Più telefonate per i detenuti? Manca il regolamento, ma c’è il suicidio numero 25 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2025 “Più telefonate per i detenuti, ogni suicidio è mia sconfitta”. Con queste parole, nell’agosto 2023, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si rivolgeva ai reclusi, promettendo un impegno concreto per migliorare le condizioni di vita nelle carceri. A distanza di due anni, però, quella dichiarazione rischia di trasformarsi in un monito incompiuto. Non solo il numero dei suicidi è aumentato, toccando il record di 91 casi nel 2024 e 25 con l’anno nuovo da poco iniziato: l’ultima una donna di 52 anni, condannata per l’omicidio del marito avvenuto anni fa. La detenuta, nelle prime ore di ieri mattina si è suicidata impiccandosi nella sua cella del carcere milanese di Bollate, come ha fatto sapere Gennarino De Fazio, segretario Generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria che ricorda anche l’operatore che si è tolto la vita. In questo clima una delle misure simbolo annunciate dal ministro Nordio, l’aumento delle telefonate per i detenuti, è ancora ferma al palo nonostante il decreto carcere approvato a luglio dello scorso anno aveva stabilito che entro gennaio si sarebbe dovuto regolarizzare l’aumento. Un ritardo che viene denunciato da Rita Bernardini esponente di spicco di Nessuno Tocchi Caino, da decenni in prima linea per i diritti dei detenuti. Il 4 luglio 2024, con il decreto-legge n. 92 (“carcere sicuro”), il governo inserì una norma per incrementare, seppur in modo limitato, il numero delle telefonate consentite ai detenuti, con l’obiettivo di “garantire la prosecuzione dei rapporti personali e familiari”. Una misura modesta, ma significativa in un sistema carcerario storicamente segnato da sovraffollamento e carenze strutturali. Il testo prevedeva però un passaggio cruciale: entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto (quindi entro il 4 gennaio 2024), il ministero avrebbe dovuto emanare un regolamento attuativo per disciplinare le modalità delle chiamate. Siamo ad aprile, e quel regolamento non esiste. Senza linee guida nazionali, ogni direttore di carcere applica criteri discrezionali: c’è chi concede più telefonate, chi le limita drasticamente. Come nel caso del carcere di Ancona Montacuto, dove - denuncia l’associazione Nessuno Tocchi Caino - i detenuti possono chiamare i familiari solo una volta alla settimana, per pochi minuti. Come detto, a portare la questione alla luce è Rita Bernardini: “Se noi cittadini non rispettiamo una scadenza, ci tartassano. Se lo fa lo Stato, nulla succede, perché le loro scadenze sono “canzonatorie”, mentre le nostre sono “perentorie”. La critica è netta, ma circostanziata: Bernardini ricorda come il ministro Nordio, nel decreto del 4 luglio, abbia respinto la proposta dell’onorevole Roberto Giachetti di Italia Viva (sostenuta dalla stessa associazione) per la liberazione anticipata speciale, preferendo la vecchia ricetta che vede esclusivamente la questione edilizia. Una scelta che, nei fatti, non ha arginato né il sovraffollamento né l’emergenza suicidi. Il cuore della denuncia, però, resta il ritardo sul regolamento delle telefonate. “Quelle chiamate non sono un privilegio - sottolinea Bernardini -, sono un diritto fondamentale. Isolare i detenuti significa aggravare il disagio psicologico, che spesso sfocia in gesti estremi”. I dati le danno ragione: nel 2024, l’Italia ha registrato il picco storico di 91 suicidi in carcere, un numero che supera ogni precedente e che riflette una crisi umanitaria silenziosa. Ad oggi, a tre mesi del nuovo anno, siamo già a 24 reclusi che si sono tolti la vita. Mantenere i contatti con l’esterno è cruciale per la salute mentale dei detenuti. Avere contatti regolari contatti familiari mostra minori sintomi depressivi. Le telefonate sono un’ancora alla normalità e ridotte significa accelerare processi di alienazione. In assenza di un regolamento, la disparità di trattamento tra istituti alimenta disuguaglianze. Situazioni che, di fatto, minano il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. Le domande restano sospese: perché il ritardo? Quali ostacoli hanno impedito l’emanazione del regolamento? E soprattutto, quando arriverà? Non parliamo di una rivoluzione, anche perché l’aumento delle telefonate è minimo. Si passerebbero da quattro a sei le telefonate mensili di dieci minuti a disposizione del detenuto. “L’intento è da accogliere positivamente ma la concessione, oltre che insufficiente, appare non realmente produttiva di cambiamenti”, aveva osservato l’associazione Antigone. Ma ad oggi, nemmeno questo. I suicidi in cella e l’aritmetica a targhe alterne di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 aprile 2025 Siamo al 31 marzo ed è già stato registrato il 25esimo suicidio in carcere dall'inizio dell'anno. Una donna che a Bollate scontava una condanna per uxoricidio. Una triste contabilità. E avanti di questo ritmo il 2025 centrerebbe esattamente la macabra “quota cento”, demolendo il picco di 83 suicidi appena segnato nel 2024. Solo chi banalizza, sino a finire per bestemmiarle, le dinamiche interiori di chi arriva a togliersi la vita può dedurre dal solo numero dei suicidi in cella un termometro affidabile delle condizioni delle carceri. Ma ignorare i numeri non è paraocchi meno ingannevole in chi, nel governo come nella deludente seduta straordinaria lo scorso 20 marzo alla Camera, si ostina a coltivare la sola “soluzione” edilizia con la flemma di chi prescinde dall’insostenibilità della situazione. L’ultimo giorno dei primi tre mesi dell’anno ha seppellito ieri il 25esimo detenuto suicida, una donna che a Bollate scontava una condanna per uxoricidio: a questo ritmo il 2025 centrerebbe esattamente la macabra “quota cento”, demolendo il picco di 83 suicidi appena segnato nel 2024, quando già erano stati 17 più del 2023. Non ci si suicida certo solo negli istituti sovraffollati, che sono il 77% del totale, ma direttori di carcere e agenti penitenziari si sono ormai sgolati a forza di testimoniare quanto in istituti al 132% medio di presenze tutto ma proprio tutto diventi ingestibile: dalla sicurezza alla salute, dalla convivenza alle (poche) opportunità di lavoro. A inizio marzo 62.165 detenuti stavano in 51.3232 posti teorici, in realtà 46.890 realmente disponibili una volta detratti quelli inagibili o in ristrutturazione. A fronte di 15.000 detenuti in più, e dopo ripetuti annunci ministeriali sulla costruzione di nuovi padiglioni per 7.000 posti in più in due anni con l’investimento di 236 milioni, un documento di Invitalia prevede entro gennaio 2026 al costo di 32 milioni l’installazione di 16 “blocchi detentivi”, moduli prefabbricati in calcestruzzo trasportabili e smontabili, ciascuno progettato per 24 detenuti. Nel migliore dei casi, e prima ancora di discuterne i criteri, tra 10 mesi faranno quindi 384 posti in più: buoni a coprire neanche 2 mesi di incremento medio di detenuti, cresciuti di 2.000 nel 2024 sul 2023. Arrivano le celle-container: “Poche, disumane e costose” di Conchita Sannino La Repubblica, 1 aprile 2025 I “blocchi di detenzione” saranno installati in nove istituti di pena: 384 posti per 32 milioni di euro. Le critiche di esperti e penitenziaria. Meno di un palliativo, più di un concreto rischio “per la salute fisica e mentale di operatori sotto stress e persone detenute”. Se la speranza, per quanto provvisoria, di una risposta al sovraffollamento è aggrappata all’arrivo dei cosiddetti “blocchi detenzione” - cubi di cemento che aggiungeranno solo 384 posti letto, distribuiti in 9 istituti, al prezzo di ben 32 milioni di euro - la soluzione rischia di aggravare ulteriormente disagio e sofferenza nelle carceri. Meno trenta giorni, al netto di ostacoli e rinvii che hanno rallentato già altre promesse, al via del progetto voluto dal ministro Carlo Nordio. In estrema sintesi: è l’operazione celle da container. Ciascuna misurerà 6 metri per 5, compreso un bagno di tre metri quadri. “Un inferno d’estate, gelide in inverno”, sottolineano sindacati e associazioni. In ultimo, i conti: “Non solo disumane, costano anche 83mila euro a detenuto”. Il documento di Invitalia, dopo l’annuncio del commissario straordinario Marco Doglio di pochi giorni fa per il via al bando, prevede l’installazione di 16 strutture, i “blocchi”: prefabbricati in calcestruzzo standardizzati, gli stessi usati per realizzare i neo Cpr in Albania. Ciascun blocco sarà allestito nel (residuo) spazio aperto degli istituti penitenziari e dispone su un lato, di 6 celle per 24 detenuti in tutto e sull’altro, mini spazi per biblioteca, barberia, sala psicologo. Un progetto che non convince né attivisti ed ong che si occupano di diritti umani, né i rappresentanti della polizia penitenziaria. “La misura tampone è ancor più disumana della situazione che da anni è sotto gli occhi di tutti”, analizza con Repubblica l’architetto Cesare Burdese, esperto di edilizia penitenziaria, autore negli anni di report e analisi tecniche. “Vuole sapere perché l’idea dei blocchi è controproducente e rischiosa? Stiamo parlando di container, poco più che baracche di cantiere. Ovvero, recinti. Aggiungiamo il dato che in Italia un detenuto passa all’aria, in un giorno, solo 4 ore se va benissimo, altrimenti 2”. Ragiona Burdese: “Se già tenere in gabbia degli animali vuol dire esasperarli, farlo con gli esseri umani, al di là delle gravi violazioni della Carta Costituzionale, produrrà l’aumento di aggressività, violenze e ribellioni”. È la negazione di quella tutela della dignità umana su cui, più volte, è intervenuto Mattarella. C’è poi l’altro dato messo in risalto da Gennarino De Fazio, il segretario della UilPa, della penitenziaria: “Ammesso che questo progetto aumenti la capienza di qualche posto letto, a scapito di spazi aperti e trattamento per i detenuti, dove sono i nuovi ingressi di personale della penitenziaria?”. La risposta arriva da Nessuno tocchi Caino, l’associazione con cui Rita Bernardini solo 48 ore fa ha svolto l’ennesima visita in uno dei tanti carceri-bomba: Ancona Monteacuto. “In una piccola casa circondariale, 80 persone recluse in più rispetto alla capienza massima. E in alcuni reparti, di notte, c’è un solo operatore per cento detenuti. Tanti di questi aspettano anni per essere sottoposti a un intervento sanitario o anche solo per indagini diagnostiche”, sottolinea Bernardini. È solo il diario dell’ultimo blitz. Samuele Ciambriello è rappresentante dei garanti territoriali, un mese fa avevano incontrato Nordio: “Se ci ritroviamo a parlare di container dove stipare “quelli di troppo”, non è stata compresa la gravità del momento: abbiamo condiviso l’idea di Case di reinserimento, ma c’è bisogno con estrema urgenza di fare entrare nelle carceri più educatori, più pedagogisti, più assistenti sociali. Più sanità e più mediazione culturale, altro che prefabbricati”. 32 milioni di euro per 384 posti: ecco le celle prefabbricate “modello Albania” di Francesco Grignetti La Stampa, 1 aprile 2025 Verranno realizzati 5 blocchi (120 posti letto) nel Nord Italia tra gli istituti di Alba, Milano e Biella. Altri 6 blocchi (144 posti) tra L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera. Al Centro-Sud 5 blocchi (120 posti) a Frosinone, Palmi e Agrigento. Ecco le nuove carceri, come le prevede il governo Meloni. Il commissario straordinario all’edilizia carceraria, Marco Doglio, ha scoperto le carte e da qualche giorno è pubblico il bando per la costruzione delle nuove celle. Il modello è quello dei centri in Albania e perciò i nuovi padiglioni saranno dei prefabbricati di calcestruzzo, modulari, standardizzati, da montare in spazi rimasti liberi nel perimetro di nove carceri già esistenti. Disumanizzanti. Come saranno i blocchi - Ogni “blocco di detenzione” dovrà avere 24 posti letto. Si tratta di 6 celle da quattro posti ciascuno, di 30 metri quadri, orientativamente 6 metri per 5. Al suo interno ci sarà un bagno di 3 metri quadri; i restanti 27 metri quadri sono destinati ai quattro letti in ferro fissati al pavimento, agli armadietti, e a un tavolo in ferro con sgabelli inglobati. Anche questo sarà fissato al pavimento. Non sono previste sedie all’interno della cella, né fornelli ad induzione, perciò si provvederà a cucinare da sé con i fornelli da campeggio. Ogni cella avrà riscaldamento e raffrescamento elettrico e ce ne sarà bisogno perché la struttura è poco più di un container. Dove saranno realizzati - Verranno realizzati 5 blocchi (120 posti letto) nel Nord Italia tra gli istituti di Alba, Milano e Biella; il Centro-Nord ospiterà 6 blocchi (144 posti) tra L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera; il Centro-Sud vedrà l’aggiunta di 5 blocchi (120 posti) a Frosinone, Palmi e Agrigento. Si prevede di spendere 32 milioni di euro per ottenere 384 nuovi posti letto, ovvero 83mila euro a posto. Obiettivamente saranno pochi e molto cari. Bagno con spioncino - Il bando è particolareggiato su come i blocchi di detenzione dovranno essere costruiti: “Il bagno dovrà essere dotato di uno spioncino di sicurezza apribile dal lato corridoio (dove ci saranno gli agenti di custodia) e attrezzato con lavabo, wc, doccia e boiler protetto da gabbia antivandalo con eventuale bidet. Alla sinistra dell’ingresso alla cella, lo spazio dovrà essere arredato con un tavolo monoblocco in metallo con 4 sgabelli incorporati, assemblato per resistere a tentativi di scardinamento e predisposto per fissaggio a pavimento con tasselli a bloccaggio chimico o meccanico”. Gli spazi comuni - Ogni blocco, oltre le 6 celle, avrà un corridoio e altri 6 spazi comuni sempre da 30 metri quadri ciascuno: sala polivalente per la socialità/biblioteca; sala colloqui; palestra; sala barberia/lavanderia; sala psicologo/educatore; sala agente di custodia. Come salta agli occhi, nel progetto c’è notevole ristrettezza di spazio per le celle dove i detenuti trascorrono gran parte del tempo e al contrario una larghezza di spazi per gli altri spazi. E infatti gli addetti ai lavori hanno subito notato la contraddizione in questa standardizzazione portata all’eccesso. “Si registra - scrive ad esempio Carmelo Cantone, dirigente in pensione dell’amministrazione penitenziaria sulla rivista online “Ristretti Orizzonti” - l’assenza di una logica rispetto agli utilizzi di questi singoli locali: le 24 persone detenute in questi blocchi disporranno di soli 30 mq per la socialità, per la palestra, per la sala polivalente/ biblioteca (chissà perché senza bagno), mentre con la stessa superficie, in questo caso eccessiva, si ospiteranno i colloqui con gli operatori o la postazione dell’agente di sorveglianza, per non parlare del locale lavanderia che funge anche da barberia”. Microcarcere in miniatura - E c’è un secondo problema. Ogni blocco sembra essere un microcarcere in miniatura, con “stanze di pernottamento” sistemate assieme ad ambienti comuni e uffici. Perciò insiste Cantone: “Quale tipo di vita detentiva vuole proiettare? I canoni di sicurezza appaiono prevalenti, anzi assorbenti se si tiene conto che oltre agli spazi di cui abbiamo parlato, in questi blocchi di detenzione insiste esclusivamente un cortile di passeggio di non precisata superficie. Dalle indicazioni contenute nel documento non si distanzia dalle disgraziate esperienze dei cortili di passeggio dei complessi penitenziari costruiti negli anni 80”. Un “crimine architettonico” - A vedere il progetto, si dispera anche l’architetto Cesare Burdese, che si occupa con passione di spazi carcerari: “Questo è un crimine architettonico! Dopo decenni di dibattito sull'architettura penitenziaria anche in sede istituzionale, per cercare di allineare il nostro carcere alla Costituzione, ecco a cosa siamo approdati e stiamo per realizzare. E la cultura architettonica tace”. Carceri ancora senza guida, tutti contro Delmastro. Nordio: soluzione a breve di Giuliano Foschini La Repubblica, 1 aprile 2025 Opposizione e sindacati critici per lo stallo sulla nomina del capo del Dap. Caccia all’alternativa, si valuta il giudice Ardita. Ieri nuovo suicidio, è il 25esimo. