Carcere, la lunga storia di una vergogna di Stato di Alessandro Diddi* Il Dubbio, 14 aprile 2025 Le condizioni disumane negli istituti penitenziari e le violazioni dei diritti umani aprono una riflessione sulle responsabilità politiche nell’ignorare le sollecitazioni del papa e del capo dello stato per una riforma penitenziaria. Il Santo Padre il 9 maggio 2024, durante i secondi Vespri della Solennità dell’Ascensione, in occasione della consegna della Bolla di indizione del Giubileo ordinario alle Chiese dei cinque continenti, aveva sollecitato i governi di tutto il mondo ad assumere nell’Anno del Giubileo iniziative “per restituire speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Cogliere questa sollecitazione sarebbe stata per il governo Meloni una grande occasione per risolvere l’enorme problema del sovraffollamento carcerario che da anni affligge incessantemente il nostro sistema penitenziario e che, purtroppo, nessuno dei governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi anni ha tentato di affrontare seriamente. Governare vuol dire risolvere i problemi che si presentano in un determinato momento storico ma, per farlo, occorre una profonda conoscenza della loro origine. Solo quando si hanno bene a mente le coordinate delle questioni che si affrontano se ne possono individuare le soluzioni. È come quando si cura una malattia: senza averne fatto una diagnosi precisa non si potrà mai debellarla. Se ne potranno, al limite, lenire i sintomi, ma se non si risale alla causa, essa non potrà mai essere sconfitta. Da più parti si avverte la grave crisi che sta vivendo oggi il nostro sistema penitenziario soffocato dalle ataviche condizioni delle carceri, vecchie, del tutto inadeguate ad assicurare un trattamento dignitoso, sovraffollate e, soprattutto, totalmente disorganizzate ed inidonee ad attuare l’unico scopo che la Costituzione riconosce alla pena: la funzione rieducativa. Sergio Mattarella nel 2022: restituire la dignità A tale riguardo, viene subito alla mente il Messaggio che in data 3 febbraio 2022, in occasione del suo secondo giuramento, il neoeletto Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rese al Parlamento: “dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. In effetti, ancora di recente, sfogliando i repertori di giurisprudenza, non è inconsueto imbattersi in decisioni della Corte di cassazione che, al termine dei procedimenti risarcitori ex art. 35-ter l. n. 354 del 1975, hanno accolto i ricorsi di detenuti da cui emergeva che durante il periodo di detenzione, oltre a non essere stato loro assicurato lo spazio minimo vitale di 3 mq (nella specie di 1.20 mq ‘pro capite’ a causa dell’ingombro di un tavolino - da riporre in bagno per potersi coricare nel letto), non erano stati loro neppure garantiti gli elementi minimali del trattamento penitenziario a causa dell’assenza dell’acqua calda; dell’inadeguatezza del riscaldamento; del turno doccia, reso possibile tre volte a settimana con acqua fredda e la permanenza complessiva all’interno della cella per quindici ore giornaliere (così nella vertenza decisa da Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 29/03/2023, n. 8878 (rv. 667241-01). Ancora, è possibile incappare in decisioni che si sono dovute occupare di istanze risarcitorie avanzate da detenuti che hanno lamentato l’assenza di una effettiva e completa separazione tra il locale bagno ed il resto della camera detentiva (Cass. pen., Sez. I, 23/01/2019, n. 15306) o, ancora, la prolungata assenza di acqua potabile (Cass. pen., Sez. I, 08/02/2024, n. 21590). La grave situazione in cui versano le carceri italiane può essere definita, come detto, un problema atavico che si presenta sistematicamente e nella stessa drammaticità da quando esiste l’unità d’Italia. Filippo Turati nel 1904: le carceri sono una vergogna nazionale Filippo Turati, nel 1904, in un discorso alla Camera dei deputati disse che “le carceri italiane, nel loro complesso, sono la maggiore vergogna del nostro Paese. Esse rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale, nella forma più atroce che si abbia mai avuto: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Francesco Carnelutti nel 1945: segni manifesti di inciviltà Francesco Carnelutti, 40 anni dopo, in un prezioso contributo pubblicato nel 1945 dovette constatare come occorresse giungere ad una profonda revisione, “delle nostre idee o delle nostre abitudini in ordine al fabbisogno finanziario del processo. Non v’è alcun’ altra funzione dello Stato, la quale debba passare avanti alla funzione giudiziaria, e di questa la funzione penale è la guisa suprema. Che finora a questa funzione siano state dedicate minori cure e minori spese che ad altre, senza confronto meno essenziali ·ai fini dello Stato, è ancora uno dei segni manifesti della nostra inciviltà. D’altra parte è ora di smettere, almeno in Italia, il malvezzo di far prevalere il decoro estrinseco della funzione alla intrinseca idoneità dell’organo, che la esercita: avere speso enormi· somme per la costruzione di monumentali palazzi di giustizia lasciando incredibili deficienze tecniche nei tribunali e nei reclusori, io spero che d’ora innanzi non sarà più tollerato” (Il problema della pena, Tumminelli, pag. 78). Pietro Calamandre nel 1948: tutto è rimasto fermo Nel 1948 Pietro Calamandrei raccolse in un Volume edito dalla rivista “Il ponte” i contributi di autorevoli voci che descrivevano le situazioni in cui versavano le carceri italiane dell’epoca ed è incredibile dover constatare come tutto sembri essere rimasto fermo. È come se il tempo, in questo settore, non fosse riuscito a scalfire le disfunzioni nonostante i legislatori che si sono succeduti non siano certamente rimasti totalmente inerti. I 50 anni dalla riforma penitenziaria del 1975 Quest’anno si celebrerà il cinquantesimo compleanno della l. n. 354 del 1975 che ha riformato l’ordinamento penitenziario soppiantando il regolamento carcerario emanato in piena era fascista che, al suo interno, prevedeva norme che, oggi, ci possono apparire in un certo senso assurde, come il fatto che i detenuti dovessero essere chiamati per numero, che agli stessi, per motivi disciplinari, potesse essere somministrato pane e acqua e che, per ragioni di sicurezza, potessero essere anche applicate misure di contenzione. Tutto questo è stato superato ma, come è stato autorevolmente notato, per molta parte quella legge - che certamente ha fatto passi da gigante rispetto al vecchio regolamento - è rimasta un gran bel libro dei sogni perché, nonostante le numerose prescrizioni che dovrebbero garantire un trattamento penitenziario conforme ad umanità ed in grado di assicurare la dignità delle persone (come, ad esempio, il fatto che gli istituti penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative; che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati debbano essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura, areati e riscaldati per il tempo in cui le condizioni climatiche lo esigano e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale o, ancora, che ai detenuti ed agli internati deve essere assicurato l’uso adeguato e sufficiente di servizi igienici e docce fornite di acqua calda), come si è visto, ci sono ancora detenuti rispetto ai quali questi ‘lussi’ costituiscono ancora un miraggio. Se è vero che la civiltà di un popolo si misura dalla qualità delle sue prigioni piuttosto che da quella dei suoi palazzi (come, secondo taluno, avrebbe detto Voltaire), si dovrebbe provare vergogna anche solo a pensare che oggi vi possano essere cittadini che subiscono trattamenti del tipo di quelli che si sono descritti, oltretutto nel più imbarazzante silenzio dell’opinione pubblica. L’impegno del Governo Draghi per una riforma Il 13 febbraio 2021si era insediato il governo Draghi, sostenuto da una coalizione ad ampio spettro a cui avevano preso parte anche quelle stesse forze politiche (si pensi a Lega e M5S) che, cavalcando le onde del populismo, nella precedente legislatura, non avevano mancato di imprimere sul sistema penitenziario le ombre della più violenta deriva giustizialista e securitaria (al governo Conte sostenuto dalla coalizione giallo-verde, infatti, si deve uno dei più aberranti ritocchi all’art. 4-bis della l. n. 354 del 1975 quello apportato attraverso l’art. 1, comma 6, lett. a) e b) della l. 9 gennaio 2019, n. 3, che aveva introdotto nel catalogo dei reati rispetto ai quali trova applicazione lo speciale regime dei divieti di concessione dei benefici penitenziari i reati contro la pubblica amministrazione). Ebbene, nonostante l’eterogeneità delle forze di sostegno, sin dal momento del suo insediamento, quel governo presieduto dall’ex presidente della Bce aveva lanciato chiari segnali di nuovi impulsi riformatori destinati a riflettersi sul diritto penitenziario e a segnare, almeno nelle intenzioni, una significativa inversione di rotta rispetto alle esperienze del passato. Le linee più chiare di questo nuovo corso possono essere certamente rivenute nelle comunicazioni della ministra della Giustizia, la professoressa Marta Cartabia, sulle linee programmatiche del suo Dicastero in materia di giustizia. Nell’ambito dell’articolato discorso presentato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) del Senato, in data 18 marzo 2021, nel tracciare la mappatura dei “problemi più urgenti e improcrastinabili” da affrontare per riuscire a “contribuire a rispondere almeno ad alcune delle domande di giustizia che ardono in vari ambiti del nostro paese”, la professoressa Marta Cartabia ha rivolto lo sguardo anche alla “fase dell’esecuzione penale” promettendo l’impegno del governo anche in tale settore non solo perché “la qualità della vita dell’intera comunità penitenziaria, di chi vi opera, con professionalità e dedizione, e di chi vi si trova per scontare la pena, è un fattore direttamente proporzionale al contrasto e alla prevenzione del crimine”, ma perché “perseguire lo scopo rieducativo della pena non costituisce soltanto un dovere morale e costituzionale come si legge inequivocabilmente nell’art. 27 della Costituzione - ma è anche il modo più effettivo ed efficace per prevenire la recidiva e, quindi, in ultima analisi, per irrobustire la sicurezza della vita sociale”. Ed è significativo sottolineare un passaggio della relazione della Ministra e cioè quello che contiene l’invito a rivolgere l’attenzione a quelle linee di pensiero che sempre più si stanno facendo strada a livello internazionale e che vanno nel senso del “superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato”, riempiendo così di significato il principio del carcere come “extrema ratio”. Obiettivi, questi (così sempre la Comunicazione), che si possono realizzare anzitutto valorizzando “le alternative al carcere, già quali pene principali” e restituendo “effettività alle pene pecuniarie, che in larga parte oggi, quando vengono inflitte, non sono eseguite” e sia, in prospettiva di riforma dedicando “una riflessione anche alle misure sospensive e di probation, nonché alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, che pure scontano ampi margini di ineffettività, con l’eccezione del lavoro di pubblica utilità” e portando a compimento le “esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale che stanno mostrando esiti fecondi per la capacità di farsi carico delle conseguenze negative prodotte dal fatto di reato, nell’intento di promuovere la rigenerazione dei legami a partire dalle lacerazioni sociali e relazionali che l’illecito ha originato”. Un progetto ambizioso, dunque, che oltre ad essere coerente con l’esperienza della Ministra quale Giudice costituzionale (e segnatamente con la iniziative dei Giudici della Corte di incontrare i detenuti ristretti in alcune carceri italiane) e a porsi in ideale continuità con quanto era stato delineato (sebbene, però, solo in parte attuato) dal progetto del Ministro Orlando, ha cercato di vedere molto lontano ipotizzando il superamento della idea stessa del carcere quale strumento preferenziale di ristabilimento dell’ordine giuridico violato a seguito della trasgressione di una norma fondante il patto sociale. La giustizia riparativa e la decarcerizzazione Come noto, l’impegno assunto dal governo Draghi di intervenire nel settore della Giustizia ha avuto attuazione con l’approvazione della l. 27 settembre 2021, n. 134 recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari. Essa, in particolare, si è contraddistinta per le numerose direttive che oltre a ridisegnare il codice di procedura penale, passerà certamente alla storia per il primo, vero e, fino ad oggi, unico tentativo di procedere ad una revisione del sistema sanzionatorio penale ispirato a una profonda opera di decarcerizzazione attuata attraverso il ricorso a sanzioni diverse dalla prigione e l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa. Nonostante nella legge delega non fossero previste direttive ad hoc per incidere sul sistema penitenziario, mentre i lavori di approvazione della legge n. 134 del 2021 erano in gestazione, con D.m. 13 settembre 2021 la ministra della Giustizia aveva istituito una Commissione, presieduta dal professor Marco Ruotolo, per l’innovazione del sistema penitenziario con lo scopo di “proporre soluzioni che potessero contribuire a migliorare la qualità della vita nell’esecuzione penale, attraverso interventi puntuali sia sul piano normativo sia in forma di direttive per l’esercizio dell’azione amministrativa, fornendo anche linee utili alla rimodulazione dei programmi di formazione iniziale e in itinere che interessano le professionalità dell’amministrazione penitenziaria e dell’amministrazione della giustizia minorile e di comunità”. Le speranze per il lavoro della Commissione Ruotolo In pochi mesi (esattamente il 17 dicembre 2021) la Commissione terminava i lavori presentando un articolato testo contenente varie proposte di modificazione (soprattutto delle norme contenute nel d.p.r. n. 230 del 2000) e un’ampia relazione illustrativa delle varie soluzioni prospettate. Sebbene il lavoro della Commissione possa sembrare limitato (non essendosi essa posta, come espressamente affermato nella relazione, “nella prospettiva della riforma organica dell’ordinamento penitenziario”), cionondimeno essa aveva “individuato gli interventi ritenuti indispensabili per il miglioramento della qualità della vita nell’esecuzione penale, prestando soprattutto attenzione alle attuali previsioni del regolamento penitenziario (d.p.r. 20 giugno 2020, n. 230), nonché elaborando suggerimenti per direttive e circolari amministrative che possano contribuire al raggiungimento dell’obiettivo”. I venti riformistici che sono spirati per diversi anni sul pianeta carcere e che hanno fatto sperare in una soluzione di continuo con il passato, hanno tuttavia subito una (certamente non inaspettata) battuta d’arresto con l’insediamento del nuovo esecutivo. Il Governo Meloni e il nuovo piano carceri Il governo Meloni sin dai primi discorsi in materia di giustizia, aveva fatto dichiarazioni di principio molto nette dalle quali era facile intendere che in questo settore non ci sarebbero state significative novità. Il 25 ottobre 2022, nell’intervento alla Camera per la fiducia al nuovo governo, la premier disse che “lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. È indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Certezza della pena, suicidi, dignità delle condizioni di lavoro degli agenti; queste le tematiche che il governo ha detto di voler affrontare puntando a un nuovo piano carceri (il precedente, risale al 2010). Un’idea precisa, in totale discontinuità con quelle che avevano ispirato i precedenti esecutivi (che, invece, muovevano dall’idea che il carcere debba essere un’extrema ratio), ribadita anche all’inizio di quest’anno allorquando il presidente del Consiglio, nel corso di una conferenza stampa organizzata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dall’Associazione stampa parlamentare, affermava che “secondo me il modo serio di risolvere il problema (delle condizioni dei detenuti in carcere e il sovraffollamento, ndr) non è l’amnistia o l’indulto ma è un altro: da una parte ampliare la capienza delle carceri e poi stiamo lavorando per rendere più agevole ad esempio il passaggio dei detenuti tossicodipendenti nelle comunità”. Dalla dichiarazione di insediamento ad oggi si è ormai nel bel mezzo della legislatura -in genere considerato un po’ come l’occasione per stilare i primi bilanci dell’attività di governo - ed è dunque giunto il momento per fare qualche considerazione partendo dai dati oggettivi. Negli ultimi anni il numero dei suicidi è aumentato Il numero dei suicidi nelle carceri italiane nel corso degli ultimi due anni è continuato a crescere. Nel 2022 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 84; nel 2023 sono stati 68 ma nel 2024 è stata toccata la cifra di 91. Nel 2025, al 9 aprile, i suicidi sono già stati 28 (come riporta la tabella pubblicata da ristretti.it) e se questo trend dovesse mantenersi il numero record delle morti dello scorso anno sarà inesorabilmente superato. C’è poi il dato allarmante e preoccupante di cui nessuno parla, ma che è altrettanto significativo del disagio (e della disperazione) in cui vive la popolazione carceraria, dei tentativi di suicidio registrati nel 2024, pari a 877 contro gli 821 del 2023. Nonostante vi sia chi nega una correlazione tra la drammatica situazione in cui versano oggi i detenuti e le morti in carcere, negarla è evidentemente solo una ipocrisia se non altro perché è strano che chi si è tolto la vita lo abbia fatto proprio dopo essere entrato in una prigione. È opinione diffusa (e per chi ha un po’ di dimestichezza con i problemi che affliggono i detenuti anche condivisibile) che, in realtà, una delle principali ragioni per le quali una persona possa decidere di giungere ad un gesto così estremo può essere solo la disperazione e la mancanza di una qualunque speranza di poter vedere una luce in fondo al tunnel nel quale si è inseriti nel momento in cui si è immessi nel circuito penitenziario. