proposte selezionate e che spesso si organizzano anche con trasferta sotto scorta”, dice il presidente del Coordinamento. Progetti fatti crescere, e che portano in molti casi i detenuti a cambiare vita. Minoia cita “l’esperienza romana del teatro libero di Rebibbia, con il ‘Cesare deve morirè messo in scena da Fabio Cavalli, che ha di certo dato spunto ad alcuni ex detenuti per proseguire esperienze anche in nuove formazioni teatrali”. L’obiettivo futuro del Coordinamento nazionale è rendere pop il teatro in carcere. “è essenziale - dice Minoia - riconoscere in termini culturali la crescita di un fenomeno non ghettizzato, ma di rilevanza nazionale, affinché le programmazioni stesse dei teatri cittadini possano ospitare produzioni realizzate dentro le carceri. Questo lavoro poi dev’essere costantemente sostenuto, è questo il segreto di un’attività in carcere”. Proprio come succede a Pesaro: “il nostro progetto esiste da 23 anni e non è stato mai interrotto; ci ha dato l’opportunità di guardare lontano e, ovviamente, pensare anche a una progressiva crescita dell’esperienza”. Generazione maranza a Milano, tra le bande di ragazzini che “scavallano” di Andrea Galli Corriere della Sera, 20 aprile 2025 La vendetta contro i “ricchi sfigati”. Prosegue il viaggio del Corriere fra gli adolescenti di Milano e provincia. Il rito delinquenziale dello scavallo e il grande tema della forte ondata migratoria dall’Egitto. La strada è a senso unico, stretta, di là, lontano, viale Monza, di qui, ormai prossima, via Padova bassa, quella cioè non ancora invasa dalla speculazione immobiliare; alla stessa finestra una bandiera dell’Inter e del Milan, sui piccoli balconi piccoli stendini e sugli stendini gatti che dormono, sotto una finestra la cassa esterna di un condizionatore posizionata un po’ come viene, rischia di cadere di sotto. All’ingresso, attraverso il cancelletto arrugginito, passano un’anziana che rientra a mezzogiorno e mezzo coi giornali sottobraccio, due riviste di gossip più le parole enigmistiche più anche il volantino del supermercato col pollo in offerta per Pasqua, la signora venne dal Veneto, era sposata con un ferroviere morto di tumore ai polmoni, in Veneto si riposa giugno, luglio e agosto così almeno, dice, respira; due muratori, in jeans, maglietta, borsello e scarpe antinfortunistica, cileni, sono stati in pausa pranzo dal kebabbaro e hanno mangiato una doppia dose profittando delle offerte al risparmio, dall’indirizzo, fanno una recensione gigantesca; una ragazzina torna da scuola, ha le stringhe slacciate su entrambe le scarpe e cerotti per i brufoli a forma di stellina sulla fronte, canta sentendo la musica nelle cuffie, di quelle che avvolgono le orecchie e insieme mezza faccia. Tutti quanti, pur abitando nel condominio, non hanno proprio idea. Cinquanta famiglie, forse dieci in più contando chi ospita parenti o subaffitta. Magari anche settanta, via. C’è la custode, ma part-time, ogni settimana turna su tre stabili così i residenti tagliano le spese condominiali che già pagano in ritardo anche di un anno, un anno e mezzo; nel gabbiotto della portinaia è rimasto un giornalino parrocchiano sul bancone che sembra il banco di una scuola o una scrivania. Comunque sia, della famiglia del ragazzino che ci interessa, nessuna notizia, nessuno sa nulla, nessuno ipotizza, in onestà a nessuno sembra interessare. Bomber e tuta - Siamo arrivati col seguente identikit, non specifico, anzi un classico ritratto da maranza: “Capelli di colore nero rasati ai lati, bomber di colore nero, pantaloni della tuta bianchi, scarpe da ginnastica bianche, occhiali da sole sul capo e auricolari bluetooth”. Bisogna camminare piano per piano, bussare, prima o poi salterà fuori, l’indirizzo pare giusto. Il ragazzino sta in carcere al Beccaria perché “scavallava” e l’hanno beccato. Come ogni volta, quindi inclusa questa terza puntata del viaggio del Corriere fra gli adolescenti, conviene premettere il significato, per la Treccani, di maranza: “Giovane che fa parte di comitive o gruppi di strada chiassosi, caratterizzati da atteggiamenti sguaiati e con la tendenza