Detenute madri, rivolte passive: ecco la stretta sul carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2025 Con la firma del presidente Sergio Mattarella e la conseguente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale venerdì scorso, entra in vigore il decreto- legge “Sicurezza”, che introduce modifiche rilevanti anche nel sistema penale, in particolare per le donne incinte e le madri con figli piccoli. Tra le novità più discusse, la fine del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per queste categorie e l’obbligo di detenzione negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Madri). Un cambiamento che solleva numerosi interrogativi. Il carcere potrebbe aprirsi con maggiore frequenza alle donne incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni, anche a causa del numero limitato di Icam, senza previsioni di incremento. Inoltre, non viene valorizzata l’opzione delle case famiglia protette, le quali evitano l’impatto detentivo sui bambini piccoli. Il decreto, pubblicato in Gazzetta, si concentra sull’articolo 15, che modifica il codice penale e quello di procedura penale. Prima della riforma, l’articolo 146 del codice penale imponeva il rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte o madri di figli sotto l’anno, salvo casi di “eccezionale rilevanza”, privilegiando gli Icam. Ora quel rinvio diventa facoltativo: il giudice potrà negarlo se sussiste il rischio di “commissione di ulteriori delitti” o di “grave pregiudizio alla crescita del minore” (ad esempio, in presenza di comportamenti dannosi). Per i figli tra 1 e 3 anni, il decreto introduce una nuova categoria (art. 147, n. 3- bis): il rinvio è possibile solo in assenza di pericoli, mentre la detenzione in Icam sarà ammessa solo se le “esigenze di eccezionale rilevanza” lo consentono. Per le madri con figli sotto l’anno, invece, la detenzione in Icam diventa obbligatoria, salvo casi di evasioni o condotte pericolose (art. 276- bis c. p. p.), situazioni in cui la madre viene trasferita in carcere, separata dal figlio salvo “preminente interesse del minore”. Prima del decreto, il sistema offriva maggiore protezione. La legge impediva l’esecuzione automatica della pena in caso di gravidanza o per madri con figli sotto l’anno, riservando il carcere solo in situazioni eccezionali. Le donne non venivano semplicemente rinviate alla pena, ma tutelate con meccanismi specifici: la custodia cautelare era affidata agli Icam, strutture create nel 2011 per madri con bambini fino a sei anni, oppure si ricorreva a soluzioni alternative come il ricovero in case famiglia (luoghi più idonei, ma attualmente poco valorizzati) o la detenzione domiciliare. Inoltre, la normativa permetteva alle madri detenute di mantenere un contatto diretto con i figli fino a tre anni, con la possibilità di scontare una parte della pena in ambienti pensati per attenuare l’esperienza detentiva. Con il nuovo decreto questa tutela si riduce nettamente. Il rinvio dell’esecuzione della pena non è più un diritto automatico, ma dipende da condizioni più restrittive. L’intervento del presidente Mattarella ha ripristinato almeno l’obbligatorietà sul fatto che l’eventuale custodia cautelare per le donne indagate o imputate con figli al seguito, sia eseguita obbligatoriamente in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) se i bambini e le bambine hanno un’età inferiore a un anno, mentre per le madri di bambini e bambine di età tra gli uno e i tre anni la pena potrà essere eseguita, in alcuni casi, anche in carcere. Sebbene il decreto imponga che l’esecuzione debba avvenire in un Icam per le detenute con figli sotto l’anno, non è previsto alcun investimento per incrementare il numero di queste strutture, attualmente presenti in sole quattro sedi - a Milano, Venezia, Roma e Cagliari. In passato erano cinque, ma si sono ridotte a quattro dopo la chiusura, nel febbraio scorso, di quello di Lauro, in provincia di Avellino, l’unico al Sud, i cui ospiti sono stati smistati nelle altre strutture in barba al rispetto della territorialità della pena. La contraddizione è evidente: l’obbligo di esecuzione in ambienti specifici rischia di scontrarsi con la loro indisponibilità, costringendo le donne a scontare la pena in carcere con tutte le conseguenze gravi nei confronti dei piccoli. L’introduzione di un meccanismo di monitoraggio, con l’obbligo per il Governo di presentare alle Camere una relazione annuale sull’attuazione delle misure, appare come una soluzione provvisoria di fronte alle criticità introdotte. Senza un piano concreto di espansione degli Icam e senza garanzie per evitare che bambini innocenti finiscano dietro le sbarre, la relazione rischia di certificare una situazione critica senza offrire soluzioni. Come evidenziato dalle associazioni che si occupano delle questioni penitenziarie, l’Icam resta comunque un ambiente detentivo. Per questo motivo, l’allora deputato del Pd Paolo Siani aveva presentato una proposta di legge, snobbata sia dalle precedenti legislature sia da quella attuale, volta non solo a ridurre la presenza di minori negli istituti penitenziari, ma anche a potenziare il ricorso alle case famiglia protette. L’idea era quella di offrire un’alternativa per le madri di figli minori di sei anni che non dispongono di un’abitazione idonea per usufruire degli arresti domiciliari durante il processo o per scontare la pena, una volta divenuta esecutiva la sentenza di condanna. Siani, anche in qualità di medico, ha sottolineato come le avversità precoci, soprattutto nei primi due anni di vita, possano influire sulla struttura del cervello, indebolendo le connessioni tra le regioni cerebrali e riducendo le capacità cognitive in età adulta. L’ambiente carcerario - sia nelle sezioni nido che negli Icam - si dimostra inconciliabile con la crescita sana e naturale di un bambino, costretto a trascorrere i primi anni di vita in un contesto di deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale. Il decreto pubblicato in Gazzetta, inserisce anche un nuovo reato: quello di rivolta all’interno del carcere. In pratica, se un detenuto partecipa ad una rivolta - intesa come atti di violenza, minaccia o resistenza agli ordini per mantenere l’ordine - è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Secondo quanto riportato in Gazzetta, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. Chi organizza o dirige la rivolta rischia la reclusione da due a otto anni, con sanzioni ulteriormente inasprite in caso di uso di armi o conseguenze gravi, fino alla possibilità di un aggravamento triplo della pena. L’associazione Antigone non risparmia critiche a questa norma. Secondo il gruppo, la disposizione appare “truce”, perché non specifica quali comportamenti possano configurarsi come reato di rivolta. Ogni atto violento o di resistenza è già perseguito dalla legge, ma ciò che trasforma una protesta - anche non violenta - in un reato resta vago. In questo modo si rischia di punire forme di dissenso e di trasformare il rifiuto, come ad esempio non spostarsi in isolamento o scioperare con il digiuno, in una condotta criminale. La norma, che non precisa se l’ordine debba essere legittimo, apre la strada a una repressione che sostituisce il dialogo con la forza. La trasformazione di normali richieste di aiuto in reati potrebbe segnare un allontanamento dagli standard di una società democratica e minacciare il diritto alla critica sancito dalla Costituzione. “Il nuovo decreto sicurezza, figlio diretto della linea Minniti/ Conte- Salvini, è entrato in vigore da pochi giorni. È il carcere il luogo in cui, da sempre, si sperimentano le sue vecchie e nuove forme così come si testano nuovi ordigni in una guerra perpetua, silenziosa, spietata”, denuncia in un comunicato Lisa Sorrentino dell’associazione Yairaiha Onlus. Decreto sicurezza, moltiplicare i ricorsi contro una legge premoderna di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 15 aprile 2025 Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge “sicurezza”, punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa. Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella. Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo, ascoltando le ragioni della protesta. La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili: minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti. A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità. Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la sottrazione del figlio alla madre detenuta. Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto. Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per non essere i manovali del declino del sistema. Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel decreto legge. Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti da valanghe di anni di prigione. *Presidente Associazione Antigone Il “decreto Sicurezza” peggiorerà la situazione già gravissima delle carceri di Luca Sofri ilpost.it, 15 aprile 2025 Lo dice tra gli altri l’associazione degli avvocati penalisti italiani; nel frattempo il governo continua a contraddirsi. Giovedì scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha risposto alle interrogazioni dei senatori Ivan Scalfarotto di Italia Viva e Alfredo Bazoli del PD, che gli chiedevano conto dell’amministrazione delle carceri italiane e della gravissima situazione umanitaria che si vive al loro interno. Lo ha fatto con tono un po’ ironico, dicendo che “se aumenta il numero dei carcerati non è colpa del governo, ma di coloro che commettono dei reati e della magistratura che li mette in prigione, anche perché non risulta che siano stati imprigionati in base a nuove leggi promulgate da questo parlamento”. In realtà sei giorni prima, su proposta della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e di altri tre ministri tra cui Nordio stesso, il governo aveva approvato un decreto-legge sulla “sicurezza pubblica” che introduce una ventina tra nuovi reati, aggravanti e aumenti di pena, e che quindi è destinato ad aumentare il sovraffollamento carcerario. È una previsione, questa, fatta da molti esperti e commentatori. L’Unione delle camere penali italiane, cioè l’associazione degli avvocati penalisti, per protesta contro il decreto ha deciso l’astensione dalle udienze per i prossimi 5, 6 e 7 maggio: una sorta di sciopero. L’Unione denuncia l’”inutile introduzione di nuove ipotesi di reato”, i “molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena”, la “introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale”. Tutte queste cose, secondo l’Unione, aumenteranno la popolazione carceraria e peggioreranno il sovraffollamento, “con il definitivo collasso di strutture già allo stremo, come denunciano i quasi quotidiani suicidi”. Il 2024 è stato l’anno peggiore degli ultimi 30, in questo senso, con circa 90 suicidi, che sono direttamente collegati al problema del sovraffollamento e dell’invivibilità degli spazi nelle carceri. Anche su questo, Nordio giovedì scorso ha dato risposte contraddittorie. Ha riconosciuto, sì, che “il numero dei suicidi è aumentato”, ma ha insistito che “se adesso sono 80, era intollerabile anche quando erano 50 o 60”, e che il problema “non può essere risolto né con una legge, né con l’aumento dell’edilizia carceraria”. In realtà sono tutte soluzioni che il governo di cui Nordio fa parte sta cercando di adottare, ma con scarsi o nulli risultati. “Probabilmente [il problema] va risolto con una rimodulazione complessiva del sistema penitenziario, che però richiede una rimodulazione dell’intero codice penale”, ha aggiunto Nordio, riferendosi a modifiche che inevitabilmente vanno verso una riduzione delle pene o l’estensione delle misure alternative alla detenzione in carcere. Ma tutte le modifiche al codice penale fin qui introdotte dal governo Meloni vanno esattamente nella direzione opposta a quella auspicata da Nordio in Senato: aumentano, cioè, il numero di reati. Dall’inizio della legislatura sono state circa 50 le misure che hanno introdotto o aggravato reati. Secondo chi si occupa di diritti delle persone detenute, oltre alle soluzioni più ovvie come un indulto o un’amnistia che però sono inaccettabili per il governo, ce ne sarebbero altre: per esempio offrire con più regolarità alle persone condannate alternative alla detenzione in carcere. È dimostrato che in questo modo si riduce il tasso di recidiva, cioè la quota di persone che tornano a commettere reati una volta uscite dal carcere. Altre soluzioni sono limitare la carcerazione preventiva, cioè quella di chi è in attesa di giudizio, e il ricorso al carcere per i reati meno gravi. Ma sono soluzioni che il governo non è intenzionato a prendere in considerazione. Quanto al “decreto Sicurezza”, la convinzione di aggravare le pene è evidente anche nel metodo scelto dal governo. Il decreto era infatti originariamente un disegno di legge che il Consiglio dei ministri aveva approvato nel novembre del 2023 e che aveva poi seguito un percorso piuttosto lungo in parlamento. La lentezza era dovuta in parte ad alcune divergenze tra i partiti della maggioranza, e in parte alle obiezioni di opposizione, associazioni internazionali e presidenza della Repubblica sulle parti più repressive del provvedimento. Il presidente Sergio Mattarella aveva suggerito alcune modifiche, alcune delle quali riguardavano proprio questioni relative al carcere: per esempio il ricorso alla detenzione anche in ambiti in cui prima era proibita, come nel caso delle donne incinte o delle donne con figli piccoli, o le norme di condotta nelle carceri più dure (il disegno di legge prevedeva fino a 8 anni di carcere per chi attua forme di resistenza passiva agli ordini). Ma per evitare di allungare ancora i tempi della discussione, il governo ha fatto una cosa irrituale e lesiva delle prerogative del parlamento: ha trasformato il disegno di legge ancora in discussione in un decreto-legge del governo, che ora le camere dovranno approvare con procedura d’urgenza entro sessanta giorni e senza concrete possibilità di modificarlo. Il decreto ha recepito le modifiche chieste da Mattarella, attenuando e riformulando in maniera meno estensiva alcuni degli articoli più controversi. Ma la natura del provvedimento è rimasta la stessa. Reclami dal carcere non discussi e diritti lesi. Non solo quelli dei detenuti di Marta Rosati umbria24.it, 15 aprile 2025 Lavoro degli avvocati spesso vanificato, inottemperanze da parte degli istituti penitenziari e intanto la Corte chiede relazioni affettive per chi sconta la pena ma non ci sono gli spazi. È di alcuni giorni fa l’intervento alla Camera del deputato di gruppo Misto +Europa, Riccardo Magi, che si è rivolto al ministro Carlo Nordio per conoscere lo stato di attuazione di una sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto per le persone detenute la possibilità di mantenere relazioni affettive, anche a carattere sessuale. Per i penitenziari di Terni e Parma, i relativi Tribunali di sorveglianza si erano già espressi favorevolmente, accogliendo le istanze di alcuni detenuti. Tuttavia, per garantire le cosiddette “stanze dell’amore”, locali in cui chi è recluso può ricevere visite in assenza del personale di polizia penitenziaria al fine di avere momenti di intimità con il proprio partner, sono necessari interventi di edilizia penitenziaria. Il ministro della Giustizia ha rappresentato la necessità di coniugare quel diritto con le esigenze di sicurezza, compatibilità edilizia e di personale, parlando di “problemi che non sono solvibili in tempi rapidissimi”. Rivendicando un lavoro avviato con apposito gruppo competente, il ministro ha fatto sapere che: “Dal monitoraggio è emerso che, dei 189 istituti penitenziari, solo 32 hanno confermato, allo stato, l’esistenza di uno spazio idoneo allo scopo, previa preventiva attuazione di ingenti e corposi interventi strutturali. Gli altri 157 istituti hanno dichiarato di non avere a disposizione spazi adeguati”. “Tante volte - ha commentato ancora il ministro Nordio - la realtà confligge con quello che è il dato normativo o quello che è il dato giurisprudenziale”. “Secondo noi - ha replicato il deputato Magi - non ci sarà nessuna umanizzazione del carcere con nessun intervento di edilizia penitenziaria, quali quelli che voi volete fare, se il commissario che avete nominato non inizia a lavorare da queste cose, che sono piccole, ma che modificano completamente la qualità della vita delle