In che mondo vogliamo vivere di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 18 aprile 2025 A proposito della ulteriore “chiusura nella chiusura” delle persone detenute in Alta Sicurezza. Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza. Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri in redazione Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, ‘mettere in piazza’ i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto ‘a pane e malavita’ guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io”. Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili. Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure, chi sta trasformando le carceri in luoghi di rabbia e degrado, non invidio chi non crede nella possibilità del cambiamento e vede intorno a sé solo nemici. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio e a guardare avanti e a dare fiducia agli esseri umani, anche quelli che ci sembrano i peggiori. Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ADESIONI PERVENUTE Il Coordinamento Carcere Due Palazzi Padova condivide il forte messaggio di dolore e di fiera testimonianza della direttrice di Ristretti.(Granello di Senape ODV Padova/Ristretti Orizzonti, OCV Operatori Carcerari Volontari, OCV Bambini, Cooperativa sociale Giotto, Cooperativa sociale AltraCittà, Cooperativa sociale WorkCrossing, Cooperativa sociale Volontà di Sapere, Teatrocarcere Due Palazzi, Amici della Giotto, Coristi per caso, Matricola Zero, Momart, Pallalpiede, Progetto Jonathan VI, Scuola Edile, Ordine Avvocati Padova, Camera penale Padova Commissione carcere. Adesioni individuali Padova. Terzo Settore Padova. Attilio Favaro, Lucio di Gianantonio, Emmanuela Bortoliero, Concetta Fragasso, Nicola Boscoletto, Gianluca Chiodo, Andrea Basso, Francesca Rapanà, Matteo Marchetto, Giovanni Todesco, Rossella Favero, Massimo Quadro, Antonella Pan, Alessandra Andreose, Alberto Danieli, Cristina Luca, Christine Rossi, Anna Maria Alborghetti, Paola Menaldo, Giulia Lanza. Biblioteca Tommaso Campanella Casa di reclusione di Padova/Operatori AltraCittà e Granello di Senape. (Marina Bolletti, Agnese Solero, Bruna Casol, Paola Ellero, Sandro Botticelli, Manuela Mezzacasa, Giovanna Guseo, Elena Contri, Rossella Favero) Garante delle persone private della libertà del Comune di Padova, Antonio Bincoletto. Il Garante comunale, anche alla luce dell' esperienza precedentemente fatta nel progetto A scuola di libertà, esprime perplessità per la misura presa e manifesta la massima solidarietà alla redazione. Siamo convinti che le chiusure in corso non creeranno maggior sicurezza né nel carcere né fuori, ma produrranno solo maggiore senso di frustrazione e ridurranno i già scarsi spazi per il trattamento e la rieducazione intramuraria. Adolfo Ceretti. Insegna Criminologia all'Università di Milano-Bicocca ed è coordinatore scientifico dell'Ufficio di mediazione penale di Milano. Tra i suoi libri: "Cosmologie violente", scritto con Lorenzo Natali (Raffaello Cortina, 2009) e "Oltre la paura", scritto con Roberto Cornelli (Feltrinelli, 2013). Luisa Ravagnani, garante comunale di Brescia Antigone Veneto Maura Gola, responsabile sociale coop.ve sociali presso Ethica onlus Marco Boato, deputato alla Camera per 5 legislature e senatore della Repubblica nella X legislatura Mauro Pescio. Attore, autore e podcaster Il Dap esclude da Ristretti Orizzonti i detenuti di "Alta Sicurezza" padovaoggi.it, 18 aprile 2025 Ornella Favero: "Nella logica di non farli respirare". Ristretti Orizzonti ha ricevuto la notifica che comunica l'esclusione dei detenuti di Alta sicurezza, dopo anni di collaborazione, dalla partecipazione ai lavori della redazione. "Queste persone che prima erano coinvolte in attività e progetti si ritrovano di nuovo isolate nelle loro sezioni". La comunicazione è arrivata dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, il Dap, che dipende dal Ministero della Giustizia. Ristretti Orizzonti ha infatti ricevuto la notifica che comunica l'esclusione dei detenuti di Alta sicurezza, dopo anni di collaborazione, dalla partecipare ai lavori della redazione. "Sono dodici anni che facciamo questa sperimentazione, non c'è stato mai nessun problema. Oggi queste persone che prima erano coinvolte nella redazione si ritrovano di nuovo isolate nelle loro sezioni. Mentre prima facevano un lavoro che permetteva loro partecipare ai progetti e iniziative importanti, oggi sono di nuovo isolate. La redazione rappresenta per loro una finestra sul mondo. Se si vuol far cambiare e crescere le persone non c'è altra via che coinvolgerli in progetti e attività che li aiutino in questo percorso. Incontrare ad esempio le vittime dei reati è un modo per innescare questo processo positivo. Da adesso però queste cose non si potranno più fare", ci dice al telefono Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, presidente Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia. "La nuova circolare sui detenuti di alta sicurezza è concepita nella logica del "non lasciateli respirare". Non lascia spazi di cambiamento", ci dice facendo riferimento a quanto dichiarato dal sottosegretario Andrea Delmastro che proprio rivendicando questa affermazione ha scatenato un polverone. "L'affermazione che i mafiosi non cambiano mai è corretta solo se gli si impedisce di far parte di una realtà diversa che non sia la loro. Se li si tiene sempre e solo tra di loro, che percorso possono fare a parte il fatto di rafforzare in loro la convinzione di essere vittime di un sistema, quando non lo sono. Oggi però si è scelto di ritornare all'antico, se non peggio". Anche il Garante comunale, Antonio Bincoletto, anche alla luce dell' esperienza precedentemente fatta nel progetto "A scuola di libertà", ha espresso perplessità per la misura presa e ha manifestato la massima solidarietà alla redazione. "Siamo convinti che le chiusure in corso non creeranno maggior sicurezza né nel carcere né fuori, ma produrranno solo maggiore senso di frustrazione e ridurranno i già scarsi spazi per il trattamento e la rieducazione intermuraria". Ornella Favero ha scritto una lettera aperta a cittadinanza e istituzioni: "Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza", scrive Favero. "Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, ‘mettere in piazza’ i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto ‘a pane e malavita’ guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io", prosegue la direttrice di Ristretti Orizzonti. "Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal DAP la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili". La direttrice di Ristretti Orizzonti fa poi una considerazione molto più generale: "Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure, chi sta trasformando le carceri in luoghi di rabbia e degrado, non invidio chi non crede nella possibilità del cambiamento e vede intorno a sé solo nemici. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio e a guardare avanti e a dare fiducia agli esseri umani, anche quelli che ci sembrano i peggiori". Conclude infine Favero: "Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. Censure preventive, espulsioni di volontari, chiusure: a rischio i giornali in carcere di Francesca Fulghesu lasestina.unimi.it, 18 aprile 2025 La lettera aperta del Coordinamento dei giornali carcerari: “Garantire la libertà di espressione”. Nel mirino i racconti di disagio e sovraffollamento. Censure preventive, espulsioni di volontari, chiusure. Se le condizioni di un carcere si misurano anche sulla base dei diritti garantiti alle persone detenute, la situazione in cui versano i giornali fatti dai detenuti suona come un campanello d’allarme. Risale al 7 gennaio scorso la chiusura della Fenice, la testata del carcere di Ivrea. Ma già prima in tutta Italia molte redazioni hanno subito pressioni per limitare i temi trattati e in alcuni casi si sono trovate costrette a espellere alcuni volontari o a sottoporre preventivamente la lettura del giornale alla direzione del carcere per averne l’approvazione. La lettera - Per questo il coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere ha pubblicato una lettera aperta in cui rivendica l’importanza della libertà di espressione e in cui chiede che le redazioni vengano ricevute dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. “L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario - si legge nella lettera - dando concreta applicazione all’art. 21 della Costituzione, così recita al comma 8: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”“. Nella lettera le redazioni lamentano anche la mancanza di strumentazione adeguata e i rallentamenti burocratici: “Se l’attività giornalistica nei penitenziari è ritenuta una risorsa importante per il dialogo tra realtà detentiva e società esterna, perché le Istituzioni non semplificano le procedure e accorciano i tempi di tante estenuanti attese?”. La censura - A essere finiti nel mirino delle direzioni carcerarie sono in particolare i temi trattati dalle riviste. Tra storie personali, testimonianze interne al carcere e racconti personali, la voce delle persone detenute racconta dall’interno le condizioni delle carceri italiane: sovraffollamento, problemi igienico-sanitari, qualità del cibo, disagio psico-fisico. “Raccontano ciò che vivono: gli spazi ristretti, l’acqua fredda, la convivenza forzata”, conferma Giancarlo D’Adda, giornalista volontario nel carcere di Monza. “È grave che in alcune carceri abbiano proibito di trattare alcune tematiche”. Come nel carcere di Lodi, dove è vietato scrivere di sessualità, affettività e migranti: “Se si pensa a quanti detenuti sono stranieri si comprende quanto sia assurdo e pericoloso proibire loro di parlare del proprio background migratorio”. Gli altri casi - A Rebibbia è stato chiesto di non firmare i pezzi. A Trento un volontario, Piergiorgio Bortolotti, è stato dichiarato “non gradito” dopo dieci anni di attività. Quasi ovunque le redazioni non dispongono di strumenti elementari di lavoro, come computer e chiavette usb. Ma il timore di volontari e testate è che sia una situazione destinata a espandersi anche in altre carceri: “Per ora a Monza non ci sono mai state censure preventive, ma il timore nostro e di tutte le redazioni d’Italia è che arrivino disposizioni dall’alto che potrebbero vanificare il nostro lavoro”, racconta D’Adda. Che aggiunge: “Vanno contro la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario in un contesto già reso grave dal nuovo decreto sicurezza”. Il Papa va a Regina Coeli e chiede ai detenuti: “Perché voi e non io?” di Piero Sansonetti L'Unità, 18 aprile 2025 Uno ascolta il ministro Nordio che affronta il problema delle carceri spiegando che risolverà il sovraffollamento con dei container di metallo che diventeranno le nuove celle. Poi lo sente di nuovo rispondere con un no secco alla richiesta di amnistia avanzata non da “Nessuno tocchi Caino” - che, si sa, sono estremisti… - ma dall’Anm, cioè dai magistrati. E pensa: è finita. Però qualche giorno dopo viene tirato giù dalla torre d’avorio, perché c’è un signore vestito tutto di bianco, molto malato, 88 anni, cattolico, che il Giovedì Santo invece di andare a trovare l’imperatore va a regina Coeli, chiede scusa ai prigionieri perché il suo fisico non gli permette di inginocchiarsi, e poi pronuncia questa frase fantastica, poetica, politica nella sua essenza profonda: “Mi chiedo, perché loro e non io?”