ad attaccar briga, riconoscibili dal modo di vestire appariscente e dal linguaggio volgare”. D’accordo; e se è vero, come è vero, che la maggioranza fa coincidere i maranza con i nordafricani in generale, se domandate a un adolescente, senza distinzione di nazionalità, vi dirà che i maranza sono quelli fastidiosi, che spesso degenerano nella violenza; non vi parleranno di certo di patrie o continenti specifici. I figli di papà - Ciò chiarito, la psicoterapeuta Virginia Suigo è referente per l’équipe degli psicologi della Fondazione Minotauro che collaborano con i servizi della giustizia minorile della Lombardia; la Fondazione ha appena mandato in libreria “Non solo baby gang” per l’editore Franco Angeli, che abbiamo potuto leggere in anteprima. Ebbene scrive la dottoressa Suigo che “scavallo” è un termine che in italiano indica “correre senza redini”, nell’italiano arcaico rimanda a “disarcionare”, “togliere da cavallo”, e nel gergo giovanile è diventato sinonimo di rubare o rapinare. “Le vittime sono coetanei, che vengono derubati, anche se spesso il ricavato è di poco conto: da un punto di vista meramente strumentale possiamo ben immaginare che sarebbe più proficuo rapinare un negozio o scippare un adulto. La dinamica centrale, a livello psicologico, racconta di un desiderio di rivalsa, di umiliazione, di prevaricazione, di dominare lo “sfigato”, il “figlio di papà”, disprezzato apertamente e invidiato inconsciamente, perché sta a cavallo”. Tra i continenti - Sui citofoni non c’era nessun nome o cognome scritto in arabo, nemmeno sulle targhette delle porte, in cinese sì, in romeno pure, in spagnolo, in una delle lingue slave, però alla lunga ci arriviamo. O meglio, la mamma del ragazzino, eccola finalmente, sillaba due parole, dice che non è cattivo, non ci fa entrare nell’appartamento, che dovrebbe essere un bilocale, non dà il numero dell’avvocato perché ancora non l’ha pagato e ha paura che poi quello se ne ricordi se lo chiamiamo. Insieme alle bengalesi, come spiegano gli studiosi di flussi migratori, le donne egiziane sono le uniche che partono per congiungersi al marito senza che vi sia il tema del lavoro di mezzo. Non raggiungono un’altra nazione in quanto le attende un mestiere, qualunque esso sia, e in quella nazione, per un’infinità di elementi dati da religione, maschilismo imperante e concezione della famiglia, non hanno come meta - oppure non la hanno i loro compagni - un’occupazione. Metrò - In questa parte di Milano, per andare a Milano sul serio come ripetono i ragazzini, ci si dà appuntamento a piazzale Loreto anzi sotto, nel metrò, la Loreto cantata anche da Mahmood, figlio d’un papà egiziano, ma che nelle raccolte dei brani musicali sulla piattaforma digitale Spotify è meno presente, molto meno presente, rispetto ai trapper che esaltano droga, armi, sessismo, gente emergente dalla provincia padana. Ci racconta un vecchio maresciallo, che ha vaghi ricordi tanti ne vede e tanti ne ferma, che il nostro ragazzino non è stato in batterie specifiche, non si porta dietro disturbi della condotta da bambino che potessero annunciare una progressione delinquenziale, che il quadro famigliare tutto sommato regge al netto di certe sparizioni del padre e d’un bilancio economico basso, di obbligato risparmio, ormai impossibile in questa città, via Padova alta, bassa o di centro che sia. E quindi? “Quindi ha sempre scelto di starsene con altri egiziani, nati qui oppure arrivati dopo, magari nell’età dell’inizio delle elementari”. Allora dobbiamo risalire agli anni Novanta. E allo stesso tempo a una località a un’ora di macchina da Milano, nelle terre di uno famoso. Anche troppo. Migranti. Chi chiede asilo torna in Italia: l’accordo con Tirana è carta straccia di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 aprile 2025 La Corte d’appello della capitale non convalida il trattenimento a Gjader di un cittadino del Marocco: mancano i requisiti del protocollo. Ma Piantedosi esulta per il primo rimpatrio di un migrante del Bangladesh che, comunque, è dovuto ripassare da Roma. C’è un buco nella seconda fase del protocollo Roma-Tirana: se un migrante trasferito da un Cpr italiano a quello di Gjader fa domanda d’asilo non può essere trattenuto in Albania. Lo ha stabilito ieri la Corte d’appello della capitale nel primo caso di questo tipo, per un uomo del Marocco. Una sentenza esplosiva che manda in cortocircuito il nuovo tentativo del governo di riempire i centri d’oltre Adriatico. Dopo la richiesta di protezione internazionale, infatti, serve una nuova udienza di convalida della detenzione e siccome riguarda un richiedente asilo la competenza passa dal giudice di pace alla Corte d’appello. Che ieri ha stabilito l’assenza di requisiti per il trattenimento in Albania. L’uomo dovrà essere riportato in Italia e andrà anche liberato, difficile ci siano i tempi tecnici per un’altra udienza. Dei primi 40 migranti trasferiti dal territorio nazionale l’11 aprile tre erano già stati rimandati indietro nei giorni scorsi. Due per ragioni sanitarie e uno per il ricorso pendente al momento della deportazione. Un “irregolare” di origini algerine è stato invece spedito a Gjader l’altro ieri. Erano quindi in 38 nel centro alla decisione della Corte sul trentenne marocchino, difeso dagli avvocati Donato Pianoforte e Ginevra Maccarrone. L’uomo era arrivato in Italia nel 2021. Nel 2023 ha ricevuto una condanna penale. Dopo averla scontata non è stato liberato, ma è finito nel Cpr di Potenza. Da là lo hanno portato a Gjader, dove ha chiesto asilo per la prima volta. In 24 ore la commissione ha risposto negativamente, consegnandogli un diniego. La domanda è stata esaminata seguendo la procedura prevista per chi si trova in detenzione amministrativa. Procedura “accelerata” ma diversa da quella “accelerata di frontiera”, riservata a chi non è mai entrato nel territorio nazionale. Come le persone salvate in acque internazionali e mandate in Albania nei primi tre round di trasferimenti: il target iniziale del progetto. Poi a fine marzo, per scavalcare lo stop dei giudici sul tema “paesi sicuri”, il governo ha modificato la legge di ratifica del protocollo estendendo l’uso dei centri agli “irregolari”. Per l’esecutivo l’ampliamento di funzioni è possibile senza toccare l’accordo con Tirana perché quel testo consente la permanenza in Albania “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o rimpatrio”. Le prime per i richiedenti mai entrati in Italia, le seconde per gli “irregolari” destinatari di espulsione già sul territorio nazionale. Ma se il migrante chiede asilo successivamente si crea un terzo caso che richiede, appunto, un’altra procedura. Sta qui il buco, l’errore di sistema. Il cittadino marocchino era alla prima richiesta, parzialmente diversa sarebbe una “domanda reiterata”, presentata dopo uno o più dinieghi. Anche in questo caso, però, l’esame seguirebbe un iter accelerato ma non “di frontiera”. Il caso di ieri era prevedibile, già il 12 aprile il manifesto aveva scritto che ci sono varie strade per invocare quel controllo giurisdizionale che il governo vuole evitare a tutti i costi. Chiedere asilo era la seconda di tre. Potrebbe sembrare l’ennesimo cavillo giuridico, uno di quelli evocati dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi alla presentazione del decreto, ma succede esattamente il contrario. È l’esecutivo che, con la sponda della Commissione Ue, sta giocando sul filo di leggi nazionali, dettato costituzionale e normative europee per provare ad attuare un progetto che solleva numerose illegittimità dal punto di vista dei diritti fondamentali. In primis il diritto alla libertà personale che non a caso i costituenti hanno messo al riparo dagli abusi dell’autorità con la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, prevista dall’articolo 13 della Costituzione. La verità è che il progetto Albania è sempre più un test sui margini di arbitrio del potere esecutivo. Una dinamica preoccupante, soprattutto guardando a ciò che avviene negli Usa di Trump: non a caso sullo stesso terreno dell’immigrazione. SEMPRE ieri, giusto tre ore dopo il deposito della sentenza, Piantedosi ha annunciato: “Primo rimpatrio dall’Albania di un cittadino straniero trattenuto