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nell’ultimo discorso di fine anno, nel rievocare che l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani ha scelto, come parola dell’anno, “rispetto” e che esso deve essere assicurato “anche per chi si trova in carcere” non ha mancato di ricordare che “l’alto numero di suicidi è indice di condizioni [n.d.r. di vita] inammissibili” in cui versano oggi i detenuti e di raccomandare che “abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti”. Appare chiaro come il monito lanciato dal Capo dello Stato (“abbiamo il dovere”, egli ha detto) sia anzitutto rivolto all’esecutivo e al Parlamento sui quali grava il macigno morale di risolvere la drammatica questione del nostro sistema penitenziario. Lo studio delle statistiche del ministero della Giustizia sull’andamento dei detenuti restituisce un’immagine impietosa della situazione carceraria. È dal 2004 - tanto per prendere un arco temporale dotato di una significatività - che i detenuti costituiscono un numero stabilmente superiore rispetto alla capienza regolamentare delle nostre prigioni. Il sovraffollamento è superiore al 130 per cento Va detto che i posti disponibili nei 189 istituti penitenziari italiani si attestano stabilmente intorno alle 47 mila unità. Alla data del 31 gennaio di quest’anno (vale a dire all’ultimo aggiornamento disponibile sul sito del ministero della Giustizia) i detenuti presenti sono circa 62 mila unità, 4 mila in meno rispetto alla quota che, nel 2013, aveva dato luogo alla clamorosa (e vergognosa) condanna dell’Italia nel noto caso Torreggiani. Anche all’epoca, la capienza regolamentare delle carceri italiane era fissata in 47 mila posti. Attualmente, dopo 15 anni (e dopo un precedente piano carcere), negli atti ufficiali si afferma che la capienza sia di 51 mila posti ma, in realtà, quella regolamentare è sempre di 47 mila posti per un indice di sovraffollamento pari al 130,59%. Con queste strutture (e con queste risorse), se nel 2013, in occasione della storica sentenza, la fatidica soglia che dette luogo alla condanna dell’Italia da parte della Cedu era quella di 66 mila unità, tenuto conto del tasso di aumento che si è registrato in questi anni (oltre le 2000 unità ogni anno), entro un paio di anni essa sarà superata. Come detto, la strategia messa in campo dal Governo per affrontare questa emergenza è quella di realizzare nuove carceri. La premier Meloni, sul punto, è stata chiarissima “La mia idea non è che questo [n.d.r.: il modo serio di risolvere il problema] si debba fare adeguando il numero dei detenuti o i reati alla capienza delle carceri” (cosa che, detto per incidens, sembrerebbe l’unica praticabile) “ma adeguare la capienza delle carceri alle necessità”. In poche parole, la risposta è quella di realizzare nuove prigioni. Per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari con l’art. 4-bis del d.l. 4 luglio 2024, n. 92 conv. l. 8 agosto 2024 n. 112 è stata prevista la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria “individuato tra soggetti esperti nella gestione di attività complesse e nella programmazione di interventi di natura straordinaria, dotati di specifica professionalità e competenza gestionale per l’incarico da svolgere”. Con decreto 19 settembre 2024, il Presidente del Consiglio dei ministri ha designato come Commissario Straordinario il dottor Marco Doglio il quale, a mente del citato art. 4-bis, al fine di aumentare la capienza degli istituti e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti dovrebbe compiere - ovviamente nel limite delle risorse disponibili - tutti gli atti necessari per la realizzazione di nuove infrastrutture penitenziarie nonché delle opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti. Il Commissario Straordinario, per legge, dura in carica sino al 31 dicembre 2025 e entro questo termine, egli dovrebbe in una prima fase (entro centoventi giorni dalla sua nomina), predisporre un programma dettagliato degli interventi necessari e, quindi, in quella successiva, provvedere all’attuazione del programma stesso mediante: interventi di manutenzione straordinaria, ristrutturazione, completamento e ampliamento delle strutture penitenziarie esistenti; realizzazione di nuovi istituti penitenziari e di alloggi di servizio per la polizia penitenziaria, destinazione e valorizzazione dei beni immobili penitenziari. Il Presidente del Consiglio dei ministri, nella richiamata conferenza stampa, ha dichiarato che da questo intervento normativo si attende di poter realizzare 7000 nuovi posti in 3 anni a partire dal 2025. Tenuto conto del tasso di incremento della popolazione carceraria (e dell’eccessivo ottimismo con il quale si quantificano i tempi di realizzazione delle opere pubbliche: 3 anni), ognun vede come la prospettata riforma nasca già morta visto che i 7 mila nuovi posti possono fronteggiare, tutt’al più, il fabbisogno presente. A fronte, infatti, del tasso di crescita della popolazione carceraria (e del numero di 47 mila di capienza regolamentare), quando i nuovi 7 mila posti saranno disponibili, il numero dei detenuti sarà superiore a quello regolamentare. Con quali fondi saranno realizzati i nuovi posti? Ma la domanda che tutti si pongono è: con quali soldi il governo pensa di realizzare questi interventi? Non certo con i fondi del Pnrr. Il piano di ripresa e resilienza, infatti, deve finanziare iniziative di crescita dell’economia del Paese con l’auspicio che con l’incremento del prodotto interno si producano le risorse necessarie per ripagare i debiti. La giustizia, purtroppo, non è propriamente un settore che produce Pil (come potrebbero esserlo le strade, le ferrovie, le infrastrutture informatiche che, raccorciando le distanze ed i tempi, possono certamente favorire lo sviluppo economico). Occorrerà, pertanto, fare luogo alle normali fonti di finanziamento della spesa pubblica e, a tale riguardo, con quattro conti si può constatare che per costruire un carcere (senza considerare i costi della successiva gestione), occorrono circa 100 mila euro per detenuto. Va, infatti, ricordato che nel 2010, a conclusione del piano carceri, era stata quantificata la somma necessaria per la creazione di nuovi 9.150 posti detentivi (le previsioni iniziali parlavano di nuovi 18.000 posti, ma poi, all’epoca, si dovette deviare per una più modesta soluzione) in 675 milioni di euro (oltre 77 mila/euro a detenuto). Più recentemente, secondo quanto riportato da Ristretti Orizzonti, in un articolo apparso in data 19 gennaio 2023, a commento della notizia della imminente costruzione di un nuovo Istituto di pena nella Regione Marche, si è riportato che per “Costruire un carcere da 250 posti circa 25 milioni di euro”, vale a dire 100 mila/euro per detenuto. Se così stanno le cose, è evidente che per realizzare l’obiettivo perseguito dalla premier si dovrebbe prevedere un impegno di spesa di 700 milioni di euro. Una cifra enorme, se si pensa che l’ultima manovra finanziaria è stata di 24 miliardi di euro. Va soggiunto, peraltro, che si tratta dei soli costi per la costruzione delle mura, perché, poi, ad essi devono aggiungersi quelli concernenti il personale ed il mantenimento dei detenuti. A quest’ultimo proposito si deve rammentare che, secondo i dati pubblicati da Antigone, ogni giorno i detenuti costano 10 milioni di euro per un totale di quasi 3,8 miliardi di euro all’anno. E anche a questo proposito v’è da aprire un altro capitolo, perché i costi da programmare non sono solo quelli sin qui considerati. Recentemente, l’ex Capo Dap Giovanni Russo, nel corso di un’audizione in Commissione giustizia alla Camera, ha sottolineato che l’organico della Polizia Penitenziaria è scoperto del sedici per cento: su 42.850 unità gli agenti presenti in servizio sono solo 35.717. Il d.l. 92 del 2024, al fine di incidere più adeguatamente sui livelli di sicurezza, di operatività e di efficienza degli istituti penitenziari e di incrementare maggiormente le attività di controllo dell’esecuzione penale esterna, ha autorizzato l’assunzione straordinaria di un contingente massimo di 1.000 unità di agenti del Corpo di polizia penitenziaria che, tuttavia, è ben lungi dal colmare l’”enormità” (per utilizzare il termine con il quale il dottor Giovani Russo ha qualificato il problema) della scopertura (che, a conti fatti, è del circa 7 mila unità). A questo punto v’è quanto basta per chiedersi se effettivamente la strada intrapresa, quella, cioè, di costruire nuove carceri, sia in grado di risolvere la problematica del sovraffollamento o se, invece, essa non sia l’ennesimo atteggiamento demagogico posto in essere sulla pelle dei carcerati. Che giudizio dare per l’ambizioso progetto del nuovo Governo? Purtroppo, nonostante le promesse e la buona volontà (certamente manifestata attraverso la nomina del commissario straordinario) non c’è da essere troppo ottimisti. Ad oggi, non risulta ad esempio presentato il programma che il d.l. aveva demandato al Commissario di predisporre entro 120 giorni dalla sua nomina. Le somme per la costruzione dei nuovi istituti penitenziari non sembrano essere state stanziate e c’è il rischio che, come in passato, le riforme promesse non trovino realizzazione e che tutto rimanga così com’è. Purtroppo, è una costante del nostro Paese, viste le denunce che da oltre un secolo vengono presentate sulle condizioni delle strutture carcerarie del Paese, che i problemi dai quali esse sono afflitte debbano rimanere irrisolti. Fino ad oggi, nonostante i piani carceri, i commissari che si sono succeduti, sembra che il tempo, in questo settore, si sia fermato e che i governi non siano mai stati capaci di risolvere alla radice il male che, in definitiva, oltre che sui singoli detenuti, ha ricadute sull’intero sistema e, non da ultimo, sulle irrinunciabili istanze di sicurezza che - sia ben chiaro - devono essere sempre tenute in massima considerazione da chiunque intenda affrontare le varie questioni a partire da quella del sovraffollamento. Nessuno, infatti, auspica soluzioni ispirate a un semplicistico buonismo. Certamente le amnistie e gli indulti non sono soluzioni ottimali anche perché è evidente che non curano il male. Tuttavia, i provvedimenti di clemenza, in molti casi, come quelli che si presentano in questo periodo storico, costituiscono soluzioni irrinunciabili quantomeno per lenire i sintomi. Essi, soprattutto, si impongono come rimedio allorquando accompagnati da progetti di riforma (come quelli che si vorrebbero realizzare) e che, altrimenti, rischiano di naufragare sul nascere sotto il peso della pregressa situazione che si trascina nel tempo. A proposito di questi progetti, quello che nei programmi dell’esecutivo sembra difettare è una visione più mirata sulle cause del male al fine di attuare il principale obiettivo che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere effettivamente perseguito attraverso l’irrogazione della pena. È banale ripeterlo, ma il costituente ha individuato quale principale finalità di un qualunque trattamento sanzionatorio quella della rieducazione. Sin dai tempi di Seneca, infatti, nemo prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur e questo è quello che, oggi, un ordinamento civile deve pretendere dal sistema penale e che, purtroppo, non si realizza magicamente solo attraverso la costruzione di nuove prigioni. Se anzitutto non si persegue questo obiettivo, riorganizzando i sistemi di trattamento punitivi nel loro complesso ed attuando un serio studio sulle cause del crimine e di quelle della recidiva (problematiche con riferimento alle quali non esistono dati ufficiali), le carceri non basteranno mai anche perché è quasi fatale che aumenti la popolazione carceraria in un momento storico, come quello che si sta vivendo, caratterizzato da grandi fenomeni di immigrazione (non è casuale che il tasso di crescita della popolazione carceraria corrisponda a quello dell’aumento dei detenuti stranieri) e da una continua creazione di fattispecie criminose. In questo contesto, piuttosto che sulla repressione, è sulla prevenzione (realizzata attraverso l’attuazione di misure, non solo di tipo carcerario, che realizzino effettivamente il finalismo rieducativo della pena) che si dovrebbe investire per cercare, da un lato, di far diminuire il tasso di crescita della popolazione detenuta e, dall’altro, per razionalizzare le risorse economiche a disposizione e valorizzare il patrimonio edilizio esistente. *Per gentile concessione di “(in)Giustizia, Parola alla difesa”, Camera Penale di Cosenza Dall’edilizia penitenziaria all’architettura penitenziaria. Una rivoluzione necessaria di Giacomo Losi Il Dubbio, 14 aprile 2025 L’ambiente carcerario per come è pensato fino ad oggi nega qualsiasi possibilità di recupero e di reinserimento. va ripensato a cominciare dagli spazi. Potrebbe sembrare un mero esercizio di stile, un sofisma linguistico destinato a rimanere “lettera morta”, ma il fatto di cambiare nome alla carica di “Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria” in “Commissario straordinario per l’architettura penitenziaria”, è un gesto ben più sostanziale di quanto possa apparire di primo acchito. L’idea è nata dal convegno che Cnf, Fai e Dubbio hanno organizzato a Perugia lo scorso 8 marzo. Un’iniziativa dedicata a carcere e donne ma dalla quale è nata anche la proposta, accolta da buona parte della politica presente quel giorno: da Maria Elena Boschi, Debora Serracchiani oltre a Maria Stella Gelmini e Susanna Donatella Campione. Insomma, mentre il carcere vive una delle sue stagioni più drammatiche - sovraffollamento record e suicidi che colpiscono detenuti e agenti di polizia penitenziaria - l’idea di cambiare nome a una struttura destinata a costruire nuove carceri, potrebbe risultare decisiva per cambiare approccio e paradigma. Decisiva, certo, ma anche “legale”, perché la detenzione non può non muovere dalla nostra Costituzione, dall’articolo 27, naturalmente, lì dove afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E una rieducazione in strutture pensate solo come forme di contenimento è impossibile. E qui vengono in soccorso le decine di studi che da decenni dimostrano quanto un ambiente carcerario che non sia solo coercitivo abbatta la reiterazione dei reati creando comunità più sicure. Insomma, un vantaggio per chi è dentro ma anche per chi è fuori. D’altra parte architetti e neuropsichiatri confermano che la progettazione di nuove carceri non può diventare mera costruzione di container contenitivi. “È dimostrato scientificamente che vivere in luoghi estremi varia la funzionalità e l’anatomia del cervello umano”, spiega Federica Sanchez, ricercatrice in neuroscienze applicate all’architettura presso la società Lombardini 22”. “Parliamo di ambiente estremo quando una o più caratteristiche spaziali vengono fortemente ripetute, esasperate o ridotte, mi riferisco alla luce o alla mancanza di luce, alla profondità visiva disponibile, i colori, le forme, la prossemica, la distanza del corpo dalle pareti. Sono stati condotti diversi studi sulle conseguenze neurofisiologiche e psicologiche subite dai membri di spedizioni nello spazio, in Antartide e nelle attività di esplorazione sotterranea, allo stesso modo esistono evidenze sugli effetti della prigione. L’ambiente architettonico e quello sociale sono aspetti fondamentali per il benessere mentale delle persone, nell’universo carcerario la salute viene danneggiata per diverse ragioni: l’allontanamento della persona dalla società, la mancanza di scopi e significato della vita, le condizioni spaziali estreme come il sovraffollamento, l’isolamento, l’esposizione alla violenza”. Insomma, l’isolamento può addirittura modificare la struttura anatomica e le funzionalità del cervello. “Uno dei casi più noti è quello di Robert King - spiega ancora Sanchez - un ex detenuto statunitense che ha trascorso 29 anni in una cella di isolamento. Una volta uscito di prigione King ha accusato la perdita delle proprie capacità di orientamento spaziale e di coscienza del proprio posizionamento tridimensionale nello spazio. Il caso ha interessato la neuroscienziata Huda Akil la quale ha ipotizzato che l’isolamento protratto abbia innescato modifiche anatomiche nel cervello di King, in particolare nella zona dell’ippocampo che è un’area fondamentale per la memoria, per il riconoscimento spaziale. La mancanza di relazioni sociali può trasformare l’anatomia del cervello e ridurre la massa di alcune regioni critiche per il pensiero e il controllo delle emozioni e alterare la connettività tra amigdala e lobi frontali a cui si associa un aumento dei disturbi del comportamento”. Idea per la quale da anni si batte l’Architetto Cesare Burdese: “L’edilizia ha orizzonti assai limitati, mentre l’architettura è portatrice di valori e contributi superiori, che, in maniera olistica, investono l’esistenza dell’individuo che utilizza l’edifico e dell’intera comunità sociale. Già in passato, l’architetto Sergio Lenci sosteneva la necessità di portare nelle facoltà di Architettura lo studio del carcere, dove ancora oggi, salvo rarissime eccezioni, è scarsamente considerato”. E ancora: “I nostri istituti sono architettonicamente informati secondo logiche securitarie, con soluzioni che sconfinano nell’afflittività, a scapito della funzione rieducativa della pena”. Insomma, un cambio di paradigma che necessario per far tornare il carcere nella Costituzione. “Il sovraffollamento non può attendere altri dieci anni e le celle-container sono solo uno spot” di Franco Insardà Il Dubbio, 14 aprile 2025 Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, denuncia il collasso del sistema penitenziario e ricorda che almeno un terzo dei detenuti potrebbe essere fuori. “Il governo dichiara di voler costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento, ma sa bene che ci vorranno decenni, mentre l’emergenza è adesso. Le condizioni in cui vivono i detenuti, la polizia penitenziaria e tutto il personale degli istituti sono indegne. Peggio di alcune porcilaie, e lo dico senza esagerare”. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, attivista di Nessuno Tocchi Caino e da sempre radicale, conosce come pochi la realtà delle carceri italiane. Se ne occupa da anni, dentro e fuori il Parlamento, incalzando le istituzioni sui diritti dei detenuti e degli operatori. Onorevole Giachetti, partiamo dal nodo centrale: il sovraffollamento. Cosa sta facendo il governo per affrontare questa emergenza? Sostanzialmente nulla. E c’è di peggio: il governo tenta di mascherare il problema, proponendo soluzioni che non hanno niente a che vedere con il sovraffollamento. Parliamo di una vera e propria emergenza, da trattare come tale, a prescindere dagli altri problemi strutturali che affliggono gli istituti penitenziari. Perché parla di “emergenza”? Lo ripeto: alcune carceri italiane sono paragonabili a delle vere porcilaie. In molti penitenziari mancano persino i requisiti igienico-sanitari minimi. Ho presentato un’interrogazione parlamentare proprio su questo punto: la legge prevede che le Asl effettuino ispezioni e producano relazioni sullo stato igienico, ma non abbiamo alcuna certezza che vengano realmente svolte, né tantomeno informazioni sul contenuto di tali relazioni. Costruire nuove carceri o ristrutturare vecchie caserme è una soluzione praticabile? No, perché si tratta di un’operazione che richiederà anni, forse un decennio. E poi non basta costruire muri: manca il personale. La polizia penitenziaria è già sotto organico di almeno il 30%. Senza nuove assunzioni, quelle strutture resteranno comunque inutilizzabili. Dal punto di vista dell’edilizia penitenziaria, qual è la situazione? Disastrosa. Alcune strutture sono del tutto inagibili. A Favignana, ad esempio, c’era un carcere sotto il livello del mare, con l’umidità che trasudava dai soffitti. È stato chiuso e ne è stato costruito uno nuovo, ma si tratta di un’eccezione. Se mi dicessero “costruiamo nuove carceri per chiudere quelle indegne”, allora potrei anche essere d’accordo. Ma non è così. Con nuove carceri non si rischia di far aumentare il numero dei detenuti? Questo è il punto. Abbiamo circa 62.000 detenuti, e almeno un terzo non dovrebbe essere in carcere: sono in attesa di giudizio. La custodia cautelare è ormai diventata la norma, anziché l’eccezione. E poi ci sono tossicodipendenti e persone con gravi problemi psichiatrici, che dovrebbero essere seguite in strutture alternative. Intervenendo solo su queste categorie, il problema del sovraffollamento si ridurrebbe drasticamente. E invece? E invece continuano a creare nuovi reati. Ogni giorno un reato nuovo. È un sistema che produce carcere, non che lo riduce. Si era parlato di rafforzare le comunità per i tossicodipendenti. Che fine ha fatto quella proposta? È rimasta un annuncio. Quando presentai la mia proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale, si parlava dell’imminente arrivo di un “decreto carceri”. Il giorno in cui la mia proposta era in discussione, si riunirono a Palazzo Chigi per affossarla e approvare il decreto. Nel testo, però, non c’era nulla di risolutivo: solo la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria (Marco Doglio). Da fine settembre a oggi, l’unica proposta concreta è stata quella dei prefabbricati: follia pura. Le famose “celle-container”? Esattamente. Si parla di 384 posti, ciascuno dei quali costa 83.000 euro, mentre abbiamo almeno 16.000 detenuti in eccesso. È solo propaganda. Lei visita tante carceri. Che situazioni trova? Pessima. Da Poggioreale a Viterbo, dall’Ucciardone a Reggio Emilia: celle sovraffollate, ambienti fatiscenti, condizioni igieniche drammatiche. A Viterbo, ad esempio, per mancanza di spazio, si usano ex uffici come celle, dove non ci sono nemmeno i bagni. I detenuti sono costretti a urinare nelle bottiglie. Siamo a questi livelli. Molti parlamentari periodicamente visitano le carceri, ma in Aula, dopo queste visite, succede qualcosa? Quelle visite sembrano un modo per lavarsi la coscienza. In Parlamento non succede nulla. Non c’è attenzione alle proposte concrete e le iniziative vengono sistematicamente bocciate. È successo anche con la mia proposta sulla liberazione anticipata speciale: abbiamo perso cinque mesi per poi vederla insabbiata in Commissione. Quindici giorni fa le opposizioni hanno chiesto una convocazione straordinaria della Camera sul tema carceri, presentando una mozione con proposte concrete: dalla liberazione anticipata all’aumento degli psicologi. I 5Stelle ne hanno presentata un’altra, mentre la maggioranza nulla e si è limitata a bocciare le nostre mozioni. Si parla spesso di suicidi in carcere. C’è una correlazione con il sovraffollamento? Io non ho prove scientifiche per dirlo con certezza, ma sono convinto che un legame ci sia. Invece il ministro Nordio continua a ripetere che non c’è alcuna correlazione. È sconcertante. Anche perché stiamo superando i livelli di sovraffollamento che portarono alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 2013. Eppure, invece di affrontare davvero il problema, si limitano a spot e dichiarazioni vuote. E il panpenalismo non fa altro che aggravare la situazione, anche negli Ipm… Sì. Dopo il decreto Caivano, gli Ipm sono in condizioni molto simili a quelle delle carceri. Siamo arrivati al punto che anche i minori sono trattati come