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, assicura: “È una questione che sarà risolta a breve”. Il sottosegretario, Andrea Delmastro, è certo che alla fine andrà come lui ha sempre voluto: ricomposta la frattura con il Quirinale, “solo di tipo formale”, ha ripetuto in questi giorni, non c’è alcun motivo per cui Lina Di Domenico, “una donna tra l’altro e assai valida”, non debba diventare il capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. A chi ieri sussurrava qualche alternativa - su tutti Sebastiano Ardita, magistrato esperto, per 9 anni direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del Dap - veniva risposto che no, Delmastro, non cederà mai. Dopo la denuncia di Repubblica, in Parlamento è scoppiato il caso carceri: in uno dei momenti di massima tensione per le carceri italiane, il Dap è infatti senza guida. E le opposizioni sono andate all’assalto della maggioranza: Partito democratico, Avs, Italia Viva, così come i sindacati, hanno chiesto al governo di intervenire immediatamente. Ieri c’è stato il 25esimo suicidio dall’inizio dell’anno nelle nostre case circondariali - si è tolta la vita a Bollate, Francesca Brandoli, 52 anni, e al conto va aggiunto un operatore della penitenziaria -, in questi primi mesi del 2025 si contano due morti ogni settimana, una strage superiore persino a quella del 2024 quando si è registrato il record negativo di morti dietro le sbarre. Dietro la mancata nomina al Dap c’è lo scontro istituzionale tra il ministero della Giustizia e Quirinale. Nordio - anche se sarebbe più corretto dire Delmastro - a fine dicembre, dopo le dimissioni di Giovanni Russo, andato via proprio in polemica con il sottosegretario di Fdi, scelse Di Domenico, persona di stretta sua fiducia, per la successione. Ex magistrata di sorveglianza, ben voluta dal corpo (chi guida il Dap diventa il capo della Penitenziaria) considerata da tutti seria e competente, era pronta a prendere l’incarico. Il 20 dicembre scorso il ministero della Giustizia chiede infatti al Csm “il collocamento fuori ruolo con l’incarico di Capo del dipartimento” e l’8 gennaio il Consiglio delibera il fuori ruolo “per assumere, con il suo consenso, l’incarico”. Sembrava tutto fatto. Ma nessuno avesse avvisato il Quirinale da cui la nomina dipendeva. Visto che spetta al presidente della Repubblica, in qualità di capo delle forze armate, la ratifica finale. Da qui lo stallo che continua da più di tre mesi. Ieri Nordio ha provato a rasserenare l’animo promettendo una “risoluzione a breve: ma il capo del Dap - ha detto al Tg3 - non risolverà certo il problema del sovraffollamento e dei suicidi. I pezzi di Penitenziaria più vicini al governo ieri facevano notare come “la vera vicenda senza precedenti” non fosse la mancata nomina “ma- scrive il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni De Blasis - la mancata autorizzazione a un reparto della Penitenziaria di assumere la guardia d’onore al Quirinale nel giorno della festa del corpo”. Duri invece gli altri sindacati e le opposizioni. “Mai nella storia era accaduto che un ministro abbia consentito a un sottosegretario di prendere in mano la situazione così come fa Delmastro: comanda tutto lui e dispone trasferimenti di comandanti”, sostiene il segretario dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Leo Beneduci. “Ancora una volta il ministro Nordio viene commissariato dal suo stesso sottosegretario”, dice la dem Debora Serracchiani, mentre Ilaria Cucchi di Avs rincara: “È evidente a tutti che Delmastro non può più occuparsi del Dap”. Calderone (FI): “Liberiamo subito i 15mila detenuti in attesa di processo” di Giuliano Foschini La Repubblica, 1 aprile 2025 Intervista al capogruppo di Forza Italia in commissione giustizia: “Le persone in attesa di giudizio sono presunti innocenti. E, visti i numeri sulle ingiuste detenzioni, direi che molto spesso non sono presunti. Ma sono innocenti”. “Non è chiaramente una questione di nomi. Mi fido e affido al ministero. Ma una nomina di questo tipo, ancor più in un momento così delicato, va fatta al più presto. La guida delle carceri è una casella che va occupata senza indugio”. Tommaso Calderone è il capogruppo di Forza Italia in commissione giustizia. Proprio Forza Italia - “non fosse altro per la nostra cultura garantista” fa notare un alto dirigente - è il partito più in fibrillazione in queste ore per la mancata scelta del vertice delle carceri italiane. “È evidente che ci troviamo di fronte a problemi di decenni, non certamente di questi tre mesi. Ma è altrettanto vero che è necessario dare una guida solida per fare quello che è necessario. E devo dire che in questo il governo di centrodestra ha le idee molto chiare”. A cosa fa riferimento? “Quello che è stato fatto sulle carceri è tantissimo: quando, nell’autunno del 2022, il governo Meloni è arrivato la situazione era ancora più disastrosa”. In realtà il record di suicidi è dello scorso anno... “Vero. Ma non è certo colpa dell’attuale centrodestra. Anzi, questa maggioranza non ha mai banalizzato l’argomento. Piuttosto abbiamo offerto risposte concrete. C’è un commissario per l’edilizia penitenziaria, ci sono i fondi, si costruiranno nuove carceri e si ristruttureranno quelle esistenti. Certo, questo è una risposta a lungo termine che non risolve il problema del breve termine. Sul quale si può lavorare in altra maniera”. Come? “Se si vogliono risposte in tempi immediati, non si può non intervenire sulla carcerazione preventiva. Oggi nelle nostre case circondariali ci sono tra i 10mila e i 15mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Bene, è esattamente il numero dei detenuti in attesa di giudizio”. Sta dicendo che vuole cancellare la carcerazione preventiva? “Sto dicendo che le persone in attesa di giudizio sono presunti innocenti. E, visti i numeri sulle ingiuste detenzioni, direi che molto spesso non sono presunti. Ma sono innocenti. Questo dobbiamo dirlo chiaramente”. Davvero volete liberarli tutti? “Noi abbiamo presentato una proposta di legge che prevede che l’esigenza cautelare vada riesaminata, anche d’ufficio, decorsi sessanta giorni dall’applicazione della misura. In assenza di nuove esigenze, desumibili da atti e fatti concreti e attuali, diversi e ulteriori rispetto a quelli sulla cui base è stata disposta la misura, il detenuto deve essere liberato”. È un’idea azzardata... “Ripeto: se liberiamo i 15mila oggi in attesa di giudizio, abbiamo risolto il problema del sovraffollamento carcerario”. Per il Dap non avete alcun nome? “No. E comunque non spetta me occuparmi e risolvere questi problemi. Ho massima fiducia nel ministero. Io avrei fatto tutto in 24 ore…”. Giornali in carcere. “Per i detenuti lettura preventiva e divieto di firma” professionereporter.eu, 1 aprile 2025 Nelle carceri c’è la censura? Ai detenuti viene vietato di firmare con il proprio nome gli articoli che pubblicano nei giornali realizzati all’interno degli Istituti? Domande che sorgono leggendo un passaggio di un testo scritto da Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale, già Ministro di Grazia e Giustizia e pubblicato sul Notiziario quotidiano dal carcere realizzato da Ristretti Orizzonti. Dopo aver fatto riferimento a leggi, alla Costituzione e allo stesso Ordinamento penitenziario, così dice Flick: “Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi ed iniziative a livello locale e di interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi”. Per comprendere meglio, ne parliamo con Francesco Lo Piccolo, giornalista (per 15 anni dal 1986, al Messaggero di Roma), direttore di Voci di dentro, trimestrale scritto da esperti, giornalisti, docenti e da numerosi detenuti ed ex detenuti. Lo Piccolo, che accade? “Le voci a cui fa riferimento Flick nascono da fatti accaduti di recente in alcune carceri, dove giornalisti e volontari operano con laboratori di scrittura e giornalismo e con la realizzazione di notiziari diffusi anche all’esterno, sia in forma cartacea che online. Fatti in violazione dei diritti delle persone, messi in atto a Lodi, a Rebibbia, a Ivrea, a Trento”. Quali fatti? “A Lodi la Direzione dell’istituto pretende una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di ‘Altre storiè e pubblicati dal quotidiano della città Il Cittadino. Vuole inoltre scegliere gli argomenti sui quali le persone detenute possono scrivere, vietando espressamente temi come l’emigrazione ‘perché potrebbero essere in contrasto con la linea del governo sulla politica nei confronti degli stranieri senza permesso di soggiorno’ o sulla sessualità e sul diritto alla sessualità, come di recente ribadito dalla Corte Costituzionale”. E a Rebibbia? “Più o meno tre mesi fa la Direzione ha convocato Roberto Monteforte, giornalista che dal 2022 coordina il giornale interno ‘Non tutti sanno’ comunicando che persone che fanno parte della redazione non potevano firmare i loro articoli e che occorreva anche una liberatoria da parte degli stessi detenuti”. A Ivrea e a Trento? “A Ivrea prima hanno vietato ai detenuti di firmare i loro articoli, poi tre mesi fa hanno chiuso la redazione interna del giornale “La fenice”, edito dall’Associazione Rosse Torri e sospeso il permesso dell’ingresso in carcere dei volontari “per aver diffuso con i loro articoli un’immagine negativa della vita in carcere”. Avevano scritto di celle fatiscenti, sovraffollamento, mancanza di acqua calda, muffe alle pareti, griglie esterne alle finestre… Più o meno lo stesso è accaduto a Trento a Piergiorgio Bortolotti, responsabile del giornale ‘Non solo dentro’: dopo dieci anni di attività come volontario anche lui è stato messo alla porta con due sole parole, ‘non gradito’. Anche Bortolotti aveva scritto e raccontato quello che da anni si racconta su Corriere, Repubblica, Stampa eccetera e cioè dell’inefficienza del sistema carcere. Sono episodi in violazione dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario (‘Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento’), dell’articolo 3 della Costituzione italiana (‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’) e dell’articolo 21 (‘Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure’). Perché tutto ciò? “I motivi sono tanti: paura, Direttori troppo giovani e alle prime esperienze, timori di ispezioni da parte del Dap, incapacità di comprendere che in carcere prima della punizione e della cieca obbedienza deve essere privilegiato il recupero della persona, da rendere innanzitutto responsabile. Anche nel 2005 nel carcere di Lodi, e allora c’era un’altra Direttrice, fu chiuso il giornale interno, si chiamava ‘Uomini liberi’. L’idea appare sempre la stessa: i detenuti sono considerati reati che camminano… e non hanno diritti. Ma io sono un giornalista, oltre che un volontario nelle carceri, e il silenzio non lo pratico in alcun modo. Scrivere con i detenuti non può significare insegnare loro a fare dei bei temi, ma aiutarli a scrivere facendo uscire la loro voce interiore, quella soppressa in questo mondo dove comandano interessi e profitto. E ancora, non significa far accettare lo stigma del criminale, ma al contrario liberarli dallo stigma assegnato. Insegno a fare i giornalisti rispettando l’altro, liberi di dire la verità anche se fa male”. Come intendete rispondere? “Siamo riuniti in un coordinamento per dare forza a chi ha meno forza. Stiamo preparando un documento dove ribadiamo che tali atti comprimono l’operato del mondo del volontariato e rendono vano l’articolo 27 della Costituzione (‘La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’). Chiederemo un incontro al Dap”. Parliamo di Voci di dentro e degli altri giornali delle carceri…. “Voci di dentro è nato nel 2008, da un’idea della Direttrice del carcere di Chieti, la dottoressa Avantaggiato. Mi chiese di aiutarla a fare il giornalino dell’istituto. Accettai e portai fuori il giornale: non poteva essere il giornale del carcere, ma doveva essere il mio giornale e quello dei detenuti. Soprattutto libero, non ufficio stampa del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Oggi facciamo 72 pagine, quasi duemila copie, è diffuso in tutta Italia, vi scrivono detenuti da tutte le carceri italiane. Raccontiamo prima di tutto quello che non va. Per cambiare questa istituzione, per cambiare molte cose, comprese le persone. Rispettandole, innanzitutto. Nel rispetto delle regole della professione giornalistica che è fondata su un codice deontologico oggi sempre poco rispettato. Dalla parte di chi non ha voce, dei deboli e non dei potenti. Quanto agli altri giornali delle carceri, oltre a Non tutti sanno, c’è Ristretti Orizzonti, il più antico, nato a Padova nel 1998, direttore Ornella Favero, con redazioni anche negli istituti di Venezia, Parma e Genova, affiancato da una rassegna quotidiana degli articoli che si occupano di carcere, convegni e tanto altro. Poi, Carte Bollate, nato nel 2002, bimestrale, duemila copie, prodotto da una redazione di venticinque detenuti e detenute di cui fanno parte, come volontari, giornalisti professionisti ed esperti di comunicazione. La direttrice è Susanna Ripamonti. Tra le altre riviste sul carcere c’è L’Oblò realizzato a San Vittore: è il mensile della “Nave”, reparto a custodia attenuata per il trattamento di ex tossicodipendenti e alcolisti, che punta a pubblicare poesie e pensieri sulle attività del reparto, sul mondo di fuori, ma soprattutto offre riflessioni sull’assunzione di stupefacenti, filtrate dalle esperienze passate. Ancora a Milano, da qualche anno esce In corso d’opera, ora diventato Opera news, realizzato nel carcere di Opera: informazioni, idee, contributi culturali e sociali pensati e scritti da redattori diversamente liberi. A Bologna si realizza Ne vale la pena: la redazione, attiva da marzo 2012, è costituita da persone ristrette all’interno della Casa circondariale ‘Rocco d’Amato’ di Bologna, insieme ai volontari dell’associazione il Poggeschi per il carcere e al cappellano dell’istituto Marcello Matté; a Ferrara dal 2009 c’è Astrolabio, diretto da Vito Martiello e, dal 2016, curato da Mauro Presini. È finanziato dal Comune di Ferrara, attraverso le risorse del fondo sociale regionale. A Napoli opera Parole in Libertà, laboratorio di scrittura giornalistica dedicato ai detenuti degli Istituti di Secondigliano e Poggioreale. È promosso dal Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personali, dalla Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, dal quotidiano Il Mattino e dalla Fondazione Banco di Napoli; gli articoli vengono pubblicati da Il Mattino”. “Diritto agli affetti per preservare la nostra umanità”. Lettera dei detenuti a Secondigliano Il Mattino, 1 aprile 2025 Nel gennaio del 2024 la Corte Costituzionale si è espressa sull’affettività all’interno degli istituti penitenziari. Sul tema c’è molto da discutere, partendo dalla tipologia di sentenza che la Corte ha utilizzato; in questo caso si tratta di una sentenza additiva di principio. La Corte ha preteso di utilizzare questa tipologia di sentenza per dettare i pilastri normativi su cui il legislatore deve legiferare. È lodevole l’interpretazione che ha usato la Corte, stabilendo che ogni detenuto ha diritto a coltivare i propri affetti familiari, genitoriali e sessuali, attraverso dei colloqui che non sono sottoposti a controllo a vista da parte del personale di polizia penitenziaria e che sono esenti dalla banca ore mensile dei colloqui ordinari, che i detenuti svolgono settimanalmente con i propri familiari. All’interno della sentenza il principio più importante espresso dalla Corte è quello in cui obbliga il direttore dell’istituto all’autorizzazione di questi colloqui intimi, e per di più la loro fruizione deve essere fatta in ambienti che hanno il fine di ricostruire l’ambiente domestico, in cui ogni detenuto deve essere nella posizione di poter preparare e consumare un pasto con il proprio nucleo familiare. Questa innovazione da parte della Corte Costituzionale è frutto di grandi garanzie nei confronti dei soggetti ristretti, che vedono applicarsi quel tanto reclamato reinserimento educativo. L’umanità degli incontri affettivi non può non coinvolgere la società intera. Il fatto che, sebbene reclusi, non si possa negare l’importanza di un contatto diretto, amorevole, intimo. Un contatto che non dovrebbe essere sentito come un obbligo sancito dalla Corte Costituzionale. Siamo e rimaniamo delle persone che hanno bisogno di affetto, di una carezza, di una parola dolce lontano dagli sguardi di controllo; nessuno potrà mai negare che oggi, invece, siamo poco più di un problema per l’amministrazione penitenziaria, soprattutto in relazione ai colloqui. Abbiamo saputo che il nostro Garante regionale Samuele Ciambriello, nell’incontro avuto con il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha posto alla sua attenzione questo nostro diritto. Gli è stato detto che stanno preparando una circolare del Dap per tutti gli istituti penitenziari d’Italia. Lentamente qualcosa si muove, per fortuna. Vogliamo solo essere umani, come tutti gli altri. Giovanni B., Claudio I., Giulio P., Nunzio E., Vincenzo A., Luigi G., Jorge T., Luca C., Luigi M., Marco T., Jonad Q., Tommaso E., Francesco F. e Pierpaolo C. (Carcere di Secondigliano, Reparto Mediterraneo) Disturbi mentali gravi, coinvolti oltre 15% detenuti in Italia ansa.it, 1 aprile 2025 Dai dati forniti dal Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale nel documento programmatico sulla giustizia, presentato a novembre 2024, si attesta che oltre il 15% della popolazione detenuta in Italia, risulta affetta da disturbo mentale grave ossia 6000/9000 detenuti circa su una popolazione complessiva di oltre 62mila. dirlo Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nel corso del convegno “Salute in carcere: un diritto negato?”, nell'Aula Siani del Consiglio regionale della Campania. Per quanto riguarda la Campania dove su 7.509 persone detenute e 5.584 posti regolarmente disponibili, si registra un indice di sovraffollamento pari a 134,47%, vi sono emergenze sanitarie correlate alle varie patologie. L'uso di droghe illegali, ad esempio, è diffuso in molti penitenziari: in Campania, da dati emersi inerenti al 2024, risulta che 1.793 sono ufficialmente tossicodipendenti e le dipendenze non trattate portano a problemi di salute come malattie infettive, come l'Hiv. E ancora, la scarsa qualità di cibo, il sovraffollamento e la mancanza di attività fisica contribuiscono a problemi di salute come obesità, malattie cardiache e problemi muscolo-scheletrici. Tra i numeri più rilevanti- sottolinea Ciambriello - c'è sicuramente quello inerente a patologie odontoiatriche, con ben 433 casi, a seguire 164 casi di ortopedia e 150 di ipertensione. Tra le proposte “un miglioramento delle condizioni igienico- sanitarie, l'esecuzione costante