a Gjader”. È un uomo del Bangladesh di 42 anni con precedenti, ritenuto “socialmente pericoloso”. Dal Viminale, però, confermano che tutti i rimpatri devono avvenire dall’Italia. Quindi il migrante è stato spedito in Albania la settimana scorsa, parcheggiato per un po’, riportato indietro e poi rimpatriato. L’unico successo della mossa potrebbe essere distogliere l’attenzione da quanto stabilito dalla Corte d’appello. Per qualche giorno forse funzionerà. Ma da ieri le fondamenta del protocollo Albania sono ricominciate a crollare. Questa è una Pasqua dolorosa: vince l’arroganza di chi si dice cristiano, ma agisce in modo opposto di Elisabetta Ambrosi Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2025 Per fortuna esiste una Chiesa di cui nessuno parla e che invece agisce per i poveri con ogni tipo di volontariato. È una Pasqua particolarmente dolorosa questa del 2025. Una Pasqua senza resurrezione, verrebbe da dire. Lo racconta bene l’immagine del bimbo palestinese mutilato di tutte e due le braccia che ha vinto l’ultimo World Press Photo. Lo racconta la strage della Domenica delle Palme, ennesimo spargimento di sangue della guerra in Ucraina, paese abbandonato al suo destino. Lo raccontano le altre guerre dimenticate, come quella in Sudan. E poi c’è la violenza dei neoeletti come Trump, la negazione dei diritti umani più basilari, l’attacco alla scienza, all’inclusione, la guerra agli immigrati e alle loro famiglie (anche se negli Usa da tempo, anche se con lavoro). C’è il sistematico e voluto indietreggiamento nel contrasto alla crisi climatica, platealmente negata. Neanche da noi le cose vanno meglio, anche qui si nega la devastazione ambientale, si punta su gas e nucleare, si deportano immigrati incolpevoli in un altro paese, si istituiscono nuovi reati che negano diritti basilari come quello alla protesta, al dissenso, dentro le carceri - ormai luoghi dell’orrore - e fuori, dove si governa con presunzione e a colpi di decreti quando si rappresenta una minoranza nel paese, come spiegano bene i dati elettorali. Non a caso il primo incontro del Papa fuori dal Vaticano, il giovedì santo, è stato per 70 detenuti romani, a mostrare una pietà che è sconosciuta ai nostri politici di destra. Perché qui il problema è anche questo: buona parte di chi governa nel mondo “occidentale” fa quello che fa, ma si dichiara cristiano. Si dichiara cristiano Trump, si dichiarano cristiani i membri del mostro governo, che in questi giorni hanno preso parte alle celebrazioni pasquali. C’è un cortocircuito di valori paradossale, perché tutti costoro di cristiano non hanno quasi nulla: non solo e non tanto nei loro comportamenti intimi, che non possiamo giudicare, ma soprattutto in quelli pubblici e quando, soprattutto, ci sono persino reati palesi. ?In generale, manca nella classe di governo qualsiasi traccia di quei valori che dovrebbero caratterizzarli a loro stesso dire: umiltà, pietà, compassione, riconoscimento dei propri errori, aiuto e sostegno ai più poveri, ai deboli, ai “lebbrosi” di oggi, che il capitalismo crea sempre più numerosi. E poi: operare per la pace, amare la giustizia in ogni sua forma, rifiutare ogni forma di violenza, a partire da quella verbale, rispettare il mondo e la natura, all’insegna di quanto dice la Laudato Si e un francescanesimo che è una parte fondamentale della nostra cultura cristiana. Proprio pensare a San Francesco in questi tempi dà il senso di dove siamo, anni luce lontani da quei valori: un santo che si era privato di tutto, che aveva persino venduto l’unico libro che aveva per darlo ai poveri, che aveva chiesto di essere seppellito nella nuda terra, senza null’altro. Sarebbe almeno auspicabile che la destra di governo nel mondo occidentale smettesse di dichiararsi cristiana, perché non lo è, semmai è l’apice di un paganesimo capitalista che toglie ai poveri per dare ai ricchi, aumenta le diseguaglianze, ostacola sempre di più chi già vive in una condizione di svantaggio, come chi arriva da un altro paese sfinito e piagato. Altro che donare il proprio mantello ai mendicanti incontrati, come fece San Martino. Qui