persone, e quindi la non afflittività della pena, al di là di quella che è già la privazione della libertà”. E di diritti umani lesi, tra i detenuti, si è parlato recentemente proprio a Terni, quando un ergastolano al 41-bis ha intrapreso per qualche giorno lo sciopero della fame e della sete per rappresentare la paradossale situazione per la quale molto spesso alcuni reclami vengono accolti dal magistrato di sorveglianza ma non trovano applicazione nella realtà. Tra gli esempi una banale porta per fruire dei servizi igienici in maniera riservata. Falle di sistema, derivanti probabilmente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si ripercuotono anche sul lavoro degli avvocati che si scontrano con tempi della giustizia del tutto fuori scala. Alcuni legali rappresentano difficoltà oggettive nello svolgimento delle proprie funzioni: reclami che per carenza di personale non arrivano in tempi consoni sul tavolo del magistrato di sorveglianza, udienze dedicate alla discussione degli stessi che vengono convocate dopo anni, persino impossibilità di ricevere in via telematica i fascicoli dei propri assistiti. “Ci si ritrova - spiegano gli avvocati - a discutere reclami presentati da altri in passato e così è penalizzato il collega che ci ha lavorato a suo tempo, che non viene pagato. Di questo passo lo stesso accadrà a noi che ci impegniamo oggi. È veramente demoralizzante battersi per i diritti altrui e impattare sull’impossibilità di svolgere il proprio lavoro in un contesto peraltro così delicato”. E sono ben note anche le difficoltà del personale di polizia penitenziaria nello svolgimento delle attività quotidiane in uno stato perdurante di sovraffollamento delle case circondariali, senza un adeguamento degli organici. L’amore in carcere. Compiuto il primo passo. Che non sia l’ultimo di Emilia Rossi huffingtonpost.it, 15 aprile 2025 Il ministero (dopo un anno!) accoglie in parte la sentenza della Corte costituzionale e si organizza per garantire ai detenuti il diritto all’affettività. Compreso il sesso. C’è ancora molto da fare: ecco che cosa. Dopo un anno di intenso lavoro statistico, analitico, intellettuale del gruppo di studio multidisciplinare istituito appositamente, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato la circolare 11 aprile 2025 per dare esecuzione alla sentenza 10/2024 della Corte costituzionale che ha stabilito il diritto delle persone detenute ad avere incontri intimi, cioè sottratti al controllo a vista del personale di custodia, con i partner di stabili relazioni affettive. Il provvedimento è stato accolto con generale plauso come si trattasse di una conquista di civiltà compiuta dall’organo del ministero della Giustizia cui è demandato il compito di governare il sistema delle nostre carceri, anziché del doveroso adempimento all’obbligo di dare attuazione alla pronuncia della Corte, dettato specificamente a carico anche e, anzi, in via prioritaria, dell’amministrazione dello Stato. Un adempimento che, tra l’altro, è arrivato con colpevolissimo ritardo, considerato che la sentenza della Consulta è del 26 gennaio dello scorso anno ed è rimasta lettera morta, nonostante contenga dettagliate indicazioni operative per realizzare gli spazi destinati agli incontri intimi, anche solo provvisoriamente: nel corso dell’anno e quattro mesi trascorsi da allora, le varie articolazioni dell’Amministrazione penitenziaria, Direzioni delle carceri in prima battuta, si sono trincerate dietro la clausola tipica dell’immobilismo della burocrazia italiana, cioè l’attesa delle “determinazioni dei superiori uffici”. Il punto vero di questa inerzia sta in realtà nel fatto che la sentenza è stata subito mal digerita da buona parte dell’opinione pubblica e dagli attuali operatori del sistema della giustizia. Si sono incontrate, nell’indigestione, due impostazioni ideologiche piuttosto diffuse e oggi in fase di rinvigorimento: la tradizionale pruderie italica verso il sesso, che si fa ma non si dice, e l’idea che la detenzione in carcere debba essere afflittiva, come elemento necessario della punizione. Quindi, passi per il televisore in cella, ma il sesso no, altrimenti che pena è? Meglio tardi che mai, allora, verrebbe da dire, vista l’aria che tira in generale e nel Parlamento o nel Governo, impegnati a districarsi all’italiana nella bufera delle vicende di politica internazionale e a distribuire, tra una cosa e l’altra, bocconi di repressione sotto forma di leggi per la sicurezza: figurarsi se possono avere tempo ed energie da dedicare a una pronuncia della Corte costituzionale che riguarda, nientemeno, i detenuti e il loro diritto a mantenere rapporti affettivi. Verrebbe da dire meglio tardi che mai non fosse che la circolare non aggiunge nulla, nemmeno sul piano delle prescrizioni operative, a quello che è già scritto nella sentenza, e, anzi, toglie molto alle indicazioni della Corte. Lo “sforzo organizzativo” del gruppo di studio del Dap, come si legge nella circolare, ha prodotto l’incredibile risultato di mettere da parte i principi fondanti della pronuncia a cui doveva dare esecuzione. Il primo, quello fondamentale: “non può ridursi il tema dell’affettività del detenuto a quello della sessualità, in quanto esso più ampiamente coinvolge aspetti della personalità e modalità di relazione che attengono ai connotati indefettibili dell’essere umano”, ha detto la Corte, richiamando le Regole penitenziarie europee e specificamente quella che stabilisce che le visite devono essere svolte con modalità tali da consentire ai detenuti di mantenere e sviluppare le relazioni, nello specifico familiari, “in as normal a manner as possible” (Regola 24.4, “nel modo più normale possibile”). Ne è discesa, come naturale conseguenza, che “la durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude”. Il tempo destinato all’affettività, quindi, dev’essere un tempo disteso di intimità, fatto anche della condivisione di momenti e attività proprie della dimensione familiare, non limitato alla consumazione del rapporto sessuale, secondo il preciso dettato della Corte. E invece, la circolare cosa prescrive? Sulla base di un combinato disposto di norme vigenti (c’è sempre un combinato disposto a cui ricorrere all’occorrenza), prescrive che gli incontri intimi “dovranno avere durata massima di due ore”. Due ore, per consumare, non per vivere, tutto il complesso dell’affettività, “sveltina”, mi si passi il termine, inclusa. Ancora: proprio per dare al diritto all’affettività la sua dimensione effettiva, la Consulta, recependo diverse raccomandazioni delle istituzioni europee, ha previsto che “le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico”. La circolare del DAP, a proposito dell’allestimento dei locali destinati agli incontri intimi, prescrive che consistano in “una camera arredata con un letto e con annessi servizi igienici”. Le lenzuola, peraltro, come altra biancheria, dovranno essere portate dal partner che accede al colloquio. Certo, si può obiettare, nella situazione di degrado e di carenza di risorse materiali in cui si trovano oggi le nostre superaffollate carceri, pensare che possano essere realizzate subito unità abitative come quelle descritte dalla Consulta, mentre il ministero sta approntando container per inserire i detenuti di troppo, è utopico: ma lo è anche prevedere che la camera sia arredata pure di un posto a sedere, di un tavolino e di un fornello per riscaldare cibi, tanto per non trasmettere il messaggio che l’incontro intimo sia una toccata e fuga? Un secondo principio che traspare dalla sentenza è il rispetto della dignità della persona detenuta che, quando si tratta di affettività e sessualità, si traduce nei termini della riservatezza e del pudore: “È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”, ha prescritto, non soltanto suggerito, la Corte. Nella circolare del Dap si prevede non solo la videosorveglianza esterna, come previsto nella sentenza, ma anche che “non potrà mai essere consentita la chiusura dall’interno della porta di accesso, di guisa che i locali dovranno sempre ed inderogabilmente risultare accessibili al personale di Polizia penitenziaria”. È da immaginare la sensazione di riservatezza e di pudore della coppia che vive velocemente la propria intimità a porta aperta e con l’idea che in un momento qualsiasi può entrare qualcuno e, meglio ancora, un operatore della Polizia penitenziaria. Ci sarebbe molto da dire anche sul meccanismo di autorizzazione degli incontri intimi che secondo la Consulta può essere negata quando “ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina” e il Dap ha tradotto in un complesso percorso di osservazione della persona detenuta, di valutazione della sua condotta, di relazioni dell’équipe trattamentale e via discorrendo, come si trattasse di una misura premiale e non dell’esercizio di un diritto che, in quanto tale, non va mai meritato. Ma è un primo passo, dicono gli ottimisti della volontà e intanto bisognerà controllare se e come sarà seguito concretamente nelle nostre carceri, perché il non essere tenuti a fare l’impossibile è sempre un rifugio sicuro, soprattutto quando le condizioni generali forniscono ampia giustificazione. I pessimisti della ragione, però, sanno che nel nostro Paese non c’è niente di più stabile di quello che è provvisorio e che spesso, se non sempre, il primo passo, pure stentato e storto, è anche l’ultimo. Susanna Campione (FdI): “La norma sulle madri? Parliamone, ma si badi anche a tutte le altre” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 15 aprile 2025 Sono 2.718 le donne detenute in Italia, sparse tra pochi istituti femminili e sezioni di carceri maschili. Una condizione che richiede interventi mirati. Quante sono, e come stanno le donne in carcere? Secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati al 31 gennaio 2025, le donne recluse sono 2.718 su 61.916 detenuti, di cui 11 madri e 12 bambini. Una “minoranza penitenziaria”, isolata e sparpagliata sul territorio nazionale. In Italia, infatti, al momento ci sono soltanto tre penitenziari femminili: Trani, Roma e Venezia Giudecca, che ospitano circa un quarto delle detenute. Tutte le altre si trovano nelle sezioni degli istituti maschili. Con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con la senatrice di Fratelli d’Italia Susanna Donatella Campione. Il primo nodo riguarda la mancanza di una normativa specifica sulla detenzione femminile: l’ultima legge risale al 2015, la legge Gonnella. Bisognerebbe orientare l’amministrazione penitenziaria a una politica di genere? La situazione nelle carceri è molto critica da tempo. Ereditiamo problemi che derivano da molti anni di noncuranza. Sicuramente gli istituti di pena vanno ripensati e riorganizzati e in questa ristrutturazione occorre disciplinare in modo specifico la detenzione femminile. Si tratta di tenere conto delle differenze. Negare la diversità tra detenuti uomini e detenute donne non aiuta ma acuisce le criticità. Le donne evadono meno e molto raramente commettono atti di violenza, hanno inoltre necessità specifiche che un sistema incentrato sul rispetto dei diritti della persona, anche quando reclusa, non può ignorare. Anche l’architettura penitenziaria è pensata a misura di uomo. La politica dovrebbe e potrebbe occuparsene? Certamente la politica ha il dovere di proporre soluzioni per adattare gli istituti di pena ai detenuti e alle detenute anche dal punto di vista dell’architettura stessa del carcere, che è fondamentale per il percorso riabilitativo e che deve essere intesa come scienza dell’organizzazione razionale degli spazi della detenzione. Sappiamo ad esempio che la riduzione della distanza oltre certi limiti produce forti situazioni di stress, soprattutto nei penitenziari dove si trovano insieme individui di età e cultura diverse e molte rivolte nelle carceri sono causate proprio dal sovraffollamento. Le norme possono svolgere una funzione importante in questo senso. Le European Prison Rules del Consiglio d’Europa prescrivono un’attenzione particolare alle esigenze fisiche e psicologiche di chi si trova in un penitenziario che dovranno essere recepite nel nostro ordinamento. Quando si parla di donne in carcere si parla spesso di madri detenute, al grido di “mai più bimbi dietro le sbarre”. Ma il ddl Sicurezza, in discussione al Senato, elimina il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri con figli di età inferiore a un anno... Non bisogna cadere nell’errore di identificare la donna con la madre detenuta, si farebbe un torto alle donne ristrette in carcere che non sono madri. Il ddl sicurezza affida al magistrato la valutazione sul differimento della pena per le donne in gravidanza e con figli di età inferiore a un anno. Sul tema c’è stata ampia discussione e in seguito al lavoro svolto in commissione si stanno facendo riflessioni sul punto per arrivare a contemperare il problema dello sfruttamento dello stato di gravidanza per commettere reati con l’esigenza di tutelare i minori. L’auspicio è che il confronto parlamentare, che a ciò è deputato, possa contribuire a comporre la questione. Diario del baby-detenuto: “Così sono rinato in cella. Il carcere mi ha cambiato” di Elisa Sola La Stampa, 15 aprile 2025 Arrestato dopo aver accoltellato un 17enne, in cella ha compreso l’errore e aiutato i compagni. E il giudice: non va processato. Accoltellare al petto un ragazzo più grande. Provare ad ucciderlo senza sapere perché. Scappare dopo averlo lasciato a terra. E sperare che non muoia. Finire in carcere. Dormire in cinque in una cella. Prendere la scabbia. E capire, qui dentro, qual è la strada per comprendersi. Per redimersi: “Prima facevo fatica a comprendere le mie emozioni. Ora so che la violenza è assurda. Sempre”. Ha 15 anni. È incensurato. È sempre andato bene a scuola. Non si droga. Non beve. Il fratello maggiore, che è quasi dentista, è il suo punto di riferimento. Una sera, all’improvviso, questo ragazzo tranquillo, che parla in maniera lenta e posata alla giudice, ha conficcato un coltello sotto al cuore di un ragazzo che lo prendeva in giro. Era estate, la scorsa. Nel comune del Piemonte in cui vive avevano montato le giostre. Era con i suoi amici. A un certo punto è arrivato lui, più grande di due anni. Lo sbeffeggiava da giorni: “I marocchini non sanno giocare a calcio”. Alla sagra del paese lo ha indicato e gli ha detto: “Marocchino di m...”