In che mondo vogliamo vivere di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 19 aprile 2025 Questo comunicato oggi è stato ripreso integralmente dai quotidiani Il Dubbio e L’Unità. A proposito della ulteriore “chiusura nella chiusura” delle persone detenute in Alta Sicurezza. Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza. Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri in redazione Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, ‘mettere in piazza’ i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto ‘a pane e malavita’ guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io”. Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili. Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure, chi sta trasformando le carceri in luoghi di rabbia e degrado, non invidio chi non crede nella possibilità del cambiamento e vede intorno a sé solo nemici. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio e a guardare avanti e a dare fiducia agli esseri umani, anche quelli che ci sembrano i peggiori. Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ADESIONI I Volontari dell’Associazione Granello di senape Padova ODV Il Coordinamento Carcere Due Palazzi Padova condivide il forte messaggio di dolore e di fiera testimonianza della direttrice di Ristretti.(Granello di Senape ODV Padova/Ristretti Orizzonti, OCV Operatori Carcerari Volontari, OCV Bambini, Cooperativa sociale Giotto, Cooperativa sociale AltraCittà, Cooperativa sociale WorkCrossing, Cooperativa sociale Volontà di Sapere, Teatrocarcere Due Palazzi, Amici della Giotto, Coristi per caso, Matricola Zero, Momart, Pallalpiede, Progetto Jonathan VI, Scuola Edile, Ordine Avvocati Padova, Camera penale Padova Commissione carcere. Terzo Settore Padova. Attilio Favaro, Lucio di Gianantonio, Emmanuela Bortoliero, Concetta Fragasso, Chiara Coppo, Nicola Boscoletto, Gianluca Chiodo, Andrea Basso, Francesca Rapanà, Matteo Marchetto, Giovanni Todesco, Rossella Favero, Massimo Quadro, Antonella Pan, Alessandra Andreose, Alberto Danieli, Cristina Luca, Christine Rossi, Anna Maria Alborghetti, Paola Menaldo, Giulia Lanza, Anna Scarso, Armida Gaion, Silvia Giralucci, Donatella Galante, Adriana Da Rin, Giusy Seminara, Antonio Morossi, Maria Elda Muzzani, Angelo Ferrarini, Antonella Schiavon di ASF-Agronomi e Forestali Senza Frontiere. Biblioteca Tommaso Campanella Casa di reclusione di Padova/Operatori AltraCittà e Granello di Senape. (Marina Bolletti, Agnese Solero, Bruna Casol, Paola Ellero, Sandro Botticelli, Manuela Mezzacasa, Giovanna Guseo, Elena Contri, Rossella Favero) Adolfo Ceretti, docente Università di Milano-Bicocca Maura Gola, responsabile sociale coop.ve sociali presso Ethica onlus Marco Boato, deputato alla Camera per 5 legislature e senatore della Repubblica nella X legislatura Mauro Pescio. Attore, autore e podcaster Antigone Veneto Antonio Bincoletto, Garante delle persone private della libertà del Comune di Padova Luisa Ravagnani, Garante comunale di Brescia Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale e come Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale Guido Pietropoli, Garante del Comune di Rovigo Valentina Calderone, Garante di Roma Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Milano Elisabetta Burla, Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Graziella Bonomi, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Mantova Angela Barbaglio, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Vicenza Giovanni Villari, Garante dei detenuti di Siracusa. Mariarosa Ponginebbi, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Piacenza Lucia Risicato, Garante dei detenuti del Comune di Messina Veronica Valenti, Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà personale Comune di Parma Alessandra Gaetani, Garante della C.C. di Como Raimonda Lobina, Garante delle persone private della libertà personale della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Marco Solimano, Garante del Comune di Livorno Tina Zaccato, Garante della C.C. “R. Sisca” di Castrovillari (Cs) Maria Mancarella, Garante Lecce Carlo Carlotto Paola Cigarini Maria Rosa Mondini Maria Luisa Marchetti Carla Chiappini Marina Mancin Paolo Colli Vignarelli Rita Cagnoni, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Andrea Pozza, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Massimo Paccagnella, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Davide Pettenella, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Padova Sebastiano Bellato, presidente Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Casale sul Sile Florence Deray, Agronomi e Forestali Senza Frontiere, Casale sul Sile Tutti i soci de Il Granello di senape Venezia Maria Teresa Menotto - Venezia Isa Carrirolo “Carceri, un anno di condono”: l'appello di Nessuno tocchi Caino per il Giubileo di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 19 aprile 2025 Un “emendamento trasversale che riconosca a tutti i detenuti un anno di riduzione della pena”. È questo l'appello dell'associazione Nessuno tocchi Caino rivolto a “tutti i parlamentari” dopo la visita di papa Francesco nel carcere romano di Regina Coeli: “Un atto di clemenza nell'anno del Giubileo”, scrivono, di fronte al dramma del sovraffollamento. Già 25 i suicidi nel 2025. Papa Francesco lo aveva ripetuto ai giornalisti giovedì 17 aprile appena fuori dal carcere romano di Regina Coeli, forse la sua visita più impegnativa tra quelle affrontate dall'inizio della convalescenza post-ricovero: “Ogni volta che entro in un posto come questo mi domando perché loro e non io”. E poche ore più tardi, citando esplicitamente l'invocazione di Bergoglio sul tema delle carceri in apertura dell'anno giubilare, l'associazione Nessuno tocchi Caino rivolge un appello a tutto il Parlamento per un “atto di clemenza nei confronti di tutti i detenuti nell'anno del Giubileo”. “Gentili onorevoli - si legge nel testo - conoscendo la vostra sensibilità e influenza ci rivolgiamo a voi per chiedervi una iniziativa concreta e urgente che possa accogliere le parole e i gesti potenti del Santo Padre in apertura dell’anno giubilare e in occasione del giovedì santo, e non lasciare cadere il suo appello accorato alla Politica, che al di là di ogni valutazione di tipo organizzativo, numerico, attiene alla carità cristiana e al potere e al valore dei gesti”. L'attenzione verso le persone detenute da parte del Papa è sempre stata molto intensa, fin dall'inizio del suo pontificato. E lo ha ricordato lui stesso l'altro giorno a Regina Coeli: “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo: la lavanda dei piedi, in carcere. Quest'anno non posso farlo, ma posso e voglio essere vicino a voi. Prego per voi e per le vostre famiglia”, ha detto prima di salutare individualmente ciascuno dei circa settanta detenuti presenti. E le parole con cui a dicembre aveva aperto a Rebibbia la prima porta santa giubilare mai spalancata all'interno di un carcere erano stata ancora più forti: “Oggi questo carcere è diventato una basilica”. I firmatari dell'appello di Nessuno tocchi Caino - anticipato in una nota da Rita Bernardini, Sergio D'Elia, Elisabetta Zamparutti e Roberto Rampi - lo hanno citato in modo chiaro ai parlamentari cui l'appello è rivolto: “In occasione della Santa Pasqua di resurrezione, segno supremo del messaggio di redenzione possibile per tutti e per ciascuno, facendo tesoro delle parole di Cristo al ladrone in croce, vi chiediamo di proporre insieme e trasversalmente un gesto giubilare di clemenza, di inserire nel primo provvedimento utile un emendamento trasversale che riconosca a tutti i detenuti un anno di riduzione della pena, così che l’anno giubilare che ha visto il gesto profetico di trasformare il carcere in Basilica, come ribadito dal Pontefice, possa essere un anno di grazia, di perdono, di redenzione”. Il Decreto Sicurezza innalza la tensione in carcere: ogni respiro è “rivolta” di Errico Novi Il Dubbio, 19 aprile 2025 Martedì mattina, 15 aprile. Da tre giorni è in vigore il decreto Sicurezza, che, tra le varie “prodezze”, introduce l’inedito reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” (così letteralmente definito dal testo) configurabile anche in termini di “resistenza passiva” (sempre così battezzata dal legislatore, cioè dal governo). Ebbene, a 72 ore dall’ingresso nell’ordinamento dell’iperbolica e sconcertante novità, a Piacenza si ha notizia della seconda “rivolta” inframuraria in tre giorni: la prima si era registrata a Cassino domenica, teatro della seconda è l’istituto emiliano. All’agenzia Agi “fonti qualificate” riferiscono quanto segue: “Il ritardo di alcuni reclusi a rientrare in cella avrebbe innescato i disordini”. Basta poco a comprendere che dev’essere stata fatale non tanto la “flemma” dei detenuti nel tornare alle “stanze di pernottamento”, quanto la conseguente reazione degli agenti. Ancora poche ore e il segretario del sindacato della polizia penitenziaria più attento alla condizione non solo del corpo ma anche dei carcerati, la Uilpa di Gennarino De Fazio, diffonde la seguente nota: “Dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legge sicurezza e l’entrata in vigore, da sabato scorso, del reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, sono aumentate le tensioni nelle carceri e in quattro giorni sono state almeno due le gravi situazioni di disordine che la polizia, sempre più stremata nelle forze e mortificata nel morale, ha dovuto fronteggiare con non poche difficoltà. La prima domenica sera presso la casa circondariale di Cassino, la seconda”, appunto, “presso la casa circondariale di Piacenza”. Dovrebbe bastare: gli agenti sanno che il minimo accenno di inottemperanza agli ordini può tradursi, se denunciato, in un’indagine penale a carico dei reclusi “insofferenti”. I detenuti a loro volta sanno che ogni mossa può diventare l’occasione per ulteriori guai e condanne. Un quadro da incubo che, come dice De Fazio, può solo accrescere le “tensioni”. Ed è esattamente così considerato che - come anticipato in ripetute occasioni, negli ultimi mesi, su queste pagine da Damiano Aliprandi - la norma sulla “resistenza passiva” dietro le sbarre non poteva che assumere i tratti di una compressione sadica dei diritti costituzionali, per i malcapitati ristretti nei penitenziari del Belpaese: dissentire da un ordine, esprimere tale dissenso anche solo con la resistenza passiva, diventa reato, punibile fino a 8 anni. “Costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”, recita il nuovo articolo 415- bis introdotto dal decreto nel codice penale. Questa forma di accanimento del governo nei confronti dei reclusi è inspiegabile. Lo hanno notato anche cinque osservatori dell’Onu che, come riportato da il manifesto tre giorni fa, si sono detti “allarmati” per la “restrizione inutile e sproporzionata del diritto di protesta pacifica e di espressione” dei detenuti. Ma non serve. Il governo tira dritto nella propria insensata guerra ai carcerati, già costretti in condizioni tragiche dal sovraffollamento. Insiste, il governo, incurante dei suicidi che, nel nuovo anno, sono stati già 25. All’Esecutivo si contrappongono gli sforzi di chi prova a lanciare uno sguardo umanizzante e pietoso sui detenuti: da Papa Bergoglio che nella propria visita di giovedì a Rebibbia è arrivato a scusarsi con i carcerati per non poter compiere la rituale lavanda dei piedi, ai giovani avvocati dell’Aiga, che hanno concluso ieri la cinque giorni di verifiche in 76 istituti di pena di tutto il Paese. Fino ai radicali e a Nessuno tocchi Caino, che domani riserverà la consueta visita pasquale alla casa circondariale di “Rebibbia femminile”, “il più grande carcere femminile europeo, uno dei tre istituti italiani (insieme alle case di reclusione di Trani e Venezia) esclusivamente dedicati alle donne”, laddove “tutte le altre detenute sono carcerate in 45 sezioni femminili di carceri concepite per ospitare uomini”. Uno schieramento di forze a cui non manca di offrire il proprio contributo la Consulta, che ancora ieri, con la sentenza 52 del 2025, ha aggiunto ancora un piccolo tassello alla umanizzazione costituzionale del sistema: la nuova pronuncia tra l’altro ha dichiarato “illegittimo” il divieto di “concedere al padre la detenzione domiciliare quando la madre sia deceduta o impossibilitata a occuparsi dei figli, ma questi possano essere affidati a terze persone”. Sono tante voci. Ma quella, imperturbabile, dell’Esecutivo è più forte. E soprattutto, non