Carceri, così salta il patto con lo Stato di Fabrizia Giuliani La Stampa, 13 aprile 2025 Il rischio è assuefarsi: non registrare più, non stupirsi più, figuriamoci indignarsi. Emergenza carceri, sovraffollamento, strutture fatiscenti, carenza di personale e via così. Formule ineccepibili, pensate per chiudere bene i fatti, sigillarli e non esserne toccati. Così parlano i verbali, le relazioni, le audizioni parlamentari e così parliamo anche noi. Noi che lo sappiamo quali sono le condizioni delle nostre prigioni, quelle per adulti e anche quelle per i minori, sempre per restare alle locuzioni indolori, quelle dove stanno i ragazzi e le ragazze e a volte portano nomi che generano ossimori. Come il Beccaria di Milano, titolato alla parte migliore della nostra storia, dove meno di un anno fa sono stati arrestati agenti per torture e da dove si continua a evadere. Dovremmo averla nel sangue, nel Dna, la consapevolezza che la pena non può tradursi, mai, in violenza e che lo Stato per punire un delitto non deve compierne un altro, non avremmo dovuto lasciarla nel secolo che voleva portare la luce anche dove non meritava di andare. E invece non è germogliata, questa cultura, se per cultura intendiamo non solo la coscienza di pochi, ma senso comune e istituzioni a norma. Non vogliamo accusare nessuno, scrivono i parenti di Tiziano Paoloni, detenuto a Regina Coeli in attesa di giudizio ora in coma, del quale questo giornale ha dato ieri notizia. Abbiamo domande, continuano, perché le cose non sono chiare. Raccontano un pellegrinaggio, la ricerca a tentoni per ricostruire il viaggio che lo ha portato dalla cella allo Spallanzani con diagnosi di meningite. Mettono insieme i frammenti: le testimonianze degli altri detenuti, dei loro parenti, le assenze sospette nell’ora d’aria e alla messa, il peggioramento, l’impossibilità di raggiungerlo, il ritrovamento in ospedale e le lacrime della dottoressa che lo ha in cura. Leggiamo oggi di un’altra Via Crucis nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino: riguarda una detenuta con diagnosi di schizofrenia grave, invalida, per la quale le condizioni carcerarie sono, evidentemente, impossibili da sostenere. Il Tribunale lo ha ribadito due volte, i legali sono preoccupati, la sua vita è a rischio. Non dovrebbe stare in cella, non rappresenta in alcun modo un pericolo per nessuno, eppure solo in prigione ha trovato una forma di solidarietà, le compagne che si preoccupano per come sta e lo segnalano. L’ultima volta che è stata scarcerata è stata lasciata su un marciapiede per poi essere nuovamente arrestata: violazione dei domiciliari, citofonava agli inquilini dei palazzi. La prigione sovraffollata, dove non passa nemmeno l’aria e le condizioni sono proibitive, sembra l’unica destinazione possibile per chi, evidentemente, dovrebbe stare altrove e più che di pena ha bisogno di cure. Per chi non ha sbagliato, ma è solo malata e vulnerabile, come questa donna. Le domande dei parenti di Tiziano Paoloni, senza retorica, sono le nostre. Le carceri non possono essere terra di nessuno, luoghi che inghiottono e poi si richiudono, dove vigono leggi proprie e si salva solo chi può: chi non è solo, chi ha i mezzi, avvocati preparati o anche solo una famiglia, visite frequenti, sorelle tenaci, che non arretrano mai. È inaccettabile che le disuguaglianze di partenza diventino esiziali, in caso di pena, non solo per sacrosante ragioni morali e umanitarie. Il punto è politico: la pena deve garantire chi è fuori ma anche chi è dentro, perché qui passa confine tra paesi democratici e paesi che non lo sono. Se vogliamo che le istituzioni restino credibili dobbiamo pretenderlo. In carcere tra alienazione quotidiana e affettività alla prova di Andrea Bernardini Avvenire, 13 aprile 2025 Le linee guida sul diritto all’affettività di chi è in carcere, come previsto dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, sono state firmate venerdì dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria facente funzioni Lina Di Domenico e trasmesse a provveditori, direttori e comandanti di reparto degli istituti penitenziari. Le linee guida fissano “una disciplina” sugli incontri intimi tra i detenuti e i loro partner. Saranno concessi “nello stesso numero” dei colloqui visivi fruiti mensilmente e dureranno al massimo due ore. A usufruirne potranno essere soltanto il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente, che saranno ispezionati. L’accertamento, demandato al direttore dell’istituto e in alcuni casi all’Autorità giudiziaria, sarà automatico per coloro che già siano stati ammessi ai colloqui visivi o telefonici. Saranno esclusi da questa possibilità i carcerati sottoposti a 41-bis e 14- bis, quelli che hanno avuto un permesso nell’anno di riferimento, quelli con un’infrazione disciplinare negli ultimi sei mesi e tutti quelli sorpresi con droghe, telefonini o oggetti che possono ferire. Gli incontri avverranno in una camera con un letto e servizi igienici annessi sorvegliata soltanto all’esterno da personale di Polizia penitenziaria. Napoli, carcere di Poggioreale. In una cella sporca convivono quattro detenuti. Tre coricati, vestiti, sulle loro brandine - gli occhi protesi verso l’alto - paiono rileggere la loro vita. Uno, piegato su un panchetto, cerca le parole giuste da scrivere alla sua famiglia. In un’altra cella un detenuto, nudo, mostra il suo credo: “Odio gli infami. Detesto la legge. Amo combattere”. Non a caso il suo volto è tagliato: l’autore dello scatto ha voluto far parlare soprattutto i tatuaggi. Roma, carcere Regina Coeli. Un detenuto è da ore solo, nella cella destinata a quanti sono in attesa di collocazione definitiva: si avvicina all’unica finestra, per ricevere gli ultimi raggi di sole e incontrare, almeno con lo sguardo, uomini accomunati da egual destino. Roby, invece, si trova nel pàtio, in compagnia di altri due detenuti. Si solleva da terra tenendo ben stretta una barra: sembra Gesù sulla Croce con a fianco i due ladroni. È una immagine potente, scelta per le locandine della mostra “Prigionieri”, che raccoglie trentatré fotografie scattate tra i corridoi, le celle, gli spazi comuni dei principali istituti penitenziari italiani: con Regina Coeli e Poggioreale, anche l’Ucciardone di Palermo, Bollate (Milano), la Giudecca (Venezia) Capanne (Perugia) la casa circondariale femminile di Rebibbia e la colonia penale di Isili (Sardegna). L’esposizione sarà visitatile da sabato 12 a martedì 29 aprile a Pisa a Palazzo Toniolo (tutti i giorni dalle ore 16 alle ore 19 e la domenica anche al mattino, dalle ore 10 alle ore 13). Visite guidate ad hoc sono state pensate per le scuole (gli interessati devono prenotarsi scrivendo a segreteria@fondazioneoperatoniolo.it). Promotrice dell’iniziativa: la Fondazione Opera Giuseppe Toniolo. Partner: la Fondazione Pisa, Fondazione Cif, The Wide Factory, Impegno e Futuro. Sarà questa l’occasione per visitare anche la casa a lungo abitata dall’economista e sociologo cattolico, il Beato Giuseppe Toniolo (nato a Treviso il 7 marzo di 180 anni fa) insieme alla moglie Maria Schiratti e alla sua numerosa prole. Casa divenuta sede di un museo e di una ricca biblioteca. All’ultimo piano del palazzo Toniolo si trova invece Radio Incontro emittente di ispirazione cristiana alla soglia dei suoi primi 50 anni di vita. E proprio Radio Incontro (Fm 107.7) ha realizzato un podcast in undici puntate, che potranno essere ascoltati all’interno della mostra e dove sono raccolte le testimonianze di volontari impegnati nel carcere don Bosco di Pisa. Hanno offerto il loro contributo: gli operatori locali del progetto “Misericordia Tua” della Caritas diocesana, “Bambino sari tu!”, Casa della donna, Cif comunale, Controluce, L’Altro diritto, Oltre il Muro, Polo penitenziario universitario, Prometeo, Sacchi di Sabbia, San Vincenzo de’ Paoli. Accompagneranno l’evento alcuni incontri di riflessione spirituale nel tempo quaresimale. L’inaugurazione della mostra sarà venerdì 11 aprile alle ore 16 non a Palazzo Toniolo ma nell’auditorium di Palazzo Blu, in occasione di una conferenza pubblica dal titolo “Realtà e sfide del sistema carcerario italiano”. L’autore degli scatti fotografici è il fotoreporter di fama internazionale Valerio Bispuri, romano, che già in passato - in “Encerrados” - aveva raccontato la vita dei detenuti girando in 74 carceri sudamericane. “Mi sono sempre chiesto - racconta Valerio Bispuri ad Avvenire - come un uomo o una donna, privati, in carcere, delle loro libertà, possano pensare, agire, muoversi. Gli scatti raccontano i detenuti nella loro solitudine: lontani dai loro affetti, divorati dai loro rimorsi, ribelli ad una società che li considera pericolosi per gli altri. Ma anche nella loro vita comunitaria, in celle pollaio dove non sempre si va d’accordo o dove, al contrario, ci si abbraccia, ci si consola, si gioca, si ride, si soffre insieme”. In tutte le occasioni in cui “mi sono recato in un carcere ho chiesto ed ottenuto di poter stare a lungo con i detenuti. Sono entrato in confidenza con loro. Ho spiegato loro il mio progetto e chiesto loro di comportarsi come se io non ci fossi. Trovando sempre collaborazione”. Sessualità in carcere. Il Garante dei detenuti della Toscana: “Così regole umilianti” di Teresa Scarcella La Nazione, 13 aprile 2025 “Sono avvilenti. Fatte apposta per scoraggiare”. Non le manda a dire il Garante regionale dei detenuti, Giuseppe Fanfani, commentando le linee guida diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sul diritto alla sessualità dietro le sbarre. Le regole, secondo Fanfani, nascono sbagliate. “La Corte Costituzionale aveva dato alla questione un senso profondo di umanità - spiega il garante -. Poi c’è stata una resistenza da parte del Dap, ma anche dalla politica. E di fronte all’impossibilità oggettiva di dire no, è venuta fuori questa circolare, che confonde l’affettività con la sessualità”. Lo si evince fin dalla descrizione delle stanze adibite allo scopo: arredate solo di letto e servizio igienico. “Un postribolo ai tempi della prima guerra mondiale” commenta Fanfani. Altro indizio, il tempo a disposizione: due ore al massimo. “Può essere definita affettività? - si chiede -. Avevo immaginato una condivisione più ampia, con i propri cari (amici, figli etc..) in un ambiente più confortevole, più decoroso”. E poi, ancora, la regola secondo cui le pulizie spettano ad altri detenuti, o che sono il compagno o la compagna della persona detenuta a dover portare la biancheria da casa. “Questa regola è ridicola - sempre Fanfani - oltre che umiliante. Non dimentichiamo che fuori dalla stanza ci sono agenti e telecamere. Diventerebbe una passeggiata della vergogna”. Spazi, tra l’altro, che Sollicciano giurerebbe di avere. Quello fiorentino è infatti tra i pochi istituti ad aver accolto la direttiva. “Che abbia gli spazi è possibile, che siano adeguati ho forti dubbi - conclude il garante - di sicuro lì non avrebbero bisogno del bagno con la doccia, visto che piove dentro”. Dall’altra parte i magistrati rimandano al mittente, ovvero al ministro Nordio, le responsabilità sul sovraffollamento carcerario. “Puntando il dito contro i magistrati si elude il dato centrale - sostiene la giunta esecutiva della sezione Toscana dell’Associazione nazionale magistrati - ovvero che provvedere alla dotazione dei mezzi necessari al buon funzionamento del sistema penitenziario è compito e responsabilità dell’esecutivo e, segnatamente, del ministro”. L’Anm Toscana critica Nordio sulle carceri: “Così isola giudici e pm” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 13 aprile 2025 L’Anm toscana: con le sue parole contribuisce all’isolamento di giudici e pubblici ministeri. “Provvedere al buon funzionamento del sistema penitenziario è compito e responsabilità dell’Esecutivo e del ministro della Giustizia. Puntando il dito contro i magistrati si elude il dato centrale di una questione così seria e urgente”. La sezione toscana dell’Associazione nazionale magistrati replica alle dichiarazioni rilasciate in Senato dal guardasigilli Carlo Nordio sul sovraffollamento negli istituti di pena. “Se aumenta il numero dei carcerati non è colpa del governo, ma di chi commette dei reati e della magistratura che li mette in prigione. Non mi risulta che siano stati imprigionati in base a nuove leggi promulgate da questo Parlamento”, aveva risposto nel corso di un question time a chi faceva notare che la disperante situazione nelle carceri incide anche sull’incremento dei suicidi, arrivati a quota 91 nel 2024 e 25 nei primi mesi del 2025. Il numero dei detenuti che si sono tolti la vita “è aumentato, però se adesso sono 80 era intollerabile quando erano 50 o 60, dieci anni fa… È un fenomeno evidentemente radicato nel sistema carcerario e che non può essere risolto né con una legge né con l’aumento dell’edilizia carceraria”. Frasi che non hanno alleggerito il clima già teso con le toghe, anzi. Nei giorni scorsi, il presidente dell’Anm Cesare Parodi aveva replicato alle parole del guardasigilli (“Non è una colpa mandare in carcere in base alla legge”). Ieri, la giunta esecutiva della sezione toscana dei magistrati ha espresso “sconcerto e preoccupazione” per quelle dichiarazioni. Perché “consegnano all’opinione