. Non si limita ad un atto di misericordia, di solidarietà, di amore. Più drammaticamente, con la leggerezza del suo stile, chiede alla politica a che cosa serve la prigione. E propone di abolirla. Non si può interpretare in nessun modo quella frase. Il papa si considera colpevole esattamente come il più feroce dei prigionieri. Che abisso morale con l’establishment. Ronald Reagan ricordo, qualche settimana prima di concludere il suo mandato, andò a Berlino e gridò, sotto il muro: “Mister Gorbaciov, tear down this wall”. Tira giù questo muro. Gorbaciov lo ascoltò. Bergoglio ha ripetuto quel grido: “Signora Meloni, tiri giù queste sbarre”. Non so se lo ascolteranno. Nuova uscita del giovedì santo per papa Francesco, questa volta nel pomeriggio, in macchina, per recarsi nel vicino carcere romano di Regina Coeli, dove era già stato sempre nel giovedì santo ma del 2018. In quell’occasione aveva celebrato la messa in Coena Domini con il tradizionale rito della lavanda dei piedi. Molto più breve il passaggio di quest’anno a causa della convalescenza ancora in corso e tutti i tempi sono stati anticipati. Nel primo pomeriggio il Papa è arrivato sulla 500 bianca con i vetri oscurati, è stato accolto dalla direttrice, Claudia Clementi, e dal personale del carcere. È entrato direttamente nella rotonda centrale dove erano radunati circa 70 detenuti per un breve momento di preghiera e di saluto. È stato salutato con un’ovazione: dalle celle si sentivano fino in strada le grida dei detenuti: “Francesco Francesco”, alternate con “Libertà Libertà”. Papa Francesco ha espresso il suo desiderio di essere presente tra i detenuti: “A me piace fare tutti gli anni quello che ha fatto Gesù il Giovedì Santo, la lavanda dei piedi, in carcere”. E ha aggiunto: “Quest’anno non poso farlo, ma posso e voglio essere vicino a voi. Prego per voi e per le vostre famiglie”. “Vivrò la Pasqua come posso”, ha detto Francesco rispondendo ai giornalisti all’uscita dal carcere. E a una successiva domanda su come trascorrerà questa Pasqua, ha risposto: “Come posso”. Poi di nuovo una considerazione: “Ogni volta che entro in un posto come questo mi domando perché loro e non io”. Era il 26 dicembre 2024, pochi mesi fa, quando Papa Francesco ha aperto la Porta Santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia. In quell’occasione aveva celebrato la messa ed incontrato personalmente alcuni detenuti. Nell’omelia aveva ribadito la necessitò di non perdere la speranza. Ed anche in quell’occasione, parlando poi con i giornalisti, aveva commentato: ogni volta mi domando perché loro e non io. All’indomani dell’inizio del Giubileo, a Rebibbia aveva detto che “è un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte. Ma più importante è quello che significa: è aprire il cuore. Cuori aperti. E questo fa la fratellanza. I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza”. E subito dopo: “A me piace pensare alla speranza come all’àncora che è sulla riva e noi con la corda stiamo lì, sicuri, perché la nostra speranza è come l’àncora sulla terraferma. Non perdere la speranza. È questo il messaggio che voglio darvi; a tutti, a tutti noi. Io il primo. Tutti. Non perdere la speranza. La speranza mai delude. Mai. Delle volte la corda è dura e ci fa male alle mani … ma con la corda, sempre con la corda in mano, guardando la riva, l’àncora ci porta avanti. Sempre c’è qualcosa di buono, sempre c’è qualcosa che ci fa andare avanti”. Il tema della speranza era presente nella prima visita a Rebibbia, il giovedì santo del 2018. In quell’occasione c’era stata la messa e l’omelia, e poi al termine dei saluti, papa Francesco aveva voluto rivolgere di nuovo la parola a tutti i detenuti. “Ci sono le difficoltà nella vita, le cose brutte, la tristezza - uno pensa ai suoi, pensa alla mamma, al papà, alla moglie, al marito, ai figli … è brutta, quella tristezza” - aveva detto. “Ma non lasciarsi andare giù: no, no. Io sono qui, ma per reinserirmi, rinnovato o rinnovata. E questa è la speranza. Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza. Per questo, non è né umana né cristiana la pena di morte. Ogni pena dev’essere aperta alla speranza, al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone”. Oggi il primo “colloquio intimo” nella storia delle carceri italiane di Irene Famà La Stampa, 18 aprile 2025 Apre oggi nel carcere di Terni la prima stanza dell'affettività, consentita dalla Consulta che mira a permettere ai detenuti la possibilità di incontrare in intimità le mogli e le compagne stabili. Si svolgerà subito il primo incontro, autorizzato dal giudice di sorveglianza di Spoleto. Sono appena 32, almeno per ora, gli istituti di pena in Italia che potranno allestire, vista la necessità di spazi idonei, la stanza dell'affettività. Ma sono subito sorte polemiche: l'Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria) attraverso il segretario generale Leo Beneduci, punta il dito contro il provvedimento che potrebbe portare le compagne dei detenuti a essere costrette a sottoporsi a questi incontri, mentre magari vorrebbero allontanarsi dai propri mariti. Beneduci parla di una “interpretazione offensiva della sentenza costituzionale, ridotta a mera licenza per rapporti sessuali senza alcun supporto sanitario e trattamentale che giustifichi la finalità rieducativa”. Senza contare che le stanze dell'affettività, che prevedono comunque che la porta rimanga aperta per i controlli, hanno bisogno poi di personale che si occupi di pulizia e verifiche varie, come fanno notare i sindacati penitenziari. “Niente stanze dell’amore, non siamo guardoni”, la rivolta della Polizia all’affettività in carcere di Errico Novi Il Dubbio, 18 aprile 2025 Durissima lettera del Sappe, sindacato “di destra” degli agenti penitenziari, contro l’apertura del Dap al diritto sancito dalla Consulta. Il punto è che i detenuti sono troppo “mostrificati” perché si possa loro concedere una “sessualità”. Si deve fare appello al disincanto, se si vuol star dietro alla rivolta di alcuni sindacati di polizia, e del “Sappe” in particolare, contro l’apertura all’affettività nelle carceri. Il brusio montato per giorni nelle chat degli agenti è definitivamente deflagrato nella lettera inviata lunedì dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria, il Sappe appunto, al sottosegretario Andrea Delmastro e a Massimo Parisi, direttore del Personale al Dap. Una nota in cui il segretario Donato Capece bolla come “inaccettabile” che “si chieda a donne e uomini già fortemente gravati da turnazioni estenuanti, di assumersi ulteriori compiti, peraltro estranei alla loro funzione istituzionale, come la vigilanza e la gestione di rapporti intimi all'interno degli istituti”. Ancora: “Non possiamo tollerare che la dignità professionale dei poliziotti penitenziari venga svilita fino al punto da renderli, di fatto, custodi dell’intimità altrui. Noi non ci siamo arruolati per diventare “guardoni di Stato”, né accetteremo che tale ruolo improprio venga normalizzato per l’assenza di un progetto credibile, serio e sostenibile”. Un’escalation di smarrimento e frustrazione. E si potrebbe rispondere in vari modi. Si potrebbe far notare che il voyerismo o è volontario o non è. Accompagnare un recluso e la sua compagna in una sezione in cui possano appartarsi non comporta affatto che si sia costretti a spiare. Ma si rischia di ridursi a grilli parlanti. Si rischia di avvalorare indirettamente l’idea del Sappe secondo cui la circolare diffusa dal Dap con le istruzioni per allestire gli spazi destinati all’affettività risponda a uno spirito “più ideologico che operativo”. C’è dell’altro, e affiora anche grazie alla nota diffusa, sulla vicenda, da Jacopo Morrone, deputato della Lega, partito che al Sappe è stato spesso legato da un rapporto di osmosi. Secondo il parlamentare, la circolare del Dap contestata dai “baschi azzurri” sconcerta anche perché non esclude del tutto da questo tipo di incontri “i detenuti che compiono seri illeciti disciplinari o che sono ristretti nelle sezioni ‘art. 32’ per i loro reiterati comportamenti aggressivi”. Poco più avanti Morrone aggiunge: “C’è una sottovalutazione dei possibili fruitori di questo ulteriore benefit”. Insomma, l’idea che si ricava da questa ribellione a un diritto sancito come tale dalla Consulta è nel considerare i detenuti come uomini e donne. Nulla più della sessualità è “umano”, ed è qui la radice dello sconcerto. Il nuovo diritto entra in contraddizione con un’idea sedimentata, secolare (e non concepita certo né dal Sappe né dall’onorevole Morrone) che tende a “mostrificare” i carcerati. La narrazione collettiva, da sempre, identifica il “colpevole” col subumano, il mostro appunto. E perché mai i subumani, e i mostri, dovrebbero avere una sessualità al pari degli umani? C’è poi quell’obiezione sui “comportamenti aggressivi”: ma la sessualità dovrebbe casomai venire incontro, nella gestione di profili del genere. O pensiamo di risolvere tutto a botte di psicofarmaci? Siamo convinti che il Sappe non intenda affatto ridurre il principio costituzionale della “umanità della pena” alla somministrazione di benzodiazepine. E siamo certi che Morrone volesse solo abbandonarsi a un’iperbole, nel citare le “critiche” dei “cittadini” che “continuano a considerare le carceri come un luogo di espiazione della pena, di rieducazione e reinserimento lavorativo e non ‘case di piacere’ per qualcuno”. Nelle case di piacere, in genere, non ci si suicida. Decreto Sicurezza, i rilievi dei tecnici. Sulla cannabis la partita si sposta in Ue di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2025 Raccomandati chiarimenti su sette punti. Bodycam e videocamere anche nei Cpr?. Sicurezza, si riparte da capo. Il decreto 48/2025 approvato i14 aprile dal Consiglio dei ministri, che ricalcai contenuti del vecchio Ddl Sicurezza finito su un binario morto in Senato, è approdato alla Camera nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia (C 2355) dove mercoledì è cominciato l'esame. Accompagnato puntualmente dal dossier del Servizio studi, che a sua volta aggiorna le osservazioni presentate al disegno di legge. “Il decreto in esame - si legge - riproduce sostanzialmente i contenuti del disegno di legge Sicurezza: confrontando i testi risulta che 12 articoli su 39 hanno subito modifiche, anche minime”. Undici disposizioni introducono nuovi reati o ne modificano la fattispecie e altre introducono nuove aggravanti o le cambiano. È legittimo farlo ricorrendo alla decretazione d'urgenza? Non è una novità: nella legislatura in corso altri sei decreti, sui 94 emanati sinora, intervenivano su reati e aggravanti (dall'incendio boschivo al delitto di morte o lesioni come conseguenza del traffico di esseri umani); nella XVIII legislatura è accaduto con 12 Dl sui 146 approvati (dal revenge porn alle dichiarazioni false per ottenere il reddito di cittadinanza). A sostegno dell'inesistenza di un divieto il dossier cita la giurisprudenza costituzionale, ricordando però alcuni problemi di natura applicativa. La premessa non rende il provvedimento inattaccabile. In sette casi il dossier invita a “valutare l'opportunità” di chiarimenti. Il più rilevante riguarda il via libera a bodycam e videocamere nei luoghi in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. “Appare suscettibile di approfondimento se la norma sia applicabile anche al trattenimento dello straniero presso i Cpr”, recita il dossier. E resta indeterminato “a chi competa la scelta” sull'uso dei dispositivi. Sul nuovo reato di occupazione abusiva di immobile destinato a domicilio altrui risultano ancora non coordinati i passaggi relativi alle pertinenze della casa. Due rilievi