arginabile. È uno sguardo in cui prevale la visione mostrificante nei confronti dei reclusi, bollati come rivoltosi e, in quanto tali, criminali per il semplice fatto di non eseguire, immobili, gli ordini della polizia, a fronte di condizioni disumane di sovraffollamento. Una tensione insensata che sembra alimentarsi da se stessa. E che nessuno, dal Papa alla Consulta, è in grado di fermare. Per la prima volta un detenuto ha incontrato la compagna nella “stanza dell’affettività” di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2025 Svolta storica nel carcere di Terni. Per la prima volta, nella storia delle carceri italiane, un detenuto ha avuto la possibilità di incontrare la sua compagna - per trascorrere con lei momenti di intimità - in una stanza attrezzata apposta per questo. Perfino con i murales alle pareti, dipinte da un altro ospite della prigione di Terni. A darne la notizia - sulla lista whatsapp “Bilancio” nata da un’idea dell’ex Garante dei detenuti Mauro Palma - è il Magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi. Protagonista anche lui, e vedremo perché, di quella che si può definire una vera rivoluzione nel mondo delle patrie galere. Sono le 17 e 48 minuti quando Gianfilippi posta il seguente messaggio: “Care e cari, ha avuto luogo oggi, nel carcere di Terni, il colloquio intimo con la compagna del detenuto che si era visto accogliere il suo reclamo il 30 gennaio 2024”. Già, era stato proprio questo detenuto che si era rivolto a Gianfilippi rivendicando il diritto di poter incontrare la sua donna per un colloquio privato, e perché no, anche per poter avere con lei uno scambio affettivo. Gianfilippi, a sua volta, si è rivolto alla Corte costituzionale che il 30 gennaio dell’anno scorso ha deciso che sì, quell’incontro era possibile, perché configurava un diritto insopprimibile dei detenuti. Ricordiamole quelle parole della Consulta perché, pur criticate da chi ha sempre negato questo diritto, hanno aperto alla fine, seppure dopo ben 15 mesi, una porta storica, quella dell’incontro di oggi. Scriveva allora la Consulta che l’Ordinamento penitenziario che risale al lontano 1975 era incostituzionale nella parte in cui “non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. ??Ecco la novità, un colloquio intimo, senza il controllo delle “guardie”. Ovviamente avversato dal centrodestra carcerocentrico. E invece è successo oggi. E Gianfilippi lo ha raccontato così: “L’istituto di Terni ha attrezzato per il momento una stanza al piano terra, vicino alle sale colloqui, già utilizzata per molti anni da me per fare farli. I detenuti hanno sistemato, imbiancato, realizzato un locale doccia, rifatto il bagno, con impegno e molta gioia”. Ed ecco la descrizione minuta di quella stanza: “C’è un letto matrimoniale composto di due brande e sopra un materasso unico, un tavolino e due sedie, una televisione”. Poi un bel tocco di eleganza: “Un detenuto che ama dipingere ha fatto dei murales: una teoria di cuori, dei cigni, sopra tutto un grande “Ti amo”. È il primo letto matrimoniale installato in un carcere italiano”. Già. Sta tutta qui la svolta veramente storica. L’esercizio di un diritto costituzionalmente riconosciuto. Che Gianfilippi, chiudendo il suo messaggio, chiosa così: “Io non sono mai riuscito a vederci morbosità. Per me ha l’aspetto umile, scabro, della dignità e parla di futuro”. Innegabile che sia così. Anche se l’incontro di oggi è arrivato dopo mesi e mesi. Giusto una settimana fa, dal Dipartimento delle carceri, il Dap, è finalmente arrivata la circolare di una dozzina di pagine che ha dettato le modalità per realizzare l’incontro riservato, a tu per tu, tra un detenuto e la sua donna. A sottoscriverla la direttrice “facente funzioni” Lina Di Domenico, già numero due dell’ex direttore Giovanni Russo, nominato dal Guardasigilli Carlo Nordio pochi mesi dopo il suo insediamento in via Arenula, in arrivo dalla procura nazionale Antimafia di cui era vice, ma che poi si è dimesso. Raccontano che Di Domenico, che ha lavorato in Piemonte, sia in sintonia con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Ma questa è tutta un’altra storia… Rieccoci invece all’incontro. Dopo le parole di Gianfilippi - autore di molti altri interventi sulla Consulta per cambiare le regole delle prigioni i - esplode l’entusiasmo dello stesso Mauro Palma. Tre righe, ma indicative: “Ottimo, come accade talvolta, sono le prassi a farsi largo tra le ragnatele effimere delle circolari”. Un ovvio riferimento proprio alla circolare del Dap, giunta decisamentre fuori tempo massimo rispetto alla decisione della Consulta. Ma tant’è, basta l’esempio del fine vita, una sentenza del 2019, cui non è ancora seguita una legge del Parlamento, mentre le Regioni sono costrette a decidere autonomamente. E chi vuole porre fine alla sua vita deve andare in Svizzera. Per una volta, vista l’assoluta storicità di questo momento, si possono citare le reazioni che appaiono via via nella lista “un bilancio”. Ecco i complimenti per Gianfilippi che arrivano da Gherardo Colombo, perché obiettivamente, questo magistrato ha aperto “una crepa” di importanza storica. E poi il costituzionalista di Roma Tre Marco Ruotolo che parla di “un’importante notizia”. E Giovanni Maria Pavarin, da sempre magistrato di sorveglianza, dire che “il diritto si fa strada con la testa e le gambe dei magistrati galantuomini”. E c’è anche Francesco Petrelli, il presidente delle Camere penali, che parla di “un contributo speciale di umanità e speranza”. Dozzine di messaggi, tutti dello stesso tenore. Oggi è il giorno della svolta di quello che con una bruttissima locuzione è stato etichettato come “il sesso in carcere”. Le parole di Gianfilippi dimostrano che si tratta di tutt’altro. La possibilità di trattare umanamente un detenuto che, nella sua condizione, e grazie al suo comportamento, non deve rinunciare al suo diritto all’affettività. Proprio quella che gli può garantire una nuova e futura vita. Insomma, l’esatto opposto rispetto a quei 25 suicidi in carcere a oggi che raccontano tutta un’altra storia. Nel carcere di Terni la prima stanza dell’amore di Viola Giannoli La Repubblica, 19 aprile 2025 La Casa circondariale in Umbria applica la sentenza della Consulta del 2024. Un letto matrimoniale, un bagno, un televisore, due sedie e un tavolino. E sulle pareti un murales di cuori, cigni e una scritta: “Ti amo”. Immaginatela così la prima stanza dell’affettività allestita in un carcere italiano. Questo “piccolo miracolo organizzativo”, per dirlo con le parole del garante dei detenuti dell’Umbria, Giuseppe Caforio, è nato nella casa circondariale di Terni. I detenuti della Manutenzione Ordinaria Fabbricati (il Mof) hanno imbiancato il locale, ricavata accanto all'area colloqui con gli avvocati, ci hanno costruito una doccia e uno di loro poi, che ama la pittura, ha dipinto sulle pareti il murales d’amore. Sperando magari un giorno di entrarci lui. Il primo ad avere un colloquio intimo con la propria compagna è stato un recluso campano di sessant’anni che due mesi fa aveva vinto un ricorso al tribunale di Sorveglianza di Spoleto. Il giudice Fabio Gianfilippi aveva accolto la sua lagnanza dicendo che sì, in base alla sentenza della Corte costituzionale del gennaio 2024 che dichiarava illegittimo il divieto alle visite in carcere dei propri partner senza la sorveglianza a vista della polizia penitenziaria, il detenuto aveva diritto a incontrare in privato la sua compagna. Al carcere di Terni aveva dato due mesi di tempo per correre ai ripari e trovare un locale adatto. Appena scaduto il termine, le linee guida stilate arrivate dal Dap sono state l’ultimo tassello che mancava per consentire il colloquio. E così stamattina il detenuto e la sua amata hanno potuto trascorrere due ore assieme nella prima stanza dell’amore italiana senza telecamere né secondini, con la porta chiusa ma non a chiave e fuori un agente a piantonare. I due sono stati perquisiti prima e dopo il colloquio e così pure la camera. “Ho fatto un sopralluogo ed è un buon inizio. Tutto si è svolto in maniera regolare, come sperimentazione è andata molto bene”, ha spiegato Caforio che, insieme all’avvocato del detenuto, Paolo Canevelli del foro di Roma, ha preferito non rivelare altri dettagli per tutelare la privacy delle persone coinvolte. Nei prossimi giorni, già dalla prossima settimana, ci saranno altri incontri. Il secondo detenuto a usufruirne sarà un romano cinquantottenne della media sicurezza, recluso dal 2024 per reati legati agli stupefacenti. Le richieste dei detenuti sono molte. La stanza dell’amore di Terni può ospitare fino a tre colloqui al giorno, ma al momento viene utilizzata solo per uno. È l’unica in tutta l’Umbria, una delle trentadue che a livello nazionale consentiranno i colloqui intimi. A fronte di circa 17mila detenuti che, secondo la sentenza della Consulta, le linee guida e i calcoli del Dap, avrebbero diritto a prenotare la stanza dell’affettività. “Ne servono altre - spiega ha spiegato il Garante - perché ci sono sempre più richieste da parte dei detenuti. E servono fondi per garantire parità nell'accesso ai diritti. C’è un problema di carenza di personale - ha aggiunto Caforio - anche perché per chi entra in carcere per questo tipo di colloqui è necessaria una perquisizione molto approfondita. In carcere entra di tutto: cellulari, droga. Bisogna approntare un sistema di verifica efficace. Oggi è stato fatto”. L’unica pena oggi è il carcere, ma con la giustizia non c’entra nulla di Rosario Patanè L’Unità, 19 aprile 2025 È diffusa e pervasiva in ogni dove la cognizione apodittica e “dogmatica” che la “pena” per antonomasia consiste nel carcere (etimologia arcaica da “carcar” sotterrare, nascondere). Questa identificazione è connaturata alla società moderna, ma è del tutto fuorviante. Intanto occorre precisare che questa “istituzione” chiamata carcere non è affatto esistita da sempre come generalmente si crede ma nasce solo dopo la Rivoluzione francese, durando fino ai primi decenni del 1800. Contrariamente all’era medievale e feudale quando il reato si intendeva violazione del Corpo del monarca assoluto che era non solo “a legibus solutus” ma anche incarnazione della legge comune e del diritto, la pena consisteva nell’esecuzione corporale nel vasto proscenio urbano al fine della dimostrazione diretta al popolo della restituita e reintegrata unitarietà della potestà regale. Ecco che le impiccagioni, le decapitazioni, le irreparabili amputazioni fisiche e altri strumenti di tortura mortale erano date in pubblico perché tutto ritornasse nella Norma. Lo “splendore dei supplizi” con il quale si ripristina lo splendore del potere violato. Infatti, in quei tempi (ma anche oggi) il Potere deve sempre esibire il suo corpo, perché è il suo corpo che lo incarna, inviolabile, inviolato. Ecco perché re, regine, dittatori si affacciano sorridenti e fieri da ogni balcone. Il corpo del “re” rassicura il popolo che è ancora viva la “nazione” o “l’Idea” o “l’Ideale” o la “rivoluzione” che il popolo - non loro - conduce. Il vero carisma è dietro il popolo, solo apparentemente davanti. L’avvento della prigione come nuova tecnica di punizione moderna è legato allo sviluppo dell’economia capitalistica (sono gli anni che inizia a manifestarsi quel che Marx chiamerà lo “spirito animale del capitalismo” nel senso beninteso di fervore inarrestabile alla produzione e alla ricchezza) e ai metodi di correzione degli individui attraverso il lavoro forzato, ad essa utilissima. Il carcere oggi come non mai è per antonomasia LA pena non una forma della pena. Esso in quanto racconto è il “risarcimento”. Tanto è vero che per i familiari della vittima la pena erogata vale se consona alle aspettative degli anni di prigione sebbene tutti dicano che non dia loro la restituzione della vittima o della sua integrità vitale ma che “almeno” è stata fatta “giustizia”, forma moderna di “vendetta” affidata al potere legale (Weber) ma del tutto impossibilitata alla reintegrazione dell’equilibrio sociale e alla stessa deterrenza dai reati, come appare dovunque anche nel caso estremo della pena di morte. È quindi del tutto evidente che, col più alto rispetto di tutte le vittime, in essa pena carceraria, in particolare l’ergastolo, consiste esclusivamente la soddisfazione della natura risarcitoria che si attende ma il “reo”, non scompare, nel carcere continuerà a esistere un essere umano per il quale l’Illuminismo giuridico di Bentham e Beccaria rivede la pena