Affettività in carcere: arrivano le linee guida del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2025 Il documento ha l’obiettivo di rendere operativa la decisione della Consulta sui colloqui senza controllo a vista: incontri fino a due ore con il coniuge o il convivente. L’altolà del sindacato di polizia penitenziaria. A un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria emana finalmente una circolare che detta le linee guida sull’affettività in carcere. La circolare nasce come risposta al pronunciamento della Consulta che, con la sentenza n. 10/2024, aveva messo in luce come l’obbligo del controllo a vista durante i colloqui familiari rappresentasse una violazione della dignità e un’ingiustificata compressione del diritto all’intimità. In sostanza, il documento si propone di trasformare una decisione giudiziaria in prassi operativa, definendo in modo dettagliato le modalità per consentire i cosiddetti “colloqui intimi” senza la presenza diretta del personale di custodia. La circolare riconosce che i colloqui intramurari rappresentano il contesto nel quale inquadrare il diritto all’affettività. Tali colloqui vengono inquadrati come il contesto per il riconoscimento di questo diritto. Richiamandosi all’art. 37 del Regolamento di esecuzione del D.P.R. 230/2000, la circolare stabilisce che questi incontri possano durare fino a due ore e si svolgano senza controllo visivo, a meno che non emergano criticità specifiche. I beneficiari individuati sono il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona convivente con il detenuto. Dalla circolare si apprendono i dati del 2024, che evidenziano come oltre 22.500 detenuti abbiano usufruito dei colloqui in presenza e, stimando sulla base dei permessi premio e delle infrazioni disciplinari, si ipotizza che circa 16.900 possano accedere alla modalità riservata. Considerata la carenza di spazi idonei, la circolare stabilisce criteri di priorità, privilegiando i detenuti senza altri benefici penitenziari o con pene particolarmente lunghe. I provveditori devono individuare o allestire ambienti adeguati - con camera arredata, letto e servizi igienici - e, se necessario, trasferire detenuti in istituti che li offrano, con implicazioni in termini di lavoro, sicurezza e costi. Il rapporto affettivo va verificato dal Direttore o dall’Autorità giudiziaria, e solo successivamente il partecipante deve firmare un consenso informato per il colloquio senza controllo visivo. Il DAP ribadisce infine che i colloqui senza controllo non sono applicabili ai detenuti al 41 bis e che, in caso di comportamenti irregolari, il beneficio potrà essere sospeso o negato previa valutazione del gruppo di osservazione o dell’équipe multidisciplinare che può addirittura durare sei mesi. La circolare sottolinea l’esigenza di individuare spazi appositamente destinati ai colloqui, con caratteristiche strutturali adeguate: la presenza di una camera arredata, con un letto e servizi igienici, è considerata indispensabile per garantire una dimensione riservata. Per motivi di sicurezza, l’accesso agli spazi dovrà essere monitorato tramite videosorveglianza delle aree esterne e dei percorsi di accesso, pur assicurando che il colloquio stesso avvenga senza controllo diretto. La circolare dispone che la biancheria necessaria debba essere portata direttamente dalle persone autorizzate, e che le pulizie e la sanificazione dei locali avvengano al termine di ogni colloquio, con il supporto di detenuti lavoranti, per evitare contaminazioni tra le diverse aree dell’istituto. Invita inoltre a coordinarsi con la Magistratura di Sorveglianza e altri enti competenti per una corretta attuazione della decisione. Ma non mancano le critiche. Raggiunto da Il Dubbio, il segretario generale della UILPA, Gennarino De Fazio, ha osservato che le linee guida impongono a provveditori, direttori e comandanti numerose responsabilità, soprattutto per quanto riguarda l’allestimento degli ambienti. Ha aggiunto che il trasferimento di detenuti in strutture idonee potrebbe aumentare il carico di lavoro, i costi e i rischi per la sicurezza. Inoltre, il requisito di utilizzare la biancheria fornita dalle famiglie appare irragionevole e suscettibile di creare problemi nei controlli. “Ferma restando