In che mondo vogliamo vivere di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 17 aprile 2025 A proposito della ulteriore “chiusura nella chiusura” delle persone detenute in Alta Sicurezza. Asserragliati nella fortezza, terrorizzati anche dal nostro vicino di casa, armati fino ai denti per difendere i nostri beni, diffidenti e capaci di vedere negli altri solo un potenziale nemico: è questo il mondo in cui vogliamo vivere? Da circa 12 anni noi di Ristretti Orizzonti avevamo lanciato una sfida: smettiamola di dire che “i mafiosi non cambiano mai”, facciamo in modo invece che gli venga voglia di cambiare, per i loro figli, per i nipoti, per il desiderio di diventare persone “perbene”, una bella espressione che fa capire che essere “a favore del bene” ti fa vivere meglio, è già quella una ricchezza. E così, avevamo chiesto di fare una sperimentazione: far lavorare insieme nella nostra redazione detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza. Se dovessi spiegare il senso di questa sperimentazione, preferirei farlo raccontando quello che ha detto ieri in redazione Salvatore: “Io sono nato nei quartieri Spagnoli di Napoli, non facevo parte di associazioni criminali, ma vivevo nell’illegalità, inseguivo i soldi facili, le rapine a portavalori erano la mia vita. Quando ho cominciato a frequentare la redazione di Ristretti, la cosa che mi ha colpito di più sono stati gli incontri con le scuole, e il vedere i miei compagni, alcuni che erano stati boss di organizzazioni criminali, parlare di sé, ‘mettere in piazza’ i propri disastri, spiegare come avevano cercato in passato di attrarre le giovani generazioni e come alla fine avevano distrutto la propria vita e quella dei loro cari inseguendo il potere e il denaro. Per me, che ero cresciuto ‘a pane e malavita’ guardando con rispetto ai boss criminali, è stato sconvolgente vedere proprio loro smontare i miti che mi ero costruito anch’io”. Ecco, in questi anni noi di Ristretti ci siamo impegnati a smontare tutti quei miti che rendono tante volte le carceri una scuola di criminalità, più che un luogo di rieducazione. Ma ora ci è arrivata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la comunicazione che dobbiamo smantellare l’esperienza di condivisione del lavoro della redazione tra detenuti comuni e detenuti di Alta Sicurezza e tornare all’antico, i detenuti comuni da una parte, quelli dell’Alta Sicurezza asserragliati nei fortini delle loro sezioni, facendo a finta che si possa realizzare la rieducazione stando rinchiusi nelle sezioni, anzi nelle celle, e frequentando solo loro simili. Non invidio chi sta creando questo mondo fatto di isolamenti e chiusure, chi sta trasformando le carceri in luoghi di rabbia e degrado, non invidio chi non crede nella possibilità del cambiamento e vede intorno a sé solo nemici. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di volontariato è che vive male chi intorno a sé vede solo dei nemici, e gli amici pensa di andarseli a cercare “nei piani alti della vita”, là dove si sta bene e si è tutti buoni. Agnese Moro, che ha avuto il padre ucciso negli anni della lotta armata, ci ha insegnato che nella vita “non bisogna buttare via nessuno”, Gino Cecchettin ci ha mostrato che, anche nella più grande delle sofferenze, si sta meglio a non coltivare l’odio e a guardare avanti e a dare fiducia agli esseri umani, anche quelli che ci sembrano i peggiori. Non siamo degli ingenui, non pensiamo che sia facile, per le persone che sono cresciute nelle organizzazioni criminali, prenderne le distanze e sperimentare una cosa così poco di moda come “il piacere dell’onestà”. Ma ne abbiamo viste tante, di persone che sono cambiate, e la sfida vera è quella, non è costruire fortini per i “buoni” e stare lì dentro a difendersi dai “cattivi”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia I giornali scritti in carcere tra censure e difficoltà: lettera aperta al Ministero di Ornella Favero* Corriere della Sera, 17 aprile 2025 Esiste per ogni detenuto il diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni. Ma non sempre viene rispettato. Questa è una lettera aperta al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Lina Di Domenico; al direttore della Direzione generale detenuti e trattamento, Ernesto Napolillo; al Direttore generale del personale, Massimo Parisi. L’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, dando concreta applicazione all’art. 21 della Costituzione, così recita al comma 8: “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”. Ma le cose non sono così semplici, e questo diritto delle persone detenute a esprimere le proprie opinioni è tutt’altro che rispettato. In questi anni di vita dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione dalle carceri, noi che in numerose realtà lavoriamo da tempo ci siamo presi l’impegno di raccontarle con onestà, e non abbiamo mai taciuto le difficoltà, le criticità, i percorsi finiti male, le ricadute, le sconfitte. Abbiamo cercato con senso di responsabilità e professionalità di fornire una informazione attenta, precisa, documentata sulla realtà carceraria. Ma ci scontriamo ogni giorno con ostacoli e barriere che in vario modo condizionano pesantemente il nostro lavoro. Chiediamo al Dap e al Ministero della Giustizia chiarimenti sui seguenti punti. Se l’Ordinamento penitenziario riconosce alla persona detenuta il diritto a esprimere le proprie opinioni, è ammissibile che sulle pagine dei giornali di alcune carceri quella persona non possa firmare, se lo desidera, i suoi articoli con nome e cognome visto che il suo diritto alla privacy è già assicurato dalla direzione del giornale? Se la persona detenuta ha diritto a esprimere le proprie opinioni, e i giornali realizzati in carcere hanno un direttore responsabile che ne risponde anche penalmente, come si spiega che in alcuni istituti sia d’obbligo una “pre-lettura” degli articoli da parte delle direzioni dell’istituto e delle eventuali “istanze superiori”? Se i volontari e gli operatori che assieme a tanti redattori detenuti si occupano di informazione e comunicazione dal carcere sono persone autorizzate in base all’art. 17 dell’Ordinamento penitenziario che consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”, è possibile che queste stesse persone non siano considerate affidabili e responsabili di tutto il materiale informativo che i giornali e le altre realtà dell’informazione producono nelle carceri? Si ricorda che la circolare del Dap del 2 novembre 2015 prevede espressamente la “possibilità di accesso a Internet da parte dei detenuti”, riconosce che “l’utilizzo degli strumenti informatici da parte dei detenuti appare oggi un indispensabile elemento di crescita personale” e che “l’esclusione dalla conoscenza e dall’utilizzo delle tecnologie informatiche potrebbe costituire un ulteriore elemento di marginalizzazione per i ristretti”. Queste parole così chiare e inequivocabili possono finalmente tradursi in concrete autorizzazioni ai nostri giornali e gruppi di lavoro a usare questi indispensabili strumenti tecnologici per dare valore e qualità alle nostre attività? L’attività di redazione ha comunque necessità di tempi di risposta adeguati da parte dell’amministrazione penitenziaria. Articoli che parlano del caldo asfissiante nelle celle e vengono autorizzati alla pubblicazione a Natale, richieste di permessi di ingresso di ospiti significativi che arrivano a volte con lentezza esasperante, attese snervanti per introdurre materiali indispensabili per il nostro lavoro, sono tutte situazioni che oggettivamente finiscono per vanificare il lavoro delle nostre redazioni. Se l’attività giornalistica nei penitenziari è ritenuta una risorsa importante per il dialogo tra realtà detentiva e società esterna, perché le Istituzioni non semplificano le procedure e accorciano i tempi di tante estenuanti attese? Giornali, podcast, trasmissioni radio-tv, laboratori di scrittura sono una ricchezza culturale che va salvaguardata e facilitata: per questo chiediamo che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ci riceva e affronti con noi i temi che abbiamo sottoposto alla sua attenzione. *Direttrice di Ristretti Orizzonti, referente Coordinamento nazionale realtà dell’informazione dal e sul carcere Meno carcere e amnistia: finalmente lo chiedono le “toghe rosse” di Angela Stella L’Unità, 17 aprile 2025 L’emergenza delle prigioni italiane? “Nessuna maggioranza ha mai davvero voluto affrontare la tragedia del sovraffollamento carcerario”. A dirlo all’Unità non è un garante, né un attivista per i diritti dei detenuti, ma Giovanni Zaccaro, leader di Area Dg, la corrente di sinistra della magistratura: insomma, le cosiddette “toghe rosse”. “Bisogna ripensare il diritto penale evitando di mettere il carcere al centro del sistema delle pene. Ed invece oggi mancano le persone e le risorse per le pene sostitutive, introdotte dalla Cartabia, ed addirittura - guardi al decreto Caivano od al decreto sicurezza- si aumentano le pene per pura propaganda”, denuncia e aggiunge: “Servono provvedimenti clemenziali per tipologie di reati, penso ai tanti detenuti con residui di pena per reati in materia di sostanze stupefacenti”. Amnistia e indulto, di cui il ministro Nordio non vuole neppure sentir parlare, dunque non sono più un tabù anche per una parte della magistratura. E a proposito dei profughi portati in manette nel cpr albanese Zaccaro commenta: “Io mi scandalizzo quando vedo gli imputati portati -nei corridoi dei tribunali- in manette, si figuri cosa ho pensato quando ho visto le immagini che ritraggono persone ammanettate anche se non accusate di reati ma solo di essere in Italia senza permesso”. Giovanni Zaccaro, Segretario di AreaDg, la notizia dell’incontro tra Anm e Ministro è stato forse l’annuncio fatto ai cronisti dal presidente Parodi lasciando via Arenula: stiamo valutando l’opportunità di dare vita a dei comitati referendari insieme anche ai partiti contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere. Non c’è il rischio che veniate accusati di essere troppo politicizzati? Sono tantissime le associazioni ed i singoli schierati contro la riforma. Io penso che l’Anm debba promuovere un comitato referendario proprio, aperto a singole personalità della società civile. Poi tutti gli altri soggetti collettivi, compresi i vari partiti politici, che intendono contrastare la riforma Nordio ben possono costituire autonomi e diversi comitati. Del resto, sono tantissime le associazioni e i singoli che esprimono dubbi e timori per questa riforma. Quella sulla riforma dell’ordinamento giudiziario sembra essere la madre di tutte le battaglie: l’impressione è che voi toghe diciate di no perché in fondo volete conservare il potere sulle nomine al Csm. Come risponde su questo? Soprattutto di questi tempi, fondati sull’astensionismo e sul populismo, togliere il diritto di voto è una decisione grave e pericolosa. Capisco che si voglia dare una risposta agli “scandali” relativi alle nomine. La questione sconta l’equivoco che il Csm si occupi soltanto di nomine ma la sua funzione è ben più ampia e più importante, tutela la nostra autonomia ed indipendenza, interna ed esterna, esprime i pareri sulle leggi che riguardano la giustizia, verifica il funzionamento degli uffici. Non ha soluzioni da offrire? Bisogna essere davvero radicali. La Costituzione dice che la carriera in magistratura non esiste ed invece negli ultimi due decenni i magistrati hanno maturato una vera e propria ossessione per gli incarichi direttivi e semidirettivi. Gli scandali dimostrano che i colleghi si raccomandavano con tutti, a prescindere dall’appartenenza ad una corrente. Ed allora, piuttosto che togliere il diritto di voto, si deve togliere il terreno sotto i piedi al carrierismo ed al correntismo. Si devono ridurre i posti semidirettivi di nomina consiliare facendo guidare le sezioni o i gruppi di lavoro a chi ha più esperienza in quell’ufficio. Bisogna ridurre il potere dei dirigenti sostituendoli con una guida collegiale. Bisogna alternare la direzione dell’ufficio con un periodo di esercizio effettivo della giurisdizione. Insomma, se si ridimensionasse l’ambizione per i direttivi, il Csm tornerebbe alle sue funzioni più nobili e le correnti sarebbero solo centri di elaborazione culturale. A proposito di partiti: il suo collega Eugenio Albamonte va in un circolo Pd di Roma, si siede sotto la foto di Berlinguer e parla di separazione delle carriere. Stefano Ammendola, membro in quota Magistratura Indipendente nel Cdc, dice: “è riprovevole” per un magistrato “andare in un circolo di partito; come disse Rosario Livatino ‘Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili’”. Lei che ne pensa? Eugenio Albamonte è da tempo vittima di una campagna di aggressione da parte di certi esponenti politici. Elude la domanda? L’indipendenza costituisce l’essenza della giurisdizione. È indubbio che, fra i magistrati, ci sono modi di intenderla. C’è però un solo un modo di valutarla: nel processo, nella motivazione dei provvedimenti. È in questa sede che il magistrato deve dimostrare ai cittadini di non avere pregiudizi e di non tifare per una parte o l’altra. Non concordo con chi vuole un magistrato che non ha una sua idea della società o del diritto o, se l’ha, non la deve manifestare. Ragionando così si vogliono magistrati senza idee, ossia stupidi, oppure che devono nascondere le loro idee, cioè ipocriti. Meglio invece la trasparenza di dire come la si pensa sui temi generali e l’assoluta indipendenza rispetto alle singole parti in causa. A proposito di comunicazione: l’Anm ha un vero team che lavora sui social, ma adesso anche la sua corrente di Area sbarca su Instagram e comincia a fare campagna. Pensate di riuscire ad attirare l’attenzione di quelli che non fanno già parte della vostra ‘bolla culturale’? La magistratura deve fare il massimo sforzo per spiegare ai cittadini - su tutti i media disponibili perché la giustizia non funziona e perché la riforma Nordio non serve a nulla. L’Anm lo sta facendo con uno staff di professionisti. Noi di Area DG ci proviamo con uno stile più scanzonato, grazie all’impegno genuino e gratuito di un gruppo di giovani colleghi che ringrazio moltissimo: sono la prova che la magistratura giovane è molto interessata al dibattito sulla giustizia. Il nostro dovere è renderla protagonista della vita associativa. Il magistrato prestato alla politica e attuale sottosegretario alla presidente del Consiglio, Alfredo Mantovano, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf ha parlato di “funzione giudiziaria che deraglia dai propri confini”, di magistratura che vuole farsi “establishment”, di “aggiramento della volontà popolare” soprattutto in “materia di immigrazione”. Ha torto su tutto? Mantovano ha detto cose molto gravi. Confonde il potere legislativo ed esecutivo che devono rispettare la volontà popolare con quello giudiziario, al quale spetta tutelare i diritti fondamentali delle persone, anche se non piacciono alle maggioranze di turno. Lui è legato ad una cultura giuridica superata da decenni. Certamente le norme incriminatrici penali devono essere decise Parlamento e devono essere interpretate in modo restrittivo. Però - negli altri settori - esiste la forza espansiva dei diritti fondamentali, tutelati e promossi dalle fonti sovranazionali. Se non si riconoscesse questo ci sarebbero interi settori, penso alle nuove famiglie, alla salute, all’ambiente che negli ultimi decenni sarebbero rimasti senza tutele. Per tacere dei tanti casi, si pensi al fine vita, in cui la politica decide di non decidere e tocca ai giudici dare risposte ai cittadini che chiedono giustizia. Appena è stato varato il dl sicurezza l’Anm ha fatto un comunicato ipotizzando profili di incostituzionalità e criticando nel metodo e nel merito la norma. Se pure aveste ragione voi toghe nel merito, dal punto di vista metodologico non vi trasformate così in una vera opposizione politica? In realtà l’Anm ha mosso solo critiche tecniche, in linea con quelle mosse dalla avvocatura e dagli studiosi di diritto. È stata fin troppo cauta rispetto alle critiche, molto condivisibili, delle Camere penali. Emergenza sovraffollamento e suicidi in carcere. Nordio prima dice che la colpa è dei delinquenti e dei magistrati, poi nega. Che idea si è fatto? Nessuna maggioranza ha mai davvero voluto affrontare la tragedia del sovraffollamento carcerario. Bisogna ripensare il diritto penale evitando di mettere il carcere al centro del sistema delle pene. Ed invece oggi mancano le persone e le risorse per le pene sostitutive, introdotte dalla Cartabia, ed addirittura - guardi al decreto Caivano od al decreto sicurezza- si aumentano le pene per pura propaganda. L’Anm ha scioperato contro la riforma Nordio sulla separazione. Sareste pronti a scioperare per le condizioni carcerarie? Non rappresento la Anm e posso rispondere per me: io aderirei anche ad uno sciopero della fame a staffetta, come è stato fatto in passato. Servono provvedimenti clemenziali per tipologie di reati, penso ai tanti detenuti con residui di pena per reati in materia di sostanze stupefacenti. Profughi ammanettati vengono portati nel Cpr albanese. L’obbligatorietà dell’azione penale non dovrebbe spingere qualche suo collega a indagare su quanto accaduto? Io mi scandalizzo quando vedo gli imputati portati -nei corridoi dei tribunali- in manette, si figuri cosa ho pensato quando ho visto le immagini che ritraggono persone ammanettate anche se non accusate di reati ma solo di essere in Italia senza permesso. Dl Paesi sicuri e protocollo Italia Albania: dopo il parere dell’avvocato generale della CGUE, lei credi che la Corte delibererà su quella linea? Le tesi dell’Avvocato generale mi paiono equilibrate e molto sensate. Del resto, funziona sempre così: il legislatore disciplina i casi generali, il giudice decide sul caso particolare cercando di applicare le norme nazionali e sovrannazionali all’ipotesi concreta che giudica. In generale che bilancio può fare di questo governo Meloni, Nordio, Piantedosi in tema di giustizia? Forte con i deboli, debole con i forti. Il diritto all’affettività e alla sessualità entra in carcere. Ma per garantirlo non basta una norma di Federica Pennelli Il Domani, 17 aprile 2025 La circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria afferma un diritto sancito dalla Corte costituzionale a gennaio 2024 e delega agli istituti il compito di decidere, caso per caso, come garantirlo. Miravalle (Osservatorio carcere di Antigone): “Questo governo di sua sponte non avrebbe mai fatto passi avanti. Ora serve applicare il testo, senza trasformare un diritto in un favore”. Solo una quindicina di istituti su 200 sono già pronti a partire. Un diritto sancito dalla Corte Costituzionale nel gennaio 2024, e ribadito nelle settimane scorse da ben tre tribunali di sorveglianza che avevano accolto i ricorsi presentati da altrettante persone detenute che denunciavano l’impossibilità di avere rapporti intimi con i propri partner. La circolare del Dap fornisce indirizzi operativi per garantire il diritto all’affettività delle persone detenute, sottolineando come sia un diritto fondamentale da esercitare anche durante la detenzione. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, afferma che la circolare disciplina le modalità di svolgimento dei colloqui intimi, demandando ai provveditori e ai direttori il compito di garantire questo diritto. “Molto è rinviato a loro e ora il diritto dovrà essere pienamente assicurato a livello territoriale. Le sentenze della Consulta vanno rispettate”, dichiara. Per Gonnella non ci sono più giustificazioni per ulteriori ritardi: “Abbiamo bisogno di promuovere un modello detentivo che sia più umano e che guardi alla Costituzione per costruire reali percorsi di reinserimento sociale”. La circolare, infatti, demanda ai direttori degli istituti penitenziari di attrezzarsi per mettere a disposizione spazi dedicati ai colloqui privati tra detenuti e persone con cui abbiano relazioni affettive stabili. Inoltre viene sottolineato come le richieste di colloqui intimi vadano valutate caso per caso, considerando la stabilità della relazione, la condotta del detenuto e le esigenze di sicurezza. Si prevede, infine, che gli istituti dovranno individuare e se necessario adeguare dei locali, per garantire privacy e sicurezza. C’è poi un altro dato: le visite intime non avranno una frequenza prestabilita uguale per tutti, ma saranno valutate individualmente, anche in base alla capienza e alle risorse dell’istituto. Osservatorio carcere - La rivista sul carcere Ristretti Orizzonti, dal 1998, si è sempre occupata anche del tema della sessualità negata all’interno del carcere. “La circolare è un passo avanti e accetta l’inevitabilità di quel diritto. I colloqui sono solo di due ore, ma la circolare si era inserita nell’ordinamento dei colloqui già esistente”, racconta a Domani Ornella Favero, direttrice della rivista e presidente della Conferenza nazionale di volontariato giustizia. Favero ricorda che al carcere Due Palazzi di Padova, già dal 2024, ci sarebbe stata la possibilità di disporre di strutture per questo tipo di colloqui: “Andrò a parlare con la nuova direttrice, come feci con il direttore precedente, per vedere se si possano trovare i fondi per attrezzare strutture adeguate e non una triste stanza”. Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’osservatorio carcere di Antigone, racconta che la circolare del Dap è la conseguenza di una volontà politica forzata dalla sentenza della Corte costituzionale, “perché questo governo, di sua sponte, non l’avrebbe mai eseguita”. Ora però si passa alla volontà amministrativa: “Non solo è possibile, ma deve essere possibile applicarla. Non è un optional, è un diritto”. Miravalle dice che Antigone è molto preoccupata dai tentennamenti burocratici: “In carcere la burocrazia penitenziaria è capace di qualsiasi cosa. Per questo noi monitoreremo attentamente la situazione”. Ci sono già una quindicina di carceri che hanno individuato gli spazi e sono pronti a partire, su circa 200 istituti penitenziari: “Bisogna che questo numero cresca in fretta”. Inoltre, per Antigone, non vige un reale problema di spazi: “Ogni struttura, per quanto sovraffollata, ha degli spazi non detentivi che può adibire. Sarebbe una scusa se i direttori iniziassero a dire che non ce ne sono: vanno garantiti spazi di qualità”. È soprattutto una questione di volontà, dunque: “Per alcuni operatori penitenziari riconoscere questo diritto è complesso, è un tabù che inizia a rompersi”. È importante, inoltre, che i dirigenti penitenziari entrino nell’ottica che non applicare quella circolare significherebbe “violare un diritto e pagarne le conseguenze. Già abbiamo atteso più di un anno dalla sentenza”. Un punto problematico sarà quello di come accedere a quegli spazi: “La circolare lascia margini di discrezionalità. Il rischio è che si trasformi un diritto in un favore, e non è quello lo spirito della sentenza”. Bambini separati dalle madri detenute: col dl Sicurezza il governo compie un passo di non ritorno di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2025 Per la prima volta in assoluto si apre alla possibilità che il bambino venga strappato a sua madre. Fino a ora non si era mai pensata una misura simile. Con un colpo di mano, le norme contenute in quello che era il disegno di legge governativo sulla Sicurezza sono convogliate quasi del tutto inalterate in un decreto legge. Norme che giacevano in parlamento da mesi e mesi sono all’improvviso divenute necessarie e urgenti, così da poter essere emanate dal Consiglio dei Ministri saltando la discussione parlamentare. Le nuove disposizioni, come più volte abbiamo ripetuto, compromettono i principi dello Stato di diritto nel nostro Paese. Il testo costituisce “Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana”, come recita il titolo di un volume di Antigone sull’argomento (Momo Edizioni). Queste cose le abbiamo dette e ripetute. Qui mi interessa segnalare brevemente una circostanza assai inquietante cui mi pare non si dia la giusta attenzione. Come ampiamente circolato in varie indiscrezioni mediatiche, una delle norme del vecchio disegno di legge maggiormente invise alla presidenza della Repubblica era quella riguardante le detenute madri. Con essa si prevedeva l’abolizione dell’obbligo - presente nel codice firmato dal guardasigilli fascista Alfredo Rocco - di rimandare l’esecuzione della pena nel caso di donna incinta o con figli di età inferiore a un anno di vita. Da obbligatorio, il rinvio diveniva facoltativo, ovvero soggetto alla decisione del giudice che caso per caso doveva valutare il rischio che la donna tornasse a commettere reati. Il decreto Sicurezza appena entrato in vigore ha lasciato su questo punto le cose sostanzialmente immutate. La donna in gravidanza o appena divenuta madre, una volta condannata, potrà iniziare da subito a scontare la propria pena. La presunta novità sarebbe la seguente: se il bambino ha meno di un anno di età, la donna dovrà andare obbligatoriamente in un Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri). Se il bambino ha tra un anno e tre anni di età, potrà andare in un Icam oppure, se le ragioni di sicurezza lo richiedono, in un carcere ordinario. Una cosa analoga accade in fase cautelare: fino a un anno c’è l’obbligo dell’Icam, dopo dipende da ragioni di sicurezza. Questa disposizione, che finge di andare incontro alle preoccupazioni del Colle, non serve in alun modo ad allontanare i bambini appena nati o in procinto di nascere dal carcere. L’Icam è un carcere a tutti gli effetti: un edificio chiuso, gestito dal Ministero della Giustizia, all’interno del quale scorre la pena della reclusione, dal quale non si può uscire liberamente. Da questo punto di vista, cambia davvero poco. Ma una cosa invece cambia enormemente: per la prima volta in assoluto si apre alla possibilità che il bambino venga strappato a sua madre. Il decreto prevede infatti che la donna che non si comporta a dovere (compromette l’ordine o la sicurezza dell’istituto, diciture - di cui il decreto è pieno - sufficientemente vaghe da permettere qualsiasi arbitrio) mentre è sottoposta alla custodia cautelare in un Icam possa venire trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio. Per lui o per lei verranno allertati i servizi sociali. Se il contenuto dell’articolo non fosse preoccupante potremmo ironizzare sulla sua rubrica, che parla di “condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri”, declinando al maschile il sostantivo là dove negli Icam troviamo solo donne, alla faccia di qualsiasi linguaggio inclusivo. Fino a ora non si era mai pensata una misura simile. La norma del 1975 che permetteva alla madre detenuta di portare con sé il bambino era intesa dal legislatore come una norma di garanzia nei suoi confronti: era lei, e solo lei, a dover effettuare la scelta, a dover stabilire se far dormire suo figlio per un periodo in stanza con sé costituisse - purtroppo - in quella specifica circostanza il male minore. Quando chiedevamo una maggiore attenzione affinché i bambini non dovessero fare ingresso in carcere, era una maggiore apertura verso misure di decarcerizzazione per la madre detenuta che stavamo chiedendo. Misure da prendersi con coraggio, investendo risorse nelle case-famiglia e preparando una seria accoglienza esterna. Ben sapevamo che nessuna legge avrebbe mai potuto garantire che nessun bambino varcasse più le porte di un carcere, se non strappando il figlio alla madre. Per questo non chiedevamo una legge risolutiva, ma un lavoro caso per caso, che si accompagnasse a risorse economiche e maggiore attenzione al tema. L’attuale governo è riuscito a compiere un passo di distruzione e di non ritorno. Si è oggi aperto alla possibilità dell’istituzionalizzazione forzata dei figli delle detenute. Tornare indietro sarà sempre più difficile. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Ogni suicidio in cella racconta una storia che non abbiamo voluto ascoltare di Alessandro Trocino* linkiesta.it, 17 aprile 2025 Non ci sono eroi in carcere. Ma uomini. Che noi non vediamo, o non vogliamo vedere o fingiamo di non vedere. Troppa fatica allungare lo sguardo, abbracciare la miseria nelle strade e scorgere quel che c’è oltre le mura di quei fortini guardati a vista dalle altane da agenti con il basco blu. Della loro disperazione ci arriva solo una eco. Quella morte improvvisa è suicidio? Quel ragazzo che ha inalato gas dal fornelletto da campeggio voleva solo stordirsi o uccidersi? Nel 2024 siamo arrivati a 79 vittime, come dice il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, anzi a 89, come dice l’associazione Ristretti Orizzonti. Saranno poche o tante? I numeri si accumulano, ma non parlano da soli. Annoiano, anestetizzano. Sembriamo distratti. Niente sembra scuoterci. I suicidi in carcere sono un tabù, non per ragioni etiche ma strutturali. “Carcer”, la parola latina da cui deriva, significa “recinto”. Il suo scopo è proprio espellere e recintare coloro che non riteniamo degni di appartenere alla nostra comunità o che consideriamo pericolosi. Li confiniamo in un mondo a parte, chiuso, dove non possano vedere altro che uno spicchio di cielo e la ferocia della solitudine. La loro sorte è quella di essere nascosti, dimenticati, seppelliti vivi. Fantasmi. Sono uomini e donne che sottraiamo volontariamente alla nostra vista. Il carcere è una realtà che non vediamo e che non vogliamo vedere. È un “fastidio” per noi quando qualcuno decide di impiccarsi con un lenzuolo. Quando scoppia una rivolta, si incendiano materassi, si fanno battiture sulle porte blindate. Siamo tutti un po’ seccati. Abbiamo altro da fare, altre passioni, altre preoccupazioni, le tasse, il lavoro, il calcio, l’amore, la vita. Non abbiamo, forse, costruito il diritto, i tribunali e le carceri per allontanarci da tutto questo? Un rimedio perfetto. Se non fosse che non possiamo non occuparcene, per molte ragioni. Perché quei fantasmi rischiano di materializzarsi, prima o poi, davanti ai nostri occhi. Perché quei criminali non è detto che siano tutti criminali. Molti, circa un terzo, sono in custodia cautelare, cioè non sono mai stati condannati, talvolta neanche in primo grado. Diversi finiranno assolti, o prosciolti senza neanche essere rinviati a giudizio, innocenti finiti in cella per errore. Quanti anni sono passati dal film di Nanni Loy con Alberto Sordi, Detenuto in attesa di giudizio? Cinquanta? E sarebbe così fuori dal tempo se uscisse ora? Là dentro, in quei posti che non vogliamo vedere, potremmo finirci anche noi, un amico, un parente, tra un giorno, un mese, un anno. Facciamo fatica a crederlo, dall’alto delle nostre certezze. Eppure il “noi” e il “loro” sono pronomi interscambiabili. Qualcuno si impiccherà e qualcuno dirà: giustizia è stata fatta. Altri resisteranno alla ferocia del buio, allo “splendore dei supplizi”, e torneranno fuori, tra noi. Se saranno ancora pronti a rubare, a ferire, a uccidere, dipenderà anche da come ci saremo occupati di loro. C’è un film del 2023, una commedia nera del regista finlandese Teemu Nikki dal titolo: La morte è un problema dei vivi. Lo è di certo la morte di chi viene ucciso da qualche criminale, ma lo è anche la morte di tutte le persone che si sono suicidate in carcere in questi anni e che nel 2024 hanno superato il numero record del 2022, che era di 84. Mentre scrivevo questo libro ho pensato spesso che le biografie sono atti di arroganza: ci si assume il rischio di raccontare quel che non si è vissuto, sulla base di quello che si sa, che si è riusciti a capire, con il rischio di parlare più di sé che delle persone raccontate. Ho provato a ridurre il rischio, scrivendo queste storie con una lingua quasi cronachistica. Non solo per restare aderente ai fatti, ma perché la vita dei reclusi non merita troppi aggettivi, figure retoriche, artifici. E i morti non devono subire un altro oltraggio, oltre a quello dell’oblio: non devono diventare materia per un esercizio di stile o per un racconto morboso, patetico. *Tratto da “Morire di pena. 12 storie di suicidio in carcere”, di Alessandro Trocino, Editori Laterza, 176 pagine, 13,30 euro Sui suicidi in carcere Nordio non dice la verità: l’Italia non è tra i Paesi migliori in Europa di Carlo Canepa pagellapolitica.it, 17 aprile 2025 “L’Italia, tra l’altro, non è certo al primo posto tra i suicidi [in carcere] in Europa, anzi è verso gli ultimi”. Ma la dichiarazione del ministro della Giustizia non è supportata dai numeri. Nel 2022, l’Italia era quinta nell’Ue per tasso di suicidi in carcere e settima in Europa, con oltre venti Paesi con valori più bassi. Il 15 aprile, ospite di Zapping su Rai Radio 1, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto (min. 16:10) che il problema dei suicidi in carcere è “estremamente complesso” e “non può essere risolto con degli slogan”. Nordio ha sottolineato che il fenomeno “è comune a tutti i Paesi”, aggiungendo che l’Italia, “non è certo al primo posto tra i suicidi in carcere in Europa, anzi è verso gli ultimi”. I numeri sostengono questa parte della dichiarazione del ministro della Giustizia? In breve, la risposta è no. I suicidi in carcere in Europa - I dati più completi per confrontare il numero dei suicidi in carcere nei Paesi europei sono raccolti e pubblicati dal Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale con sede in Francia che promuove i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto in tutto il continente. Non è un’istituzione dell’Unione europea e non va confusa né con il Consiglio europeo né con il Consiglio dell’Unione europea. I dati più aggiornati sui suicidi in carcere nei 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa - inclusi i 27 Stati membri dell’Ue - sono stati pubblicati nel 2024, ma si riferiscono al 2022. Secondo il Consiglio d’Europa, in quell’anno si sono registrati 84 suicidi negli istituti penitenziari italiani, un numero che coincide con quello rilevato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e da Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere di Padova e dell’istituto penale femminile di Venezia, che dal 1992 raccoglie dati su questo fenomeno, peggiorato negli ultimi anni. Il numero italiano è il secondo più alto tra i Paesi europei, superato solo dalla Francia (138 suicidi). Ma confrontare i valori assoluti ha poco senso, perché sono influenzati dalla dimensione della popolazione: l’Italia è infatti il terzo Paese più popoloso dell’Ue. Per questo motivo, il Consiglio d’Europa fornisce anche un altro indicatore: il tasso di suicidio ogni 10.000 detenuti, che consente un confronto più equilibrato tra i Paesi. Nel 2022 l’Italia ha registrato 15 suicidi ogni 10.000 detenuti: il terzo tasso più alto tra i Paesi Ue (il quarto più alto considerando la Svizzera). Se si includono anche i dati del 2021 per i Paesi che non hanno ancora pubblicato quelli del 2022, l’Italia viene superata da Norvegia, Germania e Malta, ma resta comunque tra le prime posizioni, e non tra “gli ultimi”, come ha affermato Nordio. Venticinque Paesi europei hanno infatti un tasso di suicidio in carcere più basso. Anche considerando un periodo di tempo più ampio, la dichiarazione del ministro non trova conferma nei dati. Nel 2024 la rivista scientifica The Lancet Psychiatry - che fa parte del gruppo editoriale della storica rivista The Lancet - ha pubblicato uno studio sull’andamento dei suicidi in carcere in circa 80 Paesi, tra il 2000 e il 2021. Per quanto riguarda l’Europa, una delle fonti usate dai ricercatori è proprio il Consiglio d’Europa. Secondo questo studio, l’Italia non risulta tra i Paesi europei con meno suicidi in carcere, se si considera il rapporto con il numero dei detenuti. Va inoltre segnalato che nel 2024 - anno per il quale non sono ancora disponibili dati comparabili con il resto d’Europa - il fenomeno in Italia è peggiorato ulteriormente. Secondo Ristretti Orizzonti, i suicidi sono stati 90, il numero più alto mai registrato da quando sono disponibili i dati. Secondo Nordio, l’Italia non è al primo posto in Europa per suicidi in carcere, ma “è verso gli ultimi”. I numeri più aggiornati gli danno torto. Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia è al quinto posto nell’Ue per numero di suicidi in carcere in rapporto alla popolazione detenuta. Considerando anche i Paesi europei non membri dell’Ue, scende al settimo posto, ma più di venti Paesi hanno meno suicidi tra i detenuti. Sulle carceri Nordio latita di Giulio Cavalli La Notizia, 17 aprile 2025 Ogni quattro giorni una persona si suicida in un carcere italiano. I numeri sono inchiostro freddo, ma raccontano l’urlo strozzato di un sistema che implode: 62.165 detenuti stipati in spazi pensati per meno di 47mila. Il sovraffollamento ha superato il 132%. In alcune celle si dorme in tre per terra, con un solo bagno e senza assistenza. E il ministro Carlo Nordio, che pure aveva promesso una riforma epocale, ha deciso che la colpa non è sua. È dei giudici. Dei magistrati. Delle leggi che non riesce a cambiare, o che scrive con l’intento di peggiorare. Mentre i tribunali internazionali condannano l’Italia, Nordio si assenta. L’ultima bacchettata è arrivata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il caso di Simone Niort: 27 anni, 9 dei quali passati in carcere nonostante una grave patologia psichiatrica. Venti tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, nessuna struttura adeguata. La Cedu ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 della Convenzione: trattamenti inumani e degradanti. Eppure, nulla. Nessuna risposta strutturale, nessuna assunzione di responsabilità. Il decreto che punisce la povertà - I numeri parlano anche di 89 suicidi nel 2024. Di celle pensate per quattro persone che ne ospitano otto. Di rivolte, come quella nel carcere di Cassino, o fughe, come quella dal Malaspina di Palermo, che non sono solo cronaca nera, ma sintomi di una malattia istituzionale. Di una giustizia penale che si è trasformata in discarica sociale. Il decreto Sicurezza, tanto sbandierato dal governo Meloni, non solo non affronta il problema, ma lo aggrava. Introduce reati che criminalizzano la marginalità: resistenza passiva nei Cpr e nelle carceri, occupazioni abusive punite come omicidi colposi. La Giunta esecutiva centrale dell’Anm ha segnalato evidenti profili di incostituzionalità, sottolineando che “si introducono nuovi reati per sanzionare in modo sproporzionato condotte che sono spesso frutto di marginalità sociale e non di scelte di vita”. “Basti pensare - ha aggiunto l’Anm - che la pena per l’occupazione abusiva di immobili coincide con quella prevista per l’omicidio colposo con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Inoltre, incriminare la resistenza passiva nelle carceri e nei Cpr, e dunque la resistenza non violenta e la semplice manifestazione del dissenso, produce effetti criminogeni”. È un diritto penale costruito per punire l’esclusione, non per prevenire il crimine. Di fronte a questa emergenza, il ministro propone moduli prefabbricati antisismici. Celle in lamiera come soluzione al disagio. Affidarsi alle baracche per nascondere l’assenza di una visione. La riduzione della carcerazione preventiva è rimasta un annuncio. Il trasferimento dei detenuti stranieri nei Paesi d’origine è un miraggio. L’edilizia penitenziaria è ferma a promesse e slide. Mattarella parla. Nordio scompare - Il 25 marzo 2025, nel messaggio per il 208° anniversario della fondazione del Corpo di polizia penitenziaria, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito “assai critiche” le condizioni del sistema carcerario e ha denunciato il “grave fenomeno di sovraffollamento in atto”. Un richiamo netto all’articolo 27 della Costituzione, che impone alla pena una funzione rieducativa. Ma Nordio, ancora una volta, ha fatto finta di nulla. Non ha nemmeno partecipato alla seduta straordinaria della Camera dedicata al tema. Il ministro della Giustizia assente quando si parla di giustizia. Eppure, qualcosa si muove. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha finalmente emanato linee guida per garantire il diritto alla sessualità e agli affetti in carcere. Un segnale. Ma isolato. Non basta garantire un colloquio privato se nel frattempo si nega una terapia, se si muore nel silenzio, se si aggrava una malattia dietro le sbarre. Il carcere, oggi, è luogo di abbandono, di espiazione cieca, di violenza burocratica. Non serve un piano emergenziale, serve una riforma etica. Nel frattempo, chi può, scappa. Chi non può, si toglie la vita. E lo Stato, invece di rispondere, volta lo sguardo. Dl Sicurezza, ecco le pregiudiziali di costituzionalità di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 aprile 2025 La maggioranza archivia il ddl mentre alla Camera il decreto corre veloce. Protesta unanime delle opposizioni: è uno “scippo istituzionale senza precedenti”. Mentre alla Camera il decreto Sicurezza ha preso il binario dell’altissima velocità con l’obiettivo fissato di portarlo in Aula già a maggio dopo un veloce passaggio formale nelle stazioni delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, nell’altro ramo del Parlamento, dove era previsto l’avvio dei lavori in Aula dell’equivalente ddl, i nodi vengono al pettine. Il Senato ieri ha infatti definitivamente archiviato la discussione sul ddl Sicurezza perché, come è toccato al forzista Lucio Malan ammettere nel chiedere la sospensione dei lavori, i due provvedimenti si sovrappongono. L’opposizione protesta, ma è inutile. La dem Anna Rossomando che siede alla presidenza in quel frangente non può far altro che comunicare all’assemblea il time out. I lavori sul ddl formalmente sono sospesi “fino all’esito della conversione in legge del decreto-legge di analogo contenuto”. Dal M5S ad Avs, dal Pd ad Azione, da Iv a +Europa, le minoranze denunciano all’unisono ciò che è evidente ormai a tutti da giorni, compreso l’Onu che ha invitato il governo Meloni a ritirare un decreto con il quale, per usare le parole più usate dai senatori dell’opposizione, il “governo si appropria della funzione legislativa” compiendo uno “scippo istituzionale”, mortificando “senza precedenti” “le regole della democrazia parlamentare” e violando “i limiti posti dalla Costituzione alla decretazione d’urgenza”. Il decreto infatti è solo un calco con piccole modifiche del ddl che - con il suo carico di 14 nuovi reati e 9 aggravanti - aveva iniziato il suo iter un anno e mezzo fa alla Camera ma che, essendo destinato alla terza lettura per le correzioni richieste dalle opposizioni e imposte dal Quirinale e dalla Ragioneria dello Stato, stava mettendo in difficoltà le capacità politiche della maggioranza parlamentare. Un provvedimento, sostiene il M5S che alla Camera ha presentato una pregiudiziale di costituzionalità, nel quale palesemente “vengano ignorati e talvolta calpestati gli articoli 2, 3, 13, 21, 25, 27, 31, 77 della Costituzione e numerosi pronunciamento della Corte Costituzionale”, come la sentenza 146 del 2024. Un’altra pregiudiziale di costituzionalità è stata sollevata dal segretario di +Europa, Riccardo Magi, che ricorda come la Consulta abbia già chiarito più volte che “senza i requisiti di necessità e urgenza, un decreto-legge è illegittimo”. Tanto più se, come in questo caso, è un modo per “forzare la mano” e aggirare le lungaggini del Parlamento, come ha candidamente ammesso lo stesso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Alla Camera, dopo un passaggio rapido nelle commissioni il 22 e 23 aprile per le audizioni, visto che il decreto deve poi passare al vaglio anche del Senato e va convertito in legge entro il 10 giugno, le questioni pregiudiziali verranno votate in Aula il 24 aprile. La forzista Augusta Montaruli (Affari costituzionali) e la leghista Ingrid Bisa (Giustizia), che erano già state relatrici per il Ddl Sicurezza, svolgeranno ora lo stesso compito per il decreto. Con loro, l’azzurro Davide Bellomo che siede nella Seconda commissione di Montecitorio. Formalità che non cancelleranno la forzatura governativa davanti alla quale, esorta il senatore del Pd Andrea Giorgis, “occorre che anche i senatori e i deputati di maggioranza reagiscano: non è solo una questione di rapporti tra maggioranza e opposizioni e di prerogative delle minoranze, ma di rispetto dei più basilari capisaldi della democrazia parlamentare”. Nel mirino del Dl Sicurezza c’è la repressione del dissenso: un piano autoritario che va fermato di Marco Grimaldi* Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2025 Infine, il Ddl Sicurezza è diventato decreto, aggirando il Parlamento e il Quirinale. Una metamorfosi necessaria per sottrarsi al confronto delle Camere, ma anche per non cedere sulle misure di pura disumanità nel mirino del Presidente della Repubblica, a partire dal divieto di acquistare Sim per i migranti irregolari e dal carcere per le donne incinte o madri di bimbi piccoli. Per loro, nessun ripristino della norma che evita la custodia cautelare: la detenzione preventiva, ora prevista obbligatoriamente negli Icam (istituti a custodia attenuata per le madri), significa comunque carcere. Nessun accesso alle misure alternative previste dalla legge, negato il diritto delle donne a partorire libere e dei bambini a nascere liberi. Un intento unicamente punitivo, che colpirà soprattutto le donne più vulnerabili. E quanto è punitivo e privo di alcun senso negare a un migrante, già sradicato, di possedere un telefono cellulare con cui contattare la propria famiglia? Vero, nel decreto non è più necessario il permesso di soggiorno, basta un documento di identità, ma sappiamo quanti sbarcano sprovvisti di qualsiasi pezzo di carta. Ma che cosa c’è, soprattutto, nel mirino di questo decreto? Quale spinta lo anima nel profondo? Per noi la risposta è chiara: la repressione del dissenso e la contrazione degli spazi di democrazia. Sì, perché il messaggio più forte è all’indirizzo delle opposizioni, dei movimenti, delle voci critiche, delle proteste di piazza: non osate. ?Il Quirinale aveva posto sotto la sua lente l’articolo 19 del Ddl Sicurezza, il cosiddetto “Pro-Tav” o “Pro-Ponte”, che modificava alcuni articoli del codice penale in materia di violenza, minaccia o resistenza a un pubblico ufficiale, nel caso in cui agite per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. Ma il decreto-legge non rappresenta un ravvedimento: sebbene non contenga quella “neutralizzazione” di fatto delle attenuanti rispetto alle aggravanti, che era nel Ddl, aumenta ora la pena della metà, anziché di un terzo. E sostituisce esplicitamente il riferimento a “opere pubbliche” e “infrastrutture strategiche” con “infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”. E poi c’è un’altra missione capitale, esplicitata dalla presidente Meloni stessa per giustificare la fretta nel decretare: assicurare uomini e donne in divisa “le tutele che meritano”. E così arriva la tutela legale a carico dello Stato per gli agenti, fino all’importo massimo di 10mila euro per ogni fase del procedimento penale, ma secondo i sindacati di polizia non è uno “scudo”. Sarà, eppure coloro che dello Stato sono i primi servitori non dovrebbero essere posti sotto la sua lente severa chiedendo i codici identificativi su ogni casco o divisa? Non dovrebbe lo Stato vivere come ancor più odiosi quei reati perpetuati nel suo nome, quasi sempre abusando del potere da esso concesso? Ma l’impianto di questo decreto è il rovesciamento totale del senso stesso dello Stato, nella forma della Repubblica, il cui scopo primario certo non è sciogliere il potere da ogni vincolo di legge (quella si chiama tirannide), ma “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, come scritto nella nostra Costituzione. Abbiamo meno di 60 giorni. Di fronte a un attacco così radicale non basterà certo l’opposizione parlamentare che contro i decreti non ha barricate legali. Ecco perché è fondamentale partecipare alla manifestazione nazionale indetta dai movimenti per il 31 maggio. Perché, come dicono loro, non siamo alla fine, ma solo all’inizio. “Se loro scrivono i decreti, noi scriveremo un’altra storia”. E per fermare questo piano autoritario servono le aule, ma soprattutto le piazze, nei territori, la lotta quotidiana. Serve che le opposizioni unite portino al voto l’8 e il 9 giugno quante più persone possibile per abrogare norme che consentono sfruttamento sul lavoro e discriminazioni ai danni dei residenti stranieri. Contro un governo tutto armi e repressione, piazze per dire no, urne per dire 5 sì. *Deputato di Alleanza Verdi Sinistra La linea morbida di Nordio per spezzare l’asse tra Anm e opposizioni di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 17 aprile 2025 Il guardasigilli vuole arrivare al referendum senza tensioni. Dopo lo scontro frontale sul caso Almasri, il ministro Nordio sembra aver scelto la linea “morbida” con l’Anm. Linea confermata dal clima disteso registrato da entrambe le parti in occasione dell’incontro di martedì scorso. Sulla riforma della giustizia appare già evidente da qualche tempo che lo sguardo di tutti gli attori scena sia già rivolto, in prospettiva, all’appuntamento referendario. Ma proprio in vista di questo appuntamento così importante su un testo che è attualmente in esame in seconda lettura a Palazzo Madama, nel perimetro del governo sembra si stiano delineando due approcci differenti. Uno è teso a smorzare, per quanto possibile, i focolai di polemica ideologica con la magistratura organizzata, ponendo il focus sul merito della riforma e sui benefici che ne deriverebbero per i cittadini, con l’intento di evidenziarne l’impatto sul sistema giustizia e quindi sulla vita di tutti i giorni. L’altro, invece, si pone nel solco di una dialettica a tratti infuocata che anima il dibattito italiano da ormai più di 30 anni, e vede un’ideale continuazione della contrapposizione - a forti tinte politiche - tra centrodestra e toghe. A giudicare dalle dichiarazioni delle ultime settimane, stupisce il fatto che a farsi alfiere della linea “dura” contro le toghe non sia un berlusconiano della prima ora animato da revanscismo, bensì un ex- magistrato cresciuto in un partito (Alleanza Nazionale) in cui le istanze di giudici e pm sono sempre state considerate con molta attenzione, tanto da far dire allo stesso Berlusconi e ai suoi più stretti collaboratori che alla base del fallimento dei tentativi di separazione delle carriere durante i suoi governi ci fu proprio la latente opposizione del partito di Gianfranco Fini. Si parla, ovviamente, del sottosegretario Alfredo Mantovano, che in questo frangente sta assumendo su questo fronte una postura “decisa”, sottolineando i punti in cui le posizioni dell’esecutivo appaiono inconciliabili tra l’esecutivo e i magistrati. A suffragio di questa tesi ci sono i fatti, e i fatti sono rappresentati dalle parole usate da Mantovano in alcune uscite pubbliche. Discorsi, a scanso di equivoci, non “punitivi” ma certamente severi, tesi verosimilmente a sferzare quei settori delle toghe più inclini a farsi assorbire dalla tentazione della politicizzazione del dibattito sulla riforma. Quando il sottosegretario cita - seppure in modo edulcorato - alcuni recenti pronunciamenti di tribunali (il riferimento è in particolare alla definizione di paesi sicuri e alle ripercussioni sulle politiche migratorie del governo Meloni) parlando di “aggiramento della sovranità popolare” attraverso l’intervento “per via giurisdizionale, di norme che il Parlamento, espressione della sovranità popolare, non ha mai approvato”, o ancora del “sospetto di