di screening per le patologie croniche e infettive”. “Quello che emerge è la necessità di una maggiore integrazione tra giustizia, sanità e welfare, evidenziando le necessità sociali e politiche per migliorare le condizioni sanitarie nelle strutture penitenziarie” commenta Ciambriello “Si avverte l'esigenza di una creazione di una rete nazionale di reparti ospedalieri di medicina per detenuti, un potenziamento delle reti per la salute mentale e il riconoscimento della specificità della medicina penitenziaria”. “Ciò consentirebbe oltre a un monitoraggio puntuale delle patologie, anche un'ottimizzazione dei costi per la sanità penitenziaria e una migliore distribuzione delle risorse finanziarie, specialmente nel Meridione”. Ddl Sicurezza, Salvini pronto all’accordo. Ma vuole “tutele legali” per gli agenti di Valentina Stella Il Dubbio, 1 aprile 2025 Il testo dovrà tornare alla Camera dove potrebbero esserci novità su detenute madri, resistenza passiva in cella e sim agli immigrati irregolari: si tratta con FdI e Fi. La Lega è pronta ad accettare le modifiche al ddl sicurezza a patto che il Governo approvi quanto prima un “filtro legale” per le forze dell’ordine. È la novità emersa nelle ultime ore e a una settimana dal possibile approdo del provvedimento nell’Aula del Senato. Facciamo un passo indietro: la norma, dopo i rilievi della Ragioneria di Stato sulle previsioni di spesa, dovrà tornare alla Camera per una terza lettura. Il Carroccio non avrebbe mai voluto questo ulteriore passaggio ma è stato costretto ad accettarlo in assenza di una alternativa. A queste modifiche finanziarie se ne potrebbero aggiungere quindi altre sul merito. In particolare riguarderebbero le detenute madri, l’introduzione del reato di resistenza passiva in carcere e il divieto di acquisto di una sim a chi non ha il permesso di soggiorno: tre punti sui quali il Quirinale avrebbe fatto una moral suasion. Fratelli d’Italia e Forza Italia non si erano dette contrarie, anche per non fare uno sgarbo al capo dello Stato. Secondo quanto ci ha detto il presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Alberto Balboni (Fd’I), “qualche modifica selettiva e chirurgica non dovrebbe comportare particolari problemi né allungare i tempi di approvazione, visto che comunque alcuni emendamenti per aggiornare le coperture, inizialmente previste dal 2024 che nel frattempo è decorso, sono necessari”. Il partito di Matteo Salvini, al contrario, aveva mostrato la sua netta contrarietà a queste modifiche. Ma adesso la partita si riapre in una sorta di baratto politico: sì alle modifiche in Aula, a patto che si acceleri sulla norma che allarga i confini della tutela degli agenti. L’altra condizione richiesta dalla Lega per portare a casa il risultato utile a tutta la maggioranza è che al Senato gli altri partiti non chiedano modifiche su articoli di loro interesse: significherebbe allungare di troppo i tempi di approvazione. Al momento la maggioranza non ha ancora preso una decisione ma sembrerebbe che l’accordo sia vicino. Come noto, all’interno del ddl sicurezza l’articolo 22, introdotto dalla Camera, determina un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Tale beneficio non può superare complessivamente l’importo di 10mila euro per ciascuna fase del procedimento e in caso di responsabilità con dolo del beneficiario è prevista la rivalsa delle somme corrisposte. Ma il Carroccio ha chiesto di più nei mesi precedenti e adesso l’Esecutivo sarebbe pronto a licenziare, in un imminente Consiglio dei Ministri, un decreto legge che amplia le garanzie per le forze dell’ordine. Il cuore della norma dovrebbe essere quello di evitare alcuni automatismi nel momento in cui viene sparato un colpo d’arma da fuoco o un agente, anche con l’uso di manganelli, ferisce o uccide qualcuno, ad esempio durante una manifestazione di piazza o una rivolta in carcere. Ci sono due binari su cui si sta lavorando, come anticipato dal Messaggero. Primo, quello disciplinare: fino a sentenza definitiva niente sanzione, né ritiro dell’arma, né blocco dello stipendio. Secondo, quello penale: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere avvengano nell’ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se ci sono elementi per cui gli agenti violano la legge o il perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro degli indagati, ma non prima. Il testo dovrebbe essere affinato in questi giorni, quando si parleranno la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Mantovano a cui è stato dato mandato di elaborare la norma, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. La premier tiene molto alla questione. Ne aveva parlato anche all’incontro di inizio anno con la stampa quando aveva difeso il carabiniere Luciano Masini, che a Capodanno è intervenuto uccidendo un uomo che aveva accoltellato quattro persone. Non sarebbe invece previsto nel decreto il fatto che lo Stato si faccia carico degli eventuali risarcimenti patrimoniali e non a cui verrebbero condannati gli agenti. D’accordo sul provvedimento anche Forza Italia che inizialmente si era mostrata timida. Così ha commentato, infatti, al Dubbio il presidente dei senatori azzurri, Maurizio Gasparri: “Io sono antesignano delle politiche per la sicurezza e delle iniziative a tutela del personale. Pertanto sarebbe meglio chiedere agli altri cosa pensano di quello che ho fatto, sto facendo e farò in materia. In pratica, non sono io che mi misuro su quello che propongono gli altri, ma gli altri su quello che propongo io, che sono favorevole alle massime opportunità di tutela del personale. Dalla tutela legale alla tutela sanitaria ad altre forme di intervento, di cui sono promotore storico”. Al momento al Quirinale si esercita il silenzio in attesa che il testo assuma concretezza. Le perplessità potrebbero riguardare il fatto che se la legge è uguale per tutti, come da dettato costituzionale, risulti complicato approvare una scriminante che valga solo per le forze dell'ordine. Il ddl Sicurezza contiene norme da Stato di polizia di Beppe Giulietti* Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2025 Da oggi promuoveremo una campagna per lo stralcio dell’articolo 31 e per cancellare qualsiasi ambiguità in materia di libertà di informazione. No, noi non ci stiamo, passeremo dall’indignazione all’azione. Il ddl Sicurezza in discussione contiene norme da stato di polizia, un vero e proprio piano di aggressione al pensiero critico. Le norme si inseriscono nel contesto di un tentativo di colpire la divisione dei poteri, di minare i poteri di controllo - in primis giustizia e informazione - di svellere la matrice della Costituzione antifascista, pacifica, antirazzista. L’articolo 31 del ddl prevede addirittura che persino scuola e università siano obbligate a fornire informazioni ai servizi segreti, magari su uno sciopero, su una manifestazione per Gaza, sulle proteste contro i governi. Norme da Stato di polizia, oltre quelle già adottate in Ungheria. Come se non bastasse questa mattina i legali e i costituzionalisti aderenti all’associazione hanno confermato che quell’articolo, come è scritto, si applicherà anche alla Rai, alle emittenti, alla radio, alle agenzie. Si potranno chiedere informazioni, fogli di viaggio, tabulati, in modo tale da scoprire le fonti e ostacolare quello che resta del giornalismo di inchiesta. Una norma in contrasto con la Costituzione e con il Media freedom act. Abbiamo la sensazione che la gravità non sia stata pienamente colta né dagli editori né dalle redazioni. Per questo Articolo21 ha deciso di aderire alla rete No ddl Sicurezza, di aderire a tutte le iniziative che saranno promosse, di sollecitarne una specifica dei giornalisti, magari con la Costituzione tra le mani, come hanno già fatto i magistrati. Da oggi promuoveremo una campagna per lo stralcio dell’articolo 31 e comunque per cancellare qualsiasi ambiguità in materia di libertà di informazione. In caso di approvazione di questa nuova norma bavaglio, sarà dovere di ogni giornalista praticare l’obbedienza civile, rifiutare qualsiasi informazione relativa alle fonti, applicare rigorosamente il Media freedom act, le sentenze della Corte europea, quelle della Cassazione. *Coordinatore dell'Associazione Articolo 21 Ma io, giurista e femminista, dico: è importante approvare quel ddl sul reato di femminicidio di Valeria Valente* Il Dubbio, 1 aprile 2025 Il formale riconoscimento del reato di femminicidio nel codice penale è una scelta sulla quale femministe, reti e centri antiviolenza discutono da tempo, con posizioni anche differenti. Personalmente, a partire da un’iniziale contrarietà, più da giurista che da femminista, lavorando per anni al fianco di operatrici dei centri antiviolenza, magistrati, avvocate mi sono convinta della sua possibile utilità e per questo ho salutato con favore il disegno di legge presentato l’ 8 marzo dal governo Meloni (data per tante ragioni non proprio indovinata). Un annuncio giunto, dobbiamo dirlo, in un clima difficile per il sistema giustizia, già molto provato dalle scelte pericolose di un esecutivo il cui eccessivo ricorso al diritto penale e i cui attacchi alla magistratura e alle sue prerogative sono davvero senza precedenti. Il testo non è in verità ancora arrivato in Parlamento: parliamo dunque di una proposta ancora embrionale che, nella forma del disegno di legge, dovrebbe consentire le dovute modifiche attraverso il confronto, oltre che tra maggioranza e opposizione, anche con chi opera ogni giorno sul campo. Ci si chiede: perché ricorrere ancora al diritto penale per contrastare un fenomeno culturale? Non era sufficiente l’aggravante già esistente? Il nuovo reato è costituzionale e risponde agli ineludibili criteri di tassatività e determinatezza previsti dal Codice penale? Non si creerà un diritto penale parallelo? Il ddl inserisce l’articolo 577- bis nel codice penale per definire la fattispecie del femminicidio come l’uccisione di una donna in quanto donna, come atto di discriminazione o di odio o per limitarne i diritti, la libertà e l’espressione della personalità. È una definizione innovativa perché contiene finalmente il riferimento specifico alla matrice culturale del femminicidio - ovvero l’asimmetria di potere e la volontà di controllo e dominio di un uomo nei confronti di una donna - ma che può e deve essere migliorata per rispondere di più e meglio ai criteri di determinatezza e tassatività. Per esempio, si potrebbe ragionare della possibilità di eliminare il riferimento a odio e discriminazione e di dettagliare di più la seconda parte della norma. Per quanto mi riguarda, e pensando alle tante sentenze di questi anni, la nuova fattispecie dovrebbe fotografare più che il movente o l’elemento psicologico del reo, la specificità della condotta maschile nella relazione di coppia e gli elementi che la connotano e la riconducono ad un modello fondato sulla cultura della sopraffazione e del possesso. Un modello dunque non paritario. Lui dominante, controllante, lei vulnerabile e soccombente. Poteva bastare l’aggravante già prevista per l’omicidio consumato in un contesto familiare? Il femminicidio viene per la prima volta definito nel Codice penale, gli si da dignità di fattispecie autonoma. È un salto di qualità enorme e prezioso: significa riconoscere la specificità e insieme la gravità e il disvalore di quella condotta. In più si consegna agli operatori giudiziari uno strumento operativo importante per meglio ricercare, riconoscere e punire quel comportamento. Si configura così una disparità tra uomini e donne? Non credo, se si considera che a partire dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione e dall’articolo 117 che consente il recepimento delle normative internazionali, a partire dalla Convenzione di Istanbul, sono già previsti nel nostro ordinamento trattamenti differenziati per uomini e donne, al fine di rimuovere gli ostacoli alla effettiva parità e all’uguaglianza sostanziale. Con il nuovo reato, si fa semmai entrare il pieno riconoscimento dei sessi anche nel diritto penale, in contrasto con la sua presunta neutralità che è in realtà espressione di una soggettività quasi esclusivamente maschile (si pensi all’articolo 575 c. p. che definisce l’omicidio dell’”uomo”, negando la differenza sessuale). Ma veniamo all’accusa di panpenalismo che consiste, alla lettera, nella costruzione di fattispecie “artificiose” del diritto penale, finalizzate alla tutela di beni giuridici indefiniti o inesistenti. L’attuale Esecutivo può vantare senz’altro su questo un primato negativo, vedi il ddl sicurezza. Nel caso del reato autonomo di femminicidio, invece, il bene tutelato è evidente: la vita di una donna rispetto a una condotta maschile specifica motivata dal possesso e dalla volontà di dominio. Se poi si vuole aprire un dibattito sulla cancellazione dell’ergastolo, anche per recuperare finalmente il principio della funzione rieducativa della pena, io sarei più che favorevole, a patto di non limitarsi al casus belli del femminicidio. Il disegno di legge contiene poi una serie di altre norme preziose, tra cui il rafforzamento delle misure di protezione della vittima, della quale viene potenziato il ruolo. Si prevede che per molti reati violenti il Pm ascolti personalmente la persona offesa, se questa ne fa richiesta. È una norma che va nella direzione giusta, ma la cui applicazione ad oggi è praticamente impossibile se non controproducente, senza prevedere più giudici e più risorse. In caso di patteggiamento, il giudice dovrà informare la donna vittima, che potrà fornire proprie deduzioni, di cui il magistrato dovrà dare conto nella decisione finale. La vittima dovrà inoltre essere informata anche nel caso di concessione e permessi premio, sconti di pena o altro. Infine, viene resa obbligatoria la formazione e la specializzazione dei magistrati, con l’assunzione del punto di vista delle donne vittime e dei centri antiviolenza. Quanto al rischio di “creare un diritto penale parallelo” come è accaduto per il contrasto alle mafie, penso invece che il nuovo reato potrebbe essere utile proprio per ottenere lo stesso cambio di passo che si verificò con l’introduzione dell’articolo 416 bis, che segnò la condanna finalmente corale e condivisa del fenomeno. *Senatrice del Partito Democratico 100 assolti su 169: il flop di Gratteri rischia di costare 5 milioni per ingiuste detenzioni di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 aprile 2025 Il pm attacca Il Foglio sulle spese per ingiuste detenzioni. Ma i dati confermano il disastro di Catanzaro. Emblematico il flop dell'indagine “Stige”. Tra gli assolti l'imprenditore Francesco Zito: “I carabinieri del Ros vennero ad arrestarmi alle 3 di notte con il passamontagna addosso”. “L’8 gennaio 2018, alle 3 di notte, i carabinieri del Ros si presentarono a casa mia con il passamontagna addosso per arrestarmi. Venni trasferito nel carcere di Paola, dove trascorsi 26 giorni. Poi altri 152 giorni ai domiciliari, con le accuse infamanti di essere colluso con la ‘ndrangheta. Accuse dalle quali sono stato assolto, ma per una persona onesta è devastante ritrovarsi in una situazione del genere”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Francesco Zito, imprenditore vinicolo calabrese, coinvolto nella maxi operazione “Stige” condotta nel 2018 dall’allora capo della procura di Catanzaro, Nicola Gratteri. Lo scorso ottobre Zito è stato indennizzato per l’ingiusta detenzione con 47 mila euro. Una storia emblematica che smentisce gli attacchi lanciati nei giorni scorsi da Gratteri nei confronti di questo giornale. Intervenendo a “DìMartedì” su La7, il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha accusato Il Foglio di aver “riportato dati totalmente falsi” sul record di indennizzi per ingiusta detenzione versati in Calabria dal 2018 al 2024 (78 milioni di euro su 220 milioni, il 35 per cento del totale), aggiungendo che “a Catanzaro le ingiuste detenzioni sono al di sotto della media nazionale” e che “non c’è una sola ingiusta detenzione attribuibile a Nicola Gratteri”. Tre bufale in una per il pm che dal 2016 al 2023 ha guidato la procura di Catanzaro: i dati sono stati estratti da una relazione pubblica predisposta dal ministero della Giustizia, che consegna alla Calabria il triste record di indennizzi per ingiusta detenzione negli ultimi sette anni; la spesa nel distretto di Catanzaro è di gran lunga al di sopra della media nazionale (addirittura il quadruplo: 4.274.784 euro nel 2024, contro la media di 927 mila euro); tra i risarciti ci sono anche le vittime dei frequenti maxi arresti compiuti da Gratteri nel corso degli anni. Fra queste, appunto, anche Francesco Zito. L’8 gennaio 2018 Francesco Zito venne arrestato, insieme al fratello Valentino, su richiesta della procura di Catanzaro, all’epoca guidata da Gratteri, nell’ambito della maxi operazione “Stige”, che portò a un totale di 169 arresti. Nella tradizionale conferenza stampa Gratteri definì l’indagine “la più grande operazione fatta negli ultimi ventitré anni”, proseguendo: “È un’indagine da portare nelle scuole di polizia giudiziaria e in quella della magistratura anche perché riguarda soprattutto la parte economica e con la ‘ndrangheta che ha messo i suoi uomini direttamente nella gestione del potere”. Al centro delle indagini le attività criminali della cosca Farao-Marincola, una delle più potenti della Calabria con ramificazioni anche nel nord e centro Italia. Ma gli