. Sul momento non ha reagito. Ma più tardi, lo ha incrociato di nuovo. “Mi ha messo l’avambraccio sotto al collo. Ho avuto paura. Ho aperto il marsupio e ho preso un coltello che aveva preso in cucina. Lo tenevo con me perché quel ragazzo mi aveva preso di mira da giorni. E pensavo che fosse armato. Avevo paura ma non volevo fare vedere agli altri che l’avevo. Volevo che i miei amici pensassero che ho coraggio”. L’ultima confessione, quella finale, è quella chiarificatrice. I giudici ascoltano in silenzio. Sono passati otto mesi da quando il quindicenne è finito in carcere per tentato omicidio. La vita al Ferrante Aporti lo ha cambiato. Sembra diverso da prima. Non solo perché, dice il collegio, “ha tenuto un buon comportamento”. Ma perché “ha lavorato sulle sue emozioni”, dicono gli educatori. E quindi adesso sa cosa è giusto e cosa è sbagliato. Sa capire meglio cosa prova. Sa sentirsi e controllarsi. Otto mesi prima non sapeva dare spiegazioni. Otto mesi prima non aveva detto tutta la verità. “Ha fatto un percorso e si è fatto accompagnare, nella comprensione del fatto e delle sue emozioni”, dichiara chi si è preso cura di lui in comunità, prima che si ritiri il collegio presieduto dalla giudice Maria Grazia Goggia Devietti. Il responso lo lascia senza fiato. “Sei libero”, gli spiega la sua avvocata, Stefania Rullo. All’imputato accusato di tentato omicidio è stata concessa la messa alla prova. Per una volta, educatori, poliziotti, legali e giudici, sono d’accordo: “Ha fatto un percorso incredibile”. Cinque mesi di carcere e tre di comunità. Una rivolta e la scabbia. Non ha mai perso il controllo. Anzi, di lui i giudici scrivono che è cresciuto anche vivendo questi eventi. Passandoci attraverso. “L’imputato non ha preso parte alla rivolta dell’agosto 2024 all’interno del Ferrante Aporti, ha sempre tenuto un comportamento corretto in carcere, anzi, ha supportato con la sua condotta l’attività degli agenti negli eventi di quella notte”. Era la notte del primo agosto. Il carcere venne devastato. Lui era arrivato da un mese. “Quando ci furono gli incendi provavo terrore e paura. Era pieno di fumo. Non respiravamo. Non partecipai. Tifavo per la polizia. Ma non ero l’unico. Anche i miei compagni”. “All’inizio ci hanno messi in cinque in una stanza anche se era da due. Ho avuto difficoltà a prendere confidenza con gli altri. Dicevano che ero chiuso. Poi sono migliorato. Parlo di più rispetto a prima. Soprattutto in comunità è andata meglio, perché ho fatto amicizia con una ragazza di 17 anni. Sono riuscito ad aprirmi perché lei lo faceva con me. Mi parlava. Ho legato anche con il mio compagno di stanza. Gli ho insegnato l’italiano. Abbiamo rotto il ghiaccio parlando dei nostri fratelli. Per noi sono figure importanti. Mi sono preso la scabbia. È stata dura ma sono riuscito a reggere. Cosa direi al ragazzo che ho accoltellato? Gli vorrei dire scusami. Ma se non vuole più guardarmi in faccia, lo capisco. Ho fatto una cosa grave. Sono molto pentito”. L’aula del tribunale dei minori è semi vuota. Manca un’ora alla sentenza. Prende la parola un educatore: “Signori giudici, raramente ho visto un approccio così positivo. Se gli concedete la map (messa alla prova, ndr), la psicoterapia gliela pagheremo noi. È quello di cui ha bisogno. Fa fatica a rappresentare le proprie emozioni. Ma si è messo a disposizione per farsi accompagnare”. Per i giudici, non ha senso processare il quindicenne: “Il giudizio, abbreviato, non tenderebbe alla rieducazione dell’imputato come previsto dalla Costituzione”. E così torna libero. La sua vita da detenuto resterà per sempre impressa nelle trascrizioni dei suoi interrogatori, dei colloqui, dei diari. Il ricordo più bello: “A Capodanno ci hanno portati in Liguria. Abbiamo fatto cena e poi siamo stati a un concerto. Io ero appena arrivato. Agli educatori è sembrato che non mi fosse piaciuta la serata. Perché non parlavo. Ma in realtà io ero contento. Solo che credo che le persone non riuscissero ancora a comprendere le mie emozioni. In carcere ho avuto tempo di meditare. Sul mio stato d’animo, su quello del ragazzo a cui ho fatto del male. Io mi sono assolutamente pentito. Spero che un giorno mi perdoni”. L’Aiga in visita ai detenuti di 76 strutture penitenziarie italiane nella settimana di Pasqua ansa.it, 15 aprile 2025 Da lunedì 14 a venerdì 18 aprile, delegazioni dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati accederanno in 76 strutture penitenziarie, tra istituti per adulti e per minorenni, diffuse su tutto il territorio nazionale, con una copertura di almeno un carcere per ogni regione. “In questa occasione - afferma il presidente Aiga, l’avvocato Carlo Foglieni - oltre a poter valutare l’evoluzione dello stato dell’arte delle strutture penitenziarie a circa un anno di distanza dai precedenti accessi, consegneremo a tutte le direzioni delle carceri il progetto di riforma elaborato da Aiga e le progettualità in cantiere con il Dap, che ringraziamo per averci concesso tutte le autorizzazioni richieste per questi accessi. L’obiettivo è mostrare da un lato l’approccio propositivo che la nostra Associazione assume su un tema che sta vivendo una costante fase emergenziale e, dall’altro, ottenere risposte da chi ogni giorno opera in quell’ambito, vivendolo e conoscendone criticità, aspetti virtuosi, e prospettive sulle quali poter concretamente lavorare”. Il rappresentante Nazionale Onac (Osservatorio Nazionale Aiga sulle Carceri), l’avvocato Mario Aiezza, sottolinea: “L’iniziativa sarà l’occasione per portare all’interno delle strutture penitenziarie un calore umano di cui si ha ancor più bisogno nel periodo delle festività, nonché per mostrare a tutti coloro i quali vivono all’interno delle strutture penitenziarie, detenuti, personale amministrativo, sanitario e corpo della polizia penitenziaria, l’impegno concreto che la giovane avvocatura profonde al fine di ridare dignità alla detenzione e, più ampiamente, migliorare la vivibilità delle carceri”. La chiamano sicurezza. È solo ferocia di Francesco Petrelli L’Unità, 15 aprile 2025 Il fatto stesso che il decreto legge dell’11 aprile 2025, n. 48 recepisca i medesimi contenuti del Ddl in discussione davanti al Parlamento, mostra il paradosso di una necessità ed urgenza che, non presente all’epoca della presentazione di quel Disegno di legge, si sarebbero improvvisamente venute a creare in virtù di non si sa bene quali drammatici eventi. Si tratta di un abuso della decretazione d’urgenza tanto più grave in considerazione della riproposizione di norme già da più parti sottoposte a severe critiche, da parte dell’avvocatura e dell’accademia, a causa della loro netta contrarietà ai principi di ragionevolezza, proporzionalità, offensività, eguaglianza e tassatività. E tanto più riprovevole proprio in considerazione dei valori di libertà coinvolti nella materia penale, tali da imporre una valutazione ponderata degli interessi in gioco. Ma è la stessa ingiustificata sottrazione dell’iniziativa legislativa alla sua ordinaria sede parlamentare, a dimostrare, ancora una volta, come si tratti di interventi ostentatamente simbolici e come tali privi di ogni effettiva efficacia e che, nonostante il titolo, nulla hanno a che fare con un qualche reale incremento della sicurezza dei cittadini. Sappiamo, inoltre, che l’entrata in vigore di tali discusse norme, non farà altro che aumentare la popolazione carceraria, con ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento e con il definitivo collasso di strutture oramai allo stremo, come denuncia la drammatica sequenza dei suicidi, giunti oramai al numero di ventisei dall’inizio dell’anno. Quello della sicurezza sembra essere divenuto oggi un super-valore, un super-principio, capace di smentire ogni altro valore. Libero da ogni bilanciamento il discorso sulla sicurezza diviene pura e semplice mitologia securitaria, fatta di slogan e di parole d’ordine elementari. L’intervento politico si risolve in uno sciatto flusso di aumenti delle pene, introduzione di nuovi reati, modifica e aggravamento di alcune fattispecie già esistenti, ulteriori ostatività all’applicazione di misure alternative al carcere. La risposta punitiva si inasprisce e si estende ad ambiti prima esenti dall’intervento della penalità. La minaccia del carcere diviene il linguaggio autoreferenziale della sicurezza, l’unico alfabeto con il quale si declina la forza dello Stato. Se la prospettiva del dialogo è carcerocentrica, non solo le nuove leggi minacciano più carcere ai liberi, ma al tempo stesso precludono la libertà a coloro che sono ristretti. La deflazione che nei Paesi europei è pratica costante e razionalmente praticata, non appena si superano determinati limiti, nel nostro Paese ogni scarcerazione è vista come una manifestazione di debolezza dello Stato. Si confonde la forza con il ghigno feroce, il rigore con la spietatezza. Le condizioni nelle quali oggi sono ridotte le nostre carceri, a causa del sovraffollamento e della cronica sproporzione fra le risorse e le necessità del trattamento, riflettono questi sentimenti. Ma qualcosa si deve essere rotto nel riflesso pubblico sulla forza. Di fronte al numero dei suicidi che mietono giovani e anziani, detenuti in espiazione di pene lunghe e con brevi fine pena, e di fronte alla conclamata incapacità delle strutture di intercettare il disagio e la disperazione, e di salvare vite umane, un varco dovrebbe aprirsi. Di fronte alla disumanità ed al degrado delle condizioni nelle quali sono costretti a vivere sempre maggiori quote di detenuti, un ragionevole rimedio clemenziale dovrebbe proporsi. Fra il rispetto della dignità umana ed il suo disprezzo - come ci ha ricordato di recente Marco Ruotolo - si sono sviluppati storicamente i valori della nostra civiltà del diritto e delle nostre Costituzioni. Il disprezzo della dignità della persona ci è sembrato a lungo il connotato essenziale della disumanità. Oggi, Rispetto e Disprezzo lasciano tuttavia aperto uno spazio molto più esteso che è quello della indifferenza. Nei luoghi un tempo presidiati dalla contesa fra rispetto e disprezzo della dignità dell’altro, ora impera piuttosto l’indifferenza come statuto di una nuova pubblica disumanità. Il dl Sicurezza fa già acqua. E Piantedosi rincara la dose di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 aprile 2025 “Incostituzionale” per l’Associazione nazionale magistrati. Il decreto incardinato alla Camera. Le toghe auspicano “tutti i correttivi necessari a scongiurare i rischi di un diritto penale simbolico”. In vigore da appena trentasei ore e già rischia il marchio di incostituzionalità. È l’Associazione nazionale magistrati, soprattutto, a riconoscerne i chiari tratti - subodorati anche dalla difesa di un imputato che ha sollevato la questione davanti al tribunale di Milano - nel decreto Sicurezza che ieri è stato assegnato alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera per la conversione in legge entro 60 giorni. I rappresentanti delle toghe infatti - sul solco della denuncia già avanzata dagli avvocati penalisti e da numerosi accademici prima che il decreto assorbisse come carta carbone il ddl - ammoniscono l’esecutivo e il parlamento riguardo i “seri problemi di metodo e di merito” posti dal nuovo provvedimento che ha creato d’emblée “14 nuove fattispecie incriminatrici, l’inasprimento delle pene di altri 9 reati”, e che ha ridotto in cenere “un fecondo dibattito in Parlamento che durava da oltre un anno”. Mostrando platealmente la carenza dei “requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza”. Eppure, il ministro dell’Interno Piantedosi già annuncia “ulteriori misure” per proteggere le forze dell’ordine. E da quando è stato pubblicato sabato scorso sulla Gazzetta ufficiale, il decreto legge ha già creato scompiglio. In particolare già dalle primissime ore ha mandando in tilt migliaia di imprenditori e gestori di negozi di cannabis light che non sanno cosa fare della loro merce regolarmente comprata e che ormai guardano all’estero come unica chance di salvezza. Inoltre, ha mandato in confusione pure i centralini delle questure che non sanno dare risposte certe sull’applicabilità di alcune delle norme più insensate del pacchetto “salva Salvini”. Norme contro le quali si è alzata la voce, tra le altre, dell’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone che da ieri e fino a Pasqua digiunerà sperando in una mobilitazione che accompagni la conversione in legge del decreto. “Di fronte alla criminalizzazione della resistenza passiva e della nonviolenza in carcere occorre che fuori dalle galere si manifesti con forme originali di disobbedienza civile”, scrive Corleone auspicando “una sollevazione di massa anche attraverso un referendum popolare per cancellare la scelta panpenalistica che arriva al ridicolo equiparando la canapa tessile a quella con proprietà terapeutiche e di piacere”. La Giunta Esecutiva centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, che chiede “correttivi” in sede di conversione del decreto, ricorda invece i “nuovi reati per sanzionare in modo sproporzionato condotte che sono spesso frutto di marginalità sociale e non di scelte di vita” inseriti in una normativa “che non si concilia facilmente con i principi costituzionali di offensività, tassatività, ragionevolezza e proporzionalità”. “Basti pensare - scrive l’Anm - che la pena per l’occupazione abusiva di immobili coincide con quella prevista per l’omicidio colposo con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Inoltre, incriminare la resistenza passiva nelle carceri e nei Cpr, e dunque la resistenza non violenta e la semplice manifestazione del dissenso, produce effetti criminogeni, con il rischio concreto che lo stato di detenzione diventi il presupposto per l’irrogazione di nuove e ulteriori condanne”. E ancora, insistono le toghe, “nonostante la gravissima situazione carceraria, più volte denunciata, si introducono nuove ipotesi di esclusione delle misure alternative e dei benefici penitenziari, oltre al carcere per le donne incinte”, senza prevedere “misure per fronteggiare la drammatica situazione degli istituti penitenziari o per potenziare gli strumenti a disposizione della magistratura di sorveglianza”. Una denuncia che la maggioranza ha preso, as usual, come una indebita interferenza. Tra i primi, Maurizio Gasparri: “Le critiche dell’Anm non intaccheranno il lavoro del Parlamento, che superando l’ostruzionismo della sinistra voterà al più presto il decreto Sicurezza anche con lo strumento della fiducia”. Il senatore di FI plaude, come fa da Osaka anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani, all’annuncio di Piantedosi secondo il quale il governo è determinato “a portare avanti ogni ulteriore misura necessaria per garantire l’incolumità degli uomini e delle donne in divisa”. Auspico una sollevazione di massa anche con referendum per cancellare la scelta panpenalistica che arriva al ridicolo equiparando la canapa tessile a quella con Thc. Tra le tante misure repressive del decreto ce n’è una che confligge gravemente con una realtà produttiva già ben avviata nel Paese e tutelata dal diritto europeo, quella dei negozi di cannabis light, una sostanza che non contiene principio attivo psicotropo sopra i limiti di legge e il cui commercio, perciò, è stato considerato non punibile ai sensi del T.U. 309/90 sugli stupefacenti da varie sentenze tra cui quella del 2019 delle Sezioni unite penali della Cassazione. Ma soprattutto il dl Sicurezza “non avendo previsto un regime transitorio, penalizza gli imprenditori italiani a vantaggio di quelli di altri Paesi”, come spiega al manifesto l’avvocato Giuseppe Libutti dell’Associazione Canapa sativa italiana. Antonella Soldo di Meglio Legale precisa che “mancano i decreti attuativi”: ad esempio, “molti negozianti di cannabis light hanno già pagato l’anticipo dell’Irpef e l’Iva sui prodotti stivati per essere venduti, e non sanno come riavere indietro quei soldi”. Proprio per questo, il segretario di +Europa Riccardo Magi ha annunciato “una interrogazione per tutelare le imprese del settore dal punto di vista fiscale” pur “non escludendo alcuno strumento e neanche il referendum abrogativo”. Perché, afferma, “un Paese nel quale un governo da un giorno all’altro per decreto decide che una cosa che fino al giorno prima era legale e legittima e garantiva posti di lavoro a migliaia di persone diventa illegittima è un Paese che a me fa paura”. Ecco il primo ricorso contro il Decreto sicurezza: a Milano si apre una crepa costituzionale di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 aprile 2025 Chiesto il rinvio alla Consulta durante la direttissima per un giovane accusato di resistenza aggravata. La decisione a maggio. La prima crepa costituzionale nel neonato decreto sicurezza potrebbe aprirsi il prossimo 26 maggio, quando a Milano la giudice Ilaria Simi de Burgis scioglierà la sua riserva sulla richiesta di rinvio alla Corte costituzionale presentata dagli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini durante la direttissima per un arresto effettuato sabato. La storia è quella di un ragazzo che non si è fermato a un posto di blocco e poi, una volta fermato, ha avuto un alterco con le forze dell’ordine. Il reato che gli è stato contestato è quello di resistenza aggravata dal fatto di essere stata commessa contro un agente in divisa, novità aggiunta all’articolo 337 del codice penale dal decreto uscito in Gazzetta ufficiale appena pochi giorni fa. In buona sostanza, dice la legge, se la resistenza è commessa “nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza con l’aumento di pena fino alla metà”. Losco e Straini, nella loro questione di costituzionalità presentata alla giudice durante l’udienza di ieri mattina, sostengono che al decreto manchino le “ragioni di necessaria e straordinaria urgenza” proprie dei provvedimenti di questo genere. “Il preambolo del decreto - sostengono i due legali - non indica in alcun modo quale siano le ragioni di straordinaria urgenza fattuali poste a fondamento della decretazione d’urgenza, ma si limita a riportare con affermazioni apodittiche il titolo dei capi del testo”. Questo significa chenon ci sono i requisiti per la “emissione del decreto”, che per sua natura deve avere alla base ragioni “straordinarie” di “necessità e urgenza”. Ma, insistono Losco e Straini, le motivazioni “che hanno indotto il governo ad appropriarsi del testo, sottraendolo all’esame del parlamento” riguardano proprio la tempistica dei lavori