adulti, forse peggio. E sul fronte dell’affettività in carcere? Non si è mosso nulla, nonostante una sentenza della Corte costituzionale. Non sono riusciti neanche ad aumentare il numero di telefonate. E manca ancora il capo del Dap. Una mancanza non da poco... Esatto. Ma ciò che è ancora più grave è che non abbiamo nemmeno certezze sui numeri reali dei decessi in carcere. I dati del Dap, quelli del Garante e quelli delle associazioni non coincidono. E il sottosegretario Delmastro ha dichiarato esplicitamente che contano solo i dati del Dap, smentendo di fatto anche il Garante nazionale. È un gioco sporco, sulla pelle delle persone. Le stanze dell’affetto: umanità e rinascita oltre le sbarre di Carlo Di Stanislao ecoitaliano.com, 14 aprile 2025 In un’Italia dove il tema della detenzione è spesso ridotto a una questione di ordine pubblico o sicurezza, le stanze dell’affetto si impongono come una rivoluzione silenziosa, ma profonda. Sono spazi dedicati all’incontro privato e dignitoso tra i detenuti e i loro familiari, un diritto ancora troppo poco conosciuto ma essenziale per il rispetto della persona e per la funzione rieducativa del carcere. Non si tratta solo di un luogo fisico, ma di un simbolo potente: quello dell’umanità che resiste, che persiste anche tra le mura spesse dell’istituzione penitenziaria. La realtà è semplice e sotto gli occhi di tutti: chi è detenuto non smette di essere padre, madre, figlio, marito o moglie. La detenzione interrompe la libertà, ma non cancella gli affetti. Anzi, spesso li rende ancora più centrali per chi, da un giorno all’altro, si ritrova a fare i conti con l’isolamento, il tempo sospeso, il peso degli errori commessi. È in questo contesto che le stanze dell’affetto assumono un valore enorme. Ambienti arredati con cura, protetti dalla sorveglianza visiva, dove è possibile abbracciare senza fretta, parlare senza interruzioni, perfino condividere un pasto o leggere una fiaba a un bambino. Ogni gesto, in quel contesto, acquista un’importanza doppia. Quella stanza non è solo un luogo d’incontro: è un ponte tra la vita di fuori e quella di dentro. Dalla sperimentazione alla svolta culturale - Date come progetti pilota in pochi istituti aperti al cambiamento, le stanze dell’affetto hanno trovato negli anni un crescente riconoscimento istituzionale. Oggi sono presenti in numerose carceri italiane, anche se con diseguaglianze territoriali marcate. La svolta è avvenuta quando si è capito che non si trattava di un lusso, ma di una necessità. Le famiglie dei detenuti, spesso già segnate da povertà economica e sociale, hanno trovato in questi spazi una possibilità reale di mantenere relazioni stabili. Oggi la svolta più attesa: approvati anche i rapporti intimi - Con un atto di grande significato, oggi è arrivata l’approvazione ufficiale che estende la funzione delle stanze dell’affetto: sarà finalmente possibile vivere anche la propria intimità con il partner. Una novità attesa da anni, invocata da detenuti, associazioni e operatori del settore, e che finalmente riceve un riconoscimento formale. Non si parla di “visite coniugali” nel senso tradizionale, ma di un diritto più ampio alla relazione affettiva e sessuale, che non può essere annullata dalla reclusione. Come accade già in molti Paesi europei e del mondo, anche l’Italia ha scelto di compiere questo passo, con l’obiettivo di umanizzare ulteriormente la detenzione. Uno sguardo all’Europa e al mondo - L’Italia arriva oggi a colmare un ritardo culturale e giuridico che la separava da molti altri Paesi. In Francia, ad esempio, esistono da tempo i cosiddetti UVF (Unités de Vie Familiale), veri e propri mini-alloggi all’interno delle carceri dove i detenuti possono trascorrere fino a 72 ore con le loro famiglie, senza sorveglianza diretta. In Spagna, le visitas íntimas sono garantite ogni 15 giorni per tutti i detenuti che abbiano un legame affettivo riconosciuto. Anche in Germania le carceri prevedono incontri in ambienti protetti, spesso arredati come appartamenti, per favorire la continuità affettiva. Nel Nord Europa, l’attenzione alla vita privata dei detenuti è ancora più marcata: in Norvegia, per esempio, le carceri a custodia attenuata permettono una gestione quasi domestica della detenzione, con libertà di movimento interna, cucine personali, e incontri familiari regolari. Nei Paesi Bassi e in Svezia, il concetto di “normalizzazione” guida tutto il sistema penitenziario: la vita dentro deve assomigliare il più possibile a quella fuori, per preparare il detenuto a un reinserimento reale. Anche in America Latina - seppure con molte differenze - esistono programmi di visite intime, nati in molti casi per prevenire violenze interne o contagi da HIV. In Brasile e in Messico, ad esempio, sono previsti appuntamenti regolari per coniugi e partner stabili. Negli Stati Uniti, la situazione è più complessa: solo alcuni stati (come la California o il New Mexico) consentono visite coniugali, mentre in molti altri sono vietate. Il dibattito è ancora acceso, diviso tra chi invoca maggiore umanizzazione del sistema e chi insiste su una linea punitiva. Un gesto rivoluzionario nella sua semplicità - Permettere a due persone che si amano di avere un momento di intimità non è un favore. È il riconoscimento di un bisogno fondamentale. È il rifiuto dell’idea che il carcere debba annientare ogni forma di identità, fino a spersonalizzare l’individuo. È una risposta concreta a chi pensa che chi è detenuto debba essere solo punito, dimenticato, escluso. L’intimità non è solo una questione fisica: è contatto, confidenza, condivisione. È la possibilità di sentirsi ancora umani, ancora desiderati, ancora parte di un legame. In carcere, dove tutto è controllato e scandito da regole, anche dieci minuti di vicinanza possono rappresentare un’ancora psicologica potentissima. Il valore educativo e la ricaduta sociale - Tutto questo ha una ricaduta profonda sul piano sociale e rieducativo. Chi ha una relazione sana, chi continua ad avere una famiglia, chi si sente amato e supportato, ha molte più probabilità di non ricadere negli stessi errori. Le statistiche europee mostrano chiaramente che un buon mantenimento dei legami affettivi riduce la recidiva. Le stanze dell’affetto, e oggi anche la possibilità di vivere l’intimità, sono quindi anche una misura di prevenzione. Molti detenuti hanno testimoniato come questi momenti siano determinanti nel percorso di cambiamento: “È per loro che voglio uscire diverso”, dicono. Dietro ogni incontro c’è un progetto di vita, un figlio che chiede un padre migliore, un amore che non si arrende. Conclusione: più forti con l’affetto - Le stanze dell’affetto — oggi anche stanze dell’intimità — sono una conquista di civiltà. Sono la prova che si può fare un carcere diverso: più umano, più giusto, più efficace. Investire nei legami, nell’amore, nella dignità, non è un’utopia. È un modo concreto per restituire valore alle persone, anche a quelle che hanno sbagliato. Perché solo riconoscendo l’umanità in ciascuno possiamo costruire una società più sicura, più coesa, e davvero più giusta. Parodi (Anm): “Avviliti dalle accuse del Governo. La riforma ferisce la nostra credibilità” di Niccolò Carratelli La Stampa, 14 aprile 2025 Il presidente dell’Anm domani all’incontro con il ministro Nordio: “Affronti i problemi del nostro lavoro”. L’autocritica sulle correnti dei magistrati: “Distorsioni da correggere, ma subiamo attacchi strumentali”. Domani mattina una delegazione dell’Associazione nazionale magistrati è attesa da Carlo Nordio al ministero della Giustizia. Un incontro in agenda da tempo, ma che si è caricato di significato dopo la sequela di attacchi alla magistratura da parte del ministro e di esponenti del governo, a cominciare dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Magistrati mossi da “logiche di potere”, condizionati da “degenerazioni correntizie”, che “deragliano dai propri confini” per “erodere la sovranità popolare”. Cesare Parodi, presidente dell’Anm, con che stato d’animo incontrate il ministro? “Quelle parole non ci hanno fatto certo piacere. Ma la vita continua, che senso avrebbe rifiutare il confronto? Noi abbiamo ricevuto un mandato dai colleghi, per affrontare con il ministro una serie di problemi urgenti che riguardano non solo la riforma ma anche la nostra attività, le nostre condizioni di lavoro”. Pensa che quelle accuse siano strumentali? O ci sono elementi su cui fare autocritica? “L’autocritica va sempre fatta. L’Anm è consapevole di alcune problematiche e del fatto che abbiamo perso credibilità di fronte all’opinione pubblica. Anche per nostre responsabilità, ma soprattutto perché subiamo attacchi strumentali, a livello politico e mediatico. Tanti non hanno più fiducia nella magistratura e questo può favorire la riforma proposta dal governo”. Mentre, dal vostro punto di vista, è sbagliata: perché? “Non serve minimamente a rispondere alle effettive esigenze del sistema giudiziario. Non è una riforma della giustizia, non cambierà di una virgola l’efficienza degli uffici o la durata dei processi”. È una riforma ideologica e punitiva, come sostengono alcuni suoi colleghi? “Di certo, viene percepita così da molti magistrati. Ci sono disposizioni che nuocciono alla credibilità della magistratura e ne pregiudicano l’immagine, oltre a penalizzare nel concreto l’attività lavorativa. Siamo avviliti di fronte ad alcune misure, a cominciare dal sorteggio per i membri del Csm: mi dica quale categoria in Italia non ha il diritto di scegliere i propri rappresentanti”. Vogliono depotenziare le correnti interne alla magistratura. Sbagliano? “Non ci nascondiamo dietro a un dito, ci sono distorsioni da correggere, ma le soluzioni drastiche non aiutano. Se vogliamo un Csm che collabori in maniera corretta con governo e Parlamento, deve essere composto da colleghi realmente rappresentativi della maggioranza dei magistrati. Le nostre non sono ragioni ideologiche, ma tecniche e operative”. Lo spiegherà ai partiti di maggioranza? In settimana avete in programma incontri anche con i gruppi parlamentari… “Sì, abbiamo chiesto a tutti un incontro e abbiamo già visto alcune forze di opposizione, che sulla riforma la pensano in modo simile a noi. Ora parleremo anche con rappresentanti di Fratelli d’Italia e Forza Italia, perché è giusto confrontarsi con chi ha idee diverse e capire le loro motivazioni”. Non ha citato la Lega... “Non ci hanno risposto, pazienza. Idem Azione, ma nessuno è obbligato a incontrarci”. Per il ministro è un dovere, quali sono le questioni che gli sottoporrete? “In sintesi, c’è il problema dell’informatizzazione, in particolare nel settore penale, senza prevedere un’idoneità specifica. Poi le enormi carenze di personale, che non consentono ai magistrati di trattare fascicoli già definiti, per mancanza di cancellieri e assistenti. Ancora, l’edilizia e la geografia giudiziaria, che hanno molto a che fare con le nostre condizioni di lavoro. Senza dimenticare il sovraffollamento delle carceri e l’aumento del numero di suicidi tra i detenuti”. Nordio ha sostenuto in Parlamento che il sovraffollamento è colpa vostra, perché mandate troppa gente in carcere... “Poi ci siamo incontrati a un convegno e gli ho detto: “Pensavo che il mio compito fosse quello di applicare le leggi”. E lui? “Ha detto che è stato frainteso e che non voleva dare la colpa ai magistrati”. Intanto, hanno approvato il decreto Sicurezza, con nuove fattispecie di reati: questo come si concilia con la riduzione del numero di detenuti? “Sul decreto Sicurezza stiamo preparando un documento con una valutazione organica delle criticità. A partire dalla costituzionalità, perché si fatica a comprendere quali siano i motivi di urgenza. Poi, certo, prevedere nuove fattispecie di reati è in controtendenza con la preoccupazione, condivisa dallo stesso ministro Nordio, per l’aumento della popolazione carceraria. Ma ci sono varie questioni su cui auspichiamo un ripensamento e penso ci sia lo spazio per delle correzioni in fase di conversione del decreto”. Musolino: “Se la magistratura fosse servente al potere non ci sarebbe più tutela dei diritti” di Elisa Barresi ilreggino.it, 14 aprile 2025 Ha parlato ai giovani francamente e senza nascondere nulla ha evidenziato come viviamo in un “Governo della paura che crea nemici immaginari orientando le nostre decisioni tramite algoritmi gestiti da pochi”. La paura vista come un’arma. L’equilibrio e la l’indipendenza come strumenti per tutelare libertà e diritti. Il Procuratore della Repubblica Stefano Musolino ha affrontato temi cruciali legati al sistema penitenziario e al ruolo della magistratura nell’attuale contesto politico e sociale. Nel corso di uno dei progetti Civitas, un’iniziativa che coinvolge giovani nella sensibilizzazione su tematiche carcerarie che mira a creare un ponte tra il mondo esterno e quello dei detenuti, il procuratore ha avuto modo di entrare nel vivo di un’attualità disarmante. Musolino ha sottolineato l’importanza di un confronto costruttivo sulle riforme del sistema giudiziario. “La giustizia non può essere considerata solo un apparato punitivo, ma deve avere una dimensione educativa e di reinserimento”, ha dichiarato il procuratore, evidenziando come i ragazzi impegnati nel progetto stiano contribuendo a smantellare pregiudizi e a promuovere una cultura della legalità. Il procuratore ha anche affrontato il delicato tema della magistratura, la cui autonomia sembra essere messa in discussione. “La magistratura deve rimanere indipendente e libera da ogni tipo di influenza”, ha affermato. Però c’è chi la libertà - anche quella di frequentare una scuola - non l’ha sempre avuta. Musolino l’ha chiamata fortuna o destino, ma è anche una questione di opportunità. Il dilemma rimane legato a una domanda che alle nostre latitudini sorge spontanea: che opportunità offre oggi questo territorio ai giovani per rimanere fuori da quel circuito che poi porta dentro le carceri? “Purtroppo non ne dà molte. È uno dei problemi fondamentali che abbiamo. Lo diciamo da un po’ di tempo: affidare soltanto alla repressione penale - e quindi al carcere - la soluzione dei problemi che stanno alla base della crisi di legalità, e quindi anche della capacità che ha la criminalità organizzata di dare risposte ai bisogni delle persone, è una scorciatoia. È prima di tutto un problema socio-economico e culturale. Per questo l’idea di entrare nelle scuole, risponde a un’esigenza: far capire ai ragazzi quali opportunità esistono, come poterle governare, e soprattutto far comprendere loro - anche in questo contesto - quanto sia importante avere accesso a opportunità, rispetto a chi non ne ha avute. Ecco perché è fondamentale stare vicino a chi è più debole e più fragile”. L’esperimento di portare i ragazzi a contatto con queste realtà sembra essere una strada percorribile per avere un cambiamento significativo... “Funziona. Ed è un esperimento che deve essere portato avanti. Io credo che tutto ciò che serve a togliere il carcere dalla marginalità in cui è rinchiuso, sia necessario. Oggi il carcere viene visto come un luogo dove confinare i problemi sociali. Si pensa che più carcere e più reati, con aumenti di pena, siano una soluzione. Ma questa visione si sposa con le paure che vengono introiettate nella società: serve ad aggregare consenso, a governarlo. Purtroppo, però, non offre soluzioni vere. Sono solo risposte palliative, apparenti. Il carcere non è mai la soluzione ai problemi che percorrono la società”. Ha parlato di un “governo della paura”, collegandolo alla questione migranti. Questo “straniero” che dovrebbe farci paura, anche quando non fa paura, anche quando è la parte più fragile, più lesa. Ai ragazzi questo messaggio arriva in modo forte, anche perché è la loro attualità. Ma perché ci vogliono impauriti? “Sì. Questo è un dato che ormai emerge in modo evidente. Tutta la nostra comunicazione è legata ad algoritmi controllati da pochissime persone, che - soprattutto sui social - governano le nostre scelte, orientandole sempre di più verso la paura. La scienza dimostra che siamo più incuriositi da ciò che ci fa paura. E quindi andiamo a scegliere contenuti che ci spaventano. Gli algoritmi si adeguano e ci offrono esattamente quello: un clima di paura, che però ci presenta una realtà molto più paurosa di quanto sia davvero. La realtà è meno inquietante. Non perché non ci siano problemi di sicurezza pubblica - ci sono - ma andrebbero affrontati per quello che sono. Soprattutto, evitando di individuare categorie nemiche, creando nemici immaginari”. Uno spaccato che sposta la riflessione sull’attuale braccio di ferro che il Governo sta mantenendo chiudendo il dialogo con la magistratura sulla riforma della giustizia. E in questo momento, forse, stanno indicando anche i magistrati come una categoria “nemica”. Significa che anche la magistratura, oggi, viene letta come ostacolo? “Sì. Questo è un problema che riguarda tutte le democrazie occidentali. I contropoteri al potere esecutivo, come la magistratura, sono vissuti con fastidio, perché si ritiene che ostacolino l’attuazione delle politiche di governo. Ma si dimentica che quello che fa la magistratura - insieme ad altri organi di garanzia - è tutelare i diritti delle minoranze. E diventare minoranza, oggi, ci vuole poco. Pensate a quello che è successo negli Stati Uniti: Elon Musk a un certo punto ha deciso di licenziare una serie di dipendenti pubblici. Gente che non avrebbe mai immaginato di diventare minoranza, si è ritrovata minoranza grazie a una potente macchina social. Le loro prestazioni sono state definite “non adeguate”, “non presentabili”. E sono arrivati i licenziamenti via mail. Ecco, se non ci fosse un giudice, una magistratura autonoma e indipendente, queste persone non avrebbero tutela. Se la magistratura fosse servente al potere della maggioranza del momento - come qualcuno vorrebbe - non ci sarebbe più tutela dei diritti”. Linee guida del CSM per “disciplinare” libertà e diritti dei magistrati? Un’iniziativa inammissibile questionegiustizia.it, 14 aprile 2025 Sul quotidiano Il Domani del 9 aprile si dà notizia di un’iniziativa assunta dal Consigliere laico del CSM Felice Giuffrè: l’apertura di una pratica “per la definizione delle linee guida in ordine alla partecipazione dei magistrati ad eventi pubblici e per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione nel rispetto dell’interesse costituzionale alla garanzia del prestigio, della credibilità, dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura”. Vasto programma ed obiettivo ambizioso. Se non fosse che i diritti fondamentali dei magistrati - di parola, di riunione, di associazione - e l’equilibrio tra tali diritti e i valori di indipendenza, imparzialità e credibilità della magistratura sono già scritti in testi più solenni ed impegnativi di una circolare del CSM. La Costituzione innanzitutto. E poi le norme del codice disciplinare e del codice etico dei magistrati e le sentenze della Corte costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che su questi temi hanno detto parole chiare ed esaustive. È singolare che mentre si contesta l’esercizio di poteri espressamente attribuiti al Consiglio Superiore dalla legge o direttamente “strumentali” rispetto alle sue competenze normative, si pretenda di ampliare a dismisura il suo raggio di azione, letteralmente “inventando” una sua funzione di orientamento ideale e di precettore dei magistrati. Negli atti di amministrazione e nelle sentenze del giudice disciplinare il Consiglio ha certamente modo di pronunciarsi più volte su questioni attinenti alla presenza ed alla parola pubblica dei magistrati. Ma ciò avviene in attività di “puntuale” applicazione della legge e non nell’esercizio di un autonomo potere di indirizzo e di disciplina che certamente non spetta al Consiglio. Se mai c’è da lamentare che, di recente, in una pluralità di casi si sia tentato di forzare i limiti naturali dell’istituto del trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, concepito per tutt’altre finalità, per contestare e punire il libero esercizio della libertà di manifestazione del pensiero. Tentativi respinti dalla maggioranza dei consiglieri ma espressivi di una tendenza illiberale che mira ad ammonire i magistrati dall’esprimere opinioni sgradite al potere, agitando la prospettiva di un trasferimento forzato. Nel “rumore” e nella “furia” che ormai connotano sistematicamente le discussioni sulle questioni di giustizia, sarebbe bene che l’intero Consiglio restasse un luogo di razionalità giuridica ed istituzionale, senza prestarsi a fare da sponda a spericolate operazioni di irreggimentazione e compressione dei diritti dei magistrati. Il Consiglio Superiore è organo di “amministrazione