concernono le disposizioni riformulate sulle detenute madri. In particolare, nel punto in cui si differenzia il trattamento in caso di arresto o fermo tra le donne con figli sotto l'anno (condotte negli istituti a custodia attenuata) e quelle con figli tra uno e tre anni (per cui gli Icam sono solo una possibilità) i tecnici invitano a precisare se, per queste ultime, la custodia possa essere disposta dal Pm solo ove non siano possibili gli arresti domiciliari. Sullo stop alla cannabis light (il Dl vieta produzione e commercializzazione delle infiorescenze di canapa e derivati e salva solo la produzione di semi), il dossier non formula osservazioni, ma ricorda che la normativa è stata oggetto di petizione al Parlamento europeo, per il rischio che la stretta possa compromettere il mercato unico, la competitività e l'occupazione. La commissione ad hoc dell'Europarlamento il 27 marzo ha avviato un confronto col Governo e per la Dg Agricoltura della Commissione Ue “la normativa italiana è ancora oggetto di valutazione”. Gli eurodeputati del Pd Stefano Bonaccini, Camilla Laureti e Dario Nardella, in un'interrogazione a Bruxelles, hanno posto di nuovo la questione della compatibilità delle norme con il diritto Ue, chiedendo anche se l'alt italiano non debba “passare per la procedura di prevenzione degli ostacoli tecnici al commercio (Tris)”. In gioco, sostengono, c'è la demonizzazione di un settore “da oltre 3mila imprese che impiega fino a 30mila lavoratori”. Decreto Sicurezza: la Regione Emilia Romagna verso il ricorso alla Consulta di Leonardo Fiorentini L'Unità, 18 aprile 2025 Sì dell’Assemblea regionale a una risoluzione di Avs-Coalizioni civiche -Possibile per fermare la conversione del decreto e ricorrere alla Corte. La Regione Emilia-Romagna ha preso una netta posizione contro il “Decreto Sicurezza” del Governo Meloni. Con una risoluzione votata il 16 aprile da tutta la maggioranza, l’Assemblea legislativa ha chiesto alla Giunta di attivarsi urgentemente per fermare la conversione del provvedimento e, qualora ne sussistano i presupposti, di ricorrere alla Corte costituzionale. Il testo, a prima firma Paolo Trande (AVS - Coalizioni civiche - Possibile), è stato presentato insieme ai colleghi di gruppo Simona Larghetti e Paolo Burani e al consigliere Giovanni Gordini (Civici), e critica duramente il decreto, sottolineando come esso rappresenti un ulteriore passo “in un consapevole percorso di criminalizzazione e repressione del dissenso da parte del Governo”, che, di fronte a “instabilità e malcontento, al disagio sociale e alla marginalità, risponde col carcere”. Un passaggio significativo della risoluzione è dedicato all’articolo 18 che colpisce duramente il settore della canapa industriale, vietando la produzione e la vendita delle infiorescenze - pur prive di qualunque effetto psicoattivo - e assimilando il loro trattamento sanzionatorio a quello delle sostanze psicotrope. La risoluzione denuncia le “importanti ricadute sul versante occupazionale” in una filiera che in Emilia-Romagna era saldamente insediata, anche perché proprio qui rappresenta una coltura tradizionale con radici millenarie. Non è un caso: oltre ad appellarsi ai Presidenti delle Camere perché il decreto non sia convertito in legge, il documento - grazie a un emendamento presentato da AVS, PD, M5S e Civica - impegna anche la Giunta regionale a valutare se le norme intervengano su materie di competenza regionale, come lo sono ad esempio le politiche agricole, o comunque su “i principi e le disposizioni fondamentali della Costituzione”, al fine di elaborare un ricorso alla Corte costituzionale. Come ha affermato la capogruppo di AVS, Simona Larghetti, “aumentare il numero di reati non aumenta la sicurezza, ma solo il controllo sociale e le possibilità di zittire opinioni politiche in disaccordo con quelle dell’attuale Governo”. Il consigliere Burani ha aggiunto che “il nuovo decreto è il manifesto politico di un governo che ha scelto di criminalizzare il dissenso, intimidire le libertà civili, colpire chi lotta per i diritti e per il clima. Non è una svista, è una strategia.” Si apre così una nuova possibile strada di conflitto nei confronti della stortura messa in atto dal Governo, che - sottraendo al Parlamento norme che erano pronte per essere approvate - ha dimostrato la propria incuranza dei principi democratici. Vedremo se altre regioni percorreranno la strada emiliano-romagnola. Altre questioni di legittimità costituzionale saranno probabilmente presto sollevate incidentalmente nei tribunali. Una prima eccezione è già stata presentata a Milano, per due casi di resistenza a pubblico ufficiale a cui è stata applicata la nuova aggravante introdotta dal decreto. Del resto, le norme hanno cominciato a dispiegare i primi effetti già nel primo weekend dopo l’entrata in vigore, con episodi preoccupanti come la violenta carica del corteo per la Palestina a Milano e i manganelli contro il rave a Torino. Il decreto è stato applicato anche in Albania, contro una decina di “ospiti” del CPR che, dopo aver protestato per essere stati deportati a loro insaputa nell’enclave albanese, sono stati trasferiti nel carcere limitrofo. Un esempio lampante di come un apparato normativo possa essere di per sé criminogeno. Una ragione in più per sostenere le azioni di lotta collettiva e scendere in piazza il prossimo 31 maggio insieme alla rete nazionale “A pieno regime”. Meloni ordina la tregua armata con l’Anm, salta la giornata dedicata ai “casi Tortora” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 aprile 2025 La premier non vuole alimentare la tensione con le toghe in vista del referendum sulle Carriere separate e sacrifica la proposta sulle vittime di errori giudiziari. Lo avevamo anticipato noi da mesi su questo giornale, lo ha confermato il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, due sere fa nell’Aula della Camera: su volontà del Governo, la proposta di legge per l’istituzione della giornata per le vittime di errori giudiziari dedicata a Enzo Tortora non s’ha da fare. Il motivo? Non dare fastidio ai magistrati fino al referendum sulla separazione delle carriere e soprattutto non trasformarli in vittime dinanzi ai cittadini. L’indicazione arriverebbe direttamente da Palazzo Chigi, dalla premier Giorgia Meloni. Le forze di maggioranza si sono dovute adeguare non senza qualche mal di pancia. La presidente del Consiglio non vuole trasmettere il messaggio per cui il potere legislativo vorrebbe umiliare quello giudiziario agli occhi degli elettori, quegli stessi elettori che in primavera dovranno esprimersi sulla riforma costituzionale della giustizia. “Succederà che - ha detto il parlamentare Giachetti durante la discussione generale sul provvedimento - nelle prossime settimane, arriverà la richiesta di rinvio in Commissione, rimandandola ad altri momenti, perché c’è l’ipocrisia e c’è anche la paura. Una paura un po’ strana perché ci è stato spiegato ampiamente sui giornali e nelle interviste che non si vuole fare questo provvedimento così devastante per non urtare la sensibilità dei magistrati, in particolare dell’Associazione nazionale magistrati, che si sono messi contro questa proposta di legge e non li si vuole, come dire, irritare perché già c’è il provvedimento principale, quello sulla separazione delle carriere, che dev’essere portato in porto”. Giachetti ha proseguito: “La cosa divertente è che non si possono fare cose che irritano l’Anm, ma poi c’è il Sottosegretario Mantovano, il Sottosegretario più di fiducia della Presidente Meloni, che, quando si alza la mattina e decide di menare fendenti e bordate contro l’Associazione nazionale magistrati, contro i magistrati che fanno politica, eccetera, allora va bene, perché qui c’è qualcuno che, evidentemente, pensa di non irritare, dicendo cose molto peggiori di quello a cui può portare un’iniziativa di questo tipo, e gli altri devono, come dire, sottacere”. Le parole di Giachetti, sempre acuto nelle sue analisi politiche, rispecchiano quello che vi abbiamo descritto in queste settimane: da una parte la premier Giorgia Meloni e il ministro della giustizia Carlo Nordio pronti a fare da pompieri sui fuochi di scontro con le toghe, e dall’altra parte Alfredo Mantovano che invece sembra alimentarli. La presidente del Consiglio e il Guardasigilli hanno ben compreso che occorre mettere in atto questa strategia che punta alla tregua armata fino a quando non avranno raggiunto il risultato desiderato: la vittoria referendaria. Sarebbe un autogol minare la credibilità della magistratura dinanzi ad una parte di elettorato di destra favorevole al lavoro delle toghe e al loro ruolo di controllori della legalità. Tanto è vero che insieme a questa proposta di legge Tortora è stata messa ai box la riforma sulla custodia cautelare, il ddl per limitare l’uso dei captatori informatici, le linee guida sui criteri dell’azione penale da imporre alle procure, l’istituzione di una Commissione d' inchiesta monocamerale sulla magistratura voluta dal forzista Enrico Costa, la modifica della legge Severino. Certo, come ha detto Matilde Siracusano, Sottosegretaria di Stato per i Rapporti con il Parlamento, replicando a Giachetti “questo è il Governo che forse ha fatto di più in tema di giustizia, in tema di garantismo. Mi riferisco non soltanto alla madre di tutte le riforme, che è la separazione delle carriere” ma “anche all’abolizione dell’abuso d’ufficio, all’approvazione della legge che limita a 45 giorni le intercettazioni - quindi, che vuole limitare l’abuso delle intercettazioni -, al recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza, con il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare sui giornali”. E però ad un certo punto dall’alto qualcuno ha detto “stop”. Vietato far passare l’idea che il governo voglia umiliare la magistratura attraverso riforme, spesso targate Forza Italia, che sarebbero percepite troppo garantiste dai sostenitori di Fratelli d’Italia e Lega. Ubriaco alla guida fece morire due amici. La pena da scontare? Lo racconterà nelle scuole di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 18 aprile 2025 Duemila ore di servizio pubblico, primo caso in Italia. La pena di tre anni per duplice omicidio stradale aggravato la sconterà effettuando 2.190 ore di servizi di pubblica utilità e, tra queste, anche andando nelle scuole a raccontare il dolore di far perdere la vita ai due amici più cari per aver guidato ubriaco in quella terribile serata di due anni e mezzo fa. Per la prima volta in Italia, la giudice per l’udienza preliminare Claudia Ardita ha applicato la misura sostitutiva della detenzione al ragazzo mestrino di 25 anni che la vigilia di Natale del 2022 alla fine del Ponte della Libertà, tornando verso Mestre, si era schiantato con l’auto contro il muretto laterale nel punto in cui la strada si restringe, causando la morte dei suoi due amici più cari. Il gruppetto di giovani tornava da una serata trascorsa all’Argo 16, un locale di Marghera. Erano le cinque del mattino ed erano tutti stanchi. Si era bevuto, anche. Era l’antivigilia di Natale e i tre amici d’infanzia e di liceo da Mendrisio in Svizzera, dove studiavano all’Accademia di architettura, erano tornati a Mestre per passare le feste in famiglia; con loro c’era anche la ragazza di uno. Di ritorno verso la terraferma, però, l’automobile aveva sbandato poco prima del sovrappasso pedonale all’altezza di via Righi ed era finita contro il muro che divide la sede stradale dalle rotaie del tracciato ferroviario e poi si era avvitata su se