Celle sempre più chiuse, così il Dap costruisce una nuova “cortina del silenzio” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2025 Una Circolare impone un giro di vite sull’Alta Sicurezza. l’Ucpi: una strategia repressiva che cancella ogni prospettiva rieducativa. Le celle torneranno ad essere il più possibile chiuse. Questo è il cuore della circolare “Modalità custodiali circuito Alta Sicurezza”, firmata il 27 febbraio dal direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ernesto Napolillo, e recentemente resa pubblica. Un documento di 8 pagine che invita a blindare ulteriormente le sezioni AS (Alta Sicurezza 1, 2 e 3), dove sono rinchiusi detenuti per reati di mafia e terrorismo. L’obiettivo dichiarato è contrastare la “permeabilità” del circuito, dopo che indagini antimafia avrebbero rivelato contatti illeciti tra detenuti e criminalità esterna. Ma, per l’Osservatorio Carcere delle Camere Penali, si tratta di “una cortina di silenzio” per nascondere il fallimento delle politiche trattamentali. Negli ultimi anni il clima nelle carceri italiane è diventato sempre più teso. Numeri che parlano da soli - 28 suicidi registrati, l’ultimo a Cuneo, e 88 decessi totali dall’inizio dell’anno - fanno da sfondo a una realtà in cui la sofferenza quotidiana dei detenuti è innegabile. In questo scenario, la circolare del Dap, firmata da Ernesto Napolillo, arriva come una risposta istituzionale, ma con modalità che sembrano più orientate a un controllo rigoroso, utile a mettere fine al discorso delle celle aperte. Invece di implementare le opere trattamentali, utili a non lasciare i detenuti nell’ozio, compresi quelli per reati gravi come il 416 bis, si opta per la chiusura. Così si penalizza l’aspetto rieducativo della pena - Il testo, indirizzato a provveditori regionali, direttori degli istituti penitenziari e comandanti dei reparti, si apre con una premessa in cui si segnala la presenza di “relazioni di servizio”, “proteste” e “lamentele” anonime da parte della popolazione detenuta. Il documento evidenzia, in maniera astratta, disallineamenti organizzativi che, secondo quanto riferito, metterebbero a rischio la sicurezza interna delle sezioni Alta Sicurezza. In pratica, il Dap impone un rigoroso regime di “custodia chiusa”. Le nuove disposizioni richiedono, tra l’altro, la trasmissione immediata di regolamenti interni e ordini di servizio relativi agli orari delle camere, al divieto di stazionare nei corridoi e alle modalità di fruizione degli spazi comuni. La logica del provvedimento è chiara: evitare ogni possibilità che i detenuti possano instaurare contatti o aggregarsi in modi capaci di alimentare rapporti pericolosi, soprattutto alla luce di indagini antimafia che hanno evidenziato una certa permeabilità del sistema carcerario agli influssi esterni. Il documento si presenta con toni asettici e freddi, tipici del linguaggio amministrativo. Le richieste di trasmissione di regolamenti e ordini di servizio appaiono come adempimenti formali, in un momento in cui, a detta di chi ha visitato le carceri, il personale stesso afferma che un regolamento di istituto esiste solo “in attesa di approvazione”. Il Dap sembra più impegnato a far calare una “cortina del silenzio” sulla situazione che a cercare soluzioni concrete per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Questa impostazione normativa si traduce in una riduzione delle possibilità di movimento e aggregazione all’interno dei reparti. La richiesta di mantenere le camere chiuse e limitare gli spazi comuni non si pone l’obiettivo di tutelare la sicurezza in modo bilanciato, ma di imporre un controllo sempre più stretto che penalizza l’aspetto rieducativo della pena. La mossa sembra voler mascherare una strategia di repressione, piuttosto che un tentativo di migliorare un sistema già in difficoltà. La protesta dei penalisti: “È un manifesto di propaganda” - Sul versante opposto, l’Osservatorio Carceri delle Camere Penali racconta una realtà ben più drammatica. Il documento diffuso dalla Giunta e dall’Osservatorio sottolinea che, seppur il Dap ammetta l’esistenza di criticità, queste vengono trattate come se fossero problemi minori. La denuncia evidenzia come, ogni giorno, il carcere ricordi le sue condizioni intollerabili: la lunga scia di suicidi e la perdita di vite, simboli inequivocabili di un malessere profondo. Il testo denunciato evidenzia che il provvedimento - dal tono repressivo e intimidatorio - mira a soffocare ogni forma di espressione e denuncia. La richiesta di consegna immediata di ogni documento inerente a petizioni, note o lamentele, sia dei detenuti che dei loro familiari, appare come un atto finalizzato a mettere a tacere il dissenso, negando il diritto fondamentale alla comunicazione e alla denuncia delle ingiustizie. L’Osservatorio non esita a criticare la circolare come un manifesto di propaganda, volto a distogliere l’attenzione dai veri problemi delle carceri: sovraffollamento, mancanza di assistenza sanitaria, assenza di attività rieducative e presenza costante di disagio psichiatrico. Il dato dei 88 decessi nelle sbarre viene richiamato come simbolo di una realtà che il Dap cerca di minimizzare, trasformando un’emergenza in un dettaglio burocratico. In alta sicurezza senza attività trattamentali restano in cella - C’è un po’ di confusione. Ma di cosa si parla quando si parla di sorveglianza dinamica? In breve, si tratterebbe dell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14 ore, della possibilità per questi di muoversi all’interno della propria sezione - e, auspicabilmente, anche all’esterno - e di usufruire di spazi più ampi per le attività, e del contestuale mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia penitenziaria, non più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e sull’osservazione della persona detenuta. Un compito che non riduce la figura dell’agente penitenziario a mera custodia, ma lo rende parte attiva del percorso trattamentale dei detenuti. Tra l’altro, è stata la stessa Cedu - con la sentenza Torreggiani - a indicare l’apertura delle celle come elemento compensativo al sovraffollamento. L’introduzione del nuovo tipo di sorveglianza risale alla circolare del Dap del 14 luglio 2013, recante le “linee guida sulla sorveglianza dinamica”. Ulteriori specificazioni si trovano nella circolare n. 3663/6113 del 23 ottobre 2015, recante “Modalità di esecuzione della pena”. Questa è emanata a distanza di circa due anni dalla prima, chiedendo da un lato una maggiore uniformità nell’organizzazione dei reparti detentivi nei diversi istituti, e dall’altro una migliore organizzazione di attività lavorative, d’istruzione e ricreative, che favoriscano la permanenza dei detenuti fuori sezione. Per quanto riguarda l’alta sicurezza, invece, sulla carta si deve garantire almeno l’apertura di 8 ore al giorno, come richiamato dalle raccomandazioni europee, che stabiliscono il tempo minimo da trascorrere fuori dalle camere detentive. La nuova circolare, sulla carta, non nega le otto ore, ma le lega all’obbligo di svolgere un’attività. Nei fatti, soprattutto in quei circuiti, le attività trattamentali sono scarse. Il risultato è che i detenuti, loro malgrado, dovranno rimanere quasi perennemente chiusi in cella. Un tuffo nel passato. E quello, sì, era oscuro. Finalmente l’amore mette un piede in prigione di Andrea Pugiotto L’Unità, 16 aprile 2025 Nessuno pretendeva miracoli da Nordio, ma solo l’applicazione della sentenza della Consulta. La circolare del Dap è un atto dovuto, fa quel che deve e quel che può (e su alcuni punti quel che vuole). Ma consente di avviare in concreto l’istituto dei colloqui intimi dietro le sbarre. 1. “Miracoli non ne possiamo fare”. Così il Guardasigilli in risposta a chi (on. Magi, interrogazione n. 3-01889) gli chiedeva conto dell’elusione del giudicato costituzionale che riconosce il diritto all’intimità inframuraria delle persone detenute. “Io non dico ad impossibilia nemo tenetur”, concede il Ministro, ma la sent. n. 10/2024 “ha creato e crea dei problemi che non sono solvibili in tempi rapidissimi”. Era il 9 aprile scorso. Eppure, due giorni dopo, il vertice del Dap ha emanato le linee guida necessarie all’esplicazione del diritto all’affettività in carcere: evidentemente, a via Arenula, c’è un problema di comunicazione interna. Nessun prodigio miracoloso. Semmai una circolare che dà così avvio alla doverosa attuazione di un obbligo costituzionale, primaria responsabilità - politica e giuridica - del Governo. 2. Del resto, nessuno ha mai preteso miracoli. Nell’attesa di un intervento legislativo, la Corte costituzionale invocava l’azione combinata “della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, “con la gradualità eventualmente necessaria” (sent. n. 10/2024). La prima non si è sottratta al compito. Su ricorso di singoli detenuti cui era stata negata la richiesta, diversi Magistrati di sorveglianza (Bologna, Pescara, Reggio Emilia, Terni, Verona), “disapplicata sul punto ogni eventuale disposizione amministrativa confliggente”, hanno ordinato ai direttori degli istituti di pena di consentire lo svolgimento di colloqui intimi senza controllo visivo. A supporto, è intervenuta poi la Cassazione (sez. I pen., ud. 11 dicembre 2024, dep. 2 gennaio 2025), riconoscendo nella pretesa del detenuto non “una mera aspettativa”, bensì un vero e proprio diritto soggettivo costituzionalmente fondato. La persistente elusione del giudicato costituzionale, dunque, configurava oramai una violazione del diritto all’affettività dei detenuti, come denunciato da più voci (istituzionali, associative, dottrinali). Politicamente vincolato a un ordine del giorno votato il 7 agosto alla Camera (n. 9/02002/056) e incalzato da mirate interrogazioni parlamentari, per il Governo l’alibi delle difficoltà organizzative e strutturali non reggeva più. Né poteva ancora tergiversare, rinviando agli esiti del lavoro istruttorio di un gruppo di studio multidisciplinare (istituito il 28 marzo 2024 presso il Dap), peraltro a scadenza indeterminata. Più che un miracolo, dunque, la circolare è un atto dovuto e indifferibile: emerge tra le sue righe, dove si legge che “appare evidente come si impongono ormai concrete azioni attuative” di quanto stabilito dalla Consulta. Meglio tardi che mai. 3. Traducendo in prassi ciò che la sent. n. 10/2024 riconosce, la circolare fa quel che deve, fa quel che può e - in alcuni punti criticabili - fa quel che vuole. Individua i potenziali fruitori, interni ed esterni, dei colloqui intimi inframurari. Ne indica il numero, la durata, la frequenza. Fissa criteri di priorità, laddove le richieste superino la disponibilità dei locali idonei all’esercizio del diritto. Identifica le categorie di detenuti esclusi dai colloqui senza controllo visivo. Tratteggia la tipologia dei locali destinati a tali colloqui. Stabilisce le procedure da seguire nonché le necessarie misure organizzative interne. Sono criteri precisi, da valutare tenendo conto della compatibilità giuridica entro cui il Dap si è mosso. La circolare ministeriale, infatti, non è una fonte del diritto. Dunque, non può creare in autonomia una normativa inesistente, né può disporre diversamente da quanto già previsto: nella sentenza costituzionale del 2024; nell’ordinamento penitenziario del 1975; nel suo regolamento esecutivo del 2000. Nasce da qui la necessità di agganciare il nuovo istituto a disposizioni già in vigore. Entro e non oltre questo perimetro, diventa possibile per il Dap ipotizzare prassi coerenti con il fine di rendere esercitabile dai detenuti il loro diritto all’affettività. Prassi, dunque, modificabili nel tempo, se si riveleranno incongrue o scoraggianti l’esercizio di quel diritto: si tratta, infatti, di “prime linee guida” rivolte a chi - provveditori, direttori, comandanti di reparto - è chiamato a sperimentare un inedito per le carceri italiane. Si tratterà, infine, di un’implementazione progressiva, cui si adegueranno gradualmente anche gli istituti di pena che, ad oggi, presentano insuperabili criticità organizzative. Secondo dati ministeriali, infatti, solo 32 carceri (su 189) hanno confermato - allo stato - l’esistenza di locali idonei allo scopo, di cui gli altri 157 sarebbero privi. Spetterà ai relativi provveditori ipotizzare “soluzioni modulate per individuare spazi anche temporanei” idonei allo svolgimento di incontri intimi “con garanzie minime di riservatezza”. Nel frattempo, l’esercizio del diritto potrà essere assicurato in istituti diversi da quello di assegnazione del detenuto. 4. Dalla vigente normativa relativa ai colloqui viene fatta discendere la frequenza dei possibili incontri; l’individuazione dei locali ad essi destinati (distinti dai “parlatoi”, collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto, tali da assicurare riservatezza); la durata dell’incontro (2 ore). Scelte normativamente orientate, dunque, sulle quali si innesta la circolare stabilendo regole ritenute necessarie “per garantire un corretto svolgimento dei colloqui intimi”: la camera sarà arredata con un letto e annessi servizi igienici. Sorvegliata soltanto all’esterno, sarà priva di chiusura interna, ma munita di allarme sonoro azionabile dagli occupanti. La biancheria necessaria, portata dal partner, sarà sottoposta a controllo. Il locale verrà ispezionato, prima e dopo l’incontro. Si sottoporrà a perquisizione personale la coppia ammessa al colloquio. Al partner sarà richiesto di sottoscrivere un consenso informato inerente alla tipologia dell’incontro. Eccede chi critica le linee guida per aver così derubricato l’affettività a mera sessualità. O, addirittura, per non aver introdotto un permesso speciale finalizzato a incontri intimi fuori dal carcere. Entrambe le obiezioni, infatti, pretendono dalla circolare una capacità innovativa di cui è giuridicamente priva. Semmai, una soluzione praticabile - su cui la circolare tace - sarà saldare l’inedito istituto dei colloqui intimi con quello vigente delle visite prolungate (art. 61 del regolamento), che consente - previa autorizzazione del direttore del carcere - di trascorrere parte della giornata insieme, in appositi locali o all’aperto, anche consumando un pasto in comune. 5. Della sent. n. 10/2024, invece, la circolare ricalca altre regole: i soggetti potenzialmente fruitori degli incontri intimi (coniuge, parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente) e le categorie che ne sono certamente escluse (detenuti sottoposti ai regimi detentivi speciali, previsi dagli artt. 41-bis e 14-bis, ord. penit.; imputati, quando vi ostino ragioni giudiziarie). Il dispositivo della Corte costituzionale consente, inoltre, di negare al detenuto il colloquio senza controllo visivo per “ragioni di sicurezza” o di “mantenimento dell’ordine e della disciplina”, tenuto conto del suo comportamento in carcere. A tal fine, la circolare introduce un lungo e farraginoso procedimento valutativo di pareri collegiali, indicando altresì specifiche ipotesi in cui, “in ogni caso”, si giustifica il diniego. Il rischio è di trasformare il diritto all’affettività in uno strumento premiale orientato al disciplinamento del detenuto: spetterà ai giudici di sorveglianza evitare una simile, indebita torsione. 