carceraria rispetto alla sua “utilità” sociale e non solo individuale connettendola ai principi generali dei diritti della persona, rivedendo anche ab himis la progettazione materiale delle carceri (“Panopticon”). La Costituzione Repubblicana ampliando molto queste idee riformatrici vi scorge il soggetto e l’oggetto di una rieducazione, conduzione non persecutoria e violenta della detenzione e riammissione sociale. Qualunque sia stato il reato. Gradualità del giusto processo, dovere di uno Stato democratico e liberale di tentare ogni possibile azione di recupero della Persona, conformemente alla dimensione laicamente sacra del primato della Persona umana sul quale essa si fonda. Ne “Lo splendore dei supplizi” afferma Foucault: “La prigione non è l’alternativa alla morte. Essa porta la morte con sé. Uno stesso filo rosso corre lungo questa istituzione penale che si presume applichi la legge ma che in realtà ne sospende la validità: oltrepassate le porte della prigione, regnano l’arbitrio, la minaccia, il ricatto, le percosse… Nelle prigioni è di vita e di morte e non di “correzione” che si tratta”. Punizione, che per secoli, forse millenni, è parsa più o meno ovvia alla civiltà occidentale, la nozione stessa di punizione, vi sembra altrettanto scontata oggi? Malato grave non può stare in cella. Ma per lui niente differimento pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2025 In Italia continuano a moltiplicarsi i casi di detenuti gravemente malati a cui lo Stato nega cure adeguate, in spregio all’articolo 32 della Costituzione. Tra questi emerge la storia di Albano Bruno Bellinato, condannato per ricettazione, che rischia di non farcela nonostante le perizie mediche depositate agli atti. Dopo sei mesi di ricovero in ospedale (dal 29 ottobre 2024 al 10 aprile 2025), durante i quali ha lottato tra ipertensione, fibrodisplasia ossificante progressiva, difficoltà respiratorie e apnee notturne, Bellinato è stato trasferito in un centro clinico penitenziario. Un segnale chiaro dell’incompatibilità con il regime carcerario, dicono i medici. Eppure, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha respinto la richiesta di differimento pena e detenzione domiciliare, ritenendo che le sue condizioni non giustifichino misure alternative. Nel fascicolo, presentato dall’avvocata Guendalina Chiesi con il supporto dell’associazione Quei Bravi Ragazzi Family Onlus, campeggiano consulenze medico-legali e relazioni sanitarie ufficiali che attestano il rischio di vita. Nonostante ciò, i giudici hanno motivato il rifiuto senza affrontare punto per punto le evidenze: un sovraccarico di rigore formale che trascura la tutela della dignità umana. L’assenza di pericolosità sociale di Bellinato - reato non ostativo e residuo di pena inferiore a un anno - avrebbe dovuto rendere ovvia ogni misura alternativa. Il rigetto ha avuto ripercussioni anche sulla famiglia: la compagna, Alexia Pecella, ha perso i sensi per lo choc dopo aver appreso la decisione. Intanto il ricorso in Cassazione è già al vaglio, con la speranza di ribaltare un verdetto che rischia di trasformarsi in una condanna a morte indiretta. “Chiediamo che l’Italia applichi coerentemente le sentenze della Corte Europea e rispetti la Costituzione”, afferma l’associazione, che da tempo denuncia simili vicende. Il caso di Bellinato non è isolato. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel giudizio Morabito c. Italia (U Tiradrittu), ha condannato l’Italia per mancata assistenza medica e per aver ignorato l’impossibilità di mantenere il detenuto in carcere duro senza violare l’articolo 3 della Convenzione europea, che vieta trattamenti inumani o degradanti. In Italia, intanto, le stesse Sezioni Unite della Cassazione (sentenze n. 13438/ 2021 e n. 12191/ 2023) ribadiscono che il giudice di sorveglianza non può ignorare relazioni cliniche dettagliate e deve motivare adeguatamente ogni rigetto, privilegiando il diritto alla salute. Dietro ogni numero c’è una persona: un diritto alla vita sancito dalla Costituzione, ma calpestato da un’applicazione della legge più attenta al rigore punitivo che alla tutela della salute. Le morti per malasanità in carcere - denunciate più volte anche da Quei Bravi Ragazzi Family - raccontano di un sistema che fallisce nel bilanciare esigenze di sicurezza e garanzie fondamentali. Così, ciò che dovrebbe essere una pena diventa spesso una condanna senza appello. L’associazione chiede un cambio di passo. Il Parlamento e i tribunali devono tradurre in fatti le indicazioni della Corte Europea e i principi costituzionali: consentire il differimento della pena o la detenzione domiciliare quando emergono gravi patologie, anche in assenza di diagnosi terminali. Solo così la giustizia potrà restituire dignità a chi - pur detenuto - resta prima di tutto un essere umano. Il diritto penale “à la carte” di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 19 aprile 2025 Solo in un Paese che abbia perso ogni senso della misura e del ridicolo, può accadere ciò a cui abbiamo assistito all’esito del processo a carico del signor Filippo Turetta. L’autore dell’efferato omicidio di Giulia Cecchettin, comprensibilmente al centro della pubblica attenzione, è stato condannato alla pena massima, il carcere a vita, essendogli stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione. Ma si scatena un acceso dibattito, dai toni aspri e polemici, per essere state escluse - d’altronde senza nessuna possibile conseguenza sanzionatoria - altre due aggravanti contestate: stalking e crudeltà. La sentenza spiega accuratamente, da un punto di vista tecnico, le ragioni di questa decisione, dopo aver chiarito le condizioni della loro applicazione come fissate da alcuni decenni di giurisprudenza di legittimità e di merito. Ovviamente si può contestare quella decisione, ma solo ponendosi sul medesimo piano tecnico. Qui invece abbiamo assistito alle consuete discussioni tra persone appena appena o niente affatto infarinate di basilari cognizioni giuridiche, che si pretende di legittimare con il più micidiale degli argomenti: il diritto penale non può “divorziare dal senso comune”. Eccolo, il cuore pulsante del populismo penale, questo veleno che ormai circola impetuoso nelle arterie del nostro sistema giuridico. Il diritto penale deve rispondere alle “legittime aspettative” di quel “popolo italiano” in nome del quale sono infatti pronunziate le sentenze; come se quella formula potesse mai essere stata concepita per autorizzare un simile scempio. Si tratta di una pretesa in grado di sovvertire i cardini del sistema giudiziario dei Paesi democratici, basati sui princìpi dello Stato di Diritto. Princìpi che imporrebbero l’esatto contrario: è il senso comune delle persone che deve educarsi alla comprensione dello spirito delle leggi, prestando ossequio ad esso quale regola fondativa del patto sociale. Fino a qualche anno fa queste pulsioni giacobino-populiste venivano grosso modo tenute a bada, poi la barriera è crollata. Il legislatore (di ogni colore, sia ben chiaro) ha cominciato ad inseguire “le aspettative” della pubblica opinione su un tema, quello della giustizia penale, sempre più voracemente al centro delle attenzioni mediatiche e social, ma soprattutto sempre più decisivo in termini di consenso. E questa pericolosa e sempre più inarrestabile tendenza, se ci riflettete bene, viene declinata con un solo verbo: aggravare. Aggravare le pene, inasprire le circostanze aggravanti, ampliare a dismisura il catalogo (dei reati e) delle aggravanti. L’esempio massimo, davvero espressivo di questo degrado culturale e politico, lo leggiamo nell’incredibile “decreto sicurezza” di nuovo conio: tutti i reati comuni (tutti!) sono “aggravati” se commessi nelle stazioni (ferroviarie o della metro) o nella loro “prossimità”. Insomma, una violenza sessuale commessa in stazione è “più grave” di quella commessa, per dire, in una discoteca. Questo perché - dobbiamo immaginare - in quelle zone la percezione (via X o Tik Tok) di insicurezza da parte della “gggente” sarebbe (e forse davvero è) fortemente implementata dai video e dalle connesse, virulente polemiche social. Un delirio normativo che lascia senza fiato. Siamo, dunque, al diritto penale à la carte: al tavolo, influencer e trasmissioni televisive dedicate al tema, che “ordinano” nuovi reati e nuove aggravanti; e legislatori in livrea che eseguono, con inchino. PQM oggi prova un esperimento: come dovrebbero raccontarsi alla pubblica opinione le complesse, dolorose, terribili vicende del diritto penale e della sua difficilissima applicazione. Una boccata di aria pulita. Con poche speranze, ma con autentico orgoglio. Buona lettura. Alice nel Paese del populismo eterno e del diritto penale del nemico di Marianna Poletto* Il Riformista, 19 aprile 2025 Un fungo avvelenato che sta producendo una vittima ipertrofica. In principio era l’accusato. Destinatario di tutele e garanzie, figura centrale del nostro sistema processuale penale, nel cui interesse è stato costituzionalizzato il giusto processo regolato dalla legge: contraddittorio, parità delle parti, terzietà e imparzialità del giudice, ragionevole durata, i presìdi che la Carta ha approntato a sua protezione. Tra le due parti - il PM, che il processo avvia e governa, e l’imputato che lo subisce - considerata più debole era la seconda: perché presunta innocente, perché sottoposta all’afflizione di un processo che è già pena, perché con armi spuntate, dinanzi al soverchiante potere della macchina statuale. L’imperfetto è d’obbligo, se nella relazione illustrativa alla proposta di modifica dell’art. 24 Cost., approvata in prima deliberazione dal Senato, si legge che “dopo aver costituzionalizzato il principio della parità delle parti” occorre approntare tutela a “quella di sovente più debole e meno protetta”: ci siamo occupati fin troppo dell’imputato, ora si pensi alla persona offesa. E lo si faccia prevedendo che “la Repubblica tutela le vittime di reato”. Sebbene la riforma, ora alla Camera, non incida sull’art. 111 Cost., è chiaro che il modello binario da esso delineato, che vede contrapposte difesa e pubblica accusa, si avvia al tramonto, destinato a essere trasfigurato dall’entrata in scena della cd. vittima. Termine atecnico, categoria indefinita: eppure, dal linguaggio mediatico ha guadagnato spazio in quello legislativo, trovando consacrazione tra le norme che nella riforma Cartabia disciplinano la giustizia riparativa. È vittima la persona offesa, ma non solo: lo è, stando alla stessa restorative justice, ogni persona fisica che abbia subìto direttamente dal reato un danno, patrimoniale o non. Definizione giuridica a parte, le scelte lessicali non sono mai frutto del caso: parlare di vittima tradisce l’adesione a una concezione moralistica del ruolo del processo, enfatizzandone la portata simbolica. Il male - l’imputato - è contrapposto al bene - la vittima -, le cui aspettative non possono essere tradite perché, ben lungi dall’essere meramente risarcitorie, trascendono dalla concreta vicenda processuale per diventare altro: condanna esemplare, strumento di lotta, monito per il futuro. Per dirla con Sgubbi, “il processo mira così a individuare, prima ancora delle cause, una colpa: la colpa dell’altro. Una nuova forma di ricerca processuale del capro espiatorio e nel contempo, un nuovo tipo di processo politico”. È il “penale massimo”, in cui all’avvertita necessità di proteggere categorie considerate deboli ed esposte, una politica ignava risponde introducendo ipotesi di reato sempre più fantasiose, inasprendo pene e comprimendo diritti. Tali iniziative occupano le pagine dei giornali, generando un’impressione di efficienza e sollecitudine: poco importa che nulla cambi davvero. La parabola della persona offesa è esemplificativa: incalzata dall’UE, l’Italia ha spinto sull’acceleratore, lungo un iter di cui l’ampliamento del catalogo dei suoi diritti di informazione è stato solo il primo passo. Discovery degli atti nei confronti della p.o. che abbia chiesto di essere informata della conclusione delle indagini preliminari; sacrificio del contraddittorio imposto dall’attribuzione di uno sfuggente status di vulnerabilità; obbligo per il difensore di notificarle l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare; avviso in caso di scarcerazione: sono solo esempi di come la voce dell’offeso nel processo sia sempre più forte, con buona pace delle garanzie difensive e della presunzione di innocenza. Sino al monstrum giuridico