di Camera e Senato, dove il testo viaggia ormai da mesi senza che le opposizioni riescano ad emendarlo. Con la sentenza numero 171 del 2007, la Consulta aveva dichiarato incostituzionale un decreto per difetto dei requisiti dettati dal secondo comma dell’articolo 77 della Carta, che regola gli atti provvisori con forza di legge che il governo può adottare in situazioni di necessità e urgenza. In pratica, dissero i giudici costituzionali richiamandosi a un pronunciamento precedente (la sentenza numero 29 del 1995), il requisito fondamentale di necessità e urgenza sussiste solo nel caso in cui ci sia una “situazione di fatto” pre-esistente rispetto all’emanazione del decreto. I tempi parlamentari, in tutta evidenza, non costituiscono questo requisito. “L’assoluta mancanza delle straordinarie ragioni di necessità ed urgenza peraltro lo si può anche evincere dall’iter procedurale di questo testo normativa”, chiosano Losco e Straini. Quando era solo un semplice disegno di legge, quello che adesso chiamiamo decreto sicurezza, è stato approvato dalla Camera il 18 settembre scorso e adesso è in Senato, dove ha già esaurito il suo percorso nelle commissioni. Quando poi, due settimane fa, è emerso un problema di coperture finanziarie, si è presentato il problema di rimandare il testo a Montecitorio per una terza lettura. Un intoppo, certo, ma niente che consenta di parlare di “necessità e urgenza”: sono i tempi della democrazia. Per gli avvocati, comunque, questo non l’unico problema: il testo del decreto infatti “ha un carattere del tutto disomogeneo” perché presenta “norme in materia di prevenzione alla lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata nel primo capo, norme poste a tutela della sicurezza pubblica nel secondo, norme a tutela delle forze dell’ordine nel terzo, norme a tutela delle vittime dell’usura, e norme di modifica dell’ordinamento penitenziario”. Tutto insieme, senza soluzione di continuità. Decreto sicurezza: Piantedosi rilancia, l’Anm denuncia di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 15 aprile 2025 Era inevitabile che i fatti di cronaca degli ultimi giorni, dopo le polemiche seguite alla trasfor-mazione del discusso ddl sicurezza in un decreto da parte del governo, venissero lette in chiave politica. Ed è esattamente quanto accaduto, con un pressing degli esponenti di maggioranza che si è intensificato ieri, dopo le immagini diffuse da tv e social sugli scontri tra ultras e poliziotti a margine del derby capitolino di calcio. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, commentando le immagini provenienti dai dintorni dello stadio Olimpico, ha fatto riferimento alla necessità di non ben precisate “ulteriori misure” a protezione degli agenti, pubblicando sui suoi profili social un lungo post: “Si susseguono”, ha scritto Piantedosi, “i vergognosi attacchi di delinquenti contro le Forze dell’ordine: a Milano per una manifestazione caratterizzata da danneggiamenti e aggressioni, a Torino in occasione di un rave abusivo, a Roma con ultras scatenati in violenze di ogni tipo”. “A fronte di questi comportamenti indegni e inaccettabili”, ha proseguito, “le Forze di polizia continuano a svolgere il proprio lavoro con equilibrio e professionalità, garantendo la sicurezza della collettività in condizioni molto difficili. A loro va la gratitudine e il pieno sostegno del Governo”. “Per questo”, ha concluso il ministro, “oltre al Decreto legge sicurezza appena varato, siamo determinati a portare avanti ogni ulteriore misura necessaria per garantire l’incolumità degli uomini e delle donne in divisa”. In una giornata in cui vi sono state molte voci di giuristi e di legali contro il provvedimento licenziato dal governo, tra cui anche l’annuncio di un ricorso alla Corte costituzionale e uno sciopero della fame da parte dell’ex- sottosegretario Franco Corleone, è verosimile che Piantedosi e i leader del centrodestra facciano leva sugli episodi - indiscutibili - di violenza a Milano e a Roma per rafforzare la tesi della sussistenza dei requisiti di urgenza necessari per l’emanazione di un decreto, a maggior ragione nel momento in cui tale decreto dovrà comunque affrontare un iter parlamentare per la conversione, per quanto compresso e a serio rischio fiducia, che rinfocolerà la dura contrapposizione politica di queste ultime settimane. Con Piantedosi hanno immediatamente concordato i due vicepremier, nonché leader rispettivamente di FI e Lega, Antonio Tajani e Matteo Salvini, con una sfumatura in più da parte di Salvini che rimanda alla partita del Viminale, alla quale il segretario del Carroccio sembra non aver ancora rinunciato. Per Tajani “le violenze contro le forze dell’ordine sono inaccettabili, idiozie prive di qualsiasi fondamento che vanno assolutamente respinte. E bene fa il Governo ad adottare la linea dura contro i violenti”. “Chi manifesta in maniera violenta”, ha aggiunto il ministro degli Esteri, “deve essere assolutamente condannato. Tutta la mia solidarietà alle forze dell’ordine e agli agenti feriti, esprimo solidarietà non solo come ministro degli Esteri ma anche a nome di a Forza Italia, a tutte le donne e gli uomini che sono impegnati per garantire la sicurezza”. Più duro Salvini, il quale ha spinto su toni securitari “suggerendo” a Piantedosi in quale direzione portare l’ulteriore giro di vite annunciato: “Per certa gente”, ha detto, “si devono aprire le porte del carcere, non bastano i Daspo, non bastano i domiciliari. Occorre investire di più in sicurezza nazionale, non in armi all’estero, questo vale per cortei, per questa o quella causa, per partite di calcio”. Poi, incalzato dai cronisti sull’ipotesi di un suo ritorno al ministero dell’Interno, Salvini è stato sibillino, parlando di Piantedosi come di un “amico, un servitore dello Stato” ma, allo stesso tempo di un “tecnico”. Non è escluso, in ogni caso, che il passaggio parlamentare del decreto venga sfruttato proprio per introdurre le norme più severe evocate sia da Piantedosi che da Salvini, e in quest’ottica le organizzazioni sindacali delle forze di polizia sono dalla parte del governo: in particolare, il Coisp chiede che “in sede di conversione vengano inserite norme più dure e specifiche per tutelare l’incolumità dei poliziotti in situazioni di questo tipo: Daspo a vita e carcere vero per chi aggredisce un agente in servizio, senza scappatoie o giustificazioni”. Da parte loro, le forze di opposizione, pur concordando nella condanna dei violenti e nella solidarietà agli agenti, mantengono la loro totale contrarietà al metodo usato per approvare il decreto a alle norme in esso contenute, e annunciano ostruzionismo in aula, nella speranza (ardua) di portarlo a decadenza. Daspo a vita e carcere: le misure sul tavolo di Piantedosi contro le aggressioni ai poliziotti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 aprile 2025 A pochi giorni dall’entrata in vigore del decreto sicurezza che istituisce 14 nuovi reati, il ministro dell’Interno annuncia di voler studiare ulteriori provvedimenti. E i sindacati chiedono una nuova stretta dopo gli ultimi scontri in cui sono rimasti feriti 37 agenti. Daspo a vita, sanzioni economiche salatissime, partite di calcio giudicate a rischio giocate a parte chiuse, e aggravanti tali da portare in carcere chi aggredisce le forze dell’ordine. Ecco le proposte sul tavolo del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dopo i violenti scontri tra manifestanti, tifoserie, partecipanti a rave e forze dell’ordine tra Roma, Milano e Torino che hanno fatto 37 feriti tra gli agenti, da ultimo bollettino diffuso ieri sera dalla Polizia di Stato. Le richieste dei sindacati - Il Siulp sollecita sanzioni economiche con multe di decine di migliaia di euro associate alle pene già in vigore. “Siamo convinti che sarebbe un ottimo deterrente”, dice il segretario Felice Romano che propone anche partite a porte chiuse negli stadi come quello di Roma, in occasione di incontri particolarmente a rischio. O addirittura in campo neutro. Ai club potrebbe poi essere chiesto di partecipare alle spese per la sicurezza, suggerisce il M5s. Il Coisp chiede invece che vengano inserite norme più dure e specifiche per tutelare l’incolumità dei poliziotti, come il Daspo a vita e detenzione in carcere per chi aggredisce un agente in servizio. All’Osservatorio nazionale per le manifestazioni sportive del Viminale, che deve ancora riunirsi, spetterà invece adottare eventuali misure a carico delle tifoserie di Roma e Lazio dopo gli scontri con le forze dell’ordine. Come sempre accade in questi casi potrebbe essere deciso lo stop alle trasferte dei tifosi per un certo numero di domeniche e, per i prossimi derby o per gli incontri valutati ad alto rischio, la disputa mai in ore serali o addirittura a porte chiuse. L’Anm va da Nordio: “Arrivi preparato, la giustizia annaspa” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 aprile 2025 In giornata il faccia a faccia in via Arenula su carenze di personale, processo telematico e carcere. Segnali di tregua, ora il “nemico” è Mantovano, nel pomeriggio il summit con i capigruppo di Fdi. Oggi alle 11 la giunta dell’Anm si recherà a via Arenula per incontrare il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un summit programmato da tempo e richiesto dalle toghe per esporre al guardasigilli sette punti sui quali riformare la giustizia: aumentare l’organico della magistratura, rivedere le piante organiche degli uffici giudiziari, assumere nuovo personale amministrativo e stabilizzare quello precario, dotare giudici e pm di applicativi informatici adeguati, investire nell’edilizia giudiziaria, ottimizzare la giustizia penale e civile, intervenire sulla situazione carceraria. Le proposte nel dettaglio sono sul tavolo di Nordio da oltre un mese, l’Anm si aspetta dunque che il ministro sia già in grado di fornire risposte precise su ciascuna di esse. Il sindacato delle toghe poi, come deliberato negli ultimi incontri del “parlamentino”, tornerà a chiedere una modifica tempestiva dell’articolo 3 della legge n. 27/ 1981 affinché si ripristini l’intero trattamento economico in caso di malattia dei magistrati. A ottobre dell’anno scorso, durante un convegno organizzato da Magistratura indipendente, Nordio aveva annunciato che la disposizione in materia di congedo straordinario per malattia dei magistrati sarebbe entrata nella successiva legge di bilancio. Raccolse molti applausi, in quell’occasione, ma ora l’Anm lamenta che di quella modifica non si sia più parlato. I magistrati sottoporranno al ministro anche i “problemi pratici” legati al ddl femminicidio, ossia la previsione dell’obbligo, per il pm, di sentire direttamente le persone offese e non più con delega alla polizia giudiziaria. Il faccia a faccia dovrebbe svolgersi, almeno nelle intenzioni di entrambe le parti, in un clima sereno. “Dall’incontro mi aspetto qualcosa di positivo”, ha detto qualche giorno fa il presidente dell’Anm Cesare Parodi. “Noi speriamo - aveva aggiunto il segretario generale Rocco Maruotti - che vengano accolte tutte le nostre richieste, che non riguardano profili sindacali o lo status dei magistrati: noi ci teniamo a che la giustizia funzioni, lavoriamo per questo, e riteniamo di non avere a disposizione tutti gli strumenti per farlo in maniera adeguata”. Lo stesso Nordio è pronto ad ascoltare i propri ex colleghi. Chi ha avuto modo di sentirlo nelle ultime ore, spiega come il guardasigilli speri di non assistere a “polarizzazioni ideologiche” e intenda proporre di nuovo, all’Anm, di far parte dei gruppi di lavoro che andranno a scrivere le leggi attuative della separazione delle carriere, qualora passasse il referendum, sempre in un’ottica di cooperazione. “Spero che un clima di dialogo si crei già prima dell’attuazione della riforma, cioè quando si andrà al referendum, in modo che non si arrivi a uno scontro frontale, nel quale avrebbe da perdere solo l’Italia”, ha detto venerdì scorso il titolare della Giustizia al convegno “La magistratura nel disegno costituzionale. I vari progetti di modifica”, promosso dalla “Sezione autonoma magistrati a riposo” della stessa Anm. Non si è trattato del primo richiamo a un abbassamento dei toni e alla mano tesa per lavorare proficuamente insieme. Nordio lo aveva già rivolto un mese fa all’incontro sullo stesso tema organizzato da Noi Moderati. “Adesso aspetteremo il referendum e auspico - aveva detto il ministro - che vi si arrivi con la stessa serenità con cui stiamo discutendo oggi (eravamo a marzo, ndr), utilizzando argomentazioni tecniche, senza pregiudizi o slogan. Chiunque perda non dovrà essere umiliato”. Un self- restraint in parte dovuto al fatto che, come venerdì scorso, accanto al guardasigilli c’era il presidente Anm Cesare Parodi, con il quale Nordio ha intavolato un dialogo franco ma cordiale. Secondo altri osservatori, però, il ministro preferisce un atteggiamento più prudente anche perché è consapevole di non avere affatto la vittoria in pugno. Che oggi non ci dovrebbero essere particolari intoppi tra le due parti lo fanno intendere non solo le tematiche che si andranno ad affrontare, non originariamente divisive, e le dichiarazioni pre- incontro, ma anche il fatto che in questo momento è Alfredo Mantovano la figura con cui l’Anm avverte la contrapposizione più netta. Qualche giorno fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf, il sottosegretario alla Presidenza aveva parlato di “funzione giudiziaria che deraglia dai propri confini”, di magistratura che vuole farsi “establishment”, di “aggiramento della volontà popolare” soprattutto in “materia di immigrazione”. Un innalzamento dello scontro che aveva spinto l’Anm a ribattere con un comunicato secondo cui i “magistrati applicano norme, non fanno politica”. Nordio invece, a parte qualche battuta sulle responsabilità dei giudici rispetto al sovraffollamento, tende sempre a un approccio più dialogante, come si è visto. Oggi riprende anche il “tour” delle toghe tra i partiti: alle 17 l’Anm incontrerà i capigruppo di Fratelli d’Italia alla Camera e al Senato. Lo scopo è sempre quello di segnalare le criticità della riforma costituzionale. È previsto invece a maggio l’incontro con Forza Italia e con Noi Moderati. Ancora nessun riscontro, all’invito rivolto dal sindacato dei giudici, da parte di Lega e Azione. Mantovano e Giuffrè vogliono giudici ibernati: il loro bavaglio straccia la Costituzione di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2025 Non è la separazione delle carriere la vera minaccia che incombe sui giudici. C’è molto, ma molto di più in arrivo dal governo Meloni. Un progetto che dissolve la Costituzione e straccia l’attuale assetto dello Stato. Per chi crede nella Carta entrata in vigore il primo gennaio del 1948 si tratta di una sovversione profonda. Che evoca una parola forte, una minaccia istituzionale. Che, per la sua enorme portata, non può tradursi solo in una strisciante manovra legislativa, ma dovrebbe passare per il Parlamento. Che accade? E dove sono i segnali che rivelano le intenzioni del governo? Due evidenze sono già sul tavolo. A partire dall’intervento di Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla Presidenza che ancora veste la toga, di fronte alla platea del Consiglio nazionale forense. Da leggere e meditare riga per riga. Un vero manifesto anti-giudici, pensato, scritto e letto da un magistrato che scatena gli avvocati e rivela l’obiettivo recondito delle leggi meloniane sulla giustizia, togliere progressivamente ai giudici il potere d’interpretare le leggi, costringendoli a essere solo “la bocca della legge”, applicata con un copia e incolla, negando qualsiasi aggancio con le Corti europee. In questa strategia non è certo un caso se il ministro della Giustizia Carlo Nordio sia proprio un ex magistrato. Perché egli stesso rappresenta la mutazione genetica di una toga, il suo sganciamento dalla Costituzione, il suo diventare cieco e obbediente al potere politico. La prova? Ce sono almeno due in bella evidenza. Il caso Delmastro, quando Nordio glissa clamorosamente sulla sua rivelazione delle carte riservate di via Arenula nel caso Cospito. E il caso Almasri, quando non solo Nordio dimentica le leggi italiane, ma pure quelle che legano il nostro Paese alla Corte penale internazionale dell’Aja. Nordio è l’ex pubblico ministero ridotto a un mutante che incarna il futuro magistrato sottoposto al potere politico. ?Ce ne sarebbero di passaggi da citare