6. Tardiva, ma non inutile, di questa circolare è bene prendere atto, usandola per avviare in concreto l’istituto dei colloqui intimi inframurari, scommettendo sulla loro potenzialità. La sua applicazione andrà assecondata e, ove necessario, corretta anche per via giudiziaria. In un paese, com’è il nostro, “di benpensanti a piede libero e mente incatenata” (il copyright è di Adriano Sofri) non è cosa da poco. Ora che le linee guida sull’affettività in carcere ci sono, a chi passa la palla? di Ilaria Dioguardi vita.it, 16 aprile 2025 Una Circolare emanata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fornisce indirizzi operativi per garantire il diritto delle persone detenute ad avere colloqui in intimità. Quasi 17mila i potenziali beneficiari. Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà personale del Lazio: “Le aspettavamo da più di un anno, non vorremmo ora che l’ottimo sia nemico del bene”. Sono passati quasi 15 mesi dalla sentenza della Corte costituzionale, n. 10 del 2024, che ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che nega gli incontri senza controllo visivo tra i detenuti e i partner. Sono finalmente arrivate le linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap, con gli indirizzi operativi per garantire il diritto all’affettività delle persone detenute. La Circolare, che sottolinea come questa sia un diritto fondamentale da esercitare anche durante la detenzione, demanda ai direttori delle carceri di attrezzarsi per mettere a disposizione spazi dedicati ai colloqui privati tra detenuti e persone con cui abbiano relazioni affettive stabili: “Ad usufruirne potranno essere soltanto il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente”. “Si può ipotizzare che, a fine dicembre 2024, fossero almeno 16.912 i potenziali beneficiari del diritto ai colloqui riservati”, si legge nella circolare. Nella quale si sottolinea come le richieste di colloqui intimi debbano essere valutate caso per caso, considerando non solo la stabilità della relazione, ma anche la condotta del detenuto e le esigenze di sicurezza, prevedendo anche una dichiarazione congiunta delle parti e documentazione a supporto del legame affettivo. Si prevede che gli istituti dovranno individuare e, se necessario, adeguare locali per garantire privacy e sicurezza: la camera deve essere “arredata con un letto e annessi servizi igienici e senza la possibilità di chiusura dall’interno”. I colloqui in intimità non avranno una frequenza prestabilita uguale per tutti, ma saranno valutati anche in base alla capienza e alle risorse dell’istituto, saranno concessi “nello stesso numero di quelli visivi fruiti mensilmente e avranno durata massima di due ore”. Anastasìa, ora che ci sono le linee guida emanate dal Dap, a chi passa la palla? La palla passa al territorio, ai provveditorati e alle direzioni che devono individuare i locali da destinarvi e la loro organizzazione. Nella circolare si dice che i provveditori devono individuare i luoghi in cui far svolgere questi colloqui. Adibire questi locali è la prima cosa che devono fare i provveditori. Non si esclude anche l’ipotesi che, in alcuni istituti, questi locali non ci siano e che, quindi, bisognerà fare in modo di consentire il trasferimento temporaneo da un istituto all’altro per svolgere questi colloqui. Questa mi sembra una cosa un po’ “cervellotica”, ma si vedrà col tempo se potrà funzionare. Nelle carceri, ci sono locali che possono essere adibiti a luoghi in cui poter effettuare colloqui in intimità? Possiamo dire che, in partenza, non esistono questi locali nelle carceri. È una situazione che va, in qualche modo, prevista e realizzata. Ovviamente negli istituti penitenziari più grandi ci sarà una maggiore disponibilità di locali e più facilmente potrà esserne adibito uno a questi scopi. Negli istituti più piccoli, che possono essere ugualmente sovraffollati come quelli grandi, è più difficile perché c’è meno margine dal punto di vista degli spazi. Negli istituti del Lazio ci sono questi locali? Io penso che si possano trovare. Forse io sarei stato meno fiscale di quello che è previsto nella circolare. Quello che la Corte costituzionale chiede è che siano colloqui senza il controllo visivo, ora nelle linee guida è scritto che questo debba avvenire in stanze con certe caratteristiche: il letto matrimoniale, il bagno. Queste sono tutte cose che è auspicabile che ci siano, ma non possono essere un vincolo. Prima il diritto al fatto di poter avere il colloquio riservato, poi la perfetta attrezzatura della stanza. Da più di un anno si aspettavano le linee guida del Dap sui colloqui riservati... Sì, aspettiamo da più di un anno, non vorremmo che l’ottimo sia nemico del bene. Intanto si facciano i colloqui nel modo in cui è possibile. È del tutto evidente che l’amministrazione penitenziaria è stata colta in contropiede dalla sentenza della Corte. Non per resistenza della dirigenza, dei vertici dell’amministrazione, ma perché è una questione che ha causato molta resistenza da parte di alcune organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Il Dap c’è andato “con i piedi di piombo”, dopo la sentenza 10/2024, bloccando anche le iniziative come quella nel carcere Due Palazzi di Padova, in cui già la direzione si era orientata a dare esecuzione alla sentenza della Corte costituzionale. Recentemente, c’è stata una decisione della Corte di Cassazione, che ha detto che il diritto configurato dalla Corte costituzionale è un diritto esigibile e che i giudici di sorveglianza devono garantirlo. Erano pendenti alcune decisioni di magistrati di sorveglianza a cui si erano rivolti i detenuti, non solo quello di Spoleto, che era il caso originario andato in Corte costituzionale, ma anche altri reclami a magistrati di sorveglianza, in altre città. Avendo preso questa china, l’amministrazione finalmente ha dato le disposizioni che richiedono ancora qualche passaggio organizzativo, con l’individuazione degli istituti e dei locali in cui potranno svolgersi questi colloqui. A quel punto la macchina dovrebbe finalmente partire. Speriamo non ci siano ulteriori ritardi. Vigileremo affinché tutti gli aventi diritto, secondo i criteri stabiliti dalla Corte costituzionale, possano effettivamente accedervi. I problemi del reato di “rivolta in carcere” introdotto dal Governo di Luca Sofri ilpost.it, 16 aprile 2025 Il nuovo “decreto Sicurezza” limita molto la possibilità di protestare per i detenuti, anche nella forma non violenta della “resistenza passiva”. Martedì il presidente e il segretario regionale dell’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria (Uspp) alla notizia della rivolta, poi sedata, nel carcere di Piacenza hanno chiesto l’immediata applicazione nei confronti dei detenuti coinvolti del reato di “rivolta in carcere”: è quello introdotto dal governo con l’approvazione del nuovo “decreto Sicurezza” entrato in vigore la scorsa settimana. Il decreto, molto contestato, contiene diverse misure sulle forze di polizia, sull’ordinamento delle carceri, sull’ordine pubblico e in generale sulla pubblica sicurezza. E introduce tra le altre cose un numero eccezionale di nuovi reati, tra cui quello di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”. Viene modificato il codice penale con l’aggiunta di uno specifico articolo, il 415-bis, che introduce un nuovo reato per una condotta che era già sanzionata dal codice penale all’articolo 415 (“Istigazione a disobbedire alle leggi”, con pene da 6 mesi a 5 anni di reclusione), e che ora il decreto aggrava ulteriormente aumentando la pena proprio nei casi in cui il fatto sia commesso in un carcere. Con “rivolta” il decreto-legge si riferisce a quelli che definisce “atti di violenza o minaccia o di resistenza” agli ordini, compiuti da tre o più persone riunite con questo intento. Il decreto-legge prevede che queste persone, già detenute, siano punite con la carcerazione da uno a cinque anni, con pene più lunghe se la rivolta provoca lesioni personali, o morte, al personale penitenziario. Il nuovo reato punisce con le stesse pene anche le “condotte di resistenza passiva”, che a seguito di obiezioni del presidente della Repubblica il governo ha definito nella stesura finale della norma in maniera più precisa, ma comunque ampiamente soggetta a interpretazioni: tra queste condotte vengono incluse le azioni che “impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza” all’interno delle carceri. È una formulazione vaga e difficile da spiegare ulteriormente, anche perché ancora non è mai stata applicata. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, ha criticato questa norma perché non chiarisce quali siano le condotte materiali che costituirebbero il nuovo reato: “Non si capisce quali sono le azioni violente o non violente che determinano il meta delitto di rivolta. Ogni atto di violenza o minaccia o di resistenza attiva è infatti già perseguito dal codice penale. Cosa li trasforma in rivolta? Non è dato sapersi”. Secondo Gonnella inoltre la norma violerebbe il “principio di offensività, in base al quale si possono prevedere delitti solo se ledono beni o interessi costituzionalmente rilevanti. Non si capisce quale sia il bene offeso da una protesta nonviolenta”. Gonnella ha anche fatto notare che nella nuova legge non ci sono indicazioni sul fatto che gli ordini che si chiede ai detenuti di rispettare debbano essere legittimi. Il reato di rivolta in carcere vale anche per i centri di trattenimento per i migranti irregolari, ad esempio i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), strutture detentive note per le documentate condizioni estremamente degradanti in cui vengono spesso mantenute le persone al loro interno, e in cui le proteste e le rivolte sono anche per questa ragione frequenti. Il nuovo reato di rivolta è stato interpretato come una specie di risposta alle recenti e diffuse proteste delle persone detenute nelle carceri italiane dovute soprattutto alle pessime condizioni in cui gli istituti si trovano. Il fatto che vengano criminalizzate anche le proteste non violente aveva portato Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, a chiedersi se d’ora in poi potrà essere perseguito anche lo sciopero della fame. Nel 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva non violenta nelle carceri, come la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella. Gli strumenti a disposizione dei detenuti per protestare contro le loro condizioni ed esprimere una posizione di dissenso sono molto limitati. Sempre martedì un altro sindacato della polizia penitenziaria, l’Uilpa, ha pubblicato un comunicato in cui nota che dopo la pubblicazione in gazzetta ufficiale del “decreto Sicurezza” sono aumentate le tensioni nelle carceri e in 4 giorni sono state almeno due le situazioni di disordine che la polizia penitenziaria ha dovuto affrontare: la prima domenica sera nella casa circondariale di Cassino, in provincia di Frosinone, e la seconda a Piacenza. Il sindacato ha scritto: “Anche a non voler attribuire alle due cose un rapporto di causa ed effetto, certamente le prime avvisaglie ci dicono che l’introduzione del reato, da sola, non ha alcuna efficacia nell’evitare i disordini, non solo perché punta tutto sulla repressione trascurando la prevenzione, ma soprattutto perché lascia immutata la gravissima emergenza carceraria in atto”. I “relatori speciali” delle Nazioni Unite, esperti indipendenti che si occupano di controllare categorie specifiche di diritti all’interno dei paesi, hanno inviato una nuova comunicazione al governo italiano invitandolo ad abrogare il decreto Sicurezza (lo avevano già fatto a dicembre, quando ancora molte norme di questo decreto dovevano essere approvate all’interno di un disegno di legge). Tra le norme problematiche del “decreto Sicurezza” segnalate dall’ONU c’è proprio il reato di rivolta in carcere e nei CPR, definito “restrizione inutile e sproporzionata del diritto di protesta pacifica e di espressione” delle persone detenute. Diritti in carcere per le persone straniere, aggiornata la Guida dell’ASGI asgi.it, 16 aprile 2025 Aggiornata la Guida per la persona straniera privata della libertà personale, una pubblicazione promossa da ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione APS), dalla Clinica Legale Carcere e Diritti II del Dipartimento di Giurisprudenza di UniTo (Università di Torino), e dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino. Pensata come strumento concreto per informare le persone straniere che si trovano in stato di detenzione e che necessitano di informazioni chiare per ottenere o mantenere la regolarità del soggiorno in Italia, la guida fornisce un orientamento pratico, tenendo conto del delicato coordinamento tra le normative amministrative, penali e del diritto dell’immigrazione che impattano profondamente sulla vita delle persone detenute straniere. Questa Guida si rivolge in particolare alle persone straniere private della libertà personale, ma essa è pensata anche per tutti coloro che lavorano all’interno degli istituti penitenziari, a cui offre una panoramica aggiornata della normativa in materia di immigrazione e asilo, strettamente connessa con l’esecuzione penale. La guida è disponibile in lingua italiana, inglese, francese e araba. Attraverso una sintesi dei principali istituti giuridici rilevanti, la Guida approfondisce: * Le procedure e i requisiti per il permesso di soggiorno per cittadini non europei, sia per chi ne è già in possesso e deve rinnovarlo (anche dal carcere), sia per chi non lo ha mai avuto o ce l’ha scaduto da tempo. Un’attenzione particolare è dedicata al complesso tema dei reati ostativi al rilascio o al rinnovo. * Le diverse tipologie di permesso di soggiorno esistenti, come quelli per lavoro, lungo soggiornanti, motivi familiari, cure mediche (incluse gravidanza), vittime di tratta e violenza domestica, sfruttamento lavorativo e protezione sociale ex minore. La guida specifica quali permessi possono essere rinnovati tramite KIT postale e quali richiedono una presentazione diretta in Questura. * La disciplina della protezione internazionale, illustrando la procedura per la richiesta d’asilo e i diversi tipi di protezione ottenibili. Vengono inoltre spiegate le possibili le procedure di ricorso, nonché la procedura accelerata. * Le informazioni sulle espulsioni, sia come misura alternativa o sostitutiva della detenzione, che come misura di sicurezza e amministrativa, oltre alle misure alternative al trattenimento, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), il divieto di reingresso e i casi in cui l’espulsione è vietata. * Un’introduzione ai benefici penitenziari, fornendo cenni su permessi premio, permesso di necessità, lavoro all’interno e all’esterno, liberazione anticipata, affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare e semilibertà. * Le modalità per i colloqui, sia in presenza (inclusi quelli tramite videochiamata) che telefonici, specificando le procedure