magistrati condizionati dalla loro personale ostilità nei confronti di un certo esponente politico”, è evidente l’intenzione di mantenere il focus sulla questione - innegabile - del riequilibrio dei poteri, peraltro sostenuta con grande vis polemica anche dalla presidente del Consiglio. Ne risulta un’inevitabile reazione da parte delle toghe (puntualmente arrivata previa nota dell’Anm) e una maggiore saldatura tra le correnti più battagliere e l’opposizione politica alla riforma, come dimostra il “tour” parlamentare di Parodi e dei suoi, teso sostanzialmente a rinnovare la lealtà di Pd, M5s e Avs. Nell’impostazione scelta da Mantovano, probabilmente ha pesato anche la scelta del direttivo dell’Anm di bocciare la proposta della corrente moderata Mi (alla quale Mantovano apparteneva) di limitare le presenze delle toghe a iniziative politiche contrarie alla riforma. Di contro, chi sembra aver scelto la linea “morbida” è il Guardasigilli Carlo Nordio, che dopo alcune polemiche frontali coi magistrati, culminate con l’intervento in aula alla Camera nel corso della discussione della mozione di sfiducia a suo carico per l’affaire Almasri, ha imboccato la via del dialogo (o quantomeno del confronto di merito) con l’Anm, testimoniato dal clima disteso registrato da entrambe le parti in occasione dell’incontro che si è tenuto a via Arenula martedì scorso. Significativo il fatto che, all’appuntamento, Nordio si sia presentato con una cartella in cui erano fissati i punti sottoposti dall’Anm all’attenzione della premier più di un mese fa a Palazzo Chigi: questioni concrete, che attengono al funzionamento del nostro sistema giustizia, come il rinnovamento dell’organico, l’Ufficio per il processo e soprattutto l’amministrazione penitenziaria. Un “confronto aperto e franco”, nel contesto di un “clima collaborativo nonostante alcune divergenze”, come rilevato dai presenti, che se da una parte ha potuto tenere lontane le polemiche bypassando l’argomento separazione delle carriere, ha dimostrato che è possibile concentrarsi sui temi, non prestando il fianco a strumentalizzazioni che fatalmente finiscono per cementare l’opposizione giudiziaria con quella politica. Dagli avvisi di garanzia alle misure cautelari. Gli “obiettivi irrealizzabili” di via Arenula di Valentina Stella Il Dubbio, 17 aprile 2025 “Intendiamo rimodulare i presupposti perché scatti la carcerazione preventiva. Oggi c’è il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove e la reiterazione del reato: queste sono categorie anche in parte obsolete, che dovrebbero essere riviste”: lo aveva detto due giorni fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio intervistato a SkyTg24. Obiettivo condivisibile, che si scontra con la realtà politica del momento. Vediamo come. Sul tema ieri, in commissione Giustizia alla Camera, si è tornato a discutere grazie a una interrogazione presentata dal capogruppo di Forza Italia, Tommaso Calderone, che ha chiesto al governo cosa intenda fare “nel brevissimo termine” per ridurre l’abuso della custodia cautelare. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 marzo di quest’anno su oltre 62mila detenuti, 9.271 sono in attesa di primo giudizio. Come aveva fatto a febbraio Nordio nell’aula di Montecitorio, anche il sottosegretario Andrea Delmastro ieri in commissione ha ribadito la sensibilità che il guardasigilli ha per la questione, ma allo stesso tempo ha alzato bandiera bianca dichiarando che il tema è all’attenzione della Commissione di studio presieduta da Antonio Mura e istituita per la riforma del processo penale. Il che significa che occorre aspettare molto, prima di avere un elaborato complessivo di riordino della procedura. Tuttavia Calderone, che al tema tiene molto, ha chiesto di valutare l’accelerazione dell’iter di discussione della sua proposta di legge che punta a modificare l’articolo 299 del codice di rito, intervenendo nella parte che prevede, tra le esigenze, il rischio di reiterazione del reato, escludendo però i reati di maggiore allarme sociale, come mafia e terrorismo e quelli a sfondo sessuale. Dunque lo strumento esiste per portare a casa la modifica senza aspettare il mastodontico lavoro della Commissione Mura. Ma ciò che manca evidentemente è la volontà politica. Perché? Si tratta di una riforma sacrificabile in nome di quella epocale della separazione delle carriere. E lo è insieme a diverse altre, che potrebbero apparire agli occhi di una fetta di elettorato di destra troppo garantiste, di matrice “berlusconiana”, tanto da quindi, come un riflesso pavloviano, quei cittadini a disertare il voto o votare No al referendum costituzionale. Sempre ieri nell’Aula di Montecitorio il presidente della seconda commissione Ciro Maschio, ha comunicato che, sulla proposta di legge “Enzo Tortora” concepita per istituire la giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari, non si è riusciti a dare il mandato al relatore, a votare gli emendamenti e ad acquisire i pareri delle commissioni in sede consultiva. Per questo la prossima settimana la Camera deciderà se bocciarla o rimandarla in commissione. Entrambe le strade portano in ogni caso a un binario morto. Un’altra questione che sta molto a cuore al guardasigilli è costituita dal processo mediatico e dalla conseguente esigenza di tutela della riservatezza dell’indagato. Sempre due giorni fa a SkyTg24, Nordio ha detto: “Stiamo pensando di rivedere l’istituto dell’informazione di garanzia e del registro degli indagati che, da elemento a garanzia di chi lo riceve, si è trasformato in una condanna anticipata e in una sorta di gogna mediatica. Stiamo cercando di intervenire a tutela della serenità dei cittadini”. Probabilmente è stato spinto a fare questa dichiarazione dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni del giocatore Nicolò Fagioli, finito al centro dell’inchiesta sulle scommesse. Pubblicazione che, come ricorda l’ispiratore della norma sull’impubblicabilità delle ordinanze cautelari, il forzista Enrico Costa, è un reato codificato come tale dal 1930. Ma il guardasigilli ha anche l’ambizione, come riferito sempre a Sky, di riformare proprio il Codice Rocco, “firmato da Benito Mussolini: noi abbiamo un codice fascista su cui stiamo lavorando per mettere mano ai temi del nesso di causalità e alle scriminanti, che se modificati avrebbero un grosso impatto sul sistema giustizia”. Ricordiamo che da procuratore aggiunto a Venezia, nel 2001 Nordio fu messo a capo della Commissione ministeriale di studio per la riforma del codice penale, e un suo vecchio pallino era proprio quello della riduzione dell’area della perseguibilità. Una prospettiva che potrebbe stridere però con i desiderata di Lega e Fratelli d’Italia, sempre pronti invece a introdurre nuovi reati a ogni nuova “emergenza sociale percepita”. Il nodo è sempre quello: da un lato, le spinte liberali e garantiste del Nordio pre- via Arenula vanno a sbattere contro il muro giustizialista di due azionisti di maggioranza del governo, che devono comunque dar conto al loro elettorato; dall’altro lato, quelle spinte devono essere sacrificate anche perché la premier Giorgia Meloni non può rischiare di perdere il referendum sulla separazione delle carriere, visto che quel genere di smacco potrebbe innescare persino una sconfitta alle successive elezioni. Quella della magistratura è la riforma su cui tutto il governo ha puntato dopo aver perso per strada l’autonomia e il premierato, e ora sull’altare di quella scommessa è immolato qualsiasi altro proposito in materia di giustizia. L’archiviazione non è una condanna morale: restituiamo laicità alla Giustizia di Stefano Giordano L’Unità, 17 aprile 2025 Preoccupa la tendenza nel nostro sistema giudiziario a trasformare le richieste di archiviazione in condanne morali. Restituiamo laicità alla Giustizia. Negli ultimi anni, il nostro sistema giudiziario ha visto emergere una tendenza preoccupante: quella di travestire le richieste di archiviazione in vere e proprie condanne morali. Questa pratica, puntualmente censurata dalla Corte Costituzionale, solleva interrogativi fondamentali sul ruolo di giudici e pubblici ministeri, chiamati a essere custodi di una giustizia laica, imparziale e priva di filtri ideologici. Purtroppo, la realtà processuale sembra essere soggetta a interpretazioni personali che travalicano la mera applicazione della legge in favore di un’opinione morale che di per sé non ha peso giuridico. Prendiamo ad esempio la recente richiesta di archiviazione riguardante la vicenda del figlio di Ignazio La Russa. In questo caso, l’archiviazione è stata accompagnata da affermazioni che, pur non configurando illeciti penalmente rilevanti, descrivevano comportamenti ritenuti “disdicevoli” o “immorali”. Qui sorge un primo interrogativo: a cosa serve la giustizia se anziché illuminare il quadro giuridico, si esprime solo giudizi morali? In un mondo ideale, ci aspetteremmo che un giudice si limiti a esprimere un giudizio binario: colpevole o non colpevole. Siamo lontani dalla teocrazia degli ayatollah, ma che talvolta un retrogusto moralista riesca a insinuarsi tra le maglie del nostro ordinamento è, quantomeno, preoccupante. La storia della giustizia italiana, dal caso Tangentopoli alla saga di Silvio Berlusconi, è costellata di situazioni analoghe. Eppure, non possiamo fare a meno di notare come il rilievo che viene dato alle figure coinvolte - spesso illustri o in vista - possa influenzare non solo l’interpretazione dei fatti, ma anche la percezione collettiva di giustizia. Lorenzo Milani una volta affermò che “l’ingiustizia in un luogo è un pericolo per la giustizia in tutto il mondo”. Oggi, potremmo dire che l’ingiustizia morale è un pericolo per l’equità in tutto il sistema giudiziario. Il personaggio Berlusconi, oggetto di fiumi di inchiostro e di una retorica moralista da parte di molti PM, ha successivamente dimostrato come il ruolo di giudice possa scivolare in un ambito inaccettabile, diventando un’arma di distruzione della reputazione. La stessa cosa accade oggi con il figlio di La Russa, in un triste, ma non nuovo, copione. Ci si può chiedere: l’investigatore della verità, per sua stessa definizione, è autorizzato a muovere valutazioni etiche oltre i confini del reato in sé? È evidente che il nostro sistema ha bisogno di un ripristino della laicità. La giustizia non deve essere influenzata da dettami morali o da correnti di pensiero, ma deve rimanere un mero strumento di valutazione del comportamento umano in relazione a ciò che è legalmente previsto, a meno che non sia strettamente necessario ai fini dell’accertamento dei fatti penalmente rilevanti. Si chiama continenza, ed è un principio prima logico e poi giuridico. Voltaire inorridirebbe a leggere certi atti giudiziari, che recano il rischio di rincorrere certo viscido senso popolare, quello che il nazismo chiamava lo “spirito del popolo”. Uno Stato laico deve crescere nella consapevolezza che l’unico “sputtanamento” accettabile è quello delle pratiche che intaccano il principio di legalità, non delle persone, soprattutto quando queste ultime non commettono reati. In conclusione, risuona l’appello a una giustizia che rimanga ancorata a principi razionali e inappellabili, senza cedimenti a derive moralistiche e sentimentali. La giustizia non ha bisogno di affermazioni che possano ledere la dignità di un individuo; ha solo bisogno di esistere, con la sua natura binaria, a prescindere dalle sfumature morali che ciascuno di noi può percepire. Se non torniamo a questa essenza, corriamo il rischio di trasformare i tribunali in arene di caccia al colpevole morale, piuttosto che in luoghi di verità e giustizia. E non possiamo permetterlo. Orfani di femminicidio, le vittime dimenticate della violenza di Damiano Rizzi* Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2025 Dal 2013, altre 1.300 donne sono state uccise in Italia per mano di partner o ex partner. E sono almeno 2.000 bambini e bambine gli orfani di femminicidio. La più parte sono invisibili, fuori da qualsiasi registro nazionale. Non esistono per lo Stato. Un bambino o adolescente che perde la madre a causa di un femminicidio non è semplicemente un “orfano”: è un sopravvissuto. Ha vissuto all’interno di un contesto familiare violento, spesso per anni, assistendo a maltrattamenti fisici e psicologici, e sviluppando una forma di adattamento al trauma basata sulla paura, sul silenzio, sull’invisibilità. Nel luglio 2013 mia sorella Tiziana è stata uccisa. Da allora, con mia moglie e mia figlia, abbiamo accolto in casa suo figlio. Per adottarlo ci sono voluti più di otto anni. Otto anni di udienze, burocrazia, attese. Non abbiamo ricevuto nessun tipo di supporto dallo Stato per la psicoterapia, né per le spese scolastiche o di vita quotidiana. Anche in presenza di un’eredità, questa non è gestibile liberamente: tutto passa dal giudice tutelare, con tempi che possono superare l’anno per ottenere un appuntamento con il giudice. Intanto tutto si blocca. Le banche non sanno come gestire questi “casi speciali”, e ogni semplice richiesta si trasforma in un percorso a ostacoli fatto di lettere, avvocati (da pagare), attese. Dal 2013, altre 1.300 donne sono state uccise in Italia per mano di partner o ex partner. E sono almeno 2.000 bambini e bambine gli orfani di femminicidio. La più parte sono invisibili, fuori da qualsiasi registro nazionale. Non esistono per lo Stato. Un bambino o adolescente che perde la madre a causa di un femminicidio non è semplicemente un “orfano”: è un sopravvissuto. Ha vissuto all’interno di un contesto familiare violento, spesso per anni, assistendo a maltrattamenti fisici e psicologici, e sviluppando una forma di adattamento al trauma basata sulla paura, sul silenzio, sull’invisibilità. Ma il trauma non finisce lì. Inizia una seconda parte della storia: l’abbandono istituzionale. Elaborare un trauma simile non è automatico. Servono interventi psicologici integrati, personalizzati, e il più possibile tempestivi. La psicologia dell’età evolutiva ci insegna che un bambino può uscire da un’esperienza potenzialmente distruttiva solo se ha accanto adulti stabili, capaci di riconoscere il dolore e di accompagnarlo. Servono luoghi sicuri in cui parlare, raccontare, piangere. Servono psicoterapeuti formati nel trauma, capaci di ascoltare anche il silenzio. Per questo chiedo con forza che venga istituito un tavolo interministeriale permanente, con il coinvolgimento diretto di chi questa realtà la vive ogni giorno. Non bastano più leggi sulla carta. Serve ascolto, presenza, azione concreta. Serve che la tutela dei figli delle donne uccise diventi una priorità nazionale. Non vogliamo restare soli. Non vogliamo più essere considerati eccezioni burocratiche. Vogliamo essere parte delle scelte. Perché la giustizia, quella vera, inizia da chi sopravvive. Parliamone. *Psicologo, fondatore e presidente di “Soleterre” Treviso. Detenuto morto in carcere a 46 anni: la mamma chiede l’autopsia di Giuliano Pavan Il Gazzettino, 17 aprile 2025 “Mio figlio aveva delle ecchimosi, voglio sapere se è stato picchiato” “Voglio sapere cos’è successo a mio figlio: non può essere morto d’infarto, è stato picchiato in carcere”. Al telefono, con la voce rotta dal pianto ma con la determinazione di andare fino in fondo, la madre di Gennaro Marino, 46enne detenuto nella casa circondariale di Santa Bona, a Treviso, per scontare un cumulo pena per reati contro il patrimonio e relativi agli stupefacenti, invoca giustizia. E pretende che venga eseguita un’autopsia sul corpo del figlio, che da più di due settimane si trova all’obitorio dell’ospedale Ca’ Foncello nonostante il nulla osta già rilasciato dalla Procura. “Non so perché non vogliano fare l’autopsia, ma sul viso e sul costato aveva delle ecchimosi che non può essersi procurato da solo. Dev’essere successo qualcosa e voglio sapere cosa”. La donna si è affidata a un legale, che ieri mattina ha depositato un’istanza per venga disposto l’esame autoptico e anche quello tossicologico. La risposta del pubblico ministero è attesa a giorni, forse già oggi. La vicenda - Tutto ha inizio il 29 marzo scorso, quando Gennaro Marino è stato trovato senza vita nella sua cella. Come accade in questi casi, è stato subito chiamato un medico legale per effettuare un esame esterno del cadavere e determinare la causa del decesso. La salma del 46enne non presentava segni evidenti di violenza, a parte una vistosa ecchimosi allo zigomo. Nella cartella clinica del carcere, però, quell’ematoma era già stato rilevato tre giorni prima. Ovvero il 26 marzo quando fu lo stesso Marino a chiedere di essere portato in infermeria per essere medicato dopo essere caduto, aveva detto ai sanitari. A quel punto il medico legale ha stabilito che le cause dell’arresto cardiocircolatorio erano da iscrivere come morte naturale. Motivo per cui la magistratura non ha disposto alcuna autopsia, rilasciando il nulla osta per la sepoltura. Anche perché, altro dettaglio, il detenuto assumeva dei farmaci calmanti e il 27 marzo, due giorni prima del decesso, si era fatto consegnare una pastiglia in più dicendo di aver perso nel lavandino quella che gli avevano dato. Per gli inquirenti è possibile che la sera del decesso