nell’intervento di Mantovano davanti agli avvocati, ma ne basta uno. L’attacco a quella che il sottosegretario definisce la “giurisprudenza creativa”, e cioè un “aggiramento della volontà popolare attraverso la strada giudiziaria, con la creazione delle norme per via giurisprudenziale, la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo, la selezione per sentenza di chi deve governare”. Insomma: “La tendenza delle Corti a incidere direttamente sulla rappresentanza degli elettori”. E per usare ancora le sue parole “l’interdizione per via giudiziaria dell’azione di governo su materie politicamente sensibili”. E poiché il sottosegretario si è reso conto che tutti i giudici, e non certo solo le “toghe rosse”, applicano le leggi interpretandole, parla di un “ormai cronico sviamento della funzione giudiziaria che deraglia dai propri confini e decide, insieme alle norme, le politiche sui temi più sensibili e chi quelle politiche deve applicare”. I giudici dunque vanno ibernati. Chiusi nei loro uffici. Isolati dalla società a cui appartengono. Privati del loro diritto di essere anche cittadini italiani. Ed è pronto all’ordine di scuderia il consigliere laico del Csm Felice Giuffrè, che ovviamente fa parte della squadra dei meloniani. Eccolo chiedere ai colleghi di palazzo Bachelet di occuparsi subito delle “linee guida sulla partecipazione dei magistrati a eventi pubblici” ovviamente negandone la possibilità. Che viene sacrificata sul falso altare del “rispetto dell’interesse costituzionale alla garanzia del prestigio, della credibilità, dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura”. È il manifesto che annuncia il futuro giudice “muto”, ibernato per sempre nella sua toga. Inutilmente l’ex pm Nello Rossi, in uno “spillo” su Questione giustizia (la rivista di Md), gli ricorda che esiste la Costituzione a garantire i diritti di tutti, giudici compresi. Ma il team di Palazzo Chigi vuole altro. Giudici addomesticati e obbedienti alla politica come nei paesi autoritari. Ne abbiamo di esempi in Europa. I modelli sono quelli. E dunque, se va avanti così, addio alla Costituzione italiana. L’antimafia dei “buoni” contro i “cattivi” che osano criticarla: il dogma manicheo sulle misure di prevenzione di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 15 aprile 2025 Dalle pagine del Fatto Quotidiano del 2 aprile scorso, il Dottor Luca Tescaroli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato, lamentava l’esistenza di una continua, a suo dire, campagna di “demonizzazione” delle misure di prevenzione, ad opera di “media politicamente orientati”, di esponenti dell’Accademia e dell’Unione delle Camere Penali, accomunati da una “diversa sensibilità” rispetto alla pericolosità del patrimonio illecitamente accumulato. L’articolo, come ogni fonte scritta, dice molto dell’autore e del suo modo di ragionare e argomentare: esisterebbe una non meglio precisata parte politica, che muoverebbe i fili di una informazione partigiana, interessata a demolire il sistema di prevenzione nostrano. Spalleggiata non da tutta l’Avvocatura, ma solo dall’Unione Camere Penali, oltre che da esponenti dell’Università. Tutti complici nell’opera mefistofelica di osteggiare la lotta alla mafia e ai mafiosi in generale. E poi, dall’altra parte, ci sono martiri dell’Antimafia come Rocco Chinnici e Pio la Torre; la stampa “buona”, che ospita l’intervento del Dottor Tescaroli; la Corte EDU, che avrebbe dato il suo imprimatur alla prevenzione e l’Europa tutta, che quel sistema chiederebbe a gran voce di far proprio. Insomma, tutto il male da una parte e tutto il bene dall’altra, secondo quella visione manicheistica del mondo, a volte infantile e a volte soltanto malevola, alla quale tante uscite simili a quella del Dottor Tescaroli ci hanno da tempo abituato. Ovviamente, a discapito della verità, come si avverte sin dal titolo dello scritto. “Confisca ai mafiosi: in Europa è gradita, in Italia è osteggiata”. Per comprendere quanto sia fuorviante la continua evocazione, dai contorni ossessivi, della lotta alla mafia, basta notare che l’autore dell’articolo cita, a proprio sostegno, una recente sentenza della CEDU nella quale il ricorrente non era stato ritenuto mafioso, ma un cosiddetto “pericoloso generico”. Sarebbe arrivato il momento di ricordare all’opinione pubblica, invece di continuare ad avvelenare i pozzi, che la prevenzione colpisce molto più spesso i presunti “criminali comuni”, piuttosto che gli altrettanto presunti mafiosi. Il refrain mafiologico è, dunque, né più né meno del piffero di Hamelin, a seguire il quale, prima o poi, finiremo tutti in rovina. Uomini e topi. È l’evocazione del male maggiore, che serve a giustificare lo “stato di eccezione” costituito dal sistema di prevenzione che consente - per come è oggi - di trattare tutti i reati lucrogenetici, ai fini della confisca di prevenzione, come i delitti di mafia e terrorismo, secondo una mentalità securitaria e retriva. Senza neanche considerare che ci sono limiti alla pretesa sanzionatoria pubblica (ad esempio, il giudicato assolutorio) che non possono essere ignorati, come purtroppo è invece avvenuto nella vicenda dei signori Cavallotti. Non è poi vero, come sostiene il Dottor Tescaroli, che l’Europa ci invidia la prevenzione e stia legiferando ispirandosi alla normativa nazionale. Anche l’ultima direttiva comunitaria, infatti, pur ammettendo la “confisca senza condanna”, la limita, ordinariamente, ai casi in cui nelle more di un procedimento penale che si sarebbe verosimilmente concluso con una condanna, si verifichi la malattia, la fuga o il decesso dell’indagato/ imputato, oppure spirino i termini di prescrizione per il reato. Nella eccezionalità, ai casi in cui, comunque i beni da confiscare siano “identificati nel contesto di un’indagine connessa a un reato”. Un sistema molto più rigido, dunque, rispetto a quello vigente in Italia. Nella recente sentenza “Garofalo/Italia”, che il Dottor Tescaroli ha invocato a giustificazione in sede europea della confisca di prevenzione, la Corte, oltre ai principi ricordati nell’articolo, ne afferma un altro, che l’autore dimentica di segnalare: l’ablazione di prevenzione può non essere considerata pena, ma sanzione amministrativa ripristinatoria, nella misura in cui riguardi il profitto del reato e non il prodotto o il prezzo. Ma, basta leggere il Testo Unico Antimafia per constatare che la confisca italiana riguarda “il frutto” e, quindi, sia il profitto, che il prodotto, che il prezzo! Infine, davanti al consueto richiamo a chi ha perso la vita nel contrasto alla mafia - che sposta il confronto dal piano giuridico/ secolarizzato a quello dogmatico/ integralista - ci piace rispondere con le parole di un giurista e magistrato, che non ha mai tradito la propria onestà intellettuale e ha sempre denunciato certe derive autocratiche dell’establishment dell’antimafia. “È sempre dietro l’angolo il rischio ricorrente di fare a meno del processo penale o di cercare vie alternative, in poche parole di by- passarlo. Si dice che il processo penale ha consentito di realizzare alcuni risultati, per esempio, nei confronti di alcuni individui singoli o associati ma non ha inciso in modo apprezzabile sul fenomeno criminale nel suo insieme. E quindi risorge l’idea di porre l’accento sulla strategia delle misure di prevenzione come alternativa più efficace rispetto al processo penale. Debbo dire con chiarezza che noi pecchiamo di memoria storica. Da quando sono entrato in magistratura, ho sentito come una cantilena ricorrente il fatto che le misure di prevenzione - e su questo concordo in pieno - sono un mezzo antidemocratico, e che il vero luogo della punizione del responsabile è il processo penale. Che le misure di prevenzione hanno esportato la delinquenza in Italia, che sono necessariamente un doppione rispetto al processo penale e sono soprattutto in funzione vicariante quando non si sono raggiunte sufficienti prove di responsabilità. Rispetto a fatti di assoluta modernità, pensare di adottare strategie di contrasto con strumenti vecchi e obsoleti e, soprattutto, che costituiscono un unicum in tutto il sistema giudiziario occidentale è una strategia già perdente che non serve a nulla. Serve soltanto a creare ancora una volta dei martiri dello Stato, delle persone che affermano di aver subito delle profonde ingiustizie e, in buona parte, è anche vero, perché questo avviene quasi sempre con le misure personali e anche adesso con le misure patrimoniali” (Giovanni Falcone nel proprio intervento al convegno “Lotta alla criminalità”, Roma, 14 dicembre 1990). La memoria dei martiri della mafia è anche questa, non dimentichiamolo. *Osservatorio Misure di prevenzione e patrimoniali UCPI Macché scarcerato, Graziano Mesina è morto in galera di Frank Cimini L’Unità, 15 aprile 2025 Il reparto detenuti del San Paolo non è un ospedale: è una prigione. Il sì alla scarcerazione è arrivato quando non era più trasportabile. Purtroppo non è chiaro a leggere giornali e seguire i telegiornali. Graziano Mesina è morto in carcere, perché il reparto detenuti del San Paolo dove era stato trasferito da tempo è una prigione non un ospedale, non c’è stata nessuna scarcerazione per effetto della decisione del magistrato di sorveglianza. L’hanno ammazzato in carcere tenendolo dentro fino alla fine e per giunta nelle stesse ore in cui Mattarella firmava il decreto sicurezza, decisione scontata che toglie ulteriori diritti ai detenuti. Ucciso da un sistema criminale e criminogeno. Il sì era arrivato alla settima istanza. Alle sei precedenti richieste di differimento pena e scarcerazione i magistrati avevano risposto insistendo sullo stato di “persistente pericolosità” dell’ex re del Supramonte. Cioè di una persona che non poteva più camminare, non riusciva a mangiare, non riconosceva gli altri. Il sistema ha continuato ad applicare la pena a qualcuno che non era più lui sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista mentale. Un vero e proprio accanimento contro chi non c’entrava più niente con la persona che aveva commesso i reati, dai sequestri a scopo di estorsione, agli arresti, al traffico di droga alle evasioni. L’autorizzazione alla scarcerazione era arrivata quando Graziano Mesina non era più trasportabile. Infatti è deceduto. Secondo i suoi avvocati i giudici avrebbero dovuto fare da tempo quello che inutilmente hanno fatto alla fine lasciandolo nel reparto penitenziario del San Paolo, lo stesso dove era stato torturato Alfredo Cospito durante il lunghissimo sciopero della fame che sta pagando ancora adesso per aver sfidato il regime del 41bis, non tanto per sé ma per altri 700 reclusi. C’è un criminale seriale: lo Stato di Sergio D’Elia L’Unità, 15 aprile 2025 La Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro paese per attentato al diritto alla vita e per tortura. Il caso più recente chiama in causa il 41bis: che per Giuseppe Morabito è degradato al livello di punizione “crudele e inusuale”. In due settimane tre condanne della Corte Europea nei confronti dell’Italia. E non per reati minori, ma per quelli più gravi che esistano nel “codice penale” di risulta delle violazioni dei più basilari diritti umani che uno stato può compiere nei confronti di un suo cittadino. In quindici giorni, l’Italia è stata condannata tre volte. Una volta per la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea che tutela il diritto alla vita. Altre due volte per la violazione dell’articolo 3 che vieta la tortura, le pene e i trattamenti inumani e degradanti. In un anno, il 2024, per quanto riguarda le violazioni accertate e le sanzioni comminate, sono state quattro le sentenze di condanna nei confronti dell’Italia per la violazione del divieto di tortura (art. 3), venti le condanne per lesione del diritto a un processo equo (art. 6) e ben ventidue quelle comminate per violazione del diritto di proprietà (art. 1 prot. 1). Se l’Italia fosse un cittadino comune e non uno stato sovrano, sarebbe un soggetto dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza e automaticamente esposto anche ai suoi effetti secondari, come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Cagionare la morte di una persona, torturare o maltrattare un detenuto sono “fatti più rari tra i rari” che in molte parti del mondo prevedono le condanne più severe. La pena di morte sulla forca nei paesi che non l’hanno ancora abolita, la pena fino alla morte in una sezione del 41 bis che ancora vige nel nostro paese. Gianfranco Laterza aveva lavorato all’ILVA di Taranto dal 1980 al 2004. Era morto nel 2010 per un tumore ai polmoni molto probabilmente causato dalla sua prolungata esposizione sul posto di lavoro ad amianto e altre sostanze tossiche utilizzate nella produzione dell’acciaio. Sarebbe stato sufficiente, non dico entrare a respirare a pieni polmoni l’aria degli altiforni, ma vedere solo intorno allo stabilimento i cigli delle strade e i muri delle case colorate di rosa e le piante sofferenti che invocano acqua e aria pulite, per stabilire l’impatto del mostro industriale sull’ambiente e la vita umana. La giustizia italiana aveva archiviato il caso, quella europea l’ha riaperto, ha accolto il ricorso dei parenti della vittima e ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione, sotto l’aspetto procedurale. Simone Niort è un ragazzo di 28 anni di Sassari in carcere da quasi dieci anni, passati quasi tutti in una cella “liscia” o di transito del carcere, isolato, senza svolgere attività educative, senza ricevere cure adeguate. Una storia travagliata quella di Simone, segnata da disturbi psichiatrici e dipendenza da sostanze fin dall’infanzia. Una storia comune ad altri mille ragazzi che vediamo nelle celle d’isolamento delle sezioni più isolate e sotterranee delle carceri, i bassifondi manicomiali del sistema carcerario italiano. Simone, come gli altri, una volta in carcere, ha iniziato la sua pratica quotidiana di tagli sul corpo autoinflitti, delle parole urlate e senza senso, dei continui tentativi di farla finita. Accogliendo il ricorso degli avvocati Marco Palmieri, Antonella Mascia e Antonella Calcaterra, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accusato lo Stato italiano di non aver valutato la compatibilità dello stato di salute con la detenzione e ha riconosciuto la sua responsabilità per la violazione del diritto alla salute e alle cure mediche di Simone Niort. La terza condanna, la più recente, chiama in causa il 41 bis, un regime strutturalmente di tortura, inumano e degradante. Un regime che, nel caso di Giuseppe Morabito, è degradato al livello più basso della condizione umana, di punizione “crudele e inusuale” che anche nei regimi della pena di morte, una volta raggiunto, ne certifica l’incostituzionalità giuridica oltre che l’insostenibilità, puramente e semplicemente, umana. Giuseppe Morabito ha oltre 90 anni e da oltre 20 è chiuso al 41 bis nel carcere di Opera a Milano. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver continuato a tenere in regime di isolamento un uomo novantenne divenuto nel corso della pena non più capace di intendere e di volere. Incapace di intendere il senso della sua pena, lo spazio in cui si trova, da quanto tempo lì si trova, perché lì si trova. Incapace di volere nulla, forse, neanche di continuare a vivere. L’Italia continua a dire che il carcere duro e l’isolamento servono per impedire i collegamenti tra i mafiosi carcerati e i mafiosi in libertà. Adita con successo dall’avvocato Giovanna Beatrice Araniti, che ha rappresentato Morabito, la Corte europea ha condannato l’Italia non solo per la sua carenza di senso di umanità nei confronti di un detenuto ma anche per la mancanza del più elementare buon senso. Nella sentenza si specifica che “la Corte non vede come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo - e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer - e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere - in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo - contatti significativi con un’organizzazione criminale”. Il regime del 41 bis è innanzitutto un sistema simbolico, un cimitero monumentale, circondato da muri invalicabili, con tombe di morti viventi e lapidi con nomi che richiamano vicende d’altri tempi, ormai finite ma che non finiscono mai. Il regime italiano dell’antimafia non prevede la fine della mafia né la redenzione del mafioso. La mafia non muore mai, pena la fine dell’antimafia stessa. Il mafioso resta tale per sempre, finisce di essere mafioso solo da morto. In attesa della morte, viene sepolto vivo nelle sezioni del “carcere duro” dove la perdita dei sensi e dei sentimenti umani fondamentali si aggiunge a quella della libertà e diventa vera e propria pena corporale. Le sezioni del “carcere duro” sono diventate istituti per ciechi, sordomuti, sdentati, stazioni terminali per malati terminali: di cuore, di cancro, di mente, di tutto. Mentre scrivo giunge la notizia della morte di Graziano Mesina, l’ex bandito sardo dei sequestri di persona e delle evasioni spettacolari. Era già malato di tumore e non proprio pienamente in sé quando l’ho incontrato l’ultima volta due anni fa nella sezione di alta sicurezza del carcere di Opera. È dovuto giungere allo stato terminale della sua malattia e della sua vita per riuscire nella sua ultima, innocente evasione dal carcere. È stato portato in ospedale, ormai incapace anche di parlare, il giorno prima della sua morte, a 83 anni. Con lui è morta la pietà, la giustizia ha perso la grazia. Quel che resta è la crudeltà del potere, la corporale, medievale certezza della pena invocata a ogni piè sospinto dagli analfabeti costituzionali del nostro tempo. Il detenuto ha diritto di farsi curare in carcere dal proprio medico e a sue spese di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2025 La condizione ostativa è costituita dalla circostanza che l’iniziativa dell’imputato possa avere un’incidenza negativa sugli accertamenti processuali. Il detenuto ha diritto di farsi curare in carcere da un medico di propria fiducia e a proprie spese. L’unica condizione ostativa è costituita dalla circostanza che l’iniziativa dell’imputato possa in qualche modo avere un’incidenza negativa sugli accertamenti processuali in corso. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 14774/25. La Corte d’appello - Venendo ai fatti un detenuto ha proposto ricorso contro l’ordinanza 28 novembre 2024 della Corte d’appello di Milano che ha rigettato l’istanza con la quale il detenuto aveva chiesto di essere visitato a proprie spese da un odontoiatra di sua fiducia, evidenziando la necessità di sottoporsi a cure odontoiatriche. La Corte d’appello ha rilevato la genericità dell’istanza in ordine alla natura delle cure da svolgere e all’effettiva praticabilità del relativo intervento in ambito carcerario. Contro la sentenza il detenuto ha proposto ricorso in Cassazione. Il soggetto in particolare ha evidenziato che con la sentenza di merito sarebbe stato violato l’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario (Servizio sanitario). Secondo i Supremi giudici, quindi, il ricorso deve essere accolto per la fondatezza della questione inerente la competenza funzionale a decidere sull’istanza. La sentenza della Cassazione - I Supremi giudici hanno rilevato che i detenuti e gli internati possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia. In particolare possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da parte di sanitari e tecnici di fiducia nelle infermerie o reparti clinici e chirurgici all’interno degli istituti, previ accordi con l’azienda sanitaria competente. Quindi i detenuti e gli internati possono chiedere di essere visitati a proprie spese da un medico di fiducia senza che ricorrano limiti o condizioni. L’unico stop alle visite mediche in carcere è costituito dall’ipotesi in cui l’iniziativa dell’imputato possa in qualche modo avere incidenza negative sugli accertamenti processuali in corso. Per concludere i Supremi giudici, non avendo ravvisato nel caso concreto cause ostative alla vista medica, hanno annullato l’ordinanza impugnata. Genova. Lontano dagli occhi di Redazione Ristretti Marassi Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2025 La notizia dello spostamento del carcere provoca in noi un pensiero negativo che alimenta lo sconforto e crea un senso d’incertezza ulteriore. Quando i nostri familiari affrontano lunghi viaggi per venirci a trovare, proviamo sempre ansia e, se dovessero raggiungere un luogo non collegato con i mezzi pubblici e con una salita da fare a piedi, il disagio diventerebbe insostenibile. “Carcere, appello della direttrice di Marassi: “Meglio resti in centro, è più raggiungibile” (Il Secolo XIX, Silvia Pedemonte, 20.03.2025). “Il garante regionale dei detenuti Doriano Saracino contatterà il Ministero di Giustizia e il commissario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio per chiedere ulteriori chiarimenti sull’ipotesi dello spostamento del carcere di Genova da Marassi alle aree ex Colisa: è questo che emerge dall’incontro tra il garante stesso, il suo omologo genovese Stefano Sambugaro e il sindaco facente funzioni Pietro Piciocchi, accompagnato dai tecnici del Comune. La competenza del progetto (che, è bene sottolinearlo, ancora non è partito: siamo nel campo delle ipotesi) è tutta del Ministero, mentre al Comune spetta il compito di indicare l’area, per cui i due enti sono ancora in fase di interlocuzione.” (di Riccardo Oliveri, 27.03.2025, Telenord.it) “Una visita che ha fatto emergere le criticità di un carcere alle prese con le croniche mancanze di spazio, ma che nel panorama nazionale si distingue per la qualità dei servizi sanitari e delle attività sociali. Un dato che, secondo i deputati dem, è legato alla vicinanza con la città e le sue infrastrutture, cosa che lo rende peculiare: “Non va spostato, come vuole qualcuno, ma va migliorato, i margini ci sono tutti. Il sovraffollamento è dovuto soprattutto all’inasprimento delle pene voluto dai governi di destra, che hanno depotenziato le pene alternative” (Genova 24, 28.03.2025) “L’assessore al porto e patrimonio Maresca entra nel dibattito relativo allo spostamento del carcere di Marassi: “Il carcere di Marassi va spostato e dobbiamo trovare una collocazione fuori da Genova. L’area deve essere restituita alla città, bisogna fare una progettazione condivisa con la cittadinanza. Una condivisione che potrebbe ricomprendere uno spazio verde aperto ai cittadini, ai giovani e agli artisti.” (Genova 24, 29.03.2025) La notizia dello spostamento del carcere provoca in noi un pensiero negativo che alimenta lo sconforto e crea un senso d’incertezza ulteriore. Quando i nostri familiari affrontano lunghi viaggi per venirci a trovare, proviamo sempre ansia e, se dovessero raggiungere un luogo non collegato con i mezzi pubblici e con una salita da fare a piedi, il disagio diventerebbe insostenibile. I nostri congiunti arrivano portando grandi pacchi contenenti cibo e vestiario e non tutti possono permettersi di arrivare in macchina. Inoltre, tra i nostri cari ci sono genitori anziani, bambini e neonati, che subirebbero un grande disagio nel raggiungere un carcere fuori città, dislocato in periferia, in un’area poco accessibile, con fermate dell’autobus lontane e lunghe attese tra una corsa e l’altra. Già siamo emarginati, ai confini, e un trasferimento significherebbe scomparire del tutto agli occhi della città. Essere collocati tra i palazzi del quartiere di Marassi ci fa sentire in qualche modo parte di qualcosa, inclusi. Dalle finestre vediamo le case del quartiere circostante, sentiamo il rumore delle macchine e i suoni della città che ci accompagnano scandendo i ritmi della notte e del giorno. Quando andiamo al campo del carcere a giocare a calcio il lunedì e il giovedì, possiamo sentire anche le voci delle altre persone che ci ricordano l’esistenza di una vita normale e in qualche modo ci motivano, facendoci pensare che, se i suoni della libertà sono così vicini, forse possiamo ancora raggiungerli. La domenica il quartiere si risveglia con l’arrivo dei tifosi e i loro tamburi, le urla, i petardi ci richiamano al “fuori”, ai piccoli entusiasmi che fanno sentire vivi. I boati provenienti dallo stadio a ogni gol segnato ci riportano alla realtà: diventiamo partecipi e tifiamo insieme agli altri, anche se separati da poche centinaia di metri. Sentirci “vicini” alla vita della città ha per noi un peso psicologico non indifferente, che ci aiuta a resistere, a ripensarci, a desiderare di ricominciare. Inoltre, siamo il primo carcere italiano ad aver ospitato un vero teatro al suo interno, nello spazio dell’”intercinta”, il cortile che separa le mura del carcere dalle aree detentive. Il Teatro dell’Arca, realizzato con la partecipazione dei detenuti dal 2013 al 2016 e gestito dall’associazione Teatro Necessario, ha permesso in questi anni alle persone detenute di cimentarsi in percorsi teatrali, sperimentando capacità e talenti che sarebbero rimasti sconosciuti, risvegliando emozioni e autodeterminazione altrimenti impensabili. Non sono tanti i compagni che riescono a seguire questo percorso, ma per noi, per tutti gli altri, sapere che loro, gli “attori ristretti”, recitano davanti a un pubblico esterno portando la nostra “voce” ci fa sentire rappresentati, ci conferisce un valore sociale. Al Teatro dell’Arca vengono messi in scena anche molti spettacoli di compagnie esterne e siamo convinti che, per i cittadini, venire al nostro teatro, entrare dentro le mura di cinta con il sorriso, “avvicinarsi” fisicamente all’istituto, alzare gli occhi e scorgere le finestre sbarrate possa accompagnare il loro pensiero verso il nostro stato detentivo e magari indurli a riflettere sul fatto che qui dentro ci sono persone viventi, senzienti, per lo più colpevoli, ma in grado di cambiare. Tutto questo potrebbe essere barattato con un istituto nuovo, più funzionale, con più aree verdi e spazi strutturati. Chissà, forse costruirebbero finalmente le tanto agognate stanze dell’affettività... Ma perché non pensare a una riqualificazione del carcere esistente? Nel 1902, quando ancora il concetto di reinserimento e risocializzazione era inconcepibile, il carcere di Marassi è stato costruito all’interno della città di Genova, come organismo pulsante della stessa. Oggi, con una coscienza sociale più evoluta e ormai consapevole che la devianza sia un prodotto della società e che chi la commette debba essere inserito in percorsi educativi, siamo convinti che il carcere debba far parte del pensiero collettivo. Non importa dove sia ubicato, in quale quartiere, a quale fermata di autobus, vorremmo solo che rimanesse “visibile” e non cadesse nell’oblio. Roma. Interrogazione al Ministro sul detenuto in coma per una meningite contratta in carcere di Mauro Cifelli romatoday.it, 15 aprile 2025 Il 40enne si trova ancora in coma, in condizioni stazionarie, nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Spallanzani. I familiari hanno ottenuto la possibilità di poterlo vedere. Dalle 14:30 alle 16:30. Questo il tempo concesso dal giudice, su richiesta dell’avvocato difensore, a mamma Anna, a papà Mario e a Valentina, sorella di Tiziano Paloni, per poter stare accanto a lui - dietro al vetro del reparto di terapia intensiva - con la speranza di vederlo uscire dal coma e ristabilirsi. Tiziano Paloni, 40enne romano, ricoverato d’urgenza al reparto malattie infettive dell’ospedale romano dopo aver contratto una meningite neisseria nel carcere romano di Regina Coeli dove era detenuto in attesa di giudizio. Una situazione critica quella del 40 del Prenestino Labicano, che dopo aver accusato un malore nella casa circondariale di Trastevere è stato trasportato all’ospedale Sant’Eugenio. Arrivato nel nosocomio in coma è stato poi trasferito d’urgenza allo Spallanzani, “dove lotta fra la vita e la morte” dallo scorso 7 aprile. Avviata una profilassi dalla Asl Roma 1 per scongiurare altri contagi il caso di Tiziano è diventato un caso nazionale. La senatrice Ilaria Cucchi - Un caso di cui si sta interessando anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto nel 2009 in seguito alle percosse subite dopo essere stato arrestato per droga. Senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra che in una nota dichiara: “Da organi di stampa abbiamo appreso che Tiziano Paloni, quarantenne romano detenuto in attesa di giudizio a Regina Coeli a Roma, è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Santo Spirito dove è arrivato in coma e successivamente è stato trasferito all’ospedale Spallanzani. Da quanto risulta Tiziano Paloni è stato colpito da una forma grave di meningite batterica e le sue condizioni sono stazionarie. Tutto questo è avvenuto all’oscuro della sua famiglia che non è stata minimamente avvisata di quanto stava succedendo. Addirittura la sorella del detenuto ha dichiarato di aver ricevuto una chiamata da un familiare di un altro detenuto che li avvisava del trasferimento in ospedale”. Interrogazione al ministro della Giustizia - Da qui la presentazione di una interrogazione al ministro della Giustizia del governo Meloni Carlo Nordio: “Nessuno si è degnato di avvisare i familiari delle condizioni del detenuto e, solo dopo l’intervento dell’avvocato, la famiglia ha potuto conoscere l’ospedale in cui era stato ricoverato. Una cosa gravissima e un segnale dell’inumanità che sono diventate le carceri del nostro Paese - prosegue la nota della senatrice Ilaria Cucchi -. Ho presentato un’interrogazione a Nordio per fare piena luce sul caso e per chiedere come sia stato possibile che si sia sviluppato un caso di meningite in carcere. Ho inoltre chiesto al ministro se ci sia un regolamento che preveda di avvisare i parenti sulle condizioni di salute dei detenuti e sui ricoveri fuori struttura, per conoscere se fosse presente personale medico competente e se l’assistenza sanitaria e i soccorsi per il signor Paloni siano stati tempestivi. I detenuti hanno diritto ad un trattamento sanitario efficiente. Il diritto alla salute non si può fermare sulla soglia del carcere”. Gravi carenze e sovraffollamento - A denunciare l’accaduto anche il responsabile Ufficio di scopo Giubileo delle Persone e Partecipazione di Roma Capitale Andrea Catarci: “L’episodio - dice Catarci - evidenzia una volta di più le gravi carenze dei servizi sanitari negli istituti penali che, aggravate dal sovraffollamento e dalla riduzione del ricorso alle pene alternative, mettono a rischio sia la salute delle persone ristrette che quella del personale interno”. “Nell’esprimere la nostra vicinanza alla persona detenuta e ai familiari, auspichiamo un pronto miglioramento delle sue condizioni di salute”. La famiglia di Tiziano Paloni - Famiglia di Tiziano Paloni, finito in carcere per sostanze stupefacenti, che continua a stare vicino al suo “ragazzo”. “Preghiamo di poterlo riabbracciare ogni momento - le parole di mamma Anna al nostro giornale -. La situazione è ancora critica ma non lo lasciamo solo. Siamo sempre al fianco del nostro Tiziano”. Famiglia Paloni che in attesa di poter riabbracciare il proprio caro si è affidata all’avvocato Fabio Harakati che dopo aver ottenuto dal giudice per le indagini preliminari Paola Petti l’autorizzazione per tre familiari del 40enne di poterlo assistere in via permanente sino a che sussiste il ricovero, ha ottenuto dallo Spallanzani l’attestato di presenza del suo assistito. Nosocomio del Portuense dove - dopo il trasferimento di Tiziano Paloni - è arrivata anche sia il quadro clinico che la cartella clinica dell’infermeria del carcere di Regina Coeli e dell’ospedale Santo Spirito, con l’avvocato Harakati in attesa di poterla visionare e acquisire, dopo aver fatto richiesta al Gip. Bologna. “Suicidi, alla Dozza situazione grave” di Ludovica Addarii incronaca.unibo.it, 15 aprile 2025 Il Garante Iannello denuncia: “Bisogna fare di più”. Nel 2024 primo caso femminile dopo anni. “La situazione dei suicidi in carcere è grave, il numero complessivo è stato di certo fra i più drammatici”, commenta il garante dei detenuti di Bologna Antonio Iannello il giorno dopo la pubblicazione dei dati della relazione annuale sulla situazione delle carceri in Emilia-Romagna nel 2024. “Anche nel locale carcere bolognese si sono verificati due sconcertanti eventi di questa natura, uno dei quali presso la sezione femminile dove non si ricordavano da anni gesti di questa tragicità”. Nella regione sette persone si sono tolte la vita, a fronte dei 267 tentativi di suicidio, di cui 56 solo a Bologna. Il 2024 è stato definito l’anno dei record, dal momento che su tutto il territorio nazionale sono stati registrati 91 casi di suicidio. Anche quest’anno, purtroppo, la situazione non sembra migliorare: sono ancora troppi i detenuti negli istituti penitenziari italiani che fino ad ora si sono tolti la vita, più precisamente 20 nei primi due mesi e mezzo del 2025. Non