inquirenti si spinsero ben oltre, arrivando a ipotizzare un vasto coinvolgimento della criminalità organizzata non solo nel settore imprenditoriale, ma anche e soprattutto nella sfera politica. Negli anni successivi proprio la parte centrale dell’indagine, quella relativa al coinvolgimento della ‘ndrangheta nell’economia e nella politica, è crollata. Tra rito abbreviato e rito ordinario circa 100 imputati su 169 sono stati assolti. Tra questi, numerosi amministratori locali e imprenditori accusati di essersi messi al servizio dei clan mafiosi. Francesco e Valentino Zito vennero indagati per associazione mafiosa, con l’accusa di aver venduto al clan mafioso il vino che poi era stato imposto a diversi ristoranti in Germania con l’intimidazione. I due imprenditori, però, non potevano sapere quale utilizzo sarebbe stato fatto del loro vino. Per questo Francesco Zito - assistito dagli avvocati Enzo Ioppoli e Francesco Verri - è stato assolto in via definitiva, con la formula “perché il fatto non sussiste”. Il fratello Valentino, che ha scelto il rito ordinario, è stato assolto in appello e ora attende il giudizio di Cassazione. Intanto, dopo l’assoluzione Francesco Zito ha chiesto e ottenuto lo scorso ottobre un indennizzo di 47.635 euro. La Corte d’appello di Catanzaro ha sottolineato che l’accusa si è rivelata “sfornita di un adeguato supporto probatorio “e “ab origine delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 cpp” (i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l’adozione di una misura cautelare personale). I giudici hanno inoltre quantificato l’indennizzo tenendo conto dei danni subìti dall’azienda agricola Zito dal clamore mediatico delle accuse giudiziarie mosse dalla procura di Catanzaro e poi rivelatesi infondate. Insomma, a conferma di quanto scritto da questo giornale, le somme spese dallo stato per indennizzare le ingiuste detenzioni nel distretto di Catanzaro riguardano anche le maxi operazioni portate avanti da Gratteri con decine, se non centinaia di arresti, che molto spesso poi si sono rivelati ingiusti. Solo l’inchiesta “Stige” rischia di trasformarsi in un salasso. “Nel processo ci sono state circa 100 assoluzioni su 169 arresti, molte definitive. Visto che a Zito sono stati riconosciuti 47 mila euro, c’è il rischio che lo stato paghi agli assolti quasi 5 milioni di euro”, nota l’avvocato Verri. Più della cifra pagata dalla Corte d’appello di Catanzaro nel solo 2024. Processo Askatasuna, cade il teorema dell’associazione a delinquere di Mauro Ravarino Il Manifesto, 1 aprile 2025 In primo grado cancellata l’accusa più grave perché “il fatto non sussiste”, restano solo condanne minori. La società Telt chiedeva un risarcimento di un milione, riceverà 500 euro per il reticolato danneggiato. Un lungo applauso e i cori No Tav hanno accolto, in Tribunale a Torino, la lettura del dispositivo con il quale i giudici di primo grado hanno assolto i militanti di Askatasuna dall’accusa di associazione per delinquere “perché il fatto non sussiste”. Dopo un processo lungo due anni, valanghe di intercettazioni, cade così il “teorema” contro il centro sociale di corso Regina Margherita 47. “È crollato - ha detto al presidio davanti al Palagiustizia Andrea Bonadonna, uno degli imputati - perché chi lotta ogni giorno per il bene di altre persone, della propria città, del proprio quartiere, del proprio paese, non può essere equiparato a un delinquente”. Sono 16 le assoluzioni per associazione a delinquere. Diciotto invece (su un totale di 28 imputati) le condanne che riguardano singoli episodi, come le dimostrazioni violente contro i cantieri del Tav in Val di Susa. Le pene chieste dai pm ammontavano a 88 anni di carcere, quelle inflitte dai giudici non superano i 21, la più alta è 4 anni e 9 mesi, la più bassa 5 mesi. “L’impianto accusatorio della procura - sottolinea l’avvocato Claudio Novaro - non ha retto, né passato la prova del dibattimento. Due sono i fronti su cui si è giocata la partita: quello associativo e quello relativo alle vicende dello Spazio popolare Neruda, un’occupazione abitativa di decine famiglie di migranti. Il primo, che inizialmente gli inquirenti provarono a formulare come associazione sovversiva, ipotesi respinta dal gip, è stato smantellato alla radice. L’ipotesi di Askatasuna come regia occulta del conflitto violento in città come in Val di Susa si basava su intercettazioni decontestualizzate e congetture complottistiche. Il fronte relativo al Neruda ha rappresentato, invece, una caricatura venuta male e l’accusa estorsiva, che non stava in piedi, è stata ridimensionata in violenza privata”. Novaro, poi, aggiunge: “Questa sentenza ribadisce che le ipotesi eversive, addebitate di volta in volta all’antagonismo sociale torinese e al movimento No Tav, vengono smentite in tutti i processi”. La Presidenza del Consiglio e i ministeri di Interno e Difesa volevano risarcimenti per 6,8 milioni, ma la sentenza ha stabilito che dovranno proporre una causa civile. Telt (la società binazionale che gestisce la sezione transfrontaliera della Torino-Lione) chiedeva un milione di euro: riceverà 500 euro per il danneggiamento di un reticolato. Ieri il tribunale era blindatissimo, la procuratrice generale Lucia Musti aveva imposto misure di sicurezza rafforzate per gli accessi vietando “caschi, parrucche, maschere, coriandoli e stelle filanti”. I militanti di Askatasuna hanno comunque festeggiato la sentenza senza dimenticare i condannati, sottolineando di essere un’associazione a resistere: “Espressione effettiva di lotte capaci di incidere nel proprio ambito. L’associazione a resistere riguarda chi mette a rischio se stesso per difendere un pezzo di territorio, chi vuole costruire per sé e per tutti un futuro migliore, chi blocca una nave piena di armi, chi si organizza per non lasciare nessuna da sola”. Insorgono i sindacati di polizia che parlano di “umiliazione per gli agenti” (Coisp), chiedono al ministro Piantedosi di impugnare la sentenza (Siulp) e temono che “fornirà a tutti quelli che si riconoscono nelle azioni di Askatasuna un’ulteriore spinta a continuare nell’azione violenta” (Siap). A sinistra Paolo Ferrero, segretario provinciale di Rifondazione, plaude a un “tribunale che ha evitato di stravolgere la legalità repubblicana”. Soddisfazione dal vicecapogruppo di Avs alla Camera Marco Grimaldi, della capogruppo di Avs in Piemonte Alice Ravinale e della capogruppo di Sinistra Ecologista in Comune Sara Diena: “Abbiamo sempre pensato che l’accusa di associazione a delinquere fosse un teorema infondato, completamente fuori luogo. Ci aspettiamo delle scuse da chi, a destra, aveva dimenticato ogni garantismo e attaccato pesantemente imputati e solidali”. Non la pensa così Elena Chiorino (Fdi), vicepresidente della regione Piemonte: “Sono delinquenti”. Processo Askatasuna: crolla il teorema, arriva una lezione di Livio Pepino Il Manifesto, 1 aprile 2025 Non c’è bisogno di aspettare le motivazioni della sentenza. Basta il dispositivo. Le cose non potrebbero essere più chiare. Il teorema della procura della Repubblica di Torino e della Digos non è stato solo smentito, è stato spazzato via, sbriciolato. Askatasuna non è un’associazione per delinquere e nessun gruppo eversivo ha operato al suo interno. Di più, anche molti reati specifici sono stati esclusi e i risarcimenti milionari richiesti da presidenza del Consiglio e vari ministeri sono stati disattesi. Nonostante la mobilitazione della destra, le campagne diffamatorie, gli interventi a piedi giunti dei vertici degli uffici inquirenti, la criminalizzazione di tutti coloro che hanno richiamato alla razionalità e al senso delle proporzioni, quando si è arrivati davanti a un giudice, il castello accusatorio è crollato. La vicenda non è una piccola questione locale riguardante una ventina di “antagonisti” ma un segnale che impone da subito alcune considerazioni. Primo. Per la Digos e la procura torinese Askatasuna è un’associazione sovversiva. Per questo si è proceduto nei confronti di 86 indagati con richiesta di 16 misure cautelari e gli imputati sono stati intercettati, seguiti, controllati per una infinità di giorni e di notti. Venti anni della loro vita sono stati setacciati e scandagliati nei minimi particolare. L’ipotesi era stata ridimensionata già dal giudice per le indagini preliminari. Ma ancora tre mesi fa, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, la procuratrice generale di Torino ha definito la città piemontese il “centro dell’eversione” nazionale. E oggi il tribunale è stato militarizzato, come se si fosse alla soglia di una guerra civile. Ebbene il fatto che, in questo clima e dopo una così accanita ricerca di supporti all’accusa, si sia arrivati all’esclusione del reato associativo ha un valore doppio: dice non solo che non è stata raggiunta la prova del reato, ma che gli elementi acquisiti nelle indagini dimostrano esattamente il contrario, e cioè che nessuna associazione sovversiva o a delinquere è mai esistita ad Askatasuna. Nessuno, ovviamente, chiederà scusa, ma la lezione per inquirenti, media e politici alla ricerca di consenso non potrebbe essere più netta. Secondo. Non è certo la prima volta che ciò accade. Storicamente è agevole ricordare i processi contro gli anarchici dell’Ottocento: iniziati con arresti e squilli di tromba e sempre conclusi con assoluzioni generalizzate. In tempi recenti, poi, l’associazione per delinquere è stata contestata a sindacati (soprattutto nella logistica), movimenti per la casa, organizzazioni operanti per il salvataggio dei migranti e finanche a Mimmo Lucano e agli amministratori di Riace. A Torino, da vent’anni a questa parte, è all’ordine del giorno la criminalizzazione del movimento no Tav, dell’area anarchica, dei movimenti degli studenti, dei centri sociali, arrivando sino alla contestazione di ipotesi di terrorismo. E sempre le accuse di reati associativi sono state smentite dai giudici in tutti i gradi di giudizio. Ovviamente dopo anni. Sarebbe tempo che nella cultura giuridica e politica si aprisse un confronto sull’uso dei reati associativi con riferimento ai movimenti e al conflitto sociale. Nessuno lamenta - nessun movimento ha mai lamentato - che si proceda per i singoli reati intervenuti in manifestazioni e in occasioni analoghe. Quel che è democraticamente inaccettabile è altro: la configurazione dei movimenti in quanto tali come reati, com’è nella contestazione dei reati associativi. Terzo. L’esito del processo dovrà far ripensare anche a sinistra - riprendendo considerazioni fatte giorni fa su queste pagine da Giuliano Santoro - al ruolo e al senso nella scena politica e sociale del Paese delle aggregazioni politiche antagoniste e dei centri sociali, spesso liquidati con sufficienza come realtà marginali e borderline. Uno stimolo in questo senso può venire dal progetto, non a caso contestato dalla destra politica e istituzionale, di trasformazione di Askatasuna in bene comune a disposizione del territorio, condotto dal comune di Torino, da realtà associative cittadine e dagli stessi militanti del centro. È un discorso che si dovrà riprendere. Milano. Detenuta suicida nel carcere di Bollate dopo la sospensione dal lavoro all’esterno di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 1 aprile 2025 Il Garante dei detenuti Francesco Maisto: “L’avevo vista 15 giorni fa, non immaginavo”. La donna stava scontando l’ergastolo per l’omicidio dell’ex marito. “L’ho vista quindici giorni fa. Diciamo che era contrariata, non era serena, ma non in una situazione tale da far pensare a un gesto estremo. Avevo suggerito alla direzione un colloquio con la psicologa. Non potevo immaginare un suicidio”. Francesco Maisto, il garante dei detenuti di Milano, è stato una delle ultime persone a incontrare Francesca Brandoli. Il motivo della contrarietà è attribuibile a “una sanzione disciplinare che due mesi fa aveva determinato la sospensione del lavoro all’esterno”. Non basta, però, a spiegare anni in cui Brandoli si è impegnata per farcela. “La seguivo per il suo reinserimento sociale che stava andando bene, non aveva patologie di carattere psicotico - conclude il garante -. Qualcosa dev’essere successo. Bollate è una città: ci sono 1.200 reclusi”. Questi diciannove anni da detenuta sono stati una sorta di montagne russe, per Brandoli, con bassi (la disperazione iniziale, il tentativo di suicidio alla Dozza di Bologna), ma anche di alti. A seguire la donna a Milano, nella fase esecutiva della pena diventata definitiva, è stato l’avvocato Daniele Barelli di Milano, stupito di quello che ha definito “un evento nefasto”. Il legale, che ha seguito Brandoli fino a cinque anni fa, descrive il periodo trascorso a San Vittore (prima del trasferimento a Bollate) come positivo. “Brandoli aveva seguito un percorso di reinserimento facendo tante attività, teatro compreso. Era molto determinata e dopo dieci anni di buona condotta usciva spesso: permessi lavorativi (all’Expo di Milano o come barista) e permessi per legami familiari. Quando la sorella la veniva a trovare passavano la giornata insieme”. Parlava sempre dei suoi figli, “il suo cruccio maggiore”, prosegue il legale: “Si teneva in contatto con lunghe lettere, mostrava i loro disegni, sapeva cosa facevano e ne parlava sempre”. Firenze. “Chiudere Sollicciano”. Il presidente della Toscana Giani chiede un incontro a Nordio di Gianluca De Rosa Il Foglio, 1 aprile 2025 Dopo la lettera di una decina di magistrati al Dap per chiedere la chiusura dell'istituto di pena interviene anche il governatore: “Serve un intervento subito, per questo ho chiesto un incontro al ministro”. “O viene profondamente ristrutturato o deve essere costruito un nuovo carcere. Sollicciano, così com’è, non può andare avanti. Nella Toscana dei diritti civili non possiamo avere una situazione di degrado e non vivibilità come quella che si presenta oggi in quell’istituto. Ho chiesto qualche giorno fa al ministro Nordio un incontro per discutere e cercare una soluzione al più presto”. Eugenio Giani, presidente della regione Toscana, non ha dubbi: il carcere di Firenze deve essere profondamente ristrutturato o deve essere chiuso in attesa della realizzazione di una nuova struttura. L’istituto fiorentino è uno dei peggiori d’Italia. Rivolte, 386 atti di autolesionismo solo nel 2024, due suicidi solo dall’inizio del 2025 e condizioni detentive indegne di un paese civile. Alla fine della scorsa settimana un gruppo di una decina di magistrati fiorentini che aveva visitato l’istituto di pena pochi giorni prima ha inviato, insieme all’associazione Antigone, una lettera per chiedere “la chiusura degli spazi detentivi fino alla loro completa ristrutturazione” al capo del Dap - che però dopo le dimissioni di Giovanni Russo a dicembre scorso non è stato ancora nominato -, alla sindaca di Firenze Sara Funaro e allo stesso Giani. “La lettera - dice il governatore - è comprensibile ed espone le ragioni in modo corretto. Sono magistrati autorevoli che chiedono una risposta puntuale e concreta, non posso che accodarmi alla loro richiesta, per questo ho chiesto un incontro al ministro”. Nella lettera i magistrati scrivono: “Risulta difficile esprimere a parole l’orrore provato nel vedere le condizioni materiali in cui lo stato italiano fa vivere persone che ricadono completamente sotto la sua responsabilità”. Orrore di cui in parte è cosciente l’amministrazione penitenziaria. Lo scorso luglio infatti le condizioni del carcere avevano portato a un vero e proprio scontro tra la direttrice della struttura, Antonella Tuoni, e l’amministrazione centrale. Il rimpallo di responsabilità sulle condizioni del carcere si era concluso con una sanzione di 25 mila euro nei confronti della direttrice e il suo mancato rinnovo. Tuoni è stata spostata a gennaio, con un giro di nomine dirigenziali, ad amministrare il più piccolo carcere di Arezzo (un unicum nella storia dell’amministrazione penitenziaria). “Su questo - dice Giani - non mi esprimo perché sono vicende legate all’amministrazione penitenziaria e al governo del carcere che non mi competono, ma da presidente della Regione so che serve al più presto un intervento sostanziale sull’infrastruttura di Sollicciano perché così non può andare avanti. Pesa anche il sovraffollamento, che è ovviamente un problema anche nazionale, qualsiasi misura deflativa della detenzione è per me ben accetta”. E d’altronde la descrizione del carcere fatta dai magistrati, in particolare di una delle sezioni detentive, la quarta, è agghiacciante. Scrivono nella lettera inviata anche al Dap: “Le infiltrazioni d’acqua sono ovunque: rivoli scendono lungo le pareti; acqua gocciola continuamente da alcune botole presenti nei corridoi; molte celle si presentano coi muri (originariamente bianchi) parzialmente o totalmente neri per la muffa che pervade le stanze; nei corridoi l’acqua scorre a terra o crea grosse pozze nelle quali detenuti e operatori sono costretti a camminare o stazionare. L’aria è talmente intrisa di umidità da risultare densa e fetida. A ciò si aggiunga che molti bagni delle camere di detenzione presentano gli scarichi modificati artigianalmente, che l’illuminazione in intere aree (corridoi e celle attigue) è molto scarsa, che in alcuni settori l’acqua dei locali docce esce solo bollente, mentre nei bagni delle camere di detenzione manca l’acqua calda. I detenuti hanno rappresentato che le camere sono infestate dalle cimici e che giornalmente usano il gas dei fornelletti