ne abbia assunte due, o addirittura tre insieme (non avendone presa nessuna il giorno prima, ndr) e che quei farmaci possano aver contribuito a scatenare l’infarto costato la vita al 46enne. I dubbi - La salma è stata così messa a disposizione dei familiari e la madre di Gennaro Marino, una volta visto il corpo, ha iniziato ad avanzare dei dubbi. Tant’è che si è recata in questura per sporgere denuncia per lesioni contro ignoti, sperando che venisse ripreso in mano il caso. Non avendo notizie dalla Procura, e non avendo organizzato il funerale, la donna si è rivolta a un legale e, di tasca sua, ha pagato un anatomopatologo di parte per effettuare un altro esame esterno, più approfondito, a cui ha partecipato anche il medico legale che aveva svolto il primo riscontro. Era il 10 aprile scorso, e nel frattempo sulla salma sono emersi altri segni sul viso, oltre che sull’addome. “Aveva anche il naso un po’ storto, e mio figlio non ha mai avuto il naso storto” ha sottolineato la donna. A quel punto l’avvocato dei genitori di Gennaro Marino ha depositato la formale richiesta di autopsia e di esami tossicologici d’urgenza per capire se le cause della morte possano essere altre. “Voglio soltanto sapere se mio figlio sia stato picchiato - conclude la madre - e se quelle botte possano averlo ucciso. Non accuso nessuno, voglio solo sapere. Se l’autopsia dirà che è morto d’infarto mi metterò il cuore in pace, ma per saperlo deve essere fatta. Gennaro stava pagando per quello che ha fatto, e non è mai stato uno che si lamentava. E se quei segni sull’addome fossero il risultato di un pestaggio che gli ha provocato delle lesioni interne? Per come lo conosco io, potrebbe aver chiesto più farmaci perché sentiva dolore ma non voleva che lo sapesse nessuno. Per questo chiedo che l’autopsia venga fatta, così non ci saranno più dubbi”. Terni. Detenuti e diritto all’affettività, soddisfazione del Garante: “carcere antesignano” di Daniele Minni La Nazione, 17 aprile 2025 Domani nell’istituto di pena si svolgerà il primo colloquio intimo. L’avvocato Caforio loda la struttura penitenziaria: “Ha trovato uno spazio adeguato secondo le linee guida appena emesse”. Alla vigilia del primo incontro per il diritto all’affettività tra reclusi e familiari il garante dei detenuti dell’Umbria, avvocato Giuseppe Caforio, loda il carcere di Terni. “Va riconosciuto al carcere di Terni di essere stato antesignano - afferma il garante - nell’attuazione dell’affettività dei detenuti riuscendo a trovare uno spazio adeguato, secondo le linee guida appena emesse dal ministero della Giustizia per consentire l’esercizio di questo diritto importante anche in un’ottica di riabilitazione”. Come richiesto da un detenuto nell’arco di 60 giorni è stato fissato l’incontro. “Quello di Terni che mi risulti è la prima attuazione in Italia del diritto alla affettività - ha spiegato Caforio - e tutto ciò è merito del tribunale di sorveglianza umbro che con il giudice Fabio Gianfilippi aveva sollevato la questione costituzionale poi accolta dalla Corte che ha affermato la sussistenza di un diritto fondamentale per i detenuti secondo l’articolo 2 della Costituzione sulla affettività”. Lo stesso magistrato a fronte di una richiesta di un detenuto campano ha dato termine di 60 giorni alla casa di reclusione di Terni di provvedere a dotarsi della struttura adeguata. Termine rispettato dalla struttura. “È un primo segnale - conclude Caforio - la strada è lunga e piena di ostacoli a cominciare dal sovraffollamento fino alla carenza di personale che non aiutano a trovare soluzioni logistiche ed operative per garantire questo diritto. Intanto però qualcosa si muove e proprio dall’Umbria”. Terni. Incontri intimi in carcere, si va avanti. Presto toccherà ad un secondo detenuto di Massimo Solani rainews.it, 17 aprile 2025 Terni primo penitenziario a recepire le linee guida, ma la carenza di personale è un problema. C’è un secondo detenuto della Casa circondariale di Sabbione che, a giorni, potrà ottenere un colloquio intimo con la partner senza il controllo della Polizia penitenziaria. Dopo il via libera dato dalla direzione della struttura e dal comando della penitenziaria al sessantenne campano che attraverso il proprio avvocato, Paolo Canevelli del foro di Roma, aveva messo in mora il carcere di Terni per non aver rispettato le tempistiche imposte dal giudice di sorveglianza di Spoleto, in ottemperanza della sentenza della Corte Costituzionale, sarà un detenuto romano cinquantottenne della media sicurezza, recluso dal 2024 per reati legati agli stupefacenti, ad usufruire della stanza ricavata negli spazi dell’area colloqui con gli avvocati. Primo in Italia a mettere in pratica le linee guida del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il carcere di Terni si trova così a gestire questa nuova realtà pur nelle difficoltà di una situazione di sovraffollamento che vede oltre 600 detenuti a fronte di una capienza regolamentare da 422 posti e con gravi carenze all’organico della polizia penitenziaria. Per questo negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli allarmi e le proteste dei sindacati della penitenziaria, preoccupati per l’aggravio di lavoro e procedure di controllo in una situazione già tesa per le proteste che da inizio aprile hanno accolto la circolare del Dap che impone la chiusura diurna delle celle dell’alta sicurezza. Per far fronte all’emergenza, fino ad oggi sono state bloccate tutte le ferie del personale, ma con le festività pasquali la situazione rischia di non essere gestibile considerando che, rispetto a quanto previsto in pianta organica, mancano circa 50 unità di personale. Compreso un vicecomandante e il comandante del nucleo traduzione e piantonamenti. Torino. La “stanza dell’amore” in carcere è lontana. La scarsità di risorse frena gli incontri intimi di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 17 aprile 2025 Quanto dovrà aspettare il carcere di Torino per avere una stanza destinata ai colloqui intimi? Se lo chiedono centinaia di detenuti, che da un anno hanno subissato di istanze i magistrati di Sorveglianza. A gennaio 2024 la corte Costituzionale ha sancito il diritto dei reclusi a incontrare partner e familiari riservatamente (anche per rapporti sessuali) e, ora che il Dap ha emanato le linee guida, aumenta anche la pressione sugli uffici che devono autorizzare o negare gli incontri. I sindacati di polizia penitenziaria - l’Osapp in testa - si sono scagliati apertamente contro il provvedimento, ma gli agenti non sono i soli a nutrire preoccupazioni. “Ben venga la stanza dell’amore, ma il carcere è un colabrodo - commenta Marco Viglino, presidente del tribunale di Sorveglianza -. Bisogna evitare che questi incontri non facilitino la circolazione di droga e telefonini, fenomeni a cui abbiamo già assistito”. Le linee guida prevedono incontri da “due ore e porta non chiusa da dentro”, ma non potranno richiederli i detenuti colpevoli di infrazioni disciplinari e o sorpresi con droga e oggetti non ammessi. Anche il diritto all’affettività rischia di rimanere al palo, però, visto che i magistrati di Sorveglianza riescono a malapena a star dietro alle urgenze. “Sono tutte materie che si aggiungono al carico di lavoro, già gravoso. La priorità resta far uscire prontamente chi ne ha diritto e non lasciare i condannati in libertà. Saremmo in difficoltà anche con l’organico pieno, invece siamo al 50%”, spiega il presidente. Secondo la pianta organica, negli uffici di via Bologna dovrebbero esserci 45 unità di personale amministrativo. Gli effettivi invece sono 29, con una continua emorragia. “Molti vengono qui da noi, ma quasi subito se ne vanno all’Inps, all’Inail o all’Agenzia delle Entrate, dove il trattamento economico è migliore, si può fare smart working e gli straordinari vengono pagati regolarmente. Come biasimarli se tra i ruoli di responsabile e funzionario ci sono solo 50 euro di differenza?”, fa notare la direttrice amministrativa Maria Rita Diano. Il fuggi fuggi riguarda anche gli agenti penitenziari. “Gli ultimi due sono “scappati” dopo venti giorni”, racconta una cancelliera. La digitalizzazione, poi, resta un miraggio. La famigerata App, l’applicativo imposto alle Procure per gestire il processo penale telematico, ha lasciato fuori la Sorveglianza e in via Bologna le lancette sono ferme a trent’anni fa. “Tutto ciò che arriva per posta elettronica va stampato, usiamo due risme di carta al giorno - continua Diano -. Poi gli autisti caricano in auto i faldoni e li portano ad Alessandria, Novara o Vercelli, dove si trovano gli altri uffici. Tre su quattro sono senza autista e i nostri devono coprire tre province. Solo Cuneo ne ha uno, ma lavora anche per il tribunale e di recente l’auto di servizio si è rotta”. Le difficoltà non hanno impedito al ministero di imporre un giro di vite sulle dotazioni. Da qualche tempo, per esempio, via Arenula fornisce solo stampanti di rete ogni due uffici. Se a questo si somma un trattamento economico al di sotto delle altre amministrazioni, si capisce perché anche lo sblocco del turnover dopo vent’anni non abbia portato benefici. “Siamo in una situazione disperata, ma nessuno ci scolta - conclude Diano -. E più cerchiamo di andare veloce, più il margine d’errore aumenta”. Brescia. In carcere si potrà fare sesso, ma c’è il problema delle stanze: “Servono spazi dignitosi” di Federica Pacella Il Giorno, 17 aprile 2025 Le linee guida sul diritto all’affettività dei detenuti sollevano perplessità. La Garante di Brescia: “Possono essere comunque un passo avanti. Due ore di tempo, biancheria e lenzuola a carico del partner che deve portarle da casa, pulizie e sanificazione post colloquio, mentre i locali individuati dai provveditori dovranno essere dotati di una camera arredata con un letto e con annessi servizi igienici. Ad una lettura soprattutto esterna alle mura del carcere, le linee guida del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per permettere alle persone detenute di esercitare il loro diritto all’affettività e alla sessualità, possono creare qualche perplessità. Ma tant’è: le si aspettava da gennaio 2024, da quando cioè la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo il divieto assoluto, fino ad allora in vigore, all’affettività in carcere, imponendo il controllo a vista sui detenuti durante i colloqui con i loro coniugi o conviventi. “Per come sono scritte - commenta la garante delle persone private della libertà del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani - possono sembrare svilenti, perché sembra che si parli di camere dell’amore. Bene che ci siano, perché è comunque il riconoscimento di un diritto, l’importante è che siano declinate ovunque in modo dignitoso. I detenuti a Brescia hanno offerto una bella chiave di lettura. C’è chi ha detto che sarebbe sufficiente avere la possibilità di stare abbracciato con la moglie o la compagna per due ore e, se questa stanza, può garantire questo, ben venga. I detenuti riescono a vederci una prospettiva, un minimo di privacy, che oggi non c’è”. Si è ben lontani dalle casette nel bosco, all’interno delle mura dei penitenziari norvegesi, in cui i detenuti possono trascorrere la giornata con la famiglia, ma si guarda il bicchiere mezzo pieno. Ma gli istituti bresciani hanno gli spazi per realizzare queste stanze dell’affettività? “Nel momento in cui ci sono le linee guida, gli istituti devono adattarsi e sono sicura che lo faranno nel modo più scrupoloso possibile, come sempre accade a Brescia - sottolinea Ravagnani. Il punto vero è nella tempistica e nella modalità, perché i nostri istituti non potranno tirar fuori dal cilindro spazi che non ci sono, se non sulla carta”. L’importante è che l’applicazione di un diritto non si riduca a macchietta, a una “stanza ad ore” che in realtà non fa altro che accrescere lo stigma. “Non arriveremo mai alla prospettiva norvegese della casetta nel bosco, che fa certamente meno sensazione. Non è una cosa a cui possiamo aspirare, ma, per come i detenuti sono stati in grado di leggere questa stanza, può essere comunque un passo avanti”. Verona. Detenuti “vip” ma “manca tutto”. La rieducazione? “Così è impossibile” di Matteo Sorio Corriere del Veneto, 17 aprile 2025 Avvocati e attivisti a Montorio tra sovraffollamento e sottorganico. I numeri parlano da soli: 604 detenuti, a ieri, a fronte di 335 posti. Con 287 agenti di polizia penitenziaria sui 317 previsti: cifra, quest’ultima, tarata peraltro sulla capienza “normale”. Comunicati ieri dal presidente della Camera penale veronese, Paolo Mastropasqua, dopo la visita svolta insieme all’associazione Nessuno tocchi Caino, i numeri del carcere di Montorio - dove 372 detenuti sono stranieri, il 61%, e 331 hanno una condanna definitiva - continuano a parlare di “un sovraffollamento drammatico, come in quasi tutti gli istituti penitenziari italiani”. Problemi “ordinari”, dunque, anche nel carcere assurto di recente alle cronache nazionali per la presenza di detenuti famosi come Chico Forti, Filippo Turetta e Benno Neumair. Quel carcere dove, un mese fa, si sono registrati due suicidi nel giro di 48 ore. “Cosa manca a Montorio? Un po’ tutto, perché al sovraffollamento si aggiunge il sotto organico di agenti ma anche di educatori, appena cinque, e di medici, pensiamo anche solo all’assenza di un dentista”, dice Mastropasqua, che riflette come “rispetto alla visita dello scorso febbraio la situazione è rimasta allarmante”. C’era anche Rita Bernardini, ieri, a Montorio, durante quella visita cui è seguita una conferenza stampa a Palazzo Barbieri, presenti tra gli altri anche Marco Vincenzi, coordinatore di Verona Radicale, e i consiglieri comunali Carlo Beghini, Chiara Stella e Jessica Cugini. Presidente di Nessuno tocchi Caino, associazione internazionale per l’abolizione della pena di morte, Bernardini ha raccontato che “a Montorio ci sono celle da una persona con tre detenuti, in alcune manca la doccia, non in tutte c’è l’acqua calda. Un detenuto ci ha detto che con quel sovraffollamento è impossibile arrivare alla rieducazione: c’è poco lavoro, c’è poca possibilità di studiare e di curare le malattie. Anche a Montorio aumentano le sezioni chiuse che non fanno attività durante il giorno, il che crea persone incattivite dalla cattività”. Proprio un mese fa, dopo i due suicidi ravvicinati, la consigliera regionale veronese del Pd, Anna Maria Bigon, aveva chiesto alla Regione Veneto di sollecitare il governo, il tutto citando “dati dell’Usl 9 che riportavano pochi mesi fa la presenza a Montorio di un solo psicologo, soli quattro medici di guardia per un totale di 24 ore settimanali, nove infermieri per 36 ore a settimana, un medico infettivologo per 3 ore settimanali, uno psicologo psicoterapeuta per 25 ore alla settimana”. Dice Bernardini che affinché migliori la situazione, anche a Montorio dove dallo scorso febbraio la direzione è stata riaffidata temporaneamente a Maria Grazia Bregoli, reduce da un periodo alla Casa di Reclusione femminile di Venezia Giudecca, “è necessario che a muoversi sia Roma, perché è la politica a dover risolvere il problema: noi abbiamo fatto le nostre proposte, ad esempio l’ampliamento del beneficio della liberazione anticipata speciale per i detenuti che si comportano bene e stanno facendo un percorso positivo”. “La direzione di Montorio è attenta e c’è buona collaborazione”, dice Mastropasqua, che ricorda la protesta nazionale sulla situazione delle carceri da parte dell’Unione camere penali con un’astensione dalle udienze dal 5 al 7 maggio prossimo. Vigevano (Pv). Carcere, la denuncia di Antigone: “Piove dentro, condizioni critiche” La Provincia Pavese, 17 aprile 2025 La struttura ospita 365 detenuti a fronte di 242 posti regolamentari, niente acqua calda nella sezione femminile. La situazione nel carcere di Vigevano “è drammatica”. Lo scrive nel suo dossier l’Osservatorio di Antigone che ieri ha visitato la casa circondariale. “Erano presenti 365 detenuti a fronte di 242 posti regolamentari, con un sovraffollamento del 150%. Di questi 179 stranieri e 80 donne, di cui alcune nell’unico circuito di Alta sicurezza del nord Italia. La forte presenza di stranieri incide sulle difficoltà trattamentali, perché’ non inseribili nei percorsi. Non sono presenti mediatori culturali e non è possibile rinnovare il permesso di soggiorno all’interno dell’istituto. Nella giornata di pioggia molte parti della struttura erano infiltrate e pioveva dentro, sia nelle aree comuni che nelle zone delle lavorazioni, oltre che in ogni parte degli edifici che avevano un contatto con il tetto”. Tra le altre criticità rilevate, “mancava l’acqua calda nel reparto femminile e un in un reparto ex art. 32 tutte le finestre del corridoio erano rotte e tutti i blindi chiusi, compresa lo spioncino. Una cella era stata rotta, allagata e parzialmente bruciata. Un detenuto aveva subito 2 TSO nei giorni precedenti, senza arrivare a una diagnosi. Una detenuta stava svolgendo la chemioterapia in cella, con difficoltà motorie e assenza di piantone o aiuti”. Inoltre, “al reparto femminile comune venivano lamentate la poca facilità ad accedere ai circuiti minimi” e “nonostante gli sforzi di attivare attività nell’istituto, compresa