per l’autorizzazione e la documentazione necessaria. * Le informazioni sul trasferimento verso un altro Stato membro dell’Unione Europea per scontare la pena, un diritto importante per i cittadini UE o residenti stabili in altri Stati membri. * Il diritto alla salute, l’iscrizione anagrafica e il codice fiscale per i lavoratori durante la detenzione, diritti fondamentali che permangono anche in stato di privazione della libertà personale. In appendice alla guida è disponibile un elenco dettagliato delle principali norme citate nel testo, offrendo un ulteriore livello di approfondimento per chi ne avesse necessità. L’Onu scrive a Meloni: “Abrogare il Decreto Sicurezza” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 aprile 2025 La richiesta degli Special Rapporteur: “Inutile” il reato di rivolta in carcere. La Uilpa: da sabato già due proteste, non è un deterrente. L’avviso era già arrivato a dicembre scorso, inascoltato. Da allora il governo di “Sua Eccellenza” Giorgia Meloni ha impresso, anzi, un’accelerazione talmente scomposta da “allarmare” definitivamente l’Onu. Così cinque Special Rapporteur delle Nazioni unite, che avevano già messo in guardia Roma riguardo le criticità del ddl Sicurezza, hanno ora “invitato il governo italiano ad abrogare il decreto adottato bruscamente il 4 aprile per promulgare un disegno di legge sulla sicurezza, in discussione e criticato al Senato, che include disposizioni non in linea con il diritto internazionale in materia di diritti umani”. Decreto che invece tira dritto sulla strada della conversione in legge con l’inizio dell’iter oggi nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dove dopo Pasqua si terrà un breve ciclo di audizioni. “Siamo allarmati da come il Governo abbia trasformato il ddl in un decreto d’urgenza, rapidamente approvato dal Consiglio dei Ministri, aggirando il Parlamento e il vaglio pubblico”, scrivono gli esperti dell’Onu. Nel merito erano già entrati da Ginevra il 19 dicembre scorso con il lungo documento che segnalava le norme giudicate “critiche” del ddl Sicurezza, articolo per articolo. Ora l’Onu ribadisce che il testo contrasta con gli obblighi internazionali “in materia di diritti umani, tra cui la tutela del diritto alla libertà di movimento, alla privacy, a un giusto processo e alla libertà, nonché la protezione contro la detenzione arbitraria”. Visto che, con il decreto in vigore da sabato scorso, hanno già forza di legge per esempio “definizioni vaghe e ampie disposizioni relative al terrorismo che potrebbero portare a un’applicazione arbitraria”. Oppure norme che “mettono a rischio la libertà di espressione” di “gruppi specifici, tra cui minoranze razziali o etniche”, o disposizioni che “sembrano limitare la libertà di riunirsi pacificamente per proteste e manifestazioni” con “formulazioni vaghe che potrebbero comportare procedimenti giudiziari arbitrari”. Tra le norme censurate dall’Onu c’è anche il reato di rivolta in carcere e nei Cpr (art. 26, 27), commesso anche con la resistenza passiva e punibile con la reclusione da uno a 8 anni. Una “restrizione inutile e sproporzionata del diritto di protesta pacifica e di espressione” dei detenuti che potrebbe vanificare, scrive l’Onu, “il raggiungimento degli obiettivi legittimi di garantire la sicurezza e i processi di reinserimento”. Talmente inutile, per altro, che non ha funzionato neppure da “deterrente” ieri a Piacenza dove alcuni detenuti hanno provocato disordini rientrati in poche ore e sedati dalla penitenziaria in anti sommossa del nuovo Gio che ha trasferito i facinorosi. Domenica scorsa era accaduto a Cassino e paradossalmente, denuncia il sindacalista Uilpa Gennarino De Fazio, “non appena entrato in vigore il reato di rivolta sono aumentate le tensioni nelle carceri e in 4 giorni sono state almeno due le gravi situazioni di disordine che la Polizia penitenziaria, sempre più stremata nelle forze e mortificata nel morale, ha dovuto fronteggiare con non poche difficoltà”. A dire il vero, però, succede anche il contrario: quelle che una volta erano semplici proteste gestite come tali, oggi sono costantemente - e quasi giornalmente - denunciate da alcune sigle sindacali come “rivolte”. Ecco perché anche per l’Onu il Decreto Sicurezza è “illegale” di Vitalba Azzollini* Il Domani, 16 aprile 2025 Il decreto Sicurezza viola la normativa internazionale sui diritti umani. Lo dicono i relatori speciali dell’Onu. Il decreto mette a rischio la libertà di espressione e “potrebbe colpire in modo sproporzionato gruppi specifici”, con eventuali “discriminazioni e violazioni dei diritti umani”. Il decreto legge Sicurezza si segnala non solo per le nuove quattordici fattispecie incriminatrici, l’inasprimento delle pene di altri nove reati e l’introduzione di una serie di aggravanti, ma anche per aver messo d’accordo nelle critiche soggetti molto diversi tra di loro, e non solo all’interno dei confini nazionali. Dall’Unione delle camere penali all’Associazione nazionale magistrati (ANM), fino ad arrivare ai relatori speciali delle Nazioni unite, esperti indipendenti e imparziali, ciascuno responsabile di monitorare una categoria specifica di diritti o un’area tematica su mandato del Consiglio per i diritti umani dell’Onu. In particolare, il 14 aprile scorso, i relatori sulla libertà di riunione pacifica e di associazione, sui diritti umani e le libertà fondamentali nella lotta al terrorismo, sulla libertà di opinione e di espressione, sui difensori dei diritti umani, sui diritti umani dei migranti hanno chiesto all’esecutivo italiano di revocare il decreto “adottato improvvisamente” il 4 aprile. “Siamo allarmati” - hanno detto gli esperti - “dal modo in cui il governo ha trasformato il disegno di legge in un decreto d’urgenza, rapidamente approvato dal Consiglio dei ministri, aggirando il parlamento e il controllo pubblico”. I relatori Onu - Già nel dicembre scorso i relatori speciali avevano inviato una nota al governo italiano, facendo presente che, se il disegno di legge non fosse stato modificato, l’Italia si sarebbe posta in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, tra cui la tutela della libertà di movimento e la protezione contro la detenzione arbitraria. Evidentemente, i loro avvertimenti sono rimasti inascoltati. Il decreto “include definizioni vaghe e disposizioni ampie” che potrebbero portare “a un’applicazione arbitraria”, hanno rilevato i relatori Onu. Il riferimento sembra essere, tra l’altro, all’inasprimento delle sanzioni per chi compia atti di violenza o minaccia verso ufficiali o agenti di polizia giudiziaria oppure per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. Già a dicembre essi avevano criticato alcune disposizioni formulate in modo tale da non definire in modo preciso le fattispecie che costituiscono “violenza” - in spregio ai requisiti di chiarezza, certezza e, quindi, prevedibilità - con la conseguenza di lasciare margini di discrezionalità che potrebbero “aprire la porta all’uso improprio della forza” contro chi manifesta. “Il decreto metterà inoltre a rischio la libertà di espressione e potrebbe colpire in modo sproporzionato gruppi specifici”, con eventuali “discriminazioni e violazioni dei diritti umani”, hanno affermato i relatori Onu. L’introduzione di restrizioni più severe alla possibilità di proteste e dimostrazioni - essi avevano già fatto notare - potrebbe colpire in particolare i difensori dei diritti impegnati in atti di disobbedienza civile, con “un impatto particolarmente negativo sui difensori dell’ambiente”. “Il governo italiano deve rispettare e proteggere il diritto di riunione pacifica ed evitare restrizioni indebite, dispersioni illegali e uso della forza”, hanno concluso gli esperti delle Nazioni Unite. Unione camere penali e Anm - Le osservazioni dei relatori Onu trovano riscontro anche in ambito nazionale. L’Unione delle Camere penali italiane, organizzazione che rappresenta gli avvocati penalisti, ha deliberato “l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 5, 6 e 7 maggio 2025” per protestare contro l’adozione del decreto Sicurezza. L’organizzazione critica fortemente, tra l’altro, l’introduzione di nuove ipotesi di reato, molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, aggravanti prive di alcun fondamento razionale; la sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso; l’insufficienza degli interventi per ridurre il sovraffollamento carcerario; la violazione dei principi costituzionali di proporzionalità, ragionevolezza, offensività e tassatività. Gli stessi rilievi, e dubbi di costituzionalità, sono stati formulati anche dall’Anm che, come l’Unione dei penalisti, aveva già espresso severe critiche su alcune disposizioni del disegno di legge, poi riversate nel decreto legge. L’auspicio delle Camere penali è che sulla legge di conversione del decreto non sia posta la fiducia, consentendosi al dibattito parlamentare “lo spazio necessario al ripensamento di norme irrazionali e prive di alcuna efficacia”. Dati i precedenti, si dubita che il governo ne terrà conto. *Giurista Incontro Anm-Nordio sulla giustizia di Conchita Sannino La Repubblica, 16 aprile 2025 Due ore di colloquio su criticità e ingorghi del servizio giustizia. E nessuna soluzione alle viste, né impegni concreti. Si chiude con una scontata stretta di mano l’incontro tra il ministro Nordio e i vertici dell’Associazione nazionale magistrati: ancora una volta non c’è alcun reale punto d’incontro. Anzi, i magistrati incassano ancora un solenne no, una porta totalmente chiusa, rispetto all’ampio ventaglio di ipotesi posto sul tavolo - tra amnistia, indulto, liberazione anticipata - per l’emergenza sovraffollamento carceri, quella che solo pochi giorni fa il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso ha definito “una tragedia”. “Il clima è stato sicuramente collaborativo, il ministro ha consapevolezza dei problemi, ci ha ascoltato con attenzione. Non so dire, ovviamente, poi in che misura questo spirito collaborativo si tradurrà in concreto in provvedimenti”, allarga le braccia il presidente Anm, Cesare Parodi. L’unica certezza? La predilezione del Guardasigilli per il fumo, in barba alle regole. Da una delle foto dell’incontro, ecco infatti Nordio seduto in poltrona che fuma nella stanza avvolta dalle boiserie, mentre i magistrati parlano. Un’immagine non esaltante - ma in fondo un dettaglio assoluto, rispetto alle esternazioni choc del ministro - che lo staff cercherà di minimizzare, parlando di una sigaretta spenta, e di un vezzo “alla Bogart”. C’è poco da scherzare invece a scorrere i nodi messi in fila dall’Anm. Punti sui quali ha interloquito a lungo con l’Anm la capo di gabinetto del ministero, la magistrata Giusi Bartolozzi (al centro peraltro di tensioni con altri dirigenti, alcuni dei quali hanno già lasciato gli uffici di via Arenula). “Purtroppo se dobbiamo dirlo in poche parole: c’è convergenza sull’esame dei problemi, ma netta divergenza sulle soluzioni”, sintetizza Rocco Maruotti, il segretario generale dell’Anm. Non un accordo sull’emergenza del sovraffollamento in carcere. Non sulla carenza cronica di personale amministrativo, e sul vuoto degli organici nella stessa magistratura (a cui si comincerà ad ovviare nel giro dei prossimi tre anni). Non sul cattivo funzionamento della App per il processo penale telematico: un serio ostacolo di fronte al quale, alla fine, è fatale autorizzare ciò che la norma non vorrebbe più, cioè la prosecuzione del ‘doppio binario’, con gli atti del processo assorbiti o in cartaceo o in digitale. In particolare, sul caso carceri, il vicesegretario Stefano Celli sottolinea: “Abbiamo prospettato al ministro la necessità di agire su due piani. Accanto al livello di lungo periodo, cioè, pensare a una misura straordinaria. Ce ne sono molte e l’Anm non ha espresso una preferenza, ma è concorde nel chiedere un provvedimento che consenta di diminuire, nell’immediato o a breve termine, la pressione. Il ministro non ha negato le condizioni di sovraffollamento e le conseguenze gravi che questo ha sulle condizioni di vita. Tuttavia quanto alle misure straordinarie la risposta è e resta negativa”. Il motivo? “Ci è stato detto - spiega Celli - che lo stato manderebbe un messaggio diseducativo. ‘Non ti posso liberare perché c’è il sovraffollamento o perché le condizioni di vita in carcere non sono dignitose’. Ma così si fanno pagare le conseguenze di una mancanza dello Stato ai detenuti”. Un “governo-ombra” sulla giustizia: così le toghe possono battere Meloni di Errico Novi Il Dubbio, 16 aprile 2025 Un duello ricco di spunti. Materia per scienziati della politica. La dialettica, per definirla così, fra Anm e governo, e fra Anm e partiti, è un caso di scuola. E conferma un dato: i magistrati, con il potere e con la comunicazione, ci sanno fare. E saranno un avversario insidiosissimo, per Giorgia Meloni e per il suo Esecutivo quando, fra meno di un anno, si batteranno per il No nella campagna referendaria sulla separazione delle carriere. Con Carlo Nordio c’è stato un incontro “aperto e franco”. E anche con la delegazione parlamentare di Fratelli d’Italia, che la giunta guidata da Cesare Parodi ha visto nel pomeriggio, ci si è parlati in un clima “cordiale e costruttivo”, come spiega il presidente dei senatori FdI Lucio Malan. Che, interpellato dal Dubbio, aggiunge: “Non si è discusso d’altro che di riforma costituzionale, dei rischi che, secondo i magistrati, la modifica comporterebbe e della necessità di continuare a discuterne su un piano di reciproco rispetto”. Uno dei “vice” di Parodi ha precisato, conferma Malan, che “è interesse innanzitutto della magistratura evitare una campagna referendaria ridotta a scontro fra istituzioni”. Una frase che ridimensiona, in astratto, l’ipotesi prefigurata dallo stesso vertice del “sindacato” subito dopo il colloquio precedente, quello mattutino con il guardasigilli: a una cronista che gli chiedeva se un comitato dell’Anm per il No al referendum sulle “carriere” fosse non solo verosimile ma se addirittura potesse accogliere i partiti di opposizione, Parodi ha replicato “ne parliamo con tutti, e lo facciamo, evidentemente, per qualche ragione”. Si può dire dunque che l’Associazione magistrati preferisce lasciarsi aperte diverse strade: dall’opzione di un profilo rigorosamente istituzionale, con una campagna per il No tendenzialmente “soft”, più pedagogica che politica, fino all’approdo estremo di una mobilitazione clamorosa, scandita dal solenne allarme per “l’attacco alla Costituzione e alla democrazia”, al fianco magari di Pd, 5 Stelle e Avs. Tutto è possibile, tutto è da decidere. Ma una cosa è certa: l’Anm sa farsi, anzi è già e sarà sempre più un primattore del dibattito pubblico. Detterà quasi la linea a Meloni, a Nordio e all’Esecutivo, o almeno li terrà sotto pressione, più o meno come un governo- ombra, seppur circoscritto alla materia giudiziaria. È vero che, come conferma il comunicato diffuso ieri da via Arenula, su molti temi Nordio e Parodi si sono scoperti disponibili a una “azione bilaterale”, sebbene non si sentano perfettamente d’accordo su tutto. È vero