pubblica l’idea che ricada sulla magistratura la responsabilità del sovraffollamento carcerario e dei gravissimi disagi vissuti da chi è destinatario di provvedimenti restrittivi della libertà personale”. Non solo, le parole di Nordio “Sono esternazioni che contribuiscono all’isolamento istituzionale delle figure del giudice e del pubblico ministero”. E ciò che più preoccupa le toghe toscane è “l’implicita ma evidente determinazione a procrastinare la risoluzione delle carenze che caratterizzano la maggior parte delle carceri del distretto”. Proprio a causa del sovraffollamento e delle condizioni in cui versano gli istituti di pena, “la popolazione carceraria e gli operatori penitenziari sono costretti a condizioni di vita e di lavoro intollerabili. Un tema - sottolinea la sezione toscana dell’Anm - tragicamente noto alle cronache per i ricorrenti episodi di suicidio, anche nel carcere di Firenze Sollicciano ed in altri istituti penitenziari del nostro distretto”. Per questo “a quanti vi lavorano e vi risiedono la magistratura toscana è vicina e auspica che il problema sia affrontato in modo costruttivo da parte di chi deve farsene carico, attraverso pronte ed incisive azioni di rimedio”. “Personale sotto organico e tra le tensioni. La Sorveglianza è più debole” di Alberto Maccari Avvenire, 13 aprile 2025 Beneduci (Osapp) ritiene fallimentare la gestione del sistema da parte del ministero: “Si ascolti di più chi è sempre in prima linea”. Dirigenti del Dap in trincea per un giorno su disposizione del Ministero della Giustizia e un’ondata di ispezioni e supporti dimostrativi nelle carceri italiane. Ma a cosa servono? La domanda, che è anche una denuncia e un appello alle istituzioni a prendere provvedimenti concreti per affrontare l’annosa emergenza che sconvolge il sistema penitenziario, arriva da Leo Beneduci, segretario nazionale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). “Mentre assistiamo a queste dimostrazioni ben orchestrate all’insegna del “facciamo vedere noi come si fa da parte di dirigenti ministeriali che poi ripartono soddisfatti - dice il rappresentante sindacale - c’è chi resta in prima linea e deve fare i conti con la realtà quotidiana”. Organici insufficienti e il disagio causato ai detenuti dal sovraffollamento di strutture che spesso sono fatiscenti e inadeguate, mettono a rischio ogni giorno l’incolumità fisica e il lavoro stesso degli agenti in quasi tutti i 192 istituti di pena presenti sul territorio nazionale. Così la sicurezza non può essere garantita sempre e comunque, come dovrebbe essere. Nel frattempo aumentano le aggressioni agli agenti e agli operatori carcerari e gli atti di ribellione da parte dei detenuti: la maggior parte dei circa 40mila agenti in servizio non ce la fanno più. Secondo una ricerca di Antigone il rapporto fra persone recluse e agenti, in Italia, è di 1,67, ovvero poco più di un detenuto e mezzo per poliziotto. I concorsi indetti finora dall’Amministrazione penitenziaria prevedono circa 4mila nuove unità ma saranno sufficienti? C’è poi da considerare la questione della formazione dei neo-assunti, che necessita tempo e ulteriori risorse e si aggiunge alla necessità - anch’essa più volte fatta presente dalle organizzazioni sindacali del personale di polizia - dell’aggiornamento professionale. Beneduci, nel suo ennesimo, disperato appello alle autorità, insiste sulla inopportunità delle recenti decisioni prese dai vertici di Largo Arenula. “Perché gli esperti del Dap non si insediano in trincea con lo stesso trattamento economico e per abnegazione e spirito di corpo rendono un contributo a lungo termine? - si chiede. L’ironia della sorte è che gli stessi che vengono a chiudere le celle sono quelli che poi valutano, monitorano gli eventi critici e istruiscono i procedimenti disciplinari”. Ormai le tensioni dietro le sbarre hanno raggiunto livelli intollerabili anche per gli addetti alla sorveglianza. Mancano direttori e comandanti dei reparti e gli stipendi degli agenti, costretti a turni massacranti, non sono adeguati alla mole di lavoro da sopportare e alle responsabilità che ne derivano. “Vorremmo spiegare al ministro, al governo o magari anche a qualcuno del Parlamento la necessità urgente di superare l’approccio teatrale alla sicurezza penitenziaria - conclude Beneduci - per costruire soluzioni che partano dalle esigenze concrete di chi, ogni giorno, garantisce l’ordine nelle sezioni detentive che, noi lo sappiamo altri no, non è solo una questione interna ma riguarda l’intera collettività”. Le bodycam per gli agenti per aumentare la sicurezza di Luca Bonzanni Avvenire, 13 aprile 2025 Entro il mese di giugno lo strumento verrà usato in 50 istituti per documentare attività di servizio e garantire l’ordine. Le bodycam arrivano anche in carcere. Anche la polizia penitenziaria avrà a disposizione le “telecamere indossabili”, già in uso ad altre forze dell’ordine e ora pronte a essere impiegate anche per la sorveglianza all’interno dei penitenziari. Il “collaudo”, come spiega e una circolare del ministero della Giustizia inviata nei giorni scorsi ai sindacati di categoria, avverrà entro il mese di giugno e coinvolgerà una cinquantina di strutture tra carceri per adulti e quelle minorili, ma potranno essere utilizzate anche in alcuni servizi sul territorio, per esempio legati alle misure alternative o alle “traduzioni” (i trasferimenti) di un detenuto da un carcere all’altro o in tribunale per le udienze. Si tratta di “uno strumento di videoripresa funzionale a documentare le attività di servizio relative alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e/o penitenziarie “, secondo la definizione della circolare, che ne stila delle linee guida. L’uso delle bodycam, posizionate sul gilet tattico degli agenti, sarà deciso dal direttore dell’istituto e ha l’obiettivo di acquisire filmati utili in alcune circostanze, ad esempio “a tutela e garanzia dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e degli istituti penali peri minorenni”, cioè per documentare possibili violazioni o reati. E in quali situazioni? L’attivazione dei dispositivi, prosegue il documento, “sarà assicurata nei casi in cui si proceda a operazioni di perquisizione straordinaria o generale e in presenza di eventi critici” come “aggressione fisica al personale di polizia penitenziaria, autolesionismo, rivolte, violenza o minaccia, evasione o tentata evasione”, ma anche in caso di “barricamento come forma di protesta passiva” (quindi senza l’uso della violenza) o “battitura delle suppellettili collettiva”. Il regolamento d’utilizzo è stato approvato dal Garante della privacy; tra le indicazioni c’è il divieto di “operare registrazioni all’interno delle camere detentive”, cioè le celle, “durante la permanenza dei ristretti, ove non ne ricorrano le condizioni di legittimo utilizzo”. Ogni bodycam sarà abbinata attraverso un codice all’agente che la indosserà, e quel codice sarà impresso su ogni fotogramma registrato, insieme alla data e all’ora della ripresa. “Quando la telecamera viene restituita e inserita nella postazione locale (da dove cioè è stata prelevata, ndr) i contenuti multimediali registrati vengono automaticamente copiati - continua la circolare - le informazioni relative al filmato sono inviate al server centrale e la camera viene ripulita e re-inizializzata, rimuovendo il codice dell’operatore assegnatario. Ogni filmato ripreso è quindi imputabile all’operatore assegnatario della camera”. Le linee guida specificano poi che la cancellazione dei file potrà essere effettuata esclusivamente dal personale autorizzato dal direttore dell’istituto o dal comandante della polizia penitenziaria del carcere, “in possesso della password di abilitazione a tale funzione, obbligati successivamente alla redazione del relativo verbale”. È inoltre fatto divieto a tutti gli operatori di “trattenere copia dei filmati” o “divulgare e/o comunicare indebitamente il contenuto delle videoriprese”. L’acquisto delle bodycam, oltre 700 in tutto, è già stato bandito nei mesi scorsi dal ministero della Giustizia. Avvocati in sciopero per il Decreto Sicurezza. “Reati inutili e aumenti di pena ingiustificati” di Antonio Bravetti La Stampa, 13 aprile 2025 Uno sciopero di tre giorni, in aperto dissenso al decreto sicurezza e in protesta contro gli ultimi provvedimenti del Dap sulle carceri. L’Unione delle camere penali proclama l’astensione dal lavoro il 5, 6 e 7 maggio. Niente udienze né attività giudiziarie per gli avvocati penalisti. Il decreto sicurezza, a loro giudizio, presenta numerose criticità. L’elenco è lungo: “L’inutile introduzione di nuove ipotesi di reato; molteplici, sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena; l’introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale; la sostanziale criminalizzazione della marginalità e del dissenso”. Un’altra serie di errori vengono individuati nel campo della detenzione: “L’introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione; il consequenziale aumento della popolazione carceraria; l’ulteriore aggravio del fenomeno del sovraffollamento; l’insufficienza degli interventi per ridurre sia il sovraffollamento carcerario in crescita progressiva sia il tragico fenomeno dei suicidi in carcere che ha raggiunto il numero record nel 2024”. Da giorni i penalisti criticano le misure in materia di sicurezza del governo, puntando l’indice anche contro “l’abuso della decretazione d’urgenza nella materia penale”. Una modalità che “denuncia, ancora una volta, come si tratti di interventi ostentatamente simbolici e come tali privi di ogni effettiva efficacia, che nulla hanno a che fare con un reale incremento della sicurezza dei cittadini”. Anche la direttiva del Dap sul diritto all’affettività dei detenuti è stata oggetto di critiche. “Una goccia nel drammatico scenario nel quale versano le carceri”, ha detto il presidente dell’Unione camere penali, Francesco Petrelli. Non migliore il giudizio su un’altra direttiva, sull’alta sicurezza: utile solo “a rafforzare una concezione securitaria e opprimente”. Il Csm: penale telematico in crisi, serve doppio binario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2025 Richiesta al ministero per conservare anche la via analogica. Il Consiglio superiore della magistratura torna a sottolineare le criticità del processo penale telematico, tra i cardini degli impegni presi dal ministero della Giustizia nel contesto del Pnrr. Con una delibera approvata dal plenum si ricorda che le difficoltà di App, l’applicativo ministeriale, emergono anche davanti ai nuovi obblighi in vigore da pochi giorni, visto che dal i° aprile il canale digitale è la via teoricamente esclusiva per l’iscrizione delle notizie di reato e per il deposito degli atti in una serie di giudizi speciali (abbreviato, direttissimo, immediato). Tanto da spingere il Consiglio superiore della magistratura a chiedere al ministero la conservazione del doppio binario analogico-digitale (scelta che peraltro numerosi capi degli uffici giudiziari hanno già fatto, sia a inizio anno davanti a obblighi ancora più significativi sia in questi giorni). Nel dettaglio il Csm segnala che, quanto alle iscrizioni delle notizie di reato, il procedimento “risulta farraginoso e gravemente carente sotto il profilo dell’usabilità; il che, se non impedisce l’iscrizione dei procedimenti, la rallenta sensibilmente rispetto ai tempi richiesti nel regime analogico, in alcuni casi raddoppiandoli o triplicandoli”. L’interfaccia proposta al magistrato che si appresta all’iscrizione non riporta gli elementi essenziali per valutarne rapidamente la correttezza, e neppure permette di consultare rapidamente l’atto che ne è il presupposto: “Per ogni procedimento è invece necessario seguire un percorso complicato e non intuitivo per valutare la correttezza degli elementi con cui si procede all’iscrizione”. Per i giudizi speciali il Csm torna a lanciare l’allarme sull’indisponibilità per magistrati e avvocati di strumenti telematici adeguati che permettano, per esempio nel giudizio direttissimo, il deposito telematico di atti nel corso del processo e la sottoscrizione del verbale da parte di tutti gli intervenuti. Va ancora rilevata la criticità sulla redazione del verbale dell’udienza di convalida del fermo-arresto nell’ambito del rito direttissimo: in particolare l’impossibilità di sottoscrizione del verbale di udienza da parte dei soggetti che non sono dotati di firma remota (imputato ed eventuale interprete) o che, pur essendone dotati, non possono sottoscrivere il verbale per la mancata disponibilità in udienza del flusso informatico (pm e avvocati). Graziano Mesina, morto a 83 anni poche ore dopo essere stato scarcerato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2025 La sua storia non è solo quella di un criminale che ha sfidato le istituzioni, ma anche quella di un personaggio che incarna le contraddizioni di un’intera regione. Graziano Mesina, l’ex primula rossa del banditismo sardo, è morto poche ore dopo essere stato scarcerato: il tribunale di sorveglianza di Milano aveva accolto la settima istanza dei suoi avvocati, che chiedevano il differimento della pena per motivi di salute. L’ex bandito, è stato poi ricoverato nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano, dove