nella loro disponibilità per allontanare tali insetti dai propri materassi”. Condizioni gravissime di cui anche Giani, che ha visitato spesso il carcere, è cosciente: “Una situazione terribile, con un degrado delle celle e di tutti i luoghi di passaggio non sostenibile e inaccettabile. Non ci sono più le caratteristiche di vivibilità che un carcere dovrebbe avere secondo il principio costituzionale di rieducazione della pena. Oggi a Sollicciano, invece, l’ingresso in carcere diventa immersione in un ambiente di degrado”. Padova. Ostellari: “Più personale per trasformare le carceri in posti più umani” di Matilde Bicciato Corriere del Veneto, 1 aprile 2025 Festa della polizia penitenziaria a Padova, il sottosegretario: “Ora basta suicidi”. Il duecentottesimo anniversario della Polizia Penitenziaria, che si è tenuto davanti a Palazzo Moroni ieri mattina, è cominciato con un lungo applauso voluto proprio dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, alla presenza di numerose autorità, tra cui il sindaco Sergio Giordani, il prefetto Giuseppe Forlenza e il questore Marco Odorisio, oltre alle numerose altre istituzioni cittadine. Un anno di traguardi, ha ribadito Ostellari, evidenziando il potenziamento dell’organico, il rafforzamento delle iniziative per il reinserimento dei detenuti e le misure adottate per migliorare la sicurezza negli istituti penitenziari. “Per anni la polizia penitenziaria ha vissuto nel paradosso” ha commentato Ostellari. “Questo corpo per molto tempo è rimasto abbandonato e relegato nelle carceri, quasi fosse un’articolazione oscura dello Stato atto a sbrigare le faccende che non dovevano essere svolte sotto la luce del sole - ha proseguito. Le cose però stanno cambiando: negli ultimi tre anni abbiamo invertito un trend negativo in merito alle assunzioni e ora finalmente abbiamo aumentato i posti di lavoro e investito sul comparto personale compresi i funzionari pedagogici, che aiutano il percorso rieducativo del detenuto. Tutte misure che vogliono tutelare la buona funzionalità degli istituti penitenziari e che si impegnano a ridurre la recidiva, che vogliono migliorare la vita di chi lavora e di chi sconta le pene in carcere e soprattutto che servono per contrastare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita, sia detenuti che poliziotti”. Una strategia che risponde al cambiamento, nel corso del tempo, della natura di molti detenuti che entrano nelle carceri italiane: non più solo grandi operatori del crimine ma anche molte persone che vengono arrestate come conseguenza di serissimi problemi psicologici e psichiatrici, nonché di dipendenza in fatto di droga o alcol. “Gestire i cittadini che hanno deciso di rispettare le regole è più facile, lavorare con chi invece oppone resistenza è complesso e delicato”, ha detto Maria Grazie Bregoli, direttrice del carcere femminile di Verona, di quello di Venezia e rappresentante dei direttori del Triveneto. “Voi non avete una lista delle persone che salvate, ogni giorno. Non cercate onore e neanche elogi per tutte le vite che siete riusciti a rigenerare con il vostro servizio, per tutte le donne e gli uomini che avete trattato con dignità e rispetto”, ha continuato Bregoli, riferendosi al corpo di polizia. “Voi avete insegnato ai detenuti a sentirsi nuovamente utili, a rivedere il futuro come possibile. Il senso del lavoro della polizia penitenziaria è quello di ravvivare la fiamma della speranza, per far filtrare la luce anche nelle situazioni più disperate. Questa dimensione richiede un equilibrio speciale tra umanità e fermezza: il carcere è, insieme ad altri luoghi, uno dei cuori pulsanti della città e il plauso va a chi ha deciso di dedicare la propria vita al suo servizio di un contesto così delicato e intenso”. La cerimonia, dopo gli immancabili discorsi istituzionali, la cerimonia è proseguita con la consegna dei riconoscimenti al personale che si è distinto nel corso del proprio servizio. Sassari. Un tavolo tecnico a supporto del garante dei detenuti di Emanuele Floris La Nuova Sardegna, 1 aprile 2025 L’iniziativa illustrata stamani dalla dirigente Affari generali Daniela Marcellino. Un tavolo tecnico a supporto del garante dei detenuti di Sassari. È l'iniziativa illustrata stamattina a Palazzo Ducale dalla dirigente Affari generali Daniela Marcellino nel corso della I Commissione presieduta da Stefano Manai. Un esperimento che, se approvato in Consiglio comunale, renderà istituzionale un esperimento già avviato nel secondo mandato dell'ex sindaco Gianfranco Ganau. “L'obiettivo del tavolo tecnico - afferma Marcellino - è il sostegno e l'ausilio del detenuto nelle varie tematiche penitenziarie”. Una proposta, riferisce Manai, “predisposta dagli uffici sulla base degli obiettivi definiti dell'esecutivo Mascia attraverso strumenti come il Documento Unico di Programmazione e il Piano integrato di attività e organizzazione. È un percorso strutturato che assicura coerenza tra le linee strategiche e le azioni operative”. A formare il tavolo il sindaco, il presidente del Consiglio comunale, un delegato del tribunale, del carcere di Bancali, il cappellano del carcere, un responsabile della medicina penitenziaria, un rappresentante dell'Ordine degli avvocati, un rappresentante della Camera penale e del polo penitenziario di Sassari. Negli interventi dei commissari si è proposto di inserire nell'organismo anche i servizi sociali, associazioni del terzo settore ed economiche. Istanze che verranno discusse in consiglio comunale e portate avanti dai commissari Alessandra Corda, Mariano Brianda, Antonello Sassu e Carlo Sardara. Durante la stessa seduta è stato proposto anche che la prossima elezione del garante venga fatta in una sola riunione del consiglio comunale così come per la nomina del presidente dell'aula consiliare. I voti a favore sono stati 14 con l'astensione tecnica di Mariano Brianda, Antonello Sassu e Carlo Sardara. Salerno. Rischia la cecità in carcere: dopo anni di battaglie ottiene la detenzione domiciliare di Petronilla Carillo Il Mattino, 1 aprile 2025 Vincenzo P. ai domiciliari dopo l'ennesima perizia medica che lo dichiara incompatibile con il regime carcerario. Non tutti i mali vengono per nuocere. Per Vincenzo P. di Salerno essere finito per sbaglio nell’inchiesta su una rissa avvenuta nel carcere di Ariano Irpino, dalla quale è stato poi scagionato, ha rappresentato il punto di svolta per la sua situazione personale. Il trasferimento dal carcere avellinese a quello di Terni, per l’ex tossicodipendente salernitano detenuto per una condanna definitiva per spaccio, gli ha consentito di poter finalmente ottenere dal tribunale della Sorveglianza la scarcerazione e la detenzione ai domiciliari per motivi di salute. Il giovane uomo, ricordiamo, ha rischiato la cecità e il trasferimento di carcere gli ha causato la sospensione delle cure dopo un primo intervento ad un occhio e l’impossibilità di curare anche l’altro occhio. Fino a qualche giorno fa quando i suoi legali di fiducia, gli avvocati Enzo Rispoli e Mirko Manzi, hanno ottenuto il provvedimento più volte richiesto. Quando difatti Vincenzo P. è arrivato a Terni i medici gli hanno diagnosticato una emorragia retinica al pronto soccorso. Una successiva visita oculistica ha evidenziato un emovitreo destro che deve essere curato con attrezzature e macchinari di cui il carcere non è dotato. Per il sanitario di Terni, dunque, le sue condizioni di salute erano incompatibili con il regime carcerario. Stessa conclusione alla quale erano giunti anche i medici che precedentemente lo avevano preso in cura anche se le richieste dei suoi legali erano poi rimaste inascoltate. In pratica l’uomo ha frequenti emorragie nel corpo vitreo che creano una patina sulla retina e che va costantemente monitorata. L’uomo, del resto, ha anche un ricovero già prenotato per fine aprile al San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. Sulla vicenda sono stati interpellati anche i carabinieri della stazione di Fratte, luogo di residenza di Vincenzo P., i quali non solo hanno sottolineato che l’uomo non ha legami con la criminalità organizzata ma anche che la madre si è resa disponibile ad accoglierlo in casa. Di qui il trasferimento da Terni a casa della madre a Salerno. Il detenuto salernitano era stato operato ad uno dei due occhi soltanto qualche giorno prima della rissa avvenuta nel carcere di Ariano Irpino. Quando è scoppiata la guerra tra detenuti, lui ed era stato accompagnato in infermeria da un agente cellante perché gli doveva essere cambiata la medicazione. Individuato come uno dei partecipanti alla rissa e “salvato” dalle telecamere, Vincenzo P. era stato però trasferimento per motivi disciplinari a Terni. Da quelle accusa si è difeso e gli è stata riconosciuta l’estraneità ai fatti ma la lontananza dalla Campania, dove era stata attivata la pratica per fargli seguire un percorso terapeutico e un nuovo intervento, ha rischiato di causargli nuovi problemi agli occhi. L’uomo, difatti, era affetto da una patologia che lo avrebbe portato alla cecità se non importunamente curato. Dopo aver salvato il primo occhio, rischiava di perdere il secondo se non avesse avuto subito le cure del caso, Ora, dopo anni di battaglie, potrà curarsi. Trieste. Progetti di reinserimento in carcere femminile, consegnati i diplomi ilpopolopordenone.it, 1 aprile 2025 Il Soroptimist Club di Pordenone, insieme ai club della Regione Friuli Venezia Giulia - Alto Friuli, Cividale del Friuli, Gorizia, Trieste e Udine - ha partecipato al progetto interclub “SI Sostiene nel carcere del Coroneo”, iniziativa di grande valore sociale che offre opportunità di formazione alle detenute. Qualche giorno fa ha avuto luogo la cerimonia di consegna degli attestati per le partecipanti al corso di “Hair stylist”, che ha coinvolto venticinque detenute della Sezione femminile del carcere triestino. L’obiettivo è fornire strumenti concreti per agevolare il reinserimento lavorativo e sociale, favorendo l’indipendenza economica e rafforzando l’autostima delle partecipanti. L’iniziativa si inserisce in un programma promosso dal Soroptimist International d’Italia, che dal 2017 opera con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per offrire percorsi rieducativi mirati. La formazione permette alle detenute di acquisire nuove competenze e costruire una prospettiva di vita più stabile e dignitosa, superando la marginalità sociale ed economica. Un momento significativo è stata la consegna dei diplomi di partecipazione e degli attestati rilasciati dallo Ial, che riconoscono crediti formativi a sette detenute meritevoli. Tali crediti potranno essere utilizzati per il completamento del percorso di qualifica professionale in acconciatura, anche fuori regione, ampliando così le possibilità lavorative future. Lo Ial sta inoltre valutando il riconoscimento di questi crediti in tutte le sue sedi nazionali, garantendo una continuità formativa essenziale per il successo dell’iniziativa. Ma l’impegno del Soroptimist non si ferma qui: il progetto “SI Sostiene nel carcere del Coroneo” proseguirà con un laboratorio creativo di arte floreale, “FiorificioLab”, curato da Laura Vaccari. In questa nuova attività, le detenute sperimenteranno la tecnica dell’intreccio di rami e fiori per realizzare manufatti ornamentali ispirati alla primavera. Il culmine sarà l’evento “Un nido fa primavera”, un’asta benefica in cui saranno venduti i lavori realizzati. Il ricavato sarà destinato alle detenute, valorizzando il loro impegno e riconoscendo concretamente il valore del loro lavoro. L’organizzazione di queste attività è stata concordata con la direzione del carcere del Coroneo e con l’Area educativa, per integrare al meglio i percorsi formativi esistenti e permettere alle partecipanti di trarne il massimo beneficio. Questo approccio sinergico conferma il valore e l’efficacia di un progetto che non si limita a fornire competenze tecniche, ma si pone come un vero strumento di cambiamento e riscatto sociale. Il Soroptimist Club di Pordenone e gli altri club regionali ribadiscono il loro impegno nel sostenere le donne in situazioni di difficoltà, offrendo strumenti concreti per una nuova prospettiva di vita. Attraverso la formazione, la creatività e il riconoscimento del loro valore, queste donne possono riscoprire la propria dignità e affrontare il futuro con maggiore fiducia e speranza. Napoli. “Rigiocare il Futuro”, lo sport come strumento di inclusione e riscatto sociale in carcere Corriere dello Sport, 1 aprile 2025 Trasformare il carcere in un'opportunità di crescita attraverso lo sport, un progetto promosso da Seconda Chance e Sport Senza Frontiere con il supporto di attori pubblici e privati. Un campo da calcio e due campi da padel si aggiungeranno al campo da basket recentemente ristrutturato: l’obiettivo è costruire la più grande cittadella dello sport penitenziaria per offrire ai detenuti del Centro Penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano nuove opportunità di crescita personale e reinserimento lavorativo. “Rigiocare il Futuro - Lo Sport per Ripartire” è un progetto ad alto impatto sociale nato dalla sinergia di attori del mondo del Terzo settore, pubblici ma anche privati. Il progetto rappresenta un'iniziativa unica nel suo genere portato avanti con un metodo innovativo e fortemente inclusivo: è infatti frutto di un partenariato attivo e sinergico volto alla condivisione non solo di risorse economiche ma anche di persone, conoscenze e strutture rendendo più efficienti le attività. Attraverso il coinvolgimento di più attori si vuole dimostrare infatti come investire in infrastrutture sociali possa generare un impatto positivo sulle comunità, concreto e sostenibile nel lungo periodo. L’iniziativa si sviluppa su due fronti: la realizzazione di infrastrutture sportive moderne e la creazione di percorsi formativi per sviluppare competenze tecniche e trasversali. La prima fase - già avviata nel mese di febbraio 2025 - prevede la riqualificazione di due campi da padel multifunzionali e la ristrutturazione del campo da calcio, con attrezzature adeguate ad allenamenti e competizioni, offrendo ai detenuti un ambiente idoneo per la pratica sportiva. La conclusione dei lavori è imminente, entro i primi giorni di maggio, infatti, la struttura sarà finalizzata e messa a disposizione della popolazione carceraria. La seconda fase del progetto prevede l’avvio di percorsi formativi di 24/36 mesi, con il coinvolgimento di formatori, tecnici e istruttori certificati della rete di Sport Senza Frontiere ma anche dell’Associazione Italiana Arbitri e altri attori. Grazie ai corsi, i detenuti potranno sviluppare competenze sportive e ottenere abilitazioni, come quella per diventare arbitri funzionali al reinserimento lavorativo attraverso lo sport. Le Associazioni protagoniste Seconda Chance e Sport Senza Frontiere credono fortemente che “l'infrastruttura sociale”, al centro del progetto, sia prima di tutto un metodo, un approccio che valorizza il lavoro condiviso, il superamento delle divisioni tra settori diversi, e la creazione di progetti inclusivi. Da qui è nata la collaborazione con attori istituzionali e del mondo dello sport quali l’Amministrazione Penitenziaria, la Regione Campania, il Comune di Napoli, Sport e Salute e l’Associazione Italiana Arbitri e aziende e fondazioni che stanno contribuendo con risorse economiche e competenze alla realizzazione del progetto (Fondazione Entain, Ita Airways, AI.B., MIRI, Sport e Salute, Istituto del Credito Sportivo). L’obiettivo è lanciare un messaggio chiaro e forte: la vera innovazione sociale si crea solo con la partecipazione di tutti. Ogni voce, ogni azione, ogni piccolo contributo è fondamentale per dare vita a una rete di solidarietà che non solo risponde ai bisogni urgenti, ma crea anche una cultura condivisa di cura sociale e responsabilità comune. Da qui invitiamo le tante realtà positive presenti in Campania, ma non solo, ad aderire al progetto contattando l’associazione Seconda Chance. Reggio Emilia. Giustizia riparativa, un incontro con Padre Guido Bertagna di Cesare Corbelli Il Resto del Carlino, 1 aprile 2025 Si conclude domani alle 19 in Polveriera (Piazzale Oscar Romero), il ciclo di incontri “Posiamo le pietre?” che Caritas Reggiana, in collaborazione con il Centro di Giustizia Riparativa Anfora di Reggio Emilia, ha organizzato in occasione dell’anno giubilare. Negli incontri precedenti, ove sono stati ospiti gli autori Massimo Zamboni per il libro “L’eco di uno sparo” e Paola Ziccone autrice di “Verso Ninive”, si è approfondito il tema della Giustizia Riparativa attraverso le narrazioni racchiuse nei testi presentati e le storie personali dei loro autori. Domani sarà la volta di Padre Guido Bertagna gesuita che, oltre a essere scultore e pittore, è stato mediatore nel lungo percorso raccolto nel “Libro dell’incontro”. Durante la serata si parlerà del confronto avvenuto fra vittime e responsabili della lotta armata degli anni Settanta. Bertagna, in dialogo con i presenti, esplorerà i profili a volte incomprensibili della giustizia riparativa e stimolerà una riflessione profonda su come questi momenti di dialogo possano rivelarsi trasformativi, non solo per le persone coinvolte ma per l’intera comunità. Il loro incontro, attraverso la giustizia riparativa, ha cambiato la storia d’Italia; ha reso possibile un futuro ancora da scrivere, dando attuazione ad una giustizia capace di non esaurirsi nella