la recente apertura di Bee4 (una cooperativa sociale che impiega oltre 20 persone detenute), permane una scarsa presenza del volontariato, che svolge funzioni fondamentali nella vita quotidiana delle persone detenute”. “Le condizioni di molte parti del carcere - sottolinea Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia - risultano non dignitose, soprattutto per una casa di reclusione che prevede pene lunghe o anche lunghissime. Forse va ripensata la collocazione di una casa di reclusione in un territorio così poco rispondente, soprattutto in vista del possibile allargamento di 80 posti dell’area detentiva, che sottrarrebbe spazi di attività ma soprattutto richiederebbe da parte di tutti un investimento più decisivo su un trattamento che fatica a concretizzarsi, a danno anche e soprattutto dei percorsi di reinserimento sociale”. Bergamo. Il Vescovo Beschi: “Comunità accoglienti e una pena giusta per un Paese più sicuro” di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 17 aprile 2025 Nella visita di martedì 15 aprile al carcere di via Gleno il Vescovo Francesco Beschi ha ricordato l’importanza di una comunità accogliente che, fuori dalle mura della galera, renda possibile un futuro per chi sta scontando la sua pena. In un momento difficile per la Casa circondariale, che come tutti gli istituti di pena del Paese soffre condizioni di sovraffollamento ai limiti del sopportabile (583 detenuti, per una capienza regolamentare di 319), la presenza di monsignor Beschi per gli auguri pasquali ricorda alla cittadella di via Gleno (abitata non solo da detenuti ma anche da agenti di polizia penitenziaria, operatori sanitari, educatori, insegnanti, volontari), che fuori c’è una città che storicamente è sempre stata in prima linea per raccogliere la sfida di un disagio che, va detto, negli ultimi anni si è fatto particolarmente complesso nella presa in carico. E ci ricorda anche che il carcere ci riguarda tutti. Non è una questione di buonismo. Facile, in questi giorni di vicende di cronaca anche drammatiche che sollevano seri interrogativi sull’efficacia delle misure cautelari, alzare il vessillo della certezza della pena. La certezza di una pena giusta - Ma il problema parte proprio dalla certezza di una pena giusta. Partiamo da un dato inoppugnabile: non solo assicurare una pena umana e con finalità rieducative è un compito costituzionale, sancito dall’articolo 27 (proprio quest’anno tra l’altro il nostro ordinamento penitenziario compie 50 anni, un gran bel testo normativo, con molte pagine rimaste purtroppo solo nella mente del legislatore), ma, come ricordò la ministra Marta Cartabia nel 2021 in una comunicazione al Senato, “perseguire lo scopo rieducativo della pena è anche il modo più effettivo ed efficace per prevenire la recidiva e, quindi, in ultima analisi, per irrobustire la sicurezza della vita sociale”. Vale a dire: se il detenuto sconta la sua pena, ed essa lo aiuta ad acquisire consapevolezza dei suoi errori e a riagganciare un legame con il consorzio umano, una volta fuori le probabilità che torni a delinquere sono molto minori rispetto a un suo simile che sconti la pena in celle sovraffollate, senza possibilità di lavorare, studiare o avere contatti che lo aiutino nell’attività di recupero. Parliamo di un tasso di recidiva che scende dal 70% (quindi quasi una certezza) al 2 per cento in chi ha già avuto un contratto di lavoro durante la detenzione. Se il detenuto sconta la sua pena, ed essa lo aiuta ad acquisire consapevolezza dei suoi errori e a riagganciare un legame con il consorzio umano, una volta fuori le probabilità che torni a delinquere sono molto minori rispetto a un suo simile che sconti la pena in celle sovraffollate, senza possibilità di lavorare. Purtroppo, le condizioni attuali delle carceri fanno sì che sia molto difficile assicurare attività rieducative a tutti i detenuti, a causa di una spaventosa situazione di sovraffollamento, che mette a dura prova la rete di sostegno dell’esecuzione penale che, in realtà come la nostra, è ancora molto articolata e vivace (basta pensare che i soggetti in esecuzione penale esterna a Bergamo sono oltre 2.500). Il nodo del decreto sicurezza - Ma l’aspetto più preoccupante è che nonostante i ripetuti appelli non si coglie un segnale di presa di coscienza da parte del governo, che persegue fin dal suo insediamento una politica di inasprimento delle pene che prevedono il carcere e rifiuta decisamente qualsiasi ipotesi deflattiva della popolazione detenuta. Anzi, tutti i provvedimenti sono stati di segno opposto, l’ultimo in ordine di tempo il decreto sicurezza. In questo dispositivo, mitigato da alcuni correttivi richiesti dal Presidente della Repubblica, si reintroduce la facoltà di carcerare donne in stato di gravidanza o madri con bambini sotto i 3 anni (modificando la norma che obbligava al rinvio della esecuzione della pena) e si configura come reato anche la resistenza passiva dei detenuti in carcere, una forma di contestazione non violenta che in situazioni di tensione, ormai purtroppo all’ordine del giorno nei nostri istituti, è spesso l’unica forma “civile” per esercitare diritti in contesti di promiscuità tale per cui risulta difficile anche solo restare umani. Roma. Il giovedì santo a Regina Coeli, il Papa non rinuncia ai detenuti di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 17 aprile 2025 Papa Francesco non si ferma. Questo pomeriggio, salvo contrordini dell’ultimo momento, si recherà al carcere romano di Regina Coeli per la messa del giovedì santo. Ancora convalescente, i movimenti limitati e la voce incerta, Jorge Mario Bergoglio non vuole rinunciare a un appuntamento cruciale della Settimana Santa, ed è possibile che, ancorché in forma essenziale, voglia compiere il rito della lavanda dei piedi con alcuni detenuti. Riprendersi la scena - Che il Pontefice argentino si stesse riprendendo la scena era chiaro. Dalla scorsa settimana ha fatto diverse apparizioni in pubblico, tutte a sorpresa, segno della salute che migliora e della sua determinazione a non lasciare il gregge privo del pastore nel momento cruciale della Pasqua. Ma quasi nessuno Oltretevere pensava che avrebbe replicato un’uscita in occasione del giovedì santo, quando, con la messa pomeridiana in Coena Domini, la Chiesa commemora l’ultima cena di Gesù e il suo gesto di lavare i piedi ai discepoli. Dall’inizio del pontificato Bergoglio ha scelto luoghi della sofferenza come ospedali e carceri. Da quando fa ricorso alla carrozzella, i detenuti o i malati sono stati disposti su una pedana rialzata per semplificare i movimenti. Un rito al quale il Papa non vuole rinunciare neanche ora, sebbene sia tornato a casa dall’ospedale da meno di un mese. Ritorno a Regina Coeli - La notizia, filtrata ieri pomeriggio, non è stata confermata dal Vaticano, segno di una qualche incertezza che ancora grava sull’organizzazione. Dipenderà da come Francesco si sentirà oggi stesso. L’incontro sarebbe in forma privata attorno alle 16 e il saluto ai detenuti dovrebbe essere breve. Francesco è già stato al carcere di via della Lungara, poco distante dal Vaticano: nel 2018, proprio in occasione del giovedì santo, lavò i piedi a 12 detenuti, tra di loro tre donne. Con medici e infermieri - Ieri mattina, intanto, papa Francesco ha voluto ricevere il personale e i vertici del policlinico Gemelli, insieme ai medici e agli infermieri del Vaticano, per ringraziarli delle cure che gli hanno assicurato durante i 38 giorni di ricovero. In tutto c’erano settanta persone e Bergoglio li ha ricevuti per una ventina di minuti in un salone, attiguo all’aula delle udienze, poco distante dalla sua residenza di Casa Santa Marta. È stata la prima volta che il Papa argentino ha ripreso una vera e propria udienza, e non poteva che concederla ai sanitari che gli hanno salvato la vita. “Grazie per il servizio in ospedale, molto buono, continuate così!”, ha detto Francesco, la voce sempre limitata ma più forte che nei giorni passati. Ritorno al Gemelli - Francesco ha ringraziato in particolare la rettrice dell’Università Cattolica, Elena Beccalli: “Grazie a lei, così forte... Quando comandano le donne le cose vanno!”, ha detto il Papa facendo con la mano il gesto di quando si riga dritto. Il presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Gemelli, Daniele Franco, ha introdotto l’incontro: “Saremmo molto contenti se lei tornasse al Gemelli”, ha detto, “non più in veste di paziente ma per una sua visita ai nostri malati”, si è affrettato a precisare. Francesco ha sorriso divertito. “Prego per voi”, ha concluso il Papa, “per favore fatelo per me”. Milano. Una serie di dibattiti sulla situazione delle carceri in Italia tg24.sky.it, 17 aprile 2025 Una serie di dibattiti sulla situazione nelle carceri in Italia. È questo il programma di “Reform Trust: Ideas on penal environments”, una serie di incontri che, in programma da aprile a maggio 2025 a Milano, esplorano la funzione delle case di reclusione italiane, facendo luce in particolare sul populismo penale, il sovraffollamento, il lavoro carcerario, la deprivazione economica e la riforma e trasformazione del carcere. Ospitate all’interno del centro milanese di Dropcity, le sessioni mettono in relazione individui, oggetti, spazi e i significati che assumono all’interno del contesto penale, intrecciando questioni architettoniche, legali, amministrative e sociali. L’iniziativa è curata da Federica Verona, architetta e urbanista, e Valeria Verdolini, sociologa giuridica e attivista. Il progetto - Le sessioni di dibattito rientrano all’interno del progetto “Prison Times: Spatial dynamics of penal environments”, che interroga lo stato contemporaneo dell’incarcerazione, esplorando le cause e le conseguenze delle strutture penali sia a livello individuale che collettivo. Non solo, l’iniziativa mette in discussione anche la percezione del tempo attraverso le scadenze procedurali e l’uso di oggetti nella routine penitenziaria, rivelando la tensione nel design tra sicurezza, comfort e funzionalità. Il programma dell’iniziativa - Dopo il primo incontro dello scorso 12 aprile, che ha visto protagoniste le curatrici dell’iniziativa in dialogo con Roberto Mozzi della casa circondariale di San Vittore a Milano e Valentina Alberta, avvocata di diritto penitenziario, il programma di “Reform Trust: Ideas on penal environments” proseguirà il prossimo 23 aprile con una nuova sessione. Ospiti del prossimo appuntamento, in programma alle 18.30 all’interno di Dropcity, saranno Guido Camera, presidente di Italia Stato di Diritto, Luigi Mastrodonato, giornalista, Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale, e Niccolò Agliardi, cantautore, compositore e autore di podcast. Le altre sessioni - In calendario, anche un altro incontro, previsto nella stessa sede il 15 maggio alle 18.30, a cui prenderanno parte Giuseppe Scutellà, presidente dell’Associazione Puntozero, Tommaso Spazzini Villa, artista, e Giacomo Papi, scrittore e direttore contenuti Fondazione Mondadori. Il programma si chiude il 28 maggio, alle 18.30, con un’ultima sessione che avrà come ospiti Roberto Bezzi, responsabile dell’area educativa del carcere di Bollate, Isabella De Silvestro, giornalista, ed Edoardo Albinati, autore e insegnante nel carcere di Rebibbia. Educazione affettiva materia obbligatoria a scuola: perché non c’è (e ci ostiniamo a non volerla) di Elisa Messina Corriere della Sera, 17 aprile 2025 Uno degli ultimi casi di cronaca che non avremmo voluto leggere è quello della ragazzina di 14 anni di Busto Arsizio violentata e massacrata di botte da un ragazzo conosciuto su Instagram. Le vittime della violenza di genere sono, sempre di più frequentemente, minori. Ma anche gli autori di queste violenze sono sempre più giovani: facendo riferimento solo al tribunale di Milano, per esempio, il 40% degli uomini finiti sotto processo per questi reati hanno meno di 35 anni. “Significa che il modello patriarcale delle generazioni precedenti persiste” aveva commentato il presidente del tribunale di Milano Fabio Roia. Significa anche, ribadiva il giudice, che dalla scuola, fin da piccoli, non arriva il messaggio dell’educazione al rispetto e alla diversità. Non arriva perché non c’è. L’introduzione dell’educazione affettiva e sessuale come materia obbligatoria nella scuola primaria e secondaria è uno dei temi più divisivi nel dibattito politico e culturale italiano. A tal punto che… non se n’è fatto mai niente. Questo nonostante i molti studi che dimostrano che insegnare ai bambini e alle bambine a gestire le emozioni e a relazionarsi con rispetto sia una forma di prevenzione cruciale a ogni violenza di genere. Nonostante l’Italia sia rimasta uno dei pochissimi Paesi dell’Unione europea (assieme a Cipro, Lituania, Polonia, Bulgaria e Romania) che non preveda programmi curricolari obbligatori in materia. E nonostante le pressioni e le raccomandazioni in questo senso da parte di diversi organismi internazionali, come l’Unesco già dalla fine degli anni 80 o il Grevio, organismo del Consiglio d’Europa che ha il compito di verificare l’attuazione delle disposizioni della Convenzione di Istanbul di cui l’Italia è Paese firmatario. Sommando tutti i “nonostante” il risultato non cambia: l’educazione affettiva e sessuale non è materia obbligatoria nelle nostre scuole. Almeno non nel modo in cui ce lo chiede l’Europa. Di questo si è parlato in un incontro all’Università Bicocca di Milano dal titolo “Educare all’affettività: un antidoto contro la violenza di genere”: un convegno nel quale è stata presentato un progetto di studio sul tema promossa dal centro studi ADV - Against Domestic Violence diretto dalla professoressa Marina Calloni e dalla fondazione Una Nessuna Centomila. La ricerca si concluderà a settembre e sarà uno sguardo diffuso sulla scuola italiana per capire come dirigenti e docenti si stanno organizzando e soprattutto come avviene la loro formazione, pur in assenza di un quadro normativo. Nell’incontro è stata presentata una prima parte della ricerca, condotta da sociologi e sociologhe di Bicocca: uno studio comparato tra Italia, Francia, Svezia, Spagna e Polonia per confrontare diverse legislazioni e metodologie. Partiamo da casa nostra. Negli anni ci abbiamo provato ma con scarsa convinzione: di educazione sessuale e affettiva come materia scolastica se ne parla dagli anni 70 e dal 1975 ad oggi sono stati presentati ben 37 disegni di legge. Ma ogni volta succedeva sempre qualcosa che bloccava tutto e la legge ancora non c’è. Ci andammo vicino nel 1992, con il governo Andreotti: “Il motivo era prevenire la diffusione dell’Aids - ha spiegato Celeste Costantino, vice presidente di Una, nessuna e centomila - si rispondeva, dunque a un’emergenza sanitaria e fu fatta una campagna di informazione imponente con un opuscolo illustrato realizzato dal ministero della Sanità che all’epoca era guidato Francesco De Lorenzo, non da quello dell’Istruzione dove la titolare era Rosa Russo Iervolino: era fatto con le illustrazioni di Lupo Alberto. La ministra rese facoltativa per le scuole la scelta di adottare l’opuscolo: l’adesione fu enorme, quindi c’erano le condizioni per arrivare a una formalizzazione dell’educazione affettiva e sessuale. Ma scoppiò Tangentopoli e…”. Da allora ci sono state le leggi del 2007 e la riforma della “Buona scuola” (governo Renzi) del 2015 dove si affidava alla scuola (in collaborazione con la famiglia) la formazione su sessualità e affettività per “la salute psicofisica degli studenti”. Ma poi i successivi decreti attuativi che regolano la formazione del personale docente non hanno previsto un obbligo formativo per gli insegnanti su questi temi. La conseguenza è stata, ed è tuttora, un’offerta formativa, a macchia di leopardo tra scuole medie e superiori, messa in piedi grazie all’iniziativa dei singoli istituti e in base alle loro risorse economiche: chi vuole e può permetterselo si rivolge, attraverso bandi, ad esperti, associazioni e centri antiviolenza per organizzare i corsi. Anche nel progetto “Educare alle relazioni” annunciato un anno e mezzo fa dal ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara sull’onda del femminicidio Ceccettin, non si parla di obbligatorietà nei curricula: si prevedevano 30 ore extracurricolari, ovvero in più rispetto alle ore di lezione, e su base volontaria. Non solo, il progetto è, di fatto, rimasto ancora tutto sulla carta in seguito alle polemiche politiche: i movimenti Provita, sostenuti dai partiti di maggioranza, da sempre annunciano barricate contro l’educazione sessuale nelle scuole. Un esempio su tutti: quando si è trattato di assegnare 500mila euro, non certo una cifra enorme, alle Pari Opportunità per i corsi di educazione affettivo-sessuale nelle scuole grazie a un emendamento di +Europa, il governo ha dirottato quei fondi per formare i docenti su non ben precisati “corsi sulla fertilità” scatenando le proteste di opposizione, sindacati, centri anti violenza e associazioni come Action Aid e Save The Children. All’inizio di aprile il ministro, sulla scia di altri due recenti femminicidi, quello delle studentesse Sara Campanella e Ilaria Sula, è tornato a parlare dell’importanza dell’educazione di genere (“educazione