è morto. Dopo più di 40 anni di detenzione - tra fughe rocambolesche e bravi latitanze - la situazione clinica era divenuta insostenibile, spingendo la difesa a presentare nuovamente un’istanza di differimento della pena. Nonostante in passato le richieste siano state respinte sei volte, questa volta il tribunale ha dovuto prendere atto che il carcere non è compatibile con lo stato di salute del detenuto. Il personale medico del San Paolo ha dichiarato di non poter più intervenire, evidenziando la gravità della situazione. Le legali hanno anche ricordato i tentativi di trasferimento in Sardegna, sempre rifiutati, che avrebbero potuto alleviare i patimenti grazie alla vicinanza dei familiari e a un ambiente più adatto alle necessità cliniche del loro assistito. Graziano Mesina nasce il 4 aprile 1942 a Orgosolo, in un piccolo centro montano della provincia di Nuoro. Fin da giovane, immerso in un contesto di povertà, isolamento e faide, si confronta con le dinamiche del banditismo barbaricino, dove - come ogni organizzazione di stampo mafioso si rispetti - giocavano un ruolo fondamentale la retorica dell’onore e della lealtà familiare. Il suo primo arresto arriva a soli 14 anni per possesso illegale di armi e, negli anni Sessanta, viene condannato per omicidio, un episodio che ancora oggi alimenta narrazioni contrastanti. La sua figura si arricchisce di una serie di evasioni rocambolesche: fughe da carceri di massima sicurezza, inseguimenti nelle montagne del Supramonte e settimane di latitanza tra campagne e rifugi segreti. In questo scenario, il soprannome di “bandito gentiluomo” nasce dalla sua capacità di alternare gesti di violenza a momenti di apparente generosità, sebbene la realtà fosse ben diversa, segnata da crimini e tensioni. Durante gli anni 60 e 70, Mesina diventa un protagonista indiscusso della cronaca nera italiana. Le sue imprese fanno scuola, rendendolo l’inevitabile oggetto di ammirazione da una parte della popolazione che cede al fascino. Nel 1992, mentre era in libertà condizionale, si attribuì il ruolo di mediatore tra i sequestratori e la famiglia del piccolo Farouk Kassam, rivelando in anteprima al Tg1 l’avvenuta liberazione. Tornò dentro nel 1993 dopo il ritrovamento di armi da guerra nel cascinale di San Marzanotto d’Asti. Divenne subito “leggendario”, un criminale astuto, capace di muoversi tra legalità e clandestinità, ma anche simbolo di una storia che attraversa le trasformazioni della società sarda. Nel 2004, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, su impulso dell’allora dal Ministro della giustizia Roberto Castelli, concesse la grazia a Mesina. Per un breve periodo sembrò voler cambiare: aprì un’agenzia turistica a Orgosolo e partecipò a incontri pubblici. Ma il passato non gli diede tregua: nel 2013 fu arrestato nuovamente con l’accusa di traffico di droga e favoreggiamento di sequestri. Ciò gli costò una condanna a 30 anni, e l’inevitabile revoca della grazia. E qui il suo ultimo colpo di coda: la fuga per evitare la carcerazione dopo la sentenza definitiva pronunciata in Cassazione nel luglio 2020. Dopo una latitanza di circa un anno e mezzo, venne catturato a Desulo. I tempi in cui era la giovane primula rossa del banditismo sardo e riusciva a nascondersi tra rocce e arbusti erano ormai lontani. A dicembre 2021 si riaprono i cancelli del carcere, chiudendo un ulteriore capitolo della sua vita. La storia di Graziano Mesina non è solo quella di un criminale che ha sfidato le istituzioni, ma anche quella di un personaggio che incarna le contraddizioni di un’intera regione. Per alcuni è l’ultimo esponente di un mondo antico; per il resto della società civile, è solo il simbolo di un passato da cui prendere le distanze. Oggi, con la sua scarcerazione, la cronaca si ferma a un nuovo e ultimo capitolo, segnato dalla sofferenza e dalla consapevolezza che il carcere non può più offrire le cure necessarie a chi, come Mesina, è ormai in fin di vita. La Garante Irene Testa: “Contro Graziano Mesina una vendetta da parte dello Stato” di Massimo Sechi La Nuova Sardegna, 13 aprile 2025 “Non c’è stata pietà nei confronti di Graziano Mesina. Quella dello Stato sembra una vendetta nei suoi confronti”. La Garante delle persone detenute in Sardegna Irene Testa non ha alcun dubbio nel commentare la morte del bandito sardo. “Lui veniva da una situazione complessa, ha fatto certamente degli errori nella sua vita ma uno Stato democratico e civile non avrebbe dovuto applicare quegli errori alla sua persona. Se una persona sta così male da aprirgli le porte del carcere il giorno prima della sua morte vuol dire che c’erano le condizioni per poterlo scarcerare prima. Nell’isola ci sarebbero state le condizioni per poterlo vigilare, se il pericolo poteva essere il possibile rapporto con la criminalità locale. Negli istituti di pena dell’isola sono ospitate persone detenute in regime di alta sicurezza, per le quali sono previste regole ben precise, tra l’altro in quelle sezioni ci sono pochissimi sardi, quini i possibili contatti sarebbero stati comunque molto limitati”. Irene Testa nel suo ruolo di garante non aveva una competenza territoriale per occuparsi di questo caso. “Le legali di Mesina, però, mi hanno fatto diverse segnalazioni sulle sue condizioni di salute che ancor prima della scoperta del tumore erano molto precarie a causa delle altre patologie di cui soffriva da tempo. Io ho fatto presente tutte queste cose al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ma purtroppo la situazione non è cambiata. Le sue legali hanno fatto un gran lavoro per cercare di far capire quanto gravi fossero le sue condizioni di salute e quanto fosse necessario che non rimanesse in cella”. Irene Testa parla anche del senso di umanità che è indicato anche dalla Costituzione, oltre ovviamente all’applicazione del diritto. “Dicevo ieri che il principio della territorialità della pena non è stato applicato. Ma è mancato anche il rispetto della dignità. Come poteva stare in carcere una persona con un deperimento fisico come quello che aveva Mesina già da tempo? Faceva fatica anche a deambulare e a comunicare, come si pensava che potesse delinquere? Eppure, è stato tenuto lontano dalla sua terra e dai suoi affetti. Per questi motivi - conclude la garante - io vedo che nei suoi confronti c’è stato un accanimento che uno stato democratico e di diritto non si può permettere”. Torino. Invalida al 100% ma chiusa in carcere: “Ha bisogno di aiuto” di Elisa Sola La Stampa, 13 aprile 2025 Nel capoluogo piemontese c’è una detenuta rinchiusa da quattro mesi con una diagnosi di schizofrenia paranoide. È assistita solo dalle compagne di cella: “Deve uscire, qui dentro rischia”. Lo hanno ribadito più volte la Corte di Cassazione e la Corte europea per i diritti dell’uomo. Le persone gravemente malate non possono stare in carcere. L’esecuzione della pena “non può trasformarsi in una condizione inumana e degradante”. E nessuno può annientare la soglia minima della “dignità di una persona”. Eppure, nel carcere di Torino, da quattro mesi vive, o cerca di sopravvivere, una donna invalida al 100 percento. Ha 50 anni. È affetta da una forma grave e non curabile di schizofrenia paranoide. Ormai da dieci anni l’Inps ha dichiarato che è inferma. Totalmente. Il tribunale di sorveglianza di Torino, per due volte, ha ordinato che la detenuta venga liberata e collocata in una struttura dove possa essere curata. Anche perché “non è pericolosa socialmente”, hanno scritto i giudici. È una donna inoffensiva e malata. Con un passato difficile trascorso in parte sulla strada. Una donna che si sta lentamente consumando in un carcere sovraffollato e vecchio dopo avere commesso un furto. “Ormai non mi riconosce più”, dice affranta l’avvocata Elena Novarino, che la difende con Luca Calabrò, uscendo dall’istituto penitenziario. L’hanno appena vista. Oltre cento giorni in una cella comune hanno reso la detenuta più magra di un numero imprecisato di chili. È quasi muta. All’ultimo colloquio è arrivata sorretta da una compagna di cella. “Aiutatemi, non sto bene”, ha mormorato. Poi la testa non l’ha più accompagnata. La sua “concellina”, così alle Vallette le detenute chiamano le compagne di cella, ha parlato per lei: “Fatela uscire di qui. Prima o poi le succede qualcosa. Io e un’altra detenuta ci prendiamo cura di lei perché ci fa pena. Dobbiamo guardarla a vista. Se no le rubano la colazione la mattina. E chissà cosa altro le fanno”. Vivere in un carcere non è facile. Ci sono regole e dinamiche interne complicate. La legge della sopravvivenza non lascia spazio a chi non è in grado di prendersi cura di se stesso. Come questa donna. Entra nel carcere di Torino a novembre. Un anno e nove mesi, la pena da scontare. I legali scrivono immediatamente al tribunale di sorveglianza per chiedere i domiciliari: “È un soggetto invalido con totale e permanente inabilità al 100 percento. È una situazione di assoluta incompatibilità con il regime carcerario”, precisano gli avvocati Calabrò e Novarino. La documentazione medica non lascia dubbi al giudice Roberto Ruscello, che ne ordina la scarcerazione. Ma il problema, come molte volte accade, non è la teoria. Ma cosa succede in pratica. Viene liberata nel tardo pomeriggio del 28 dicembre. Esce dai grandi cancelli bianchi del Lorusso e Cutugno quando è buio. Sola, sui marciapiedi di una periferia estrema, vaga per ore. La fermano il giorno dopo i carabinieri, in corso Molise. Sta citofonando a caso a tutti i palazzi che trova. È lei “la persona molesta” oggetto della segnalazione arrivata al 112. Non è in grado di capire. Ma tecnicamente ha commesso un reato. È “evasa” dai domiciliari. Dopo meno di 48 ore dalla sua liberazione, la donna torna in carcere. Una nuova istanza arriva al tribunale di sorveglianza. I legali rimarcano: “È un soggetto affetto da schizofrenia paranoide e dalla dipendenza da sostanze alcoliche. Le sue condizioni hanno reso necessario il ricovero, il 7 dicembre, presso l’ospedale Maria Vittoria, in occasione di manifestazioni allucinatorie da astinenza alcolica e un quadro di delirio”. Il tribunale ordina di nuovo che venga scarcerata. E che non venga lasciata da sola ai domiciliari: “Si sollecita la direzione dell’istituto in collaborazione con l’Uepe alla ricerca di un luogo di cura specializzato nel trattamento di pazienti a doppia diagnosi”. Lo stesso tribunale aveva già scritto: “La prosecuzione del carcere potrebbe rivelarsi pregiudizievole”. Sono parole che restano sulla carta. Lei è ancora in una cella. Bologna. Giovani alla Dozza, i Garanti: “Buttati in un bidone, e non serve al sovraffollamento” bolognatoday.it, 13 aprile 2025 Senza mezzi termini i Garanti dei detenuti regionale e di Bologna: “Inaccettabile che siano assegnati anche ragazzi in custodia cautelare, arrestati forse a seguito del decreto Caivano”. “Rasenta il ridicolo. Un obbrobrio, l’Emilia-Romagna non si merita un affronto di questo tipo”. Così Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti, sull’apertura della nuova sezione per giovani al carcere della Dozza, progetto che ha scatenato più di una polemica. “Trovo inaccettabile in particolare che siano assegnati alla Dozza anche ragazzi in custodia cautelare - afferma il garante, intervenuto oggi a un’iniziativa sul carcere organizzata dal Pd - ci sono anche dei neo-maggiorenni, arrestati forse a seguito del decreto Caivano, in città molto lontane da Bologna, impacchettati e spediti qui. È inaccettabile”. “Non si riescono neanche a fare attività trattamentali - aggiunge - se poi hanno nominato un legale in un’altra città è ancora più complicato. Inoltre, rischiano di sfuggire alla rete dei servizi sociali della loro città”. E poi ci sono i costi: “396.000 euro solo per le indennità in più agli agenti di polizia penitenziaria. Ma la stessa cifra è un buon finanziamento alle associazioni per aprire una comunità. Almeno per le persone in custodia cautelare. Sarebbe un argomento di pura politica”. Per Cavalieri non serve neanche a ridurre il sovraffollamento al minorile, visto che si tratta di 18 ragazzi provenienti da otto istituti diversi: “Abbiamo tolto una piuma. In verità c’è una sorta di sperimentazione. Il vero pericolo è che quella dei giovani adulti diventi una sezione protetta dentro il sistema adulti, solo perché così si fa prima a risolvere il sovraffollamento al minorile. In fondo parliamo di 200 giovani buttati in un bidone con altre 62.000 persone”, sferza Cavalieri. “La situazione è più gestibile” rispetto al Pratello. E lo testimonia anche la storia di un ragazzo, raccontata dallo stesso Garante. Al minorile era “al limite della bullizzazione”, mentre col suo trasferimento alla Dozza “paradossalmente la sua condizione è migliorata. Ma con questo non voglio dire che quella soluzione sia giusta - ammette il Garante dei detenuti di Bologna, Antonio Ianniello - resta un progetto del tutto inadeguato. È stato costruito un tunnel, per questi ragazzi, lo abbiamo detto in tutti i modi. Ma è stato fatto lo stesso. Ora dovremo cercare almeno di arredare tutti insieme questo tunnel”. “Si è parlato di soluzione temporanea, ma è fondamentale avere certezza dei tempi, perché alcuni ragazzi potrebbero trovarsi in questa