della giurisdizione”, non la guida paternalistica né l’occhiuto guardiano dei magistrati sul terreno dei loro diritti e delle loro libertà. Se ne prenda atto e ci si concentri, più utilmente, sui molti, importanti e gravosi compiti di istituto. Consulta, il presidente Amoroso: “Futuro incerto ma stato di diritto saldo ancoraggio” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2025 Nel corso della Relazione annuale il Presidente ha detto tra l’altro che il controllo di costituzionalità sulle leggi “rappresenta ormai una connotazione essenziale dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa”. Viviamo “oggi in tempi difficili” con “nuove preoccupazioni che affollano i nostri pensieri, anche a causa di una guerra in terra d’Europa”. “Il futuro è divenuto incerto e nello scenario globale vari parametri sembrano in rapido e imprevedibile mutamento. Ma lo stato di diritto costituisce ancora saldo ancoraggio del vivere insieme come consorzio civile con comunanza di valori e principi fondamentali, i quali danno corpo al patto fondativo della società. Ne è componente essenziale il controllo di costituzionalità”. Lo ha detto il Presidente della Corte costituzionale, Giovanni Amoroso, nel corso della Riunione straordinaria della Consulta leggendo la Relazione annuale sull’attività e sugli indirizzi giurisprudenziali della Corte nel 2024, alla del Capo dello Stato e delle più alte cariche. Aggiungendo che il controllo di costituzionalità sulle leggi “rappresenta ormai una connotazione essenziale dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa”. “Rimane certo il limite, oltre il quale vi è la discrezionalità delle scelte politiche, ma, nella consapevolezza e nel rispetto di questo limite, la Corte è chiamata a dare tutela ai diritti fondamentali e a svolgere la sua missione di giudice delle leggi nel più ampio contesto di leale collaborazione istituzionale”. “Il riconoscimento di nuovi diritti - ha proseguito Amoroso - spetta al Parlamento e anche la loro estensione appartiene alla dinamica della politica. Consapevole di ciò, la Corte ha fatto ricorso ai criteri di ragionevolezza e di proporzionalità sempre con motivate argomentazioni, con l’effetto comunque di ritagliare, ormai da tempo, un’area più estesa di sindacato sull’esercizio del potere legislativo”. “Strettamente legato al tema delle fonti del diritto e dei limiti generali del potere legislativo - ha spiegato - è quello che fa riferimento all’ordinamento sovranazionale multilivello e in particolare al diritto dell’Unione europea e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. “Le pronunce della Corte nel 2024 sono state 212. Di queste 138 sono state rese in giudizi incidentali; è un numero ben maggiore - ha commentato - di quello registrato nello stesso anno nei giudizi incidentali di altre Corti europee, come, in Francia, al Conseil constitutionnel e, in Germania, al Bundesverfassungsgericht. Ben 94 pronunce recano dispositivi di illegittimità costituzionale. Sono soprattutto tali ultime sentenze che hanno modificato l’ordinamento giuridico sia cancellando disposizioni quando sono consistite in pronunce meramente caducatorie, sia correggendone altre e inserendone talora di nuove quando la Corte ha fatto ricorso a pronunce additive o sostitutive”. Durante la conferenza stampa è stato richiamato il recente intervento del sottosegretario Mantovano, in sostituzione della Presidente Meloni, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, in cui ha paralto di “cronico sviamento della funzione giudiziaria” che “deraglia dai propri confini” e del rischio di una magistratura che si percepisca come “parte di un establishment” attribuendosi la “pericolosa” funzione di bloccare l’azione di governo. Sollecitato più volte sul tema il Presidente Amoroso si è tenuto lontano dalle polemiche. “Non è una novità - ha dettto - la preoccupazione di debordamento e la critica che viene rivolta all’ordinamento giudiziario dei suoi confini. Ricordo il caso Englaro, quando la pronuncia della Cassazione fu oggetto di un conflitto tra poteri. Il giudice del bilanciamento dei poteri è la Corte, che è l’ultima frontiera. Aldlilà di questa frontiera speriamo di non arrivarci mai, tutto è contenuto nelle regole”. E se l’indipendenza della magistratura “è un pilastro dello Stato di diritto che va preservato”, la critica delle motivazioni alla base delle sentenze è sempre possibile. “Non è invece accettabile - ha aggiunto - che ci possano essere attacchi personali perché qui si va su un terreno diverso, di delegittimazione della magistratura ed è poi un terreno scivoloso che bisogna evitare a tutti i costi”. “Il governo dei giudici - ha detto - certamente non è auspicabile ma sarebbe preoccupante anche il governo senza giudici. Il nostro sistema che è equilibrato contiene gli antidoti per arginare potenziali tracimazioni tra i poteri, siamo molto affezionati a questo principio ed è al fondo del patto sociale e della costituzione”. Migranti, questione complessa - Nello scontro politico-giudiziario nato sui migranti “provenienti da Paesi cosiddetti sicuri” i diversi protagonisti hanno adottato strade differenti, ma se “in ipotesi questo conflitto fra ordine giudiziario e potere esecutivo non fosse risolvibile con politiche e strumenti ordinari alla fine c’è il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato”. “Abbiamo visto i giudici - ha spiegato - che hanno preso strade diverse. C’è chi ha ritenuto ci fosse una violazione delle norme europee e non ha applicato la norma interna in ragione del principio della preminenza delle norme dell’Unione europea, c’è chi invece ha dubitato che ciò emergesse chiaramente dalla interpretazione della normativa europea e quindi ha interrogato la Corte di giustizia, un altro canale; un altro giudice ha interrogato la Cassazione, ha sollevato la questione interpretativa pregiudiziale e qui abbiamo avuto la pronuncia della Cassazione. Su un aspetto diverso che riguardava il rispetto del principio del contraddittorio un altro giudice, in questo caso la Cassazione, ha investito la Corte costituzionale. Vede quanti protagonisti di questa vicenda: il giudice che fa da sé, il giudice che interroga la Corte di giustizia, il giudice che interroga la Cassazione, il giudice che solleva la questione di costituzionalità”. “Questo - ha osservato ancora il presidente Amoroso - è conseguenza dalla complessità del sistema: soprattutto quando è multilivello, cioè ordinamento nazionale ma anche ordinamento sovranazionale, quello europeo. Governare la complessità non è facile ma gli strumenti ci sono: gli strumenti di garanzia, quelli ordinari e quelli straordinari tra virgolette, il coinvolgimento della Corte”, ha concluso con il riferimento allo strumento del conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Pena, deve tendere alla riabilitazione – “L’esecuzione della pena deve tendere alla riabilitazione del condannato con modalità che non rappresentino aggravamenti ingiustificati della stessa”, ha detto Amoroso. E richiamando il principio di proporzionalità, ha aggiunto che “la pena deve essere proporzionata alla fattispecie penale anche affinché non sia compromessa la sua finalità rieducativa”. Carcere, suicidi e affettività - “Quella dei suicidi in carcere è una tragedia”. E sulla questione dell’affettività in carcere sdoganata da una sentenza della Consulta ma non attuata per difficoltà logistiche, ribadite nei giorni scorsi al question time dal Ministro Nordio, ha commentato: “La Corte era ben consapevole che sull’affettività dei detenuti ci sarebbero stati problemi organizzativi. È un cammino da intraprendere per rendere effettiva questa tutela. Adesso però l’impedimento è stato rimosso, la Corte il suo compito lo ha svolto”. “Ora c’è il problema organizzativo da affrontare, immagino che ci sia una gradualità”. Quorum decisionale Consulta - Interrogato sulle difficoltà della politica a reintegrare il ?plenum col rischio di una paralisi decisionale, Amoroso ha proposto una strada. “Siamo stati in 14 e in 11; c’è un quorum deliberativo perché la Corte possa funzionare. Quando si arriva a doverne eleggere quattro il rischio è il blocco della Corte quindi forse si potrebbe ripensare a quel quorum deliberativo minimo, ed interrogarsi se 11 giudici su 15 non sia già troppo elevato facendo correre alla Corte il rischio di bloccarsi”. Governatori, divieto terzo mandato vale per tutti - “La Corte si è preoccupata di affrontare il tema in termini generali per ricostruire l’assetto di sistema, con riferimento anche ad altre Regioni in modo da affermare un principio che valga per tutti e quindi questo vale per la Regione Campania e vale per tutte le Regioni a statuto ordinario. Non ci siamo occupati delle Regioni a statuto speciale, la pronuncia riguarda quelle a statuto ordinario”. Occupazione di immobili, misura cautelare speciale di reintegra nel possesso di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2025 Al via il decreto legge con diverse norme in tema di sicurezza pubblica. Le alte pene previste per il nuovo reato consentono il ricorso alle intercettazioni. Un nuovo reato e una misura cautelare reale per contrastare il fenomeno dell’occupazione degli immobili. A prevederli è il decreto legge sicurezza (48/2025), approvato tra le proteste e in vigore da sabato 12 aprile. Ora il testo (che assorbe quasi per intero le misure contenute nel disegno di legge sicurezza già licenziato dalla Camera) deve iniziare il suo percorso in Parlamento per la conversione in legge. Il nuovo reato è uno dei circa 20 interventi contenuti nel decreto legge negli ambiti della sicurezza urbana, del contrasto al terrorismo e della tutela delle forze dell’ordine. L’occupazione arbitraria - Il delitto di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, previsto dal nuovo articolo 634-bis del Codice penale, punisce severamente - con la reclusione da due a sette anni - chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, o impedisce il rientro del proprietario o di chi lo detiene legittimamente. Nello stesso modo è punito chi si appropria di un immobile destinato a domicilio altrui o di sue pertinenze con artifici o raggiri o cede ad altri l’immobile occupato o si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile, o riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione. Il delitto è perseguibile a querela. Si procede d’ufficio se la vittima è incapace per età o infermità o se si tratta di edifici pubblici o destinati a uso pubblico. L’occupante che collabora all’accertamento dei fatti e ottempera volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile è premiato con la non punibilità. L’alto tetto di pena consente il ricorso alle intercettazioni. Viene poi introdotta una misura cautelare reale speciale, vale a dire la reintegrazione nel possesso dell’immobile e delle sue pertinenze, che il giudice dispone con decreto motivato su richiesta del Pm. La prevede il nuovo articolo 321-bis del Codice di procedura penale, in base al quale la polizia giudiziaria che riceve la denuncia può chiedere il rilascio dell’immobile; in caso di diniego dell’accesso, resistenza, rifiuto o assenza dell’occupante, può procedere coattivamente. Delle operazioni compiute è redatto verbale. Nelle 48 ore successive il verbale è trasmesso al Pm, che può disporre la restituzione dell’immobile al destinatario dell’ordine di rilascio, oppure chiedere al giudice la convalida e l’emissione di un decreto di reintegrazione nel possesso. Nel silenzio del decreto, sarà la legge di conversione (o la giurisprudenza) a chiarire se sarà ammissibile la richiesta di riesame contro la nuova misura cautelare. Le altre misure - Sempre in tema di sicurezza urbana si collocano le modifiche ad accattonaggio e truffa. Nel primo delitto l’età del minore usato per mendicare si alza a 16 anni e si alzano le pene, con possibilità di ricorso alle intercettazioni. La truffa si inasprisce se il fatto è aggravato dall’avere profittato di circostanze, anche in relazione all’età, che ostacolano la difesa: in questo caso viene previsto anche l’arresto obbligatorio in flagranza. Il decreto legge interviene anche a tutela delle forze dell’ordine. Si introduce il delitto di rivolta nelle carceri e nelle strutture di trattenimento dei migranti. La condotta sanzionata è la medesima in entrambi i casi e consiste nella partecipazione a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone punite. Sono penalmente rilevanti anche gli atti di “resistenza passiva” che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui opera il personale di custodia, impediscono il compimento degli atti necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. La condanna per rivolta nelle carceri è ostativa al rilascio dei benefici penitenziari se ci sono collegamenti con la criminalità organizzata. La scheda: tutti i nuovi reati e le sanzioni, divisi per ambiti di intervento. Contrasto del terrorismo - Detenzione di materiale con fini di terrorismo (reclusione da due a sei anni); - Distribuzione, divulgazione, diffusione o pubblicizzazione di materiale con istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali o sostanze esplodenti, accecanti, tossiche o infiammabili (reclusione da sei mesi a quattro anni); - Omessa comunicazione di dati in caso di noleggio di veicoli (arresto fino a tre mesi o ammenda fino a 206 euro) Sicurezza urbana - Occupazione arbitraria di immobile di domicilio altrui (reclusione da due a sette anni); - Aggravante fino a un terzo della pena per i delitti non colposi contro la vita, l’incolumità pubblica e individuale, la libertà personale e contro il patrimonio, se commessi all’interno o vicino a stazioni ferroviarie e metropolitane o convogli per trasporto passeggeri; - Truffa aggravata dall’avere profittato di circostanze di tempo, luogo o persona, anche per l’età, tali da ostacolare la difesa (reclusione da due a sei anni e multa da 700 a 3.000 euro); - Danneggiamento con violenza alla persona o minaccia (reclusione da uno anno e sei mesi a cinque anni e multa fino a 15.000 euro); - Per condanne per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di Tpl, la sospensione condizionale della pena è subordinata al rispetto del divieto, imposto dal giudice, di accedere a certi luoghi o aree; - Blocco di strada ordinaria o ferroviaria (reclusione fino a un mese o multa fino a 300 euro; reclusione da sei mesi a due anni se è commesso da più persone); - Impiego di minore nell’accattonaggio (reclusione da uno a cinque anni); - Organizzazione e favoreggiamento dell’accattonaggio e induzione e costrizione all’accattonaggio (reclusione da due a sei anni; aumento della pena da un terzo alla metà se è commesso con violenza o minaccia o verso persona minore di 16 anni o non imputabile); - Applicazione delle sanzioni penali previste dal Testo unico stupefacenti (Dpr 309/1990) per importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna di infiorescenze di canapa coltivata, con la sola esclusione della lavorazione delle infiorescenze per la produzione agricola dei semi per usi consentiti dalla legge Tutela del personale di forze dell’ordine e forze armate - Aumento fino alla metà della pena prevista per violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale (ipotesi base reclusione da sei mesi a cinque anni) se commessa in danno di pubblico ufficiale o agente di polizia giudiziaria o pubblica sicurezza; - Aumento fino a un terzo della pena se la violenza o la minaccia è commessa per impedire di realizzare infrastrutture per energia, trasporti, Tlc o altri servizi pubblici; - Lesioni personali a ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa delle funzioni o del servizio (reclusione da due a cinque anni per lesioni lievi, da quattro a dieci se gravi, da otto a 16 anni se gravissime); - Deturpazione di beni destinati a funzioni pubbliche, per ledere onore o decoro dell’istituzione (reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e multa da 1.000 a 3.000 euro; in caso di recidiva, reclusione da sei mesi a tre anni e multa fino a 12.000 euro); - Aumento fino a un terzo della pena per istigazione a disobbedire le leggi (ipotesi base reclusione da sei mesi a cinque anni) se commessa in carcere o con comunicazioni dirette a detenuti; - Rivolta in carcere (reclusione da uno a cinque anni per chi partecipa, da due a otto anni per chi promuove, organizza o dirige la rivolta; se è commessa con armi, reclusione rispettivamente da due a sei anni e da tre a dieci anni; se dal fatto deriva lesione involontaria, grave o gravissima, reclusione da due a sei anni e da quattro a 12; in caso di morte, sempre involontaria, reclusione da sette a 15 anni e da dieci a 18); - Rivolta negli hotspot di primo soccorso e accoglienza dei migranti e nei Cpr (reclusione da uno a quattro anni per chi partecipa e da un anno e sei mesi a cinque anni per chi promuove, organizza o dirige la rivolta; se è commessa con armi, reclusione rispettivamente da uno a cinque anni e da due a sette anni; se dal fatto deriva lesione involontaria, grave o gravissima, reclusione da due a sei anni e da quattro a 12; in caso di morte involontaria, reclusione da sette a 15 anni e da dieci a 18); - Rifiuto di obbedienza del comandante di nave straniera a nave da guerra nazionale, quando, nei casi consenti da norme internazionali, visita e ispeziona carte e documenti di bordo (reclusione fino a due anni); - Resistenza o violenza da parte di comandante o ufficiale di nave straniera contro nave da guerra nazionale per gli atti da questa compiuti nello svolgimento dei compiti in conformità delle norme internazionali (reclusione da tre a dieci anni, diminuita da un terzo alla metà per chi concorre nel reato). Le allucinazioni dell’intelligenza artificiale entrano nei tribunali di Gianluca De Cristofaro e Matteo Di Lernia Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2025 Come vengono affrontatati gli errori commessi dall’IA in campo giuridico. Dopo Usa, Australia, Canada e Uk il primo caso anche in Italia. Il fenomeno dell’”allucinazione” dell’Intelligenza Artificiale in campo giuridico ha visto la luce, per la prima volta, negli Stati Uniti, in particolare a New York. In quel caso, un avvocato aveva citato precedenti giurisprudenziali risultati poi inesistenti. Il legale, interrogato dalla Corte, aveva dichiarato di aver utilizzato ChatGPT, che, dopo ripetute interrogazioni per comprendere come mai non si trovasse riscontro delle decisioni citate dal sistema di AI, ha finalmente ammesso di “aver inventato”; non solo, in quell’occasione si era anche detta sinceramente dispiaciuta per il disturbo arrecato. Il giudice statunitense ha accertato la malafede nella condotta dei legali, fissando a loro carico una multa per 5.000 dollari. Anche in Australia è emersa l’inesistenza di diciassette casi citati da un legale nel contesto di un procedimento di appello contro un provvedimento del Ministro dell’immigrazione. Il Ministro, verificata la falsità delle sentenze citate, ha portato il caso di fronte alla Corte Federale, sostenendo fosse necessario “bloccare sul nascere” gli avvocati che utilizzano l’IA generativa senza controllare il proprio lavoro. In Canada, La Corte Suprema della British Columbia ha stabilito che, in ragione di sentenze citate risultate inesistenti ed emerse dall’interrogazione di un sistema di AI, il legale a cui era attribuibile la condotta avrebbe dovuto sostenere le spese per le misure che gli avvocati avversari hanno dovuto prendere per rimediare alla confusione creata dai falsi casi citati. Non solo. Il giudice ha inoltre ordinato all’avvocato di rivedere tutti gli altri propri atti, ordinando di avvisare ove emergessero materiali depositati o consegnati alla corte che contenessero citazioni di casi o riassunti ottenuti da ChatGPT o da altri strumenti di IA generativa. In UK, nel contesto di un processo di natura tributaria in cui una contribuente si era difesa da sola senza la rappresentanza di un avvocato, erano emerse nove sentenze citate ed estratte da ChatGPT risultate, anche in questo caso, false. Il procedimento si è concluso negativamente per la contribuente, e il Tribunale ha evidenziato che inventare sentenze false comporta una perdita di tempo e di denaro pubblico, riducendo quindi le risorse disponibili per poter portare avanti altri casi che aspettano di essere decisi. Non è stata comminata alcuna sanzione. Dopo USA, Australia, Canada e UK, anche in Italia è recentemente emerso il primo caso di uso dell’AI in campo giuridico che ha dato risultati del tutto inesistenti. Si tratta di un caso deciso dal Tribunale di Firenze, che, con ordinanza del 14 marzo 2025, ha stabilito - al contrario dei giudici di USA e Australia - che nonostante