che mai come ieri si è trovata una “sintonia” su temi controversi come il penale telematico e l’uso dell’intelligenza artificiale nei tribunali. E anche vero però che ora il sindacato delle toghe ha le carte in mano, ha l’inerzia della partita dalla propria parte: potrà cioè richiamare l’Esecutivo alle proprie responsabilità e alle proprie eventuali “inadempienze”. In particolare sulle materie affrontate ieri col ministro della Giustizia che siano intrecciate con stanziamenti di risorse: dalla stabilizzazione degli amministrativi precari all’edilizia giudiziaria e alle carenze d’organico che, soprattutto in casi particolari come i procedimenti per femminicidio, rischiano di vanificare le norme appena inserite dal governo nel nuovo disegno di legge. Che vuol dire? Che l’Anm potrebbe riuscire a tenere mediaticamente in scacco Meloni, alla vigilia del referendum, persino senza dar vita a un vero e proprio comitato per il No. C’è il rischio, per Palazzo Chigi e per via Arenula, di vedersi messi all’angolo dalla magistratura su temi diversi dalla separazione delle carriere, ma secondo una dinamica che farebbe comunque apparire l’Esecutivo in affanno e, appunto, inadeguato sulla giustizia. Col risultato di orientare gli elettori, al referendum, verso posizioni vicine all’Anm anziché alla maggioranza di centrodestra. Ieri insomma si è discusso in un clima sereno, ma si sono creati anche i presupposti perché l’Anm mantenga una posizione di vantaggio nel dibattito sulla riforma. Difficile dire quale contromisura potrebbe adottare l’Esecutivo. Dai riscontri arrivati sia da Nordio che dai parlamentari di Fratelli d’Italia, è chiara una cosa: si vuole evitare di assumere, nei confronti dell’Associazione magistrati, una postura belligerante. Lo stesso Alfredo Mantovano, almeno fino al duro attacco sferrato dieci giorni fa alla cerimonia inaugurale del Cnf, ha predicato a lungo prudenza, visto che una parte dell’elettorato, soprattutto meloniano, potrebbe essere spiazzato da eccessi polemici. Tanto da prendere strade imprevedibili, al referendum sulle “carriere”, a cominciare dall’astensione. Prudenza e dialogo servono alla maggioranza, e all’Esecutivo, per non spaventare l’opinione pubblica, e ridurre i rischi di ribaltone nella consultazione confermativa. Ma appunto, più che predicare prudenza, per ora il governo non può. E non è detto che basterà, quando sarà l’ora di convincere gli elettori a votare per una rivoluzione della giustizia. App, organici, carceri, dirigenti in fuga. Far funzionare le cose sarebbe già una gran riforma di Federica Olivo huffingtonpost.it, 16 aprile 2025 Mentre Nordio incontra l’Anm e si spende per la separazione delle carriere, a via Arenula sono alle prese con una montagna di problemi. Che ingolfano ulteriormente una macchina già in difficoltà. Dalla tecnologia agli organici, dagli uffici del ministero alle carceri, dai tempi del processo ai precari: la giustizia a guida Nordio è inceppata. E non è una questione di gaffe del ministro, di nuovi reati varati con la facilità con cui si fa un aperitivo, di narrazioni - vedi quelle sugli stranieri che commetterebbero più femminicidi - che si rivelano sbagliate, né di riforme più o meno contestate, di cui le toghe peraltro oggi hanno parlato con i rappresentanti di Fratelli d’Italia, determinati a portare avanti la separazione delle carriere. I problemi di via Arenula e dintorni sono molto più concreti di una riforma di là da venire. E alcuni di questi hanno mandato in tilt gli addetti ai lavori. Gli avvocati, da Nord a Sud, hanno ancora i capelli dritti quando si pronuncia davanti a loro la parola “app”. Da inizio 2025, infatti, sarebbe dovuto partire questo strumento tecnologico in grado di informatizzare il processo e di rendere, quindi, più veloci alcuni atti che prima si facevano con le carte bollate. Risultato? Sistemi in tilt, sin dall’inizio, tanto che molti capi degli uffici non hanno avuto scelta: “Torniamo all’analogico prima che sia troppo tardi”. Visto che l’esperimento a gennaio era fallito quasi ovunque, l’operazione è stata sospesa. Ci hanno riprovato ad aprile e i risultati non sono stati soddisfacenti: di nuovo app sospesa in vari uffici. Anche di questo si è discusso oggi, 15 aprile, in via Arenula, nel corso dell’incontro tra il Guardasigilli e una delegazione dell’Associazione nazionale magistrati. Un incontro che non ha toccato il tema che divide di più le parti, quello della riforma della Giustizia, e che quindi viene definito da via Arenula “aperto e franco” e secondo l’Anm si è svolto in “un clima collaborativo”. La collaborazione, ci viene spiegato, consisterà in un aggiornamento costante su cosa il ministero sta facendo per migliorare i vari bug della giustizia. Che, come accennavamo, sono vari. Oltre alla questione tecnologica, è tornato di gran moda un vecchio problema della giustizia italiana: l’arretrato. Tra gli obiettivi del Pnrr c’è quello di abbattere i processi civili pendenti del 95%. Bene: questo obiettivo, come ha raccontato Ermes Antonucci sul Foglio, nel 2024 non è stato raggiunto. L’abbattimento c’è stato, ma non è andato oltre il 91%. C’è poi un tema che riguarda gli organici: nei tribunali c’è poco personale. E questo pesa sulla velocità dei processi. Una parziale soluzione era stata trovata dal governo Draghi, quando la ministra Marta Cartabia aveva introdotto una nuova figura: quella dell’operatore dell’ufficio del processo. Un ibrido non ben definito che, però, in qualche modo aiuta i magistrati a scorrere più veloci nel loro lavoro. Questa figura, però, è nata con un grande limite: il precariato. I contratti, infatti, erano a termine. Dopo una serie di tira e molla si è optato per la stabilizzazione. Peccato che, su 12mila persone, il contratto a tempo indeterminato arriverà solo a 3mila. Una su quattro. Perché? Perché sono pochi i fondi a disposizione. Quello della carenza di investimenti è, in effetti, un problema che riguarda molti ambiti della giustizia: “Il problema - evidenzia una fonte dell’Anm dopo l’incontro con il ministro - è sempre lo stesso: possiamo anche convergere su alcuni temi, ma mancano i soldi”. Un capitolo a parte merita la questione carceri, con il sovraffollamento ormai sopra il livello di guardia. Il ministro, anche nell’incontro con le toghe di oggi, ha ribadito il suo no a provvedimenti di amnistia e indulto. Avrebbe, però, secondo quanto risulta ad HuffPost, aperto interventi per ridurre ulteriormente la custodia cautelare e a una maggiore attenzione per i detenuti con problemi psichiatrici o con tossicodipendenze, per i quali ipotizza di creare un percorso diverso. E se quello delle carceri per adulti è un problema annoso, che questo governo ha ereditato dai precedenti, non si può dire lo stesso delle carceri minorili: fino al 2022 erano considerate un’istituzione in declino, proprio perché usate solo in casi di massima gravità. Il governo Meloni ha invertito la tendenza, così da far conoscere il sovraffollamento anche agli istituti per minori. A questo proposito, vale la pena ricordare che il capo del dipartimento del ministero della Giustizia che si occupa di minori, Antonio Sangermano, è uno degli ultimi superstiti di una grande fuga. Sono, infatti, ormai cinque i dirigenti del ministero che se la sono data a gambe, perché impossibilitati a fare il loro lavoro come avrebbero voluto. Il prossimo in uscita sarebbe Gaetano Campo, capo del personale, determinato a lasciare il posto come hanno fatto i suoi colleghi. Nei giorni scorsi, invece, ha mollato Luigi Billitteri, che dirigeva gli Affari internazionali. Travolto, tra l’altro, dal caso del generale libico Almasri, ricercato dalla Corte penale internazionale, che l’Italia ha arrestato e poi rilasciato. Ancora prima aveva lasciato Giovanni Russo, capo del dipartimento delle carceri, in polemica più che con il ministro Nordio con il sottosegretario Andrea Delmastro. Al suo posto c’è una reggente, Lina Di Domenico, che era sua vice. E che non è stata investita formalmente della carica perché la certezza della successione, fatta trapelare da ambienti di via Arenula dopo l’addio di Russo, avrebbe irritato il Colle. La firma del decreto di nomina, infatti, spetta al presidente della Repubblica. Ma l’esodo non è finito: prima di Russo se ne era andato Alberto Rizzo, capo di gabinetto, poi sostituito dalla vice Giusi Bartolozzi, vera plenipotenziaria di via Arenula. Ancora: hanno detto addio al ministero della Giustizia Vincenzo Lisi, direttore dei sistemi informativi automatizzati, e Maria Rosaria Covelli, direttrice dell’ispettorato generale. Un esodo biblico, insomma, che non aiuta a rimettere a posto la macchina della giustizia. Una macchina che, al netto degli annunci del governo, continua a fare fatica. Un assegno per le vittime di errori giudiziari: i Radicali lanciano la “legge Zuncheddu” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 aprile 2025 Il partito sta raccogliendo le firme per incardinare la proposta in Parlamento. Obiettivo: sostenere temporaneamente chi aspetta anni per un risarcimento, come il pastore sardo che ha passato 33 anni in cella da innocente. Garantire una provvisionale economica a chi alla fine di un processo è stato assolto: questo l’obiettivo della proposta di legge di iniziativa popolare su cui il Partito radicale sta raccogliendo le firme per farla incardinare in Parlamento. Porta il nome di “Beniamino Zuncheddu e altri”. Il pastore sardo è stato vittima di uno dei più grandi errori giudiziari della storia italiana. A gennaio dello scorso anno la Corte di Appello di Roma riconobbe la sua innocenza dopo trentatré anni di ingiusta detenzione, oltre dodicimila giorni di carcere senza aver commesso alcun crimine. Zuncheddu era accusato di strage per la morte di tre pastori tra le montagne del Sinnai, l’8 gennaio del 1991. Per quel delitto era stato condannato all’ergastolo. Entra in carcere quando ancora non ha compiuto 27 anni e ne esce a quasi 60. Durante la detenzione, è stato recluso nella casa circondariale di Badu ‘e Carros, a Nuoro, nel vecchio istituto penitenziario di Cagliari e nel nuovo, quello di Uta. Di cella in cella, anno dopo anno, pur essendo innocente. Aveva raccontato: “Ogni giorno uguale, per decine di anni. Le due ore d’aria al giorno, la televisione sempre accesa, le interminabili partite a carte. Eravamo in undici in cella, tre per ognuno dei tre letti a castello, due per terra. Un solo bagno, la finestra non c’era, esisteva solo la ‘bocca di lupo’. È stata molto dura. Ho visto ragazzi che si tagliavano le vene. Io mi sono sempre comportato bene. Infatti dopo undici anni e mezzo mi hanno dato la possibilità di uscire in permesso premio per tre giorni. Però dovete pensare cosa significa fare quella vita sapendo di essere innocente. È da impazzire, ma io non sono impazzito. Io mi considero un sopravvissuto”. Viene scarcerato a fine 2023 dai giudici della Capitale, che hanno accolto la richiesta di sospensione della pena avanzata dal suo avvocato Mauro Trogu. Tutto ruotava attorno al super teste Luigi Pinna, che quel giorno sopravvisse all’agguato. La sua versione, però, non ha retto alla prova del tempo. Nel corso della requisitoria il sostituto procuratore generale, che ne aveva chiesto l’assoluzione, aveva infatti ricordato che si è andati avanti per “30 anni con le menzogne”. Il 12 dicembre 2023 l’atto decisivo del procedimento: il confronto, in aula, tra Pinna, e il poliziotto Mario Uda. Pinna, inizialmente interrogato, aveva sostenuto di non aver riconosciuto l’aggressore, ma, qualche settimana dopo, ha cambiato versione e ha accusato Zuncheddu che è stato prima arrestato e poi condannato. Quella testimonianza, determinante per la condanna del pastore sardo, sarebbe stata frutto delle pressioni di Uda. Per tutto questo calvario Zuncheddu ancora non ha avuto il risarcimento da parte dello Stato. Ci potrebbero volere anche otto anni per ottenerlo. Intanto presta il volto alla campagna del Partito radicale che in una email spiega: “Ci sono persone che si sono viste distruggere l’esistenza: la giustizia, in qualche modo, ha sottratto loro anni di vita e non solo perché sono state in carcere, ma a volte anche per poter sopravvivere dopo l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione. La proposta prevede un assegno che parta dal momento dell’assoluzione fino alla sentenza di risarcimento del danno. Perché è proprio in quel periodo che può durare sei, sette, otto, dieci anni che le persone non sanno cosa fare: alcune si rivolgono alla Caritas, altre sono costrette ad andare a rubare, altre ancora se non ci fossero le famiglie si troverebbero costrette a dormire sotto i ponti. Sono circa 1000 ogni anno le ingiuste detenzioni con costi esorbitanti a carico dello Stato”. Nel dettaglio la pdl andrebbe a modificare il codice di procedura penale come segue: “Dopo l’articolo 411 del codice di procedura penale è inserito il seguente: ‘411-bis. Provvedimenti in caso di ingiusta detenzione. Nei casi di cui al comma 3 dell’articolo 314, se la persona sottoposta alle indagini ha preannunciato la presentazione della domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi dell’articolo 315, con il provvedimento che dispone l’archiviazione è ordinata la costituzione provvisoria ed immediatamente esecutiva di una rendita mensile a suo favore pari al doppio dell’assegno sociale a valere sui fondi della Cassa delle ammende. La durata della rendita non può essere inferiore al doppio della durata della custodia cautelare sofferta. Nel computo della durata si tiene conto dei criteri di cui al comma 4 dell’articolo 314. Il diritto alla rendita si estingue se la domanda di riparazione non è presentata entro il termine di cui all’art. 315, ma le somme versate non possono essere ripetute’”. Il Partito radicale dovrà raccogliere 50 mila firme entro luglio ma non si esclude che anche uno o più partiti possano farsi promotori della presentazione della pdl. Ci dice la tesoriera del Partito radicale e garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Sardegna, Irene Testa: “Beniamino Zuncheddu è stato scarcerato dopo 33 anni con una busta di vestiti e nessun sostegno. Da quel giorno lo Stato è stato completamente assente. Così è accaduto per migliaia di altre persone, alcune note altre ignote. Molti, dopo essere stati assolti, si ritrovano senza casa e senza lavoro. Alcuni finiscono alla Caritas, altri sono costretti a rubare per sopravvivere. Questa proposta di legge colma un vuoto normativo inaccettabile. È una proposta di civiltà”. “La giustizia non è un rito di espiazione: stiamo regredendo alla barbarie” di Simona Musco Il Dubbio, 16 aprile 2025 Intervista al professor Oliviero Mazza: “Il caso Turetta? La complessità del diritto penale mal si concilia con una comunicazione demagogico-populista. La nostra società è sempre più vendicativa e percepisce come ingiusta ogni condanna che si discosti dal concetto stereotipato di punizione esemplare”. “Siamo già immersi in una barbarie pre-giuridica, senza esserne consapevoli”. A dirlo è il professore Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca, che fotografa la trasformazione in atto della giustizia penale italiana: sempre più influenzata dall’emotività collettiva, dalla pressione mediatica e da una retorica vittimocentrica che rischia di piegare principi costituzionali fondamentali come la presunzione d’innocenza. Nel caso di Filippo Turetta, l’esclusione dell’aggravante della crudeltà è stata letta da molti come una forma di “difesa” dell’imputato. È un problema di comunicazione della giustizia o di aspettative sbagliate? Nel processo mediatico, o peggio ancora in quello social-mediatico, i concetti giuridici sono approssimativi e capita che si confonda la crudeltà, intesa come connotato intrinseco della scelta di uccidere un essere umano, con l’aggravante della crudeltà, che costituisce invece un quid pluris rispetto alla condotta omicidiaria. L’aggravante attiene alle particolari modalità esecutive dell’omicidio che devono eccedere la normalità causale al fine di determinare sofferenze aggiuntive alla persona offesa. È chiaro che questa aggravante esprime un atteggiamento interiore riprovevole che si aggiunge alla determinazione omicidiaria. Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto che le pur numerose coltellate inferte da Turetta alla povera Giulia Cecchettin fossero frutto della inesperienza dell’omicida piuttosto che di una particolare crudeltà. Può essere una realtà disturbante per il lettore inesperto, ma il diritto penale è una materia complessa e anche la ricorrenza di un’aggravante può richiedere accertamenti tanto approfonditi quanto discutibili. Ad esempio, bisognerebbe distinguere con certezza fra i colpi inferti in vita e quelli post mortem che non possono evidentemente procurare sofferenze alla vittima. In una parola, complessità che mal si concilia con una comunicazione semplificata e demagogico-populista. ?Perché, secondo lei, molte persone percepiscono alcune sentenze come “ingiuste”, anche quando viene inflitta la pena massima? Cosa ci dice questo scarto tra diritto e sentimento collettivo? La nostra società è sempre più vendicativa e percepisce come ingiusta ogni condanna che si discosti dal concetto stereotipato di punizione esemplare. Siamo giunti al parossismo di contestare anche l’ergastolo quando vengano contestualmente escluse, come nel caso Turetta, aggravanti che non potrebbero comunque influire sulla pena già applicata nella sua massima estensione perpetua. È un pericoloso climax ascendente che si registra proprio in una fase storica in cui il numero degli ergastoli è aumentato esponenzialmente per effetto dell’esclusione del giudizio abbreviato che, prima della riforma del 2019, serviva da importante elemento di mitigazione della pena perpetua, trasformandola in quella massima temporanea o comunque escludendo l’isolamento diurno per l’ergastolo aggravato previsto dalla codice penale quando la stessa persona è condannata per aver commesso più reati, di cui almeno uno punito con l’ergastolo. Continuando così, non mi stupirei se venisse riaperto il dibattito sulla pena di morte e sulla tortura come strumento di ricerca della confessione. È accettabile, in uno Stato di diritto, una deriva vittimocentrica della giustizia, in cui il dolore della vittima diventa il principale criterio di giudizio? Quali rischi comporta? Ovviamente non è ammissibile e non è costituzionalmente compatibile con la presunzione d’innocenza, ma la retorica della vittima sta portando i suoi frutti, forse non proprio quelli sperati da chi ha voluto piegare alla vittimologia la normazione penale, tanto sostanziale quanto processuale. Il processo, in particolare, si è trasformato in un rituale di degradazione dell’imputato in funzione catartica per la vittima. Il rischio è la regressione allo stato pre-giuridico della barbarie, nella quale siamo già immersi senza esserne pienamente consapevoli, anzi, nella convinzione che una nuova scala di valori ci salverà da ogni pericolo o ingiustizia. Errori macroscopici di prospettiva che finiremo per pagare a caro prezzo. Esiste uno spazio in cui il diritto può - o deve - confrontarsi con la dimensione emotiva della società? Il diritto etico, il diritto penale emozionale sono alla base dell’esperimento, per ora incompiuto, della giustizia riparativa. Si tratta di un altro grave errore di prospettiva. Il diritto penale deve rimanere laico, non deve sovrapporsi alla morale privata o all’etica pubblica. Ricordiamoci che quando ciò storicamente è accaduto abbiamo assistito all’ascesa dei peggiori regimi: Il Codice penale nazista prevedeva che il reato è costituito da “ogni fatto contrario al sano sentimento del popolo”. Non dovremmo mai dimenticare i rischi determinati dalla commistione fra diritto e morale. Cosa succede quando l’opinione pubblica chiede giustizia, ma in realtà pretende vendetta? Come si difende l’autonomia della giustizia in questi casi? La giustizia è uno dei concetti più alti e complessi, un principio che ha un’evidente valenza antropologica, dovendo garantire la coesistenza intersoggettiva, ma che nelle democrazie moderne non può essere un dato puramente demoscopico, dovendo radicarsi saldamente sul concetto di ordinamento giuridico e dei conseguenti diritti. Questo per dire che la giustizia non deve rispondere alle aspirazioni dei singoli o a quelle collettive, ma va rapportata alla rispondenza alle norme di diritto positivo. Il miglior antidoto rimane il rispetto dell’ordinamento giuridico, delle sue forme e dei suoi principi, contro ogni tentazione di intraprendere imprevedibili scorciatoie. La giustizia penale dovrebbe limitarsi a punire il colpevole o può anche “nominare” il contesto culturale di un crimine, come nel caso della violenza di genere? Altro quesito complesso: il crimine non è un fenomeno, ma un fatto, possibilmente ben determinato, ritenuto antisociale e deviante al punto da richiedere l’applicazione della pena. Il contesto, sociale o culturale che sia, può incidere su alcuni aspetti, ma non sull’idea di fondo, ossia che si debbano sanzionare solo condotte tassativamente selezionate dalla legge penale. Il problema della violenza di genere è l’approccio criminologico che si fa sempre più strada nel processo penale, come dimostrano anche le scelte dei reiterati codici rossi legislativi. Per esemplificare, si vorrebbe che il giudice fondasse la sua decisione su criteri statistico frequentisti piuttosto che sul rigoroso accertamento del fatto: dato che spesso gli uomini commettono violenze sulle donne - aspetto criminologico -, allora non vi è motivo per dubitare che la vittima abbia denunciato il vero e che l’imputato sia colpevole, in sostanza che il processo sia del tutto inutile, o meglio, che serva solo quale strumento di punizione anticipata. È un ragionamento tanto inquietante quanto diffuso. Qual è il ruolo dell’informazione in questo equilibrio fragile tra giustizia e opinione pubblica? I media devono solo raccontare o anche aiutare a comprendere? I media avrebbero un ruolo fondamentale se non fossero, con le dovute eccezioni, in cerca di consensi demagogici tanto quanto la politica. Il sensazionalismo e il populismo giustizialista pagano molto di più di un rigoroso garantismo che aiuti la formazione dell’opinione pubblica, piuttosto che assecondarla. Credo sia una lunga battaglia culturale, difficile, ma non impossibile. Se il braccialetto elettronico manca non si può applicare una misura cautelare più afflittiva di Pietro Verna Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2025 La Cassazione ha censurato l’ordinanza nella parte in cui stabiliva che nel caso di “non fattibilità tecnica” del ricorso al braccialetto elettronico sarebbe stata disposta “l’applicazione della misura, più grave, del divieto di dimora”. È esclusa l’applicazione automatica di una misura cautelare più afflittiva qualora l’applicazione del braccialetto elettronico non sia tecnicamente possibile. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sentenza n. 8379 del 2025) che ha annullato l’ordinanza con la quale la Sezione del Riesame del Tribunale di Milano aveva disposto nei confronti un soggetto indagato per il reato di atti persecutori (articolo 612- bis c.p.) il divieto di avvicinamento alla persona offesa (articolo 282-ter c.p.p.) e l’applicazione del braccialetto elettronico (articolo 275 c.p.p.). Dinanzi al Supremo Collegio l’indagato aveva denunciato l’illegittimità dell’ordinanza nella parte cui stabiliva che nel caso di “non fattibilità tecnica” del ricorso al braccialetto elettronico sarebbe stata disposta “l’applicazione della misura, più grave, del divieto di dimora”. Decisione che, ad avviso del ricorrente, sarebbe stata in contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 2024 secondo cui nell’ipotesi di mancato funzionamento del braccialetto elettronico “il giudice non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di adeguatezza e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (in primis, il divieto od obbligo di dimora ex art. 283 c.p.p.), ma anche una misura più lieve (segnatamente, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ex art. 282 c.p.p.)”. Tesi ha colto nel segno. La Corte di Cassazione ha evocato la sentenza n. 20769 del 2016 delle Sezioni Unite Penali (richiamata dalla stessa Corte Costituzionale) secondo cui l’impraticabilità del divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico impone al giudice di rivalutare l’idoneità, la necessità e la proporzionalità di ciascuna misura cautelare in relazione al caso concreto senza alcun automatismo, né a favore dell’indagato (arresti domiciliari), né a suo sfavore (custodia in carcere). Da qui il dictum della pronuncia in narrativa:”[Il] Tribunale del riesame [...] ha operato un automatismo “indistinto”, contemplando l’aggravamento della misura disposta del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa con quella, più grave, del divieto di dimora, anche per il caso in cui l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica del braccialetto elettronico, caso che, in conformità alle indicazioni rivenienti dalla sentenza n. 173 del 2024, impone, invece, una rinnovata valutazione delle esigenze cautelari”. Valutazione che- occorre aggiungere - deve tener conto del neo introdotto articolo 7 del decreto legge n. 178 del 2024 (convertito dalla legge n. 5 del 2025) che: - modifica l’articolo 275-bis c.p.p. precisando che, nel caso in cui il giudice abbia prescritto l’applicazione del braccialetto elettronico, congiuntamente agli arresti domiciliari, l’accertamento della fattibilità tecnica del ricorso a tale strumento debba riguardare anche la “fattibilità operativa; - interviene sull’articolo 276 c.p.p. prevedendo che l’applicazione della custodia cautelare in carcere in sostituzione degli arresti domiciliari ovvero delle misure di cui agli articoli 282-bis c.p.p. o 283- ter c.c.p. sia disposta anche nel caso di “una o più condotte gravi o reiterate” che impediscano o che ostacolino il funzionamento del braccialetto elettronico; - introduce nelle norme di attuazione e di coordinamento transitorie al codice di procedura penale il nuovo articolo 97-ter, che disciplina i tempi e le modalità dell’accertamento preliminare, da parte della polizia giudiziaria, della fattibilità tecnica e operativa dei braccialetti elettronici. Cagliari. Caligaris: “Detenuti in regime di 41 bis a Uta entro novembre” rainews.it, 16 aprile 2025 La presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme: “Il cantiere accelera, oltre il 25% di tutti i reclusi più pericolosi potrebbero essere ospitati in Sardegna nonostante le gravi carenze di personale”. “Improvvisa e, per certi versi inattesa, accelerazione nel completamento dei lavori del padiglione che ospiterà, all’interno del villaggio penitenziario di Cagliari-Uta, i detenuti destinati al regime del 41 bis. Dopo un lungo periodo di stasi, infatti, i lavori sono ripresi a ritmo serrato facendo ritenere che entro l’anno, probabilmente nel mese di novembre, arriveranno in Sardegna, a scaglioni, altri 92 detenuti destinati al regime della massima sicurezza”. Lo sostiene, in una nota, Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” osservando che “ancora una volta la Sardegna aumenterà in modo esponenziale la presenza di persone private della libertà con un alto indice di pericolosità, nel silenzio generale delle istituzioni locali”. “I detenuti del regime del 41 bis, già presenti a Sassari-Bancali, raggiungeranno il ragguardevole numero di 180, oltre il 25% di tutti i reclusi più pericolosi mentre l’isola deve ancora scontare gravi carenze di personale a tutti i livelli”, aggiunge. La visita a sorpresa a Uta di Antonio Bianco, responsabile della direzione generale per la gestione dei beni, dei servizi e degli interventi in materia di edilizia penitenziaria, potrebbe essere una conferma di questa previsione. Con lui nel sopralluogo per verificare lo stato dei lavori, anche Ernesto Napolillo della direzione generale detenuti e trattamento. Entrambi sono ex magistrati. Alla struttura di Uta mancano ancora gli uffici matricola, l’infermeria e gli spazi idonei agli agenti del gruppo operativo mobile, il reparto specializzato della polizia penitenziaria. Venezia. Il nuovo “ponte” attraversato da sogni, desideri, speranze. Nasce la rivista del carcere di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 16 aprile 2025 C’è un nuovo ponte a Venezia, attraversato da speranze, sogni e desideri di riscatto. È la nuova rivista che collega il mondo del carcere alla società con lo scopo di instaurare un dialogo sempre più costruttivo tra il dentro e il fuori. Ieri a Santa Maria Maggiore il direttore della casa circondariale Enrico Farina ha presentato “I Ponti”, periodico realizzato in collaborazione con l’associazione Il Granello di Senape, coordinato dal giornalista Massimiliano Cortivo e scritto dai detenuti. Si può scaricare dal sito del Granello o ricevere cartaceo come allegato alla storica rivista del carcere di Padova “Ristretti Orizzonti”. All’interno ci sono riflessioni sulla società, come quella sulle baby gang viste da chi ha vissuto un’adolescenza turbolenta, ma anche dibattiti come quello sulla difficoltà a trovare una casa dopo il carcere, tema che apre il giornale. Tra le pagine spiccano anche testimonianze sulle esperienze lavorative oltre le sbarre e un elenco di possibilità professionali aperte sia per i detenuti veneziani che per quelli di altre regioni. “Il nome è simbolico, ma è quello che stiamo creando per esempio nell’ambito lavorativo tenendo presente le condizioni giuridiche della persona, il percorso che sta facendo e le opportunità che abbiamo — ha spiegato Farina — In un anno si sono quintuplicati i detenuti che hanno un lavoro fuori e questo dimostra prima di tutto a loro che se si intraprende un percorso c’è una seconda possibilità”. Non a caso insieme alla redazione c’erano Giovanna Pastega in rappresentanza di Second Chance e Ilaria Agosta e Chiara Bellon per Aidp (associazione italiana direzione personale). Seconda Chance ha già avviato una collaborazione con il carcere (per esempio mettendo in contatto i detenuti con