è un dato che stupisce se messo in relazione con quelli dello scorso anno, quando nello stesso periodo se ne contavano 25, come riportato dal dossier “Morire di carcere”. Pur non stabilendo una causa-effetto diretta tra sovraffollamento e suicidi, il garante suggerisce che un contesto detentivo meno affollato e con maggiori risorse permetterebbe una migliore presa in carico delle persone fragili. La privazione della libertà personale tende ad accentuare la vulnerabilità delle persone che si trovano in questa condizione e lo Stato ha l’obbligo di assicurare a ogni persona privata della libertà personale condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. “È centrale il tema della prevenzione del rischio suicidario, già presente nel piano nazionale, ma è urgente elaborare strategie che possano rendere più incisiva la sua attuazione. Ogni sforzo possibile deve essere profuso per la cura della relazione con le persone detenute con l’obiettivo di costruire interventi concreti per presidiare le (non poche) situazioni che possono essere potenzialmente stressanti”, ribadisce Iannello. Tra i casi che richiedono una particolare attenzione, ci sono i primi giorni trascorsi in carcere, i giorni precedenti e successivi alle udienze e alla condanna per reati gravi, il rigetto di misure alternative, la diagnosi di gravi patologie, ma anche la dimissione dal carcere, soprattutto per chi ha trascorso lunghi periodi di detenzione e potrebbe non avere una rete sociale esterna che favorisca il reinserimento. Sono diverse le figure che svolgono un ruolo fondamentale per intercettare il disagio dei detenuti. Il personale di scorta, quello nelle aule di giustizia, familiari, difensori di fiducia e persino i magistrati durante gli interrogatori, sono in grado fornire informazioni utili sul loro stato emotivo-psicologico. Svolgono un ruolo decisivo, secondo Iannello, anche quelle figure non tecniche che a vario titolo hanno una presenza costante negli istituti di pena: “Già in altri territori i servizi sanitari del carcere hanno coinvolto alcune persone detenute, selezionate e formate, per assicurare una funzione di sostegno, con il compito di allertare i medici e gli operatori penitenziari quando sorgano situazioni di allarme circa lo stato emotivo-psicologico della persona in difficoltà. L’auspicio è che l’iniziativa possa essere avviata quanto prima anche presso la Casa Circondariale di Bologna”. Terni. Quasi tutto pronto per la stanza degli incontri intimi in carcere di Massimo Solani rainews.it, 15 aprile 2025 La casa circondariale di Terni potrebbe essere la prima in Italia a consentire ai detenuti di svolgere colloqui intimi con il proprio partner. Una data ufficiale non c’è ancora e anche se quella comunicata ai detenuti interessati, ossia il 19 aprile, dovesse slittare dopo l’emanazione delle linee guida diramate la scorsa settimana dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è chiaro che ormai si tratta di giorni. Anche perché, scaduto il termine di due mesi indicato dalle ordinanze con le quali il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, fra la fine di gennaio e i primi di febbraio aveva accolto i ricorsi di due ospiti della struttura di Sabbione contro il rifiuto opposto dalla direzione allo svolgimento di incontri privati con le rispettive compagne, il carcere ternano rischia ora la messa in mora. Per questo, la comandante della polizia penitenziaria Vanda Falconi e il direttore Luca Sardella, in attesa di ricevere dal Dap le risorse necessarie per la posa dei due moduli prefabbricati previsti, hanno allestito una stanza apposita in uno spazio, vicino alla cosiddetta sala magistrati dove avvengono gli interrogatori, di norma utilizzato per i colloqui fra i detenuti e gli avvocati. Lavori, eseguiti dai detenuti impegnati nelle squadre di manutenzione ordinaria del fabbricato, che hanno permesso di preparare un ambiente idoneo: climatizzato, dotato di un letto e servizi igienici. Gli incontri avverranno secondo le modalità che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha indicato nelle linee guida comunicate venerdì scorso a più di un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le norme sull’ordinamento penitenziario che vietano i colloqui intimi svolti senza la supervisione della polizia penitenziaria. Secondo il Dap, gli incontri (dai quali sono esclusi i detenuti al 41 bis e quelli in regime di sorveglianza particolare perché potenzialmente pericolosi) potranno avvenire una volta al mese, per una durata massima di due ore e in ambienti che non siano chiusi dall’interno. Milano. San Vittore, la direttrice: “Dico grazie ai 900 volontari che sostengono i detenuti” di Ilaria Dioguardi vita.it, 15 aprile 2025 C’è “un numero elevatissimo di detenuti, in larga maggioranza stranieri, molti giovani adulti. Pochi spazi, carenza di agenti. Mi sento di dover valorizzare quello che di positivo avviene all’interno del carcere, come tutte le esperienze di solidarietà, portate avanti dal non profit e dal privato sociale”. A parlare è Elisabetta Palù, direttrice reggente di San Vittore. A San Vittore “i detenuti sono circa 1.100, a fronte di 700 posti. La maggior parte sono stranieri, in aumento la presenza dei giovani adulti”. Le principali criticità da risolvere? “Il sovraffollamento e la mancanza di personale”. A margine di un’iniziativa di Regusto, attiva all’interno di San Vittore con un progetto di economia circolare, abbiamo dialogato con Elisabetta Palù, direttrice reggente della casa circondariale milanese da novembre 2024, dopo circa sei anni da vice direttrice dell’istituto di pena. Palù, ci spiega meglio com’è la situazione a San Vittore? È una struttura che ospita un numero elevatissimo di detenuti. Capisco che questa non sia una novità, però è un dato di cui tenere conto: ci sono oltre 1.100 detenuti, per una capienza di circa 700 posti. Il dato anche molto significativo è che la maggior parte dei detenuti, intorno al 70%, sono stranieri e per la maggior parte irregolari. Provengono prevalentemente dall’area del Maghreb, quindi Marocco, Egitto, Tunisia. Per quanto riguarda l’età dei detenuti? Un altro dato molto significativo è la presenza che, negli ultimi anni, si è intensificata dei giovani adulti, tra 18 e 25 anni, sono circa 200 i ragazzi di questa fascia di età. Sono ragazzi che hanno storie di gravissimi traumi, subiti soprattutto durante il percorso migratorio, e che sono senza riferimenti familiari sul territorio, hanno strumenti relazionali molto limitati e, quindi, una tendenza alla conflittualità molto alta. Questo fa sì che, soprattutto per questi detenuti stranieri, venga a mancare il soddisfacimento dei bisogni primari, quali avere la dotazione di abbigliamento adeguata, avere la disponibilità di tabacco, che non si può immaginare quanto in carcere sia uno strumento prezioso. Come si cerca di sostenere i bisogni primari di queste persone, che non hanno nessuno e che non hanno niente? Spesso ci rivolgiamo alle associazioni di volontariato che ci supportano da sempre. A San Vittore entrano oltre 900 volontari per portare un sostegno materiale e per l’assistenza morale verso questa popolazione detenuta che, essendo in una casa circondariale, è nel momento della vita in cui è in attesa del processo. Chi è a San Vittore non va seguito nel recupero dopo la sentenza di condanna perché, in molti casi, la sentenza di condanna ancora deve avvenire. E, come ci dice la nostra Costituzione, la presunzione di non colpevolezza vige fino alla condanna non definitiva. Del carcere purtroppo si parla sempre in termini negativi, rispetto agli eventi critici che si verificano e a tutto quello che è, purtroppo, l’elemento di difficoltà. Però mi sento di dover valorizzare quello che di positivo avviene all’interno del carcere, come tutte le esperienze di solidarietà che vanno sostenute e valorizzate. Dopo il decreto Caivano, c’è stato un aumento di presenze dei giovani adulti? Assolutamente sì. Noi abbiamo molti ragazzi che, appena compiono 18 anni, vengono trasferiti, assegnati all’istituto per adulti perché si sono resi protagonisti di eventi di violenza piuttosto che di importanti danneggiamenti e tentativi di evasione dall’istituto minorile. Di conseguenza, siccome il decreto prevede questa possibilità, l’amministrazione penitenziaria li trasferisce. Ed è complicato gestire ragazzi, magari poco più che diciottenni, in un carcere di adulti. Noi cerchiamo sempre di avere un occhio di attenzione verso di loro, di inserirli con priorità in attività trattamentali in modo da far sì che non maturi il loro un atteggiamento di risentimento, di rabbia che, poi, può sfociare in agiti di violenza o di scontro, anche col personale di polizia penitenziaria. Ma è molto difficile perché i ragazzi difficilmente si riescono ad ingaggiare nelle attività, mostrano un po’ di resistenza. Sono indolenti. Bisogna trovare delle attività mirate, calibrate sui loro interessi. Quali sono attività che sono di interesse per i giovani adulti, in carcere a san Vittore? L’anno scorso, grazie a dei finanziamenti, siamo riusciti ad avviare delle attività che gli hanno visti coinvolti e che hanno riscosso fortunatamente successo, tipo laboratori di rapper, di podcast, writing. Gradiscono anche le attività sportive. Lo sport, per chi ha problemi di barriera linguistica, diventa più appetibile, facilmente fruibile. Lavoriamo con un grosso impegno da parte di tutti gli operatori, sia dell’area trattamentale che della polizia penitenziaria. Ci sono gli spazi per fare attività sportive, a San Vittore? Ogni reparto è dotato di uno spazio all’aperto, dove prevalentemente vengono svolte le attività sportive come calcetto, rugby, pallavolo. Poi all’interno dei reparti abbiamo ricavato dei piccoli spazi dove sono allestite delle palestre, dove si recano a rotazione perché sono molto piccoli. Quali sono le difficoltà legate al sovraffollamento? Registriamo una media di 300 ingressi al mese. C’è un turnover elevatissimo a San Vittore. Le condizioni di sovraffollamento acquisiscono una situazione già difficile perché le persone che entrano, che spesso sono portatrici di gravi problematiche di dipendenza da farmaci, da sostanze, difficoltà psichiatriche, già nella condizione di restrizione aggravano le loro condizioni. Che sono ulteriormente aggravate dalla condizione di sovraffollamento, che non ci consente spesso nemmeno di fare delle scelte di opportuna distribuzione delle persone all’interno delle camere di pernottamento. Oltre alle difficoltà di condividere, in un’unica camera, un numero elevato di persone con un unico servizio igienico. Elisabetta Palù Su Vita più volte ci è stato raccontato che, nelle carceri, ci sono difficoltà a fare attività perché ci sono problemi di personale. Accade anche a San Vittore? Noi abbiamo un duplice problema. Intanto, ripeto, un problema di spazi, perché San Vittore nasce come carcere di fine ‘800 pensato solo per la custodia del detenuto, quindi non per tutto quello che è l’aspetto del reinserimento, riabilitativo e trattamentale che si definisce con l’ordinamento penitenziario del ‘75. Quindi non ha, nella sua costruzione originaria, spazi per attività. Di conseguenza gli spazi ce li siamo dovuti ricavare e, mi sento di dire, inventare. Abbiamo degli spazi che sono sottratti a camere di pernottamento, che sono state nel tempo destinate a spazi trattamentali, ma chiaramente sono assolutamente insufficienti. E il secondo problema? La fortissima carenza di personale. A noi mancano circa 150 agenti di polizia penitenziaria. Quindi, anche la sorveglianza nelle attività e soprattutto gli accompagnamenti (i detenuti per poter accedere alle attività devono essere accompagnati sul luogo) mettono a dura prova il personale. Nonostante questo, per una nostra cultura dell’istituto che si è sempre negli ultimi 20 anni sforzato di tenere in piedi queste attività, grazie anche a tutti gli operatori del privato sociale che accedono all’interno con tantissime progettualità, nonostante le difficoltà lo continuiamo a fare. Ma con grandi sforzi e non nella maniera da poter raggiungere nemmeno un numero adeguato di detenuti, perché molti non riescono ad accedere alle attività. Cerchiamo di fare un po’ di rotazioni, in modo da consentire almeno alla maggior parte di avere uno spazio di uscita dalla camera di pernottamento. Quali sono le criticità principali, nel carcere che dirige? Al primo posto, ridurre il sovraffollamento. Abbiamo sperimentato, con il Covid, che il sovraffollamento si era ridotto moltissimo. Durante la pandemia le persone circolavano di meno, e, quindi, si riducevano i reati e di conseguenza, gli arresti. Seppure all’epoca i detenuti erano chiusi per motivi legati alla sicurezza per la diffusione del virus, abbiamo sperimentato un carcere completamente diverso. Oggi con questi numeri è tutto molto più complicato. Il carcere di San Vittore è caratterizzato dall’elevato numero di ingressi, ci sono dei giorni in cui abbiamo 24 ingressi in 24 ore, vuol dire l’ingresso di un detenuto all’ora. Molto spesso arrivano persone in condizioni degradate, perché vivono alla stazione centrale oppure condividono degli appartamenti in promiscuità con altre persone. Sono veramente difficili. Se vogliamo vedere un lato positivo, è che per molte persone l’ingresso in carcere rappresenta il primo punto di contatto con un servizio pubblico. Penso soprattutto al servizio sanitario, al servizio psichiatrico, al servizio psicologico. Tante volte, all’interno del carcere viene fatta, per esempio, la prima diagnosi psichiatrica di una patologia e una presa in carico, quindi, anche da parte dei servizi. La seconda criticità da risolvere? La carenza di personale. Specialmente nelle fasce pomeridiane e notturne, abbiamo un solo agente che controlla una sezione, che può comprendere dagli 80 ai 90 detenuti. Un solo agente è un po’ poco, soprattutto perché ci può essere la necessità di accompagnamenti al servizio di pronto soccorso piuttosto che altre urgenze: in quel momento la sezione rimane scoperta. Se c’è un evento critico, può assumere dei connotati importanti, possono derivarne delle conseguenze anche molto gravi. Il Terzo settore, i volontari che ruolo hanno all’interno dell’istituto? Un ruolo molto importante. Ci sono associazioni storiche che lavorano a San Vittore coi propri volontari e ci sostengono profondamente. Poi c’è tutta l’area del privato sociale, dei volontari che lavorano attraverso i finanziamenti regionali piuttosto che del comune, di altri enti, e che collaborano in maniera fattiva rispetto alle nostre progettualità. Senza Terzo settore, nel nostro carcere mancherebbe una fetta importantissima, sia per il sostegno di tipo materiale che morale. Quando parlo di sostegno materiale io penso a tutta la raccolta degli indumenti usati che ci pervengono da parte delle associazioni e che non bastano mai. Poi, i prodotti per l’igiene, dagli spazzolini ai dentifrici agli shampoo. Ma penso anche a tutto quello che è il sostegno morale; c’è tutta una fetta di volontariato, anche di matrice religiosa, che conduce tutta un’opera di sostegno ai detenuti, ma anche alle loro famiglie, perché mantengono un contatto e svolgono un po’ una funzione di “ponte”, nei limiti consentiti, trattandosi di persone in attesa di giudizio. Poi ci sono tutte le attività laboratoriali che abbiamo all’interno dell’Istituto, dai corsi di lettura a quelli di lavorazione della creta. E l’arteterapia per le persone che hanno fragilità psichica, le attività istruttive, musicali. Tutto questo è portato avanti dal non profit. Il privato sociale che ruolo ha? Ci aiuta sempre rispetto alle attività, a progetti all’interno del carcere. Noi non abbiamo attività lavorative perché non abbiamo la sezione dei lavoratori all’esterno. Non abbiamo aziende che investano nel carcere per assumere detenuti che continuano, terminata la pena, come può essere Bollate. Ci manca l’aspetto legato al reinserimento lavorativo. Abbiamo la formazione professionale, attivata all’interno dell’istituto con le varie agenzie formative. Anche questa è una fetta importante perché se noi riusciamo a dare alle persone una piccola qualifica, spendibile nel momento in cui poi escono, c’è una chance in più che non ritornino a commettere reato. Milano. Per il lavoro e la dignità oltre le sbarre cgil.milano.it, 15 aprile 2025 Un presidio per denunciare l’abbandono istituzionale dell’esecuzione penale esterna e