che è il DDL sul femminicidio, in cui addirittura si prevede che la cd. vittima esprima il proprio parere sulla richiesta di patteggiamento dell’imputato, con onere di motivazione per il giudice che la accolga. Ancora, introduzione, in favore delle vittime di reati da codice rosso, del diritto di essere avvisate dell’uscita dal carcere del condannato, per concessione di misure premiali. Previsioni che non trovano altro senso se non quello di rendere la persona offesa un interlocutore necessario, in ambiti che tradizionalmente non le competono e che non dovrebbero competerle. Del resto, la realtà spesso precorre le innovazioni giuridiche: è inveterato malcostume quello che vede i giornalisti assieparsi intorno alle vittime o ai loro familiari, per raccoglierne i commenti a ogni assoluzione, o riconoscimento di attenuanti o benefici. Non stupisce allora leggere - è di questi giorni - che la madre di Chiara Poggi ha dichiarato di provare “tanta amarezza” per la semilibertà accordata ad Alberto Stasi. Indiscussa la vicinanza umana al dolore indicibile per la perdita di una figlia, a esprimersi sulla concessione di misura alternativa a chi ha alle spalle un lungo percorso carcerario, iniziato in età assai giovane, dovrebbe essere soltanto il Tribunale di Sorveglianza. Il processo non è luogo di rivalsa morale. Come Alice, che nel Paese delle meraviglie mangia metà del fungo e cresce a dismisura, così il fungo avvelenato del populismo sta producendo una vittima ipertrofica. Non si rivela un vantaggio, per Alice, diventare enorme: sovrasta tutto ciò che la circonda, non riesce a muoversi, con braccia e gambe troppo lunghe. Non gioverà alle persone offese occupare l’immenso spazio che norme slogan stanno loro concedendo nel processo: è prima e fuori di esso che le loro istanze di tutela devono trovare soddisfazione, non certo in un eterno diritto penale del nemico. *Avvocata penalista Il diritto è un “cespuglio spinoso” non è affatto un sentiero chiaro di Francesco Diamanti* Il Riformista, 19 aprile 2025 Che cos’è una circostanza? Cos’è un motivo determinante? Come viene valorizzato dalla legge? Quando è abietto o futile? Quando un reato è realizzato con crudeltà contro le persone? Simili quesiti sono oggi quasi delle costanti a livello mediatico, non solo in occasione degli ultimi terribili delitti contro Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano. Ma chiunque avesse l’ardire di fornire risposte veloci e superficiali a simili domande, dovrebbe sapere, come insegnava Karl Llewellyn, uno dei più influenti giuristi statunitensi del XX secolo, che il diritto non è un sentiero chiaro, ma un cespuglio spinoso. L’epigrafe di uno dei suoi lavori più noti, che s’intitola appunto “Bramble bush” (“Cespuglio spinoso”), è una vecchia e curiosa filastrocca per bambini: “There was a man in our town, And he was wondrous wise, He jumped into a bramble-bush, And scratched out both his eyes; And when he saw his eyes were out, With all his might and main, He jumped into another bush, And scratched them in again” Llewellyn, con ogni probabilità, la considera un’allegoria della condizione della persona comune che, al pari dello studente di Giurisprudenza, per capire il diritto deve obbligatoriamente perdere le sue certezze sulla giustizia, dovendo quindi affrontare un percorso doloroso, articolato, disorientante: il “roveto”. Abbandonati i vecchi occhi, le sofferenze continuano lungo quel sentiero che porta a “ragionare (e a vedere le cose) da giurista”. Capire come ragionano i giuristi, dunque, è tutt’altro che semplice. Proprio per questo inquieta osservare come l’opinione pubblica si trovi così spesso a discutere animatamente d’istituti giuridici intricati come, ad esempio, le circostanze in senso tecnico (soprattutto aggravanti), chiedendone una sempre più frequente applicazione. Sotto un certo punto di vista, non c’è nemmeno da stupirsi troppo: se l’opinione pubblica è arrivata a pensare di conoscerle e a pretenderle, è anche perché abbiamo abusato dello strumento circostanziale, relegando il reato non circostanziato a mero caso di scuola. Ne abbiamo cumulate moltissime: comuni, speciali, privilegiate, attenuanti, aggravanti, generiche, a efficacia comune e a efficacia speciale, antecedenti, susseguenti, concomitanti, inerenti alla persona del colpevole, ecc. A ogni modo, un profano, con l’aiuto di una chiarissima definizione di Paolo Veneziani, può forse comprendere, almeno superficialmente, che cos’è un motivo (o “movente”), ovvero “il quid, la causa psichica, lo stimolo, la molla, l’impulso, il sentimento, l’istinto che ha spinto, mosso, indotto il soggetto ad agire (o ad omettere), che ha fatto scattare la volontà”. E questo accade perché anche l’esperienza comune gli conferisce un ruolo interpretativo centrale nell’agire umano: persino quando un amico non ci invita al suo matrimonio, o a una festa da lui organizzata, la reazione spontanea è proprio quella d’interrogarsi sui motivi (invidia, trascuratezza, indigenza, ecc.). La legge penale, senza definirli, ne prevede parecchi: c’è il motivo futile, caratterizzato da stimoli lievi e fortemente disallineati alla gravità di quel che si è fatto, come uccidere per rubare una sigaretta; così come c’è il motivo abietto, riprovevole, intrinsecamente ignobile, come il voler colpire una donna uccidendole il figlio. Fino a qui è (meglio: sembra) tutto abbastanza lineare. Ma, passando a un’aggravante concernente le modalità di esecuzione del crimine, come può una persona qualsiasi capire che, nel mondo del diritto, la “crudeltà contro le persone” potrebbe essere esclusa anche davanti a un crimine crudele come l’omicidio doloso? Come può capire che in una sola frase la stessa parola può essere usata con due significati diversi? Servono sforzi considerevoli. La crudeltà, come ogni circostanza, è un elemento “accidentale” che può esserci o non esserci, e che, quando c’è, sta comunque attorno a un reato già di per sé completo: non a caso questo particolare istituto risulta etimologicamente ricollegabile al verbo “circum-stare”. È un elemento in più rispetto al reato. Un delitto clamorosamente grave, dunque, non è per forza crudele. Consapevoli di ciò, i giuristi - non la legge, che tace sul punto - hanno dovuto elaborare una definizione che si adattasse alla natura circostanziale della crudeltà, considerandola l’inflizione di sofferenze fisiche o psichiche non necessarie e sproporzionate, accompagnate dal compiacimento verso il dolore altrui. Sicché, nemmeno il numero di colpi inflitti - al pari di tutti gli indicatori (e ce ne sarebbero molti altri) - può costituire la prova inconfutabile della crudeltà di cui si parla. Il vaglio è necessariamente casistico. Indipendentemente dall’effettiva solidità di quella o di quell’altra motivazione, il punto è che i giuristi non lavorano con la linearità concettuale propria del linguaggio comune. Quindi, quando scelgono se riconoscere o meno un’aggravante come quella della crudeltà - negata a Giulia Cecchettin, ammessa a Giulia Tramontano - non vogliono affatto dare un giudizio sulla gravità (indiscussa) dei fatti. La speranza è che almeno i più curiosi riescano prima o poi, con le loro forze, ad avviare quel processo di formazione intellettuale che porta ad abbandonare il conforto delle certezze, a smettere di giudicare di pancia e a (ri)scoprire la prospettiva della complessità. *Professore Associato di Diritto penale, Università di Modena e Reggio Emilia Il paradosso dietro la (giusta) proposta sulla “giornata Tortora” di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 aprile 2025 Sta generando diverse polemiche politiche il presunto input lanciato da Palazzo Chigi volto a frenare l’esame e l’approvazione della proposta di legge, presentata da Italia viva e ben vista dai partiti di maggioranza, che prevede l’istituzione di una “Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”, ciò al fine di evitare ulteriori tensioni con l’associazione nazionale magistrati, per rimanere focalizzati sulla riforma costituzionale della giustizia. Sul piano politico indiscrezioni sembrano lasciare il tempo che trovano. Nelle ultime settimane, infatti, non sono mancati attacchi da parte di esponenti del governo nei confronti della magistratura, come quelli del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, contro i giudici colpevoli di “disapplicare le leggi”, soprattutto “in materia di immigrazione”. Il problema, comunque, è un altro e riguarda le modalità sbrigative con le quali è stata trattata la proposta di legge sulla giornata per le vittime degli errori giudiziari (fissata per il 17 giugno, data in cui nel 1983 venne arrestato Enzo Tortora, una delle vittime più celebri della malagiustizia nella storia italiana). La proposta fa infatti riferimento alle “vittime degli errori giudiziari”, ma queste ultime non sono poi così tante: statisticamente 7-8 ogni anno. Si è in presenza di errore giudiziario, infatti, quando un cittadino, dopo essere stato condannato con sentenza definitiva, viene assolto in seguito a un processo di revisione. Nella categoria, tanto per capirci, non rientra neanche il caso di Enzo Tortora, che venne condannato in primo grado e poi assolto in appello e Cassazione. Di gran lunga più numerose, invece, sono le vittime di ingiusta detenzione, cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi essere prosciolti o assolti. I casi di ingiusta detenzione registrati dal 1992 al 2022 sono più di 30 mila, quindi di 985 persone all’anno, per una spesa annua di 27,3 milioni di euro. Non sarebbe più opportuno, come anche suggerito da qualcuno in Parlamento, estendere esplicitamente la giornata di memoria anche alle vittime di ingiusta detenzione, o dedicarla in maniera più generica alle vittime della malagiustizia? La domanda è d’obbligo se si considera che, sempre secondo la proposta di legge, in occasione della giornata di memoria “gli istituti scolastici di ogni ordine e grado promuovono iniziative volte alla sensibilizzazione sul valore della libertà, della dignità personale, della presunzione di non colpevolezza” e sul “principio del giusto processo”. Se l’obiettivo è (finalmente) creare cultura e sensibilizzare le nuove generazioni attorno al tema della malagiustizia, risulta paradossale pensare che questa operazione prenda avvio da una legge che rischia soltanto di alimentare confusione tra errore giudiziario e ingiusta detenzione. Dico no all’analogia del professor Mazza tra codice nazista e giustizia riparativa di Michele Passione* Il Dubbio, 19 aprile 2025 Succede spesso alle persone intelligenti e colte di trasferire una premessa ad un approdo diverso, piegando il ragionamento all’obiettivo cui tendono. Non stupisce dunque se, ancora una volta, il Prof. Mazza ha ribadito il suo pensiero contrario (ostile) alla Giustizia riparativa prendendo le mosse dalla terribile vicenda di Giulia Cecchettin (chissà perché si continua a richiamare Filippo Turetta quale protagonista di questa tragedia), sulla quale in questi mesi, e in questi ultimi giorni, si è scritto e detto tantissimo, quasi sempre cedendo al discorso da bar, senza cognizione e senza rispetto per tutte le parti coinvolte in questa disgrazia, figlia del gesto criminale e patriarcale di un giovane uomo. Non è dunque mia intenzione aggiungermi alla lista di chi parla a vanvera, ed anzi ho apprezzato le considerazioni spese in premessa nel recente articolo pubblicato su questo giornale da Oliviero Mazza, laddove denuncia lo scivolamento del processo verso il crinale della vendetta. Del resto, qualche giorno fa, con parole chiare e responsabili si è detto (Verdolini) che “il diritto penale ha limiti precisi, serve a stabilire responsabilità, non a costruire pedagogie collettive. E se chiediamo al processo penale di colmare il vuoto culturale e politico della società, finiamo per confondere il ruolo del tribunale con quello della coscienza pubblica… la giustizia penale può punire, ma non può educare… oggi il diritto viene brandito come arma apotropaica, come soluzione, nelle aule”. Sottoscrivo. Mentre scrivo ascolto per radio dell’ennesima condanna all’ergastolo (per un crimine orrendo), con il consueto commento (anche di avvocati) sull’esito: “Inevitabile”. Il diritto penale è intriso di violenza, e forse per questo risponde al male col male, la pena perpetua, e non può (ri) educare nessuno. Il vero cambiamento si gioca su un piano culturale. Ma torniamo al nostro, secondo cui “il processo si è trasformato in un