Lares), Aidp è prossima per iniziare. L’idea è quella di mettere sempre più in contatto aziende e carcere. Attualmente a Santa Maria Maggiore ci sono 270 detenuti, 110 più di quanto ne potrebbe ospitare. Da quando è arrivato Farina però si sono quintuplicati i numeri dei detenuti in permesso lavoro che da 5 sono passati a 25, più altri 10 che stanno lavorando alla Giudecca. Per il direttore, già educatore, questo è il modo di concretizzare l’articolo 27 della Costituzione (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) unendolo alla possibilità della Legge Smuraglia. Questo complesso mondo è raccontato e tenuto insieme dalla rivista che punta a gettare appunto ponti. Cortivo ha raccontato come è nata l’esperienza con “i fioi” che hanno trasformato una stanza prima in disuso in una vera piccola redazione dove si trovano ogni sabato mattina. Come ha raccontato Maria Voltolina, presidente del Granello di Senape, la rivista nasce dalla richiesta di un gruppo di detenuti e ha lo scopo di raccontare storie di speranze, errori e voglia di riscatto. Napoli. Dal carcere al bistrot: le donne e la libertà al sapore di caffè di Giorgio Paolucci Avvenire, 16 aprile 2025 A Napoli, una cooperativa tutta al femminile, offre lavoro e dignità a donne in esecuzione penale: tra torrefazione, bistrot e cioccolateria, il caffè diventa occasione di riscatto. “Il profumo del caffè appena tostato arrivava fin dentro le nostre stanze. Mi sono chiesta: da dove viene questo profumo? È inseguendo quell’aroma che ho conosciuto le Lazzarelle, e questo è il mio quarto anno di lavoro”. Incontro Anna alla Galleria Principe di Napoli, uno dei luoghi simbolo della città - oggi un po’ decaduto - per molto tempo porta d’ingresso al centro storico e ancora oggi luogo di passaggio per i turisti che vanno a visitare il Museo archeologico. Beviamo un caffè seduti a un tavolino del bistrot della cooperativa Lazzarelle, che dà lavoro ad alcune donne detenute nella Casa di reclusione di Secondigliano. “Quando sono entrata in carcere, dieci anni fa, mai avrei immaginato di avere una possibilità come questa perché la mia vita potesse ripartire - racconta Anna -. Ero proprio depressa, ora mi sento protagonista, ho ritrovato la speranza e sono diventata “contagiosa” verso le altre donne. Mi dicono che sono strana perché vedo sempre il lato positivo delle cose. Non sono strana, sono convinta che Dio ci regala sempre una possibilità anche quando tutto intorno sembra andare male. E allora cambia il modo con cui guardi la vita. È proprio quello che è accaduto a me”. Prima di lavorare al bistrot si occupava della torrefazione del caffè nel carcere femminile di Pozzuoli, chiuso dal maggio dell’anno scorso a causa dei ripetuti episodi di bradisismo che da tempo tormentano la zona e hanno causato il trasferimento delle detenute a Secondigliano. “Il caffè è come il Vesuvio: è l’anima di Napoli, un rito, un’istituzione. Ma per me ha un valore speciale, è stato il trampolino per spiccare il salto verso nuovi orizzonti. Ho ripreso pure a studiare, manca poco alla laurea in Economia e Commercio, quando arrivo a fine pena potrò giocare le mie carte sul mercato del lavoro e stare alla larga dalla tentazione di ricadere nei brutti giri che mi hanno portato alla detenzione”. Da un anno Anna ha ottenuto la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere: è in affidamento, di giorno lavora al bistrot e la sera dorme a casa dei genitori. “I chicchi del nostro caffè parlano di riscatto, di vite cambiate, come la mia. Il carcere me lo sono meritato, non lo nego, ma proprio quel luogo di sofferenza è diventato l’occasione per una svolta, grazie all’incontro con persone che mi hanno accompagnato a prendere atto dei miei errori e a riscattarmi: educatrici, psicoterapeuti e Imma che mi ha assunto alle Lazarelle, di cui sono pure diventata socia”. Anche per Katia l’incontro con le Lazzarelle - un nome partenopeo-doc scelto per la cooperativa sociale tutta al femminile fondata da Imma Carpiniello - è diventata una tappa importante lungo un percorso di cambiamento dopo un’esistenza complicata. Cresciuta in un contesto malavitoso, la madre e i due fratelli in galera, due figli da mantenere, finisce anche lei in carcere dodici anni dopo avere commesso un reato che la Cassazione aveva riconosciuto come associativo. Ma intanto nel carcere di Pozzuoli aveva cominciato a percorrere un’altra strada. “Mi sono iscritta alle scuole superiori, ho scoperto il pacere della lettura - io che non avevo mai preso in mano un libro -, mi sono buttata a capofitto nel laboratorio di teatro e mi dicono che sono pure brava. Chissà, quando esco magari posso provare con la recitazione… Alle Lazzarelle lavoravo il caffè e ho fatto anche il corso di cioccolateria, è stato bellissimo imparare a produrre le uova di Pasqua. Tu non puoi immaginare l’emozione provata quando ho ricevuto lo stipendio: era la prima busta paga della mia vita. Prima lavoravo solo in nero e mi pagavano una miseria. Purtroppo a maggio a causa del terremoto hanno chiuso il carcere di Pozzuoli e la torrefazione si è fermata. Ma spero tanto che possano presto riaprirla a Secondigliano, dove mi hanno portato”. Ci spera tanto anche Immacolata Carpiniello, per tutti Imma, donna esuberante e vulcanica quanto il Vesuvio, fondatrice e amministratrice della cooperativa sociale Lazzarelle che nel 2010 ha iniziato la produzione di caffè artigianale secondo l’antica tradizione napoletana all’interno del carcere femminile di Pozzuoli. Dopo la chiusura causata dal bradisismo dei Campi Flegrei, la cooperativa si appoggia presso una torrefazione locale in attesa che venga aperto il laboratorio nel carcere di Secondigliano dove è stata allestita una sezione femminile. “All’origine della nostra avventura ci sono tre idee: ribaltare il luogo comune che la produzione del caffè sia qualcosa di riservato agli uomini - i torrefattori - tanto è vero che la versione femminile (torrefattrice) si riferisce solo alla macchina che tosta il caffè e non alle donne che ci lavorano. Inoltre puntiamo sulla lavorazione artigianale secondo l’antica tradizione napoletana e produciamo miscele che provengono dalla filiera del commercio equo e solidale: così abbiamo creato un’alleanza tra le donne detenute e i piccoli produttori di caffè del Sud del mondo. Con queste premesse desideriamo creare opportunità lavorative per le nostre donne e retribuirle con i proventi della cooperativa. In 15 anni abbiamo assunto 80 donne e l’80 per cento dopo la scarcerazione ha trovato un’occupazione regolare. Le loro storie raccontano quanto pesano sull’ingresso in carcere i contesti degradati da cui provengono, la povertà educativa, il fatto di essere diventate mamme giovanissime. Creando occasioni di lavoro si seminano buone pratiche per l’inclusione sociale, si aiutano le persone a riconquistare autonomia e dignità e si rigenera la speranza”. Negli anni il fiuto imprenditoriale e la tenacia di Imma hanno trovato nuove opportunità per sviluppare la cooperativa. Al bistrot della Galleria Principe lavorano tre donne in esecuzione penale esterna, quattro svolgono attività di catering per l’Università Federico II e per l’Orientale, altre due gestiscono la buvette del Grenoble, il palazzo dove ha sede il Consolato francese, cinque sono addette alle pulizie in alcuni B&b del centro storico. La cooperativa produce anche tè, tisane, bomboniere, tazzine, ceramiche artigianali e altri manufatti acquistabili online. “Ma il cuore dell’attività resta il caffè, simbolo per eccellenza della nostra napoletanità e del legame con il territorio. Un giorno, mentre lo stava macinando, una donna ha detto “questo caffè profuma di libertà”. È proprio così: nella torrefazione le donne si sentono valorizzate, cresce la loro autostima, si ritagliano un ruolo autonomo in un’istituzione totalizzante come il carcere, mettono le basi per un ritorno da protagoniste nella società. Attualmente alcune di loro lavorano a imbustare il caffè prodotto da una torrefazione con le materie prime provenienti dal Sud del mondo, in attesa che a Secondigliano - grazie all’ottima collaborazione con la direzione - sia possibile riaprire la torrefazione nella sezione femminile”. Nel 2023 il presidente Mattarella ha insignito Imma Carpiniello del titolo di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana “per il suo impegno nella valorizzazione del lavoro delle detenute all’interno del carcere offrendo loro una opportunità di riscatto per una vita diversa dopo la detenzione”. In questi giorni nella cioccolateria allestita nel bistrot della Galleria Principe si lavora alacremente per produrre le uova di Pasqua delle Lazzarelle: un segno di rinascita da offrire alla città, insieme a una buona tazzulella ‘e cafè”. Napoli. Lo sport in carcere come opportunità di reinserimento lavorativo e sociale di Luigi Carbone rainews.it, 16 aprile 2025 Nel penitenziario di Secondigliano dopo il polo universitario e quello dei mestieri è nato il centro sportivo con campi da basket, padel e calcio. “Il carcere è una città, abbiamo detenuti nati tra il 1938 e il 2005 e quindi bisogni molto diversi - osserva Giulia Russo, direttore della casa circondariale di Secondigliano - noi lavoriamo per riempire di contenuti il periodo della detenzione”. E allora il reinserimento lavorativo dei detenuti è legato a un numero crescente di attività. Studio, mestieri e ora anche sport. È il nuovo progetto della casa circondariale di Secondigliano dove sta nascendo un vero polo sportivo: palestre nei singoli padiglioni, un campo da basket, realizzato grazie alla Federazione italiana pallacanestro inaugurato l’anno scorso, due da padel, appena completati, e rinnovato campo da calcio dove fervono i lavori: avrà un morbido manto in erba sintetica. Realizzati grazie al finanziamento della Fondazione Entain, verranno inaugurati a fine maggio. Il progetto “Rigiocare il Futuro, lo sport per ripartire”, ideato dalle associazioni Seconda Chance e Sport Senza Frontiere è importante per il benessere fisico dei detenuti, in un carcere sovraffollato con 1500 reclusi, quattrocento in più della capienza prevista, e rappresenta una nuova strada per il reinserimento sociale grazie alla formazione alle professioni legate alle diverse discipline. “C’è un partenariato molto ampio tra pubblico, privato e terzo settore - spiega Giuliano Guinci, responsabile delle Relazioni istituzionali della Fondazione Entain - che in questo caso ha funzionato. Ci vuole solo convinzione e un po’ di determinazione”. Sport e attività per immaginare e costruire un futuro sono fondamentali anche per alleggerire una quotidianità spesso pesante. Nelle ultime settimane nel carcere di Secondigliano sono stati sequestrati 25 cellulari e droga in possesso dei reclusi. Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito e ferito, un detenuto, collaboratore di giustizia, si è suicidato. “Studiamo costantemente il fenomeno del suicidio in carcere - evidenzia Giulia Russo - problematiche personali, percorsi giudiziari molto complessi, famiglie non rispondenti a criteri di supporto, questo diventa un melange pericoloso. Noi come gruppo di lavoro tendiamo a supportare queste mancanze e a intercettare il fenomeno. E’ chiaro che quando la persona decide, puoi mettere in campo qualsiasi cosa, riuscirà sempre a trovare la modalità per farla finita, purtroppo”. La vita in carcere è complessa ma anche ricca di opportunità. Quello sportivo è il terzo polo del penitenziario, dopo quello universitario in collaborazione con la Federico II e quello delle arti e dei mestieri con la sartoria, le officine del ferro e del legno, i corsi di meccatronica e quelli legati alle lavorazioni digitali. E i risultati non mancano: alcuni ex detenuti di questo carcere lavorano oggi nella grande distribuzione o come tecnici nel campo del fotovoltaico. “Seconda chance” si spende molto per il reclutamento. “Venite a vedere”, l’appello di Flavia Filippi, fondatrice dell’associazione Seconda Chance: “Ci sono detenuti che sono nella condizione giuridica per uscire e hanno delle ottime competenze e una forte voglia di riscatto. Venite a vedere se possono essere utili alle vostre attività. Pizzaioli, banchisti, manovali, muratori, elettricisti, camerieri, aiuto cuochi: venite a valutare”. Milano. I detenuti sul set tra università, carcere e Iliade: il film in collaborazione con Iulm di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 16 aprile 2025 Il film è prodotto da IulMovie Lab e scritto da Bruno Bigoni (docente e regista) e Francesca Lolli. Si tratta di una rivisitazione dell’Iliade con un cast di attori-detenuti del carcere di Bollate. “Ettore cerca di evitare la guerra. Ed ha il cuore buono e aiuta sempre il prossimo. Sono queste le cose che mi piacciono di lui, per questo ho scelto di interpretarlo”. Da detenuto a eroe dell’Iliade, sul grande schermo. Omar Fathi Azzab Ibrahim, 29 anni, “di cui 10 passati entrando e uscendo dal carcere, perché ho cominciato a fare degli sbagli quando avevo 14 anni”, oggi è in semilibertà e lavora come muratore, ma scrive canzoni pop e vanta già collaborazioni con Lazza. Hamza Guesmi, 30 anni, origini tunisine, è Patroclo. “Non ero mai entrato in un cinema nella mia vita: la prima volta è stata quando all’Arlecchino hanno proiettato il nostro film. È stata una grande emozione” racconta. È libero dal 21 febbraio scorso, vive in comunità e lavora come giardiniere. Poi c’è Guido Maleci, che dà il volto a Menelao, il marito di Elena che fuggirà con Paride. “Ho dovuto calarmi nella mentalità dell’epoca, più violenta” spiega. Compagni di cella nel carcere Bollate e ora colleghi nel cast di un film che sta girando festival e rassegne, in Italia e all’estero. Lunedì sera, nell’auditorium di Iulm, è stato proiettato il film “Il pianto degli eroi” prodotto da IULMovie Lab e scritto da Bruno Bigoni (docente Iulm e regista) e Francesca Lolli. Una rivisitazione dell’Iliade con un cast di attori-detenuti del carcere di Bollate (tra cui Nicola Sapone, che sta scontando due ergastoli per la vicenda delle Bestie di Satana) nelle parti maschili e attrici protagoniste in quelle femminili. Ciascuno recita nella propria lingua madre, con sottotitoli. I ruoli li hanno scelti i detenuti stessi. E le musiche sono state scritte da uno di loro, Neifi Santana Sanchez. In sala alcuni degli interpreti, che hanno dialogato con il pubblico e anche uno spettatore d’eccezione: Elio de Capitani. “Il carcere è una zona di confine, di incontro di vite e storie e del loro racconto. Iulm è l’ateneo della comunicazione, che va anche in questa direzione” ha sottolineato la rettrice Valentina Garavaglia, che ha insegnato teatro per 10 anni all’interno del penitenziario di Bollate. Fondamentale la collaborazionecon la cooperativa Articolo 3 che lavora nel reparto di trattamento avanzato di Bollate. “Organizziamo attività di tutti i generi, in un costante scambio col territorio esterno, che “entra” portando stimoli, cultura, arte che servono al percorso evolutivo che le persone liberamente scelgono di fare o meno” dice la responsabile Chiara Maffioletti. Al