al mendicante si levano anche i pochi stracci che ha. Per fortuna esiste una chiesa di cui nessuno parla e che invece agisce per i poveri con ogni tipo di volontariato. Per fortuna esistono anche milioni di cristiani che credono, che professano i valori del Vangelo nel silenzio generale. E per fortuna esistono, anche se non apertamente cristiane, migliaia di ong che nei giorni di Pasqua hanno continuato a curare ferite, operare persone colpite da mine e bombe, consolato gli afflitti, sempre senza occupare le prime pagine dei giornali. Esiste un mondo di buoni, letteralmente, non solo cristiani ça va sans dire, che nonostante i terrificanti tagli degli Usa continua a sorreggere il mondo. Un tempo sperare in una giustizia ultraterrena, in un giudizio universale, era l’unico modo per sopportare il dolore immenso sulla terra, la violenza, le morti precoci, gli abusi dei politici. Oggi questa visione di un aldilà dove i malvagi saranno puniti è molto affievolita, e questo anche legittima l’arroganza di chi si dichiara cristiano mentre mette in pratica misure anticristiane. Noi vorremmo giustizia sulla terra, vorremmo bambini non mutilati qui e ora, vorremmo democrazie libere e dove si possa dissentire, vorremmo uguaglianza tra le persone e fine della povertà e della miseria sulla terra. Il mondo non sembra andare in questa direzione. Chi può, chi crede, oggi può almeno sperare in una giustizia che verrà, in un momento, non sappiamo quando, in cui chi è stato colpito e ferito sarà consolato, in cui chi ha agito con violenza sarà punito, specie se la sua violenza ha fatto soffrire bambini e minori. Perché, come dice il Vangelo, “chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato in mare”. Gli italiani vogliono più autonomia dagli Usa. E quattro su 10 dicono no al piano di riarmo di Alessandra Ghisleri La Stampa, 20 aprile 2025 Sull’aumento del budget per la Difesa siamo in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei. Gli italiani risultano poco propensi ad aumentare la spesa per la difesa, è quanto emerge da un sondaggio di Porta a Porta, la trasmissione televisiva Rai condotta da Bruno Vespa. Secondo il 44,3% degli intervistati gli investimenti in questo campo non dovrebbero aumentare e il 17,4% di questi è convinto che le somme in questo frangente dovrebbero perfino diminuire. In generale, sembra che l’opinione pubblica senta poco e lontano il rischio di conflitti armati che possano coinvolgere l’Italia e sicuramente dà maggiore priorità ad altri bisogni sociali. Dal sondaggio emerge anche una malcelata scarsa fiducia nella gestione della cosa pubblica che si acuisce nei confronti della direzione europea: in molti temono che l’aumento del budget per la difesa possa tradursi in ulteriori sprechi, tangenti o sottrazioni di capitali a scapito di problematiche più vicine alla vita del cittadino come il carovita, la sanità, il welfare, la sicurezza, etc. Su questa linea si riconoscono la maggioranza degli elettori della Lega di Salvini (51%), del Movimento 5 stelle (61,9%) e di Alleanza Verdi e Sinistra (76,5%). La loro comunicazione politica risulta per i loro sostenitori più coerente con i bisogni sociali interni al Paese, una nazione “anziana” - in un lungo inverno demografico che appare senza ritorno - con la sanità sotto pressione, i giovani che emigrano per mancanza di opportunità, un’importante vulnerabilità climatica. L’Italia - peraltro - ha una lunga tradizione pacifista post bellica e una Costituzione che “ripudia la guerra”. Tuttavia, se l’America di Donald Trump riducesse il suo sostegno militare per l’Europa, il 39,7% degli italiani sarebbe favorevole ad aumentare il budget per la difesa da parte dei singoli Stati membri della Ue: il 16,9% sosterrebbe addirittura un incremento significativo, mentre il 22,8% lo rinforzerebbe solo di poco. Nella ricerca Euroscope di marzo The Pulse of the European Public Opinion di Polling Europe è stato fatto un confronto tra tutti i 27 membri della Ue sulla medesima domanda. Il quadro che ne emerge mostra l’Italia in netta discordanza con tutti gli altri Paesi, molto favorevoli