stessa, distruggendosi. Un giovane era morto sul colpo, l’altro poco dopo in ospedale. Gli altri due ragazzi, quello che era alla guida e la fidanzata di una delle vittime, erano rimasti feriti. Dagli esami eseguiti poco dopo l’incidente, era emerso che il conducente aveva nel sangue un tasso alcolemico di 1,50 grammi per litro, il triplo di quanto consentito dalla legge. La misura sostitutiva al carcere che dovrà scontare prevede che per sei volte l’anno fino al 2028 il giovane tenga incontri con gli studenti nelle scuole per raccontare che strazio sia aver perso i due amici più cari con i quali aveva condiviso tutto fin dall’infanzia per aver guidato ubriaco e per aver corso troppo; per dire che il rispetto del codice della strada, delle regole, dei di velocità lo avrebbe salvato da quel dolore che da allora non lo ha mai più abbandonato. Il resto della pena la sconterà effettuando altri servizi di utilità per complessive 2.190 ore nell’arco di tre anni, una misura disposta dalla giudice Ardita su richiesta dell’avvocata della difesa Marina Lucchetta. Tra i lavori di pubblica utilità, il magistrato ha voluto inserire l’attività di sensibilizzazione all’interno delle scuole. In Italia è la prima volta che la misura sostitutiva alla detenzione viene comminata dal giudice, anticipando la decisione del tribunale di sorveglianza. Le famiglie delle vittime non si sono costituite parte civile per non gravare sulla situazione processuale del giovane conducente accusato di omicidio stradale e avevano devoluto in beneficenza il risarcimento dell’assicurazione. La difesa dell’imputato aveva anche evidenziato un problema sulla strada: la mancanza di un guardrail adeguato che proteggesse la carreggiata fino allo spigolo dove l’auto andò a scontrarsi, tesi che la procura non ritenne di seguire. “Se ci fosse stato il guardrail, ci sarebbe stato una sorta di “effetto elastico” e forse si sarebbero salvati tutti”, aveva spiegato l’avvocata Lucchetta. Pene alternative, alla Consulta l’esclusione dei reati ostativi di Simona Musco Il Dubbio, 18 aprile 2025 “Il carcere non deve rappresentare l’unica risposta al reato” e anzi, “per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere evitato quando possibile in favore di pene da eseguirsi nella comunità”. È partendo da questo presupposto che la Corte d’Appello di Firenze ha rimesso alla Corte costituzionale uno dei passaggi più spinosi della riforma Cartabia, così come segnalato dal blog “Foro e giurisprudenza”. Con un’ordinanza del 20 marzo, i giudici della sezione distrettuale penale hanno infatti sollevato questione di legittimità dell’articolo 59, comma 1, lettera d), della legge 689/1981, nella parte in cui vieta l’applicazione delle pene sostitutive per i condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il catalogo dei cosiddetti “reati ostativi”, salvo che venga riconosciuta la particolare attenuante di cui all’articolo 323-bis del codice penale. Una limitazione che, secondo i giudici fiorentini, rischia di negare, a prescindere, la possibilità di accesso alle nuove sanzioni sostitutive, introdotte proprio per favorire pene più rieducative e individualizzate. E questo - è la tesi - entra in rotta di collisione con più principi costituzionali. Il cuore della questione è tutto nella rigidità della norma, che - osservano i giudici fiorentini - impedisce al giudice di valutare, nel caso concreto, se la pena sostitutiva possa perseguire le finalità rieducative e di prevenzione. In altre parole, si introduce una “presunzione legale di inidoneità” delle pene sostitutive nei confronti di chi ha commesso determinati reati, a prescindere dal percorso individuale, dalla gravità concreta della condotta o da elementi di ravvedimento. Una rigidità che, secondo l’ordinanza, contrasta con almeno tre principi costituzionali. In primo luogo con l’articolo 76, perché la norma eccederebbe i limiti della delega data al governo dalla legge n. 134 del 2021, che non prevedeva l’introduzione di simili automatismi. Ma anche con l’articolo 3 della Costituzione, per violazione del principio di uguaglianza: situazioni potenzialmente molto diverse, secondo i giudici, vengono trattate in modo identico, senza possibilità di distinzione sulla base di parametri individuali. E, soprattutto, con l’articolo 27, comma 3, della Costituzione: il giudice viene infatti privato della possibilità di individuare la sanzione più adeguata alla persona del condannato e alle esigenze di prevenzione del caso specifico. “Principio, questo, di speciale rilievo - si legge - in un contesto caratterizzato dalla situazione di significativo sovraffollamento in cui versano le carceri italiane”. Nel caso concreto, l’imputato - incensurato e giovane, coinvolto in un grave episodio per il quale è stato condannato in rito abbreviato - aveva chiesto la sostituzione della pena detentiva residua con una delle nuove pene introdotte dalla riforma. Tuttavia, la condanna per uno dei reati elencati nel famigerato articolo 4-bis glielo ha precluso. La Corte ha ritenuto di non poter applicare la pena sostitutiva, ritenuta però “idonea alla rieducazione”, proprio a causa del vincolo normativo, e ha quindi sollevato la questione di legittimità. La norma censurata, scrive, si fonda su una “presunzione assoluta di inidoneità della pena sostitutiva, basata unicamente sul titolo di reato e sullo status soggettivo del condannato”, con la conseguenza che “si vulnera il principio costituzionale per cui la pena deve tendere alla rieducazione del soggetto”. L’irragionevolezza della norma emerge anche in rapporto alla finalità dichiarata della riforma Cartabia: “Rivitalizzare l’istituto della sostituzione della pena detentiva”, per favorire “la deflazione penitenziaria e processuale” e per offrire “risposte sanzionatorie alternative” alle pene brevi, considerate spesso “desocializzanti”. In quest’ottica, l’esclusione dei condannati per reati ostativi si presenta come un corpo estraneo, che reintroduce un automatismo penalizzante in un sistema che vorrebbe essere ispirato alla flessibilità e alla personalizzazione del trattamento penale. L’udienza davanti alla Corte costituzionale è fissata per il 25 giugno. A essere in discussione non è solo una norma tecnica, ma il senso stesso della riforma: se davvero vuole costruire un sistema penale più flessibile e orientato al recupero del condannato, può tollerare automatismi che tagliano fuori in partenza intere categorie di imputati? Incidente in stato di ebbrezza: no alla sostituzione della pena in Lpu di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2025 La Cassazione ribadisce che l’aggravante di aver provocato un incidente stradale in stato di ebbrezza impedisce la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria in lavoro di pubblica utilità. L’aggravante di aver provocato un incidente stradale in stato di ebbrezza impedisce l’applicabilità della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Lo ha ribadito la quarta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 13150/2025 riportandosi alla consolidata giurisprudenza sul punto. La vicenda - La vicenda ha per protagonista un uomo dichiarato colpevole del reato di cui all’articolo 186, comma 2, lett. b), 2 bis, 2 sexies e 2 septies Dlgs 30 aprile 1992 n. 285, e condannato alla pena di mesi tre di arresto ed euro 2250 di ammenda. Il tribunale sostituiva la pena irrogata con il lavoro di pubblica utilità e disponeva la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida per la durata di mesi sei. Avverso detta sentenza, il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Bologna proponeva ricorso per cassazione deducendo l’illegittimità della sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità per violazione dell’articolo 186, comma 9 bis, Cds ricorrendo l’aggravante dell’articolo 186, comma 2 bis, Cds (per aver provocato un incidente stradale), condizione che normativamente osta alla predetta sostituzione. La decisione - Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. “La norma incriminatrice di cui all’art. 186 d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 prevede al comma 9 bis ed al comma 8 bis, infatti - scrivono da piazza Cavour - la possibilità della sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità solo se il condannato non abbia provocato un incidente stradale”. Peraltro, la Corte di legittimità ha da tempo e più volte chiarito che “ai fini dell’operatività del divieto di sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità, previsto dall’art. 186, comma 9-bis, d.lgs. n. 285 del 1992 è sufficiente che ricorra la circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale essendo, invece, irrilevante che, all’esito del giudizio di comparazione con circostanza attenuante, essa non influisca sul trattamento sanzionatorio (cfr. ex multis, Cass. n. 13853/2015). Costituisce, peraltro, ius receptum della Cassazione, “l’affermazione secondo cui qualsiasi tipologia d’incidente stradale, provocato dal conducente in stato d’ebbrezza alcolica ovvero dal conducente in stato d’intossicazione da stupefacenti (ed a fortiori dal conducente che si trovi ad un tempo in stato d’alterazione sia alcolica che da stupefacenti), impone l’applicazione del comma 2 bis dell’art. 186 e dunque escluda l’applicabilità della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, prevista dal comma 9 bis dell’art. 186 C.d.S.”. Condizione preclusiva determinata, prosegue la Suprema Corte, “dall’aver provocato un incidente inteso come qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo li normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli (cfr. Cass. n. 47276/2012)”. Nel caso di specie, il Tribunale di Forlì, pur non escludendo l’aggravante sopraindicata, ha comunque disposto la sostituzione della pena incorrendo pertanto nella denunciata violazione di legge. Per cui, sentenziano dalla S.C., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente alla conversione della pena detentiva e pecuniaria in Lpu, sostituzione che va eliminata. Vigevano (Pv). Nel carcere allagamenti, sovraffollamento e acqua fredda di Isabella De Silvestro Il Domani, 18 aprile 2025 Dal 2014 è stato convertito in Casa di reclusione, destinata quindi a detenuti con pene definitive. Con un tasso di sovraffollamento del 150 per cento, le condizioni di vita sono critiche: piove nelle celle, manca l’acqua calda, i volontari sono pochi, i mediatori culturali zero. Quando martedì 15 aprile gli osservatori dell’associazione Antigone entrano per una visita alla casa di reclusione di Vigevano - terza in Lombardia dopo Opera e Bollate - piove. L’acqua filtra in varie sezioni del carcere, tra cui la “sartoria”, uno spazio di lavoro del reparto femminile di alta sicurezza. C’è un secchio appoggiato sulla presa elettrica per raccogliere l’acqua che scende dal soffitto. “Non toccate la presa, per carità” raccomanda l’ispettrice. “Guardi che il salvavita si attiva subito, è l’unica cosa che funziona qui dentro”, risponde una detenuta. Costruito nel 1988 e aperto nel 1993, l’istituto ha funzionato come casa circondariale fino al 2014, per poi essere riconvertito in casa di reclusione, destinata quindi a detenuti con pene definitive, spesso lunghe o lunghissime. Nonostante sia considerato un carcere “relativamente nuovo”, versa già in condizioni critiche, con problemi strutturali e logistici diffusi. Quando piove, molte aree della struttura si allagano: non solo celle e spazi comuni, ma anche i laboratori e perfino gli uffici. Tutte le coperture dei tetti andrebbero rifatte, ma