al rispetto delle relazioni corrette”) a scuola ma stavolta all’interno delle ore di educazione civica. E ha previsto sostegno e monitoraggio tramite l’istituto Indire. Ma ancora non si parla di percorsi obbligatori. Ma c’è, a livello istituzionale, una completa comprensione del fenomeno violenza di genere tra giovani e giovanissimi? Il dubbio viene a leggere una definizione contenuta nelle nuove Linee Guida della scuola primaria presentate all’inizio di aprile. Parlando di scuola che “educa alla relazioni” si parla di “rispetto” e di “educazione alle differenze” e poi si precisa che “queste tipo di educazione è qualcosa di più dell’alfabetizzazione emozionale: allena bambine e bambini a ‘capirsi’ nella complementarità delle rispettive differenze e sviluppa sani anticorpi di contrasto di quella triste patologia che è la violenza di genere”. I ricercatori di Bicocca hanno fatto notare che la parola “patologia” fa pensare a una malattia, quindi a un’eccezionalità mentre il fenomeno violenza non è patologico e nemmeno emergenziale, ma, purtroppo, strutturale. E riguarda tutte le generazioni. Il quadro italiano appare ancor più sconsolante se confrontato con quello altri Paesi europei, come hanno spiegato i sociologi di Bicocca; persino la Polonia, dopo 8 anni di governo conservatore sta attuando delle riforme più aderenti ai parametri Unesco. In Svezia l’educazione sessuale è obbligatoria nel sistema dal 1955, primo Paese a introdurla a livello mondiale. La materia si chiama “Sessualità, consenso e relazioni” ed è previsto che gli insegnanti arrivino da corsi universitari ad hoc e seguano una formazione continua. Uno dei temi su cui si insiste molto è quello del consenso. In Francia la situazione è in evoluzione proprio in questo periodo ma comunque l’educazione affettivo-sessuale nelle scuole è obbligatoria dal 2001 si chiama educazione alla vita emotiva e relazionale e in questi mesi si sta procedendo a una sua implementazione anche alla scuola materna ed elementare con corsi di formazione ad hoc agli insegnanti. In Francia l’educazione affettivo-sessuale fa parte del programma dell’École promotrice de santé et l’éducation du citoyen e dal 2023 è in corso un processo di implementazione dell’educazione alla vita emotiva e relazionale nelle scuole materne ed elementari e dell’educazione alla vita emotiva, relazionale e sessuale nelle scuole medie e superiori. La riforma è promossa dal Ministero dell’Istruzione, entrerà in vigore dal prossimo anno scolastico e in proprio in questo periodo stanno partendo i corsi di formazione per il corpo insegnante a partire. In Spagna l’educazione affettivo-sessuale è stata introdotta nel sistema scolastico per legge nel 2020 ed è intesa come insegnamento trasversale, anche se non specificata come materia in sé. Non è obbligatoria a livello nazionale ma regionale e ci sono casi virtuosi di regioni autonome più avanti rispetto al resto del Paese come quello delle Asturie che con il programma “Ne orchi ne principesse” ha recepito bene le raccomandazione Unesco anche per la scuola elementare. La Polonia, dopo 8 anni di governo conservatore (come dimenticare la svolta che rese illegale l’interruzione volontaria di gravidanza), sta introducendo una riforma che diventerà operativa dal prossimo settembre: la materia “Educazione alla vita familiare” (di impronta conservatrice) è sostituita con la materia (facoltativa) di “Educazione alla salute per tutti gli studenti dal IV anno delle primarie fino alle scuole superiori; e sono appena iniziati percorsi formativi e corsi post-laurea per insegnanti, finanziati dal Ministero e gratuiti per i docenti. Concludiamo tornando all’Italia dove, attualmente, secondo una ricerca di Save The Children, meno di un adolescente su due ha fatto educazione affettiva e sessuale a scuola eppure 9 genitori su 10 vorrebbero percorsi scolastici obbligatori in questo senso. “Anche per quanto riguarda la formazione dei docenti la situazione italiana è confusa, - sottolinea la professoressa Marina Calloni - e introdurre l’obbligatorietà renderebbe più lineare il percorso: come Università dovremmo arrivare a fornire una formazione specialistica mainstream per rendere tutti i docenti di ogni ordine e grado più consapevoli, ma dovremmo anche arrivare ad avere corsi di laurea e corsi di specializzazioni mirate. Al momento le scuole si affidano ad associazioni e professionisti esterni in una situazione un po’ confusa. Per questo noi abbiamo un canale aperto con i professionisti che operano le scuole, per avere una rete di esperti che sia davvero al servizio degli insegnanti. Non è un tema su cui possiamo abbassare la guardia, visti i dati sulle violenze. All’Università Bicocca, facciamo corsi antiviolenza dal 2013 eppure, nel luglio 2023 una mia studentessa, Sofia Castelli, è stata uccisa dall’ex fidanzato”. “Fare educazione affettivo-sessuale significa educare fin da piccoli bambine e bambini alla consapevolezza delle proprie emozioni, significa educarli all’autodeterminazione e all’autonomia - ha sottolineato Elena Biffi, docente di pedagogia in Bicocca - In assenza di percorsi formali sarà altro a lasciare il segno nelle nuove generazioni. Chi deve occuparsene se non la scuola? Perché ci ostiniamo a non volerlo?”. I diritti contano più della biologia di Giulia Zonca La Stampa, 17 aprile 2025 I diritti contano più della biologia e nella delicata e controversa decisione della corte suprema del Regno Unito quelli non vengono toccati, così è meglio partire da qui: le persone trans non perdono tutele e ci mancherebbe. Però, da ora, la legge britannica sulle pari opportunità considera donna soltanto chi è nata di sesso femminile. È un tema fragile che scatena reazioni ultrà e qualsiasi tentativo di trovare un equilibrio lessicale, già di suo molto precario, viene frantumato dai cori. Non esiste una vittoria e quindi non c’è una curva che può esultare e le sedicenti femministe che lo fanno fuori dall’aula con le sciarpe al collo sono patetiche. La comunità trans è molto più cauta e si dice sconcertata, ma invita anche alla calma, l’opinione social fa quello che meglio le riesce: si scanna e il livello dello scontro copre completamente la questione. Ci sono degli ambiti in cui il sesso biologico, ancora, fa o può fare la differenza. Come spesso accade, lo sport è stato il primo fronte esposto alla questione e non ci sono troppe verità da sventolare sul tema perché gli studi sono recenti, ambigui. Esistono delle disparità in certe discipline, per certe liste partenti, non valgono per tutti, non succede sempre e un giorno ci saranno dati sufficienti per avere basi più strutturate ed eque su cui muoversi. Oggi purtroppo si sbaglia, si sceglie, si cerca di essere il più responsabili possibili, si prova a proteggere chi si troverebbe senza strumenti di competizione. O di inclusione. O di sicurezza. Esistono degli ambiti dove la questione biologica diventa, in determinate e specifiche circostanze, un problema e questo non ha nulla a che fare con la percezione di sé: uomo, donna o pianta e meno ancora riguarda il rispetto che la società deve avere la legittima, autocertificata, interpretazione dell’esistenza. Bisogna pretendere che sia così, che ogni essere umano, a prescindere dal genere, dalle origini, dal credo abbia uguali opportunità, uguale dignità, uguale trattamento, stipendio, occasione di carriera, di studio, di famiglia. I diritti non si toccano, anzi vanno più ancora sostenuti ora che le definizioni vacillano, ma quelle si evolvono. Chi sa di non appartenere al sesso di nascita va accompagnato e difeso nella propria transizione. Questo è il cardine e qui intorno dobbiamo girare, nel tentativo di capire e valutare anche la richiesta di attenzione di donne che non vogliono correre i 200 metri contro chi potrebbe essere di un’altra categoria, più che di un altro sesso. Non si tratta di numeri, di quante volte succede, ma di principi. Lo sport è solo un esempio, ci sono altre situazioni, magari limite, però esistono. I bagni in comune nei luoghi pubblici sono una grande idea (anche per evitare le code), però non si tratta sempre e solo di rifarsi il trucco o fare la pipì. Per quanto ci faccia orrore esiste la complessità. Da qualche parte, comunque sia, si urta una sensibilità e allora se sono le parole che devono cambiare e trainare smettiamo di usare il detestabile vocabolo binario per secolarizzare due singoli generi, tra l’altro posti in termini di contrapposizione. Passiamo alla monorotaia, binario unico: non ci sono due generi, ce ne è uno solo: l’umanità e se vi sta stretta potete sempre salire su un razzo con Kate Perry e non tornare dopo 11 minuti da influencer nello spazio. Rendere più forti i diritti, esplicitarli di continuo, ribadirli e riaffermarli, senza stufarsi del continuo esercizio, opporsi alla discriminazione significa essere meno fragili, evitare le barricate, evolvere e forse quindi trovare pure una definizione che finalmente regga. Senza sciarpe. Migranti. La lista Ue dei Paesi sicuri. Che cosa cambia e perché è un assist al Governo italiano di Marco Bresolin La Stampa, 17 aprile 2025 La proposta dovrà passare al vaglio del Consiglio dell’Ue e del Parlamento. Dal Patto migrazione e asilo a rimpatri più veloci: tutte le novità. La Commissione europea ha offerto al governo italiano due assist importanti che potrebbero aiutare l’esecutivo Meloni ad affrontare gli ostacoli giuridici emersi nell’applicazione del protocollo siglato con l’Albania per la gestione dei centri sul territorio del Paese Balcanico. Da un lato ha proposto di anticipare alcuni elementi del nuovo Patto migrazione e asilo - in particolare quelli che consentono di designare un Paese di origine come sicuro anche se questo lo è solo parzialmente - dall’altro ha stilato una lista Ue di Paesi di origine sicuri, includendovi l’Egitto e il Bangladesh, che sono oggetto proprio del contenzioso tra il governo italiano e i giudici dei tribunali locali, sul quale ora dovrà esprimersi la Corte di Giustizia dell’Unione europea. Il condizionale è d’obbligo perché quella presentata dalla Commissione è soltanto una proposta che ora dovrà ottenere il via libera del Consiglio dell’Unione europea e del Parlamento europeo. Ecco una serie di domande e risposte per fare un po’ di chiarezza sui punti-chiave. Perché la Commissione ha stilato una lista di Paesi di origine sicuri? A oggi non esiste una lista comune a livello europeo, ma ogni Stato ha una sua lista nazionale. La Commissione ora vuole creare una lista europea, che si dovrebbe applicare in ogni Paese, lasciando però ai singoli Stati membri la possibilità di aggiungere altri Paesi di origine nei rispettivi elenchi nazionali. Quali sono i Paesi inseriti nella nuova lista Ue? La proposta prevede di inserire il Kosovo, il Bangladesh, la Colombia, l’Egitto, l’India, il Marocco e la Tunisia. Inoltre, la Commissione considera come Paesi sicuri anche tutti i candidati all’adesione nell’Ue, a meno che non si verifichino condizioni particolari (per esempio l’Ucraina che, essendo in guerra, in questo momento non soddisfa i criteri di Paese sicuro). I Paesi nella lista sono quelli verso i quali i migranti possono essere rimpatriati? No, l’elenco non riguarda i rimpatri ma si applica nel contesto delle procedure d’asilo. La questione dei rimpatri è diversa e si lega al concetto di “Paese terzo sicuro” (e non “Paese di origine sicuro”, oggetto di questa lista). Se un richiedente proviene da un “Paese di origine sicuro”, la sua domanda va comunque esaminata su base individuale (così prevede il diritto internazionale), solo che lo Stato membro può farlo con una procedura accelerata, come la cosiddetta “procedura di frontiera”, in un periodo massimo di tre mesi. Dopodiché, se ci sono le condizioni per la protezione internazionale, la ottiene. Diversamente dovrà essere rimpatriato. Perché la durata della procedura dovrebbe variare in base alla nazionalità del richiedente? Il principio giuridico alla base di questa scelta sta nel fatto che se un migrante proviene da un Paese considerato sicuro ci sono meno probabilità che abbia bisogno di protezione internazionale. E dunque l’iter - nella logica del legislatore - dovrebbe essere più breve proprio per “sbrigare le pratiche” e limitare gli “abusi”. Ma perché ci sono solo sette Paesi? Vuol dire che tutti gli altri Paesi del resto del mondo non sono sicuri? La scelta è stata fatta sulla base del tasso di accoglimento delle richieste d’asilo presentate dai cittadini di questi Paesi (che deve essere basso), ma anche dal numero di arrivi. Questo è il motivo per cui c’è la Tunisia e non il Canada, per esempio, che l’Ue considera sicuro, ma dal quale non arrivano molti richiedenti asilo. In ogni caso la lista potrà essere modificata nel tempo a seconda delle evoluzioni nei vari Paesi. In ogni caso continueranno a esistere le liste nazionali che potranno essere più lunghe. Quali altri provvedimenti sono stati approvati ieri? La Commissione ha proposto di anticipare altri due elementi del nuovo Patto migrazione e asilo, già approvato, che sarebbero dovuti entrare in vigore nel giugno del 2026. Di cosa si tratta? Il primo riguarda la possibilità di esaminare le richieste d’asilo con procedura accelerata, o di frontiera, per tutti quei migranti che arrivano da Paesi per i quali il tasso di accoglimento delle domande è inferiore al 20%. Il secondo riguarda invece la possibilità per uno Stato membro di considerare un Paese di origine come sicuro anche se ci sono delle eccezioni di tipo geografico (per alcune regioni) o per determinate categorie di cittadini. Ma questo non è il problema emerso in Italia con i centri in Albania? Esatto. Il problema per i centri in Albania era emerso relativamente ai cittadini di Egitto e Bangladesh, che l’Italia considera sicuri, pur riconoscendo che non lo sono per determinate categorie di cittadini (per esempio gli omosessuali). Secondo i giudici dei tribunali italiani, questo sarebbe in contrasto con la direttiva Ue attualmente in vigore e dunque quei migranti non possono essere sottoposti alla procedura di frontiera accelerata che viene applicata in Albania, ma devono essere sottoposti all’iter ordinario. Il governo italiano però sostiene il contrario: chi ha ragione? Lo stabilirà la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si esprimerà a breve sulla controversia. Ma lo farà basandosi sulla direttiva attualmente in vigore: è chiaro che se il diritto europeo dovesse cambiare, l’interpretazione della Corte varrebbe per i casi passati ma non per il futuro, quando si applicherà il nuovo regolamento. Quindi da quando si applicheranno le nuove regole che consentiranno di designare un Paese sicuro anche solo parzialmente? L’entrata in vigore del nuovo Patto era prevista per giugno 2026, ma ora la Commissione ha chiesto di anticiparla. La data esatta dipenderà dall’esito dell’iter legislativo di questa proposta, che deve ottenere il via libera del Consiglio e dell’Europarlamento. Trattandosi di un regolamento, sarà immediatamente applicativo in tutti gli Stati e non dovrà essere ratificato. Ci sarà una spinta politica da parte dei governi per un’approvazione rapida, anche se il Parlamento europeo probabilmente farà un po’ di ostruzionismo: realisticamente, il regolamento non dovrebbe entrare in vigore prima di fine anno. E quindi nel frattempo non cambierà nulla? Nel frattempo, resta in vigore la precedente direttiva che dovrà essere applicata secondo l’interpretazione della Corte. In ogni caso, la Commissione ha fornito un assist prezioso al governo italiano perché ha mandato un segnale politico: se anche i giudici di Lussemburgo optassero per un’interpretazione restrittiva della direttiva, dando cioè ragione ai loro colleghi italiani, il legislatore ha già manifestato la sua volontà di andare nella direzione auspicata dal governo italiano. Migranti. Von der Leyen paga dazio a Meloni: ok ai “Paesi sicuri” di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 aprile 2025 Il giorno prima che la premier italiana incontri Trump, la Commissione propone di anticipare le norme utili a riempire i Centri in Albania. Così l’istituzione comunitaria entra a gamba tesa nella causa discussa dalla Corte di giustizia Ue. La leader Fdi esulta: cambiamo l’approccio europeo sul governo dei flussi migratori. Il giorno dopo la telefonata con Ursula von der Leyen e il giorno prima dell’incontro con Donald Trump la presidente del Consiglio Giorgia Meloni incassa un assist dalla Commissione Ue sul progetto più controverso della legislatura: i centri in Albania. Ieri l’istituzione comunitaria ha proposto l’anticipazione di due punti del Patto su immigrazione e asilo per permettere al governo italiano di riempire le strutture di Gjader. Il pacchetto di norme doveva entrare in vigore a giugno 2026, ma ora la Commissione chiede di far prima nell’ampliamento delle procedure accelerate o di frontiera, quelle che comprimono il diritto di difesa, abbattono le possibilità di ottenere la protezione e prevedono il trattenimento. Nello specifico chiede di anticiparne l’applicazione alle nazionalità con tassi europei di asilo inferiori al 20% e a paesi considerati come “sicuri” anche in presenza di eccezioni