film hanno lavorato tre studenti del corso di laurea magistrale in Cinema di Iulm, occupandosi del backstage e della produzione. “Abbiamo girato da marzo a luglio, entrando tre giorni in carcere ogni settimana e alla fine tutti i giorni. Abbiamo scelto di mantenere tutte le lingue diverse, perché è più semplice recitare nella propria lingua e perché sotto le mura di Troiua combattenavnbo non solo Greci e Troiani, ma anche tante popolazioni loro amiche. Si parlavano una infinità di lingue - dice il registra Bruno Bigoni - Il risultato è stato fantastico. Ho visto una grande professionalità e serietà sul lavoro. In carcere è molto difficile mantener la concentrazione. L’Iliade parla di guerra e loro ne vivono una interiore ogni giorno. Al termine ci hanno detto “Grazie per averci trattato da esseri umani”. Rieti. Disegnare in libertà, l’arte come tregua dentro il carcere frontierarieti.com, 16 aprile 2025 Un progetto della Caritas Diocesana porta matite, colori e ascolto nella Casa Circondariale di Rieti. Tra volti, parole e paesaggi, un laboratorio diventa occasione di espressione e umanità. Nel carcere di Rieti è iniziata una storia lieve, fatta di colore, matite e ascolto. Si chiama Disegnare in libertà ed è un progetto promosso dalla Caritas Diocesana, accolto con favore dalla direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Chiara Pellegrini, e dalla comandante della Polizia Penitenziaria, dott.ssa Daniela Nobile. A renderlo possibile è anche il sostegno concreto di ITAS Mutua, il gruppo assicurativo trentino che reinveste parte degli utili in iniziative sociali, grazie all’impegno dell’agente reatino Mario Iarussi. Il progetto è stato affidato all’entusiasmo e alla generosità di tre artisti: Maria Rita Rossi (in arte Kikì), Silvia Ridolfi e Moreno Colasanti (in arte Sony), quest’ultimo con il ruolo di direttore artistico. Insieme portano avanti un laboratorio che, a poco a poco, si sta rivelando qualcosa di più di un semplice corso di disegno. Non è la prima volta che l’arte entra in carcere, ma qui lo fa con una cura particolare: niente didattica frontale, niente programmi rigidi. Ogni lezione si costruisce passo dopo passo, osservando le persone, accogliendone i tempi, rispettandone le inclinazioni. L’approccio è quello del “fare”, dell’imparare attraverso l’esperienza, valorizzando ciò che ciascuno ha da esprimere. I partecipanti sono cambiati nel corso delle settimane. Alcuni si sono persi per strada, altri si sono aggiunti. Ma ciò che resta è il clima: due ore leggere, vissute con rispetto, attenzione e una certa allegria. Il tempo sospeso del laboratorio si prolunga poi nelle celle, dove quasi tutti portano via un foglio per continuare a esercitarsi, o semplicemente per custodire quella sensazione di aver fatto qualcosa di bello. Alcuni disegni sono già stati inviati ai propri cari: piccoli segni che si fanno linguaggio e dono. Gli insegnanti raccontano di mani diverse, inclinazioni diverse: c’è chi ha già confidenza con il disegno, chi si appassiona alle tecniche calligrafiche e al lettering, chi si affida alle proposte degli insegnanti, chi invece dà forma al proprio mondo interiore. Si usano matite, chine, pennini, acrilici, marker. Si provano paesaggi, volti, animali, parole. Ogni gesto, ogni tratto, porta con sé una domanda profonda e insieme semplice: cosa vuol dire libertà, quando la libertà è sospesa? Per ora il progetto non prevede ancora graffiti o murales all’interno del carcere, ma si lavora su qualcosa di più essenziale: la costruzione di un gruppo, la creazione di una sintonia, la pazienza di attendere. Solo allora si potrà pensare a un’opera collettiva. Intanto, Disegnare in libertà è già qualcosa che resta. Una piccola oasi, carica di significato. Una pausa di bellezza e umanità dentro un tempo difficile. Un’esperienza che, nelle parole degli insegnanti, “si sta rivelando per noi molto carica di significato, direi emozionante, per la sintonia umana che si riesce a creare con le persone che partecipano al laboratorio, del cui passato non sappiamo nulla, e di fronte ai quali ci poniamo con la migliore possibile predisposizione, desiderando dare loro la possibilità di vivere questa esperienza come una piccola oasi di libertà”. “Non volevo medaglie, ma dare un nome ai morti”: la storia del pescatore che ha salvato 47 migranti di Youssef Taby Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2025 Vito Fiorino, il 3 ottobre 2013 è stato testimone e soccorritore di uno dei tragici naufragi di barche con migranti a bordo. A raccontare la sua storia Nicoletta Sala nel libro “Vito e gli altri” (Mimesis edizioni). “Questo libro parla di migrazioni. Al plurale. Perché anche io, Vito Fiorino, sono stato un migrante, figlio di migranti”. Comincia così “Vito e gli altri”, il libro edito da Mimesis e scritto da Nicoletta Sala, che ripercorre la vita - e soprattutto una notte - di Vito Fiorino, protagonista di una delle pagine più drammatiche della storia recente del Mediterraneo: il naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa. Quel giorno, 368 persone morirono in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa. Vito Fiorino, con alcuni amici a bordo della sua imbarcazione Gamar, fu tra i primi a scorgere le sagome nell’acqua e ad avvicinarsi. Ne salvarono 47, uno per uno, portandoli a bordo. Alcuni erano senza vestiti, coperti di gasolio, sotto shock. La Guardia Costiera arrivò solo in seguito. Il resto, come spesso si dice, è storia. Ma una storia che oggi, dimenticata da molti, trova nuova voce nel racconto di Fiorino. Fiorino non è un operatore umanitario, né un attivista. È un falegname (o meglio, lo era) e un pescatore per passione. Nato a Bari, migrato a Milano, dove ha vissuto in una cantina, ha fatto mille lavori prima di trasferirsi a Lampedusa, aprire una gelateria e godersi la pensione. Ma la notte del 3 ottobre - e tutto ciò che ne è seguito - ha cambiato per sempre il suo sguardo sul mare e sul mondo. ?Il libro, narrato in prima persona, non è solo la cronaca di un salvataggio. È il ritratto di una vita qualunque, segnata dalla fatica, dalle scelte e dalle coincidenze. Fiorino ripercorre l’infanzia, l’emigrazione dei genitori dal Sud al Nord, gli anni in fabbrica, la voglia di mettersi in proprio, la scoperta del viaggio come forma di libertà. E poi l’arrivo a Lampedusa, da turista, per caso, che diventa una scelta di vita. È lì che decide di acquistare un vecchio peschereccio abbandonato e rimetterlo in sesto. Lo chiama Gamar, dalle iniziali dei suoi nipoti. Non sa ancora che quella barca, una notte, diventerà un’ancora di salvezza per decine di persone. La forza del libro sta nel raccontare una storia che molti, dopo quel giorno, avevano promesso di non far ripetere. E che invece sembra oggi dimenticata, inghiottita in un ciclo di naufragi che non ci toccano più. Fiorino, attraverso fatti, nomi, sguardi e mani che si aggrappano, ci costringe a riflettere. E pone una domanda che attraversa tutto il libro: “Cosa avrei fatto io?”. Non dà risposte. Ma offre la sua storia, vissuta, che interroga il presente. Perché “Vito e gli altri” non è solo un libro sul passato. È un libro che parla all’oggi, a un presente in cui le morti in mare sono diventate la normalità. In cui le promesse fatte dopo il 3 ottobre sono svanite. In cui le migrazioni sono trasformate in una minaccia. In cui il Mediterraneo continua a essere un cimitero a cielo aperto, e le storie dei migranti rischiano di perdersi tra numeri e sigle. In cui l’indifferenza, più ancora delle onde, può diventare fatale. Oggi Fiorino vive ancora a Lampedusa ed è un Giusto. Non va più in mare, non riesce più nemmeno a fare il bagno. Ma non ha mai smesso di raccontare, tramite incontri nelle scuole, viaggi in Europa e una fondazione creata insieme ai sopravvissuti. “Non volevo medaglie,” scrive. “Volevo dare un nome a chi è morto. Non si può morire come numeri”. Un libro da leggere oggi, per capire cosa si nasconde dietro un salvataggio in mare. E per scoprire cosa può nascere da un gesto semplice: Restare. Restare accanto a chi ha bisogno. Restare umani. Quell’insicurezza percepita su cui vive da anni la politica di destra e di sinistra di Davide Varì Il Dubbio, 16 aprile 2025 La sicurezza è una liturgia bipartisan, un rito delle maggioranze che viene celebrato da almeno vent’anni con devozione trasversale, da destra a sinistra, passando per il centro. E non ci sarebbe nulla di male se non fosse per un piccolo dettaglio: mentre si producono decreti “legge e ordine” come se piovesse, i furti calano e gli omicidi toccano i minimi storici della Repubblica. Ma evidentemente non importa. Perché la battaglia, da tempo, è contro l’insicurezza percepita. Un oggetto misterioso, che non si lascia afferrare dai dati ma si insinua nei sondaggi e nei talk show. E allora i reati scendono, ma ci si sente come nel Bronx reaganiano o in una favela sudamericana. E così si stringe, si comprime, si limano diritti e garanzie per proteggere i cittadini da un pericolo che esiste più nella fantasia che nelle strade. Un terrore indotto, coltivato dai signori della paura, sacerdoti del panico mediatico che parlano in prima serata senza uno straccio di statistica, ma con un pathos da operetta apocalittica. Negli Stati Uniti, culla dell’insicurezza emozionale, questo meccanismo è ben noto. Lì la società non teme ciò che è realmente pericoloso, ma ciò che è “memorabile”, visivo, narrabile. Il New York Times lo ha spiegato pochi giorni fa citando il lavoro di due sociologi - Kahneman e Tversky - che spiegano come la nostra mente sovrastimi ciò che ricorda meglio, ciò che ha visto di più, ciò che l’ha colpita emotivamente. E dunque, se dieci notizie di furti ci arrivano da dieci città diverse, il cervello le impacchetta tutte insieme, e le rispedisce indietro come se fossero successe dietro casa. E’ una “scorciatoia mentale” utile a semplificare la realtà, un “algoritmo emotivo”. E così, mentre a New York i reati calavano clamorosamente, i cittadini, bombardati da serie tv e notiziari, continuavano a pensare che fosse la città più pericolosa del mondo. Insomma, la paura è da tempo diventata una strategia politica, una leva elettorale che non tradisce mai e funziona sempre. In America, certo. Ma anche qui da noi. Cambiano i partiti, i ministri, le stagioni, ma la ricetta è sempre la stessa: più forze dell’ordine, meno immigrati, più carcere, meno garantismo. Da Prodi a Meloni, passando per Berlusconi, Renzi, Conte, Veltroni: tutti a recitare lo stesso copione. Lo spettro dell’insicurezza percepita vale più di qualsiasi riforma. Tanto per fare qualche esempio bipartisan: nel 1998, ci fu la Turco- Napolitano che sembrava una carezza riformista, ma istituì i CPT, i non-luoghi di detenzione, come direbbe Marc Augé, destinati a sospettati senza colpa. Poi fu la volta della Bossi- Fini (2002), che trasformò il permesso di soggiorno in un gettone da contratto. E poi il Pacchetto Sicurezza del 2008- 2009, con Maroni a dispensare reati nuovi come caramelle: clandestinità, ronde, multe simboliche e via così. Nel 2007, l’omicidio della povera signora Reggiani fece esplodere la pancia del Paese. Il governo Prodi - incalzato da Veltroni - rispose con un decreto-lampo: espulsioni rapide per cittadini comunitari. Decreto poi decaduto, ma la sceneggiatura della paura aveva già fatto il pieno di share. Idem dieci anni dopo con Minniti, decreti di sinistra e pugno duro: via l’appello per i richiedenti asilo, dentro i Daspo urbani. La sinistra securitaria, quando si impegna, riesce persino meglio della destra. Concetto che D’Alema teorizzò di fronte a una riluttante Rosa Russo Iervolino: “Uno scippo a Milano crea più allarme di tre delitti di mafia in Sicilia”. Poi toccò a Conte e Salvini, 2018 e 2019: i due Decreti Sicurezza che liquidarono la protezione umanitaria, e perseguirono le ONG manco fossero corsari libici. Lamorgese, nel 2020, limò qualche eccesso. Ma durò poco: nel 2023 arrivò il Decreto Cutro. E ultimo della serie, fresco di Gazzetta Ufficiale, il nuovo Decreto Sicurezza del governo Meloni. Una sinfonia dell’emergenza permanente, suonata su spartito noto: meno reati, ma più carcere. Insomma, l’Italia resta tra i Paesi più sicuri d’Europa, ma il sentimento nazionale è quello di un Occidente assediato. Perché la sicurezza non è un fatto: è una sensazione. Non si misura nei tribunali, ma nei talk. È la politica perfetta: non ha bisogno di verità, solo di percezione. E se la realtà si ostina a non collaborare, la si corregge a colpi di decreto. Non si cura, la paura, si governa. Con fermezza, e un occhio agli ascolti. Ludopatia, spesi 160 miliardi. E in 80 Caritas italiane il progetto “Vince chi smette” di Giulio Sensi Corriere della Sera, 16 aprile 2025 Via all’iniziativa per sensibilizzare le comunità e per fornire strumenti per essere più informati. “Il gioco d’azzardo produce grandi danni nelle vite delle persone”. “Non chiamiamolo gioco. Il gioco è un’altra cosa, è espressione di libertà e benessere. L’azzardo produce grandi danni nelle vite delle persone”. Le parole sono importanti, non ha dubbi Caterina Boca, referente della Caritas per il progetto “Vince chi smette”. È partito alcune settimane fa e 80 Caritas delle diocesi italiane lo hanno subito messo in pratica per prevenire contro i rischi che le ludopatie stanno provocando. Sono tornate di attualità in questi giorni con la notizia delle indagini in corso sulle scommesse dei calciatori professionisti. Si parla solo di loro, ma non sono gli unici ad essere stati colpiti dall’azzardo. I dati parlano chiaro: secondo le statistiche di giocoresponsabile.info nel 2024 sono stati spesi dai cittadini 160 miliardi di euro. La sanità italiana costa 140 miliardi di euro, l’educazione 67 miliardi. Da più di dieci anni, dal 2013, l’azzardo è riconosciuto come patologia perché provoca una condizione patologica di dipendenza, con l’incapacità cronica di resistere all’impulso del gioco e conseguenze anche gravemente negative sulla persona, la sua famiglia e le sue attività professionali. In Italia giocano il 60% degli adulti, il 37% della “generazione z” e il 26% degli anziani. “Per questo abbiamo chiamato il progetto “vince chi smette” perché è proprio così - aggiunge Caterina Boca -. Siamo partiti a sensibilizzare le comunità e a fornire strumenti per essere più consapevoli dei danni che l’azzardo produce nelle loro vite, ma anche in quelle di chi li circonda. L’obiettivo è la prevenzione e gli strumenti sono molti: un questionario per capire quanto le persone ne sanno, delle video-testimonianze preziose, la app “vince chi smette”, il sito e altre attività interattive. Perché le persone devono imparare a riconoscere le insidie che ci sono”. La Caritas li chiama percorsi di animazione comunitaria anche per fare in modo che l’azzardo non diventi un mezzo per inseguire il consumismo che le piattaforme social mostrano e verso cui tentano chi le popola. “Perché siamo tutti persuasi - aggiunge Boca - a spingerci per vivere vite diverse da quelle che abbiamo e a inseguire i grandi personaggi sui social che sembrano più