situazione oltre il 30 settembre” continua Ianniello. Il problema del sovraffollamento riguarda peraltro anche il carcere per adulti. Alla Dozza c’era una capienza di 507 detenuti prima della creazione della sezione per i giovani, che conta 50 posti. Quindi la capienza attuale è scesa a 457 persone, sottolinea il Garante, mentre oggi la casa circondariale ha toccato quota 780 detenuti. “Sono state settimane complicate - rimarca Ianniello - ora il clima è più tranquillo ma ci aspettiamo di nuovo purtroppo a breve una situazione complessa”. Il Pratello, per l’attuale condizione di sovraffollamento e per una “tensione palpabile”, sarebbe al limite della “sopraffazione”, dice Ianniello. “Desta più preoccupazione in questo momento, e con questi numeri, la situazione all’istituto minorile in via de’ Marchi - afferma - per tre o quattro settimane il Pratello ha registrato un sovraffollamento mai visto prima, con 59 ragazzi”, con un clima che il garante definisce appunto “anche di sopraffazione”. In questi giorni, continua il Garante, “il sovraffollamento è sceso, ora siamo a 47 ragazzi. Ma c’è comunque un clima di tensione palpabile. Li abbiamo trascurati per un po’, per seguire la sezione alla Dozza. Ma li ho incontrati ieri e ho detto loro che tornerò presto e spesso”. La sezione per giovani adulti aperta alla casa circondariale tre settimane fa conta invece una ventina di ragazzi, con la previsione di salire a 30 entro fine aprile, su un totale di 50 posti. Catanzaro. Detenuto messinese morto in cella, la madre: “Voglio giustizia” agi.it, 13 aprile 2025 Manifestazione davanti al Palazzo di giustizia di Messina di familiari e amici di Ivan Lauria, il detenuto messinese morto a 28 anni nel carcere di Catanzaro il 15 novembre 2024. Una fine inaccettabile per Michela Lauria, la madre che adesso chiede giustizia: “Chiedo verità e giustizia per mio figlio. Finora si sa poco, voglio capire cosa è successo. Non solo voglio sapere il motivo del decesso, ma anche cosa è accaduto prima, dal 2 al 15 novembre, voglio risposte”. “Siamo qui per Ivan e per tutti i detenuti che perdono la vita o perdono i loro diritti in carcere. Il carcere deve essere un luogo di rieducazione non un posto dove una persona invalida al 75% come Ivan perde la vita a 28 anni”, aggiunge l’avvocato Pietro Ruggeri che assiste la madre del giovane. Per questa morte c’è un’inchiesta della procura di Catanzaro. Si attende l’autopsia. A dare solidarietà alla madre anche la garante comunale per i detenuti Lucia Risicato, consiglieri comunali e cittadini che hanno esposto cartelli e striscioni. Ivan Lauria, 28 anni, messinese, era stato trovato morto a novembre 2024 nel carcere di Catanzaro dove era detenuto. La madre aveva saputo della morte con una telefonata arrivata la sera, a casa, con la quale le dicevano che il figlio era deceduto. Non sapeva che era stato trasferito a Catanzaro. Una vita tormentata quella del ragazzo, i problemi erano iniziati fin da quando era minorenne, poi il tunnel della droga che lo aveva fatto sprofondare nell’abisso. Gran parte della sua giovane vita l’ha trascorsa in carcere. La madre, che era sua amministratrice di sostegno per via delle patologie psichiatriche del figlio, ha sempre detto che non era stata avvisata dell’ultimo trasferimento verso la struttura calabrese dove poi è stato trovato morto. Si attendono ora i risultati dell’autopsia per chiarire le cause del decesso. Sanremo. In arrivo il Garante dei detenuti: il Comune al lavoro per la nomina di Elia Folco sanremonews.it, 13 aprile 2025 La figura si occuperà di garantire i diritti di tutte le persone private della libertà, quindi sia coloro detenuti in carcere sia per coloro che si trovano agli arresti domiciliari e in qualsiasi forza di reclusione forzata. Il carcere di Sanremo si doterà presto di un garante dei detenuti: dalla Regione è infatti arrivata richiesta al Comune di nominare una figura che si occupi di svolgere questa carica, in quanto il garante regionale competente, figura istituita a inizio anni 2000, affrontava eccessive difficoltà a coprire l’intero territorio ligure. L’iter, spiega il vicesindaco Fulvio Fellegara durante la riunione della commissione consiliare, è iniziato a dicembre dello scorso anno, per designare una figura che si occupasse della casa di reclusione di Sanremo, che è la terza più grande della Liguria: tra le idee era stato pensato di nominare un garante provinciale che si occupasse sia di Sanremo che di Imperia, ma poi la decisione è stata di istituire due deleghe diverse, che comunque nulla esclude possano essere affidate alla stessa persona. Il percorso di questi mesi è servito infatti per dare luce a un regolamento condiviso tra i due Comuni, che però riesca a rispondere a quelle che sono le esigenze di entrambi i contesti, così da poter conferire la maggiore libertà possibile nella nomina, sia in caso la scelta voglia essere condivisa sia in caso contrario. La realizzazione del testo infatti va fondamentalmente a ricalcare quelli che sono regolamenti già vigenti, ma se ne è resa necessaria la realizzazione in quanto ora sarà una carica scelta direttamente dal Comune. La figura, che si occuperà di garantire i diritti di tutte le persone private della libertà, quindi sia coloro detenuti in carcere sia per coloro che si trovano agli arresti domiciliari e in qualsiasi forza di reclusione forzata, sarà nominata dal sindaco. Con questa nomina si spera di poter affrontare quelli che sono i problemi della struttura, a cominciare dalla questione del sovraffollamento. Tra i suoi compiti non rientra la tutela del personale carcerario, anche se si troverà spesso a doversi rapportare con loro. Terni. Giustizia riparativa: Uepe e Cesvol incontrano le associazioni terninrete.it, 13 aprile 2025 L’accordo siglato di recente tra l’Ufficio esecuzione penale esterna e Cesvol Umbria consente di valorizzare il volontariato nell’ambito della giustizia riparativa. L’intesa favorisce la partecipazione attiva delle associazioni del territorio, che potranno realizzare attività di inclusione sociale all’interno delle quali ospitare le persone in esecuzione di procedimenti dell’autorità giudiziaria ammesse ai lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova. Lunedì 14 aprile alle ore 15, nella sala polivalente del Cesvol, a Terni, l’evento “Iniziativa di giustizia di comunità: percorsi di inclusione e responsabilità”, un’importante occasione per approfondire il ruolo dell’associazionismo nell’ambito dell’esecuzione penale e della giustizia riparativa. Durante l’incontro sarà possibile approfondire il protocollo d’intesa tra l’Uepe di Terni e il Cesvol regionale sede di Terni, conoscere esperienze di collaborazione tra enti, associazioni e giustizia, confrontarsi e condividere proposte progettuali utili per il territorio. L’approfondimento sul lavoro di pubblica utilità sarà a cura di Silvia Marchetti, direttore Uepe di Terni, delle esperienze di collaborazione con le associazioni parlerà Francesca Alessi, responsabile area probation giudiziaria, mentre Emanuela Migozzi, direttore amministrativo del tribunale di Terni, illustrerà il nuovo portale e le procedure di accreditamento. Poi spazio di confronto tra associazioni, domande e proposte progettuali. Firenze. Nel carcere di Sollicciano i detenuti sognano con il teatro di Stefano Miliani giornaledellospettacolo.globalist.it, 13 aprile 2025 Una riuscita azione teatrale piena di vita, ironia e drammi corona il fiorentino “Materia prima festival” nelle difficili condizioni delle prigioni. Si entra nel carcere fiorentino di Sollicciano, alla periferia tra il capoluogo e Scandicci, e nel cortile dove attendiamo che la guardia ci porti nel luogo dello spettacolo sul muro interno in cemento armato si staglia la scritta in vernice bianca a caratteri maiuscoli “Those who love me”, “coloro che mi amano”. Colpisce, una frase simile, in un luogo di detenzione, tra i muri grigi, spesso con colature nere, sotto le torrette, tra cancelli e inferriate in un complesso in condizioni difficili. Siamo un centinaio, spettatori, inclusi i familiari di alcuni detenuti, per assistere, dopo aver depositato come da regolamento borse, documenti e cellulari, alla seconda replica de “Il giardino degli incontri”: l’azione teatrale organizzata nella casa circondariale con la compagnia teatrale del carcere corona il dodicesimo “Materia prima festival”, rassegna di teatro contemporaneo curata da Murmuris al Teatro Cantiere Florida e in altre sedi di Firenze. La trepidazione dei familiari in attesa. Frutto di una strategia molto intelligente di Murmuris verso il pubblico, molti spettatori sono ragazze e ragazzi, come accade in misura ancora più marcata in spettacoli quali l’ottimo debutto del duo Mattioli/Donzelli “Macello” su un ragazzo al lavoro in un mattatoio prigioniero del padrone e di una sudditanza sociale. Nell’attesa prolungata i familiari dei detenuti, comprensibilmente, trepidano, hanno un carico emotivo maggiore. Ci introduce all’appuntamento una guardia dal marcato accento napoletano, paterno, un po’ stressato, un attore bene nella parte: ci considera tutti familiari di qualche detenuto. Ci avverte che lì circolano voci su strane “presenze”: scopriremo presto quali. Detenuti in bianco nell’omaggio a Michelucci. Le presenze si materializzano. Più di una decina di detenuti in abito bianco transita come in processione e li avremo davanti, vicini o intorno in questo speciale “giardino degli incontri”. Il titolo è il nome dello spazio tra colonne a forma di albero, vetrate e un giardino progettati dall’architetto Giovanni Michelucci che, qui, ideò il suo ultimo lavoro con l’intento di umanizzare il luogo della pena. Il progettista e intellettuale morì il 31 dicembre 1990, senza vedere il progetto completato. Attraverso sue registrazioni poetiche tratte da “Dove si incontrano gli angeli” lo spettacolo ci ricorda la sua umanità profonda, lo spirito civile che lo animava sempre, anche nel concepire il carcere luoghi come un luogo dove salvaguardare sempre l’umanità. Altro che la spietatezza di quel sottosegretario che ha dichiarato di provar gioia quando ai detenuti mafiosi viene sottratta perfino l’aria. “Abitato da un’infinità di sogni”. L’appuntato enumera vari divieti: non si può infrattarsi dietro le piante, non si può volare né (articolo 76 del regolamento) si può sognare. Un detenuto-attore africano ha appena confessato di essere “abitato da un’infinità di sogni” e di aver sognato di trovarsi solo nel deserto e prossimo a morire. I drammi filtrano. Una violinista e una flautista accompagnano ogni tappa con brani evocativi, da loro elaborati, finché il percorso non viene coronato da una recitazione in ottava rima e un ballo popolare nell’arena in cui i detenuti-attori, spettatrici e spettatori condividono un momento, per la frazione di pochi minuti, liberatorio. Le condizioni drammatiche delle carceri. I detenuti condivideranno un buffet con i familiari, noi spettatori usciamo presso la periferia di Scandicci, molti scambiando saluti con chi rimane. Come la gran parte delle carceri italiane, Sollicciano ha condizioni problematiche, la struttura è invecchiata, ha troppi detenuti, a gennaio e a febbraio2025 ha contato altri due suicidi. Nel quadro italiano “il 2024, annus horribilis, si sono raggiunti 89 suicidi fra i detenuti, 7 fra la Polizia penitenziaria, 245 decessi totali fra i reclusi”- denunciava il 3 gennaio scorso Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria - A oggi, a nulla sembrano servite le parole del Papa, pronunciate in occasione dell’apertura della Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, ma neppure quelle del Presidente della Repubblica, particolarmente toccanti, contenute nel suo messaggio di fine anno” quando “mancano 18mila unità agli organici del Corpo di polizia penitenziaria”. “Al 30 dicembre 2020 in Italia si contavano 52.273 detenuti, al 17 marzo 2025 si è saliti a 62.137 con l’indice di sovraffollamento che ha raggiunto il 132,8%)”, ha scritto Luca Bonzanni in un articolo ben documentato sul quotidiano Avvenire il 9 aprile scorso. Un’azione teatrale riuscita. Lo spettacolo non può certo risolvere una situazione drammatica, a Sollicciano e altrove; al contempo l’azione teatrale è piena di vita, necessaria. Complimenti quindi anche alla direzione del carcere fiorentino per accogliere, come è accaduto più volte, iniziative culturali come questo spettacolo. Firmano drammaturgia e regia Elisa Taddei, la coreografia Luana Gramegna, la scenografia Francesco Givone. Il “giardino degli incontri” è prodotto da Krill Teatro che opera nel penitenziario dal 2008 con il sostegno della Regione Toscana e della Fondazione Carlo Marchi. Vale nominare tutti gli interpreti: Alexander Ion, Michele Cimmino, Ellouizi Charaf, George Cojocaru, Angelo Galiano, Tarek Ben Massoud, Gianfranco Gallo, Marco Franci, Sussanah Iheme, Daria Menichetti, Stefano Monaco, Remzi Moustafà, Monica Santoro, Mamadou Mustafà, George Touader. “Materia Prima Festival” ha avuto il sostegno e il contributo del Mic - Ministero della cultura, della Regione Toscana, del Comune di Firenze, della Fondazione CR Firenze, di Unicoop Firenze. Unico appunto al festival: il suo sito web è esteticamente accattivante quanto