per parti di territorio o categorie di persone. Su questo punto l’istituzione ha anche ufficializzato la proposta di lista comune, che affianca quelle nazionali. Comprende Kosovo, Colombia, India, Marocco, gli Stati candidati ad aderire all’Ue e i tre che interessano all’Italia per i centri d’oltre Adriatico: Bangladesh, Egitto e Tunisia. Erano loro il target iniziale del protocollo con Tirana, esteso ai migranti “irregolari” solo dopo che i giudici di Roma hanno contestato l’inserimento di Bangladesh ed Egitto nella lista nazionale. Nei mesi scorsi la Commissione aveva annunciato l’intenzione di anticipare l’elenco comune, poi lunedì sono trapelate le prime indiscrezioni favorevoli a Meloni. L’ufficializzazione di ieri, però, segna un’improvvisa accelerazione. Soprattutto è un grande favore alla premier sul piano interno, in vista della complessa trasferta Usa, e un’entrata a gamba tesa sulla Corte di giustizia Ue. Una settimana fa l’avvocato generale Richard de la Tour ha pubblicato il suo parere indipendente nella causa sui paesi sicuri sollevata dai tribunali nazionali. Quella in cui la Commissione ha dimostrato di essere più sensibile alle richieste politiche italiane che alle considerazioni di diritto e giurisprudenza europee: nel mese trascorso tra il deposito delle osservazioni scritte e l’udienza orale del 25 febbraio scorso ha cambiato completamente posizione accogliendo in toto la linea di Roma. Pur dando ragione all’Italia sulla possibilità di inserire l’elenco paesi sicuri in una legge, e aprendo a un inedito bilanciamento tra rapidità delle procedure e garanzia dei diritti fondamentali, l’avvocato generale ha contraddetto le tesi principali del governo Meloni. Quelle che contestavano il potere di controllo dei giudici, la pubblicità delle informazioni e la possibilità di eccezioni per categorie di persone. Secondo de la Tour queste sono legittime solo a patto che siano inserite in un contesto di Stato di diritto, facilmente identificabili e numericamente ridotte. Paletti che se adottati dalla sentenza attesa entro giugno, il parere conta molto ma non è vincolante, renderebbero quasi impossibile la designazione di Bangladesh, Egitto e Tunisia. I centri in Albania rimarrebbero vuoti, a parte qualche “irregolare” nel Cpr di Gjader, fino all’entrata in vigore del Patto. Perciò ora la Commissione punta ad anticiparla, dimostrando di aver imparato bene la lezione del governo italiano: scavalcare le sentenze sui diritti fondamentali attraverso forzature legislative. La proposta deve comunque seguire la procedura ordinaria, passando da Consiglio dell’Ue ed europarlamento: al netto dei tempi necessari non dovrebbero esserci particolari intoppi, visti gli equilibri politici spostati sempre più a destra. Per ora, comunque, il quadro giuridico rimane lo stesso. Anzi la proposta dimostra che l’esecutivo meloniano bluffava nel tentativo di applicare norme non ancora in vigore. Ma stavolta il dato è soprattutto politico. “È un’ulteriore conferma della bontà della direzione tracciata dal Governo italiano in questi anni e del sostegno di sempre più Nazioni europee. L’Italia ha svolto e sta svolgendo un ruolo decisivo per cambiare l’approccio europeo nei confronti del governo dei flussi migratori”, annuncia trionfante Meloni. Il deputato di +Europa Riccardo Magi parla di “esultanza ingiustificata per un annuncio propaganda”. Mentre per l’europarlamentare dem Cecilia Strada quelle della Commissione sono “posizioni discutibili” che servono a dare manforte a uno Stato membro e fare pressione sulla Corte di giustizia Ue. Nicola Fratoianni, di Avs, se la prende con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: “Con che coraggio esulta per la proposta di inserire l’Egitto tra i paesi sicuri?”. Dal canto suo von der Leyen si mostra sempre più vicina alla premier italiana e mette in imbarazzo il Pd, che ha votato a favore dell’esecutivo europeo a differenza di FdI (astenuta). I dem sono contrari al progetto albanese e alla fine della scorsa legislatura si erano opposti, anche se solo all’ultimo momento, al Patto Ue. Un pacchetto di regolamenti approvato in maniera trasversale che - nonostante le dichiarazioni rassicuranti delle istituzioni europee ripetute ancora ieri: “Acceleriamo le procedure senza ledere i diritti fondamentali” - cancellerà per decine di migliaia di persone il diritto d’asilo. Uno dei pilastri alla base della costruzione dell’Ue e delle democrazie liberali uscite dalla vittoria sul nazifascismo. “L’Occidente come lo conoscevamo non esiste più”, ha detto martedì von der Leyen in un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit. Pensava alla geopolitica, al libero mercato e alla delusione delle passioni atlantiste. Ma la stessa considerazione vale per i diritti costituzionalizzati in Europa nella seconda metà del Novecento. E la colpa non è di Trump o Putin. Migranti. La deputata Pd Scarpa: “A Gjader informazioni nascoste, violato il potere ispettivo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 aprile 2025 Quinta ispezione dei parlamentari d’opposizione e del Tavolo asilo e immigrazione nei Centri in Albania. “Ci sono state proteste e atti di autolesionismo. Ma nessuna rivolta, né arresti. Le persone vivono un grande sconforto: non capiscono perché sono qui”, dice l’esponente. La deputata del Pd Rachele Scarpa risponde al telefono appena uscita dal Cpr di Gjader, in Albania, dove ha svolto il quinto sopralluogo. È stata la parlamentare più assidua nelle strutture d’oltre Adriatico. “Non ci hanno fatto ispezionare la parte detentiva”, denuncia. La delegazione, organizzata dall’opposizione e dal Tavolo asilo e immigrazione, è riuscita a parlare solo con alcuni dei trattenuti: non tutti hanno precedenti penali, sono originari di Algeria, Bangladesh, Marocco, Moldavia, Nigeria e Pakistan. Sono state smentite le notizie, uscite non si sa bene da dove, su una rivolta nel centro e sull’arresto di dieci migranti. Com’è la situazione all’interno? Di grande sconforto per le persone trattenute. A malapena hanno capito perché sono state trasferite in Albania. Ci hanno raccontato che si sono verificati atti di autolesionismo e proteste, a conferma che quando alle persone viene tolto tutto hanno solo due modi per esprimersi: sul proprio corpo o sull’ambiente intorno. Comunque per ora dovrebbe essersi trattato di proteste contenute. Nessuno è stato trasferito nel penitenziario adiacente al Cpr. Avete visto ambienti danneggiati? Non abbiamo avuto la possibilità di entrare all’interno della parte detentiva. In pratica abbiamo girato intorno al Cpr parlando brevemente con chi era all’esterno dei moduli abitativi, a cui però non ci è stato consentito l’accesso. Forse perché avremmo trovato qualcosa. Delle 40 persone iniziali ne restano 38. Un’altra è stata riportata in Italia. Perché? Abbiamo dovuto desumere questo fatto dalla consultazione del registro degli eventi critici perché nessuna informazione ci è stata data in maniera esplicita. La prefettura non c’era e l’ente gestore dice di non essere autorizzato a rispondere alle nostre domande. In ogni caso sappiamo che una persona ha compiuto diversi atti di autolesionismo e quindi è stata richiesta una nuova valutazione dell’idoneità al trattenimento. La commissione per le vulnerabilità, che sostituisce l’Asl, ha negato l’idoneità. Verosimilmente la persona è stata riportata in Italia martedì sera. Ma non abbiamo conferme ufficiali sulle modalità. Comunque in poche ore due migranti sono stati rimandati indietro: una doppia sofferenza per loro, un doppio spreco di risorse pubbliche per noi. Non vi fanno entrare, non vi danno informazioni. E il potere ispettivo dei parlamentari? Questa opacità è un ordine esplicito del governo. È il segno di riconoscimento di tutta l’operazione Albania. Già un Cpr posizionato all’estero limita i nostri poteri di controllo, non facciamo finta non sia così. Dopo il nuovo decreto rileviamo anche la negazione delle informazioni richieste, per cui abbiamo presentato degli accessi agli atti. E se comunque non ve le daranno? Attendiamo la scadenza dei trenta giorni. Poi avvieremo azioni legali. Almeno le persone trattenute hanno una tutela legale? L’ente gestore dice che tutti hanno ricevuto un avvocato d’ufficio o ne hanno nominato uno di fiducia. Ma non possiamo confermarlo, abbiamo incontrato solo una parte dei trattenuti. Quelli con cui abbiamo parlato hanno detto che hanno potuto effettuare delle telefonate. Ma con tempistiche ridotte. Il monitoraggio andrà avanti? Sì, deputati ed europarlamentari garantiranno una presenza anche nei prossimi giorni e settimane. Vogliamo capire bene cosa sta accadendo e mantenere alta l’attenzione. Vogliamo che quelle persone, messe ai margini, non si sentano abbandonate. Tunisia Paese sicuro? HRW: “Deportazioni e violenze sistematiche su migranti e oppositori” di Daniela Fassini Avvenire, 17 aprile 2025 La denuncia di Human Right Watch: in carcere 22 persone accusate di terrorismo che rischiano la pena di morte. Subsahariani cacciati e scomparsi, l’ombra dell’espianto di organi. C’è anche la Tunisia tra i Paesi indicati dalla commissione come “sicuri”. I cittadini dei quali, cioè, richiedenti asilo giunti in Italia (e negli altri Stati membri) potranno essere più facilmente rimpatriati, grazie alla procedura accelerata. La stessa cioè che viene applicata nei centri albanesi. Il Paese nordafricano alla ribalta nelle ultime settimane per la deportazione e la caccia ai migranti subsahariani risulta quindi “sicuro”, malgrado le numerose denunce arrivata da più parti e anche dalle Ong (poche) ormai presenti sul territorio. Ma non ci sono solo i subasahariani nel mirino dell’esecutivo di Tunisi: ci sarebbero infatti anche gli oppositori al regime ai quali non vengono certo fatti sconti. Nello stesso giorno in cui la Commissione ufficializza l’elenco dei Paesi sicuri, la Ong Human Right Watch pubblica un rapporto sul Paese in cui denuncia “la detenzione arbitraria che schiaccia il dissenso”. “Il governo tunisino ha trasformato la detenzione arbitraria in una pietra angolare della sua politica repressiva, volta a privare le persone dei loro diritti civili e politici - afferma Human Rights Watch nel rapporto pubblicato ieri -. Le autorità dovrebbero porre fine alla repressione contro chi li critica e rilasciare tutti coloro che sono detenuti arbitrariamente, in molti casi solo per aver esercitato i loro diritti umani”. Il rapporto di 42 pagine, “Tutti cospiratori: come la Tunisia usa la detenzione arbitraria per schiacciare il dissenso”, documenta l’uso ormai dominante del governo tunisino della detenzione arbitraria e dei procedimenti giudiziari politicamente motivati per intimidire, punire e mettere a tacere i suoi oppositori. Human Rights Watch in particolare ha documentato i casi di 22 persone detenute, accusate di terrorismo, in relazione alle loro dichiarazioni pubbliche o attività svolte. Tra loro ci sono avvocati, oppositori politici, attivisti, giornalisti, utenti di social media e anche un difensore dei diritti umani. Almeno 14 detenuti potrebbero essere condannati alla pena capitale se condannati. A gennaio 2025 oltre 50 persone erano detenute per motivi politici o per aver esercitato i loro diritti. “Era dai tempi della rivoluzione del 2011 che le autorità tunisine non scatenavano una tale repressione”, commenta Bassam Khawaja, vice direttore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch. “Il governo del presidente Kais Saied ha riportato il paese a un’era di prigionieri politici, derubando i tunisini delle libertà civili duramente conquistate”. Sul fronte della caccia ai migranti, c’ è il racconto drammatico di una volontaria in contatto con i gruppi di subsahariani presenti sul territorio tunisino. “Ho fatto un video su TikTok per denunciare la scomparsa di diversi migranti uccisi, o che si sono rivolti agli ospedali, cui sarebbero prelevati gli organi e venduti per i trapianti, compreso Moustapha, il maliano scomparso dopo un presunto ricovero, dapprima smentito, poi confermato con una fattura che indicava una cifra assurda” spiega. La versione ufficiale racconta che “il paziente era stato “mandato” a fare degli esami (con le ferite di 12 mini-pallottole e dopo un’emorragia consistente) ed era scappato dall’ospedale”. “Due altri guineani sono scomparsi nel nulla - aggiunge - Diversi parenti hanno riferito di non aver potuto vedere i corpi dei loro congiunti deceduti all’ospedale. Si parla di cadaveri ritrovati senza gli organi.”. I migranti si nascondono in casa o per strada per sfuggire agli arresti nelle campagne di Sfax. “Non si hanno più notizie di quelli saliti sugli autobus” conclude la volontaria. Sono i “deportati” nel deserto e lì abbandonati. Le migrazioni ambientali in tempo di guerre di Marinella Correggia Il Manifesto, 17 aprile 2025 L’Africa nella morsa dei conflitti armati Intrecci sanguinosi nei Paesi L20: dal lago Ciad nel Sahel ai parchi del Kivu alla foresta pluviale del bacino del Congo. Quarto bacino idrico per grandezza nel continente africano, il lago Ciad si trova al confine fra Niger, Ciad (due paesi L20), Camerun e Nigeria. Ci spiega il missionario comboniano Filippo Ivardi Ganapini, che in quell’area ha vissuto e lavorato: “Il lago è ancora oggi fondamentale per la sopravvivenza di oltre 30 milioni di persone, le cui attività tuttavia sono minacciate da desertificazione, riduzione drastica del bacino e conseguenti migrazioni climatiche, insurrezioni armate e crisi umanitarie. Si alternano lunghe siccità e improvvise inondazioni, come quella dello scorso settembre che ha colpito quasi due milioni di ciadiani, con oltre 600 vittime”. Il lago Ciad ha perso il 90% del suo volume, dai 25.000 chilometri quadrati degli anni 1960 ai meno di 1.500 di oggi, prosegue il missionario: “Una perdita che significa distruzione dell’economia agro-pastorale, con conseguente escalation del malcontento sociale. Una miscela perfetta per alimentare gruppi armati e terroristi, fra i quali Boko Haram e Iswap (affiliato allo Stato islamico) che attraversano confini porosi per contendersi le ricchezze a suon di droni e armi sempre più tecnologiche, saccheggiando case e bestiame e creando l’instabilità necessaria a coprire il traffico di droga, di armi e di rapimenti, benzina per la loro espansione territoriale ed economica. La Multinational Joint Task Force (Mnjtf), la coalizione militare regionale nata per contrastare la minaccia terroristica, fatica a coordinare le proprie operazioni, aggravata dalle tensioni politiche tra gli Stati membri. E rimane una chimera l’antico progetto Transacqua 2, che prevede la costruzione di un canale di 2.400 Km per convogliare direttamente le acque dal fiume Congo al bacino idrico del lago”. Nella regione del Kivu, Repubblica democratica del Congo (un altro paese L20), il trentennale conflitto conosce una nuova escalation che minaccia anche il Parco nazionale Virunga, la più antica area protetta del continente africano, attiva dal 1925 e patrimonio Unesco. Il territorio è segnato da decenni di instabilità politica, attività minerarie clandestine, milizie armate. Foreste, fauna selvatica (come gli iconici gorilla di montagna), aree protette sono vittime silenziose di un conflitto che non dà segni di una fine imminente. Le province del Kivu, dove si concentrano i combattimenti, fanno parte di uno degli hotspots di biodiversità più importanti al mondo. Ma le aree protette sono storicamente servite come basi operative di retrovia ideali per i gruppi armati non statali. Il Virunga, dopo alcuni anni di relativa requie, si trova dal 2021 all’interno della zona operativa della milizia armata antigovernativa M23 - foraggiata dal Ruanda. I recenti combattimenti hanno aumentato drasticamente la pressione sulle sue foreste secolari. Il conflitto ha fatto aumentare la domanda di carbone di legna (makala in swahili) a Goma, capitale della provincia del Nord Kivu. Oltre ai suoi 1,9 milioni di abitanti, la città ha assorbito almeno 800.000 sfollati. Ormai, il vulcano del Monte Nyiragongo, una caratteristica iconica del Virunga, è stato quasi spogliato degli alberi. Anche il parco Kahuzi-Biega, situato sul lato opposto del lago Kivu, secondo Global Forest Watch registra aumento significativo del disboscamento. I gruppi armati lucrano sul commercio imponendo tasse. La foresta pluviale del bacino del fiume Congo (i paesi L20 interessati sono Congo Rdc, Burundi, Repubblica centrafricana), vitale per il clima del pianeta e ricchissima di biodiversità, è minacciata dalla produzione di carbone, il combustibile usato dal 90% della popolazione del paese per mancanza di fonti energetiche pulite; un’attività che si aggiunge comunque all’estrattivismo minerario e a vari interessi locali e internazionali, capaci di ostacolare lo sviluppo dell’energia sostenibile e di strategie di conservazione. Nel 2025, il governo della Repubblica Democratica del Congo ha annunciato la creazione di una delle più grandi aree protette di foresta tropicale al mondo. Il Couloir Vert (Corridoio verde) lungo 2.400 chilometri unirà il Virunga, le vaste foreste dell’Ituri e il corso del fiume Congo. Il progetto per ora è poco chiaro. L’estrattivismo rimarrà davvero fuori?