il disvalore della condotta di omessa verifica dell’effettiva esistenza delle sentenze emerse quali risultati a fronte dell’interrogazione di un sistema di intelligenza artificiale (nella specie, ChatGPT), tale comportamento non si qualifica come strategia difensiva dell’avvocato finalizzata a resistere in giudizio in malafede. Ciò nella misura in cui trattasi di sentenze volte a rafforzare un apparato difensivo già noto nelle fasi precedenti del giudizio. Il Tribunale ha, quindi, chiarito non possa ritenersi sussistente il regime di responsabilità processuale aggravata di cui all’articolo 96 del Codice di procedura civile. Il caso italiano - Nel contesto di un procedimento di reclamo in cui era stata chiesta l’estensione di un ordine di inibitoria (ottenuto nella prima fase del procedimento cautelare) anche a tutti i rivenditori di un prodotto risultato in contraffazione dei diritti di marchio e d’autore della società che aveva avviato il giudizio, si era costituto solo uno dei rivenditori in questione. Il rivenditore si era difeso sostenendo di non essere stato a conoscenza dei diritti fatti valere in giudizio, e che, quindi, ad esso non poteva ascriversi alcuna responsabilità per l’accertata contraffazione. A sostegno della propria tesi, il rivenditore aveva citato alcuni precedenti giurisprudenziali. Tuttavia, il reclamante ha, nel prosieguo del procedimento, rilevato che tali richiami giurisprudenziali fossero inesistenti, non trovando alcun riscontro in nessuna pronuncia effettivamente emessa. L’utilizzo dell’AI - Il difensore del rivenditore ha confermato l’inesistenza dei riferimenti giurisprudenziali citati nel proprio atto difensivo; infatti, ha dichiarato il difensore, essi sono stati il frutto di ricerche giurisprudenziali svolte da una propria collaboratrice di studio mediante l’utilizzo dello strumento dell’intelligenza artificiale “ChatGPT”. Sulla base delle dichiarazioni del difensore, quest’ultimo non sarebbe stato a conoscenza dell’utilizzo del sistema di AI in questione, che avrebbe generato risultati errati in ragione del verificarsi del fenomeno delle cosiddette “allucinazioni di intelligenza artificiale”. Si tratta di un fenomeno che si verifica allorché l’intelligenza Artificiale inventi - sulla base di prompt di ricerca derivanti dall’interrogazione dell’utente - risultati inesistenti che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono dal medesimo sistema di AI confermati come veritieri e corretti. Nel caso in questione, il sistema di AI avrebbe inventato dei numeri riferibili a sentenze della Corte di cassazione, inerenti, appunto, alla questione giuridica relativa alla rilevanza dell’elemento soggettivo (ad esempio, la consapevolezza della lesione di diritti altrui) nel caso di acquisto e rivendita di prodotti contraffatti, il cui contenuto, però, nulla aveva a che vedere con questo argomento. Il difensore ha riconosciuto di aver omesso di controllare il contenuto delle sentenze emerse a fronte dell’interrogazione del sistema di AI, e ha chiesto venissero stralciate. A questo proposito, ha evidenziato che, a suo avviso, la propria tesi era già sufficientemente sostenuta da argomentazioni spese nella fase precedente del procedimento. Responsabilità processuale - La condotta della difesa del rivenditore è stata oggetto di domanda di responsabilità processuale aggravata (articolo 96 del Codice di pocedura civile), sostenendo che essa avrebbe influenzato la decisione del Tribunale. Il Tribunale ha rigettato la domanda di responsabilità aggravata, ritenendo che, fermo il disvalore della condotta del difensore, non vi sarebbe né prova di un danno causato dall’utilizzo delle sentenze in questione né malafede nella loro citazione, in quanto trattasi di sentenze a sostegno di una tesi difensiva già impostata sin dall’inizio del procedimento. Emilia Romagna. “Un tentato suicidio ogni 33 ore”: il drammatico bilancio delle carceri emiliane di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 14 aprile 2025 Il report annuale del Garante dei detenuti fotografa una situazione esplosiva. Risse, aggressioni: i dati su Bologna non si discostano, oltre 4mila episodi di allerta nel 2024. Una rissa al giorno, tre agenti aggrediti a settimana e un tentativo di suicidio ogni trentatré ore: 267 nelle carceri in regione, di cui 56 a Bologna. Solo nell’ultimo anno ci sono stati inoltre 129 incendi, 796 danneggiamenti e più 1.500 atti di autolesionismo. Sette detenuti che si sono suicidati. Ma anche bande di nazionalità diverse che si fronteggiano a coltellate e sprangate, chi all’interno spaccia e consuma alcool e decine di episodi di overdose da farmaci. È l’inferno in terra quello che viene descritto da Roberto Cavalieri nella sua relazione annuale sulla situazione delle carceri in Emilia-Romagna. I dati sono quelli dello scorso anno, spiega il garante per i detenuti regionale, e saranno presentati a breve in commissione all’assemblea legislativa in viale Aldo Moro. Una situazione esplosiva, anzi “già esplosa”, si legge nel rapporto, che sta persino peggiorando visto che oltre le sbarre c’è solo il caos e un pugno di agenti e operatori che rischiano, oltre la salute mentale, l’incolumità fisica. Eventi critici alla Dozza: oltre 4mila in un anno - I sindacati della polizia penitenziaria lo denunciano da almeno un paio di anni. Ma solo numeri alla mano si capisce fino in fondo quanto possano essere esasperati e quanto si possa parlare di emergenza carceri. Al capitolo degli “eventi critici” segnalati, ad esempio, alla Dozza c’è una tabella dove sono stati inseriti 4.174 episodi di alert (soltanto i più gravi) e, tra questi, ferimenti, ritrovamenti di coltelli rudimentali, telefoni cellulari, droga. E ancora, scioperi della fame, proteste, botte tra detenuti, provvedimenti disciplinari e centinaia di infrazioni delle regole interne. Per 12 volte al giorno gli agenti devono correre da una cella all’altra per sedare una rissa, arginare un’intemperanza, placare la furia di uno e dell’altro. E questo vale per la Dozza come per tutti gli altri istituti della regione. “Non è solo un problema di sovraffollamento” - E chiaro, dice Cavalieri, “c’è sicuramente un problema di sovraffollamento perché per su 2980 posti disponibili ci sono 3500 detenuti”, ma è “altrettanto evidente che in questo momento gli istituti sono solo dei contenitori di tutte le fragilità e le violenze della società”. Una “discarica” per esseri umani, dove non mancano disabili, detenuti con problemi psichici. In sostanza, si consumano le stesse dinamiche di una favelas sudamericana. Per il garante “l’unica speranza, per salvare quanta più gente possibile, che altrimenti è destinata a finire ai margini della società, è fare investimenti reali sul futuro di chi ha sbagliato. I numeri in questo aiutano. Sotto l’aspetto della durata della pena una quota importante dei detenuti presenta un residuo di pena ridotto e tale da, in via ipotetica, permettere l’accesso a benefici o a misure alternative alla detenzione. Il dato oscilla intorno al 40% dei detenuti. Su una parte di essi si può lavorare, ma al di fuori del circuito penitenziari”. Per Cavalieri insomma non bastano le tradizionali azioni degli istituti e dai territori sul fronte dei reinserimenti. Il sistema “va radicalmente rivisto e riorganizzato”, e questo “deve passare necessariamente dalla politica”. Servono alloggi e lavoro, ma lavoro vero al passo con le esigenze del mercato. E servono investimenti mirati. Il garante è netto: “Basta usare in maniera diversa il denaro che già oggi la collettività spende per le detenzioni”. Torino. Invalida rinchiusa in carcere. “Poche le strutture ad hoc e con lunghe liste d’attesa” di Elisa Sola La Stampa, 14 aprile 2025 Non abbastanza “pericolosi” da finire in una Rems. Non abbastanza incapaci di “intendere e di volere”, tanto da evitare il carcere. Non abbastanza liberi di vivere senza vigilanza o restrizioni della libertà. Perché la malattia e le dipendenze spingono a scappare. E a commettere altri reati. In Italia molti detenuti psichiatrici non hanno un posto dove stare. Un luogo sicuro. Dove non si tolgano la vita. Dove possano essere curati, mentre scontano la pena. Il complicatissimo sistema che dovrebbe garantire sanità e giustizia, non prevede che pochi luoghi per i malati psichiatrici: il carcere stesso, le Rems, poche e con liste d’attesa infinite. E le comunità sanitarie, aperte a tutti i pazienti. Dovrebbe essere trasferita in una di queste strutture la detenuta dichiarata invalida al 100 per cento che da quattro mesi prova a sopravvivere nel Lorusso e Cutugno di Torino. Lo ha stabilito il tribunale. Eppure, lei continua a stare in cella. “La sua situazione è conosciuta alla direzione sanitaria del carcere”, spiega il dottor Roberto Testi, referente per la sanità penitenziaria in Piemonte. “Abbiamo fatto domanda per una struttura esterna, ma ci sono delle liste d’attesa. Così come per ciascun cittadino”. Perché non può essere inserita in una comunità terapeutica per detenuti? “Non esistono comunità simili”, precisa Testi. “Le strutture per pazienti a doppia diagnosi come lei sono per tutti i pazienti. I posti sono pochi. Non solo in Piemonte. Non esistono strutture di questo tipo che non abbiano liste d’attesa. E le liste sono lunghe per tutti. Anche per i pazienti comuni”. Ecco perché i detenuti psichiatrici sono un problema. Dovrebbero essere curati e rieducati. Ma in Italia nessuno sa dove metterli. Come se fossero degli oggetti particolari. Non rientranti nelle categorie attuali previste dalle leggi. “Il caso della paziente è emblematico - commenta Testi - non ha i requisiti per entrare in una Rems, come l’essere pericolosa socialmente o essere del tutto incapace di intendere e di volere al momento della commissione del reato”. L’inciso necessario è che, comunque, anche nelle Rems non ci sarebbe probabilmente posto per la donna, perché anche in questo caso le liste d’attesa sono lunghissime. “Inoltre - precisa Testi - la paziente, come molte persone psichiatriche e con dipendenze, potrebbe scappare dalla comunità, anche se fosse inserita. I pazienti sono liberi. Nessuno può trattenerli con la forza”. Secondo l’avvocato Luca Calabrò, che tutela la detenuta con Elena Novarino: “Ciò che sta accadendo alla nostra assistita è un problema generalizzato. La mancanza di strutture e l’assenza di interventi tempestivi genera ulteriori sofferenze nei soggetti fragili”. Il caso della donna invalida è emblematico. E tragicamente comune. Tutti coloro che lavorano al Lorusso e Cutugno ora ricordano un’altra storia di disperazione. Quella di un uomo, malato psichiatrico. Scappato dalla comunità e rientrato in carcere dopo l’ultimo reato. Scarcerato di nuovo. Uscito dal penitenziario, si è messo a dormire sulla panchina davanti all’ingresso. È stato lì per una settimana. Non aveva un posto dove stare. Perché quel posto non esiste. Milano. Le carceri scoppiano, serve un progetto come il CEC che investe su responsabilità e libertà di Deborah Giovanati* ilsussidiario.net, 14 aprile 2025 In Consiglio Comunale a Milano si è discusso di carcere. Un tema troppo spesso ignorato o strumentalizzato, ma che riguarda da vicino la qualità democratica della nostra società. Durante la seduta, Forza Italia ha votato a favore di una proposta della maggioranza, rompendo la logica degli schieramenti ideologici. L’abbiamo fatto per coerenza e responsabilità, perché il tema della detenzione non può diventare una bandiera da sventolare o da evitare in base a chi lo propone. Serve invece uno sguardo umano, costituzionale, lungimirante. Articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È questo il faro che dovrebbe guidare ogni discussione, ogni decisione, ogni scelta sul sistema penitenziario. E invece troppo spesso prevale l’indifferenza o, peggio, la tentazione di ridurre tutto a slogan securitari o buonisti. Con questo spirito ci siamo distinti dagli alleati Lega e Fratelli d’Italia, che hanno scelto di votare contro la proposta, preferendo restare ancorati a una posizione preconcetta. Ma guardare in faccia la realtà delle carceri milanesi è un dovere: condizioni di sovraffollamento cronico, carenza di personale, difficoltà per i detenuti e per chi vi lavora, fino ai tragici casi di suicidio. Chi siede in un’istituzione ha il compito di affrontare anche i temi più scomodi. E se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna avere il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo. In questo senso, ho voluto portare all’attenzione dell’Aula un’esperienza che merita di essere conosciuta e studiata: il modello delle Comunità Educanti con i Carcerati (CEC) in Emilia-Romagna, frutto del lavoro portato avanti da Valentina Castaldini. Un progetto che coniuga sussidiarietà vera e dottrina sociale della Chiesa, capace di unire la forza della comunità alla responsabilità dello Stato. Un percorso iniziato con la mostra Dall’amore nessuno fugge, promossa con la Comunità Papa Giovanni XXIII, che ha portato a un ordine del giorno approvato all’unanimità per sostenere economicamente l’esecuzione penale esterna. Le cifre parlano chiaro: il tasso di recidiva tra chi sconta la pena in una CEC è del 15%, contro il 70% di chi resta in carcere. Questo significa meno criminalità, più reinserimento, più sicurezza per tutti. L’Emilia-Romagna diventa così regione apripista, pronta a portare questo modello in Conferenza Stato-Regioni. Ma la Lombardia dov’è? Milano e la nostra Regione non possono restare indietro. Serve uno scatto in avanti anche da parte nostra, con il coraggio di guardare oltre il pregiudizio. Papa Francesco ci ricorda che “una pena senza speranza non è umana”. La sua voce ci richiama a non voltare le spalle a chi ha sbagliato, ma anche a non tradire i principi su cui si fonda una società giusta: la dignità di ogni persona, la possibilità di un riscatto, il valore della comunità. Questo è, per me, fare politica in modo autentico, secondo lo spirito della sussidiarietà: dare valore alle esperienze dal basso, sostenere chi costruisce percorsi di reinserimento, mettere la persona al centro, come ci insegna la dottrina sociale della Chiesa. Non uno Stato che si sostituisce, ma uno Stato che accompagna e rafforza ciò che funziona. Milano e la Lombardia possono e devono diventare un laboratorio di innovazione anche sul tema carcerario. A patto che si trovi il coraggio di passare dall’ideologia alla responsabilità, e dalla parola ai fatti. *Consigliere comunale di Forza Italia, Milano Milano. Con la giustizia riparativa chi sbaglia paga… aiutando gli altri (e sé stesso) ilsudmilano.it, 14 aprile 2025 A Chiaravalle e nei quartieri Corvetto e Mazzini si fa strada una giustizia di comunità, senza sbarre e celle, ma fatta di doposcuola, aiuole pulite e corsi di italiano per stranieri e in questo modo, con l’istituto della messa in prova 80% dei detenuti non commette più reati. Nel 2023, secondo i dati del Ministero della Giustizia, sono state oltre 12mila le persone in Italia che attraverso la giustizia di comunità e riparativa sono state coinvolte in percorsi di messa alla prova o lavori di pubblica utilità, evitando così il carcere. Di queste, più dell’80% ha portato a termine il percorso con successo, senza tornare a delinquere. Un dato che racconta una verità semplice: la punizione funziona davvero solo se diventa occasione di riscatto. Le iniziative nei quartieri Corvetto, Mazzini e a Chiaravalle - A Milano, nei quartieri di Corvetto, Chiaravalle e Mazzini, questo modello si è tradotto in centinaia di ore di volontariato in scuole, cortili, centri sociali e spazi verdi. A fare da ponte tra la giustizia e il territorio, un’ampia rete di associazioni locali che accolgono queste persone e le affiancano nel loro percorso. Khadija, volontaria convinta - Tra le persone coinvolte in questi percorsi c’è Khadija Messa, una donna marocchina, laureata in Fisica, madre di un ragazzo disabile. “Quando siamo arrivati in zona 4 cercavo un posto dove far fare attività a mio figlio - racconta -. Poi un problema con l’Inps mi ha portata davanti a un giudice. Mi è stata proposta la messa alla prova. All’inizio pensavo fosse solo un obbligo, invece è diventata un’occasione per ritrovare me stessa”. Durante il suo percorso, durato quattro mesi, Khadija ha aiutato bambini nei compiti, collaborato con altre mamme e sostenuto stranieri nell’apprendimento dell’italiano. “Alla fine del percorso ho chiesto di restare. Ora continuo come volontaria. È come se avessi trovato il mio posto”. Pierluigi, il medico che tutti vorrebbero - Il volto umano di questo sistema è fatto anche dai volontari che accompagnano questi percorsi. Pierluigi Rossi, medico in pensione, volontario dell’associazione Casa per la Pace, racconta: “Seguiamo persone che spesso hanno solo fatto un errore. In altri tempi li avrebbero spediti in cella, oggi possiamo restituirli a una comunità che, se li accoglie, ne trae beneficio. La zona sud di Milano è viva, piena di energia, ma anche di fragilità. Questi percorsi aiutano entrambi: chi ha sbagliato e chi ha bisogno di aiuto”. Tra le attività più frequenti ci sono il doposcuola, il supporto a donne straniere che studiano per l’esame di terza media, la pulizia di cortili delle case popolari, l’assistenza agli anziani e la manutenzione di piccoli spazi verdi. Tutto avviene in orari flessibili, compatibili con il lavoro e la famiglia. Ancora Pierluigi sottolinea come “All’inizio molti arrivano con diffidenza, alcuni con vergogna. Ma pian piano si aprono. Una donna che sembrava spaventata ha poi cucinato per interi pranzi solidali. Un altro, dopo aver finito il suo percorso, ha deciso di restare a seguire i bambini nel doposcuola. È il segno che qualcosa è cambiato”. Pierluigi racconta con orgoglio il valore che queste persone portano nei progetti. “C’è chi si sente giudicato, chi pensa di non avere nulla da offrire. Poi li vedi prendere confidenza, diventare parte del gruppo, affezionarsi ai bambini e agli spazi. A volte sono loro a motivarci, a darci energia. Una donna ha passato settimane con gli anziani della Comunità di Sant’Egidio, semplicemente ascoltandoli. Alla fine del percorso, chiedevano di lei come se fosse una nipote”. Non tutte le esperienze vanno a buon fine. “Una piccola parte delle persone abbandona il percorso - ammette un altro volontario - ma nella stragrande maggioranza dei casi vediamo un’evoluzione. Alcuni trovano addirittura lavoro grazie alle competenze acquisite”. Un’idea vincente ma frenata dalla burocrazia - Il sistema della messa alla prova non è perfetto. La lentezza burocratica dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe), che deve approvare ogni progetto, crea liste d’attesa e ritardi. Eppure, nelle strade di Corvetto, ogni settimana qualcuno inizia il suo cammino di riscatto. “Quando si capisce che la giustizia non è solo punizione, ma ricostruzione - chiarisce Mercedes Mas Solé, referente di progetti educativi dell’Associazione Casa per la Pace - allora cambiano le persone e cambia anche il territorio. La zona sud non è solo degrado: è un laboratorio sociale che sta generando nuovi modi di stare insieme”. È in questi angoli di città, dove spesso si racconta di marginalità e cronaca nera, che la giustizia invece educa, piuttosto che punire. “Qui non si cancella solo un reato - conclude Khadija. Si ricostruisce dignità. Si riparte da sé stessi. E dagli altri”. Firenze. Carcere di Sollicciano “disumano”. Scioperano gli avvocati di Stefano Brogioni La Nazione, 14 aprile 2025 Tre giorni di astensione, il 5, 6 e 7 maggio, degli avvocati di tutta Italia contro le condizioni delle carceri italiane. Uno sciopero, quello indetto dalle Camere Penali, che a Firenze significa protestare per l’ormai insostenibile situazione del penitenziario di Sollicciano. L’astensione è stato deliberato sabato dal direttivo nazionale, che ha manifestato il proprio dissenso verso un provvedimento politico, il decreto sicurezza ispirato, secondo i penalisti, da una “visione securitaria e carcerocentrica”. Ecco i punti contestati: “Inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso, introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione, consequenziale aumento della popolazione carceraria, ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento, insufficienza degli interventi per ridurre sia il sovraffollamento carcerario in crescita progressiva sia il tragico fenomeno dei suicidi in carcere che ha raggiunto il numero record nel 2024”. A tutte queste problematiche comuni a gran parte del mondo carcerario, Sollicciano aggiunge una sua propria condizione di particolare disumanità derivata da umidità, muffa, perdite d’acqua, cimici che non fa altro che moltiplicare le sofferenze di chi è