all’opportunità di aumentare il budget della difesa nel caso in cui gli Usa dovessero ridurre il loro sostegno militare all’Europa. La media aritmetica tra tutti è intorno al 75% di favorevoli, con punte che si avvicinano all’80% per Germania e Nord Europa (Svezia, Danimarca, Finlandia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Irlanda e Austria). Molti di questi Paesi, infatti, confinano direttamente o sono molto vicini alla Russia, come ad esempio la Finlandia, con oltre 1.300 km di frontiera in condivisione, e la Norvegia, che condivide solo un piccolo confine. Il Sud Europa, invece, comprendendo Paesi più lontani dall’area di influenza di Putin come Spagna, Portogallo Grecia, Malta, Cipro e la stessa Italia, si esprime più cautamente con un 62% di favorevoli all’aumento della spesa militare. A differenza dei Paesi baltici e del Nord Europa, noi non siamo mai stati occupati, invasi o direttamente minacciati dalla Russia e quindi non esiste una memoria storica negativa radicata nei suoi confronti, ad eccezione di ciò che riguarda gli sviluppi economici che l’invasione dell’Ucraina ha portato con sé. L’Italia infatti, come molti altri Paesi europei, è stata a lungo dipendente dal gas russo e l’aumento delle bollette è stato imputato in larga maggioranza dai cittadini proprio al conflitto e alle sue origini, facendo sentire l’intera popolazione vincolata - se non ricattata - dai trattati imposti del leader Vladimir Putin. La sua immagine, rafforzata da pose simboliche e da un linguaggio che sottolinea con una certa sicurezza la sua resistenza contro l’Occidente, porta con sé il ritratto di un uomo forte, razionale, calcolatore, vicino al suo popolo e inflessibile con i nemici. Una forma di comunicazione centralizzata, strategica e costruita per mantenere il potere e influenzare la percezione internazionale. Molte dichiarazioni sembrano indirizzate più a colpire emotivamente l’opinione pubblica e a rafforzare una base politica piuttosto che a informare correttamente. In questi tratti è molto simile al metodo comunicativo di Donald Trump, dove la verità diventa secondaria rispetto al potente effetto mediatico internazionale. Proprio la sua comunicazione “a giorni alterni” destabilizza e preoccupa la popolazione italiana. Il suo cambio di toni, di opinioni e di atteggiamenti rende complicato e difficile prevederne le azioni politiche e strategiche, tanto che le sue affermazioni provocatorie minacciano - ogni volta - le alleanze internazionali e la coesione sociale, generando forti incertezze sul futuro della politica globale e sui mercati internazionali. Così anche l’indipendenza tecnologica dagli Usa è diventata un tema sensibile dopo le ultime dichiarazioni di the Donald. Intervistati nel merito da Euromedia Research, il 65,3% dei cittadini è convinto che l’Europa dovrebbe investire molte risorse in tecnologia per diventare indipendente se non - addirittura - competitiva con gli Stati Uniti. Su questo dato converge la maggioranza di tutti i cittadini europei anche nel sondaggio Euroscope, con una media che sfiora il 70%. Le guerre infliggono sofferenze e danni a intere popolazioni e, sin dai tempi più lontani, le scoperte scientifiche hanno aiutato i Paesi combattenti a sviluppare strumenti utili per prevalere nel conflitto. Molti degli investimenti in sistemi tecnologici avanzati, ad esempio, non sono spettacolari agli occhi del pubblico (come i sistemi di radar, le reti criptate di comunicazione, la difesa dai cyber attacchi), tuttavia rappresentano una buona base di partenza per gli investimenti in sicurezza del Paese. Il cittadino spesso non sa che tantissime tecnologie come Internet, Gps, droni, visori, touchscreen, Pvc, nylon, teflon, eccetera, sono alcuni esempi di innovazioni scientifiche e tecnologiche messe a punto durante i conflitti e poi riconvertite e di cui oggi tutti si avvantaggiano. Investire in tecnologia militare vuol dire anche alimentare l’innovazione industriale e civile, tuttavia questo legame per le persone non è sempre immediato, soprattutto in Italia dove il dibattito è spesso ideologico e frammentato. Riarmo