attraenti. Accade fra i ragazzi, ma anche fra gli adulti. E gli anziani per colmare la solitudine che spesso li colpisce. Se tornano ad essere attori della comunità scongiurano questi rischi”. “Vince chi smette” va avanti e l’obiettivo della Caritas è quello di coinvolgere sempre più territori per intraprendere percorsi concreti e impedire che la dipendenza diventi patologica e provochi danni inestimabili. E farlo proprio nell’anno del Giubileo ha un valore ancora più grande. “Parliamo di prevenzione - conclude Boca - perché è il nostro ruolo. Altre organizzazioni ed enti, come i Serd, hanno esperienze e professionalità di carattere sanitario, ma è importante anche lavorare sulla sensibilizzazione per aiutare le persone a liberarsi dalla catena dell’azzardo”. Cannabis e nuovo codice della strada, la storia di Elena Tuniz di Riccardo Bessone Il Domani, 16 aprile 2025 Positività dubbia e nessuna alterazione, ma patente sospesa. Diverse testimonianze emerse in questi primi mesi di applicazione del testo mostrano varie problematicità portate dal decreto di modifica del ministro Salvini, soprattutto in merito alla guida e l’utilizzo di sostanze stupefacenti. Le associazioni sollevano la questione di costituzionalità. “Ho spiegato che non avevo assunto niente, che in ospedale mi avevano fatto vedere che il valore di Thc era bassissimo. E loro in effetti mi hanno detto che il valore era molto basso, è vero, ma toccava la soglia che avevano come indicazione dal nuovo codice della strada che era appena entrato in vigore”. Elena Tuniz è un’insegnante di scuola superiore friulana di 32 anni. Il 7 gennaio ha avuto un incidente per un malore mentre tornava a casa in automobile dopo una giornata di lavoro in una scuola di Pordenone, a più di 70 chilometri da casa sua, dove era stata trasferita da poco tempo dopo il concorso pubblico. Portata in ospedale, la polizia - che si era recata sul luogo dell’incidente per alcune verifiche della dinamica - ha chiesto un esame tossicologico. “Ricordo che ovviamente ero tranquilla e ho subito detto di sì e che non c’era nessun problema”, spiega Tuniz. I risultati hanno restituito un valore molto basso di Thc, che i medici hanno riferito come una dubbia positività, potenzialmente dovuta anche a un’assunzione passiva. Tuttavia, dopo essere stata dimessa, Tuniz ha avuto un attacco epilettico la notte successiva, che ha quindi spiegato anche il malore in auto e l’incidente. Ricevuta la diagnosi e la cura per l’epilessia - e, per il momento, l’indicazione di non mettersi in ogni caso alla guida -, la donna è stata però convocata dalla Polizia locale che le ha ritirato e sospeso per un anno la patente perché i valori superavano comunque la soglia indicata dal nuovo codice. Ora però, tornata a scuola, non può spostarsi in autonomia per sicurezza e il marito ha quindi lasciato il lavoro per accompagnarla. “Elena rischia anche un processo penale, fino a due anni di carcere e 12mila euro di multa”, ha spiegato l’associazione Meglio Legale che, vista la situazione evidentemente eccezionale - ma anche rappresentativa delle storture del nuovo codice -, ha scelto di offrire supporto legale all’insegnante e ha sollevato la questione di costituzionalità della norma davanti al giudice di pace che segue il ricorso presentato in sede amministrativa. “Con il giudice civile non siamo sicuri che si riesca ad andare avanti, ma intanto ci proviamo. Comunque andremo anche a sollevarla durante il processo penale”, commenta Antonella Soldo, coordinatrice dell’associazione. Se un giudice dovesse accogliere l’istanza, sarà la Corte costituzionale a prendere in esame il decreto di modifica del codice voluto dal ministro Matteo Salvini che presenta, secondo diversi giuristi e associazioni, molte problematiche. Come dimostra la storia di Elena Tuniz, per esempio, la sospensione della patente può colpire anche persone che hanno visto compromessa la propria capacità di guidare, ma non dalla presenza di Thc nel loro organismo, o che presentano una positività dubbia al principio attivo. E poi ci sono anche altri casi in cui la legittimità della norma non è così evidente. Positività senza alterazione - Infatti, il nuovo codice permette di sospendere la patente verificando soltanto l’assunzione della sostanza stupefacente tramite la positività al test, senza la necessità di dimostrare lo stato di alterazione mentre si è alla guida. È il caso del segretario nazionale dei Radicali italiani, Filippo Blengino, che ha recentemente saputo di essere stato iscritto al registro degli indagati in seguito all’autodenuncia, nel mese di dicembre, per essersi messo alla guida due giorni dopo l’assunzione di cannabinoidi “perfettamente lucido” spiega lo stesso Blengino in un comunicato in cui racconta le motivazioni della sua azione: “L’obiettivo della mia disobbedienza civile è arrivare a processo, affinché il giudice possa sollevare - anche in questo caso - la questione di legittimità costituzionale. Un obiettivo ambizioso, ma concreto e auspicabile, alla luce della palese incostituzionalità di una norma che punisce allo stesso modo un soggetto lucido e uno alterato e pericoloso”. La storia di Matteo Lo Grasso - Contestualmente al percorso del segretario, anche i Radicali hanno, inoltre, cominciato a raccogliere testimonianze di storie simili e a offrire una prima consulenza legale alle persone interessate. Persone come Matteo Lo Grasso, un ragazzo di 25 anni di San Venanzo, in provincia di Terni. A inizio marzo, tornando da una partita di calcio, è stato fermato dai carabinieri che l’hanno sottoposto soltanto al test salivare e non, per esempio, all’alcool test, perché sostenevano ci fosse odore di cannabis nell’auto. Dopo che il test è risultato positivo con una linea leggera, nonostante il consumo fosse avvenuto due giorni prima e nonostante non fosse in quel momento sotto l’effetto di cannabinoidi e quindi non lucido, il ragazzo ha subito la sospensione e il ritiro immediato della patente: “Ho detto: “Non fumo nemmeno le sigarette, non ho niente con me, da dove viene questo odore?” Tant’è che anche i miei amici gli hanno detto: “Ma guardi che qui nessuno ha fumato”. Però per loro - i carabinieri - noi avevamo fumato al momento”. Ora anche lui ha dovuto trovare una soluzione alternativa per spostarsi da dove vive al luogo di lavoro con i mezzi pubblici. Evidentemente queste storie hanno aspetti, implicazioni e livelli di problematicità differenti. Tuttavia, tutte fanno emergere in modo chiaro alcuni dubbi sulle modifiche che sono state introdotte al codice della strada in merito alla relazione tra guida e sostanze stupefacenti, che non portano più a un intervento soltanto nel caso in cui compromettano la capacità di mettersi al volante, ma già per essere state assunte. L’Onu e la “war on drugs”. Morti e tortura di Sergio Segio Il Manifesto, 16 aprile 2025 Nel 2024 si è tenuto il 40° anniversario della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Non ne sono accorti e ricordati in molti giacché si tratta di una realtà tanto presente ai quattro angoli del mondo quanto rimossa e nascosta. Nell’occasione, Suzanne Jabbour, presidentessa della Sottocommissione per la Prevenzione della Tortura delle Nazioni Unite, ne ha denunciato pubblicamente la drammatica diffusione e le caratteristiche, ricordando che “in quel preciso istante, qualcuno veniva torturato, qualcuno taceva, qualcuno permetteva che la tortura venisse praticata e qualcuno non veniva ritenuto responsabile per aver commesso l’abominevole, disumano e inutile crimine della tortura”. Dunque, sono il silenzio, la complicità e l’impunità a rendere persistente e dilagante un fenomeno che in questo secolo, dopo l’11 settembre 2001, con la comoda coperta dell’antiterrorismo, ha visto un salto di qualità, arrivando a essere giustificato, quando non apertamente rivendicato, da governi occidentali e pertanto maggiormente accettato dalle opinioni pubbliche. À la guerre comme à la guerre, insomma. Una bestemmia non dissimile da quella che sentiamo ripetere a reti unificate in questi mesi in Europa, secondo cui la pace si ottiene armandosi e preparando la guerra. Dopo lo sterminio in corso a Gaza, del resto, silenzio e impunità riguardo la tortura e i crimini contro l’umanità hanno raggiunto livelli e complicità impensabili solo poco tempo fa. A fronte, per quanto sempre più delegittimate e ostacolate dai governi occidentali attivamente schierati a difesa di Netanyahu, resistono le attività di Ong, organismi internazionali e agenzie delle Nazioni Unite a tutela dei diritti umani. È recente (6 marzo) la pubblicazione della Diciottesima relazione annuale della Sottocommissione presieduta da Suzanne Jabbour, che nel 2024 ha effettuato ben 89 visite in Stati parte. Qui, in particolare, vogliamo sottolineare la sezione del rapporto relativa all’impatto negativo delle politiche in materia di droga sulla prevenzione della tortura e dei maltrattamenti e sulla piena attuazione dei diritti umani. Non per caso e troppo a lungo le scelte al riguardo di diversi Stati (dell’Italia tuttora) sono state incentrate su leggi e misure di “tolleranza zero” e “guerra alla droga”. Come ogni altra guerra, anche questa ha prodotto e produce non solo repressione, violazioni e persecuzioni, ma, appunto, tortura e morte. È perciò del tutto appropriata e significativa la raccomandazione della Sottocommissione Onu, secondo cui “le strategie efficaci in materia di droga devono includere la prevenzione, inclusa la riduzione del danno”, e politiche per “ridurre al minimo il ricorso alla privazione della libertà come parte della risposta al consumo di droga”. L’inedita presa di posizione della Sottocommissione ci dice autorevolmente che la guerra dichiarata, in realtà, non è contro le droghe ma contro chi le detiene o anche solo le consuma; che il carcere, non di rado, può costituire una forma di tortura, tanto più nel caso di reati senza vittime; che la feroce pretesa delle legislazioni proibizioniste è quella di punirne mille per educarne uno. Laddove, secondo i dati di Harm Reduction International, in ben 34 paesi la punizione può arrivare alla pena capitale, condanna che è stata eseguita in almeno 625 casi e comminata in almeno 377 nel 2024, l’anno più mortale nell’ultimo decennio, con le esecuzioni accertate aumentate del 32% rispetto al 2023. La war on drugs è da tempo fallita, lasciando dietro di sé una scia interminabile di sangue, dolore e ingiustizie. Ma, proprio come per altre guerre, ancora troppi Stati e governi insistono dolosamente nella propaganda e a perseguitarne le vittime civili. Sceglieranno di ignorare le richieste di cambiamento venute dalle Nazioni Unite? Assalti, spari e rivolte nelle prigioni francesi: “Attacco coordinato” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 16 aprile 2025 Mentre l’Assemblea nazionale e in via di approvazione una legge che istituisce un procuratore speciale per i reati legati alla droga con nuovi e più ampi poteri per gli investigatori, ben sette carceri francesi sono state prese di mira, la notte tra lunedì e martedì, da attacchi che secondo gli inquirenti sembrano rispondere ad una “precisa e coordinata strategia”. Presso la struttura di Tolone l’episodio più grave con colpi di kalashnikov esplosi contro le mura di cinta. Ma fatti di altrettanta gravità, come l’incendio di veicoli e lanci di molotov, si sono verificati anche a Aix- En- Provence, Marsiglia, Valence e Nîmes nel sud della Francia, e a Villepinte e Nanterre, vicino a Parigi. Su ciò che è successo nella regione del sud, Provenza- Alpi- Costa Azzurra, il presidente Renaud Muselier, ha reso noto che “due automobili sono state dati alle fiamme” a pochi metri dal carcere di Aix- Luynes, il cui cancello è stato quasi divelto. Ha poi aggiunto che un altro veicolo è stato dato alle fiamme davanti al penitenziario di Marsiglia. Inoltre “dieci veicoli carcerari sono stati contrassegnati con la scritta “DDPF” (acronimo che significa “diritti dei prigionieri francesi”)”. Stesse scene lunedì sera nel parcheggio del carcere di Villepinte (Seine-Saint-Denis) una delle periferie più povere e conflittuali della capitale. Sul posto è stata trovata una lattina di benzina da cinque litri. Le immagini delle telecamere hanno mostrato che due persone sono penetrate nel complesso terra. Secondo una fonte della polizia, anche gli edifici di Nanterre (Hauts- de- Seine) e Valence (Drôme) sono stati colpiti da incendi e sono comparse scritte sempre inerenti ai diritti dei prigionieri. Ma a quanto riferisce il ministero della Giustizia, già nei giorni precedenti diverse carceri erano state oggetto di attacchi incendiari come nel caso della Scuola Nazionale di Amministrazione Penitenziaria, ad Agen, e Réau (Seine-et-Marne). Senza attribuire direttamente una colpa specifica degli attentati, il ministro della Giustizia Darmanin ha detto che il governo francese sta “affrontando il problema del traffico di droga” e sta adottando misure che “distruggeranno profondamente” le reti criminali. Il ministro dell’Interno Bruno Retailleau invece ha tuonato che la risposta del governo deve essere implacabile: “Coloro che attaccano le prigioni e gli agenti meritano di essere rinchiusi in quelle stesse carceri e monitorati da quegli agenti”. Ha poi aggiunto di aver incaricato la polizia di rafforzare immediatamente la sicurezza nelle strutture carcerarie. I sindacati degli agenti penitenziari sembrano essere i più arrabbiati. FO Justice, infatti, ha espresso la sua “più profonda preoccupazione e rabbia” in seguito agli attacchi estremamente gravi della notte e ha chiesto un’azione urgente del governo per proteggere il personale carcerario. “Stiamo aspettando un’azione coordinata da parte dei ministri della Giustizia e dell’Interno”, ha detto Wilfried Fonck, segretario nazionale dell’UFAP-UNSA-Giustizia, sottolineando che l’amministrazione carceraria non aveva “le risorse umane per garantire la sicurezza intorno agli stabilimenti ventiquattro ore al giorno”. Finora nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità degli attacchi, ma alcuni organi di stampa hanno riferito che la sigla DDPF pottrebbe essere ricondotta anche ad alcune organizzazioni di matrice anarchica. In ogni caso le indagini sono state avviate dagli uffici dei procuratori locali. La Procura nazionale antiterrorismo ha poi annunciato di aver assunto la direzione delle operazioni, affidate alla sottodirezione antiterrorismo della polizia giudiziaria, alle direzioni zonali della polizia nazionale interessata e alla Direzione generale della sicurezza interna (DGSI). La pista più gettonata dagli inquirenti comunque continua ad essere quella di un piano coordinato della criminalità organizzata. Ci si sta anche interrogando su un possibile legame tra questi attacchi e l’istituzione di carceri di massima sicurezza dedicate ai detenuti più pericolosi appartenenti alla criminalità organizzata. I penitenziari di Vendin-le-Vieil (Pas-de-Calais) e Condé-sur-Sarthe (Orne) infatti si preparano ad accogliere, nel giro di pochi mesi, i duecento narcotrafficanti ritenuti i più pericolosi del paese.