si tratta di lavori costosi che non possono essere decisi autonomamente dall’amministrazione del carcere: è necessaria l’autorizzazione del provveditorato. Nel frattempo, si vive in un ambiente umido e fatiscente. Gli unici lavori in corso riguardano il reparto di isolamento, danneggiato da un incendio parecchio tempo fa. Sovraffollamento e personale carente - Il tasso di sovraffollamento è del 150 per cento: 365 detenuti a fronte di 242 posti regolamentari. Le donne sono 80, mentre gli stranieri sono 179, pari al 49 per cento del totale. Una percentuale molto più alta rispetto a quella registrata nelle altre due case di reclusione lombarde, Bollate e Opera, dove la maggiore integrazione con il territorio milanese garantisce una presenza più consistente di volontari e associazioni capaci di colmare, almeno in parte, le carenze strutturali e istituzionali. A Vigevano, invece, i volontari sono pochi. E questo non significa solo meno corsi, laboratori o opportunità formative, ma anche maggiori difficoltà per portare a termine pratiche burocratiche. Ad esempio, molti detenuti stranieri non riescono a rinnovare il permesso di soggiorno perché non c’è nessuno che possa portare fisicamente i kit per il rinnovo negli uffici competenti. Ma ci sono carenze ancora più gravi: in tutto l’istituto non è presente nemmeno un mediatore culturale, rendendo difficile qualsiasi forma di comunicazione tra le persone detenute straniere e l’amministrazione. Un cortocircuito che, in carcere, ha molte conseguenze: l’impossibilità di far sentire la propria voce genera frustrazione, sofferenza e rabbia, che spesso si traducono in eventi critici - autolesionismo, aggressioni, rivolte, talvolta suicidi. Condizioni di detenzione - Nel reparto femminile manca persino l’acqua calda. “Le docce si fanno fredde”, raccontano le detenute agli osservatori di Antigone. Una donna con difficoltà motorie, sottoposta a chemioterapia, vive in cella senza assistenza: si muove con le stampelle, non ha nessun tipo di aiuto o cura infermieristica. I volontari di Antigone non hanno potuto incontrare il direttore sanitario della struttura. La sezione ex articolo 32 viene chiamata “il reparto degli agitati” e raccoglie i detenuti considerati problematici, quelli in isolamento disciplinare, i più marginali e spesso i più sofferenti. Il corridoio ha un lato di celle e uno di finestre, ma nessuna delle vetrate è integra. La pioggia entra a raffiche - si cerca di isolare con delle buste dell’immondizia attaccate con lo scotch - il pavimento è sporco, i muri imbrattati di cibo, fluidi, c’è addirittura un uovo spiaccicato sul muro. In una cella bruciata, un uomo si muove tra i sanitari rotti e l’acqua che ha invaso il pavimento. È stato sottoposto a due Tso (trattamento sanitario obbligatorio) nei giorni precedenti, senza che nessuno formulasse una diagnosi. Ricoverato e ricondotto in carcere, senza presa in carico. Anche sul fronte del lavoro la situazione è problematica. Nonostante l’apertura della cooperativa Bee4, che impiega una ventina di detenuti, le attività restano poche, soprattutto per le donne. Le opportunità di lavoro esterno sono rare e spesso irraggiungibili: quattro detenuti potrebbero essere impiegati da Arcaplanet, ma non esistono mezzi pubblici che li colleghino al luogo di lavoro. C’è un solo autobus, e segue gli orari scolastici. A volte passa, a volte no. Ampliare le sofferenze - Il carcere di Vigevano è oggi al centro di un vecchio progetto di ampliamento: due nuovi padiglioni da 40 posti ciascuno, in un’area verde. Ma ampliare una struttura senza ripensarne la funzione rischia di essere un investimento a vuoto. “Serve una riflessione seria: ha senso tenere una casa di reclusione in un territorio così isolato, senza trasporti, con pochi volontari e percorsi trattamentali quasi assenti?”, si chiede Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. Forse, aggiunge, “sarebbe più coerente trasformarla in casa circondariale, oppure investire davvero nel trattamento. Altrimenti, l’unica cosa che cresce è la sofferenza. E la distanza, ormai enorme, tra il carcere e il resto della società”. Parma. Il lavoro: un volano che spezza le catene dei detenuti di Annamaria Carobella cittanuova.it, 18 aprile 2025 Se n'è discusso a Parma, nel corso di un convegno promosso per mettere in contatto aziende e carceri, per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Muoversi nella stessa direzione - rappresentanti istituzionali, professionisti, imprenditori e comuni cittadini - per garantire alle persone recluse un accesso graduale, ma reale, al mondo del lavoro. Questo l’obiettivo del convegno dal titolo: “Il reinserimento lavorativo delle persone ristrette: impresa e valore sociale del lavoro”, che si è svolto venerdì 11 aprile a Parma, nella sede storica dell’Unione Industriali, Palazzo Soragna, dove si sono dati appuntamento quanti hanno a cuore il mondo carcerario. Il convegno è stato un’importante occasione di confronto e di approfondimento. Si è parlato di strumenti, di opportunità e di buone pratiche per costruire, un ponte tra il mondo carcerario e la cittadinanza. Ciò testimonia l’attenzione costante che Parma riserva alle persone detenute e in questo modo può e deve diventare un modello per altre città in ambito carcerario. L’iniziativa è sorta dopo che tante realtà del territorio si sono unite per siglare un protocollo d’intesa con l’Unione parmense degli Industriali, con l’obiettivo dell’inclusione economica, sociale e lavorativa dei detenuti. Questo protocollo ha un grande valore non solo perché è nato all’interno del carcere, ma anche perché nato dall’ascolto, dall’incontro con i detenuti nella loro area educativa. Tale protocollo non solo è diventato un modello per altre realtà provinciali dell’Emilia Romagna, ma è di grande aiuto per chi ricopre dei ruoli importanti o ha responsabilità all’interno del sistema carcerario. La firma di questo protocollo è stato un atto di enorme significato, perché il lavoro per chi è in carcere è un volano di libertà, è la seconda possibilità per un detenuto, uno strumento efficace per l’abbattimento della recidiva. Il lavoro è fondamentale perché dà dignità alla persona, è un’occasione per ritrovare se stessi e ricostruirsi. Grazie ad esso il detenuto occupa il suo tempo, è consapevole delle proprie capacità ed attitudini, recupera la stima di sé. Il lavoro è un’ancora di salvezza oltre ad avere un fortissimo impatto sociale. Il carcere non deve essere una sorta di discarica, ma un luogo di opportunità e di crescita. Né deve essere un contenitore per passare il tempo stesi su un letto a guardare il soffitto o la televisione. Ci sono tante ed importanti industrie a Parma, a Bologna e nel resto dell’Emilia Romagna, quindi la possibilità di offrire un’occupazione ai detenuti è reale: per loro è un’occasione di riscatto, ma soddisfa anche il bisogno che le aziende hanno di colmare i vuoti. Esse, però, hanno bisogno di una mano d’opera qualificata, per cui occorre cercare in ogni istituto penitenziario quei “cervelli” che possono servire alle industrie, utilizzando i profili professionali ed attitudinali dei detenuti. È necessario affiancare le persone che hanno sbagliato per introdurle gradualmente nel mondo del lavoro e fare di tutto perché l’industria dia loro questa opportunità. Naturalmente essa viene offerta a coloro che si ravvedono e che fanno un percorso introspettivo. Sono 16 gli istituti che lavorano con l’obiettivo comune di trovare cervelli da formare, specializzare, in modo poi da essere opportunamente utilizzati nelle aziende del territorio. Occorre infatti offrire un’opportunità lavorativa a chi vuole cambiare vita ed essere una risorsa per la società. In questo percorso si devono abbattere i pregiudizi, che sono nella testa di molta gente e rendersi conto che il vero nemico da combattere non è la delinquenza, ma la povertà di chi si caccia nei guai. Serve tempo per valutare l’idoneità del detenuto ad andare fuori. Si è parlato giustamente di profilazione, tema nevralgico, importante per individuare nei detenuti capacità, interessi e abilità per formarli in modo che acquisiscano delle competenze. Si deve far loro capire che non sono esclusi dal mondo del lavoro. La profilazione è compito dell’Istituto penitenziario. È opportuno però, accelerare i processi di inserimento. C’è la necessità di interagire con la società civile. Ma la società non è che vuole “liberi tutti”, occorre “sanare” l’individuo prima di liberarlo e avere a cuore la sicurezza, servono azioni di sistema curando l’omogeneità nei vari penitenziari. In questo convegno fuori dagli schemi sono state condivise riflessioni e si è parlato con intelligenza ed attenzione del cammino che il detenuto compie all’interno del carcere. Si valuta il progetto del carcerato, ma anche il lavoro da affidargli. È uno stimolo ad un percorso di lavoro e di impegno che occorre incentivare con risorse ed opportunità, che possono poi sfociare in un’attività all’esterno. Ciò deve avvenire in sinergia tra gli operatori del carcere e la magistratura di sorveglianza, alla quale spetta la valutazione di merito. Ciascuno deve dare il meglio di sé collaborando tutti, gli uni con gli altri. Occorre interagire, condividere i percorsi dei detenuti, per ragionare insieme. Non basarsi solo su ciò che è scritto sulla carta di quel detenuto, ma vedere se quella persona è davvero cambiata perché non si parte tutti dallo stesso punto. Fare insieme una valutazione di quel percorso è fondamentale. Credere nella possibilità di cambiamento, credere e dare fiducia senza dimenticare il controllo e le regole. Siamo in un Paese dove esiste l’eccellenza di buone pratiche, industrie che offrono lavoro e accanto ad esse, 15.000 realtà associative. Si rimane sbalorditi dalla loro quantità e dalla qualità. Questo deve essere sicuramente un punto di partenza, ma per andare oltre. Non c’è mai stata un’attenzione così alta nella nostra società e si può notare dai numerosi partecipanti a questo importante convegno, che tra i tanti obiettivi aggiunge quello di volere abbattere i pregiudizi che si annidano nel cuore umano, l’etichettatura, ma anche la povertà, che accomuna molti detenuti. Uno dei relatori ha parlato di un suo viaggio in Amazzonia, dove ha visitato un carcere molto desolante. Lì ha imparato a non giudicare chi è in carcere, poi ha pensato che prima di essere detenuti, erano stati bambini, quindi innocenti e si è chiesto quale potesse essere per quei detenuti la seconda possibilità e ha pensato al lavoro. Ad aprire e fare poi da moderatore ha provveduto Giuseppe La Pietra, residente in provincia di Parma, uno dei 15 illustri componenti del Segretariato permanente del CNEL per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. Cito soltanto alcune delle personalità di spicco presenti all’evento di cui ho parlato. È intervenuto il consigliere Emilio Minunzio, presidente del Segretariato permanente, che ha analizzato la complessa situazione del sistema carcerario italiano, ponendo l’attenzione sull’abbattimento della recidiva attraverso il potenziamento della piattaforma SIISL, già in uso presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Sono intervenuti Gabriele Buia, presidente dell’ordine parmense degli industriali, Silvio De Gregorio, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, Maria Letizia Venturini, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, e Laura Torre, direttrice UDEPE di Reggio Emilia, Stefano Mendogni, vicepresidente dell’ordine dei commercialisti, Veronica