poco funzionale per ricavare informazioni. Stragi silenziose, l’esordio di Lattanzi: “Canto il dramma dei giovani detenuti” di Martina Di Marco Il Resto del Carlino, 13 aprile 2025 Il primo brano del giovane musicista nasce dalla storia di un ragazzo che si è tolto la vita in carcere “So che il mio è un genere che non va al passo con la moda, ma non mi è mai interessato omologarmi”. “Stragi silenziose” è il singolo di debutto del giovane maceratese Edoardo Lattanzi, che il 4 aprile scorso ha pubblicato il suo primo brano prodotto in studio. Classe 2005, il maceratese Lattanzi racconta del disagio vissuto dai giovani detenuti nelle carceri italiane, talmente profondo e presente da indurli a togliersi la vita tra le mura delle loro celle. “La canzone nasce nel marzo del 2024, in un periodo non molto felice a livello fisico e psicologico della mia vita - spiega Lattanzi -. Mi capitò di leggere un articolo su un ragazzo che si uccise nel giorno del suo ventesimo compleanno, in carcere a Teramo. Partendo dalla cronaca ho deciso di scriverci sopra, proponendo nella canzone il punto di vista del compagno di cella che lo trova con una corda legata al collo”. “Non si tratta - prosegue - di vicende isolate, ma di vere e proprie stragi che si consumano in media ogni tre o quattro giorni, e colpiscono perlopiù i giovani a causa delle situazioni disastrose in cui vivono in carcere”. Un testo impegnato che, come sottolineato dal 19enne, vuole riportare in auge quell’idea di musica sociale nata con i grandi cantautori degli anni ‘60, ‘70 e ‘80. “Sono cresciuto e cresco con De André, Guccini, Rino Gaetano, Pierangelo Bertoli e Battiato, che mi influenzano soprattutto nelle tematiche - continua Lattanzi -. Il mio obiettivo è riportare al centro la musica sociale per tutti, come accadeva negli anni dei miei autori di riferimento. Oggi si sta perdendo un po’ questa visione della musica, intesa come strumento sociale e artistico capace di trasmettere messaggi impegnati. So che non è un genere che va al passo con la moda, ma non mi è mai interessato omologarmi”. La negazione di un’omologazione quotidiana che passa inevitabilmente anche attraverso i social media. “Oggi la musica, così come ogni altro ambito artistico, passa dai social e si basa su una forte omologazione di testi e ritmi. Sarebbe bello, invece, tornare alla musica d’autore e a scrivere in prima persona i testi che si cantano. Nel mio piccolo posso farlo attraverso le mie canzoni e cercando intorno a me persone che la pensino allo stesso modo e che lavorino in questa stessa direzione. Non è una parte obbligatoria, non tutte le canzoni devono essere tristi o trattare un argomento sociale; ma negli ultimi tempi si sta andando troppo nella direzione opposta, perdendo la vera entità del testo e del significato della canzone, della musica di tutti e per tutti”. “Sono contento dei feedback che sto ricevendo - conclude poi Lattanzi, riguardo al primo riscontro degli ascoltatori -, mi hanno scritto persone che non conoscevo e che hanno mostrato interesse per il testo ancora prima che per la parte musicale, proprio come speravo. Questo è successo sia con miei coetanei che con adulti, più nostalgici di quella musica cantautorale che oggi manca. I miei lavori futuri continueranno su questa strada”. Gli adolescenti dettano il ritmo. Gli adulti inseguono e i due mondi si separano sempre di più di Roselina Salemi Specchio - La Stampa, 13 aprile 2025 Tante famiglie non hanno dialogo con i ragazzi: capirli è molto difficile. La rabbia, il bullismo, la rete: a volte non sanno neanche di cosa parlano. “Adolescence”, serie Netflix dove un tredicenne di buona famiglia uccide una compagna di scuola, ha scosso come uno tsunami la banalità delle serie televisive. Tutti hanno detto la loro: sociologi, psicologi, pedagogisti, psichiatri, insegnanti, preti. Anche perché il tema dell’adolescenza è ultimamente molto frequentato: 85 saggi con impostazioni e tagli diversi dall’inizio dell’anno. E le quattro puntate di Netflix che sono contemporaneamente un poliziesco, un thriller psicologico, un esame sociologico della rabbia maschile, del cyberbullismo e di un sistema scolastico in crisi, hanno gettato molte famiglie nello sconforto. Dopo aver visto la serie, i genitori di un ragazzino che un tempo sarebbe stato definito superdotato sono disperati: nessuno lo invita alle feste, è timido, è sovrappeso, è un genio della meccanica nel corpo di un bambino. Lo prendono in giro con particolare ferocia, e in casa si chiedono se nel silenzio della sua cameretta non stia progettando un qualche aggeggio letale contro chi lo maltratta. Lo psichiatra Leonardo Mendolicchio (il suo ultimo saggio “L’amore è un sintomo” è uscito per Solferino) è preoccupato di quanto poco il mondo adulto sappia (o voglia) comprendere l’anima complessa delle nuove generazioni. Il linguaggio degli adolescenti è profondamente cambiato, deformato dall’ambiente digitale in cui sono immersi dalla nascita. La loro grammatica affettiva si manifesta in un codice visivo accelerato: stories, meme, silenzi, corpi esposti, emoji. Matteo Lancini, presidente della fondazione Minotauro a Milano, in “Chiamami adulto” (Raffaello Cortina) dice semplicemente: l’unica cosa che salva genitori e figli è la capacità di incontrarsi. La Rete, i telefonini, i videogiochi rappresentano un gigantesco alibi che ci impedisce di vedere quanto alla base di un rapporto interrotto siamo soprattutto noi “grandi”. Parlare di colpe dei genitori è facile come sparare sulla Croce Rossa. Si commettono errori, anche soltanto per far coincidere i figli con l’immagine “sognata” che abbiamo di loro. Ma gli adolescenti, ormai, vivono meno in famiglia e sempre più fuori. A dettare le regole è il gruppo dei pari, un fenomeno la cui forza stiamo sperimentando da poco. Nelle serie americane i ragazzi sono più preoccupati di essere carini, popolari, di rispondere a certi canoni (la cheerleader e il quarterback) che di non deludere mamma e papà. Questo modello sta diventando globale. Sin da piccoli, imparano che la vita è una gara: arrivare primi, prendere buoni voti, essere sportivi. La competizione comincia presto, il fallimento non è contemplato, e nemmeno il rifiuto. C’è meno tempo per essere bambini. L’adolescenza precoce e sessualizzata divora l’infanzia, la comprime, le ruba il tempo. Famoso l’aneddoto della bambina di nove anni che ha detto a Riccardo Scamarcio: “Scopami”. Sapeva di che cosa stava parlando? Lo spaesamento dei genitori è reale: il mondo va troppo veloce, le regole di ieri non valgono più. Stesso spaesamento nella scuola, parafulmine di mille disagi: bullismo, disturbi alimentari, depressioni, hikikomori. Il gruppo dei pari può essere crudele. Conosco molte insegnanti che con buona volontà provano a offrire valori, e si sentono dire: è tutta “roba antica”. Oggi più che studiare bisogna essere visibili. E i ragazzi si trovano ad avere come modello Tony Effe e simili. La sensazione è che siano gli adolescenti a dettare la linea agli adulti, costretti a inseguire i mutamenti spesso senza capirli. Così i due mondi si separano, e siccome la vita non è semplice, ai meccanismi di esclusione (purtroppo, quando qualcuno vince qualcun altro perde) si risponde in modo sempre più aggressivo. E il tenero Jamie diventa, nel caso estremo di Adolescence, un assassino. Nessuno ha la soluzione che permetta ai due mondi di parlarsi. Perciò gli adolescenti comunicano tra loro, si alleano, si piacciono, si detestano. Ci vorrebbe, come nelle versioni di greco, un traduttore. Essere forti con i deboli: questa è l’era del “cattivismo” di Diego Motta Avvenire, 13 aprile 2025 Essere forti coni deboli è diventata una delle prerogative di questo tempo. Mostrare i muscoli, fare esibizione di potenza, umiliare i vinti della storia rientra ormai perfettamente negli obblighi di chi deve prendere decisioni sulla vita altrui. Il povero, lo straniero, il detenuto, il minore, il disabile: decidete voi quale soggetto immaginare in una situazione di inferiorità e per quale ragione egli vi si trovi. Ciò che conta non pare essere più il suo recupero, il suo reinserimento o un eventuale percorso di rinascita: la politica di oggi vuole farne invece carne da macello per parlare agli elettori, da aizzare o blandire a seconda dell’argomento. Può così trattarsi di mettersi in posa davanti a una prigione di massima sicurezza in Salvador, avendo sullo sfondo corpi tatuati di rei confessi, come ha fatto una ministra dell’amministrazione Trump, in chiave “tolleranza zero’: Può succedere di fare tappa in una periferia del mondo oppure in un insediamento abusivo di persone irregolari, magari avendo al seguito un nutrito gruppo di telecamere. Può essere, al contrario, la strategia del silenzio sugli invisibili: pensate a quanto accade nei campi dello sfruttamento in Italia oppure negli istituti penitenziari, dove il numero dei suicidi è impressionante eppure nessuno deve fiatare. Non vanno fatte domande scomode perché servirebbero risposte all’altezza. E nessuno vuole impegnarsi su temi impopolari. Dunque, il tema non esiste. C’era una volta il “buonismo”, l’atteggiamento di chi soprattutto da posti di comando (ma non solo) mostrava buoni sentimenti verso tutti (a volte autentici, a volte meno) fino ad essere tacciato di ipocrisia, pur di apparire politicamente corretto. Alla presunta bontà si appiccicava l’adesivo della solidarietà pelosa e di convenienza e il gioco del travisamento era fatto. In realtà il “buonismo” era solo la premessa, necessaria per la sua nemesi. Oggi infatti va di moda il “cattivismo”, l’orgoglio non trattenuto di chi si sente investito di una missione: non perdonare più nulla a nessuno. Il “cattivismo” si nutre di sensazioni ancestrali: la punizione del più vulnerabile, la dimostrazione di potere senza limiti, la comunicazione ad effetto studiata sul posto fino allo spettacolo del dolore, se serve. Vale a 360 gradi, questo discorso: pensate al rito di consegna degli ostaggi israeliani da parte di Hamas, con l’allestimento di palchi e la “chiamata” alle armi della folla o alla fila di migranti in catene da rimpatriare dagli Usa nei Paesi confinanti. Tutto diventa pretesto, tutto segue la logica spregiudicata del reality show permanente governato dai social. Il problema vero è che dietro alla propaganda “cattiva” si cela il deserto delle idee, nella migliore delle ipotesi, oppure la disumanità fine a se stessa. L’ultimo caso, in Italia, riguarda i braccianti dei “ghetti” e la popolazione carceraria. Possibile che l’unica (e identica) soluzione trovata da ministeri e strutture commissariali competenti per rispondere al disagio abitativo di braccianti e detenuti sia la costruzione di moduli abitativi prefabbricati, i cosiddetti container, per dare un tetto in uno spazio angusto a queste persone? Sono veri e propri “blocchi di detenzione’: trasportabili e trasferibili che paiono avere ben poco a che fare con il traguardo che ci si è posti sui due fronti, di ridurre cioè il sovraffollamento nelle celle da una parte e alleviare le condizioni di degrado in cui vivono gli sfruttati della terra dall’altra. Identico è lo spirito della risposta, che si potrebbe tradurre così: questo è il massimo a cui potete aspirare, perché in fondo siete numeri e non persone. La dimostrazione di brutalità (e insieme di sciatteria, visto che si dimenticano così facendo decenni di studi sull’architettura carceraria, tanto per stare in tema) è uno degli aspetti più ricorrenti nell’epoca del “cattivismo”. Se proprio occorre fare qualcosa per chi è in difficoltà, si tenga conto che in ogni caso non ne vale la pena. Agli occhi dei nuovi potenti, la sorte degli ultimi è segnata per sempre. La generazione dei maranza: lame nelle tasche e papà in lacrime di Andrea Galli Corriere della Sera, 13 aprile 2025 Da Monza a Saronno, continua il viaggio del “Corriere” tra gli adolescenti che la Treccani definisce “gruppi di strada chiassosi, con la tendenza ad attaccar briga, dal modo di vestire appariscente e dal linguaggio volgare”. Le strofe del rapper Paky: “Mentre mi sta cercando la Digos, sono a St. Moritz”. Son tutti qui, i maranza. Come al solito. Una distesa di borselli portati ormai quasi ad altezza della gola, nemmeno più ad altezza del petto, e per la cronaca trattasi di merce taroccata; nonché di piumini smanicati, pure taroccati; di crocefissi, altresì taroccati, idem come sopra. Però stavolta i maranza se ne stanno zitti, buoni buoni, e hanno comprato il biglietto del treno evitando di muoversi gratis e non comprando le bottiglie di birra e superalcolici da esibire fino alla meta finale, ovvero Porta Garibaldi a Milano, per raggiungere a passo svelto, urlando nei tunnel sotterranei cori da stadio, l’adiacente piazza Gae Aulenti, i riflessi del sole sulle finestre dei grattacieli, i selfie e i video da mettere su Instagram e TikTok. Insomma i maranza si comportano all’esatto contrario rinunciando in aggiunta all’aggressività verbale contro qualsiasi persona di sesso femminile. Bambine, donne, anziane. Proprio così. Pazzesco. Davvero. Anestetizzati. Ma grazie mille, per forza: quest’oggi, sabato 8 aprile 2025, quando siamo intorno alle 13, la stazione ferroviaria di Monza - in più punti scassata, sottoposta