pena inflitta ai colpevoli. Verona. “Carcere e Lavoro”: convegno dell’Ateneo Veneto mercoledì 2 aprile L'Adige, 1 aprile 2025 Secondo appuntamento, dopo quello di Venezia di ottobre 2022, promosso dall’Ateneo Veneto, in collaborazione con il Movimento per la giustizia-Art. 3 ets e l’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, sul tema “Carcere e Lavoro”. Un approfondimento e un percorso di confronto tra istituzioni, categorie e terzo settore che, affermando l’importanza del lavoro come leva rieducativa allo scopo di dare una reale possibilità di riscatto sociale a chi è recluso, fa dialogare il “dentro” del carcere con il “fuori” della società. Al centro del dibattito i vertici nazionali e del triveneto dell’amministrazione penitenziaria e le principali categorie economiche del territorio veronese. Tanti i temi che saranno toccati: l’importanza rieducativa e sociale del lavoro per i detenuti; la necessità culturale di vincere i pregiudizi e di creare sinergie per incentivare a fine pena il reinserimento lavorativo e sociale di chi è stato in carcere, riducendo così il più possibile il rischio di recidiva; i percorsi formativi e di lavoro dentro e fuori le carceri; i vantaggi in termini di agevolazioni fiscali e contributive della “legge Smuraglia” per aziende e cooperative che assumono detenuti; la necessità di incrociare le esperienze lavorative e formative della popolazione penitenziaria con le richieste e le necessità di manodopera delle piccole e grandi imprese nel quadro generale del lavoro in Veneto; l’esperienza di Seconda Chance, associazione che in poco più di 3 anni ha portato quasi 500 offerte di lavoro nelle carceri di tutta Italia, coinvolgendo dal Vaticano alla Biennale di Venezia, da McDonald’s alla Società Autostrade, dalla pizzeria alla impresa edile o al grande albergo; la possibilità di fare impresa dentro il carcere avviando progetti lavorativi che permettono ai detenuti di lavorare all’interno delle mura penitenziarie; la necessità di trovare un raccordo tra il fine pena e il rientro in società attraverso percorsi formativi e di reinserimento lavorativo che inizino già in carcere; i protocolli di intesa con le categorie per incentivare l’inserimento lavorativo dei detenuti; il racconto dei detenuti e delle detenute che lavorano nelle carceri di Venezia e Treviso e la testimonianza degli operatori che seguono i progetti formativi e di reinserimento lavorativo. Il convegno “Carcere e lavoro” si terrà a Verona 2 aprile 2025 ore 16.30 -sede del Banco BPM di Verona, in via San Cosimo, 10- con il patrocinio del Comune di Verona e l’adesione del Sindacato giornalisti Veneto per la formazione della categoria professionale. Gorizia. Il teatro in carcere tra rieducazione ed espressione della libertà interiore di Giulia De Monaco ilgoriziano.it, 1 aprile 2025 Un anno di scena, arte e cultura nella Casa Circondariale di Gorizia con il progetto Se io fossi Caino, un percorso di trasformazione e consapevolezza che supera le mura del carcere. “Aria e luce/ un anno di teatro, arte e cultura in carcere” è l’epilogo di un percorso introspettivo, terapeutico e rieducativo che ha preso corpo nella Casa Circondariale di Gorizia grazie al prezioso contributo di Fierascena Aps. Il laboratorio artistico dal titolo “Se io fossi Caino”, capitanato da Elisa Menon, direttrice artistica di Fierascena, si inserisce nella più ampia dimensione del trattamento rieducativo che, per i non addetti ai lavori, risponde all’art. 27 della Costituzione italiana, laddove viene sancito che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La dottoressa Veronica Venturoli, educatrice della casa circondariale di Gorizia e portatrice di esperienza ventennale in ambito rieducativo, spiega che in carcere non c’è solo bisogno di insegnare ai detenuti un mestiere. I detenuti hanno bisogno di nutrirsi nell’anima e i percorsi di tipo artistico come questo li incoraggiano ad avviare un incontro profondo con sè stessi. Le emozioni in gioco sono fortissime, spesso ambivalenti. Non tutti reggono il confronto con il proprio mondo interno. Nella maggior parte dei casi però, questa riconciliazione avviene e, quando ha luogo, è dirompente e trasformativa. Si tratta di un percorso che “sostiene e non costringe”, afferma Elisa Menon, precisando che il teatro non è di nessuno, ma è di chi utilizza questa esperienza come un’occasione per farsi carico di sé. Del suo ingresso in carcere, la direttrice della casa circondariale di Gorizia, dott.ssa Caterina Leva, racconta di aver incontrato una comunità viva, in continuo fermento, nonostante le oggettive difficoltà del quotidiano. Le moltissime attività trattamentali, tra le quali si inserisce il laboratorio teatrale ‘Aria e luce’, sono frutto di un lavoro corale dell’area educativa e dell’area della sicurezza. Lo sforzo congiunto di tutti gli operatori penitenziari concorre alla quotidiana trasformazione dei detenuti che partecipano a questo progetto. Raccontare che cosa il teatro rappresenti per la comunità detenuta non è scontato in quanto va ben oltre l’imparare delle battute o stare sul palcoscenico. ‘Aria e luce’ è qualcosa di più: uno strumento di auto consapevolezza e di auto determinazione fondamentale che valica le mura di cinta. La libertà non si configura, infatti, unicamente come libertà di movimento o libertà del corpo; si tratta piuttosto di una condizione della mente e dello spirito. Il teatro, la scrittura e l’arte, più in generale, sono tutti strumenti che avvicinano alla comunità e contribuiscono alla risocializzazione. Il teatro di Elisa Menon, oltre a dare voce e visibilità a persone che non ne hanno, restituisce una certa complessità del carcere. Non è errato affermare, infatti, che esista una crisi del sistema carcere che va di pari passo con la crisi del suo racconto. A tale proposito, il Commissario Capo della casa circondariale di Gorizia Guido Tipaldi, spiega che si fa spesso riferimento ad una narrazione, predominante in alcuni contesti, caratterizzata dall’inadeguatezza dell’organizzazione del carcere. Narrazioni spesso accompagnate da immagini ritraenti detenuti che vagano senza meta in corridoi bui, accompagnati da agenti della polizia penitenziaria che portano in mano chiavi di grosse e pesanti dimensioni, laddove c’è sempre lo zoom sul blindato, immagine che di per sè espone ad una certa tristezza. Oggi si parla poco di carcere, ancor meno della sua progettualità, se non in funzione di accadimenti tragici. Ecco che ‘Aria e Lucè diventa occasione di messa in trasparenza del possibile all’interno di un luogo, il carcere, dove non sembra esserci spazio per la bellezza. Una casa circondariale fonte di ‘Aria e Luce’ può esserlo, in questo caso, grazie al progetto ‘Se io fossi Caino’, festival di teatro e arte in carcere che si presenta come punto di arrivo di un percorso condiviso all’interno del quale il tema della partnership è centrale. Sono infatti diverse le realtà che vi partecipano: la Caritas diocesana di Gorizia, la regione Friuli Venezia Giulia e le associazioni di volontariato che a vario titolo prestano la loro attività in carcere. Ciascuno offre la propria collaborazione concorrendo alla realizzazione del cambiamento. Il giornale ‘il numero 8’ si inserisce qui, nello spazio del possibile. Marco Bisiach, direttore e creatore del giornale, lo descrive come un piccolo miracolo, avvenuto grazie all’incontro e allo scambio di una decina di detenuti motivati attorno al tema del giornalismo. Nel corso degli appuntamenti, coordinati da Bisiach, i detenuti hanno compiuto uno sforzo di consapevolezza chiedendosi che cosa funziona e che cosa non funziona all’interno del tempo e dello spazio che giornalmente abitano, il carcere. L’idea è che al suo interno non vada tutto male, questo vogliono trasmettere; intendono raccontare ciò che nutre restituendo un’immagine del carcere e di sè diversa dal sentire comune. Fermarsi e uscire dagli automatismi: è questo il tentativo di onestà che ha guidato l’intero processo. ‘Il numero 8’ fa sì che le storie di vita dei detenuti possano fuoriuscire dal carcere ricordando a ciascuno di noi che tutti potremmo essere Caino. Il carcere femminile raccontato da Maria Rosaria Selo e Lorenzo Marone di Lucia Montanaro pressenza.com, 1 aprile 2025 Il tema della detenzione femminile costituisce un’importante occasione di riflessione sulla condizione umana, una realtà complessa spesso poco approfondita nel dibattito pubblico. Due romanzi recenti, “Pucundria” di Maria Rosaria Selo e “Le madri non dormono mai” di Lorenzo Marone, esplorano questa dimensione con sensibilità e profondità, portando alla luce storie di donne che affrontano la prigionia con forza, coraggio e resilienza. Maria Rosaria Selo, attraverso “Pucundria”, offre un racconto intenso e delicato della vita carceraria al femminile, descrivendo le dinamiche psicologiche e sociali vissute dalla protagonista, Anna. Nel libro emergono chiaramente il senso di isolamento e la difficoltà della protagonista nel preservare la propria identità e dignità personale di fronte alle sfide quotidiane della detenzione. La narrazione, profondamente umana e coinvolgente, porta il lettore a riflettere sulla dimensione emotiva e umana della prigionia, rivelando le strategie interiori che permettono alle donne di conservare la speranza e il senso della propria dignità. Allo stesso modo, Lorenzo Marone con “Le madri non dormono mai” affronta con delicatezza e attenzione il tema della maternità vissuta in carcere. Il romanzo racconta l’esperienza delle detenute che vivono negli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri), concentrandosi sulle emozioni profonde legate alla separazione dai propri figli. Attraverso i personaggi del romanzo, l’autore mette in evidenza il valore del legame affettivo e il desiderio di queste donne di conservare, anche in una situazione complessa come la detenzione, il proprio ruolo materno e affettivo. Marone racconta con grande umanità come le protagoniste riescano, nonostante tutto, a trovare forza nella solidarietà e nella speranza di un futuro migliore. I due romanzi mostrano con chiarezza come, anche in contesti difficili, la dignità umana, la solidarietà e la speranza possano emergere con forza. Le protagoniste di entrambe le opere trovano risorse interiori per mantenere viva la propria identità e i propri affetti, resistendo alle difficoltà quotidiane attraverso legami di amicizia e reciproco sostegno. La narrativa diventa così uno strumento prezioso per comprendere meglio la complessità e l’intensità delle esperienze di queste donne. In questo senso, il contributo letterario di Maria Rosaria Selo e Lorenzo Marone è significativo, poiché stimola una riflessione positiva e costruttiva sulla possibilità di favorire percorsi di reinserimento sociale e umano delle detenute. Il loro lavoro contribuisce a far emergere un’immagine più completa e profondamente umana della realtà carceraria femminile, invitando a considerare con attenzione e rispetto le esigenze emotive, psicologiche e sociali delle donne coinvolte. La letteratura, dunque, diviene mezzo privilegiato per sensibilizzare l’opinione pubblica, promuovendo una cultura fondata sull’empatia, sulla comprensione e sulla valorizzazione della dignità di ogni persona. Le opere di Selo e Marone rappresentano un invito aperto al dialogo e alla riflessione, offrendo uno sguardo sensibile e non giudicante che pone al centro l’umanità delle protagoniste, le loro emozioni, le loro speranze e il desiderio di riscatto personale e sociale. Per ampliare lo sguardo su un tema tanto delicato quanto urgente, ho voluto ascoltare le voci di due autori che, con sensibilità e impegno civile, hanno scelto di raccontare il mondo carcerario femminile e le sue molteplici sfumature. A Maria Rosaria Selo e Lorenzo Marone ho rivolto alcune domande per raccogliere il loro punto di vista sul ruolo della letteratura, della solidarietà e della giustizia sociale quando in gioco ci sono le vite delle madri detenute e dei loro bambini. Li ringrazio sinceramente per la disponibilità e la profondità delle riflessioni condivise. La protagonista di “Pucundria” vive una doppia oppressione, personale e sociale. Come si può restituire dignità e speranza alle donne detenute attraverso interventi concreti che tutelino i diritti umani? Anna vive una detenzione intima da anni. Arriva in carcere sfinita dalla vita stessa che l’ha costretta a subire una violenza quotidiana, per cui è quasi una liberazione quella di entrare in carcere e rimanere viva, salvando se stessa e suo figlio. All’interno del penitenziario di Pozzuoli, le ospiti (è così che vengono chiamate dal personale dell’Istituto, poiché le parole in quella realtà hanno un peso) possono usufruire di ogni servizio offerto dai volontari, affinché ci sia un recupero che vada oltre le sbarre e apra spazi nella vita “fuori”. Ci sono molte agevolazioni per le aziende che impiegano ex detenuti, e infatti la cooperativa “Le Lazzarelle” di Imma Carpiniello ha assunto alcune ragazze che di certo non torneranno mai più a delinquere, poiché hanno recuperato la dignità che dà il lavoro. In che modo la letteratura può contribuire efficacemente a sensibilizzare la società civile sulle condizioni delle carceri femminili e a promuovere un cambiamento nelle politiche istituzionali? Dipende dal buonsenso delle politiche istituzionali. Gli scrittori che raccontano il carcere aprono varchi di umanità che dovrebbero sensibilizzare, mostrare cosa è davvero la vita in detenzione. Eppure alcuni scritti vengono ignorati. Spesso in politica si parla di recupero, ed è quello che volevo significare scrivendo Pucundria. Ciò che accade nella storia, accade realmente nella vita in carcere, e mi piacerebbe avere una dialettica con chi potrebbe realmente migliorare la condizione penitenziaria. Per ciò che riguarda la lettura in carcere, i cambiamenti emotivi tra le ospiti sono palpabili. In detenzione si legge moltissimo, ci sono ampie biblioteche che consentono l’approccio alla lettura, accostamento coadiuvato dai formatori volontari che consigliano libri appropriati, atti a suggerire un’apertura verso il mondo altro, altri popoli, altre vite raccontate in ogni romanzo, a trovare soluzioni, rassicurarsi, non sentirsi soli. Leggere è un viaggio di libertà che diventa necessario. Considerando l’esperienza di Anna, protagonista del suo romanzo, quali strumenti nonviolenti potrebbero essere attivati per contrastare la violenza di genere e favorire percorsi di recupero e reinserimento sociale? Qui il discorso si fa difficile. I centri antiviolenza, che sono moltissimi, sempre coadiuvati da volontari e con pochi fondi a disposizione, fanno di tutto per educare le donne contro la violenza, responsabilizzarle, convincerle a denunciare, a non chiudersi in un silenzio che è alleato di quella violenza. Purtroppo, la difficoltà avviene quando una donna è succube economicamente del compagno, e quindi resta in trappola per poter vivere insieme ai figli, non rischiare di perdersi in altri oscuri percorsi che porterebbero ulteriore dolore e sacrificio. Anna, per esempio, si salva scontando una pena che la rende “libera”, un atto tremendo che salva la vita sua e di suo figlio. Ciò che ho voluto significare nel romanzo è proprio la restituzione della vita dopo, la realtà di un futuro costruttivo e non distruttivo per chi si è smarrito. Anna è un esempio di tante donne detenute che se vengono seguite con amore e comprensione, vedono la luce, sperano, e ricompongono la vita stessa reinserendosi nella società a testa alta. Il suo libro affronta il dramma delle madri detenute: quali misure urgenti dovrebbe adottare il sistema carcerario per tutelare i diritti fondamentali delle madri e dei loro bambini in carcere? Il sistema carcerario dovrebbe adottare misure come la sostituzione degli ICAM con le case famiglia, dove le madri possano condurre una vita più normale con i loro figli. Una proposta di legge in tal senso era stata avanzata dal deputato Paolo Siani e approvata all’unanimità alla Camera proprio il giorno dell’uscita del mio romanzo. Purtroppo, con il cambio di governo, è decaduta. Ed è un vero peccato, perché avrebbe rappresentato un passo concreto verso una maggiore umanità e giustizia per i bambini coinvolti. Nessun bambino dovrebbe crescere in un carcere. Che ruolo rivestono secondo lei la solidarietà e la cooperazione tra detenute nel costruire strategie di resilienza e speranza in un ambiente spesso disumanizzante come quello carcerario? La solidarietà nasce dalla genitorialità, dalla maternità, perché stiamo parlando di madri prima ancora che di detenute. Anche se ci sono quotidiani litigi dovuti alla convivenza forzata, ciò che unisce le donne è proprio l’essere madri. In loro si crea una sorta di alleanza silenziosa, fatta di empatia, piccoli gesti, protezione reciproca. Questa rete è una forma di resistenza umana, di resilienza. La speranza di vivere in un luogo migliore, più adatto ai bambini, potrebbe essere una chiave per restituire dignità e futuro a queste donne. Come può la narrativa contribuire alla diffusione di una cultura di pace e giustizia sociale, evidenziando le specifiche vulnerabilità e i bisogni delle donne detenute con figli piccoli? La narrativa, e l’arte in generale, contribuisce a costruire pace. Quando tocca temi sociali, ancora meglio, perché lo scopo della letteratura dovrebbe essere proprio quello di dare voce a chi non ce