Valente, garante cittadina per i diritti dei detenuti. Ciascuno di loro ha contribuito a rendere questo appuntamento altamente formativo e stimolante, per la varietà e la ricchezza dei contenuti, ma soprattutto per il reale interesse verso le persone private della libertà. Per noi i detenuti sono persone che contano molto. Trento. Quattro incontri sulla legalità e sul recupero sociale dei detenuti Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2025 Le novità normative che impattano sull’amministrazione della giustizia sotto i riflettori a Trento. Ai temi della legalità e della giustizia sono dedicati diversi incontri del Festival dell’Economia di Trento, in programma dal 22 al 25 maggio 2025. La legalità, non a caso, rappresenta una sorta di fil rouge che percorre tutta la ventesima edizione del Festival. Legalità declinata sotto molteplici profili: dalla prevenzione e dal contrasto dei crimini alla lotta ai cybercrimini, dal reinserimento nella società dei detenuti attraverso la formazione e il lavoro fino alle misure per impedire crimini odiosi come lo sfruttamento delle persone e la tratta internazionale degli esseri umani (migranti e rifugiati in primis). In questo contesto, i sistemi normativi hanno un impatto fondamentale sull’amministrazione della giustizia e sul corretto funzionamento dei processi, che rappresentano anche un deterrente a delinquere di nuovo. Del resto, la competitività di un Sistema Paese si basa anche sulla capacità di attrarre investitori esteri, i quali chiedono in primis certezza delle regole ed efficace amministrazione della giustizia nel caso in cui sorgano controversie. Ecco perché le riforme, in particolare quella della giustizia, rappresentano un perno del Pnrr, una conditio sine qua non di fondamentale rilevanza ai fini dell’erogazione dei fondi europei destinati allo sviluppo. Altro tema chiave è il perimetro dei reati, in particolare sul fronte caldo della corruzione. Spostare questo perimetro, così delicato, può trasmettere il messaggio di una deregolamentazione in corso, incentivando i reati nazionali e internazionali. È quanto pare stia avvenendo negli Stati Uniti, dove il presidente Trump ha sospeso - con un ordine esecutivo - l’applicazione del Foreign corrupt practices act (Fcpa), la legge che dal 1977 vieta alle aziende americane di corrompere funzionari stranieri per ottenere vantaggi commerciali. A questi argomenti sono dedicati quattro convegni, di sicuro interesse, del Festival dell’Economia di Trento 2025. Avellino. Il vescovo Aiello e l’appello per una rieducazione umana nelle carceri avellinotoday.it, 18 aprile 2025 “Chiediamo scusa per la nostra incapacità”. Durante la celebrazione della Coena Domini, svoltasi in cattedrale, il vescovo Arturo Aiello ha pronunciato un messaggio forte e provocatorio, chiedendo scusa per l’incapacità di concepire forme alternative di rieducazione penale, in grado di restituire ai detenuti un contesto umano che favorisca la riscoperta del valore del bene comune. Il rito della lavanda dei piedi, che ha coinvolto undici detenuti scelti per rappresentare gli apostoli, è stato l’occasione per lanciare un appello a riflettere sulla condizione delle carceri, viste come il riflesso di una società che non riesce a trovare soluzioni efficaci ai problemi del sistema penitenziario. Visita alla casa circondariale - Nel suo intervento, Aiello ha raccontato la sua recente visita alla casa circondariale, durante la quale ha celebrato il Giubileo. L’impatto che ha avuto con la struttura è stato fortemente negativo: per il vescovo, le carceri si presentano come luoghi obsoleti, simbolo di un sistema da ripensare. “Le carceri sono una scatola da rifare”, ha dichiarato. E ha aggiunto, con forza: “Se le carceri sono l’emblema della società, io nasconderei la faccia sotto terra”. Le carceri come “università del crimine” - Aiello ha quindi esaminato la realtà odierna delle prigioni, che a suo avviso sono diventate vere e proprie “università del crimine”, luoghi che non solo non riescono a rieducare i detenuti, ma li trasformano in criminali più incalliti. Pur riconoscendo che le carceri sono “un inferno”, ha però sottolineato che è solo grazie all’impegno di poche persone che, in questi ambienti estremi, possono nascere iniziative positive e segnali di speranza. Il valore dell’Eucaristia - Il vescovo ha poi posto l’accento sul significato spirituale dell’Eucaristia, a cui la celebrazione era dedicata. “L’Eucaristia ha consentito a Gesù di partire, ma di restare nel pane e nel vino che mangiamo e beviamo ogni volta”, ha affermato, richiamando il memoriale di amore che la Chiesa celebra, e che ogni cristiano rivive nella liturgia. Tuttavia, ha osservato con rammarico, questa memoria spesso si scontra con la dimenticanza che pervade la società. Le guerre che devastano il mondo sono, secondo Aiello, un triste esempio di questa perdita di memoria storica e spirituale. Infine, il vescovo ha concluso il suo intervento riflettendo su come spesso sia necessario perdere qualcosa per apprezzarne il vero valore. La libertà, ad esempio, assume un significato più profondo per chi vive in carcere, così come la vita viene riscoperta in tutta la sua importanza solo quando si è vicini alla morte. Un messaggio che invita a una riflessione più profonda sulla condizione umana e sulla necessità di un cambiamento radicale nei metodi di trattamento dei detenuti. Arezzo. Detenuto si laurea al campus del Pionta in Scienze per la formazione di Alessandro Cherubini corrierediarezzo.it, 18 aprile 2025 All'interno del Polo Penitenziario della Toscana, del quale l'Università di Siena fa parte da oltre vent'anni, si offre la preziosa opportunità di studiare e conseguire una laurea anche durante il periodo di detenzione. Grazie a questa possibilità, un detenuto ha recentemente ottenuto la laurea magistrale in “Scienze per la formazione e la consulenza pedagogica nelle organizzazioni” presso la sede del campus universitario di Arezzo al Pionta. Il 14 aprile, il laureando ha presentato la tesi intitolata “La formazione e il lavoro rendono l'uomo libero”, avendo come relatore il dottor Gioele Barcellona. Il lavoro è stato incentrato sull'importanza della formazione e del lavoro durante il periodo di carcerazione. La commissione di laurea era presieduta dal professor Claudio Melacarne e vi faceva parte anche Gianluca Navone, delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario della Toscana. “La sua dedizione allo studio è stata straordinaria e, come lui stesso ha affermato, la possibilità di studiare è stata fondamentale per sopravvivere all'esperienza del carcere”, ha dichiarato il professor Navone. “Seguirlo in questo suo percorso è stata per me un'esperienza umana veramente particolare”. Alla discussione della tesi erano presenti, oltre ai familiari del laureando, i tutor Mattia Esposito, Simone Pietrolati e Matteo Burdisso Gatto, che hanno supportato il neo laureato, insieme a Pina Sangiovanni, responsabile della didattica penitenziaria dell’Università. Un altro studente, recentemente liberato da pochi mesi, ha completato il percorso di studi all'interno del Polo Universitario Penitenziario, conseguendo la laurea triennale in “Scienze della Comunicazione” presso la sede di Siena con una votazione di 106/110. La discussione della sua tesi si è svolta il 15 aprile nella sede di San Niccolò. Il relatore di quest'ultima tesi, intitolata “Immobiliare.it e Idealista: un'analisi comparata di semiotica del marketing”, è stato il professor Tarcisio Lancioni. La presentazione è stata seguita con interesse dai familiari del laureato, dalle tutor Francesca Chiga Goffi e Marina Stepanova, e dalla dottoressa Maria Bevilacqua, ex capo degli Educatori della Casa di Reclusione di San Gimignano. Attualmente, sono circa un centinaio i detenuti iscritti ai corsi dell’Università di Siena, incluse le attività didattiche offerte nella sede di Arezzo. Questo Ateneo si distingue tra le università italiane per la più alta percentuale di studenti detenuti ed è tra i primi per numero di iscritti. Gli studenti sono supportati da tutor, docenti delegati e un ufficio specifico dedicato al loro sostegno. L'Università di Siena, parte del Polo Universitario Penitenziario della Toscana, organizza e gestisce autonomamente i percorsi formativi e le attività didattiche, in stretta relazione con le risorse logistiche di ciascun istituto penitenziario, impiegando personale docente e amministrativo e adottando metodologie formative flessibili. Asti. Uno nuovo sguardo sui detenuti di Quarto attraverso il libro “Una penna per due mani” di Virginia Carotta lavocediasti.it, 18 aprile 2025 Un progetto ideato da Effatà tra studenti del Monti e detenuti di Quarto per abbattere i pregiudizi e riscoprire l'umanità dietro la reclusione. Uno nuovo sguardo sui detenuti del carcere di alta sicurezza di Quarto attraverso il libro “Una penna per due mani”. Conoscere il carcere da dentro, attraverso le voci di chi lo vive ogni giorno. È questo l’obiettivo del libro “Una penna per due mani”, ideato dall’associazione di volontari penitenziari Effatà, in collaborazione con gli allievi dell’Istituto Monti e presentato, giovedì 17 aprile, alla Biblioteca Astense “Giorgio Faletti”. L’opera nasce dall’incontro degli studenti con i carcerati, che hanno collaborato alla produzione di testi per raccontare la detenzione, ognuno a suo modo. Il cuore del progetto è proprio questo: la promozione del rispetto reciproco in un’ottica di rieducazione condivisa, che consenta agli studenti di guardare alla reclusione con occhi diversi e ai detenuti di esprimere la propria volontà di cambiamento. In sintesi: “Creare ponti per collegare la realtà carceraria con il mondo esterno”, come ricorda la presidente Effatà Maria Bagnadentro. Un punto di vista interno da parte dell’educatrice dell’istituto penitenziario Deborah Chiarle, sottolinea l’importanza di mandare avanti più iniziative che includano i ragazzi: “Tra i vari progetti, quelli che suscitano maggior emozione nei detenuti sono quelli con i giovani”. “A volte ci si dimentica di questa realtà”, continua la dottoressa, “Questi progetti aiutano a farla conoscere”. Cambiare il punto di vista - Si tratta di un’esperienza intensa e trasformativa, pensata per avvicinare i giovani a una dimensione spesso ignorata. Dice Beppe Passarino, volontario Effatà e moderatore dell’incontro: “Solo se cambia il punto di vista dei giovani, possiamo davvero evolvere verso una società migliore”. Fare un passo in più per crescere come società. Questo è stato il monito condiviso da Michele Miravalle, coordinatore osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone: “Proviamo a fare uno sforzo per avvicinare il carcere alla città, in termini di coinvolgimento dei detenuti nelle attività lavorative del territorio e nelle iniziative. Anche se si tratta di un carcere di Alta Sicurezza e ci sono dei paletti, che esistono e che non possiamo negare, uno sforzo in più può essere fatto”. I dati sul numero delle persone in carcere in Italia evidenziano una situazione drammatica: “oltre i 60 mila sono i detenuti nelle nostre strutture di reclusione”. Nonostante ciò, ci sono anche notizie positive: “Questa settimana c’è stata la circolare sull’affettività in carcere, a seguito di una sentenza da parte della Corte Costituzionale”. È risultato dalla sentenza che fosse “costituzionalmente illegittimo prevedere che le persone detenute con una famiglia, non potessero fare colloqui intimi con i propri partner”. Conclude il suo intervento Miravalle: “Speriamo che