chiedere con forza investimenti, assunzioni e dignità per chi lavora nella giustizia di comunità e per chi sta scontando una pena fuori dal carcere. Si è svolta lunedì 14 aprile, in piazza Venino a Milano, vicino al carcere San Vittore, l’iniziativa promossa da Cgil, Funzione Pubblica e Osservatorio Carcere a Territorio, alla quale ha aderito una rete di realtà sociali impegnate sul fronte delle condizioni delle persone autori di reato. “Volontari, operatori, sindacalisti: siamo persone che credono nei valori costituzionali e nei diritti delle persone, tutte le persone”, ha aperto Ivan Lembo della Cgil Milano. “Ci siamo trovati qui, come già in altre città italiane, per dare voce a chi ogni giorno lavora dentro e fuori le carceri, credendo che il reinserimento sia un diritto, non un’utopia”. L’UIEPE è il servizio del Ministero della Giustizia, Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che segue chi sconta la pena fuori dal carcere - con l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare, la messa alla prova - ma è oggi allo stremo. Senza personale, con carichi di lavoro insostenibili, strumenti informatici inadeguati e sedi fatiscenti, il servizio rischia di svuotarsi della sua missione fondamentale: trattare persone, non smaltire fascicoli. A rischio il reinserimento sociale di cui le persone hanno bisogno. Accanto al sindacato, una rete ampia di realtà sociali e istituzionali, tra cui il garante dei diritti delle persone private della libertà, Francesco Maisto. “Ho sentito come un dovere essere qui oggi. La qualità del lavoro degli operatori della giustizia, sia interna che esterna al carcere, è messa a dura prova da una batteria di norme e politiche repressive che negano la funzione rieducativa della pena”, ha dichiarato Maisto, denunciando anche l’aumento di suicidi, autolesionismi e tensioni negli istituti penitenziari, Cesare Bottiroli (Fp Cgil): “Non produciamo scarpe, produciamo diritti” - “Non siamo produttori di beni, ma di diritti. E l’esecuzione penale esterna è un diritto costituzionale”, ha dichiarato Cesare Bottiroli, della Fp Cgil Milano. “Ma oggi le condizioni in cui lavorano le operatrici e gli operatori dell’UIEPE sono insostenibili. Abbiamo un turnover che di fatto è fermo: a fronte di 17 uscite, solo 4 nuovi ingressi. Una percentuale del 25% che mortifica il servizio e i lavoratori”. “Il rischio è la disumanizzazione del lavoro sociale: chi è in carico all’UIEPE non è più una persona, ma un fascicolo da evadere”, ha proseguito Bottiroli. “Lavorare in queste condizioni significa non solo mettere a rischio la qualità del servizio, ma anche tradire la propria deontologia professionale. E a tutto questo si aggiunge una sede sotto sfratto, con locali inadeguati, insicuri, con caldo torrido in estate e freddo estremo in inverno”. Sonia Caronni (CNCA): “Ripensare il modello di esecuzione penale esterna” - “Non potevamo non essere presenti”, ha affermato Sonia Caronni, referente carcere del CNCA Lombardia. “Viviamo un momento di crisi del sistema penitenziario come non si vedeva dagli anni ‘80. La sofferenza non è solo delle persone detenute, ma anche degli operatori. Eppure crediamo che questa crisi possa essere anche un’occasione: serve ripensare l’intero impianto dell’esecuzione penale esterna, costruito oltre 30 anni fa. È un modello che oggi appare in parte anacronistico: serve coraggio per immaginare una riforma che guardi davvero alla società e alla reintegrazione”. Ottavio Moffa (Osservatorio Carcere e Territorio): “Investire nel territorio è possibile” - “Lavoriamo ogni giorno dentro le carceri, ma anche fuori, per costruire alternative concrete alla detenzione”, ha spiegato Ottavio Moffa, dell’Osservatorio Carcere e Territorio. “La nostra società potrebbe davvero diventare più aperta, più inclusiva, più capace di accogliere e accompagnare. E invece ci troviamo ancora a parlare di persone ridotte a numeri. Abbiamo raccolto dati che mostrano con chiarezza la portata del problema: fascicoli che restano chiusi, casi che non vengono approfonditi, opportunità di reinserimento che svaniscono per mancanza di risorse”. “Ma non ci arrendiamo - ha concluso - continueremo a batterci insieme a chi lavora e crede nel cambiamento. Una società che sa reinserire è una società che sa proteggere, prevenire, includere”. Una battaglia comune, per una giustizia più giusta - La Cgil chiede al Ministero della Giustizia un’inversione di rotta. La giustizia di comunità non è un optional, è un pilastro della convivenza civile. E senza lavoratrici e lavoratori formati, motivati e valorizzati, anche i principi più alti restano lettera morta. Per questo il sindacato confederale continuerà a mobilitarsi, al fianco degli operatori dell’UIEPE e di tutta la rete sociale, perché i diritti non si sospendono. Nemmeno oltre le sbarre. Referendum e costituzione, una strada per uscire dall’angolo di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 15 aprile 2025 È urgente una prospettiva di riscatto complessiva attorno a valori condivisi. Ma come si unisce una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo o nella vuota retorica? L’unica possibilità per raggiungere il quorum è far comprendere che i quesiti rappresentano due tessere di un progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti. Se vogliamo tessere la nostra tela è necessario partire dalla consapevolezza che la crisi della democrazia ha ormai investito il piano nobile della costituzione. Messa sotto pressione da un articolato progetto. Il progetto prevede lo stravolgimento della forma di governo mediante uno sgangherato premierato; dalla caparbia volontà - nonostante le smentite della Consulta - di imporre un rapporto tra territori fondato sulla diseguaglianza e sull’abbandono del regionalismo solidale; dalla pretesa di rimodulare la divisione dei poteri in favore di quello politico, mostrando insofferenza al controllo dei giudici nazionali e al rispetto del diritto internazionale; dalla risposta esclusivamente securitaria al disagio sociale; dalle politiche del lavoro conformate - da tempo in verità - da un assolutismo neoliberista a scapito dei diritti inviolabili e della dignità delle persone. Un disegno perseguito con tenacia, però non ancora compiuto: viviamo una fase d’interregno dove si manifestano fenomeni mostruosi. In questa fase di lotta tra vecchio che non muore e nuovo che non è ancora nato si diffonde un disagio ampio che attraversa le diverse culture politiche, ma che non riesce a tradursi in nuova egemonia. Viviamo in una società di “insoddisfatti”, che in maggioranza votano a destra in mancanza di meglio. Molti sono i “delusi”: un esercito di astenuti, non solo dal voto ma da ogni impegno o credo politico. La sinistra è perduta, esausta dei perenni cambiamenti tattici che hanno prodotto continue delusioni. Un pensiero un tempo legato a chiari valori di civiltà (libertà, eguaglianza e fraternità, per dirla con le sue ancestrali parole fondative) si è reso sempre più leggero e si è alla fine smarrito, rischiando di rimanere afono di fronte agli urli degli altri, agli orrori del mondo. Persino la destra tradizionale non è in gran forma. Magari è unita perché vincente, ma qualche costo lo paga: non ci dovrebbe essere granché a spartire tra nazionalisti e secessionisti; tra garantisti e giustizialisti; tra liberali e neofascisti. È allora legittimo chiedersi quanto potrà durare l’accordo per il potere? Non può essere data per scontata la direzione del cambiamento in atto. Quel che emerge è una società di minoranze scontente. In questa situazione il compito più urgente è quello di tornare a fornire una prospettiva di riscatto complessiva attorno a dei valori comuni condivisi. Ma come si fa ad unire una moltitudine scomposta senza cadere nel populismo, nell’opportunismo o nella vuota retorica? La storia una indicazione chiara l’ha data. Nei momenti di crisi democratica la lotta per la costituzione può svolgere un decisivo ruolo di unità tra forze diverse. In fondo, se per dare vita alla Repubblica democratica e antifascista sono riusciti a combattere assieme dai monarchici ai comunisti, perché oggi non potrebbero trovare un accordo, nel rispetto della diversità di ciascuno, i liberali critici e i centri sociali irrequieti? Non bisogna avere paura delle alleanze in nome della costituzione, sarà questa a segnare il discrimine, a definire il campo largo. Semmai il rischio da evitare è un altro: utilizzare la costituzione come schermo puramente retorico, magari limitandosi ad affermare che è “la più bella del mondo”, e così ci salviamo l’anima. Oggi la costituzione deve essere presa sul serio. Che vuol dire in concreto? Principalmente due cose: passare dalla difesa all’attacco, collegare i diversi frammenti di lotta entro un quadro costituzionale. In primo luogo, far valere la costituzione oggi rende necessario ribaltare le narrazioni correnti. Contrapporre ai vizi del premierato le virtù del parlamentarismo (ad esempio, proponendo di rivoltare i regolamenti parlamentari; limitare la potestà normativa dei governi; ripensare le funzioni legislativa, di indirizzo e di controllo del parlamento); a fronte della cultura carcerogena e di scontro frontale con la magistratura si dovrebbe ridiscutere il valore delle garanzie giurisdizionali (pensando a come attuare il principio del giusto processo, garantire la funzione rieducativa della pena, limitare la carcerazione preventiva ed estendere le misure alternative al carcere); non fermarsi a criticare il regionalismo di natura competitiva, ma definire un regionalismo solidale che sia costituzionalmente orientato (pretendendo la redistribuzione delle risorse al fine di promuovere lo sviluppo economico e la solidarietà sociale tra le regioni, assicurare la garanzia dei diritti fondamentali - non solo quelli essenziali - su tutto il territorio nazionale, rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ovunque si risieda); alla cultura della sicurezza si dovrebbe opporre quella della solidarietà; all’attenzione per i poteri quella per i diritti. Già questo appare un impegnativo programma, ma non basterebbe. Necessario è anche riuscire a collegare i bisogni di ciascuno al disegno complessivo. Se, infatti, viviamo al tempo delle minoranze divise e isolate, solo la somma di più minoranze può aspirare a rappresentare una maggioranza alternativa all’attuale. In questa situazione il caso dei referendum appare esemplare. La maggior parte del popolo italiano risulta distratta rispetto ai problemi del lavoro, così come non sembra sufficientemente recettiva rispetto alle questioni della cittadinanza. L’unica possibilità per raggiungere il consenso necessario è allora quello di riuscire a far comprendere che i quesiti proposti non riguardano solo le categorie direttamente interessate - lavoratori o migranti - ma rappresentano due tessere di un mosaico che è necessario comporre per definire un più ampio progetto costituzionale per la salvaguardia dei diritti di tutti. Solo così si potrà affermare una maggioranza disposta a cambiare. Poi chi ha più filo tesserà. “Una forzatura le fascette ai migranti. Ora visiteremo Gjader” di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 aprile 2025 Mario Serio è componente del Garante nazionale dei detenuti. Prima intervista sul protocollo Albania: “Il trasferimento oltre Adriatico apre dubbi di rilevanza costituzionale: manca il controllo del giudice, il diritto di difesa è limitato, l’accesso al sistema sanitario precluso”. “L’uso delle fascette ai polsi non può essere indiscriminato” e “il decreto per trasferire i migranti dall’Italia all’Albania apre dubbi di rilevanza costituzionale”. Mario Serio, già ordinario di Diritto privato comparato all’università di Palermo, è uno dei tre componenti che il governo Meloni ha nominato al Garante nazionale dei detenuti, con l’avvocata Irma Conti e l’ex magistrato Riccardo Turrini Vita (presidente). È la sua prima intervista sul protocollo Roma-Tirana, esteso ai migranti irregolari. Per il Governo le fascette sono “normale procedura”. È così? Il Garante ha sempre sostenuto che l’applicazione delle fascette ai migranti, non destinatari di provvedimenti di custodia penale, deve trovare una giustificazione oggettiva e tangibile. Nelle interlocuzioni avute con il governo questo ha sottolineato la presenza di esigenze di sicurezza ed è innegabile che in singoli casi si possano temere comportamenti violenti. Il Garante sottolinea però che simili misure non possono essere generalizzate e indistinte. Vanno calibrate su esigenze individuali ben specificate. Devono essere proporzionate. La prassi sarà più per ragioni comunicative che di sicurezza? Non facciamo congetture. Il Garante non ha alcuna posizione prevenuta verso il governo e deve appurare i fatti. Rilevo solo che le misure di sicurezza sono state presentate come necessarie contro possibili aggressioni agli agenti ma noi visitiamo i Cpr, faccia a faccia con i trattenuti, senza forme di protezione. Anche per ragioni di sicurezza, comunque, l’applicazione delle fascette è possibile solo in ipotesi rigidamente tipizzate dalla normativa internazionale che non sono estendibili per analogia. Sappiamo ancora poco sui migranti trasferiti. Per esempio su nazionalità e status giuridico. Avete informazioni? Non ancora, le abbiamo richieste al dipartimento della polizia di frontiera. Sono emersi dubbi sulla legittimità costituzionale del decreto che permette i trasferimenti dall’Italia. Li condivide? Stiamo lavorando a un documento da sottoporre alle commissioni parlamentari. Il problema sollevato da alcuni avvocati difensori, non irragionevolmente, ha una genesi precisa: a differenza di quel che avviene con le persone detenute nelle carceri, sottoposte all’ordinamento penitenziario, per i trattenuti nei Cpr manca completamente una cornice normativa che indichi diritti e rimedi. Così si procede in modo frammentario ed episodico nel disciplinare la loro condizione giuridica. Su questa asimmetria si esprimerà presto la Corte costituzionale. Ma sull’Albania non ci sono problemi aggiuntivi? Sicuramente ci sono questioni aperte alle quali il Garante non può rimanere indifferente, altrimenti non assolverebbe al proprio compito di meccanismo nazionale di prevenzione di tortura e trattamenti inumani, crudeli e degradanti. La prima è la mancata partecipazione del giudice alla procedura che si conclude con il trasferimento. Quest’assenza potrebbe contrastare con l’articolo 13 della Costituzione, che permette la privazione della libertà personale solo a seguito di provvedimento motivato dall’autorità giudiziaria. Un’altra questione è il diritto di difesa contro gli atti della pubblica amministrazione, previsto dall’articolo 113 della Costituzione, che rischia di essere compromesso dal trattenimento a Gjader. La distanza crea difficoltà concrete nel rapporto con l’avvocato. C’è poi il problema che i migranti trattenuti in Albania non hanno accesso a quel sistema sanitario nazionale. Se ne è discusso in audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera. Perché il Garante non è stato invitato? Non lo sappiamo, in passato accadeva. L’istituzione di garanzia è anche indicata come essenziale nella legge istitutiva dei centri in Albania. Proveremo a contribuire per iscritto. Sono passati sei mesi dal primo trasferimento in Albania ma non avete realizzato nessuna ispezione. Cosa aspettate? È una scelta meditata. Riteniamo non serva un’ispezione astratta, senza presenze umane. Quindi ora la effettuerete? Naturalmente. Sarà una visita collegiale e molto accurata. Non c’è da dubitarne. Passiamo alle carceri. Cosa pensa delle celle container? Il sovraffollamento va combattuto, ma senza ridurre garanzie e condizioni di vivibilità. I container deflazionerebbero qualche centinaio di posti: non è una soluzione visti i gravi indici di sovraffollamento, oltre il 130%. Bisognerebbe comunque conoscere le condizioni dei container: se riproducessero la mancanza di servizi essenziali e acqua calda saremmo lontani dalla meta. Il sistema penitenziario reggerà l’impatto dei nuovi reati introdotti dal dl sicurezza? Non reggeva neanche prima, ma la situazione peggiorerà. Tra l’altro l’evoluzione da disegno di legge a decreto è, diciamo così, non comune. Anche perché il capo dello Stato ha criticato, sotto diversi governi, l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza. La vicenda si inserisce in questa problematica più ampia.