l’imprescindibile necessità di potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, di cui invece per il 2026 la legge di bilancio ha previsto la riduzione del turn-over, e delle altre figure professionali, anziché pensare alle celle-container sarebbe stato opportuno e certamente più proficuo pensare a moduli abitativi per consentire i colloqui intimi in condizioni di salubrità e sicurezza”, conclude De Fazio. Sesso dietro le sbarre, ma solo con buona condotta e no ai detenuti al 41 bis di Irene Famà La Stampa, 12 aprile 2025 Si parte in 32 istituti. Niente intimità per chi è stato trovato con telefonini o oggetti atti a offendere. E solo per il coniuge o il convivente stabile. Il diritto alla sessualità entra in carcere anche in Italia. Ma con regole precise e solo in trentadue strutture. A distanza di oltre un anno dalla pronuncia della Consulta, arriva il primo concreto segnale dal Dipartimento, che apre la strada alla possibilità di concedere colloqui intimi dietro le sbarre. “Un vero e proprio diritto soggettivo del detenuto” secondo i giudici. Si parte negli istituti di Brescia, Trento, Civitavecchia, Bologna, quello di Secondigliano a Napoli e di Sollicciano a Firenze. Criteri precisi, dunque. Gli incontri, al massimo di due ore, potranno essere concessi soltanto al coniuge del detenuto o alla persona stabilmente convivente. Verrà disposta una camera ad hoc, con letto e servizi igienici. Porta rigorosamente aperta. Con all’esterno, a sorvegliare, personale della polizia penitenziaria. Gli stessi locali saranno ispezionati prima e dopo l’incontro, mentre ad occuparsi delle pulizie e della sanificazione saranno altri reclusi. La priorità sarà data ai detenuti che non hanno permessi premio, né altri benefici penitenziari che consentano di coltivare i rapporti affettivi all’esterno. Inoltre saranno privilegiati i detenuti, che devono espiare pene più lunghe o che sono in carcere da più tempo. Sulla concessione peseranno anche la buona condotta e questo beneficio non sarà accessibile a chi è recluso in regime di 41bis, a chi sorpreso dietro le sbarre con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari oppure oggetti atti a offendere. L’intenzione di garantire l’affettività si scontra con la carenza di luoghi idonei e le problematicità strutturali delle carceri italiane. Solo qualche giorno fa lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva spiegato che “su 189 istituti penitenziari solo 32 hanno dichiarato di avere a disposizione spazi adeguati”. E ancora: “Miracoli non ne possiamo fare”. A scagliarsi contro la direttiva, chiedendone l’immediato ritiro, è invece l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. “Chi controllerà le condizioni dei locali dopo ogni incontro? Con quali risorse e personale si garantirà la pulizia in istituti dove manca persino l’acqua calda? - dice il segretario dell’Osapp Leo Beneduci - Cosa dire dell’assenza di indicazioni sulla presenza di personale medico specialistico, fondamentale in un contesto di intimità. Un’omissione inaccettabile che mette a rischio la salute di detenuti e, di riflesso, del personale”. Carceri, sì a incontri intimi per i detenuti “ma la porta non può essere chiusa dall’interno” di Claudio Del Frate La Repubblica, 12 aprile 2025 La decisione del Dap sulla scorta di una sentenza della Corte Costituzionale. I potenziali destinatari del beneficio sono circa 17.000. Anche i detenuti hanno diritto all’affettività e a incontri intimi. Lo aveva stabilito una sentenza della Corte Costituzionale e ora anche il Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) fa suo questo principio: la sezione del ministero di giustizia responsabile della gestione delle carceri ha diramato una serie di “linee guida” per gli incontri dietro le sbarre tra i detenuti e i loro partner. Che dovranno comunque attenersi a regola precise una delle quali prevede che la porta della stanza in cui avverranno gli incontri dovrà rimanere aperta. I colloqui intimi “saranno concessi nello stesso numero di quelli che avvengono nelle tradizionali spazi per i colloqui all’interno delle carceri e avranno durata massima di due ore”. La stanza - prescrive il Dap - deve essere “senza la possibilità di chiusura dall’interno” e sarà sorvegliata “soltanto all’esterno”. Fissano “una disciplina volta a stabilire termini e modalità di esplicazione del diritto all’affettività, individuare i destinatari, interni ed esterni, per la concessione di colloqui intimi, fissare il loro numero, la loro durata, la loro frequenza, con la conseguente determinazione delle misure organizzative interne”. Gli incontri saranno consentiti tra coniugi regolarmente sposati, tra conviventi o che intrattengono una relazione “stabile”. Di certo per gli istituti penitenziari, già alle prese con problemi di sovraffollamento e strutture fatiscenti non sarà facile mettere in pratica le linee guida ministeriali. Secondo dati aggiornati a dicembre 2024 la platea dfi potenziali beneficiari è di 17.000 persone. Sono esclusi quelli sottoposti a regimi detentivi speciali previsti dagli articoli 41-bis (categoria che comprende boss mafiosi o condannati per terrorismo) e 14-bis (per ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina). Non possono accedere al beneficio i detenuti sorpresi con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari o “oggetti atti a offendere”. In ogni caso si tratta di una svolta storica per le carceri italiane; una svolta a cui ha impresso una spinta decisiva la Corte Costituzionale. È stata dichiarata illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui “non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa...a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. Nonostante il pronunciamento della Corte Costituzionale, tuttavia, il “diritto all’affettività” per i detenuti era rimasto fino a oggi quasi del tutto lettera morta. Pochissimi istituti, ad esempio il carcere milanese di Opera, avevano sperimentato il funzionamento di “stanze dell’amore” ma si tratta di esperienze isolate. La questione era stata il più delle volte aggirata con la concessione di permessi premio da parte del magistrato di sorveglianza per coloro che venivano ritenuto “meritevoli”. Antigone: “Finalmente le Linee guida per il diritto alla sessualità e alla affettività. Ora si parta” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2025 “Oggi il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ha emanato una circolare per assicurare, finalmente, il diritto alla affettività e alla sessualità nelle carceri. Un diritto sancito dalla Corte Costituzionale nel gennaio 2024 e ribadito nelle settimane scorse da ben tre tribunali di sorveglianza, che avevano accolto i ricorsi presentati da altrettante persone detenute i quali denunciavano l’impossibilità di svolgere rapporti intimi con i propri partner”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. In particolare la circolare del DAP fornisce indirizzi operativi per garantire il diritto all’affettività delle persone detenute. Sottolineando come questa sia un diritto fondamentale, da esercitare anche durante la detenzione, demanda ai direttori degli istituti penitenziari di attrezzarsi per mettere a disposizione spazi dedicati ai colloqui privati tra detenuti e persone con cui abbiano relazioni affettive stabili. Inoltre viene sottolineato come le richieste di colloqui intimi vadano valutate caso per caso, considerando la stabilità della relazione, la condotta del detenuto e le esigenze di sicurezza, prevedendo anche una dichiarazione congiunta delle parti e documentazione a supporto della relazione. Si prevede infine che gli istituti dovranno individuare e, se necessario, adeguare locali per garantire privacy e sicurezza e che le visite intime non avranno una frequenza prestabilita uguale per tutti, ma saranno valutate individualmente, anche in base alla capienza e alle risorse dell’istituto. “La circolare disciplina le modalità di svolgimento dei colloqui intimi, demandando ai provveditori e ai direttori il compito di garantire questo diritto. Molto è rinviato a loro e ora il diritto dovrà essere pienamente assicurato a livello territoriale. Ci auguriamo che tutte le carceri si adeguino per tempo. Le sentenze della Consulta vanno rispettate. Non ci sono più giustificazioni per ulteriori ritardi. Abbiamo bisogno di promuovere un modello detentivo che sia più umano e che guardi alla Costituzione per costruire reali percorsi di reinserimento sociale”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Affettività