l’amministrazione penitenziaria di Asti la possa applicare”. Il documentario creato dagli studenti e la realizzazione del libro - A far parte del progetto si inserisce la realizzazione di un video, prodotto interamente dagli studenti del Monti che vi hanno partecipato, supervisionati da Alessio Mattia, videomaker e gestore del laboratorio in questione. Il prodotto audiovisivo è stato da accompagnamento a un grande impegno dal punto di vista dell’elaborazione grafica del libro, realizzato da Letizia Veiluva e altre due colleghe, Elisa Chiola e Sofia Schiavon: “Il lavoro è stato condiviso”. La parola ai detenuti - Un’altra iniziativa portata avanti da Effatà rigurda la Gazzetta Dentro, un progetto editoriale che prosegue da diversi anni all’interno della Casa di Reclusione di Asti, pubblicato con periodicità mensile per dare voce alle persone detenute. Sono proprio le parole di un detenuto a concludere l’incontro: “Confrontarsi con il dentro, come abbiamo vissuto con la presentazione del libro Una penna per due mani, la realizzazione di un progetto con finalità culturale e sociale, affinché si possano far conoscere anche gli aspetti positivi dei detenuti e il valore delle cose che si fanno in carcere”. Quesito sulla cittadinanza: è sfida tra i referendari. La sinistra si divide ancora di Daniela Preziosi Il Domani, 18 aprile 2025 Renzi sfida Landini sul Jobs Act. Magi invita Conte a un dibattito sui nuovi italiani. Il leader dei M5s lascia libertà di voto sul quesito sulle seconde generazioni. Nel fronte referendario che marcia verso l’appuntamento dell’8 e 9 giugno i dissensi sono ormai sdoganati, anzi meglio: sono esibiti davanti ai cronisti. Se mercoledì scorso il leader di Iv Matteo Renzi ha sfidato il segretario Cgil Maurizio Landini a un pubblico dibattito sul quesito che cancella il Jobs Act, anche Riccardo Magi ha chiesto un confronto pubblico a un (teorico) compagno di strada: Giuseppe Conte, che a sorpresa, ma alla fine neanche tanto, ha ufficializzato l’indicazione della “libertà di voto” ai suoi sulla cittadinanza. Sul quesito, il quinto, è stata ufficialmente lanciata la campagna referendaria, con una maratona oratoria delle associazioni che hanno partecipato alla raccolta di firme, a Roma, nel luogo-simbolo di piazza Vittorio, quartiere meticcio e multiculturale. Il simbolo scelto è più che patriottico, una bandiera italiana con al centro un grande “Sì”. E così lo slogan, “SìamoItaliani”. Ma è patriottico in un’accezione diversa, anzi rovesciata rispetto a quella che usano FdI e Lega, nell’interpretazione che ne ha dato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di fine anno. Con parole chiare: “È patriottismo quello di chi, con origini in altri paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”. Il quesito chiede di dimezzare gli anni di residenza legale necessari per poter fare richiesta della cittadinanza italiana: cinque anni contro dieci, gli altri requisiti richiesti non cambierebbero. La corsa in vista del voto è ufficialmente partita. Per Antonella Soldo, coordinatrice della campagna, “con il referendum diamo la parola a cittadini e cittadine che fanno già parte del tessuto sociale, culturale ed economico del nostro paese e per dimostrare che garantire tutele e opportunità non toglie nulla a nessuno, ma aiuta l’Italia a crescere”. Il tetris dei sì e dei no - Ma, come gli altri della Cgil, neanche il quesito sulla cittadinanza mette d’accordo tutto lo schieramento referendario. Che, anziché un fronte, è diventato una quadriglia di coppie variabili. I partiti dell’opposizione sono impegnati in un complicato gioco di Tetris fra i sì e i no. Lo schema è intricato. Il Pd all’apparenza ha fatto la scelta più lineare: ha annunciato il sì a tutti e cinque i referendum. Ma in realtà il quesito che cancella il Jobs Act ha incassato subito il no dell’ala riformista, da Stefano Bonaccini a Simona Malpezzi ad Alessandro Alfieri. Per questo Elly Schlein vuole correre ai ripari: per fare in modo che le defezioni dei dem risultino posizioni “a titolo personale”, ha intenzione di convocare un’assemblea nazionale del Pd prima del voto, dove far approvare un documento che impegna tutto il partito a cinque sì. E cioè, politicamente parlando, alla rottamazione definitiva della stagione del rottamatore Renzi. Il quale Renzi, a sua volta, insieme ad Azione, vota quattro no e un sì: no a tutti i quesiti della Cgil (oltre a quello sul Jobs Act, ovvero per il ripristino del reintegro per gli ingiusti licenziamenti, si vota per le tutele per i lavoratori delle piccole imprese, per l’estensione della responsabilità delle imprese appaltanti e per il ripristino delle causali nei contratti a tempo) e sì a quello sulla cittadinanza. Ancora diversa la posizione di M5s: quattro sì ai quattro referendum sindacali, ma libertà di coscienza sulla cittadinanza. Perché, ha spiegato Conte, su questo tema “il movimento ha avviato un percorso diverso, quello dello ius scholae, che è il modo migliore per conseguire la cittadinanza e un’integrazione vera”. Un’altra sfida pubblica - La cosa ovviamente non è piaciuta ai promotori del quesito. Così Magi (+Europa), a margine del lancio della campagna, ha consegnato a Domani un appello al presidente M5s: “Tutte le opposizioni in parlamento si sono espresse per il sì al referendum sulla cittadinanza. Viene da dire a Conte “Manchi solo tu”. Ma il referendum è sempre occasione di dibattito e anche scontro democratico, quindi è importante e utile approfondirne le ragioni. Noi siamo convinti che non ci siano ragioni da progressisti per non sostenere un sì che consentirebbe a oltre due milioni di persone in Italia di poter avanzare la richiesta di cittadinanza con minori vessazioni rispetto a ora”. Anche perché, continua, è inutile illudersi, con l’attuale maggioranza “oggi per via parlamentare nessuna riforma è praticabile”. Lo si è già visto qualche mese fa quando Forza Italia ha proposto una riforma persino peggiorativa dell’attuale legge. Conclusione con invito: “Chiedo a Conte un confronto pubblico. Il referendum del resto dovrebbe essere anche il suo strumento di lotta, dai tempi in cui sosteneva la necessità della democrazia diretta”. Ora si aspetta la risposta. Ma un fatto è chiaro: se la maggioranza punta evidentemente a far fallire i referendum, le opposizioni si devono rimboccare le maniche per acciuffare il quorum o, in subordine, evitare il deserto alle urne. Dunque l’imperativo è mobilitare gli elettorati e il voto di opinione. Anche esibendo platealmente i propri dissensi incrociati, che del resto sono la specialità della casa. Migranti. Nei “Paesi sicuri” l’unica cosa sicura è la tortura di Gianfranco Schiavone L'Unità, 18 aprile 2025 L’Egitto e la Tunisia nella lista preparata dalla commissione europea. Per giustificare la scelta si dice che i governi hanno promesso riforme liberali. Già, intanto ammazzano le persone nel deserto. Il 16 aprile 2015 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma di nuovo Regolamento (Com-2025-186-final) finalizzato a modificare alcuni articoli del nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 (sulle procedure per l’esame delle domande) che andrà a sostituire la vigente Direttiva 2023/32/UE e che si applicherà a partire dal 12.06.2026. Le proposte hanno l’obiettivo di modificare alcuni aspetti delle procedure accelerate di frontiera e soprattutto di anticipare l’entrata in vigore delle stesse procedure accelerate nel caso di provenienza dei richiedenti asilo da paesi di origine ritenuti sicuri o provenienti da paesi terzi rispetto ai quali la percentuale di decisioni di accoglimento delle domande di asilo presentate dai cittadini di quegli stati è pari o inferiore al 20%. Premettendo che è censurabile la scelta della Commissione di volere modificare un regolamento che è in vigore ma non ancora applicabile, la prima modifica che la Commissione propone è quella di modificare l’art.61 del Regolamento procedure allo scopo di poter automaticamente dichiarare paesi di origine sicuri tutti i paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, salvo che in tali paesi non ci siano situazioni di conflitto armato o le domande di asilo dei cittadini di tali paesi vengano accolte nell’UE con una media superiore al 20%. I candidati attuali all’adesione sono Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. La Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo sono candidati potenziali. Anche la Turchia rientra tra i paesi candidati anche se i negoziati sono congelati dal 2018. Apparentemente la proposta della Commissione potrebbe sembrare ragionevole, dal momento che il primo requisito per avere lo status di candidati è aderire ai principi dell’Unione e rispettare lo stato di diritto. Un rapido sguardo alla lista degli aspiranti fa comprendere come si tratti invece di una scelta del tutto impropria che confonde criteri giuridici con criteri politici. Tra i paesi candidati figurano infatti Paesi come la Turchia nel quale le violazioni dei diritti umani sono estese e sistematiche, come reso evidente agli occhi del mondo anche dai tragici eventi delle ultime settimane. Nel 2023 oltre centomila cittadini turchi hanno presentato domanda di asilo nei paesi dell’UE, con un aumento dell’82 % rispetto all’anno precedente, divenendo la terza nazionalità più numerosa in cerca di protezione nell’UE dopo i siriani e gli afghani. È paradossale che l’UE condanni le violenze politiche in Turchia e nello stesso tempo elabori proposte normative così palesemente irragionevoli. La Commissione propone delle modifiche al testo del Regolamento procedure per consentire agli stati la facoltà (non l’obbligo) di anticipare l’applicazione di una nozione assai controversa già introdotta con il nuovo regolamento, ovvero la possibilità di applicare la procedura accelerata di frontiera ai richiedenti provenienti da un paese terzo “la cui percentuale di decisioni di riconoscimento della protezione internazionale da parte dell’autorità accertante è, stando agli ultimi dati medi annuali Eurostat disponibili per tutta l’Unione, pari o inferiore al 20 %”. Poiché si trattava appunto di una misura futura la cui applicazione sarebbe avvenuta appena a metà 2026 quasi nessuno ne ha parlato finora. È stato introdotto nell’ordinamento giuridico una sorta di criterio statistico di fondatezza della domanda che non appare compatibile con l’obbligo da parte dello Stato di condurre un esame equo e completo della domanda di asilo su base individuale. L’incoerenza logica risulta ancor più chiara se si considera che, diversamente da quanto un lettore assennato può pensare, la cosiddetta regola del 20% (che non ha, nel testo di legge, neppure un nome per definirla) non si sovrappone né sostituisce la nozione di paese di origine sicuro che continua ad essere prevista dal nuovo Regolamento procedure. Tale normativa viene giustificata come necessaria per limitare l’abuso della procedura di asilo da parte di persone la cui domanda verrà quasi sicuramente rigettata. Non ci si accorge tuttavia della irrazionalità di quanto si è proposto (e approvato); la percentuale di accoglimento della domanda di asilo che può arrivare fino al 20% (non fino al 2%) indica un tasso affatto inconsistente rendendo confusa ed incoerente la asserita ratio della norma. Inoltre, in modo del tutto arbitrario la percentuale è calcolata solo sulla base delle domande accolte in sede amministrativa e non tiene conto dei ricorsi, nonostante essi facciano pienamente parte della procedura. Nel diritto dell’Unione con la nozione di “decisione definitiva” su una domanda di asilo si deve infatti intendere l’esaurirsi, in senso di accoglimento o di rigetto, di tutte le procedure. Il vero tasso di accoglimento dovrebbe essere calcolato sulle decisioni definitive; se così fosse fatto, esso si attesterebbe sul 30%. Per comprendere quanto sia incredibile ciò di cui stiamo trattando faccio il seguente esempio: se io fossi un medico e sostenessi che una malattia che ha un tasso di mortalità del 20% o del 30% è in fondo assai poco pericolosa verrei preso per pazzo. Se invece si sostiene che un tasso di accoglimento del 20% delle domande di asilo è indice di una generale infondatezza l’irrazionalità di quanto viene sostenuto passa del tutto inosservata. La realtà della vita degli “altri” da cui dobbiamo difenderci è infatti divenuto da tempo un terreno nel quale le nozioni giuridiche, e in generale ogni forma di logica, hanno perso il loro significato lasciando il campo a disgustose (ma rimosse) forme di violenza verso esseri umani. La creazione di una lista europea di paesi di origine sicuri è nozione che non viene affatto introdotta dalla nuova proposta di regolamento presentata dalla Commissione ma è già presente nel Regolamento procedure. La nuova proposta si limita a prevedere che “I paesi terzi elencati nell’allegato II sono designati come Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione” e li indica (si tratta di Bangladesh, Egitto, Colombia, India, Kosovo, Marocco, Tunisia). Viene così stravolta la procedura corretta che dovrebbe essere seguita per la designazione di paesi terzi come sicuri; innanzitutto la normativa che la prevede deve essere applicata (cosa che al momento non è). In seguito a ciò, sulla base della situazione oggettiva dei diversi paesi e dei criteri che la stessa normativa prevede per effettuare la designazione come paese di origine sicuro (in primis il requisito della democraticità dell’ordinamento di tali paesi) la Commissione con atti delegati potrebbe predisporre una lista di paesi di origine sicuri indicando le ragioni e le fonti che giustificano tale delicatissima scelta. Nelle premesse alla sua nuova proposta di Regolamento che già in anticipo contiene i futuri paesi di origine sicuri, la Commissione omette di indicare le sue fonti; a ognuno dei paesi indicati come di origine sicura sono dedicate più o meno dieci righe piene di affermazioni non veritiere o contestabili. Prendiamo ad esempio l’Egitto su cui la Commissione scrive che “Il Paese ha ratificato i principali strumenti internazionali sui diritti umani (…). Nella sua strategia nazionale per i diritti umani, l’Egitto ha dichiarato l’intenzione di riformare la legge sulla detenzione preventiva, migliorare le condizioni di detenzione, limitare il numero di reati puniti con la pena di morte e rafforzare la cultura dei diritti umani in tutte le istituzioni governative. È necessaria un’attuazione efficace, ma finora sono stati compiuti progressi”. Rinvii a generici impegni e nessun riferimento alla realtà della presenza di migliaia di detenuti politici, alla repressione di ogni forma di dissenso, al fatto che la “tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite dall’agenzia per la sicurezza interna” (rapporto globale di Amnesty International 2023). Sulla Tunisia, ignorando la violenta involuzione autoritaria in corso negli ultimi anni, lo stesso impedimento all’ingresso nel Paese della delegazione dei parlamentari europei avvenuto nel 2023, il pubblico linciaggio degli stranieri, specie se di colore, la mancata applicazione della Convenzione di Ginevra, la deportazione degli stranieri nel deserto documentata dal rapporto “State Trafficking” (https://statetrafficking. net/) presentato il 29.01.25 al Parlamento Europeo, la Commissione scrive che la Tunisia “ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In Tunisia non è in corso alcun conflitto armato e quindi non esiste alcuna minaccia di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. In generale, non vi sono persecuzioni nel Paese”. La nozione di paese di origine sicuro viene così fatta a pezzi, ridicolizzata, stravolta, e viene sostituita da affermazioni ideologiche e da parole prive di alcun contenuto. Non posso smettere di pensare che la Commissione europea dovrebbe operare per “promuove l’interesse generale dell’Unione” nonché vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea” (art. 17 del Trattato sull’Unione Europea). È inquietante leggere i testi che oggi scrive perché mai, almeno a mia memoria (che sfortunatamente non è più breve), è stato raggiunto un livello così basso. Migranti. Definizione di “Paese sicuro”: il parere dell’Avvocato Generale presso la CGUE di Bartolo Conratter Il Riformista, 18 aprile 2025 In attesa della sentenza, il legale della Corte di Giustizia Ue, Richard de la Tour, si pronuncia sul tema. È un lenitivo alla febbrile attesa della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla vexata questio della definizione di “paese sicuro” la lettura e studio delle conclusioni dell’avvocato generale (Jean Richard de La Tour), presentate il 10 aprile 2025. Dal corposo ed analitico documento, emerge la proposta alla CGUE di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale ordinario di Roma: affermando che gli articoli 36 e 37 della direttiva 2013/32/UE (in tema di riconoscimento e revoca dello status di protezione internazionale) devono essere interpretati nel senso che essi “non ostano” a una prassi in forza della quale uno Stato membro proceda alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro mediante atto legislativo, a condizione che tale prassi garantisca il primato del diritto dell’Unione e assicuri la piena efficacia di detta direttiva. Altresì che gli articoli 36 e 37 e l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi “non ostano” a una prassi in forza della quale uno Stato membro procede alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro mediante atto legislativo, a condizione che il giudice nazionale investito del ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale proposta da un richiedente proveniente da un siffatto paese disponga delle fonti di informazione sulla cui base il legislatore nazionale ha inferito la sicurezza del paese interessato. In caso di mancata divulgazione di dette fonti di informazione, l’autorità giudiziaria competente può controllare la legittimità di una siffatta designazione alla luce delle condizioni enunciate nell’allegato I della direttiva, sulla base delle fonti di informazione che essa stessa ha raccolto tra quelle menzionate all’articolo 37, paragrafo 3, della direttiva medesima. L’articolo 36 e l’articolo 37, paragrafo 1, nonché l’allegato I della direttiva 2013/32, devono, infine, essere interpretati nel senso che essi “non ostano” a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, identificando nel contempo categorie limitate di persone come potenzialmente esposte a un rischio di persecuzioni o violazioni gravi in detto paese a condizione, da un lato, che la situazione giuridica e politica del suddetto paese caratterizzi un regime democratico nell’ambito del quale la popolazione gode, in generale, di una protezione duratura contro tale rischio e, dall’altro, che detto Stato membro proceda correlativamente a escludere espressamente tali categorie di persone dall’applicazione del concetto di paese di origine sicuro e della presunzione di sicurezza ad esso collegata. Canapa, primo ricorso contro il Decreto Sicurezza di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2025 La Ue: “Disapplicare la norma, se è stata violata la direttiva”. Lo stesso errore della legge sulla carne coltivata: nessuna comunicazione a Bruxelles da parte del governo Meloni. Lo sostengono le imprese della canapa in lotta per la sopravvivenza, per via del decreto sicurezza che rade al suolo la filiera. Il ricorso al tribunale civile è pronto: la notifica per un’azione di accertamento sarà depositata oggi, presso la corte distrettuale d’appello a Firenze. L’incarico è stato conferito ai legali Giacomo Bulleri e Giuseppe Libutti. L’azione è sostenuta dalle associazioni Canapa Sativa Italia (CSI) e Imprenditori canapa Italia (ICI). Martedì, dopo la pasquetta, per annunciare l’inizio della battaglia legale, si terrà la conferenza stampa alla Camera dei deputati. La sala è stata prenotata dall’onorevole Stefano Vaccari, capogruppo del Partito democratico in commissione Agricoltura. È il primo passo della lotta per non chiudere bottega. L’articolo 18 del decreto sicurezza vieta “l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa”. Il motivo? Evitare “comportamenti che espongano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale”. Come se il fiore della canapa, ricco di cannabidiolo ma con Thc entro lo 0,5%, fosse uno stupefacente. Dunque gli imprenditori temono l’incriminazione per detenzione o spaccio di droga. Risultato: delocalizzano all’estero o chiudono bottega. A rischio ci sono 30mila lavoratori: 10mila assunti in pianta stabile e 20mila stagionali, impiegati da maggio a dicembre nei campi della canapa per la semina, la raccolta e le prime lavorazioni. Le aziende della filiera sono circa 3mila: 1.600 quelle agricole, 800 negozi di cannabis light, 600 le imprese di trasformazione. Tutti in lotta per la sopravvivenza. La mossa iniziale è al tribunale civile. Gli imprenditori denunciano la violazione della direttiva europea Single market transparency directive, la numero 1535 del 2015. L’articolo 5 del provvedimento impone agli stati di comunicare, alla Commissione europea, ogni progetto di regola tecnica, qualora possa incidere sugli scambi commerciali. Una norma a tutela del mercato unico: palazzo Berlaymont, infatti, deve informare gli altri Stati membri sul progetto allo studio, per raccogliere eventuali obiezioni. È la procedura Tris: quando la Commissione riceve la notifica, l’adozione della nuova norma deve essere rinviata di tre mesi, dice l’articolo 6 della direttiva. Invece il governo italiano ha tirato dritto ignorando gli obblighi di trasparenza verso Bruxelles, sostengono le associazioni della canapa. Dunque ricorrono in sede civile. Le imprese si sentono incoraggiate da una email della Commissione europea all’indirizzo di Raffaele Desiante, presidente Ici, datata 11 aprile. La missiva è firmata dalla Direzione Generale per il Mercato Interno, l’Industria, l’Imprenditoria e le Pmi (un ufficio della Commissione Ue). Desiante aveva interpellato Bruxelles il 14 marzo, invitando l’esecutivo europeo a verificare la compatibilità dell’articolo 18 con il diritto comunitario. I funzionari gli rispondono citando le pronunce della Corte di giustizia “sulle conseguenze, rispettivamente, della mancata notifica di una regola tecnica e dell’adozione di una regola tecnica, in violazione degli obblighi previsti” dalla direttiva del 2015. “I privati ??possono invocare gli articoli 5 e 6 dinanzi al giudice nazionale, il quale deve rifiutare di applicare una regola tecnica nazionale adottata in violazione dell’obbligo di notifica”. Traduzione: se il governo avesse violato le regole europee, salterebbe l’articolo 18 che azzera la filiera. Un pasticcio simile era già accaduto con il divieto della carne coltivata: la legge fu approvata l’1 dicembre 2023, prima che la Commissione potesse esaminare il testo. L’uno febbraio 2024 la Commissione certificò la violazione delle procedure Tris, paventando la disapplicazione della legge da parte dei giudici. Non ce n’è bisogno: la carne coltivata non si trova nei negozi. La cannabis light sì.