rituale di degradazione dell’imputato in funzione catartica per la vittima”. Così, invece di interrogarsi sul perché questo accada, su quanto la giustizia punitiva contribuisca a incrementare divisioni e conflittualità, afferma che “il diritto etico, il diritto penale emozionale sono alla base dell’esperimento, per ora incompiuto, della giustizia riparativa”, e arriva all’acme del ragionamento, che denunciando la “commistione tra diritto e morale”, evoca “il codice penale nazista” (il reato come ogni fatto contrario al sano sentimento del popolo - ciò che conta è la personalità del soggetto agente, non la lesione effettivamente cagionata, secondo Thierfelder e la teoria del tipo d’autore) come scenario. Un’enormità e un’indecenza, che si commenta da sola. Per capire, provare a farlo, vale la pena ribadire che la giustizia riparativa è altro dal diritto penale, pur nutrendosi del valore dei precetti; nel diritto penale troviamo invece, sempre di più, il potere dello Stato, che diventa lo Stato del potere, intriso di violenza. Per spiegare, provare a farlo, ci aiutiamo con queste parole (Bartoli): “Avvocatura e scienza giuridica operano da sempre per limitare la violenza, e quindi il potere, ma proprio perché operano per limitare violenza e potere sono comunque connesse alla violenza e al potere, e quindi dipendono da essi”. Non importa qui convenire su quanto sia diffuso questo rischio, quanto piuttosto denunciare un paradosso, secondo il quale lo splendore del supplizio in chiave post moderna consente ancora a tanti di sedersi allo stesso tavolo del perito settore urlando che no, non va bene, pur prendendo parte all’autopsia. Così, al capezzale del processo accorrono in tanti, per ascoltare l’epicedio e partecipare al rito consolatorio; ma siccome chi dispone di un pulpito da cui parlare non manca mai di farlo, e gli epicedi dicono di più su chi li scrive che su chi è morto, forse le parole che abbiamo letto tre giorni fa sono destinate a ripetersi, perché certo le occasioni non mancano. *Avvocato Dietro la rivolta per la sentenza su Turetta, la fine dell’informazione di Giuseppe Belcastro* Il Dubbio, 19 aprile 2025 L’aggravante è un fatto occorso prima, durante o dopo la commissione del delitto che ne aumenta il disvalore, tanto da avere appunto come conseguenza un aggravio della pena inflitta o delle sue modalità esecutive. Messa così, sembra una cosa semplice, anzi semplicissima. Se non fosse che il fatto “aggravatore” è indicato da una denominazione che ha generalmente un corrispondente a- tecnico nel linguaggio comune. Se in un discorso richiami l’idea della crudeltà ti capisce l’avvocato, ma pure il cittadino comune. Quello che però il cittadino comune non afferra, almeno non con immediatezza, è che la crudeltà quotidiana è cosa diversa dalla crudeltà giuridica; più o meno come un avvocato alle prese con questioni di cui non si occupa mai dal punto di vista professionale. Questo quadro, d’altro canto, non desterebbe sorpresa né produrrebbe conseguenze se le cose stessero nel senso ordinario, che cioè il cittadino comune provvede alle cose su cui ha competenza e l’avvocato perora le cause o, a tutto concedere, che l’uno e l’altro si intrattengano sulle cose che non sanno, parlandone davanti a un caffè. Ma il senso ordinario delle cose - e qui ti volevo - oggigiorno sembra un poco smarrito. E così, se un giudice non riconosce l’aggravante della crudeltà in un caso in cui il carnefice ha trafitto la vittima con settantacinque coltellate, qualsiasi associazione di cittadini protesta a gran voce, perché, non è tanto la misura della pena a destare sconcerto (sempre di ergastolo in fondo stiamo parlando), ma l’idea stessa che qualcuno osi negare che una cosa così sia effettivamente crudele. Fuor di celia: quello che accade attorno alla questione aggravanti e che è di per sé sintomatico di una generalizzata propensione a dire di cose di cui non si sa nulla o comunque molto poco, è il frutto di un corto circuito informativo, originato da narrazioni farlocche dei fatti del processo e della giustizia calate su di una collettività esasperata dall’idea del delitto piuttosto che dalla sua concreta realizzazione. La “rivolta per l’aggravante negata”, insomma, certifica - se ve ne fosse ancora necessità - l’impoverimento del dibattito pubblico sulle cose del vivere collettivo. E la cosa triste è che questa depressione origina - almeno in parte - dalla rinuncia al ruolo di mediazione narrativa che chi informa dovrebbe avvertire invece come imperativo. Da cosa questa rinuncia più o meno consapevole sia poi causata, non è facile dire. Ma, che si tratti di incompetenza (ancora si legge di “reato penale”, o “pubblico ministero che arresta” o che addirittura “rinvia a giudizio”) oppure della spasmodica necessità di accumulare click, resta il fatto che essa rappresenta il tradimento degli scopi di una funzione cruciale nella vita democratica, quella di informare appropriatamente; tradimento a cui consegue il riversare, su una collettività naturalmente votata all’enfasi, informazioni distorte e perciò buone ad alimentare tifoserie e dibattiti surreali. Così, come per una partita di calcio o per una ricetta, ognuno sente il diritto di gridare la sua, perché, “signora mia, lo sanno tutti che nella carbonara la panna proprio non ci va!”. *Presidente della Camera Penale di Roma Accanimento dello stato contro Morabito, il 41bis è punizione “crudele e inusuale” di Sergio D’Elia L'Unità, 19 aprile 2025 In due settimane tre condanne della Corte Europea nei confronti dell’Italia. E non per reati minori, ma per quelli più gravi che esistano nel “codice penale” di risulta delle violazioni dei più basilari diritti umani che uno stato può compiere nei confronti di un suo cittadino. In quindici giorni, l’Italia è stata condannata tre volte. Una volta per la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea che tutela il diritto alla vita. Altre due volte per la violazione dell’articolo 3 che vieta la tortura, le pene e i trattamenti inumani e degradanti. In un anno, il 2024, per quanto riguarda le violazioni accertate e le sanzioni comminate, sono state quattro le sentenze di condanna nei confronti dell’Italia per la violazione del divieto di tortura (art. 3), venti le condanne per lesione del diritto a un processo equo (art. 6) e ben ventidue quelle comminate per violazione del diritto di proprietà (art. 1 prot. 1). Se l’Italia fosse un cittadino comune e non uno stato sovrano, sarebbe un soggetto dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza e automaticamente esposto anche ai suoi effetti secondari, come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Cagionare la morte di una persona, torturare o maltrattare un detenuto sono “fatti più rari tra i rari” che in molte parti del mondo prevedono le condanne più severe. La pena di morte sulla forca nei paesi che non l’hanno ancora abolita, la pena fino alla morte in una sezione del 41 bis che ancora vige nel nostro paese. Gianfranco Laterza aveva lavorato all’ILVA di Taranto dal 1980 al 2004. Era morto nel 2010 per un tumore ai polmoni molto probabilmente causato dalla sua prolungata esposizione sul posto di lavoro ad amianto e altre sostanze tossiche utilizzate nella produzione dell’acciaio. Sarebbe stato sufficiente, non dico entrare a respirare a pieni polmoni l’aria degli altiforni, ma vedere solo intorno allo stabilimento i cigli delle strade e i muri delle case colorate di rosa e le piante sofferenti che invocano acqua e aria pulite, per stabilire l’impatto del mostro industriale sull’ambiente e la vita umana. La giustizia italiana aveva archiviato il caso, quella europea l’ha riaperto, ha accolto il ricorso dei parenti della vittima e ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione, sotto l’aspetto procedurale. Simone Niort è un ragazzo di 28 anni di Sassari in carcere da quasi dieci anni, passati quasi tutti in una cella “liscia” o di transito del carcere, isolato, senza svolgere attività educative, senza ricevere cure adeguate. Una storia travagliata quella di Simone, segnata da disturbi psichiatrici e dipendenza da sostanze fin dall’infanzia. Una storia comune ad altri mille ragazzi che vediamo nelle celle d’isolamento delle sezioni più isolate e sotterranee delle carceri, i bassifondi manicomiali del sistema carcerario italiano. Simone, come gli altri, una volta in carcere, ha iniziato la sua pratica quotidiana di tagli sul corpo autoinflitti, delle parole urlate e senza senso, dei continui tentativi di farla finita. Accogliendo il ricorso degli avvocati Marco Palmieri, Antonella Mascia e Antonella Calcaterra, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accusato lo Stato italiano di non aver valutato la compatibilità dello stato di salute con la detenzione e ha riconosciuto la sua responsabilità per la violazione del diritto alla salute e alle cure mediche di Simone Niort. La terza condanna, la più recente, chiama in causa il 41 bis, un regime strutturalmente di tortura, inumano e degradante. Un regime che, nel caso di Giuseppe Morabito, è degradato al livello più basso della condizione umana, di punizione “crudele e inusuale” che anche nei regimi della pena di morte, una volta raggiunto, ne certifica l’incostituzionalità giuridica oltre che l’insostenibilità, puramente e semplicemente, umana. Giuseppe Morabito ha oltre 90 anni e da oltre 20 è chiuso al 41 bis nel carcere di Opera a Milano. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver continuato a tenere in regime di isolamento un uomo novantenne divenuto nel corso della pena non più capace di intendere e di volere. Incapace di intendere il senso della sua pena, lo spazio in cui si trova, da quanto tempo lì si trova, perché lì si trova. Incapace di volere nulla, forse, neanche di continuare a vivere. L’Italia continua a dire che il carcere duro e l’isolamento servono per impedire i collegamenti tra i mafiosi carcerati e i mafiosi in libertà. Adita con successo dall’avvocato Giovanna Beatrice Araniti, che ha rappresentato Morabito, la Corte europea ha condannato l’Italia non solo per la sua carenza di senso di umanità nei confronti di un detenuto ma anche per la mancanza del più elementare buon senso. Nella sentenza si specifica che “la Corte non vede come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo - e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer - e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere - in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo - contatti significativi con un’organizzazione criminale”. Il regime del 41 bis è innanzitutto un sistema simbolico, un cimitero monumentale, circondato da muri invalicabili, con tombe di morti viventi e lapidi con nomi che richiamano vicende d’altri tempi, ormai finite ma che non finiscono mai. Il regime italiano dell’antimafia non prevede la fine della mafia né la redenzione del mafioso. La mafia non muore mai, pena la fine dell’antimafia stessa. Il mafioso resta tale per sempre, finisce di essere mafioso solo da morto. In attesa della morte, viene sepolto vivo nelle sezioni del “carcere duro” dove la perdita dei sensi e dei sentimenti umani fondamentali si aggiunge a quella della libertà e diventa vera e propria pena corporale. Le sezioni del “carcere duro” sono diventate istituti per ciechi, sordomuti, sdentati, stazioni terminali per malati terminali: di cuore, di cancro, di mente, di tutto. Mentre scrivo giunge la notizia della morte di Graziano Mesina, l’ex bandito sardo dei sequestri di persona e delle evasioni spettacolari. Era già malato di tumore e non proprio pienamente in sé quando l’ho incontrato l’ultima volta due anni fa nella sezione di alta sicurezza del carcere di Opera. È dovuto giungere allo stato terminale della sua malattia e della sua vita per riuscire nella sua ultima, innocente evasione dal carcere. È stato portato in ospedale, ormai incapace anche di parlare, il giorno prima della sua morte, a 83 anni. Con lui è morta la pietà, la giustizia ha perso la grazia. Quel che resta è la crudeltà del potere, la corporale, medievale certezza della pena invocata a ogni piè sospinto dagli analfabeti costituzionali del nostro tempo. Sempre ammissibili i domiciliari per il padre condannato se la madre non c’è di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2025 Secondo la Consulta non viola, invece, i principi costituzionali il diverso trattamento, stabilito dall’ordinamento penitenziario, per la donna e l’uomo condannati che abbiano figli di età non superiore a dieci anni ovvero gravemente disabili. È costituzionalmente illegittimo il divieto di concedere al padre la detenzione domiciliare quando la madre sia deceduta o impossibilitata a occuparsi dei figli, ma questi possano essere affidati a terze persone. Non viola, invece, i principi costituzionali il diverso trattamento, stabilito dall’ordinamento penitenziario, per la donna e l’uomo condannati che abbiano figli di età non superiore a dieci anni ovvero gravemente disabili. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 52, depositata oggi. La questione era stata sollevata dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e di Venezia. Il primo caso riguarda un detenuto che aveva chiesto di essere ammesso alla detenzione domiciliare per occuparsi dei suoi due bambini, che erano allo stato accuditi dalla loro sorella maggiore. Il secondo caso concerne invece l’analoga richiesta di un detenuto padre di un figlio gravemente disabile, che necessitava di continua assistenza da parte della madre. La norma esaminata dalla Corte consente di disporre la detenzione domiciliare della madre condannata anche quando i figli siano affidati al padre. Invece, il padre che sia stato condannato può essere ammesso alla detenzione domiciliare soltanto ove risulti che la madre sia morta o comunque sia impossibilitata a prendersi cura dei figli, e non vi sia modo di affidarli a persona diversa dal padre. Secondo i due tribunali, la differenza di trattamento tra padre e madre detenuto non consentirebbe di tutelare appieno gli interessi dei figli, privandoli indebitamente del rapporto con il padre. Inoltre, essa violerebbe il principio di eguaglianza tra sessi e all’interno del matrimonio, privilegiando irragionevolmente la posizione della madre rispetto a quella del padre. La Corte ha anzitutto riconosciuto una qualche distonia tra la legge esaminata e “lo stadio attuale del quadro ordinamentale, che - anche per effetto della mutata sensibilità sociale - tende ormai a riconoscere l’equivalenza delle due figure genitoriali rispetto ai compiti di cura, mantenimento ed educazione dei figli”. Tuttavia, la Consulta ha osservato che il legislatore ha ritenuto di apprestare un trattamento di particolare favore per il rapporto tra la madre condannata e il bambino in tenera età, muovendosi in consonanza con l’obbligo di proteggere la maternità stabilito dall’articolo 31 della Costituzione, oltre che con numerose raccomandazioni di diritto internazionale che mirano ad assicurare, per quanto possibile, la presenza della madre condannata accanto ai propri figli. A far da sfondo a questa scelta normativa, che attua in maniera particolarmente pregnante i principi costituzionali in materia di pena, sta anche il limitato impatto della misura sulla popolazione carceraria complessiva, composta solo per il 4 per cento da detenute donne. La Corte ha concluso che “la scelta compiuta dal legislatore di assicurare la presenza anche della madre condannata a una pena detentiva, pur laddove il padre sia in condizione di farsi carico della cura e dell’educazione del minore, è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse all’esecuzione della pena detentiva - e quindi della pretesa punitiva dello Stato - e l’interesse del minore alla relazione genitoriale”. Verificherà poi il Tribunale di sorveglianza se il concetto di “impossibilità” della madre di prendersi cura del figlio possa essere esteso, in via interpretativa, anche a situazioni “in cui l’eccezionalità del carico connesso ai doveri di cura renda inesigibile che la sola madre vi faccia efficacemente fronte, in relazione ad esempio alle gravi patologie di cui il minore soffra e alle sue necessità di continua assistenza”. È invece lesiva degli interessi preminenti del minore la scelta legislativa di precludere al padre condannato l’accesso alla detenzione domiciliare anche quando la madre sia morta o comunque impossibilitata a provvedere alla cura dei figli minori, ma questi possano essere accuditi da terze persone. Così concepita, la norma impedisce infatti ai minori di fruire della relazione continuativa con almeno uno dei genitori, che in linea di principio deve essere loro assicurata. Resta peraltro fondamentale, anche in questo caso, la verifica da parte del Tribunale di sorveglianza che non vi sia pericolo di commissione di nuovi reati da parte del condannato, e che il ripristino della sua convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi. Treviso. Morto in carcere a 46 anni: per la Procura è infarto ma la famiglia chiede l'autopsia trevisotoday.it, 19 aprile 2025 Gennaro Martino ha perso la vita lo scorso 29 marzo a 46 anni nel carcere di Santa Bona. Caso archiviato come morte naturale ma la madre sostiene che il figlio aveva delle echimosi sul corpo. Presentata un'interrogazione parlamentare. Il carcere di Santa Bona è tornato in queste ore al centro delle cronache dopo la morte improvvisa di Gennaro Martino, 46enne in attesa di giudizio, detenuto nel carcere trevigiano per scontare un cumulo di pene. La Procura di Treviso ha archiviato il suo decesso come un caso di morte naturale (infarto). La madre di Martino non è però dello stesso avviso: la famiglia ha sporto querela segnalando delle lesioni sul corpo del 46enne e richiedendo l’autopsia, giudicando non esaustiva l’analisi iniziale. Una successiva perizia medico-legale di parte ha evidenziato elementi incompatibili con un decesso naturale, sollevando il sospetto di una possibile aggressione o asfissia meccanica. Da certificato medico dell'infermeria del carcere Martino risulta aver riportato un occhio nero per una caduta tre giorni prima di morire. La ricognizione cadaverica esterna, disposta dalla Procura, era stata effettuata dal medico legale Alberto Furlanetto, che ha archiviato il caso come morte naturale dovuta ad arresto cardiaco. Il cadavere del 46enne è ora in obitorio a Treviso. Sarà il capo della Procura a sollecitare eventualmente un nuovo accertamento e a disporre l'autopsia. Interrogazione parlamentare - Una possibilità che la magistratura sembra però aver già scartato. Nelle scorse ore intanto è stata presentata un’interrogazione parlamentare urgente al Ministro della Giustizia da parte della deputata trevigiana Rachele Scarpa (Partito Democratico) con la richiesta di fare chiarezza sul caso. “Dal Ministro Nordio vogliamo sapere se intenda promuovere accertamenti più approfonditi e se ritenga opportuno rafforzare i protocolli di tutela dei detenuti, soprattutto nei casi in cui vi siano precedenti legati all’uso di sostanze o episodi di violenza” scrive Rachele Scarpa in una nota ufficiale. L'interrogazione sollecita inoltre a fare di più sulla trasparenza e sull’efficacia delle verifiche condotte in caso di decessi in ambito carcerario, chiedendo l’istituzione di un monitoraggio sistematico e la garanzia di un'informazione completa per i familiari delle persone decedute. “Ogni anno in Italia si registrano decine di morti in carcere - conclude la deputata trevigiana - sulle cui circostanze è necessaria una maggiore attenzione, per non parlare del numero di suicidi in drammatico aumento. È un fenomeno che non può essere considerato fisiologico. Lo Stato ha il dovere di garantire la sicurezza e l’incolumità delle persone private della libertà, e di assicurare che ogni morte sia indagata con rigore e trasparenza”. Crotone. Detenuto suicida, Ministero e Asp chiamati a responsabilità civile nel processo di Giuliano Carella laprovinciakr.it, 19 aprile 2025 Il Tribunale di Crotone ha ammesso la costituzione di parte civile dei familiari di Danilo Garofalo che si tolse la vita nella Casa circondariale poche ore dopo l'arresto. Il giudice per le indagini preliminari (Sezione penale) del Tribunale di Crotone, Chiara Daminelli, ha ammesso la “chiamata di terzi in causa” per la costituzione di parte civile contro il ministero di Grazia e giustizia e l'Asp di Crotone dei famigliari di Danilo Garofalo, il 39enne ex detenuto di Petilia Policastro che si tolse la vita il 22 settembre del 2022 nel carcere di Crotone. Questa mattina, infatti, ha preso il via il procedimento che vede imputate tre persone con l'accusa di omicidio colposo in concorso. Si tratta di due agenti del servizio di Polizia penitenziaria, il sovrintendente Gino Pace e l’assistente capo Ercole Lista, difesi dall'avvocato Romualdo Truncè; e del medico psichiatra dirigente del presidio penitenziario dell’Asp, Francesco Antonio Lamanna, difeso dall'avvocato Francesco Laratta. I famigliari di Garofalo sono invece assistiti dagli avvocati Maria Pia Antonietta Garofalo e Giovambattista Scordamaglia. Come da rituale, in apertura del procedimento, vi è stata questa mattina la costituzione delle parti civili e la novità è stata proprio l'ok del giudice alla richiesta di risarcimento nei confronti dello Stato e dell'Azienda sanitaria. Quella di Danilo Garofalo è una triste vicenda, di quelle che purtroppo si consumano nel chiuso di tante altre celle italiane. Il 39enne, infatti, secondo la ricostruzione contenuta nei fascicoli d'inchiesta, si sarebbe impiccato poche ore dopo essere stato tradotto in cella, utilizzando i lacci delle proprie scarpe. L'uomo era stato arrestato qualche ora prima per maltrattamenti in famiglia e il suo quadro clinico esprimeva un'elevata tendenza al suicidio. Questo perché la sua anamnesi aveva dato esito positivo al consumo di marijuana e alla tossicodipendenza; ma soprattutto venivano segnalati due progressi Trattamenti sanitari obbligatori a seguito di tentativi di suicidio e la contestuale presa in carico del detenuto presso il Centro di salute mentale. Tutto elementi che andavano inseriti nel contesto di problematiche familiari emerse anche in quel frangente. Alla luce di tutto ciò, la pubblica accusa contesta oggi ai tre imputati “negligenza, imprudenza, imperizia in violazione delle linee guida in materia di prevenzione del rischio suicidi”. L'inizio del dibattimento è stato adesso fissato per il 3 luglio prossimo. Ferrara. Sovraffollamento, alimenti e lavoro: “Servono investimenti dall’esterno” di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 19 aprile 2025 La visita ai detenuti di una delegazione di Camera penale e Aiga, tra criticità ma anche tante cose buone “Il nostro appello rivolto ad aziende e supermercati: servono aiuti”. E la capienza degli ospiti è arrivata a 389. I nudi numeri erano, sono e purtroppo resteranno a lungo impietosi sul fronte sovraffollamento. L’ultimo dato, ieri, parlava di 389 detenuti ospiti dell’Arginone a fronte di una capienza massima regolamentare di 244. Il record si toccò nell’estate 2009 con addirittura 540 persone. “Ma il problema del sovraffollamento - spiegò alcuni giorni fa Manuela Macario, garante dei detenuti - è solo uno dei tanti”. Molti dei quali accarezzati da vicino proprio ieri da Camera penale e Aiga, in visita con una delegazione di avvocati accompagnati dalla direttrice del carcere, Maria Martone, dal comandante della Penitenziaria, Annalisa Gadaleta, e dal funzionario giuridico pedagogico Mariangela Siconolfi. Un viaggio in alcune sezioni che ha messo a nudo le enormi criticità di una struttura di massima sicurezza attempata e obsoleta, ma allo stesso tempo contenitore di tante iniziative buone in essere e future. Al 17 aprile 2025, gli ingressi all’Arginone sono stati 118, dei quali 40 entrati dalla libertà, 79 da trasferimento. In tutto l’anno scorso, il complessivo degli ingressi toccò quota 391. Cresce il numero di stranieri (44%), anche se la maggior parte restano gli italiani: 219. Addentrandosi tra le nazionalità, il Marocco conta 50 persone, poi Tunisia (30), Albania e Nigeria (15 a testa). Proprio la presenza di varie etnie, con religioni e culture diverse, crea problemi di convivenza, spesso di difficile gestione per la polizia penitenziaria, altro tasto dolentissimo. In questo caso non si tratta di sovraffollamento, bensì dell’opposto con numeri fortemente al ribasso: a oggi mancano ben 40 agenti, con una media di uno per turno chiamato a controllare 80 detenuti. Ancora: gli ospiti definitivi sono 324, quelli in attesa del primo giudizio 24. La struttura, in certe parti è fatiscente. L’Arginone è vecchio, alcuni spazi sono indecorosi (la cucina, ad esempio, sarebbe da ristrutturare, la palestra con macchine da ammodernare o sostituire), grigi, incrostati, nelle celle c’è solo un piccolo lavandino e le docce sono in comune. Poi ecco l’occupazione. Su 389 detenuti, solo un centinaio lavora - uno degli elementi del trattamento rieducativo, un diritto sancito dall’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario -, cioè nemmeno un terzo della popolazione totale. Si tratta di addetti alle pulizie, alle aree esterne e cucine, di piantoni, ovvero chi assiste i detenuti in difficoltà. “E ci sono persone - spiega Simone Bianchi, vice presidente della Camera penale - che passano l’intera giornata in cella a non fare niente”. Da qui il grido di allarme che le delegazioni degli avvocati portano all’esterno: “Servono aziende - continua l’avvocato - che investano nell’attività carceraria, i detenuti fanno già molte cose, basti pensare a Ricicletta o all’officina di montaggio e smontaggio di lavatrici e lavastoviglie. Ma ne possono fare molte di più grazie alle loro professionalità. È necessario fornire loro strumenti per ripartire una volta fuori, dare la possibilità di ottenere una qualifica spendibile all’esterno per il loro futuro ma anche, e soprattutto, per quello della società stessa”. Altro appello, questa volta per la colazione come spiega Laura Bonora, referente dell’Osservatorio carceri di Aiga: “I detenuti hanno a disposizione solamente latte o tè, non ci sono merendine, marmellate o biscotti. Serve recuperare generi (non in vetro) di prima necessità, per questo forni o supermercati, ad esempio, potrebbero iniziare una collaborazione con il carcere”. Tra le eccellenze, il progetto con Unife che vede oggi 15 detenuti-studenti, le tante attività pedagogiche, la coltivazione dell’orto, il progetto con il Vergani e i concerti con il Conservatorio, la biblioteca sempre ben fornita, i tirocini con Comune e Caritas. Resta da risolvere, in tempi brevi, la questione legata ai detenuti con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza, con l’Ausl incapace di ospitarli nelle varie strutture esterne e di fatto soggetti destabilizzanti per l’istituto penitenziario. Prato. Riscatto di un giovane detenuto con Seconda Chance di Verdiana Corbianco toscanaoggi.it, 19 aprile 2025 Il progetto apre le porte alla rinascita attraverso il lavoro, offrendo ai detenuti concrete opportunità di formazione e inserimento lavorativo. La testimonianza di D. racconta un percorso di riscatto fatto di impegno e speranza dopo la reclusione a Prato. Di lavoro si vive, di lavoro si rinasce: nella voce di D., giovane detenuto della casa circondariale di Prato, il germoglio della speranza si schiude in una delle strade maestre della riabilitazione: il lavoro. La detenzione da sola non è sufficiente a scongiurare la recidiva, pertanto il progetto “Seconda Chance” crea opportunità di lavoro e di apprendimento o, per dirlo in altre parole, di riscatto. Allora gli spazi del carcere si trasformano in imprese, luoghi di formazione e le sue porte si aprono per consentire ai detenuti un reinserimento nel tessuto civile e sociale della comunità. “Sono infinitamente grato - spiega D. - a Seconda Chance, ma sono anche consapevole che la luce del cambiamento si può trovare nei miei occhi”. Impegno, dedizione e tenacia: nel percorso di questo giovane detenuto la prima tappa di riscatto è stata l’acquisizione del diploma, ottenuto con il massimo dei voti. “Alcuni compagni suggerivano di rivolgermi a delle associazioni che potessero offrire delle opportunità lavorative. Inizialmente ho accantonato l’idea, non pensavo di essere così fortunato”. Ma il destino e la sua buona condotta hanno concesso il diritto a rifiorire: “Un mio amico mi propone nuovamente di cercare lavoro e proprio in quel giorno avrei dovuto fare una videochiamata con la mia famiglia. Così gli chiedo di fare una ricerca su internet e mandarmi gli indirizzi mail delle associazioni che si occupavano di ciò: una di questa era “Seconda Chance”. Torno in cella e mi convinco a scrivere un testo da inviare”. Le parole e la storia di D. avevano i requisiti giusti per gettare le basi verso un futuro migliore: “Rimasi sbalordito dalla risposta di Flavia Filippi (presidente nazionale di “Seconda Chance”). Mi disse che la referente del progetto era Sara Benvenuti, la professoressa con cui ero già entrato in contatto nella saletta universitaria del carcere, che frequentavo come uditore”. Di lì a poco, Sara e D. si incontrano: emerge un confronto fatto di buona volontà, solerzia e disponibilità. “Le raccontai - ricorda D. - che a tredici anni feci un’esperienza come carrozziere. Non mi sarebbe dispiaciuto riprovare con questo mestiere”. È stato infatti organizzato un colloquio con un carrozziere, della durata di circa due ore, in cui il futuro datore di lavoro ha subito trovato in D. un degno collaboratore: “Mi ha detto che mi avrebbe assunto il giorno successivo”. Dopo aver conseguito le necessarie autorizzazioni, D. inizia a respirare boccate di normalità. Sveglia alle quattro del mattino, due treni, due autobus e tanta determinazione. Il datore di lavoro ha superato la barriera del passato di D., focalizzandosi sul presente e valutando solo la sua volontà di rimboccarsi le maniche. Il traguardo del riscatto può essere raggiunto percorrendo la via della cooperazione: “La loro fiducia mi trasmette molta positività e speranza”. “Mi sono sentito accolto. - spiegia D. - Per me è una seconda famiglia”. Nella carrozzeria nessun pregiudizio, nessuno stereotipo, questa diviene in tal senso un contesto rappresentativo per favorire inclusione sociale e speranza ai detenuti. È quanto promuove e auspica il progetto “Seconda Chance”. Oltre alla difficoltà di superare lo stigma del pregiudicato, spesso il percorso penitenziario conduce a un impoverimento della professionalità, proprio la mancanza di opportunità concrete di reinserimento ha determinato in Italia una percentuale di recidiva del 70%. Affinché la detenzione non si traduca in una macchia indelebile ma sia una cicatrice che scompare, “Seconda Chance” fa conoscere alle imprese la legge Smuraglia (193/2000) che offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Assume dunque il ruolo di ponte tra il carcere e la realtà lavorativa esterna: dopo aver illustrato i principi della legge, qualora l’impresa sia disponibile, “Seconda Chance” si interfaccia con l’area educativa, al fine di individuare le persone più meritevoli. Vi è anche la possibilità per l’azienda di esternalizzare parte delle loro attività all’interno degli istituti. Infine l’impegno del progetto verte anche sul fronte della formazione, con l’introduzione di corsi di vario tipo. Nel carcere femminile di Sollicciano sono stati offerti corsi da estetiste, in quello maschile vi è la possibilità di prendere la patente per il muletto o apprendere abilità culinarie con chef stellati. Firenze. “Poesia e Salvezza”, 45 opere per raccontare l’umanità oltre le sbarre di Paolo Mugnai La Nazione, 19 aprile 2025 L’arte di Gessica La Pira in mostra nel Chiostro Grande della SS. Annunziata a Firenze, per dare voce a chi ha vissuto il carcere e sostenere progetti di reinserimento sociale. Inaugurazione mercoledì 23 aprile. Come aiutare gli ex detenuti a reinserirsi nella società? Una risposta possibile la dà il progetto espositivo “Poesia e Salvezza”, ideato dall’artista Gessica La Pira e curato da Francesca Roberti, in mostra nel Chiostro Grande della SS. Annunziata a Firenze, la cui inaugurazione è prevista per mercoledì 23 aprile alle 18.30. Si tratta di 45 opere che raccontano l’umanità oltre le sbarre, dando voce a chi ha vissuto il carcere. L’iniziativa, presentata presso il caffè letterario Giubbe Rosse, nasce da un’idea della criminologa Giovanna Ottavi. Le opere di Gessica La Pira sono realizzate con tecnica mista su tela, dominano la luce e il colore bianco, simbolo di una dimensione sacrale legata al principio della vita e al femminile. Il percorso espositivo affronta il tema della perdita di identità culturale nella società contemporanea, attraverso un linguaggio introspettivo e simbolico. “L’intento è sensibilizzare il pubblico verso una direzione che vede l’arte come necessità dello spirito, responsabilità”, dice Gessica La Pira. “Educare alla bellezza vuol dire educare alla speranza. L’essere umano, la nostra identità, la cultura devono essere considerate bussole per continuare nel cammino di uno stato sociale che non deve arrendersi, includere ogni forma, non smarrire la singolarità di ogni vita umana”. Giovanna Ottavi commenta: “Collaboro con il Centro Diurno Attavante e l’Associazione C.I.A.O., che operano negli istituti penitenziari fiorentini, offrendo supporto a detenuti, ex detenuti e alle loro famiglie. È importante che chi visiterà la mostra superi paure e pregiudizi verso chi ha vissuto in carcere. Ogni detenuto ha una sua storia e, una volta scontata la pena, merita di essere trattato come una persona, con il diritto di reintegrarsi nella società”. Il ricavato della vendita delle opere della mostra “Poesia e Salvezza” sarà destinato a progetti di reinserimento per detenuti ed ex detenuti delle carceri di Sollicciano e Gozzini, promossi dalle associazioni C.I.A.O. e Centro Diurno Attavante. Il progetto è patrocinato dal Comune di Firenze, dalla Regione Toscana e dal Consiglio Regionale della Toscana. Nessuna frontiera, nessuna guerra: l’Europa di Langer di Marco Boato L'Unità, 19 aprile 2025 Costruire ponti tra gli uomini e tra gli uomini e la natura, per fare del Vecchio continente un continente nuovo, aperto, giusto e solidale, senza barriere né orridi nazionalismi. Il suo Manifesto fu profetico. E rappresenta la chiave per salvare l’Europa odierna. Alexander Langer decise di concludere volontariamente la sua vita il 3 luglio 1995, a 49 anni. Una vita breve, ma di una intensità straordinaria, per le sue esperienze politiche (anche prima dei Verdi, e poi con i Verdi nascenti dal 198283 fino alla fine della sua esistenza), per le sue riflessioni culturali e storiche, per le sue innumerevoli iniziative ecologiste (le sue “utopie concrete”), per i suoi mandati istituzionali (per tre volte nel Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige/Südtirol e contemporaneamente nel Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano, e poi per due volte nel Parlamento europeo, dove fu anche co-presidente del neonato Gruppo europeo dei Verdi). Dopo la sua morte, molti libri, articoli e saggi sono stati pubblicati sul suo pensiero e sulla sua figura umana e politica. Personalmente, nel decennale della morte (2005), ho curato la raccolta di innumerevoli testimonianze su di lui, nel libro Le parole del commiato (per le edizioni dei Verdi del Trentino) e poi, nel ventennale (2015), ho pubblicato il libro Alexander Langer. Costruttore di ponti (edito da La Scuola della Morcelliana di Brescia, poi riedito più recentemente nella collana Scholè della stessa Morcelliana). Poco dopo la sua scomparsa, era stata pubblicata dalla Sellerio una bella e ricca antologia dei suoi scritti, intitolata Il viaggiatore leggero (curata da Edi Rabini e Adriano Sofri e più volte riedita), la cui lettura è ancor oggi di assoluta attualità e di grandissimo interesse. In quest’anno 2025, trentennale della sua scomparsa, c’è ancora una volta l’occasione di tornare a riflettere su Alexander Langer “testimone e profeta del nostro tempo” (come l’ho definito più volte), per ricordare i suoi insegnamenti alle persone più anziane, ma soprattutto per farlo conoscere alle generazioni più giovani, per le quali può diventare o è già diventato, pur non avendolo potuto ovviamente incontrare di persona, un punto di riferimento fondamentale sui temi della conversione ecologica, della convivenza inter-etnica, della pace e della giustizia sociale, della “questione ecologica” in tutta la sua complessità. Pochi sanno, anche perché il volume è stato completamente esaurito ed è reperibile solo in qualche biblioteca, che durante la sua vita Alexander Langer ha pubblicato solamente un proprio libro, pur avendo scritto molte centinaia di articoli e saggi e avendo in cantiere anche altri libri, che, a causa della sua morte prematura, non era riuscito a completare e pubblicare. Si tratta del libro bi-lingue (italiano e tedesco) intitolato Vie di pace. Frieden schließen. Berichte aus Europa. Rapporto dall’Europa, pubblicato nel 1992 con le edizioni Arcobaleno (dei Verdi del Trentino), con questo sommario in copertina: “Nuovi movimenti e vecchi conflitti: tra autodeterminazione e cooperazione, federalismo e nazionalismo, convivenza e razzismo” (con lo stesso sommario anche in tedesco). Su richiesta dello stesso Langer, il volume (di 445 pagine, con scritti e documenti