ristretto. Nei giorni scorsi, dopo le denunce dell’Associazione Nazionale Magistrati, anche la Chiesa ha voluto far sentire la propria voce, scegliendo di terminare la Via Crucis dei giovani proprio ai cancelli di via Minervini. Verona. Un orto e un bio-laghetto in carcere curati dai detenuti di Riccardo Mirandola L’Arena, 14 aprile 2025 “A fine pena potrebbero diventare un lavoro”. I florovivaisti hanno donato tutti gli attrezzi. L’obiettivo produrre ortaggi da consumare all’interno dell’istituto. Realizzare e curare un giardino, un frutteto o un orto sono gli obiettivi della serie di corsi di formazione che da alcuni mesi sono stati attivati per i detenuti della sezione maschile del carcere di Montorio. Il progetto è organizzato dalla cooperativa Lavoro & Società in stretta collaborazione della direzione della struttura penitenziaria e l’Area Trattamentale del carcere stesso e grazie anche ad alcuni fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Per le docenze la cooperativa si è avvalsa di alcune figure professionali qualificate del mondo del florovivaismo veronese che si sono impegnate a tenere lezioni teoriche e pratiche nell’istituto creando un orto giardino formato da una superficie destinata alla piantumazione di essenze arboree, piante da frutto verdure. La metodologia - Il terreno è stato coltivato seguendo un percorso di produzione e manutenzione biologica per creare un mini ecosistema che riguarda circa 1.500 metri quadrati di terreno. I detenuti, suddivisi in piccoli gruppi di lavoro e per un totale ad oggi di circa 40 partecipanti, si sono dedicati alla preparazione del terreno, la messa a dimora delle piante concordate con i docenti, la scelta delle varietà orticole da coltivare, la loro concimazione e la difesa da insetti. Il tutto è stato possibile anche grazie alla collaborazione dell’Associazione Florovivaisti Veneti che ha donato tutte le attrezzature necessarie per le lavorazioni come vaghe, zappe, rastrelli, forbici per la potatura e tanto altro ancora. “Collaborare a progetti di carattere sociale”, spiega Francesco Bellini, presidente dell’associazione, “fa parte della nostra mission e quindi siamo stati ben lieti di poter fornire tutto quello che era necessario per questo progetto. Il nostro auspicio e che i partecipanti ai vari corsi di florovivaismo possano, una volta terminata la pena, poter trovare lavoro presso alcune nostre aziende associate che hanno sempre necessità di trovare personale”. Infatti, la direzione della casa circondariale auspica che coloro che hanno preso parte al progetto e che siano stati considerati idonei possano intraprendere un percorso che consenta loro di trovare lavoro all’interno delle aziende dell’Associazione Florovivaisti. Praticamente i detenuti con regolare contratto di assunzione potranno uscire dal carcere durante le ore diurne per recarsi al lavoro e fare rientro al termine della giornata lavorativa. Uno sbocco lavorativo - Un’iniziativa questa che permetterebbe a manutentori del verde e a vivaisti di sopperire alla cronica mancanza di personale che da qualche tempo di verifica nel settore. Il progetto ha anche consentito la realizzazione di un bio-laghetto, progettato e curato dal docente Massimiliano Braga, per consentire nell’area del carcere la creazione di un ambiente idoneo ad ospitare insetti, anfibi e pesci oltre che alcune varietà di piante acquatiche. I detenuti che hanno preso parte al progetto hanno mostrato grandissimo interesse e nei prossimi mesi altri continueranno i lavori in particolare nell’orto arrivando a produrre verdure che saranno poi consumate all’interno della struttura. Il percorso formativo proseguirà sempre con la supervisione di Lavoro & Società anche per consentire al maggior numero possibile di persone di poter usufruire della formazione agricola e poter quindi anche uscire all’aria aperta per alcune ore. Progetti di coltivazione di piante si erano tenuti anche prima del Covid con la partecipazione di una azienda florovivaistica della zona e anche in quel tempo avevano riscosso notevole interesse da parte degli ospiti della casa circondariale veronese. Napoli. I taralli fatti a mano nel carcere minorile di Nisida: il cibo diventa riscatto di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 14 aprile 2025 Organizzati laboratori settimanali, grazie a Taralleria Napoletana, per i giovani detenuti nei quali si impara l’antica tradizione artigianale del prodotto da forno. Quaranta taralli per teglia e ogni tarallo è un mondo a sé: per forma, per elasticità dell’impasto e per consistenza. È un inno napoletano il tarallo, con mandorle intere e pepe. E la ricetta è una tradizione che ora passa anche dalle mani dei ragazzi detenuti a Nisida. Leopoldo Infante, l’imprenditore della Taralleria Napoletana, non ne è geloso e l’ha condivisa. Tre ore di laboratorio a settimana durante le quali i ragazzi imparano il mestiere del tarallaro, aiutati da chi lavora con Infante e ne conosce i segreti. Lui, appena gli impegni in azienda glielo concedono, varca la soglia del carcere minorile che vede dalle sue sbarre tutto il Golfo. “Cerco sempre di partecipare in prima persona perché si insegna il mestiere, ma non è solo questo. Si chiacchiera anche di vita, dello scoraggiamento verso il futuro, della possibilità di trovare un lavoro e si trasmettono dinamiche mentali differenti. Fare i taralli significa piegarsi a una certa ripetitività ma, soprattutto, poter acquisire grande precisione, manualità, flessibilità e ogni pezzetto che si mette in teglia è un pezzetto di vero artigianato napoletano”. Infante è uno di quegli imprenditori che vede il bene come il fare il bene perché, racconta, crede che questo progetto possa aiutarlo a trovare quella manodopera specializzata che è sempre più difficile da scovare tra le vie di Napoli. Anche questa ragione lo ha convinto ad accettare la proposta del laboratorio, realizzato grazie alla Scuola dei mestieri e dei talenti di Consvip con sede a Secondigliano. “Posso contare sulle dita di una mano chi veramente sa fare questo mestiere. Posso addirittura dirti chi ha fatto il tarallo in base alla forma. Devo dire che ho provato anche a realizzare un macchinario industriale per poter rispondere alla domanda sempre più pressante del mercato, ma la tipologia del nostro impasto non lo consente. Così, ho veramente bisogno di tramandare la tradizione perché la nostra storia, ormai alla terza generazione, non abbia fine”. Infante tiene negli occhi la ricetta del nonno, che gli raccontava sempre come il tarallo nascesse dagli scarti del panettiere e per salarlo si bagnava nell’acqua di mare, tanto era un cibo destinato ai più poveri. Poi, nel tempo, è diventato il simbolo della festa nei bassi napoletani, accompagnato da vino e musica. “L’intreccio del tarallo racconta di per sé la storia di una grande condivisione di persone”. Si ricorda il nonno che li preparava con le mandorle, il pepe, la sogna e li vendeva con il suo carrellino. Oggi tutto questo è rimasto ed è talmente forte da poter accogliere alcune innovazioni, dal tarallo vegan, a quello senza glutine. Con tutto questo bagaglio di anni e di nuove sfide incontra i ragazzi di Nisida: “Uno mi ha sorpreso in modo particolare. Era burbero, titubante e impastava controvoglia. Mi sono messo di fianco per aiutarlo nella tecnica. A mano a mano ha iniziato a interagire, il volto si è fatto meno duro e a fine lezione mi ha chiesto: torni la prossima settimana?”. Siracusa. Volontariato e relazioni umane in carcere: una conferenza per riflettere sul valore del legame e della dignità siracusanews.it, 14 aprile 2025 “Il valore delle relazioni interpersonali all’interno degli istituti di pena - il ruolo del volontariato”. Questo il tema della conferenza che si è tenuta ieri, nella sala consiliare del Comune di Priolo, promossa dall’associazione evangelica di volontariato penitenziario Onesimo O.d.V. L’incontro è stato moderato da Samuele Lana, vicepresidente e referente per la sezione di Siracusa. Tra i presenti anche il presidente dell’associazione, Salvatore Saraceno, a conferma dell’impegno condiviso nel valorizzare l’azione dei volontari e rafforzare le relazioni umane nel contesto penitenziario. Obiettivo dell’evento: sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza delle relazioni interpersonali all’interno del contesto penitenziario, riflettendo sulle conseguenze dell’isolamento e della privazione affettiva nei percorsi di vita dei detenuti. Ad aprire i lavori il sindaco Pippo Gianni, che ha condiviso con sensibilità riflessioni personali legate alla privazione della libertà, sottolineando quanto l’esperienza relazionale sia centrale per il recupero della dignità umana. L’assessore alle Politiche Sociali Gipi Marullo ha manifestato la volontà dell’Amministrazione comunale di proseguire nella promozione di momenti di confronto e partecipazione pubblica sul tema. Particolarmente significativa la relazione di Antonio Gelardi, già direttore di diversi istituti penitenziari e dell’UDEPE di Catania, che ha posto l’attenzione sulla chiusura culturale del mondo carcerario e sull’urgenza di costruire ponti tra le diverse funzioni istituzionali attraverso una condivisione costante. Il consigliere Alessandro Biamonte, capogruppo di Identità Priolese, ha invece centrato il proprio intervento sul bisogno umano di relazione e sull’attenzione verso l’altro come base per un autentico processo di ricostruzione sociale. “Il tema della condizione dei detenuti e del loro reinserimento nella società spesso è considerato non importante ma ha la sua grande importanza per la nostra società e ci spinge ad un’attenta riflessione”. Vincenzo Messina, presidente di Nuova Acropoli Catania, ha offerto una riflessione sul ruolo delle aspettative personali nelle dinamiche relazionali e su come esse possano comprometterne l’autenticità. Profonda e toccante la testimonianza di Rita Gentile, presidente di Accoglierete ed ex direttrice dell’UEPE di Siracusa, che ha affermato: “Il volontariato è un vero gesto di libertà”, evidenziando la centralità dell’ascolto nel costruire relazioni autentiche. Assunta Tirri, docente referente dell’Istituto Einaudi di Siracusa per l’istruzione in carcere, ha messo in luce la drammatica realtà della povertà educativa nei contesti penitenziari e l’urgenza della trasmissione del sapere come strumento di emancipazione e ricostruzione relazionale. Gabriella Picco, direttrice dell’UEPE di Siracusa, ha tracciato un’analisi lucida del carcere contemporaneo, auspicando un maggiore equilibrio tra funzione amministrativa e sensibilità umana: Il rischio paventato è impoverire anche i funzionari, chiamati ad essere ponti tra due mondi. Altro tema affrontato è la necessità di fare gruppo e di lavorare in funzione di ruoli strutturati da formazione specifica. Giovanni Villari, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale della città di Siracusa e pastore evangelico, ha offerto una riflessione sulla forza trasformatrice delle relazioni vissute in Cristo: “Le relazioni possono diventare strumenti di redenzione e rinascita.” A concludere, l’intervento di Giovanni Romano, già presidente dell’associazione L’Arcolaio, che ha raccontato l’impegno concreto dell’associazione nel creare spazi di interazione e crescita all’interno degli istituti penitenziari. All’evento erano presenti volontari, cittadini ed ex detenuti, testimoniando l’interesse crescente della comunità civile verso una giustizia che sappia includere e rieducare. In chiusura, le parole del moderatore Samuele Lana hanno lasciato un segno profondo nei presenti: “Spesso molti detenuti portano sulle spalle una storia segnata da legami spezzati, abbandoni, mancanze affettive. Prima della trasgressione della legge, c’è stata una trasgressione relazionale: nessuno che abbia ascoltato, educato, accolto. Abbiamo necessità di riflettere anche su questo se desideriamo avere futuro come società”. Gli infiniti colori di Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo di Giacomo Giossi Il Domani, 14 aprile 2025 Il documentario di e con Roberto Saviano, disponibile su Sky, offre un ritratto efficace di un movimento prima ancora che di un uomo, l’omaggio a un tempo oggi difficile da riconoscere e da immaginare. Quando Mauro Rostagno entrava in una stanza le persone si voltavano verso di lui, attratte e sedotte dalla sua presenza. Non era questione di potere di seduzione o di capacità di manipolazione, oggi tanto diffusi e ricercati, ma di un’energia che trasmetteva, di un sentimento che Rostagno era in grado di mettere a disposizione: l’aprirsi di una possibilità diversa. Quando lui entrava in una stanza la stanza cambiava. E allora perché non il mondo? Il bel documentario di e con Roberto Saviano, “Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo” prova così a perlustrare chi era Mauro Rostagno in un tempo in cui il cambiare il mondo afferisce a figure ostili a ogni forma di democrazia, condivisione e inclusione. Ed è un contrattempo bellissimo quello di Rostagno, un rimbalzo del cuore ritrovarlo in quel percorso esistenziale che fu fatto della meraviglia del mondo e del suo meravigliarsi. Chi era? - A quasi quarant’anni dalla sua morte appare sempre più complicato definire chi fosse Mauro Rostagno, e per fortuna. Mauro Rostagno era tante cose e non era nessuna di queste perché non lo era ossessivamente e ottusamente. Rostagno era e viveva molto più semplicemente nelle cose per dare a loro vita. Non sono le parole rivoluzionario, sociologo, terapeuta, giornalista o attivista che vanno appiccicate alla sua figura come etichette, ma sono questi termini che acquistano senso e pienezza nel momento che divengono elemento della sua umanità. Suddiviso in due parti il documentario - liberamente tratto dal bellissimo libro della figlia di Rostagno, Maddalena, “Il suono di una sola mano” (Il Saggiatore) presenta nella prima puntata quel viaggio che porta Rostagno dalla catena di montaggio dell’Autobianchi fino all’esperienza nella comunità di Pune sotto la guida del maestro spirituale indiano Osho, i cosiddetti arancioni. Una viaggio da Mauro a Sanatano con nel mezzo la lotta studentesca e l’occupazione della Facoltà di Sociologia di Trento nel 1966 dove conosce e diventa amico tra gli altri di Marco Boato e Renato Curcio. Nel 1969 Rostagno fonda con Adriano Sofri, Enrico Deaglio, Guido Viale e altri Lotta Continua dove inizia a fare le prime esperienze di giornalismo. Poi arriva la fine del movimento e Rostagno vira ancora e apre Macondo, nome ispirato a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez. Un luogo difficile se non impossibile da etichettare, ci passa il meglio della cultura di quell’epoca, un posto in cui come avverte Rostagno si può entrare “macondolore o macondolcezza”. Mondi diversi - Rostagno accumula mondi diversi perché gli interessano gli individui, la loro irriducibile unicità. Una diversità che acquista valore e felicità (più che forza) se immersa nel collettivo, in un noi generativo e capace di cambiare le cose. La rivoluzione parte da sé stessi, prima che fuori. Tutto quello che Mauro Rostagno fa diviene un metodo del possibile che prima era impossibile. Macondo è un luogo che imitato e soprattutto tradito arriva fino ai giorni nostri sotto forma di spazi ibridi che oggi costellano le città come Milano, con la differenza che nelle logiche attuali si parte dagli spazi e non dalle persone, si parte dalla scatola e non dal corpo. Non c’è mai forza o potenza in Rostagno, ma dolcezza. Una dolcezza irrequieta e fattiva, un’instancabilità che è desiderio del mondo e ricerca della sostanza delle cose che è fatto di quel mischiarsi continuo. A distanza di molti anni dalla sua morte Rostagno ancora sorprende: le testimonianze dei vecchi amici come Marco Boato, Enrico Deaglio e Andrea Valcarenghi vivono infatti ancora di uno stupore inesausto e sorridente. Stupisce come sia stato capace di contenere quella che lui chiama nel suo intervento - al convegno del 1988 sul Sessantotto a Trento - qualità sottile. Una precisione emotiva di cui Rostagno era quasi magicamente dotato che certo era portatrice di intelligenza e ostinazione, ma che nella sua sintesi offriva una sottigliezza che è il ritratto esatto del suo sorriso. Sembrava in fondo tutto uno scherzo e forse lo era, ma solo perché era un gioco. Come tutti i giochi però era un movimento tremendamente serio da cui non ci si può levare come nulla fosse. Scrive Virginia Woolf: “Guardare la vita in faccia sempre, guardare la vita in faccia e conoscerla per quel che è”. L’omicidio - È giungendo a Trapani che Rostagno trova forse la sua casa, è lì che vuole che la sua barba diventi bianca ed è lì che apre la comunità di Saman per il recupero dei tossicodipendenti e in cui prendono avvio inevitabilmente - nel più grande mercato di spaccio d’Europa - le sue inchieste giornalistiche sulla televisione locale Radio Tele Cine. Rostagno veste di bianco ed è sorridente, le sue inchieste sono sempre vergate da profonda ironia e anche da irrisione del potere mafioso colpendo così ancora più fortemente al cuore le istituzioni corrotte. Il 26 settembre del 1988 Rostagno viene ucciso in un agguato mafioso mentre è a bordo della sua automobile. Solo nel novembre del 2020 la Cassazione confermerà l’ergastolo per il boss mafioso Vincenzo Virga. Nel mezzo trentadue anni di mistificazioni e inquinamento delle indagini che porteranno addirittura a incolpare e incarcerare nel 1996 la compagna di Rostagno, Chicca Roveri. E in qualche modo seppur non esplicitamente il documentario di Saviano indica nella seconda parte soprattutto un’ostinazione e un desiderio di giustizia dettato da un sentimento amoroso assoluto che vede protagonista proprio Chicca Roveri. Rostagno e Roveri sono compagni l’uno dell’altra, sono legati inscindibilmente in una storia che appartiene parimenti a entrambi. Non esisterebbe la verità giudiziaria su Rostagno senza Chicca Roveri, una verità che significa un lavoro d’archivio prezioso e una memoria ora data e a disposizione di chiunque. Una qualità sottile comune dunque che se anche più appartata si rivela in Chicca Roveri lungo trentadue anni durissimi e complicati in cui lei mai retrocede dall’ottenimento di una verità che non siano le ridicolaggini assurde e violente di inquirenti e politici tanto inadeguati quanto corrotti. Resta così oggi tutto di quei giorni e di quelle ore, resta una foto in bianco e nero bellissima di Mauro Rostagno che sorride con un ciuccio in bocca e resta il viso fiero e bellissimo di Chicca Roveri che ancora oggi può raccontare di una felicità infinita. Giorni incredibili che chiunque dovrebbe avere la forza, la voglia e il coraggio - anche irresponsabile - di vivere senza indugio alcuno, correndo forte. Resta poi il corpo esile di Maddalena che vibra irrequieto come un giunco senza bisogno alcuno di nascondere il dolore, ma anche dotato di una grazia felice per quanto inquieta. Lotta sentimentale - Quella di Rostagno è stata un’esistenza spesa senza requie alcuna che non vive però dalle parti dell’eroismo, aggettivo preferito dai pavidi per giustificare la libertà altrui. Rostagno ingaggiò una lotta rigorosa con sé stesso, con i propri limiti scontrandosi così con quelli del mondo. La sua fu una lotta sentimentale che si basava sul piacere, sull’inseguimento di un senso vitale che non slegasse mai tra loro giustizia e bellezza. Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo, disponibile su Sky, offre un ritratto efficace di un movimento prima ancora che di un uomo, l’omaggio a un tempo oggi difficile da riconoscere e da immaginare. Una costellazione che attraversò il pianeta Terra per qualche anno e che in Italia prese vari nomi, varie etichette. Un andirivieni fatto di diversità incredibili tra loro, una giovinezza splendente senza che questo debba per forza portare oggi a commentarne le conseguenze positive o negative, i risultati e le prestazioni. Fu una cosa priva di mutande e con il ciuccio in bocca e fu felice di esserlo. E di quello più di ogni altra cosa dovettero molti e tra loro Mauro Rostagno pagare il conto all’ordine costituito, alla tristezza costituita. Mauro Rostagno. L’uomo che voleva cambiare il mondo apre uno squarcio in questo esaltato grigiore offrendo la possibilità di riscoprire quegli incredibili colori passati. Giulia Ligresti: “Il carcere mi ha insegnato che noi donne dobbiamo sempre dimostrare il doppio per essere credute” di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 14 aprile 2025 Un viaggio tra memorie familiari, riflessioni ed esperienze indimenticabili: l’autobiografia dell’imprenditrice, dalle missioni umanitarie in giro per il mondo fino all’esperienza del carcere da innocente. Giulia Ligresti è un concentrato di sfumature, desiderio di esserci ed energia che esce da ogni sua parola. Dopo la carriera nel mondo finanziario, ha intrapreso un percorso creativo come designer esponendo le sue opere in prestigiose gallerie in Italia e all’estero, e ha continuato a dividere la sua vita nei Paesi in cui è impegnata da sempre con progetti umanitari, tra cui Afghanistan, Etiopia, Burkina Faso, India, Sri Lanka, Striscia Gaza. In mezzo a tutto questo, c’è stato il carcere. Per essere assolta in via definitiva, Giulia Ligresti ha dovuto aspettare sei anni e vivere un mese e mezzo di carcere preventivo a Vercelli, ovvero custodia cautelare prima e arresti domiciliari poi. L’accusa con cui il 17 luglio 2013, la figlia dell’ex patron di FonSai, Salvatore Ligresti, è stata portata in cella era quella di falso in bilancio e aggiotaggio nel caso FonSai. Venne arrestata su richiesta della procura di Torino, insieme alla sorella Jonella, al fratello Paolo e il padre Salvatore. Quel giorno inizia “il periodo più buio”, lontana dalla sua famiglia, dai suoi figli e pressata da una campagna mediatica feroce. Quasi dieci anni dopo quel giorno, Giulia Ligresti, ha scelto di riaprire quello strappo e raccontarlo nel romanzo Niente è come sembra. La mia storia: la forza della verità, in libreria per Piemme. Ma non è un libro solo sul carcere. È un libro che parla, soprattutto, di libertà. Giulia Ligresti “Non rinnego niente di ciò che ho vissuto. Il carcere mi ha insegnato che noi donne dobbiamo sempre. Come mai questo libro, adesso? “Scrivere un libro raccontando la mia verità e la mia storia era un passo necessario. Credo che questo fosse il momento giusto”. Perché? “Ritengo sia necessario raccontare la verità e questa può raccontarla solo chi l’ha vissuta. Era importante restituire un senso a ciò che ho passato anche se il mio libro non è soltanto una ricostruzione di fatti. È anche un percorso di memoria, di consapevolezza, di riflessione. Ho inoltre pensato che la condivisione di una storia come la mia potesse essere un modo per dare voce a persone che la voce non ce l’hanno, quando vivono alcune situazioni”. Scriverlo come l’ha fatta sentire? “Quello che ho imparato è che bisogna veramente vivere le esperienze nella vita, attraversandole e facendone tesoro. Ogni cosa mi ha resa quella che sono oggi, senza bisogno di rinnegare nulla”. Torniamo al luglio 2013, quando è stata portata in carcere. Cosa c’è nella sua mente legato a quel momento? “Ci sono due immagini: in una c’è il rumore e l’immagine di una porta che si chiude alle mie spalle. Poi c’è il sorriso delle ragazze che sono arrivate a darmi un aiuto. Persone che non avevano nulla e di cui io non conoscevo le loro storie ma che si sono dimostrate subito gentili e protettive”. Cos’hanno fatto per lei? “Lo descrivo anche nel libro: mi hanno chiesto se avessi bisogno di qualcosa e mi hanno offerto un caffè”. Se guarda indietro oggi vede la stessa persona di quel luglio 2013? “Non sono cambiata da allora. Certamente ho qualche esperienza in più. L’importante è attraversare le esperienze e cercare di ricordarle, di conservarne il bello”. Come descriverebbe la Giulia di allora e la Giulia di oggi? “Sono la stessa persona, solo che in quel preciso momento stavo vivendo una situazione complicata. Però in quel frangente avevo la consapevolezza di dover mantenere la mente lucida, dovevo essere determinata e quindi, se allora ero forte, oggi lo sono ancora di più”. Era più arrabbiata o spaventata? “Ero totalmente scioccata. Non aveva nessun senso quello che mi stava succedendo, ero incredula”. Che idea ha maturato sul carcere preventivo, dopo averlo vissuto? “Se utilizzato come uno strumento di pressione, è veramente un’assurdità. È giusto nei casi in cui c’è una reale pericolosità sociale del soggetto, ma non era certo il mio caso. Penso che non sia da eliminare completamente, ma che vada utilizzato quando è realmente necessario. Perché ha patteggiato? “Perché era l’unica opzione possibile, non c’era un’altra scelta. Era uno scambio obbligato per potermi riappropriare della mia vita. Mi è stato fatto capire chiaramente che il patteggiamento andava di pari passo con la libertà e quindi non potevo pensare di rimanere volontariamente in quel luogo e farmi distruggere ulteriormente”. Essere donna in quella situazione l’ha fatta sentire più vulnerabile? “Sicuramente ho capito che le donne devono sempre dimostrare il doppio per essere credute. Ero più vulnerabile in quanto donna ma anche in quanto madre. Non potevo rimanere incastrata a lungo in quel luogo”. Cos’ha fatto con i suoi figli quando è uscita? “Piccole cose, che mi hanno dato una forza enorme”. Ogni quanto li sentiva? “Avevamo a disposizione un incontro alla settimana”. Fuori, insieme ai suoi figli, l’aspettava anche l’impegno umanitario che ha da sempre una parte centrale nella sua vita... “L’impegno umanitario è una cosa che mi appartiene da sempre. Sono stata personalmente in tutti i luoghi dove avevamo e abbiamo tuttora dei progetti per aiutare donne, bambini e tutti coloro che vivono in contesti di estrema vulnerabilità”. In quali Paesi lavorate? In Italia, ci occupiamo principalmente di persone richiedenti asilo politico, con progetti concreti come una sartoria solidale, una ciclofficina, corsi di italiano e il “passaporto delle competenze”, uno strumento per valorizzare i talenti e le esperienze delle persone che accogliamo. All’estero, siamo presenti in contesti molto complessi come Siria, India, Etiopia e Sri Lanka. In passato abbiamo operato anche in Afghanistan, dove abbiamo organizzato un corso di giornalismo per le ragazze dell’università di Herat, e a Gaza, nel 2013, con attività psicopedagogiche. Siamo stati anche in Burkina Faso e in molti altri luoghi dove la vita è particolarmente difficile. C’è un luogo a cui è più legata? “L’India per me è proprio casa ma ho il cuore anche in Etiopia, dove le scuole del nostro progetto si chiamano come la mia mamma. Sono molto legata anche alle ragazze afghane, che tuttora sento. Alcune siamo riusciti a portarle fuori durante l’evacuazione del 2021, altre invece sono ancora lì e non passa giorno in cui non ci scambiamo messaggi”. Per il futuro che progetti immagina? Oggi continuiamo a lavorare in stretta collaborazione con le realtà locali, mantenendo viva la presenza nei territori in cui siamo già attivi. Tra i nuovi progetti in programma, stiamo lavorando alla creazione di uno shelter in Libano per accogliere persone in fuga dai conflitti in Medio Oriente. In Sri Lanka sosteniamo una scuola, mentre in Siria stiamo progettando la nascita di un’orchestra per bambini a Nebek e ad Aleppo: perché anche la musica, come l’arte, può diventare uno strumento potente per guarire le ferite invisibili lasciate dalla guerra. Oggi anche l’impegno umanitario è sotto attacco... “Tutto quello che è stato fatto negli anni, non solo a Gaza è stato azzerato. Ma non bisogna demordere, bisogna cercare sempre di ricostruire”. C’è qualcosa di cui si rimprovera? “Sicuramente nella mia vita, come tutti, ho fatto errori. Però credo che anche sbagliare sia un modo per imparare qualcosa di nuovo. Quindi è una scuola di vita”. Battersi per tornare libera, ha cambiato anche la sua visione di libertà? “Nei paesi che ho visitato il concetto di libertà aveva delle limitazioni importanti. La libertà non è soltanto quella che è mancata a me. È la libertà, come ad esempio in Afghanistan, di poter scegliere, di poter studiare, di poter lavorare, di poter uscire per strada senza dover essere coperte da un burqa. La libertà è quella di non sposarsi a 9 anni, di poter protestare. La libertà è uno strumento, un bene preziosissimo che noi a volte diamo per scontato ma in molte parti del mondo non lo è affatto. Mi rendo veramente conto di quanto io sia fortunata ad essere nata in questa parte del mondo dove l’idea di libertà ha ancora un senso”. Qual è la sua immagine della libertà? “Vorrei vedere Nassima, una delle ragazze che sono rimaste in Afghanistan, che cammina per strada tranquilla, mentre va a lavorare, con il volto scoperto”. Il manga che racconta la rieducazione attraverso il lavoro in un carcere femminile di Ali Raffaele Matar fumettologica.it, 14 aprile 2025 Un cielo azzurro. Un salone di bellezza. Una prigione. Immagini e luoghi che, a prima vista, sembrano fra loro incompatibili finiscono per diventare un tutt’uno, in “Deep Sky - La gabbia delle nuvole” (Dynit, 2020), manga della giovane promessa Marco Kohinata, particolarmente apprezzata in Spagna e Francia. Più che la redenzione o la mestizia della vita in carcere, il tema alla base del manga (ispirato a un romanzo di Mina Sakurai) è la gratitudine: è questo il sentimento che caratterizza l’attitudine della protagonista, condannata a causa della foga di un istante, che finisce per passare il suo periodo di detenzione a tagliare i capelli di altre donne. È la gratitudine, poi, a risanare l’animo di una giornalista in erba inviata dal suo redattore in questo salone particolare, perché, in fondo, per ogni porta chiusa se ne apre un’altra. Gratitudine, infine, è l’unico appiglio che tiene in vita l’anziana Suzuki. Perché, anche quando sembra di essere rimasti completamente soli, un incontro inaspettato può diventare un pretesto per continuare ad andare avanti. Perché, in fondo, c’è sempre una luce in fondo al tunnel. E di questo è convinta anche l’autrice. Per iniziare, mi piacerebbe sapere qualcosa sui trascorsi che l’hanno spinta a diventare una fumettista. Che ricordi ha del suo debutto? Ho sempre amato disegnare. Fino al liceo, però, non avevo per la testa l’idea di diventare mangaka. Anche perché sapevo che il lavoro del fumettista, che disegna sempre sotto scadenze ferree, è davvero molto impegnativo. Tuttavia, dopo aver iniziato a frequentare l’accademia d’arte, sono stata costretta a lavorare part-time per pagare la retta, fare i compiti e prendermi anche cura di mia madre malata. Quindi, anche se credevo che mi sarei potuta concentrare nel disegno, non trovavo mai il tempo per lavorare alle opere che volevo creare. Ho iniziato a cercare lavoro come disegnatrice invece di un part-time, e mi sono imbattuta in un annuncio per aspiranti fumettisti. In quel momento, ho capito che, in realtà, avevo dentro molte storie che volevo disegnare. Così, ho disegnato un fumetto e l’ho inviato. È iniziato tutto così. Anche se a motivarmi sono state la ragione e il bisogno, guardandomi indietro ora, penso che essere diventata una fumettista sia stato per me un percorso naturale. Mi sono resa conto che, quando ripenso alla mia infanzia, mi viene in mente che sono stati i manga, gli anime e i libri illustrati a essersi presi cura di me più dei miei genitori. Nelle foto ufficiali, appare sempre con il volto coperto da una maschera. È una cosa curiosa. Cosa rappresenta per lei? Non mi viene in mente il nome esatto della tribù, ma questa maschera appartiene a un gruppo etnico africano. Ricorda vagamente il sole, ma in realtà rappresenta la luna. L’ho trovata online su un sito che vende prodotti africani e ha catturato subito la mia attenzione. Sento che la forma di questa maschera simboleggi la forma della mia anima. È per questo che la uso come autoritratto. In un certo senso, vorrei trasmettere la sensazione di essere una persona sempre alla ricerca della luce del sole (che per me rappresenta la speranza). Assomiglio un po’ alla luna innamorata del sole. Quando ho iniziato a usarla, non avevo formulato questi pensieri. Me ne sono resa conto solo di recente. In Italia, per ora, abbiamo potuto leggere soltanto Deep Sky, ispirato a un romanzo di Sakurai Mina - una storia eccezionale su una detenuta che fa la parrucchiera in carcere. Quel che stupisce dell’opera è la bontà con cui vengono ritratte non solo la prigione ma anche le guardie che ci lavorano. Difficile non accorgersi che le clienti della parrucchiera, le donne “libere” che da fuori vengono a farsi tagliare i capelli in prigione, sembrano loro le vere “prigioniere”, ognuna nella propria gabbia mentale. Quest’elemento era già presente nella storia originale o è stato un tocco personale aggiunto nell’adattamento a fumetti? Esatto. Nel romanzo originale, le clienti del mondo esterno che visitano il salone vengono descritte come se fossero loro stesse “prigioniere”. Per quanto riguarda la guardia, nel romanzo la sua storia non c’era. Ho aggiunto io quella parte. Ho voluto immaginare cosa si prova a vegliare ogni giorno su una persona simile. A proposito di prigione, prima di iniziare a lavorare su questo manga aveva già letto altre opere ambientate in prigione come l’autobiografia di Kazuichi Hanawa o Rasputin di Junji Ito? Mi vergogno ad ammetterlo, ma non ho cercato altre storie a fumetti ambientate in prigione. Prima di disegnare questo manga, non avevo mai prestato molta attenzione al carcere. Solo dopo la lettura del romanzo di Mina Sakurai ho scoperto che esistono dei saloni di parrucchieri in prigione come questo. Prima di mettermi a lavoro su quest’opera, però, sono andata in una vera prigione per documentarmi. Quasi tutte le sue opere, da Deep Sky ad Akari e Artiste wa Hana o Fumanai, hanno in comune sempre un forte messaggio di speranza. Ottimismo e gentilezza pervadono non solo le storie ma anche i personaggi che lei ritrae. Cosa la rende tanto fiduciosa in un mondo così pieno di ingiustizie? Come ho già detto, è così perché per carattere sono sempre in cerca di un raggio di luce, di una speranza in mezzo alla disperazione. In un mondo così difficile, anche quando si avrebbe solo voglia di sparire, vorrei trasmettere ai miei lettori l’importanza di non smettere mai di sperare. Voglio continuare a cercare quel raggio di luce anch’io insieme a loro. In realtà, non ci sono mangaka dell’era Showa che posso dire mi abbiano ispirato. Certo, mi piaceva Tezuka, ho sempre letto le sue opere. Penso che sia stato Chihiro Iwasaki ad aver influenzato più di tutti il mio stile di disegno. Poi, anche se non è proprio il più rappresentativo dell’era Showa, direi Hayao Miyazaki. Adoro le sue storie. Lo ammiro moltissimo. A proposito, quest’anno è anche il suo decimo anniversario come mangaka professionista… Sì, è vero! È incredibile! Penso che questi ultimi dieci anni siano stati per me un periodo di ricerca per capire che direzione prendere. Per un certo periodo ho preso le distanze dai fumetti e ho iniziato a specializzarmi come illustratrice. Mi sono anche cimentata con l’animazione. Penso sia stato, di per sé, un buon esperimento, perché mi ha fatto capire che ci sono molte storie che voglio disegnare a fumetti. Ho intenzione di continuare a lavorare sodo finché non le avrò realizzate tutte. Probabilmente, ci vorranno altri 10 anni! Naturalmente, tra le idee che ho non mancano anche progetti di serie più lunghe. Con l’auspicio che altri suoi manga possano essere presto tradotti in Italia, vorrei concludere chiedendole quali progetti sta portando avanti in questo momento... Attualmente, sto lavorando ad alcuni progetti, ma non stanno riscuotendo grande successo e la cosa mi dispiace. Spero che poi, quando saranno pubblicati in volume in Giappone, possano avere più successo, così che possano venire letti anche in Italia. Come Meloni ha rottamato il salvinismo sui migranti di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 aprile 2025 La storia la conoscete. Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture, da giorni ha scelto di spostare l’attenzione della sua agenda politica su due temi interessanti, che meritano di essere presi sul serio. La necessità di spostare l’agenda politica su temi nuovi, diversi da quelli principali, è dettata da una circostanza non semplice da gestire e da maneggiare, ed è quella di dover fare qualcosa per sviare l’attenzione dai problemi centrali, dal problema centrale, dalla questione cruciale, che è quella della presenza alla guida degli Stati Uniti di un presidente americano amico, in teoria, che sta facendo di tutto per passare sopra le teste degli alleati come un tempo avrebbe fatto qualcuno con una famosa ruspa. I temi sui quali Matteo Salvini si sta concentrando di più, che meritano di essere presi sul serio, sono due, e sono entrambi suggestivi. Il primo tema riguarda l’Europa, riguarda la volontà di non parlare di quello che sta facendo l’America e riguarda la volontà di parlare di quello che non sta facendo l’Europa, con l’idea che i principali problemi del nostro continente siano legati non alle sberle allucinanti inviate al nostro continente da Donald Trump, ma viceversa a quello che l’Europa non sta facendo, sul tema dei dazi interni, dei lacci, dei lacciuoli, della burocrazia che andrebbe rivista e resa meno ingombrante e dell’Europa che andrebbe resa più efficiente. Il ragionamento potrebbe avere senso, anzi sarebbe anche corretto, se non fosse che il soggetto che ha posto il tema al centro del dibattito è lo stesso che in questi anni ha fatto di tutto per evitare che l’Europa potesse avere gli strumenti giusti per essere più efficiente, più integrata, più sovrana, più aperta, più globalizzata. Salvini, dunque, parla di quello che dovrebbe fare l’Europa, pur essendo lo stesso che in questi mesi, anzi in questi anni, ha lavorato, e combattuto, per avere un’Europa più debole, più vulnerabile, più esposta ai pericoli esterni, meno globalizzata, meno interessata a rafforzare i suoi rapporti di libero scambio con il mondo libero, ed è lo stesso che in definitiva ha fatto molto per avere un’Europa più protezionista e più incline a combattere la globalizzazione. Il mondo che ha in mente Trump, il mondo fatto di barriere, di muri, di dazi, di protezionismo, è un mondo che somiglia maledettamente a tutto quello che Salvini, e anche i suoi alleati, hanno cercato in questi anni di alimentare, di promuovere, non rendendosi conto che l’unico modo per evitare di assecondare quel tipo di narrazione era fare tutto l’opposto rispetto a quello che si è scelto di fare: e dunque, promuovere più concorrenza, promuovere più efficienza, utilizzare i soldi per abbassare le tasse, non per alzare le pensioni, e fare tutto il necessario per creare più concorrenza, dunque più competitività e dunque più efficienza e dunque più servizi migliori. Il secondo tema interessante che riguarda l’agenda di Salvini, un’agenda che merita di essere presa sul serio, ha a che fare con una richiesta precisa, ed è la richiesta di Salvini di cambiare ministero, di passare al Viminale. È una scelta legittima. In fondo Salvini vorrebbe avere il diritto di chiedere e ottenere qualcosa di importante per se stesso, è pur sempre il numero tre del governo, ma il punto è che sembra che sia all’interno della sua stessa maggioranza che non si vuole prendere sul serio questa richiesta. La questione è personale, perché nel governo sanno che al Viminale esistono delle leve che se mosse in una certa direzione possono permettere di spettacolarizzare una politica che non merita di essere spettacolarizzata. Ma la questione in fondo potrebbe essere anche diversa, e a voler essere benevoli si potrebbe dire che in fondo come ministro delle Infrastrutture Salvini non ha lavorato così male. Ha commesso alcuni pasticci, ha avuto difficoltà a gestire situazioni gestibili, come il ritardo dei treni, ha creato un codice della strada che è stato percepito in un modo più restrittivo rispetto a quello che è, ha dato vita a un codice degli appalti che è meno drammatico rispetto a come è stato percepito e a voler fare la parte degli ingenui si potrebbe dire che al governo preferiscono che Salvini resti dove sta, anche per evitare di stabilizzare un equilibrio instabile che pure non funziona così male. A voler osservare la realtà con un occhio più malizioso, e più realistico, appare evidente che il punto è un altro. E il punto non riguarda ciò che Salvini è ma ciò che Salvini rappresenta. Il problema vero è che in questi anni, disastro albanese a parte, il governo italiano sull’immigrazione ha seguito una linea poco sovranista, poco nazionalista, poco antieuropeista, e ha avuto in almeno tre occasioni un approccio che potremmo persino definire antilepenista, antitrumpiano, e in definitiva antisalviniano. Il governo Meloni, sull’immigrazione, ha ottenuto successi che non può rivendicare, perché rivendicarli significherebbe sconfessare una linea politica al centro della quale vi è stata per molto tempo la volontà di affermare una verità che oggi non torna e che nel passato i sovranisti hanno ripetuto all’infinito. I populisti di destra hanno detto a lungo che l’immigrazione va combattuta, non governata, e per anni hanno detto che l’Europa è solo un ostacolo alla risoluzione dei problemi. Invece, in questi mesi, Meloni ha fatto l’opposto, in modo sistematico. Ha portato avanti il decreto Flussi più importante della storia della Repubblica (452.000 lavoratori stranieri nel triennio 2023-2025). Ha costruito un rapporto con l’Europa basato sull’accettazione di un nuovo trattato che istituzionalizza a partire dal primo gennaio 2026 quello che con troppa fretta Meloni ha voluto fare in Albania (l’extraterritorialità). Ha portato avanti una collaborazione con la presidente della Commissione europea non a colpi di strappi ma a colpi di accordi (no blocchi navali, sì solidarietà europea). Ed è riuscita anche a gestire meglio i flussi dal Nord Africa non chiudendo i porti (linea salviniana) ma dialogando con i paesi da cui parte l’immigrazione anche con qualche successo (Tunisia e Libia in primis, vedi alla voce Piano Mattei). In questo senso, il salvinismo non è compatibile con la gestione dell’immigrazione di questo governo non per ragioni legate a ciò che Salvini rappresenta ma per ragioni legate a ciò che rappresenta il salvinismo. E anche se Meloni non potrà mai ammetterlo, i successi, modello Albania a parte, raggiunti nella gestione dei flussi di migranti dipendono dal modo in cui il governo Meloni-Salvini si è allontanato dalla propaganda elettorale di Meloni e Salvini. Più Europa, non meno Europa. Più solidarietà, non più sovranismo. Il caso dei dazi, per i mercati, ha dimostrato quanto la diffusione del nazionalismo, in economia, sia un pericolo prima di tutto per i paesi più vulnerabili a livello economico. Per l’immigrazione, in fondo, vale lo stesso principio: la diffusione del nazionalismo, anche su questo dossier, è un pericolo per l’Italia, perché aggredendo la solidarietà sui migranti si aggredisce anche l’interesse nazionale del nostro paese. In silenzio, Meloni ha dimostrato che gestire l’immigrazione senza chiudere i porti e senza blocchi navali è possibile (e la necessità di avere una scappatoia demagogica come è il modello albanese nasce anche da qui: dalla difficoltà di rivendicare ciò che ha fatto con l’Europa sui migranti e dalla volontà di trovare un qualche modo per dimostrare di essere sempre la stessa del passato). E il no che con ogni probabilità dirà Meloni al suo vice è legato non tanto alla paura di Salvini quanto alla volontà di portare avanti una politica di discontinuità totale con l’agenda del salvinismo. Non per ragioni politiche, di equilibri nella maggioranza, ma per ragioni legate a un problema che riguarda la presenza, sul tema dell’immigrazione, di un avversario molto pericoloso per i leader sovranisti: semplicemente, la realtà. “Noi, medici impotenti tra i migranti sul molo di Lampedusa” di Valeria D’Autilia La Stampa, 14 aprile 2025 Le testimonianze dei dottori diventano un libro: “Ustioni e disidratazione, la traversata del Mediterraneo è un inferno”. “Kullu tamam?”