l’ha, agli emarginati, ai deboli, agli ultimi. E fra gli ultimi ci sono le donne, i detenuti e, ultimi tra gli ultimi, proprio i bambini. Raccontare storie che parlano di loro significa rompere l’indifferenza, creare empatia, sensibilizzare. La letteratura può farci guardare con occhi nuovi e più umani una realtà che spesso scegliamo di ignorare. Il Cpr di Torino accoglie altri migranti: le condizioni della struttura riaperta dopo due anni di Alice Dominese Il Domani, 1 aprile 2025 Il Centro di permanenza per il rimpatrio era stato chiuso dopo le proteste di due anni fa. Nella sezione di isolamento denominata “ospedaletto”, che oggi non esiste più, si tolse la vita il ventenne guineano Moussa Balde. Oggi sono 20 le persone recluse. Il garante regionale: “Nonostante due anni di lavori e parecchi fondi investiti, la condizione del centro è simile a prima della chiusura”. Nonostante l’opposizione dell’amministrazione comunale, il centro di permanenza per i rimpatri di Torino è stato riaperto due anni dopo la sua chiusura. Dopo l’arrivo dei primi sei trattenuti nella notte del 25 marzo, oggi sono venti le persone recluse al suo interno. Sono originarie di Tunisia, Marocco, Egitto, Ghana, Cile e Serbia. Tra loro ci sono anche persone provenienti da istituti penitenziari, nonostante per legge la loro identificazione per il rimpatrio potrebbe avvenire in carcere. È il caso per esempio di un uomo serbo, in Italia dal 1979, che dopo decine di anni trascorsi in carcere ora è in attesa di essere espulso. Oltre a lui e a un sessantenne marocchino, ex bracciante agricolo, la maggior parte di coloro che si trovano nel cpr torinese è under 30. “Abbiamo incontrato un ragazzo di 26 anni ghanese, con accento friulano, che ha fatto le superiori in Italia e ha tutta la famiglia qui: non gli è stato rinnovato il permesso perché è senza lavoro e, nonostante il diploma italiano, non ha accesso alla cittadinanza”, racconta Alice Ravinale, consigliera di Alleanza Verdi e Sinistra della regione Piemonte, in visita al cpr. Nel centro è presente anche un ragazzo di tunisino di appena 18 anni, arrivato in Italia tre anni fa come minore straniero non accompagnato. Al compimento della maggiore età è uscito dalla comunità di accoglienza ed è stato arrestato perché dormiva in una struttura abbandonata a Ventimiglia. “Un altro ragazzo, a cui abbiamo chiesto da dove veniva, ci ha risposto “da Milano” - aggiunge Ravinale -. In generale erano tutti piuttosto poco informati sul motivo per cui si trovavano dentro al cpr”. Le condizioni del Centro - Prefettura e questura avevano comunicato che i primi arrivi sarebbero stati legati a problemi di sovraffollamento in altri cpr, ma secondo la garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo, in Italia nessuno di questi centri si trova attualmente in condizioni di sovraffollamento. Durante il sopralluogo svolto insieme a Gallo poche ore dopo l’arrivo dei primi trattenuti, il garante regionale del Piemonte, Bruno Mellano, ha dichiarato che nonostante due anni di lavori e parecchi fondi investiti, la condizione del cpr è simile a quella preesistente alla chiusura, tra acqua fredda nelle docce e basse temperature all’interno della struttura. A marzo 2023, i danni strutturali provocati dalle rivolte avevano portato alla chiusura del cpr, che a distanza di due anni è tornato operativo sotto una nuova gestione, quella della holding della sanità privata Sanitalia, che si è aggiudicata un appalto di oltre 8,4 milioni di euro. A seguito della ristrutturazione, il centro è organizzato in tre aree che possono contenere in totale 60 persone in attesa di rimpatrio. A causa di una perdita d’acqua in una delle strutture, dieci posti letto al momento non sono tuttavia utilizzabili. All’interno, le modifiche degli spazi segnalati finora sono pochi. Tra questi, il deputato Marco Grimaldi riporta che i posti letto per dormitorio sono stati ridotti da sette a sei: “Non rileviamo significativi cambiamenti, se non una minore privacy dovuta alla sostituzione dei vetri oscurati con vetri trasparenti. In ogni area sono stati rimossi i telefoni fissi ed è stata disegnata una zona basket”. Il giallo del protocollo per l’assistenza sanitaria - In base al progetto presentato dall’ente gestore, nel cpr dovrebbero essere avviati dei corsi di italiano, nonché attività didattiche e ricreative. “Promesse irrealizzabili” sostiene Grimaldi, per le quali mancano anche i protocolli dedicati. Secondo la consigliera Ravinale, la sezione di isolamento chiamata “ospedaletto”, dove nel 2019 si è suicidato il trentenne bengalese Faisal Hossein e nel 2021 ha fatto lo stesso il poco più che ventenne guineano Moussa Balde, è stata chiusa. “Al suo posto, di fronte all’infermeria, è stata inserita una stanza con quattro letti e una finestra, dove ci è stato detto che verranno collocate le persone che potrebbero aver bisogno di essere sorvegliate per problemi particolari. Non esiste però nessun protocollo per contrastare il rischio di suicidio”, una mancanza già emersa nel corso della precedente gestione. Nella propria candidatura come ente gestore, Sanitalia ha dichiarato di aver sottoscritto un protocollo di intesa con il Dipartimento per la salute mentale dell’Asl di Torino per assicurare “adeguata assistenza sanitaria”, ma in risposta all’interrogazione presentata da Ravinale per chiedere conto di questo accordo, l’Asl ha fatto sapere che il protocollo non esiste. Citando un altro protocollo siglato con la prefettura, il Dipartimento di salute mentale indica al contrario che “non può garantire la costante osservazione clinica di pertinenza dell’ente gestore”. Migranti. Cpr in Albania “in linea con la legge Ue”: il decreto crea nuovi cortocircuiti giuridici di Marika Ikonomu Il Domani, 1 aprile 2025 Il portavoce dell’esecutivo Ue ha commentato la modifica del governo alla funzione delle strutture in Albania: “Si applicherebbe la normativa nazionale italiana, in linea di principio, questo è conforme al diritto dell’Ue”. Schlein: “È una fregatura”. I profili di illegittimità. Come in un loop che vede ripetersi sempre lo stesso schema, i centri per migranti voluti dal governo sul territorio albanese, a Gjadër, si stanno preparando per una nuova funzione. Dopo aver cambiato i giudici e aver reso la norma sui paesi sicuri una fonte primaria, ora l’esecutivo ha pensato di cambiare la funzione di queste strutture e renderle centri di permanenza per il rimpatrio. Ogni volta un tentativo diverso per salvare l’operazione Albania dal fallimento, e ogni volta è in dubbio la compatibilità con il diritto dell’Unione europea e i diritti fondamentali. Venerdì il governo ha approvato un decreto con cui modifica la legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana, permettendo di trasferire in Albania le persone che non hanno un permesso di soggiorno e sono destinatarie di un decreto di espulsione. L’obiettivo del governo, in attesa della decisione della Corte di giustizia Ue in tema di paesi sicuri, è mostrare le strutture in funzione, dopo mesi di inoperatività. Costi quel che costi. Sarebbero già rientrati in servizio a Gjadër - secondo Repubblica - le forze dell’ordine e i dirigenti di Medihospes, l’ente gestore che aveva licenziato quasi tutto il personale poco più di un mese fa. La struttura di Shëngjin, costruita al porto e destinata alle procedure di identificazione, non ha posti letto e rimarrebbe vuota. A differenza di quella di Gjadër destinata alla permanenza. “Soluzioni innovative” - “Un’altra fregatura sulla pelle dei più fragili e sulle tasche degli italiani” per la segretaria del Pd Elly Shlein, “un tentativo maldestro per coprire un altro fallimento della loro propaganda”. Ma la premier Giorgia Meloni, intervenendo al Border Security Summit di Londra lo ha rivendicato: “Non bisogna aver paura di immaginare e costruire soluzioni innovative, come quella avviata dall’Italia con l’Albania”. Un “modello criticato all’inizio”, ha aggiunto, “ma che ha poi raccolto sempre più consenso, tanto che oggi l’Ue propone di creare centri per i rimpatri nei paesi terzi”. La premier si riferisce alla proposta presentata dalla Commissione l’11 marzo, che pone le basi legali per i centri di rimpatrio in paesi fuori dal territorio dell’Unione. Una proposta suscettibile di modifica, ma che si distingue da quello che è oggi il protocollo Italia-Albania, secondo cui si applica comunque la giurisdizione italiana. Ad ogni modo, i parlamentari della maggioranza hanno fatto loro le dichiarazioni del portavoce della Commissione Ue per gli Affari Interni, Markus Lammert, sostenendo che “la strada intrapresa dal governo Meloni sull’immigrazione, con la creazione dei Cpr in Albania, è quella giusta”, ha detto il senatore di Fratelli d’Italia, Domenico Matera. Lammert ha assicurato che l’esecutivo Ue è “a conoscenza degli ultimi sviluppi riguardanti il decreto sui centri in Albania” ed è “in contatto con le autorità italiane”. “Secondo le nostre informazioni”, ha proseguito il portavoce, “a questi centri si applicherebbe la normativa nazionale italiana, come è stato finora per l’asilo”, e quindi “in linea di principio, questo è conforme al diritto dell’Ue”. La Commissione - occorre ricordare - è un organo politico, e spetterà ai giudici europei e nazionali verificare la compatibilità con il diritto dell’Unione. Inoltre, il portavoce dell’esecutivo europeo è rimasto generico, sostenendo che il fatto di esercitare la giurisdizione italiana nei centri albanesi consente di non violare il diritto Ue. Le criticità - Se per alcuni giuristi la modifica della legge di ratifica è in violazione del diritto comunitario - perché il transito da un paese terzo richiederebbe il consenso del soggetto che deve essere rimpatriato - per altri la violazione non è così diretta, perché la direttiva prevede che il cittadino straniero non può essere affidato alla giurisdizione di un paese terzo. E, in questo caso la giurisdizione rimarrebbe italiana. Rimangono però diversi altri profili di illegittimità. Il parere degli esperti è uniforme nell’affermare che il nuovo decreto viola l’accordo firmato dalla premier Giorgia Meloni e dall’omologo albanese Edi Rama. In altre parole, l’esecutivo ha ritenuto possibile cambiare la sola legge di ratifica e non l’intesa, evitando di dover sottoporre le modifiche a entrambi i parlamenti. Quello albanese è, tra l’altro, a fine mandato, e oltre Adriatico sembra non esserci la volontà di modificare l’intesa prima delle elezioni dell’11 maggio. È proprio questo uno dei profili più critici. La Corte costituzionale albanese, che aveva respinto il ricorso contro l’intesa presentato dall’opposizione, scriveva che i migranti reclusi nei centri non potevano rimanere sul territorio albanese per un periodo superiore ai 28 giorni, il termine stabilito per le procedure accelerate di frontiera. Molto diverso dal termine previsto per il trattenimento nei Cpr, di 18 mesi. L’articolo 4 del protocollo Italia-Albania prevede la permanenza nei centri “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse”. Cioè, i rimpatri sono possibili solo in funzione delle procedure accelerate di frontiera, si legge nel protocollo. E, quindi, non per chi è già sul territorio italiano e ha ricevuto un decreto di espulsione. “Non è una questione politica, la modifica della sola legge di ratifica e non dell’accordo viola la legge”, spiega Salvatore Fachile, avvocato di Asgi. Secondo il legale, inoltre, l’intesa così come scritta non disciplina le operazioni di rimpatrio: “L’aeroporto è territorio albanese, territorio di un paese terzo. L’Italia sarebbe ospite e non soggetto che esercita una giurisdizione”, spiega, sottolineando come “non possano essere assicurate le garanzie europee previste per chi viene rimpatriato”. A questo, si aggiunge che “in un posto così lontano dal territorio italiano non è possibile assicurare il diritto di difesa e il diritto alle relazioni affettive”, dice Fachile. Le criticità relative all’efficacia del diritto di difesa sono già emerse con i primi trasferimenti dei richiedenti asilo in terra albanese. Non è possibile per gli avvocati andare nelle strutture e la comunicazione tra il legale e l’assistito è nei fatti in mano all’ente gestore. Migranti. La Commissione Ue: nei Cpr in Albania “vale solo la legge italiana” di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 aprile 2025 Bruxelles non si oppone al nuovo uso, ma le ambiguità giuridiche restano. Tra 7-10 giorni i primi trasferimenti. Esposto alla Corte dei conti. “Secondo le nostre informazioni in questi centri si applicherà la legge italiana, come è stato per l’asilo”. Ieri il portavoce per gli Affari interni e l’immigrazione della Commissione Ue Markus Lammert ha risposto così al giornalista di Radio Radicale David Carretta, che chiedeva conto del cambio di destinazione d’uso dei centri in Albania decretato venerdì dal governo Meloni. All’avvio del protocollo l’istituzione comunitaria aveva sostenuto questa posizione, “non sono contro ma fuori il diritto Ue”, in base al fatto che Shengjin e Gjader non si trovano in territorio italiano, e dunque europeo, e che i migranti non avevano superato i confini comuni. L’Ue non aveva dunque giurisdizione. Una tesi spericolata, contraddetta dal fatto che la Corte di giustizia europea si esprimerà sul tema, che adesso manca pure della premessa originaria visto che saranno trasferite persone entrate e vissute in Italia. Per questo il deputato di +Europa Riccardo Magi attacca: “Dalla Commissione nessun via libera, il portavoce si è arrampicato sugli specchi per compiacere il governo italiano”. Secondo Lammert - che esprime una posizione politica mentre il controllo di legalità spetta ai giudici - “in linea di principio il progetto rispetta le norme Ue”. In ogni caso, ha specificato, si tratta di cosa diversa dagli “hub per i rimpatri” in paesi terzi che, forse, saranno istituiti da una nuova direttiva. In pratica, dopo averli mandati oltre Adriatico e parcheggiati per un po’, i migranti dovranno comunque essere riportati in Italia prima di finire, eventualmente, su un aereo diretto nel loro paese. Un meccanismo crudele e illogico, su cui non è escluso si accendano i fari della Corte dei conti: il portavoce di Coalizione civica Treviso, Luigi Calesso, ha presentato un esposto domenica scorsa chiedendo verifiche. Intanto in zona Viminale fervono i preparativi per il primo trasferimento “tra 7-10 giorni”, ha detto il ministro Matteo Piantedosi. Sarà il test sulle novità del decreto. Inizialmente le strutture del protocollo Meloni-Rama erano state pensate per i richiedenti asilo originari dei “paesi sicuri” a cui sono riservate, prima dell’ingresso nel territorio nazionale, le procedure accelerate di frontiera che prevedono la detenzione fino a 28 giorni. In attesa che su questo aspetto si esprima la Corte di giustizia Ue - il 10 aprile leggeremo il parere indipendente dell’Avvocato generale - l’esecutivo si gioca la carta di ampliare le funzioni, ma le zone d’ombra restano tante. I trasferimenti riguarderanno irregolari che non hanno mai chiesto asilo o quelli che hanno ricevuto un diniego definitivo. Entrambi destinatari di provvedimenti di espulsione e con il trattenimento già convalidato dal giudice di pace. Ma bisognerà vedere cosa accadrà se una persona del primo gruppo chiede protezione o una del secondo “reitera la domanda”. A quel punto dovrebbe esprimersi la Corte d’appello di Roma, ma il fatto che il migrante si trovi in Albania potrebbe creare problemi di diversa natura. Altra ambiguità riguarda il trasferimento a Gjader senza nuova convalida del giudice. Il governo ha detto chiaramente che lo ritiene uguale a uno “dal Cpr di Trapani a quello di Milano”. Secondo la docente di diritto Ue Chiara Favilli, però, si rischiano questioni di legittimità: “L’articolo 13 della Costituzione prevede che la legge stabilisca casi e modi della privazione della libertà personale e che ci sia una convalida dell’autorità giudiziaria. Questo decreto non dispone chiaramente i presupposti del trasferimento in Albania e lascia molta discrezionalità all’autorità di polizia”. Da chiarire resta poi la logistica dell’operazione. “L’ingresso dei migranti in acque territoriali e nel territorio della Repubblica di Albania avviene esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane”, dice il protocollo. Per come era pensato all’inizio sarebbe dovuto avvenire tutto in nave dal porto di Shengjin, ma venerdì Piantedosi non ha escluso l’utilizzo di aerei. Servirebbe, a meno di pensare a un servizio in elicottero, un salvacondotto del governo albanese tra lo scalo di Tirana e Gjader. Da quel versante non risultano ancora novità legali. Restano invece i malumori politici. “Non riteniamo corretto sia stata cambiata in questo modo la destinazione dei centri, che dovevano servire per i richiedenti asilo trovati in mezzo al mare. Siamo preoccupati per le novità non trasparenti”, afferma Lindita Metaliaj. La deputata è stata eletta a Lezhe, vicino Gjader, dal Partito democratico, l’opposizione di centro-destra al primo ministro Edi Rama. Tutta l’attenzione è concentrata sulle elezioni del prossimo 11 maggio, ma è in corso un approfondimento su possibili azioni politiche e legali contro la modifica unilaterale dell’accordo. Il pacifismo all’italiana in cerca di identità di Marcello Sorgi La Stampa, 1 aprile 2025 Il Paese è in grande maggioranza contro la guerra: si tratta di un sentimento che ha radici