a volte in italiano, altre volte in tedesco, ciascuno in originale e non in rispettiva traduzione), venne introdotto in tedesco da Helga Innerhofer e da me in italiano, con questo titolo della mia prefazione “Un protagonista dell’Europa senza frontiere”. Riporto qui qualche frase tratta dal mio testo su di lui: “Prima ancora di essere un ecologista e un pacifista, Alexander Langer è un uomo di pace e un uomo di dialogo. ‘Fare la pace tra gli uomini e la natura’ non è solo un imperativo etico, ma un itinerario culturale, un compito storico, una testimonianza quotidiana, di cui Alexander Langer si è reso protagonista prefigurando un’Europa senza frontiere quando ancora tutte le frontiere erano rigide e impenetrabili e i muri erano alzati e militarmente protetti (con le armi da guerra o con le armi dell’ideologia).” E ancora: “Stiamo avvicinandoci ormai alle soglie imminenti del Duemila. Ma fin dalla metà degli anni 60, quand’era ancora ventenne, Alexander Langer si è impegnato a gettare ‘ponti’ di amicizia e di dialogo, dove rischiavano altrimenti di prevalere i nazionalismi contrapposti, gli esclusivismi etnici, l’ignoranza e i pregiudizi reciproci, le logiche di separazione, sopraffazione od emarginazione.” Dopo aver ricordato le sue radici e le sue prime esperienze politiche sudtirolesi, “pur attraverso difficoltà, tensioni, contraddizioni, a cui Alexander Langer ha sempre saputo rispondere con le armi nonviolente della tolleranza, della comprensione, della conoscenza”, aggiungevo queste riflessioni sulla sua successiva proiezione europea: “E questa straordinaria esperienza, in una piccola terra multietnica e plurilingue, nel cuore dell’eco-sistema alpino e nel cuore dell’Europa, ha condotto Alexander Langer sempre più negli ultimi anni, di propria iniziativa e anche con incarichi ufficiali del Parlamento europeo, a conoscere e intervenire nelle drammatiche situazioni determinatesi nell’Europa centrale e orientale dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi totalitari”. Ed aggiungevo: “Nell’Europa del dopo-1989, alla straordinaria soddisfazione della ritrovata libertà dei popoli si è accompagnata anche la dilacerante esplosione di dinamiche nazionaliste e xenofobe, di implosioni etniche e di scontri razziali.” E infine concludevo: “In questo ‘terremoto umano’ dello scenario europeo di questi ultimi anni, Alexander Langer ha saputo essere protagonista di pace, tessitore di dialoghi che apparivano impossibili, costruttore di esperienze di convivenza e tolleranza, animatore di iniziative di solidarietà e cooperazione”. Tra le molte centinaia di pagine di questo ricchissimo libro Vie di pace. Frieden Schließen, mi limito a citare conclusivamente un testo di sintesi (datato Berlino, marzo 1990), preparato da Langer “Per un manifesto dei Verdi europei”, in dieci schematici punti: “0. Preambolo (gioia per l’unificazione tra est e ovest, ‘è l’ora dei verdi’). L’Europa ha urgente bisogno di una conversione ecologica basata sull’autolimitazione. Per un’Europa unita, democratica, pluri-nazionale, regionalista e federalista: in questo contesto sì all’unificazione tedesca. Sviluppare la Comunità europea in direzione tale da trasformarla in comunità pan-europea. Per un’Europa pacifica e pacificatrice: graduale e simmetrico smantellamento dei blocchi, ritiro di tutte le truppe straniere, smilitarizzazione della politica di sicurezza. Per una civiltà della sufficienza e della misura - le opportunità dell’Est, le opportunità dell’Ovest. Cooperazione, limitazione dei danni, reciprocità, integrazione tra Est e Ovest: no alla ‘sudamericanizzazione’ dell’Europa dell’Est. Cancellare i debiti finanziari dell’Est; pagare il comune debito ecologico, piuttosto che buttarsi su politiche di ‘adattamento strutturale’. L’integrazione tra Est e Ovest non può essere né forzata né comperata - ha bisogno di tempo. Unire l’Europa dal basso. L’Europa, partner solidale del sud del pianeta. Un Parlamento verde d’Europa quale forum permanente per la costruzione di un ‘Europa ecologica, pacifica, democratica, non-violenta, solidale, libertaria, giusta e fraterna”. Ci sarebbe ancora, e ancor più bisogno di Alexander Langer per questa Europa, che sta attraversando la crisi forse più difficile e grave dalla sua fondazione. Ovviamente il suo “Manifesto” dovrebbe essere aggiornato alla drammatica realtà attuale. Ma il suo pensiero sulla “conversione ecologica” (ripreso poi dall’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco), sulla “convivenza inter-etnica” e sulla capacità di costruire “ponti di pace tra gli uomini e con la natura” (in tempi di cambiamenti climatici), resta di una straordinaria attualità, soprattutto per le nuove generazioni. Il sogno di Karelin nelle carceri russe di Paolo Lepri Corriere della Sera, 19 aprile 2025 Condannato a cinque anni e mezzo di carcere, a conclusione di un processo a porte chiuse, perché ritenuto con altri tre giornalisti appartenenti ad una “organizzazione estremista” che in realtà sarebbe la “Fondazione anti-corruzione” creata da Navalny. “Papà è in viaggio per lavoro”, dicono a Mira, la figlia di Sergey Karelin, uno dei quattro giornalisti russi (gli altri sono Antonina Favorskaya, Konstantin Gabov e Artyom Kriger) condannati nei giorni scorsi a cinque anni e mezzo di carcere - a conclusione di un processo a porte chiuse - perché ritenuti appartenenti ad una “organizzazione estremista” che in realtà sarebbe la “Fondazione anti-corruzione” creata da Aleksei Navalny, l’oppositore di Putin ucciso in un carcere speciale siberiano nel febbraio 2024. Per il Cremlino informare è proibito, documentare le attività di un gruppo dissidente è un reato grave. “Ho sempre avuto il desiderio di raccontare la vita nel mio Paese e sono stato sempre sinceramente interessato ad ascoltare le opinioni non filtrate della gente”, racconta Karelin, che ha iniziato a lavorare nel videogiornalismo dal 2004. Sia lui che Gabov, arrestati entrambi nell’aprile 2024, hanno collaborato con Deutsche Welle, il cui direttore generale Peter Limbourg ha denunciato la grave violazione dello stato di diritto compiuta dal tribunale di Nagatinsky Zaton. “Ogni giorno trascorso in carcere dai quattro - ha dichiarato - è un giorno di troppo”. Secondo i dati di Reporters sans frontières citati dall’emittente pubblica tedesca (che è stata costretta nel 2022 a chiudere la sua sede di Mosca e si è dovuta trasferire a in Lettonia) la Russia è al centossentaduesimo posto, su 180, nell’indice globale sulla libertà di stampa e almeno 37 giornalisti sono stati assassinati da quando Putin è al potere. Se tutto questo è vero, come purtroppo lo è, non resta che dare voce a Karelin, del quale il giornale indipendente on-line The Moscow Times pubblica una coraggiosa memoria difensiva: “Voglio che questo sia un Paese dove le persone non siano perseguitate per le loro idee, non siano etichettate come una “quinta colonna” o trasformate in bersagli per gli altri. Sono per la libertà di espressione, per il diritto di parlare liberamente e per il diritto dei media di mostrare cosa sta accadendo in Russia. Sogno un futuro in cui i giornalisti possano lavorare senza censure e pressioni”. C’è anche un pensiero, naturalmente, per la sua bambina “Non so - dice a se stesso e al mondo - quando potrò rivederla”. Con i talebani a Kabul sono tornate lapidazione e tortura di Sergio D’Elia L'Unità, 19 aprile 2025 Nella mezzaluna islamica che stringe in una morsa il Golfo Persico, il rito funebre della pena di morte non s’interrompe mai nel corso dell’anno. A volte, il ritmo mortale supera quello della preghiera collettiva del venerdì. In Iraq, la resa dei conti dell’occhio per occhio avviene una volta alla settimana, in Arabia Saudita almeno una volta al giorno, in Iran anche due volte al giorno. Insieme, ogni anno, si piazzano ai primi posti tra i Paesi-boia al mondo con quasi 1.500 esecuzioni. Fuori gara, al primissimo posto, oltre ogni primato e calcolo attendibile, c’è la Cina. Nonostante il segreto ferreo sulla pena di morte, non foss’altro per il numero di abitanti, l’ampio spettro di reati capitali e la durezza del regime comunista, è fin troppo facile stabilire che la Cina sia il campione del mondo di esecuzioni. Ma i più affezionati e irriducibili partigiani della legge della Sharia sono senza dubbio l’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita. I primi due giustizieri islamici amano la forca. Quella irachena è sempre la stessa, nella prigione di Nassiriya, dove l’Iraq liberato da Saddam Hussein ha mantenuto le abitudini del vecchio dittatore: la pratica della tortura e la pena di morte. La forca iraniana, invece, funziona in serie, come una catena di montaggio, ne impicca cinque, sei alla volta, nel segreto del cortile di una prigione o sulla pubblica piazza, dove i malcapitati attendono con gli occhi bendati che un calcio improvviso allo sgabello gli faccia mancare la terra sotto i piedi o che il gancio di una gru li tiri d’un colpo all’insù con la corda azzurra stretta attorno al collo. Il terzo giustiziere, quello saudita, predilige la spada che nel Regno di Bin Salman si abbatte senza tregua sulla testa del condannato poggiata su un ceppo di legno all’ombra della moschea principale vicina al luogo del delitto. Nel mondo islamico dove detta legge la Sharia, s’affaccia ora un altro fanatico sunnita. In Afghanistan, sono tornati i Talebani con le loro barbe lunghe e le mitragliatrici piantate sui pick-up. Sono ancora fermi all’età della pietra che usano non per costruire case ma per lapidare adultere e traditori del sacro vincolo del matrimonio. Non praticano spesso le esecuzioni, ma quando le fanno, le espongono al mondo in maniera spettacolare. In un giorno, ai primi di aprile, quattro uomini sono stati giustiziati in tre diverse città. Il giorno prima, i Talebani avevano fustigato in pubblico 13 persone, tra cui 5 donne, nelle province di Khost e Jawzjan con accuse che vanno da “relazioni illecite” e “fuga dalla propria casa” a blasfemia, corruzione e falsa testimonianza. Da quando sono tornati al potere nell’agosto 2021, i Talebani hanno emesso 176 sentenze capitali e giustiziato almeno 10 persone. Altre 37 persone sono state condannate alla lapidazione e 4 al crollo di un muro su di loro, una punizione che risale agli albori della storia islamica. Tra marzo 2024 e marzo 2025, almeno 456 persone, tra cui 60 donne, sono state fustigate. I Talebani non amano la corda, preferiscono il fucile che, oltre alla pietra, è l’arma più usata nel Paese. Due uomini, identificati come Soleiman and Haidar, sono stati uccisi a Qala-i-Naw. Sono stati portati allo stadio di calcio, li hanno costretti a sedersi per terra al centro del campo, i parenti delle vittime si sono piazzati dietro le spalle e gli hanno sparato sei o sette colpi di pistola. I condannati avevano offerto il prezzo del sangue, ma i familiari della vittima l’hanno rifiutato. Gli abitanti del luogo erano stati invitati vivamente a “partecipare all’evento” con avvisi ufficiali ampiamente diffusi il giorno prima. Non tutti hanno gradito lo spettacolo. Secondo testimoni oculari, le scene erano orribili, alcuni sono scoppiati in lacrime. Lo stesso giorno, un altro uomo, di nome Mohammad Sadi, è stato giustiziato nella città di Farah. Il quarto, giustiziato a Zaranj, si chiamava Abdul Qadir ed era molto giovane. “Speravo che la famiglia cambiasse idea, m a non l’ha fatto. È stato insopportabile. Non andrò mai più a un’esecuzione”, ha detto uno spettatore. Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sull’Afghanistan ha descritto gli episodi come gli ultimi di una lunga serie di violazioni dei diritti umani da parte dei Talebani. Da Kandahar, il cuore pulsante del mondo talebano, dove vive, diffonde sermoni e firma ordinanze coraniche, Hibatullah Akhundzada, il capo del gruppo, ha respinto ogni critica e inquadrato il sostegno alla sua leadership come una questione di lealtà religiosa. “Così come Dio ha ordinato la preghiera, ha ordinato la retribuzione in natura”, ha affermato. “Coloro che stanno con me stanno con Dio, stanno sostenendo la Sua legge”. Iran e Iraq, Arabia Saudita e Afghanistan. I primi due paesi sono sciiti, gli altri due sunniti, tutti e quattro sono ispirati dal Corano. A bene vedere, la visione religiosa non c’entra, essi resistono strenuamente al rispetto dei diritti umani e a ogni istanza di cambiamento che pure spira nel mondo islamico e che quasi ovunque ha superato usi e costumi fuori dal mondo, fuori dal tempo.