e innovazione tecnologica spesso coincidono, ma i dati ci dicono che solo il secondo concetto è socialmente accettato. La battaglia sovranista contro la giustizia internazionale di Vitalba Azzollini* Il Domani, 20 aprile 2025 Il sistema della giustizia internazionale vacilla sotto i colpi non solo di chi annuncia l’uscita dallo statuto di Roma, come l’Ungheria, ma anche di chi non ne esegue i mandati, pur essendone vincolato, o non si dota degli strumenti richiesti dallo statuto, come l’Italia. Ha destato grande scalpore la decisione dell’Ungheria di ritirarsi dallo statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale (Cpi). L’ha annunciata nelle scorse settimane il premier, Viktor Orbán, nel corso di una conferenza stampa, poco dopo l’arrivo a Budapest del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per una visita di stato. Secondo Orbán, la Corte ha perso la sua imparzialità ed è diventata un tribunale politico. Il riferimento è ai mandati di arresto emessi dalla Cpi, nel novembre scorso, nei riguardi di Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa israeliano Joav Galant, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel conflitto con Hamas (la Corte penale internazionale ha chiesto all’Ungheria di spiegare perché non abbia applicato questi mandati di arresto ndr). Ma come si attua il ritiro dallo statuto di Roma, e quali conseguenze comporta la scelta di Orbán? La Corte penale internazionale - Innanzitutto, va ricordato che la Cpi è un tribunale, con sede all’Aia, chiamato a giudicare i responsabili di crimini efferati riguardanti la comunità internazionale, come il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. Lo statuto della Corte, stipulato a Roma nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002, disciplina in particolare le finalità, la struttura e il funzionamento della Cpi, nonché i rapporti tra la Corte e gli stati. Secondo quanto previsto dal testo (articolo 127), uno stato parte può notificare al Segretario generale delle Nazioni unite il recesso dallo statuto. Il recesso diviene effettivo un anno dopo la data della notifica, a meno che non sia indicata una data successiva. Prima della notifica, serve una decisione del Parlamento nazionale. L’Ungheria ha già presentato la relativa proposta di legge, come ha reso noto il portavoce del governo, e il voto finale è atteso a maggio. Il recesso di uno stato non lo esonera dagli obblighi posti a suo carico dallo statuto, in primis quello di cooperazione con la Corte per le indagini avviate prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Dunque, nonostante l’annunciato ritiro, Orbán è ancora obbligato a collaborare con i giudici. Il governo ungherese, invece, sostiene di non avere alcun vincolo, motivo per cui non ha dato esecuzione al mandato d’arresto di Netanyahu. Sebbene abbia firmato lo statuto di Roma (nel 1999) e lo abbia ratificato (2001), il paese non ha adeguato l’ordinamento interno alle disposizioni dello statuto stesso. Ovviamente, ciò non impedirebbe di cooperare comunque con la Corte mediante i mezzi a sua disposizione. Ma Orbán sa che per la violazione dello statuto, sostanzialmente, non sono previste vere e proprie sanzioni, bensì ripercussioni diplomatiche e politiche. La Cpi può, infatti, segnalare la violazione all’Assemblea degli stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il ritiro dell’Ungheria - Finora solo due stati, Burundi e Filippine, sono usciti dal sistema di giustizia internazionale assicurato dalla Corte. Nel 2016 il ritiro era stato annunciato dal Sudafrica, che poi nel 2017 l’aveva revocato. La decisione di Orbán rappresenta un grave colpo inferto al sistema della giustizia internazionale, specie perché l’Ungheria è l’unico tra gli stati membri dell’Unione europea ad aver annunciato il ritiro dallo statuto di Roma, e l’Ue ha anche sottoscritto accordi di cooperazione con la Corte. L’istituzione della Cpi ha rappresentato il formale riconoscimento di una stabile “giurisdizione universale”, che fino a quel momento si era scontrata con la rivendicazione, da parte degli stati, della