storiche. Ma oggi, con Trump che si sfila, sarà chiamato ad assumersi le sue responsabilità. E non sembra pronto. Il punto di partenza è quel 6 per cento, più o meno di italiani favorevoli all’invio di truppe in Ucraina. Si tratti del 5, 8 che condivide l’intervento di soldati italiani o del 6, 5 che precisa che è meglio mandare quelli di altri Paesi, siamo lì. E il resto? Possibile che ci sia circa il 94 per cento di contrari a un’Italia che in futuro, di fronte al ritiro dell’appoggio americano, affronti il compito che le tocca nell’opera di mantenimento della pace in Europa? Un quasi cento per cento di pacifisti, verrebbe da tagliar corto? Un dato del genere sorprende anche chi è abituato a considerare l’Italia non proprio un Paese di eroi (anche se ce ne sono, nella storia recente e in quella meno prossima, e non è vero che abbiamo sempre cercato di combattere nelle retrovie). “Se solo il 6 per cento vuole il supporto militare, non vuol dire che il restante 94 sia automaticamente contro - spiega Alessandra Ghisleri, che ha compilato le tabelle da cui vengono fuori quelle cifre -. In realtà quella che si percepisce è una grande confusione: di fronte all’eventualità che muti un equilibrio a cui sono abituate da tanti anni, le persone non vedono soluzioni. Non si fidano di Trump e neppure di Putin. Non vedono chiarezza nei leader italiani, tra cui percepiscono alleanze e divisioni trasversali. Conte e Salvini contro il riarmo. Meloni e Tajani a favore. Schlein un po’di qua e un po’di là, ma con mezzo partito che non accetta la svolta pacifista”. Sono difficoltà che intuisce chi, come Ghisleri, è abituata a percepire in anticipo i mutamenti d’opinione. Ma a guardar bene, qui non si tratta di un vero e proprio mutamento, ma di qualcosa che ha radici profonde nell’atteggiamento degli italiani. Magari più comprensibile negli anni del primo Dopoguerra, quando in quasi ogni famiglia il dolore per la perdita di un parente era ancora forte. E non del tutto illogico anche adesso, dopo tre anni in cui il conflitto in Ucraina ha inciso “molto” (sono sempre i sondaggi a dirlo) nella coscienza della gente, e il desiderio di una “soluzione diplomatica”, meglio se non accompagnata da una guardia militare, è presente in oltre il 60 per cento degli intervistati. Ma tornando alle radici del “pacifismo”, chiamiamolo genericamente così, che attraversa gli ottant’anni dalla Liberazione il cui anniversario sta per arrivare, forse bisogna avere il coraggio di riconoscere che la gratitudine per la fine dell’oppressione nazista lasciò presto spazio a un immotivato risentimento. La memoria dei bombardamenti dai cieli italiani con cui l’aviazione Usa si era aperta la strada ebbe il sopravvento su quella dei giorni felici in cui i partigiani entrarono orgogliosi, al fianco degli alleati angloamericani, nelle città liberate. Per anni, per decenni, l’antiamericanismo continuava ad albergare nella larga base dei due maggiori partiti di massa: la Dc e il Pci. Animato nella prima dalla fede cattolica degli elettori e da una forte spinta in questo senso delle Gerarchie della Chiesa, che ebbero sempre una forte influenza anche sui dirigenti e sulla rappresentanza parlamentare. Il merito di De Gasperi fu senz’altro quello di esser riuscito a far approvare in Parlamento il Patto Atlantico, anche al prezzo di scontri inauditi con le opposizioni consumati nelle aule di Camera e Senato. Quello di Moro, Fanfani e Andreotti di aver continuato a stare da quella parte, grazie a un innato senso di ambiguità (di cui si trova traccia nei diari di Kissinger) e alla capacità di saper riconvertire, nei voti parlamentari, la pancia pacifista del partitone cattolico nella razionalità di una politica estera e di equilibri fissati nientemeno che nella Conferenza di Jalta tra Stalin, Churchill e Roosevelt. Quanto ai comunisti, era molto più facile essere pacifisti stando all’opposizione e finché il Pci era una sorta di succursale italiana dell’Unione sovietica. Ma tutto, allo stesso tempo, diventò più difficile dopo le invasioni sovietiche dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968), quando i vertici del partito cominciarono ad avvertire la necessità di prendere le distanze dai “cugini” di Mosca, e dopo il 1976, quando Berlinguer dichiarò che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato. La somma dei sostenitori dei due partiti superava in quegli anni il 70 per cento dell’elettorato: uno “zoccolo duro”, avrebbe detto Occhetto, non così poi lontano da quello che a diverso titolo prende oggi le distanze dall’ipotesi (non a caso rifiutata al momento da tutti i partiti) dell’esercito italiano coinvolto a qualsiasi titolo nella Difesa europea e nel “raffreddamento” del confine ancora caldo tra Ucraina e Russia, dopo una tregua di là da venire. Inoltre, a questa supermaggioranza dei due principali partiti, bisognava aggiungere il forte contributo d’opinione di un laico, inventore della Marcia della Pace, come Aldo Capitini. Senza trascurare che Marco Pannella, indimenticato leader storico del Partito radicale, pur essendo filoamericano si dichiarava non violento. Così non siamo poi così distanti da quell’improprio oltre novanta per cento, rivelato (ma fino a un certo punto, ci ricorda Ghisleri) dagli odierni sondaggi. La differenza, tra allora e adesso, era che prima la rappresentanza del pacifismo italiano era chiara ed era governata abilmente sia dai partiti di governo che da quelli d’opposizione. Il pacifista italiano era libero di sentirsi antiamericano (e talvolta, ahimè, anche di bruciare le bandiere stelle e strisce e scandire slogan tipo “fuori la Nato dall’Italia”, marciando per la pace); il Paese, però, restava saldamente ancorato all’Alleanza atlantica. Nella Prima e nella Seconda Repubblica, quando D’Alema, il premier che nel 1999 diede il via ai bombardamenti (anche dell’aviazione italiana) che partivano dal territorio nazionale diretti contro Belgrado, potè poco dopo partecipare tranquillamente alla Marcia di Assisi, che si celebra ogni anno. Cosa sia diventato il pacifismo contemporaneo invece, è difficile dire. Ghisleri sostiene che la caratteristica principale di questo moto, più che movimento d’opinione, è “che non si sente rappresentato da nessuno: né da Trump, né da Putin, e men che meno da nessuno dei leader nazionali”. Tal che se Conte e Salvini sembrano avvantaggiarsene leggermente nelle percentuali, la somma dei 5 stelle e della Lega galleggia sul 20 per cento, e non è chiaro dove sia andato il resto, anche quando si prospettano risposte diverse ai sondaggisti. Calenda, l’unico apertamente schierato con il sostegno militare, non arriva al 3 per cento. Gli altri, da Meloni a Schlein, da Renzi a Bonelli e Fratoianni, sono fermi, “mentre cresce il numero di quelli che non sanno a che santo votarsi - insiste Ghisleri -, né come andrà a finire: e di questo hanno letteralmente paura”. Si capisce che c’è spazio per una chiara predicazione laica come quella del professor Gustavo Zagrebelski, che ebbe un ruolo importante anche nella sconfitta di Renzi nel referendum sulla riforma costituzionale. Ma è inutile nascondersi che le sue parole vanno nella direzione opposta a quella di un’Italia che presto - nel momento in cui Trump e gli Usa si sfilano - sarà chiamata ad assumersi le sue responsabilità, a contribuire alla propria difesa e a quella europea, e non è affatto pronta per questo. Medio Oriente. Il risveglio degli invisibili di Lucia Capuzzi Avvenire, 1 aprile 2025 “Devi abituarti a fallire”. In una delle scene più toccanti del documentario-premio Oscar “No other land”, il palestinese Basel Adra spiega così all’amico israeliano Yuval Abraham il significato del suo attivismo nonviolento. Del resto, aveva sottolineato poco prima, non si può risolvere l’ingiustizia dell’occupazione in dieci giorni. Di fronte alla complessità della situazione, prima e soprattutto dopo il 7 ottobre, la scelta di Basel non è la resa bensì il suo opposto. “Fallire” specie in tempi di “performatività” a oltranza, è un termine che terrorizza poiché associato all’errore per antonomasia, secondo l’accezione latina. Nell’etimologia greca, però, la parola fallire include la dimensione del generare. È la forma più compiuta, dunque, di resistenza perché vive la caduta con lo sguardo rivolto verso l’alto. Anche quando si precipita in un abisso che non sembra avere fondo. Un abisso come Gaza. Quindici mesi di guerra e oltre 49mila morti non sono stati sufficienti per giungere a un accordo che consentisse una vita degna ai due popoli della Terra Santa. È stato necessario oltrepassare abbondantemente la soglia dei 50mila, al ritmo di 90 vittime al giorno. Ancora una volta, il governo israeliano e Hamas sono incapaci di offrire un’alternativa al massacro senza fine. La “trappola dei conflitti intrattabili”, la chiama il prestigioso psicologo sociale Daniel Bar-Tal. Una gabbia che imprigiona le due leadership. A mostrare al mondo la chiave del labirinto sono, incredibilmente, quanti “sono abituati a fallire”. Quelle donne e quegli uomini dell’una o dell’altra parte, per cui la ripresa delle ostilità non un ordine impartito dall’alto, un’alzata repentina al tavolo dei negoziati, un discorso infuocato di fronte alla piazza, virtuale o reale. Per loro i 540 giorni di conflitto si misurano in termini di corpi di familiari e amici straziati, chilometri percorsi nell’ansia di salvarsi, notti insonni per il boato delle bombe o per l’angoscia dei propri cari prigionieri in un tunnel. E per entrambi i popoli la misura è colma. Il “basta” risuona con assordante simmetria in Israele e Palestina. Inclusa - e questo il dato che sorprende e commuove al contempo - Gaza, l’epicentro dell’orrore. Da martedì, migliaia di abitanti della Striscia, da nord a sud, hanno sfilato per le strade, esasperati da chi li considera “carne da sacrificare sull’altare della causa” - secondo l’idea di Yahya Sinwar - o titolari di una colpa collettiva da scontare con il proprio sangue o pedine da spostare sullo scacchiere globale a seconda della convenienza, vedi il “piano Riviera” di Donald Trump. “Stop alla guerra”, gridavano. E “stop ad Hamas”. Un fatto inedito dato il rigido controllo esercitato società dal gruppo armato, al potere dal 2007 dopo aver trasformato la vittoria elettorale in un golpe permanente. Eppure l’impiego della forza non ha fermato la protesta che si è ripetuta nei giorni successivi. I miliziani hanno subito screditato il movimento come “eteroguidato”. Anche se non è possibile escludere che qualche sostegno effettivamente ci sia, chi conosce la realtà della Striscia sa che la rivolta è autentica e spontanea. E corrisponde al reale sentire della gran parte dei gazawi. Il movimento “We want to live”, composto in gran parte di giovani insofferenti verso le rigide regole di Hamas, risale nel 2019 e, prima della guerra, nell’agosto 2023, era riuscito a portare una folla in piazza a Khan Yunis. Il conflitto, gli sfollamenti di massa, la lotta quotidiana per la sopravvivenza hanno congelato la ribellione. Senza spegnerne, però, il fuoco. Già da mesi arrivavano segnali di forte malcontento da Gaza. Lo scorso dicembre, il quotidiano israeliano Haaretz aveva pubblicato la lettera di un anonimo dal titolo eloquente: “Prima di liberarci dell’occupazione, noi palestinesi dobbiamo liberarci da Hamas”. Se, come affermano fonti attendibili, Israele è e resta per gli abitanti dell’enclave il “nemico storico”, il gruppo armato è considerato il principale responsabile delle sofferenze patite dopo il massacro del 7 ottobre. Come pubblicato da Mohammed su X: “Hamas non ha niente da offrirci. Deve andarsene”. Slogan drammaticamente simili a quelli gridati dagli israeliani da Gerusalemme ad Haifa. In questo caso, il bersaglio è Benjamin Netanyahu che catalizza diversi settori dell’opposizione. Parenti degli ostaggi e pacifisti lo accusano di perpetrare il conflitto per restare al potere, attivisti anti-corruzione e sionisti liberali lo attaccano per il silenziamento delle voci scomode - dal capo dello Shin Bet alla procuratrice generale - e gli intenti di controllare il potere giudiziario. Oltre il 70 per cento, in base gli ultimi sondaggi, non ha fiducia nel premier. “Non ci rappresentano”, gridano a Beit Lahia come a Tel Aviv rivolti ai rispettivi leader. Una grande della verità: fin dal 7 ottobre questi due popoli hanno dimostrato di avere maggior lungimiranza, creatività, saggezza, di chi dovrebbe rappresentarli. Con questa consapevolezza, l’Alleance for Middle East Peace (Allmep), rete di cui fanno parte 170 associazioni israeliane e palestinesi, chiede da mesi alla comunità internazionale per includere le rispettive società civili nei negoziati per la pace in Medio Oriente. Un appello sottoscritto da papa Francesco all’Arena di Pace dello scorso maggio a Verona. Chi conosce e sopporta il peso del fallimento senza soccombere merita almeno di essere ascoltato. Stati Uniti. “Cara America, noi ce ne andiamo”. La grande fuga degli scienziati di Elena Molinari Avvenire, 1 aprile 2025 Tre quarti dei professori statunitensi contattati da “Nature” rivelano: presi di mira su clima e vaccini, vogliamo emigrare. Pesano minacce e taglio dei fondi. Gli atenei europei: pronti a ospitarli. Una massiccia fuga di cervelli sta per abbattersi sugli Stati Uniti di Donald Trump a causa dei suoi radicali tagli ai finanziamenti nella ricerca e del clima di intimidazione e controllo che la sua Amministrazione ha creato in ambito accademico. Oltre tre quarti dei 1.650 scienziati americani contattati dalla rivista scientifica “Nature” stanno pensando seriamente di abbandonare il loro Paese da quando il capo della Casa Bianca ha cominciato a perseguire politiche che avrebbero dovuto creare una nuova “Golden age”. E mentre il presidente repubblicano e il Doge del suo braccio destro Elon Musk continuano a ridurre la spesa nell’ambito scientifico, punendo in particolare i professionisti che si occupano di temi loro invisi, alcuni Paesi europei e il Canada stanno cercando di sfruttare l'opportunità reclutando talenti dalla comunità scientifica americana. I più giovani sono già pronti a partire. Dei 690 ricercatori post-laurea che hanno risposto a Nature, 548 stavano cercando di andarsene, così come 255 dei 340 dottorandi intervistati. Fra le motivazioni citate ci sono le riduzioni dei finanziamenti e la preoccupazione per l’ostilità che stanno affrontando da gennaio a causa del tipo di lavoro che stanno facendo. Particolarmente presi di mira si sentono i ricercatori impegnati nelle questioni di diversità, equità e inclusione che cercano di ampliare la partecipazione a scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, ma anche gli accademici che lavorano sul cambiamento climatico e sulla sicurezza dei vaccini. Decine di migliaia di dipendenti federali, tra i quali molti scienziati, sono stati licenziati negli ultimi due mesi, con minacce di ulteriori espulsioni di massa in arrivo al grido di “America first”. Intanto, le misure repressive sull'immigrazione e le battaglie contro la libertà accademica condotte dall’Amministrazione Usa hanno creato ulteriore incertezza. Anche ieri le autorità per l'immigrazione hanno arrestato uno studente internazionale dell'Università del Minnesota, nell'ennesimo atto di repressione di studenti e ricercatori stranieri che hanno espresso posizioni pro Gaza. Il segretario di Stato Marco Rubio ha già revocato oltre 300 visti di studio. Le riviste scientifiche hanno pubblicato appelli e allarmi sui rischi dell’attacco alla scienza di Trump, come l’ha chiamato l'autorevole rivista scientifica britannica “The Lancet”. “Le azioni di Donald Trump a livello nazionale e globale non sono una rivalutazione misurata delle priorità degli Stati Uniti. Sono un attacco radicale e dannoso alla salute del popolo americano e di coloro che dipendono dall’assistenza degli Stati Uniti - si legge nell’editoriale -. La capacità dei ricercatori di lavorare è stata gravemente limitata o interrotta del tutto. La libertà di parola è limitata. L’uso di alcuni termini è vietato”. Particolarmente colpito, fa notare Science, è il National institutes of health, il più grande finanziatore pubblico al mondo per la ricerca biomedica, che ha già perso sovvenzioni per quasi 850 milioni di dollari. I Centers for disease control and prevention (Cdc) hanno visto evaporare 11,4 miliardi. In risposta, alcune università europee hanno istituito fondi per sostenere gli scienziati americani. In Francia, la Scuola di ingegneria ha stanziato 3 milioni di euro per finanziare progetti di ricerca che non possono più proseguire negli Stati Uniti. Inoltre, all'inizio di marzo, l'Aix-Marseille Université, una delle più antiche e grandi università in Francia, ha annunciato che sta accettando candidature per il suo programma Safe place for science. Anche i Paesi Bassi stanno lanciando un fondo per sostenere gli scienziati americani. Sempre all'inizio di marzo, il ministro dell'immigrazione del Quebec, Jean-François Roberge, ha annunciato che la provincia sta attivamente reclutando talenti scientifici dagli Stati Uniti che sono diffidenti nei confronti di ciò che ha definito “le direzioni scettiche sul clima che la Casa Bianca sta prendendo”. Anche altre province canadesi hanno aperto le braccia agli scienziati statunitensi. Sia il Manitoba che la Columbia Britannica negli ultimi due mesi hanno lanciato infatti campagne per attrarre ricercatori sulla salute americani.