a cantieri, ma ultra-videosorvegliata ammesso beninteso che le telecamere funzionino a dovere e non siano state posizionate come mero effetto dissuasore, del resto capita di frequente anche fuori dalle stazioni, per esempio a Milano -, la stazione ferroviaria di Monza è percorsa da decine di poliziotti e carabinieri; costoro attendono i tifosi del Como per la partita di calcio della serie A col Monza. Il che, in questo viaggio a puntate del Corriere fra i maranza, ci dà un’idea. Non soltanto Nordafrica - Ma prima, la definizione: per la Treccani, maranza è un giovane appartenente a un gruppo di strada chiassoso; egli evidenzia atteggiamenti sguaiati, attacca briga, veste in modo appariscente, parla volgare. Chi ignora il fenomeno, uno in verità dei ciclici fenomeni adolescenziali, che maturano di generazione in generazione e innescano le doverose riflessioni di psicoterapeuti e sociologi, e pensa che i maranza siano soltanto i nordafricani, marocchini, tunisini, libici oppure egiziani nulla cambia, e la convinzione piace assai a questi soggetti legittimando in loro certi pensieri discriminatori verso gli stranieri, fa niente se hanno cittadinanza italiana. Errato, totalmente errato: il maranza non ha una specifica provenienza territoriale, non si basa sulle nazionalità di appartenenza: quella dei maranza è una sottocultura trasversale dal punto di vista geografico (e anche dilagante come, diciamo, trend). Basta interrogare un adolescente e ve lo confermerà: il maranza è un cafone, porta fastidio e minacce, ha una sorta di fisiologica necessità di ancorarsi a una comitiva per sentirsi protetto, al sicuro, libero di agire con comportamenti illegali che forse, fosse in solitaria, eviterebbe. Dopodiché, eccoci all’idea prima menzionata, e venuta osservando i poliziotti e i carabinieri in azione nella stazione di Monza. Abbiamo interpellato fra Milano, Como, Varese e la stessa Monza, dirigenti di commissariati, marescialli di pattuglia, comandanti, ispettori, vicequestori. Per capire, certo in linea di massima e nell’ovvio relativismo delle nostre esistenze e del nostro mondo, il comportamento dei genitori convocati per conoscere le idiozie e i reati compiuti dai figli. Ebbene, la tendenza degli adulti è quella d’accusare gli altri. Subito all’inizio. Per levare ogni responsabilità all’erede. Se ha agito come ha agito, ecco, allora sarà stato provocato, doveva difendersi, è stato costretto, non aveva alternative, l’hanno minacciato di ritorsioni in caso di “disobbedienza”, l’hanno bullizzato, oppure è colpa degli insegnanti, colpa dell’allenatore, colpa del prete della parrocchia, colpa del meteo impazzito, colpa della pandemia, colpa dei terrapiattisti, colpa degli svalvolati che affollano i mezzi di trasporto, le strade, le piazze; magari magari, colpa pure dei social network, di chi ha inventato i cellulari. A St. Moritz - Ci dice un dirigente di commissariato, trent’anni di esperienza in mezzo alla dolente e dolorosa commedia umana, che comanda questa sindrome qui: “Intendo la sindrome del “cocco di mamma”. Magari da noi, convocato, il genitore si arrabbia e cazzia il figlio, fa un po’ di scena, annuncia castighi biblici, ma tanto poi, a casa, ricomincia ad adularlo, servirlo, riverirlo, evitargli di dirgli qualche volta “no”, sia mai, per carità, pure se ha sfregiato un amico”. Non mancano i papà, cinquanta e sessantenni, che attaccano a piangere quando, insomma, dovrebbero reggere, gestire la situazione, far gli adulti. Macché. Frignano. Penosamente. Singhiozzano. Scene, dice uno di quelli che le vedono in diretta, che generano una mestizia massima, un senso di sconfitta. Il rapper Paky (Vincenzo Mattera, da Napoli), che va parecchio fra i maranza, canta strofe del genere: “Non c’è tempo per uscir pulito / Mentre mi sta cercando la Digos / Sono a St. Moritz a fare il disco / alle Mauritius, ci faccio jujutsu / Aspetto arrivi il giorno del giudizio”. Lo si ascolta a Saronno, dove intanto ci siamo trasferiti - cittadina di 40mila abitanti in riqualificazione, meta di famiglie del ceto medio che non reggono il carovita di Milano; c’è un reale gran fermento, anche esistenziale, ma la stazione ferroviaria permane una pena: una specie di hotel delle anime sia laide sia perdute. Nei boschi - Capita infatti di vedere, come adesso, uno sbandato che vaga coi jeans abbassati; Saronno, riferiscono gli investigatori, è frequentata dai “soldati” della droga assoldati nei boschi dello spaccio in provincia di Varese e, col problema di nuovo in aumento, nel parco delle Groane che tange paesi ugualmente eletti a buen retiro lontano dalla metropoli. Tre maranza, quando mancano sette minuti alle 17, aspettano il treno per Milano. Ascoltano quello là, Paky. Dicono che faranno un salto in piazza del Duomo. Fra di loro si chiamano “bro”, cioè brother, fratello. Indossano dei jeans skinny, aderenti. Uno ha tatuata una testa di leone alla base della nuca. I tatuaggi, dicono, se li fanno al Lorenteggio, i costi sono ancora decenti. Hanno in programma una cena dal McDonald’s della stazione Centrale. Se riescono, prendono l’ultimo treno per Saronno. Sennò amen. Domandiamo loro del tema dei coltelli. Alla nostra Sara Bettoni, il medico Stefania Cimbanassi, gran capa del Trauma team dell’ospedale Niguarda, ha raccontato: “A inizio degli anni Duemila le ferite penetranti da arma bianca rappresentavano il 2% mentre oggi sono il 18 per cento”. La città delle lame - Sì, Milano è la città delle lame: nel 2024 ci sono state 96 rapine tra minorenni coi coltelli. Sulle lame, i maranza non rispondono. Ne avranno una, o più d’una, nel borsello (marca Gucci, fake, ovvio)? Su Saronno ci han dato un indirizzo. Ci abitano dei parenti, dei conoscenti, di maranza appena spediti nel carcere minorile del Beccaria dopo rapine in serie in metrò. L’indirizzo conduce alla periferia tra rotonde, la farmacia aperta giorno e notte, enormi ristoranti fast-food, antichi centri commerciali, palazzi in costruzione (pure tutta questa parte di Lombardia è sottoposta a massiccia speculazione edilizia). Una signora marocchina non risponde al citofono, manda in avanscoperta un uomo che nel vialetto del basso condominio ci spedisce a quel paese non prima d’aver urlato che lavora ed è in regola. La Padania razzista, i migranti, il faticare e il tenersi la fedina pulita come speranza di un lasciapassare, invocando accettazione senza pregiudizio. Una teoria delle bande - C’è un saggio di due sociologi americani, Richard A. Cloward e Lloyd E. Ohlin, entrambi docenti a New York, sulle bande adolescenziali; tre i tipi di formazione evidenziati: 1) la banda criminale dedita al furto, all’estorsione e a ogni altra forma di appropriazione indebita; 2) la banda conflittuale che pratica la violenza come mezzo per procacciarsi maggiore influenza sociale; 3) la banda astensionista dedita agli alcolici e alla droga. Il saggio venne pubblicato nel 1960. L’eroina c’è ancora. E scolpisce nuove “pietà” con madri e figli di Antonio Maria Mira Avvenire, 13 aprile 2025 Al Quarticciolo, periferia romana piagata da tante emergenze, la droga pesante è ben visibile. Anche nei suoi drammatici effetti umani. E in un abbraccio con evocazioni michelangiolesche. Una mamma di più di 80 anni è seduta su una panca all’ingresso della parrocchia dell’Assunzione al Quarticciolo. Il viso è un disegno di rughe e amore. Accanto a lei il figlio, 60 anni, magrissimo, viso scavato e sofferente. Si appoggia alla mamma, un gesto di tenerezza o forse di ricerca di protezione. Ma non è un’immagine serena, piuttosto di un dramma, quasi una “Pietà” michelangio-lesca, non quella, più famosa, in San Pietro, dal marmo ben levigato, ma quella cosiddetta Rondanini, non terminata ma dove il dolore, la sofferenza emergono forse ancor di più, scavate nel marmo, proprio come i volti della mamma e del figlio. Lei è qui, nell’anticamera del centro di ascolto parrocchiale, per chiedere aiuto, per l’ennesima volta, per suo figlio, tossicodipendente quasi da sempre. Eroinomane, “un bucatino” come vengono definiti a Roma, con drammatica ironia, i figli di una stagione lontana, ma per loro mai finita. Oggi si parla di altre sostanze, cocaina per chi ha più soldi, crack per chi si “sbatte” con poco, 5-10 euro, come qui al Quarticciolo. Ma per questo signore sessantenne la storia non è mai cambiata: laccio, siringa, acqua distillata, cucchiaino, accendino, e poi “lei”, dai tanti nomi, la “bianca”, brown sugar, “gomma”, “catrame”. Sempre la stessa da più di sessanta anni. Ma oggi dimenticata, colpevolmente trascurata. Non se ne parla più. Stupendosi quando qualcuno “muore ancora di overdose”, come recentemente proprio a Roma. E invece l’eroina c’è ancora, come ci raccontano i volti di quella mamma e del figlio. Sopravvissuti, tra drammi continui, a lontane stagioni per loro sempre attuali. Chiedono aiuto e la parrocchia li ascolta. “Nel quartiere mancano tutti i servizi, non c’è nulla. Per loro meno di nulla”, denuncia il parroco padre Daniele Canali. Solo la parrocchia. Non hanno altro qui al Quarticciolo come in tanti altri territori, quelle periferie che vengono raccontate per lo spaccio e non per il consumo. È di questi mesi l’allarme lanciato dal Governo per il possibile arrivo del fentanyl, l’eroina sintetica del terzo millennio, molto più distruttiva. Ma la “vecchia” eroina c’è ancora, e continua a squassare persone e famiglie. “La mamma è preoccupata per il figlio, per quando lei non ci sarà più”, mi spiega padre Daniele. Così più volte si sono tentati percorsi di disintossicazione, di recupero. Anche in comunità. Brevi periodi, poi di nuovo vince “lei”. E quella mamma dolente, con l’amore che mai l’ha abbandonata, raccoglie le ultime forze e col figlio al fianco, torna a chiedere aiuto. Anche solo per pagare una bolletta o qualche altra piccola spesa. O per non sentirsi ancor più sola e abbandonata, col suo amato pur se doloroso carico. Anche questo è il Quarticciolo, non solo spaccio e violenze. Ma nessuno ne parla. Solo qui in questa piccola stanza parrocchiale si prova ancora una volta a rispondere a quei due volti di dolore. “Braccia aperte a tutti”, mi ripete padre Daniele facendomi vedere il logo della parrocchia con la facciata della chiesa circondata da due grande mani aperte. A tutti, proprio a tutti. Migranti. Quelle foto in catene trofeo per i populisti di Alessandro De Angelis La Stampa, 13 aprile 2025 Non è vero che i Centri albanesi non funzionano. Ora funzionano benissimo secondo il canone populista, che si nutre di emozioni e di lavoro sull’immaginario. Le emozioni sono le paure e l’immaginario è il pugno di ferro. L’efficienza è un dettaglio. Quella foto vale la marea di denari spesi. Se non ci fosse, in questi giorni, la cronaca sarebbe su Giorgia Meloni che ha perso il racconto, spaesata e impaurita, in un contesto internazionale che ha stressato quadro politico e conti domestici. E invece guardatela quell’immagine dei poveri cristi, remake albanese dei tanti scatti postati sul sito della Casa Bianca, che trovano ormai emuli in tutto in mondo: sguardo basso, rivolto verso i polsi legati, in attesa di essere portati via. Come schiavi o deportati di guerra o prigionieri di chissà quale dittatura. Quell’immagine attribuisce una colpa e trasferisce il messaggio: ecco, finalmente li abbiamo acchiappati, la pacchia è finita. Ecco il trofeo portato al popolo, a conferma che “siamo quelli prima”. E infatti sono tornati tutti ciarlieri nel governo, molto più che su dazi e tutto il resto. La perla di giornata è Matteo Salvini - “che gli dovevamo dare, camomilla o uovo di Pasqua” - fulgido esempio di cattivismo da osteria, che si compiace dello scalpo conquistato. Misure emergenziali - L’Albania non è solo un diversivo, è “natura” lì dove può manifestarsi senza inibizioni, vincoli di bilancio e doveri internazionali. Ed effettivamente l’operazione è sempre la stessa: misure emergenziali su un’emergenza che non c’è, paradossalmente perché risolta dai medesimi protagonisti. Secondo i dati pubblicati sul sito del Viminale lo stesso giorno della foto, si registra il 28,69 per cento di sbarchi in meno rispetto allo scorso anno di questi tempi: dalla Tunisia pressoché azzerati grazie al controverso accordo sottoscritto dal governo (519 a fronte dei 7.245 dell’anno scorso), non più di cento da Algeria e Turchia, mentre la Libia, dove siamo scomparsi dai tempi del governo di Paolo Gentiloni con Marco Minniti al Viminale, continua la criticità (10.661 sul totale di 11.474 arrivi). Logica avrebbe suggerito di proseguire sulla via di un più incisivo investimento politico in quella direzione. Magari dando corpo al famoso piano Mattei, eterno Godot del governo. E, poiché un Paese solo non basta, avrebbe suggerito di battersi per portare l’intera Europa a un accordo quadro con l’Africa: un approccio, appunto, strutturale di gestione del fenomeno migratorio che è anch’esso strutturale, nel corso del mondo, e non un’emergenza. Però, vuoi mettere il trumpismo iconografico su un modello che tale non è, e piuttosto ricorda le famose navi “di Franceschiello”: quelli che stanno a poppa, vadano a prua, quelli che stanno a prua vadano a poppa e “facite ammuina”. Tant’è: l’Albania trasformata dall’ennesimo decreto in Cpr, perché come