sovranità nazionale. Ora, in epoca di sovranismi, il sistema vacilla sotto i colpi non solo di chi annuncia l’uscita dallo statuto di Roma, come l’Ungheria; ma anche di chi non ne esegue i mandati, pur essendone vincolato, o non si dota degli strumenti necessari per assolvere agli obblighi derivanti dallo statuto. Il riferimento è al governo italiano che, dopo l’arresto di Osama Njeem Almasri, l’ha rimandato in Libia con un volo di stato. Per questo motivo la Corte ha aperto un procedimento per “mancata osservanza di una richiesta di cooperazione”. Ma l’Italia ha anche bloccato il Codice dei crimini internazionali, predisposto dalla ministra Marta Cartabia, finalizzato a dare compiuto adempimento agli obblighi derivanti dallo statuto di Roma, con l’introduzione nell’ordinamento dei crimini di competenza della Corte. “La Cpi è al centro dell’impegno globale per la responsabilità e, per mantenere la sua forza, è imperativo che la comunità internazionale la sostenga senza riserve. La giustizia richiede la nostra unità”, ha detto la Corte riguardo all’Ungheria. E forse non solo. *Giurista Stati Uniti. La Corte Suprema blocca Trump: “Stop ai trasferimenti dei venezuelani dal Texas” di Donatella Mulvoni Il Messaggero, 20 aprile 2025 A tre mesi esatti dall’inizio della presidenza Trump, i giudici si riconfermano il vero contrappeso all’espansione del potere esecutivo della Casa Bianca, sempre più nervosa per le sentenze che tentano di bloccarne l’agenda. Ieri la Corte Suprema si è espressa per fermare la deportazione di un gruppo di immigrati venezuelani, “Tren de Aragua” presunti membri di gang violente, nel carcere di massima sicurezza di El Salvador. Con un’ordinanza i nove saggi di Washington hanno sospeso l’uso dell’Alien Enemies Act del 1798, che la Casa Bianca ha invocato per espellere dagli Stati Uniti, e trasferire in paesi terzi, tutti gli illegali accusati di crimini. La legge, utilizzata l’ultima volta durante la Seconda Guerra Mondiale, conferisce al presidente il potere di disporre la detenzione e la deportazione di cittadini provenienti da nazioni “nemiche” senza seguire le regolari procedure. Nello specifico, ieri i giudici si sono espressi su un gruppo di venezuelani incarcerati nel centro di detenzione di Bluebonnet in Texas. Il provvedimento, a cui si sono opposti Clarence Thomas e Samuel Alito, è comunque temporaneo e sarà in vigore “fino a nuovo ordine” della Corte. Il massimo tribunale americano ha così accolto il ricorso dell’American Civil Liberties Union che venerdì aveva contestato il fatto che il governo non avesse dato ai detenuti la possibilità di contestare la rimozione. All’inizio di questo mese, infatti, la Corte aveva stabilito che sarebbe stato possibile procedere alle espulsioni solo se fosse stato garantito un giusto processo. A seguito di questa ordinanza, i giudici federali in Colorado, New York e nel sud del Texas hanno vietato la rimozione dei detenuti fino a quando l’amministrazione non garantirà ai migranti di difendersi in tribunale. Nell’area del Texas a cui afferisce la struttura di Bluebonnet, però, non era stata emessa alcuna simile ordinanza. E proprio per questo era stato scelto questo carcere. Secondo quanto riportato da Npr, i legali di Aclu hanno inoltre sostenuto che fossero già pronti gli autobus che avrebbero trasportato gli uomini all’aeroporto. La storica organizzazione aveva già intentato una causa per fermare l’utilizzo dell’Alien Enemies Act per l’espulsione di due venezuelani detenuti nella prigione texana, chiedendo di estendere lo stop a tutti gli immigrati a rischio. Da marzo l’amministrazione Trump ha trasferito oltre 200 presunti membri del cartello venezuelano in un carcere di El Salvador. Gli Stati Uniti hanno infatti firmato un memorandum di cooperazione con il presidente di El Salvador, Nayib Bukele per l’utilizzo delle carceri per la detenzione dei migranti. Un allineamento con le politiche trumpiane che frutterà al Paese 6 milioni di dollari. Hanno creato indignazione le immagini degli uomini rasati, in manette e ammassati nel carcere di massima sicurezza, in condizioni precarie.