. “Tutto bene?” chiedono, in arabo, i soccorritori. E poi la risposta, di quelle che aprono il cuore: “Miya Miya”. Tradotto letteralmente: “Al 100 per cento”. Nonostante la traversata, la paura, i segni sul corpo e nella mente, va davvero “tutto bene”. Perché sono salvi. Lo capiscono i medici che, da tempo, sono in prima linea nell’accoglienza. Imparano a capirlo da subito anche gli specializzandi in malattie infettive e tropicali dell’università degli studi di Bari “Aldo Moro” che, da due anni, operano sul molo Favaloro di Lampedusa. A rotazione, sono impegnati nella vigilanza sanitaria transfrontaliera durante gli sbarchi, grazie ad un accordo tra università e direzione prevenzione del ministero della Salute (nello specifico Usmaf-Sasn Sicilia), riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “best practice” per la promozione della salute di migranti e rifugiati. E così quella frase - che hanno sentito spesso durante le operazioni di soccorso - è diventata un libro. Si chiama “Miya Miya. Riflessioni da uno scoglio di confine” (edizioni La Meridiana) ed è una raccolta di pensieri e testimonianze di questi giovani specializzandi che, per qualche settimana, sono stati in prima linea sull’isola. Sanno di essere cambiati, “come persone e come medici”. Per ognuno di loro, un mese di permanenza. Qualcuno ne ha fatti due. La dottoressa Mariangela Cormio è rientrata da Lampedusa il mese scorso. Era la sua quarta volta. “Ognuno di noi è consapevole che ci sono persone che si mettono in mare e rischiano la vita per arrivare in Italia. Ma solo quando sei lì, capisci che è una storia che potrebbe essere anche la tua”. Ha 39 anni, con la memoria ripercorre prima i ricordi più felici. “Il suono di un “grazie” in inglese da parte di una bambina solo perché le avevo chiesto come potevo aiutarla”. E poi altri bimbi in condizioni considerate ad alto rischio che però, grazie alle cure, si normalizzavano. O una donna sieropositiva che ha trovato il coraggio di confidarsi con lei, intuendo che a quella dottoressa estranea poteva dire tutto. “Poi ci sono quelli che non ce l’hanno fatta, spesso molto giovani”. Ha vissuto anche gli sbarchi del settembre di due anni fa. “Circa 10mila persone in pochi giorni, senti tutto il peso dell’impotenza”. Gli specializzandi coinvolti nel progetto fanno soprattutto screening. Sono attività assistenziali sotto tutoraggio, grazie alla collaborazione con l’ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera. Molti arrivano con ustioni, segni di disidratazione, malattie della pelle o problematiche legate all’insolazione durante la lunga traversata. È proprio sul molo che viene fatta una anamnesi rapida, in modo da individuare chi necessita di un intervento immediato. “Nei giorni di sovraffollamento - ricorda Mariangela - ho chiesto il loro aiuto per la gestione dell’ordine. E quindi di non spingere, aspettare, rimanere fermi. E lo chiedevo a persone che arrivavano da giorni di stenti. Eppure mi hanno ascoltata. Ciò che colpisce è la loro dignità e la capacità di aprirsi all’altro”. L’idea di questo diario collettivo è nata dagli stessi specializzandi. Al loro rientro, sentivano di voler affidare alla scrittura questa esperienza. All’inizio con dei post sulla pagina Facebook della scuola di specializzazione in malattie infettive e tropicali di Bari, poi con il volume vero e proprio. Stefano racconta di essersi sentito “travolto” da qualcosa di più grande di lui, in grado di “ricordarti perché fai quel che fai e perché è giusto farlo”. Roberta ha negli occhi quei bambini. “Spesso - scrive - bastano dei gessetti colorati e delle bolle di sapone dati dai volontari a riportarli alla loro età”. Alla notizia dell’ennesimo barcone in arrivo, Laura sente che la sua angoscia è quella di tutti. “Staranno tutti bene? La barca riuscirà a raggiungere il molo senza che si ribalti?”. Luisana era lì la notte del 20 ottobre 2022, quando un’esplosione su un barchino “ha spento la vita di una bambina di 10 mesi e di un bimbo di 2 anni. Assisto a un dolore a cui credo non ci si possa abituare mai”. La professoressa Annalisa Saracino è la direttrice dell’unità operativa di malattie infettive del Policlinico di Bari. “Dal 2022 ad oggi sono 22 i medici partiti dalla nostra clinica per prestare assistenza a Lampedusa. Per un infettivologo l’esperienza formativa sul campo, in situazioni di frontiera, non deve mancare. Questo progetto non solo rafforza le competenze cliniche e umane, ma rappresenta anche un modello innovativo per la formazione sanitaria”. Sull’isola c’è stata anche lei, per le attività di supervisione. “Spesso si dice che è difficile coinvolgere i giovani. Invece tutti quelli che sono tornati ci hanno ringraziati per questa opportunità. Oltre all’interesse dal punto di vista scientifico, è stato forte l’impatto umano. Per un medico avere a che fare con la morte non è mai semplice, ma nelle loro parole ci sono anche tante esperienze di vita”. La pace non si fa solo preparando la guerra di Salvatore Settis La Stampa, 14 aprile 2025 Riassunto delle puntate precedenti: l’Unione Europea non riesce a trovare un accordo sull’ora legale, ma in compenso riuscirà presto a schierare poderosi eserciti che ci consentiranno di trattare alla pari con Usa, Russia e Cina. Armandosi, l’Ue gioca d’anticipo sull’intenzione di Putin (mai espressa) di assaltare l’Europa occidentale, ma non dice verbo sull’intenzione Usa, ripetutamente espressa da Trump, di annettersi la Groenlandia, una regione autonoma della Danimarca (membro dell’Unione). L’Ue esalta il rispetto delle regole democratiche, ma approva che in Ucraina di elezioni non si parli, anche se il mandato presidenziale di Zelensky è scaduto il 20 maggio 2024 (in Usa le elezioni presidenziali del 1944 si tennero regolarmente, nonostante la guerra mondiale). L’Ue riafferma ogni giorno la propria fedeltà alla Nato, mentre il nuovo presidente del Paese-guida dell’alleanza (“il leader del mondo libero” secondo la retorica americana) scatena la guerra dei dazi contro gli alleati. L’Ue ha reagito con preoccupazione e fastidio alla secessione del Regno Unito, ma flirta, Brexit o non-Brexit, con la Santa Alleanza dei ‘volenterosi’ lanciata da Starmer. E si potrebbe continuare ad libitum. Intanto il 2 aprile il Parlamento Europeo ha approvato a maggioranza una Risoluzione “Sulla politica di sicurezza e di difesa comune” dell’Unione. Un testo sterminato di circa 35.000 parole, quasi come l’Iliade. Tanta prolissità par fatta per scoraggiare la lettura integrale del documento, ma i pochi che vi si avventurano vi troveranno affermazioni quanto meno singolari, per esempio che la Russia “ha scelto di dichiarare guerra ai Paesi europei”: come se “dichiarare guerra” fosse una frasetta per conversazioni da bar, senza il significato politico, giuridico e militare che ha assunto in millenni di storia. Vi leggeranno che questa è “la minaccia più grave e senza precedenti per la pace nel mondo, nonché per la sicurezza e il territorio dell’Ue”, senza sospettare che qualche precedente forse c’è, per esempio Hitler nel 1939. Scopriamo anche, dalla Risoluzione Ue, che fra le ragioni per cui l’Europa deve armarsi c’è la situazione di Cipro, uno Stato membro di cui “una parte è occupata illegalmente dalla Turchia”, senza menzionare che la Turchia è membro della Nato, anzi ne ha l’esercito più forte dopo quello americano. In uno slalom, ripetitivo e verboso, fra le ragioni dell’Unione e quelle della Nato, la Risoluzione traccia un quadro da vigilia di guerra pur ammettendo che l’America di Trump (paese-guida della Nato) sta percorrendo la strada opposta: trattative diplomatiche in vista di una tregua e della pace. Ma pace non può darsi, secondo la Risoluzione, senza una “vittoria militare decisiva” dell’Ucraina, a cui l’Ue e i Paesi membri devono contribuire “fornendo armi, aerei da combattimento, droni, sistemi di difesa aerea, sistemi d’armi e munizioni, missili da crociera aviolanciati e terra-terra, aumentando significativamente le relative quantità”, nonché “abolendo tutte le restrizioni che impediscono all’Ucraina di utilizzare sistemi d’arma occidentali contro obiettivi in territorio russo”. Per rispondere alla “dichiarazione di guerra” (che non c’è) della Russia, l’Ue dovrà dotarsi, secondo la Risoluzione, di un apparato bellico che richiede l’incremento della produzione di armi nel “mercato interno” dell’Unione (o dovremo comprarle in Usa come vuole Trump?). Sono dunque necessari, dice la Risoluzione, immediati impegni di bilancio, che garantiscano capacità di dispiegamento di truppe e di massima “mobilità militare”, secondo le linee del progetto ReArm Europe firmato von der Leyen. E i cittadini dei Paesi europei? Le loro eventuali opinioni non sono mai citate dalla Risoluzione; dev’essere anzi l’Ue a mettere in riga i cittadini, in modo che sviluppino “una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni” a quelle degli organi di governo dell’Unione. Nonostante l’uso ricorrente del termine “difesa”, spesso usato come sinonimo di “guerra”, e qualche menzione di circostanza di negoziati diplomatici remotamente possibili, la linea espressamente bellicista del documento non potrebbe essere più chiara. Fra i voti a favore della Risoluzione si contano 25 deputati italiani (17 Pd, 8 FI). Che questa sia la loro posizione può piacere o meno, ma c’è da chiedersi se, per coerenza con se stessi, non dovrebbero da subito impegnare i rispettivi partiti nella cancellazione o modifica dell’art. 11 della Costituzione italiana -uno dei suoi “principi fondamentali” - , secondo cui “L’Italia ripudia la guerra” non solo “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”; e ammette solo alleanze o progetti che “favoriscano la pace e la giustizia fra le Nazioni”. I neo-signori della guerra targati Ue stanno giocando col fuoco. Un testo come questo ha in parte la funzione di verificare le pericolanti alleanze parlamentari; in parte ammicca alle industrie produttive che nell’enorme incremento delle spese militari vedono un’opportunità da non perdere; in parte ancora, mira -facendo la voce grossa- a rivendicare un posto per l’Ue, espressamente negato da Trump, al tavolo negoziale sulla pace in Ucraina. Ma quando a tali sproloqui si aggiungono enormi stanziamenti per spese militari il rischio che la retorica verbale sconfini in vere e proprie azioni di guerra cresce. Da nessuna parte, né nel documento del 2 aprile né altrove, si dice da dove l’Ue e/o i Paesi membri dovranno prelevare gli 800 miliardi di cui si favoleggia. Da riserve tenute finora nascoste o saccheggiando i capitoli di spesa pubblica finora previsti? Ma c’è ai massimi livelli, in Europa, una voce che non si stanca di predicare la pace, la diplomazia, il negoziato. È quella di papa Francesco. E non per le ragioni a cui alludeva una famosa battuta di Stalin a Yalta (“quante divisioni ha il Papa?”). Ma perché ha in mente altre priorità, che la distrazione di cifre così enormi renderebbe impraticabili: il controllo del clima, la tutela dell’ambiente, la dignità umana, la lotta alla povertà e alle diseguaglianze, la diffusione dell’istruzione, la promozione della ricerca, il culto della storia e dei monumenti, la tutela della salute di tutti, la libertà di fede, d’opinione e di parola. Sono le stesse priorità della nostra Costituzione: chi ad esse preferisce un’economia di guerra non può limitarsi a ignorare o cambiare l’art. 11. Dovrebbe adoprarsi per annacquare (quanto meno) le chiarissime enunciazioni di tanti altri articoli di una Carta a cui dovrebbe aver giurato fedeltà. Mar Mediterraneo: c’era una volta il crocevia della civiltà di Domenico Quirico La Stampa, 14 aprile 2025 Quindici anni fa il mare interno fra Europa, Africa e Asia era crocevia del mondo, oggi la Storia si fa negli oceani. Sono tornate le dittature sulla sponda Sud, i migranti sono solo questione amministrativa: è la fine delle illusioni. È stato un attimo. O forse, molto semplicemente, noi europei non siamo stati all’altezza, non l’abbiamo meritata quell’occasione che il Tempo ci offriva. Dopo lunghe ma fragili peregrinazioni la Storia era tornata, una quindicina di anni fa, con dramma e dolore (ma quando questo non è stato il suo lievito fatale?) laddove era nata, al Mediterraneo: la grande cerniera di cui l’avventura umana ha fatto il suo nido prediletto, Nord e Sud, Est e Ovest, Oriente e Occidente, Islam e laicità, democrazie e assolutismi. Dopo tanto parlare di oceani, il centro dell’attenzione del mondo era fissato su questa piccola pianura d’acqua dove ogni nome di isola, insenatura, città evoca luoghi dove si sono combattute grandi battaglie e chiusi storici accordi di pace, rigata dalle migrazioni e dalle fughe davanti al nemico ma anche dagli incontri dei sapienti, dei profeti e degli umili. Evochiamolo, con commozione e rimpianto, quell’attimo. Sì, il popolo dei migranti arrivato davanti a quel mare era attraversato da un eterno brivido leggero; la terra, la terra a cui erano abituati da sempre, per l’emozione, era come se vacillasse sotto i loro piedi. Era l’inizio di una nuova Storia, l’ingresso in un regno di più grandi possibilità e sogni. Sapevano cosa li attendeva ma potevano credere di viaggiare verso la perfezione. Diventavano leggeri e abili; loro uomini dei deserti e delle bidonville infinite, navigavano come ai tempi di Omero. Ma non era solo quello. Tutta la sponda davanti a noi decapitava dittature, imboccava Primavere che sembravano straordinarie, cadevano in cocci nomi di satrapi che da decenni appestavano la storia, Mubarak Ben Ali Gheddafi finivano nel nulla. Ombre. Quelle onde che mugghiavano sulle spiagge di Tripoli di Tunisi di Alessandria di Laodicea, quegli infiniti abissi di luce delle estati sul mare, erano annunciazione di nuove speranze. Noi europei non avremmo dovuto stupirci. Da Corfù ad Azio, da Djerba a Lepanto, da Malta ad Antiochia tutti i popoli sono passati, di continuo, tra gli stessi regimi come l’uomo attraverso le stesse passioni. Si tornava, nell’inizio incandescente del terzo millennio, alla epica geografia di Braudel, alle sue civiltà e ai suoi imperi. Tutte le sinuosità si ordinavano, formavano correnti di cui la più vasta si delineava, il Mediterraneo e le sue terre. Una sorta di segno fatale: l’attualità non ha molto senso in questo mare dove tutto ha carattere di eternità. La globalizzazione, quella sì, riguardava gli oceani, in fondo grigia storia di merci, di affari che milioni di uomini non avevano mai neppure assaggiato. Il terrorismo globale nel 2001, le Torri gemelle avevano aperto ampie crepe. Quel mare, il nostro, invece era una storia di uomini, che è l’unica vera storia globale, quei fuggiaschi e quei ribelli di avenue Bourghiba, di piazza Tahrir, di Aleppo, di Bengasi, i naufraghi di Lampedusa forse stavano davvero trasformando il mondo, anche il nostro. Il mare che unisce Europa, Asia e Africa era dunque il protagonista degli uomini: il passato, accanito fabbricante di particolarismi, aveva accentuato tutto questo seminando i suoi straordinari colori. Perfino la sfida tra l’Occidente guidato da élites sonnambule e il nuovo Stato totalitario con le bandiere del Califfato di Mosul si ricollocava nel mare interno che una storia e una politica miope volevano marginale rispetto al grande spazio degli oceani. Era logico: il califfato non negava la storia del Vicino Oriente mediterraneo, vi si avviluppava, la dilatava. Cosa voleva ricostruire in fondo? Lo spazio degli Abbassidi dominatori di un grande Mediterraneo che andava da Toledo a Samarcanda. Nel momento in cui si gridava il nome di Dio, e si uccideva purtroppo per Dio, c’era un solo scenario possibile, lo spazio fisico geografico storico dove le fedi hanno contaminato l’anima dell’uomo. L’evidenza del declino dell’America come onnipotenza, estranea, distratta, incerta dopo la bruciante disfatta irachena, non a caso si consumava lontano dalle rive degli oceani che aveva eletto a proscenio della Storia. E della sua Fine. Il Mediterraneo, nel bene e nel male, disfaceva l’ultima illusoria incarnazione tecnologica dello spirito universale hegheliano. Tra queste coste antiche dunque si migrava: di nuovo. Dalla Sicilia ai litorali dell’Africa corre la catena delle isole che collegano deboli profondità marine: Djerba, Pantelleria, Lampedusa, Gozo, Zembra. L’acqua nei giorni buoni è così chiara che sembra di poter vedere il fondo. La rotta è antica come il mondo. Un mondo si svuotava, l’altro di fronte si riempiva: non era il ritmo di sempre? Il Mediterraneo è molto più grande delle sue coste. Attirava tutto ciò che sta intorno, lo aggregava in questo gigantesco continente unitario che lega Europa, Asia e Africa. In questo spazio la terra è la stessa. Il clima di Cadice è come quello di Beirut, la Provenza assomiglia alla Calcidia, la vegetazione di Gerusalemme è come quella della Sicilia. Provoco: la Crimea non è forse spazio del Mediterraneo? Certo diversi sono i gesti. Ma forse neppure questo è interamente vero. Un pianeta di per sé, dove tutto ha circolato precocemente e in questa saldatura gli uomini trovavano per un attimo lo scenario della loro storia unitaria anche guerreggiando. Qui si sono compiuti gli scambi decisivi. E ora? Le strade degli ingenui ribelli di Tunisi, del Cairo, di Tripoli, di Istanbul sono tornate, con il nostro compiaciuto consenso, sotto il controllo brutale dei dittatori di sempre, più accorti ma egualmente feroci, di quelli di ieri. I migranti, drenati, respinti, nascosti nei gulag libici sono un problema amministrativo che serve a polemiche di politica interna. I mercanti di uomini continuano il loro lavoro, ma più silenziosamente. I massacri di Gaza hanno sostituito, nella indifferenza colpevole, quelli di Racca e Mossul. Gli oceani che ora solcano le portaerei cinesi alla ricerca di approdi strategici sono di nuovo bellicosi protagonisti. Noi mediterranei ed europei torniamo comparse. L’imperialista Mahan ha purtroppo cancellato il saggio Braudel.