centro di accoglienza non funzionava nonostante le forzature giuridiche. Quelli che stanno nei Cpr italiani vanno lì, e non perché sono sovraffollati, anzi ci sono 150 posti liberi. Poi quelli che stanno in Albania ritornano in Italia per essere rimpatriati. Non serve a nulla, ma l’ammuina fa racconto. Mercanti di paure - Il problema è che questo racconto, in un mondo di mercanti di paure, non è l’eccezione ma è diventata la regola. Il cui carattere egemonico lo ha reso nuovo senso comune come la parola “deportazioni” che sui social funziona più di “rimpatri”. Anche il leader laburista Keir Starmer ha postato medesime foto e, nonostante il fallimento del modello Ruanda del suo predecessore, dice di guardare con interesse al “modello Albania”. In Germania la grande coalizione coi socialisti, evidentemente folgorati sulla via di Damasco di Islamic State, ha nel programma i rimpatri in Siria e pure in Afghanistan dove vige la Sharia e governano i Talebani, non riconosciuti dalle nazioni Unite. E chissà se è un caso ma Nigel Farage e Afd salgono nei sondaggi, a conferma che tra l’originale e la copia viene premiato l’originale. È il quadro di un cedimento strutturale alle paure. La destra asseconda la sua natura, chi avrebbe la missione di liberare il popolo dalla paura la scimmiotta. Con la variante italiana: sotto la denuncia umanitaria, il nulla. Migranti ammanettati? “Sono criminali”, dice Piantedosi di Fabrizio Geremicca Il Manifesto, 13 aprile 2025 Il ministro dell’Interno rivendica la correttezza della procedura. “Quella delle fascette ai polsi è una procedura che adottano normalmente gli operatori ed io non solo non ne prendo le distanze, ma la condivido. Quelle persone sono state trasferite in Albania in uno stato di privazione della libertà personale e non limitare i loro movimenti avrebbe significato che avremmo dovuto quadruplicare il numero degli agenti. Avremmo dovuto prendere un’altra nave, i trasferimenti sarebbero stati molto più costosi”. Matteo Piantedosi, il ministro dell’Interno, ieri a Napoli ha rivendicato la scelta di traghettare in Albania in manette 40 migranti reclutati nei Cpr. Lo ha fatto durante la conferenza stampa di chiusura del Med5 (il vertice con Spagna, Grecia, Italia, Cipro e Malta) al quale hanno preso parte pure il commissario europeo per la Migrazione Magnus Brunner e il direttore esecutivo di Frontex Hans Leijtens. Nessun ripensamento, dunque, da parte di Piantedosi. “È stata operata una valutazione - ha proseguito il titolare del Viminale - rispetto agli elementi di pericolosità dei soggetti trasferiti in Albania. C’erano cinque casi di violenza sessuale, uno di tentato omicidio ed un ampio campionario di precedenti penali”. Per poi aggiungere, rivolgendosi ai cronisti: “Non vedo perché vi appassioni tanto questa questione dell’Albania, non ci sono diseconomie, al netto delle preclusioni concettuali ed ideologiche”. Alla domanda sulla compatibilità tra le sue affermazioni circa la volontà di combattere i trafficanti di esseri umani e il rimpatrio in Libia su un aereo di Stato di Elmasry, il capo della polizia militare libica accusato di torture e inseguito da un mandato di cattura della Corte penale internazionale, ha risposto: “Non l’ho mai conosciuto. L’ho sentito nominare per la prima volta a febbraio”. Per poi precisare: “Mi sono informato e non è stato mai un soggetto che abbia interagito con coloro i quali hanno rapporti con noi in Libia”. Tra i quali c’è però certamente il ministro libico Imad Trabelsi, che venerdì è stato anch’egli a Napoli e ha partecipato ad un incontro in Prefettura con Piantedosi e i ministri della Tunisia e dell’Algeria. Ex capo di una milizia, è accusato dall’Onu di traffico di esseri umani. La riunione di ieri di Piantedosi - con Nicholas Ioannides (vice ministro cipriota delle Migrazioni), Byron Camilleri (ministro dell’Interno maltese), Fernando Grande-Marlaska Gómez (ministro dell’Interno spagnolo), Makis Voridis (ministro greco della Migrazione) - ha partorito una dichiarazione congiunta di 3 pagine e 26 punti. Tra essi, al fine di accelerare le procedure di espulsione, c’è l’istanza “di evitare l’effetto sospensivo automatico delle decisioni di rimpatrio giuridicamente vincolanti”. I Paesi mediterranei chiedono poi all’Europa, nell’ambito del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, “un finanziamento immediato e incondizionato e un rafforzamento degli stanziamenti, in linea con gli oneri sempre più gravosi che pesano sugli Stati membri in prima linea e nella considerazione che le frontiere esterne sono gestite da questi ultimi per il bene della intera Unione”. Italia, Malta, Cipro, Spagna e Grecia accolgono con favore “gli sforzi della Commissione europea per aumentare l’efficienza dei processi di rimpatrio e si impegnano a contribuire in modo costruttivo ai negoziati sulla nuova proposta legislativa per un regolamento sui rimpatri”. In questa Europa fortezza, va da sé, i ministri auspicano anche un potenziamento di Frontex, l’agenzia dell’Ue che svolge le funzioni di guardia di frontiera e costiera: “Chiediamo che abbia un ruolo più incisivo nella prevenzione della migrazione irregolare e nel sostegno ai rimpatri non solo dagli Stati membri, ma anche dai Paesi terzi di transito verso i Paesi di origine”. Manette ai migranti, Piantedosi: “Normale”. Ma l’Autorità: “Norme disattese sistematicamente” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2025 Le regole ci sono e sono recepite dalle direttive del Viminale. Ma l’Autorità nazionale di monitoraggio riferisce di un ricorso alla coercizione “sistematico” e spesso “indiscriminato”. La maggior parte delle persone sbarcate venerdì a Shengjin, in Albania, aveva i polsi legati da fascette di velcro. “Da quando sono saliti sulla nave a Brindisi e fino a prima di entrare a Gjader”, quindi per almeno dieci ore, riporta la delegazione di parlamentari e legali del Tavolo asilo e immigrazione entrata sabato nel centro. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto di rivendicare e condividere la misura: “L’utilizzo delle fascette? È una normalissima pratica, fa parte delle procedure operative che adottano in loro piena autonomia gli operatori”. L’europarlamentare del Pd Cecilia Strada ha detto invece di volere chiarimenti. “E come dovevano trasferirli? Con le mimose? Con la colomba pasquale, con l’uovo pasquale?”, non ha mancato occasione di esternare il leader della Lega, Matteo Salvini. E tuttavia non è questione di opinioni, perché esistono direttive ministeriali sui trasferimenti dei migranti durante le operazioni di rimpatrio forzato che richiamano esplicitamene decisioni e normative europee. Regole che tuttavia vengono disattese “in maniera sistematica, senza valutazione della necessità e proporzionalità della misura”, dice la ricerca “Rimpatri forzati e pratiche di monitoraggio”, pubblicata ieri dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Universita? di Bari assieme all’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a limitazioni della liberta? personale della Puglia. La ricerca spiega che l’uso sistemico della coercizione è favorito proprio dal contesto organizzativo delle operazioni di rimpatrio che spesso prendono le persone alla sprovvista, senza averle preparate e spingendole a reazioni che producono una pressione altrettanto sistemica sugli operatori di polizia. Le regole Ue e internazionali - Gli standard internazionali ed europei, recepiti in Italia dalle direttive ministeriali, sottolineano la necessità di limitare l’uso della forza ai casi strettamente necessari, nel rispetto della dignità e dell’integrità fisica della persona. Lo dicono anche le Linee Guida di Frontex: “Il ricorso a misure coercitive non deve essere sistematico e deve essere giustificato in ogni caso da una valutazione individuale del rischio”. Secondo la normativa europea (la Direttiva rimpatri ma anche Decisione Ce 573/2004, richiamate esplicitamente nelle direttive ministeriali), nei trasferimenti di persone in vista del rimpatrio, la coercizione può essere esercitata solo in caso di opposizione al rimpatrio, ribadendo i principi di necessità e proporzionalità e non per l’intero tempo del trasferimento. Inoltre, gli agenti devono sempre tentare prima la via del dialogo e del convincimento. Quando al rischio di fuga, dice ancora Frontex, non puo essere “ipotetico”, ma “serio ed immediato”. Insomma, ci sono limiti precisi da tenere presenti perché le misure di contenimento possono tradursi in trattamenti inumani o degradanti. ?In Italia - Le direttive ministeriali sulla materia autorizzano l’uso della Velcro strap handcuff (manette con cinturino in velcro) e del French body cuff (cintura con varie cinghie per i polsi) nei confronti di chi si oppone “attivamente” all’allontanamento, secondo il Codice penale e gli standard europei, compreso il divieto di effettuare il trasferimento ad ogni costo se comporta un coefficiente di coercizione sproporzionato o lesivo della dignità della persona. Ed è così che funziona? La questione non è nuova. “Continua a registrarsi un ricorso intensivo e illegittimo delle fascette in velcro applicate ai polsi dei rimpatriandi in difformità dei principi di necessità, proporzionalità e ricorso come misura di ultima istanza”, scriveva nel 2018 il presidente del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nel rapporto sull’attività di monitoraggio delle operazioni di rimpatrio forzato. Oggi è lo stesso Garante nazionale, sempre nel ruolo di Autorità nazionale di monitoraggio delle operazioni di rimpatrio, a dire come stanno le cose. La ricerca sui rimpatri forzati curata da Giuseppe Campesi insieme a Elisabetta de Robertis, Francesco Oziosi riferisce quanto osservato dai monitor del Garante, evidenziando una situazione in cui tali standard operativi sono largamente disattesi durante le operazioni di rimpatrio. L’Autorità nazionale di monitoraggio segnala un utilizzo “sistematico” e “indiscriminato” delle fascette di velcro, senza una valutazione della necessità e proporzionalità della misura, suggerendo che la cosa rifletta “abitudini” e prassi consolidate più che esigenze specifiche. La ricerca sul monitoraggio - Il ministero dell’Interno giustifica l’uso generalizzato delle fascette con le particolari esigenze operative e condizioni strutturali delle operazioni collettive di rimpatrio, che richiedono la gestione di un numero elevato di persone potenzialmente oppositive. L’Autorità di monitoraggio contesta questo approccio precauzionale, ribadendo che la decisione sull’uso della contenzione deve essere sempre individualizzata e basata su circostanze specifiche. La ricerca parla di un uso della coercizione “organizzato”, tanto da avviare un processo di normalizzazione in cui le scelte dei singoli agenti sono dettate dalle storture del sistema delle operazioni di rimpatrio. La prassi italiana dei rimpatri non annunciati, mantenendo nascosta la data del rimpatrio e impedendo contatti con familiari o legali, è indicata come una forma di violenza psicologica che incrementa lo stress e la probabilità di eventi critici. Infine, si riscontra anche la tendenza a giustificare il ricorso alla coercizione con la necessità di controllare l’autolesionismo dei rimpatriandi, piuttosto che la loro resistenza attiva. Quanto visto venerdì in Albania con le fascette di velcro ai polsi, dunque, risulta già qualcosa di sistematico e non sempre giustificato dalle specifiche circostanze. Migranti in Albania, il Viminale: “Andranno tutti riportati in Italia, da lì niente rimpatri” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2025 Giostra inutilmente costosa. E c’è il rischio di discriminazioni censurate dalla Costituzione, che sorgono quando c’è un trattamento diverso per persone in “eguali situazioni”. Il Re è nudo, e lo ammette. I 40 migranti trasferiti venerdì in Albania andranno “tutti riportati in Italia prima di essere rimpatriati”. Lo conferma il Viminale precisando quanto anticipato dal ministro Matteo Piantedosi dopo l’approvazione del decreto del 28 marzo che ha aperto le porte di Gjader agli irregolari in attesa di rimpatrio, già trattenuti nei Cpr in Italia. “In base alla nazionalità e agli accordi con i Paesi d’origine”, aveva detto il ministro, “alcune persone andranno prima riportate in Italia”. Ora che le persone sono state selezionate e traferite, invece, il Viminale fa sapere che tutte e 40 dovranno essere riportate in Italia. Perché, è cosa risaputa, con l’Albania non c’è un accordo per l’esecuzione delle espulsioni, senza il quale nessuno può essere rimpatriato da un Paese terzo. In altre parole, una giostra inutile e costosa con la quale il governo tenta di salvare la faccia dopo il fallimento del Protocollo da 700 milioni di euro per esaminare in Albania le domande d’asilo dei richiedenti provenienti da Paesi “sicuri”. Col rischio, ancora una volta, di andare incontro a discriminazioni censurate dalla Costituzione. “Succede questa trafila di spostamento anche nei passaggi dai Cpr ai luoghi d’imbarco per il rimpatrio per le persone trattenute nei centri italiani, che vanno dal confine con la Slovenia fino a Palermo: non vedo perché appassionino questi trasferimenti dall’Albania che in termini chilometrici è persino più vicina ad alcuni luoghi d’imbarco di tanti altri posti di Cpr in Italia”, ha provato a smarcarsi Piantedosi, ancora oggi a Napoli dopo la riunione dei Paesi MED-5. Ad “appassionare” l’opinione pubblica è il fatto che l’inutile farsa comporta, ad esempio, un trasferimento a bordo della Nave Libra della Marina Militare: 80 metri per 200 posti. O le indennità di trasferta da riconoscere alle decine di funzionari impegnati nelle operazioni. Nulla che appassioni il ministro: “Non ci sono diseconomie visibili, tangibili, se non quelle concettuali, ideologiche”. E poco conta se nemmeno il rimpatrio dall’Italia è certo. Perché parte dei 40 trasferiti va ancora identificata e per farlo serve la collaborazione del Paese d’origine, che non sempre è scontata, anzi. Non a caso appena un quinto delle persone con un ordine di espulsione, dicono i dati del Viminale per il 2024, vengono effettivamente espulse. Perché gli accordi di riammissione coi Paesi d’origine sono pochi e l’unico che funziona davvero è quello con la Tunisia. Metà dei rimpatriati sono tunisini, ma nel loro caso bastano i charter organizzati dal Viminale in Sicilia e un’ora di volo. ??Sulla nazionalità dei 40 trasferiti a Gjader il ministero mantiene il riserbo. Sul modo in cui sono stati selezionati, invece, Piantedosi ha detto che “sono tutti e 40 persone oggetto di provvedimento di trattenimento in quanto, come prevede la legge, alla condizione di irregolarità amministrativa si aggiungeva una valutazione di pericolosità”. E che tra le persone trasportate “ci sono 5 casi di condanna per violenza sessuale, un caso di tentato omicidio, reati contro patrimonio, furti, resistenza a pubblico ufficiale”. Ma ci sono anche persone senza alcun precedente penale, riferisce la delegazione del Tavolo asilo e immigrazione che sabato pomeriggio le ha incontrate nel centro. Persone che non sono riuscite a rinnovare il permesso di soggiorno, come pure capita di trovarne nei Cpr italiani. E tuttavia, cosa ha a che fare tutto questo con la temporanea delocalizzazione in Albania? Niente. La profilazione criminale, infatti, non annulla il rischio di discriminazioni censurate dall’articolo 3 della Costituzione, che sorge quando la legge “senza un ragionevole motivo” prevede un trattamento diverso tra coloro che si trovano in “eguali situazioni” (Sentenza Corte Costituzionale n. 15/1960). Del resto, nulla si precisa sui criteri di scelta delle persone da trasferire in Albania: il decreto 37/2025 non dice nulla. E non è tutto: “Le modalità di convalida e dell’esercizio del diritto di difesa sono ben diverse, e deteriori, rispetto a quanto avviene per le persone trattenute in Italia”, ha denunciato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che rileva diversi profili di incostituzionalità. “Quali sono i criteri di scelta, in base a quali norme sono individuati e chi la effettua? È il ministero ad assumere questa scelta e ad aggiungere la relativa responsabilità?”, domanda l’avvocato Dario Belluccio. Perché “nessuna norma di legge o criterio di opportunità verificabile oggettivamente consente di sacrificare una persona sull’altra e così determinare questa incredibile violazione dei suoi diritti. Quelle persone vedranno impedite le visite da parenti, non avranno modo di incontrare gli avvocati, con quella scelta il ministero determina autonomamente il cambiamento del giudice che dovrà decidere sulle sorti del caso”. In violazione di principi costituzionali così che, proprio perché insensata, l’operazione diventa crudele. Migranti. Silenzio e opacità: nel centro di Gjader “una colonia penale” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 13 aprile 2025 Nessuna risposta sui criteri con cui sono state scelte le persone. Cecilia Strada: “In un giorno già tre atti di autolesionismo”. Fascette durante tutto il tragitto, nessuno era stato informato del trasferimento. Hanno scoperto di essere trasferiti in Albania quando la Libra aveva attraccato al porto di Shengjin. E lo show trumpiano delle fascette ai polsi, condiviso e rivendicato ieri dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, non è stato limitato al momento dello sbarco a favore di telecamere, ma si è protratto per tutta la durata del viaggio, almeno sette ore di navigazione da Brindisi all’Albania. Mentre sono stati almeno tre gli atti di autolesionismo registrati tra le quaranta persone trasferite in Albania nelle prime ventiquattrore di detenzione oltre Adriatico. È quanto emerge dall’ispezione effettuata ieri nel Cpr di Gjader dall’eurodeputata Cecilia Strada. L’atto quarto della campagna albanese del governo Meloni va nel segno dell’opacità dell’esecutivo, che bluffa e si spertica in acrobazie per giustificare i trasferimenti senza dare però risposte precise. Ieri Piantedosi ha addotto la “pericolosità sociale” dei migranti trattenuti come motivazione dei lacci, indicandola come una forma di tutela nei confronti degli agenti impiegati sulla Libra. Gli ha fatto eco il suo aspirante sostituto al Viminale, Matteo Salvini, che con macabro umorismo ha commentato: “Dov’è il problema? Dovevamo dargli l’uovo di Pasqua?”. Ma aldilà delle dichiarazioni, rimangono ombre sui criteri attraverso cui sono state identificate le persone da trasferire. Di per sé le condanne penali non costituiscono motivo di trattenimento in un Cpr. Tutt’al più possono rappresentare una “priorità”. Ed in ogni caso, se una persona ha precedenti penali significa che ha già scontato una pena. L’eventuale espulsione, dunque, sarebbe potuta avvenire durante il periodo detentivo in carcere. Per questo parla di “insopportabile esibizione di crudeltà” il Tavolo asilo e immigrazione (Tai), sottolineando che le persone sono “trattenute in Cpr non perché abbiano commesso un reato, ma perché destinatarie di un procedimento amministrativo di espulsione, cioè hanno un documento scaduto”. “Un ulteriore passaggio in Cpr, e in particolare nel Cpr albanese, si configura come una ulteriore pena accessoria e fa prendere all’intero impianto la forma della colonia penale. Una cosa non prevista dalla legge e che impone in modo ingiustificato un ulteriore aggravio economico per la società” dice Cecilia Strada all’uscita da Gjader. Nel corso dell’ispezione l’eurodeputata ha potuto incontrate quattro persone, nessuna delle quali risultava in ogni caso avere precedenti. Nel corso dell’ispezione nel centro, a Strada non sono state fornite risposte circa il numero delle presenze, l’elenco delle persone trattenute e i criteri adottati. E non è stata data nemmeno risposta agli accessi agli atti effettuati presso il Viminale insieme alla deputata dem Rachele Scarpa. Le due elette chiedevano di visionare i provvedimenti scritti, come verbali e annotazioni, relativi ai criteri adottati e il fascicolo personale di ognuna delle persone trasferite a Gjader. Un “mancato accesso a informazioni cruciali per un adeguato esercizio del nostro potere ispettivo di parlamentari” hanno sottolineato Strada e Scarpa. Le persone incontrate hanno riferito che le fascette sono state apposte già durante il viaggio a bordo della Libra, nonostante nessuna di loro si fosse opposta al trasferimento. “Le stesse linee guida di Frontex dicono che la contenzione fisica è l’extrema ratio, e deve essere motivata, proporzionata e sottoposta a valutazione dinamica nel tempo” dice Strada. Solo quattro migranti hanno potuto avere contatti con i propri legali. “Un fatto grave ed emblematico della forte compromissione del diritto di difesa nelle strutture albanesi” sottolinea Strada. Intanto fonti del Viminale hanno confermato che ognuna delle quaranta persone detenute, nel caso in cui dovesse essere effettivamente espulsa, andrà riportata prima in Italia dal momento che l’esecuzione delle espulsioni non rientra nel protocollo firmato con l’Albania. Anche su questo ieri Piantedosi ha messo le mani avanti: “Non ci sono diseconomie tangibili e visibili” ha detto. Un primo esposto alla Corte dei conti, che potrebbe accendere i propri fari sul continuo andirivieni tra Brindisi e Shengjin, lo ha presentato Luigi Calesso, portavoce di Coalizione civica Treviso, per verificare la sussistenza di un potenziale danno erariale. Stati Uniti. “Trump punta a deportare un milione di migranti entro un anno” di Alberto Simoni La Stampa, 13 aprile 2025 A riferirlo al Washington Post sono alcuni funzionari. Si lavora con almeno 30 Paesi affinché ospitino gli immigrati che non sono loro cittadini. Un milione di immigrati illegali da deportare nel 2025. L’Amministrazione Trump avrebbe indicato l’obiettivo, assai ambizioso, per superare nettamente il “record” di Obama che espulse 400mila persone nel 2016. A riferirlo al Washington Post sono alcuni funzionari che però non hanno dettagliato come l’Amministrazione intenda fare e nemmeno quale è la contabilità alla base dell’obiettivo. Al momento sembra una missione assai difficile per la carenza di fondi, di personale e soprattutto per il fatto che la maggior parte degli immigrati hanno il diritto che sia un giudice a deliberare sul loro status e sull’eventuale deportazione. Ma il piano è comunque in fase avanzata e l’architetto è Stephen Miller, consigliere per la politica domestica e punto di riferimento per le politiche sull’immigrazione. Una delle strategie prese in considerazione è trovare un modo per espellere rapidamente 1.4 milioni di immigrati già con foglio di via ma che vengono rifiutati dal paese di appartenenza. Si sta lavorando - spiegano le fonti al quotidiano della capitale - con almeno 30 Paesi affinché ospitino gli immigrati che non sono loro cittadini. È un’operazione, tuttavia, complessa e che finora non ha prodotto risultati tali da lasciare ipotizzare di raggiungere la cifra di 1 milione di espulsioni. Anche perché ogni caso va trattato singolarmente e i tempi non sono rapidi. A complicare gli sforzi è inoltre la mancanza di fondi. Nella bozza di budget federale approvata giovedì dal Congresso c’è uno stanziamento ulteriore per il potenziamento dei controlli alla frontiera meridionale oltre che un aumento del personale e dello staff per le deportazioni. Ma le cifre non sarebbero, secondo gli esperti, tali da poter raggiungere l’obiettivo. La portavoce del Dipartimento per la Homeland Security Tricia McLaughlin, ha comunicato che a fine marzo le deportazioni superavano quota 100mila anche se il numero è una combinazione fra gli arresti negli Usa e anche i divieti di ingresso comminati agli immigrati negli aeroporti e nei posti di frontiera di terra e mare. L’Amministrazione, intanto, si trova alle prese con il caso del cittadino del Salvador residente in Maryland erroneamente deportato. Si tratta di Kilmar Abrego Garcia mandato in Salvador il 15 marzo nonostante un ordine di restrizione che ne impediva il trasferimento. Venerdì Paul Xinis, giudice distrettuale di Washington, ha chiesto agli avvocati del Dipartimento di Giustizia di rivelare il luogo dove è detenuto l’uomo e di aggiornare quotidianamente la corte e quindi garantire il suo rientro negli Stati Uniti. La sentenza giunge all’indomani della decisione della Corte suprema che ha confermato l’ordine di Xinis di “facilitare ed effettuare” il rientro di Abrego Garcia riconoscendo però che il termine “effettuare” non è chiaro e potrebbe andare oltre l’autorità del tribunale. Donald Trump, comunque, dall’Air Force One venerdì sera ha risposto che, se la Corte suprema gli chiederà di riportare negli Usa l’uomo, rispetterà l’ordine. Abrego Garcia è un immigrato del Salvador, vive in Maryland con regolare permesso di lavoro dal 2019 ed è stato deportato per un errore. L’udienza di venerdì è stata drammatica. La giudice Xinis ha chiesto all’avvocato del Dipartimento di Giustizia, Drew Ensign, dove si trovasse l’uomo. “È inquietante che il governo nemmeno dica dove si trova”, ha detto a Ensign aggiungendo che “il suo cliente (il Dipartimento di Giustizia, ndr) non ha fatto nulla per facilitare il suo ritorno”. Abrego Garcia è stato arrestato dalla US Immigration and Costume Enforcement (ICE) il 12 marzo. È stato interrogato sulle presunte affiliazioni con la gang criminale MS-13. Tre giorni dopo è stato caricato su uno dei tre voli diretti in Salvador con a bordo esponenti della MS-13 e anche del gruppo criminale venezuelano Tren de Aragua. Alcuni dei deportati non avevano però precedenti criminali. Secondo i gruppi per i diritti umani e I democratici l’Amministrazione Trump sta violando i diritti degli stranieri ad avere un processo regolare. Citano non solo il caso di Abrego Garcia e di molti venezuelani ma anche gli sforzi per deportare studenti universitari negli Usa con regolare visto o green card (permesso di residenza) per aver partecipato a manifestazioni pro-Palestina. In questa spirale è ad esempio finito Mahmoud Khalil, passaporto algerino e green card americana che si è diplomato alla Columbia University. È stato arrestato con l’accusa di rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale avendo partecipato e organizzato manifestazioni pro-Palestina nel campus di New York. Venerdì sera un giudice della Louisiana ha dato ragione all’Amministrazione ammettendo la deportazione. Il caso non è chiuso e gli avvocati di Khalil potranno ricorrere. I suoi legali hanno tempo sino al 23 aprile.