o sessualità? di CON.SI.PE - Confederazione Sindacati Penitenziari consipe.it, 12 aprile 2025 Non si ritiene opportuno richiamare la sostanza della sentenza della Corte Costituzionale, ampiamente nota e, soprattutto, fino ad oggi, fonte di ispirazione di diverse ipotesi di svariata fantasia che hanno accompagnato il lasso temporale (importante diremmo) intercorso prima che l’amministrazione penitenziaria rispondesse e regolamentasse ciò che i termini perentori delle diverse magistrature di sorveglianza avevano intimato ad ottemperare. E voilà: vengono diffuse le “prime linee guida” sull’affettività in carcere, quasi come a far intendere che ne seguiranno altre. Poveri noi! Genera non poca perplessità osservare che il decantato Gruppo di Lavoro Tecnico costituito ad hoc per cercare e costruire soluzioni adeguate all’obbligo costituzionale di tutelare un diritto quale quello di esercizio dell’affettività abbia “partorito” un testo che pindaricamente vola da una fantasia ad un’altra, ergendosi a linee guida in un groviglio di spiegazioni sul da farsi senza alcun’aderenza con la situazione attuale deli istituti penitenziari. Ciò che viene da chiedersi in primis è se gli esperti del Dap abbiano davvero compreso, innanzitutto, che l’obiettivo di un progetto in una materia così delicata (e che forse avrebbe avuto senso fosse affidata nelle concertazioni ad esperti di vita penitenziaria vera e non solo ottimi amministratori ma spuri di qualsivoglia pragmaticità carceraria) sarebbe stato trovare una soluzione ordinamentale che non confondesse né sovrapponesse automaticamente il concetto di affettività con quello di sessualità, considerando quest’ultima come una scelta e non un obbligo per il detenuto. Partendo, infatti, dalla tipologia di locali destinati ai colloqui intimi ci si ritrova dinanzi ad una descrizione dei locali, che i Provveditorati dovranno individuare (forse si sarà taciuto sulla dotazione di bacchette magiche fornite dal Dipartimento per i Sig.ri Provveditori), che “dovranno essere dotati di una camera arredata con un letto e con annessi servizi igienici”: ora, come non si può pensare che tale indicazione sia una denuncia palese dell’ignorare il significato di affettività e concepirlo esclusivamente come sessualità? Non sarebbe stato opportuno intendere eventualmente locali quanto più vicini ad unità abitative familiari, pensate semmai quali luoghi adatti alla relazione personale e familiare, non solo all’incontro fisico? E invece si sciorinano tutte le formalità afferenti al corredo da letto, ai controlli pre ingresso e post ingresso con tanto di bonifica pre e post coito, prevedendo una sanificazione “ove necessaria”, senza quindi prevedere alcun coinvolgimento dell’area sanitaria per profilassi in materia di malattie sessualmente trasmissibili (ad esempio e per rimanere in tema vista l’unica interpretazione del tutto), di controlli anche ecografici pre incontro (considerato che la vigilanza del personale di Polizia Penitenziaria non è prevista durante l’accoppiamento (e meno male…per un po’ avevamo tenuto…) e si conoscono bene gli escamotage per portare oggetti in corpo (e non solo sul corpo). Nulla, nulla se non una farsa messa su da chi non riesce a trovare risposte e soluzioni e che svilisce tutti gli operatori penitenziari e il personale di Polizia Penitenziaria, costretto a vedersi sminuire e relegare ad accompagnatore e controllore dell’amore. Eppure l’attuale Facente Funzione Capo Dap proviene dall’esperienza della magistratura di sorveglianza e avrebbe potuto suggerire anche alternative: perché non istituire un tavolo di confronto con i tribunali di sorveglianza e trovare anche la possibilità di declinare il diritto alla sessualità in un permesso speciale per incontro intimo esterno al carcere, prediligendo, invece, di destinare unità abitative intramurarie All’affettività, per nuclei familiari con minori, per coppie con pochi spazi per sperimentare una quotidianità insieme se pur per tempo limitato, tutto sotto il controllo dell’area educativa eventualmente responsabile dell’individuazione dei detenuti meritevoli di tali opportunità anche importanti sotto il profilo trattamentale. Si sarebbe salvaguardata la finalità di umanizzazione della pena e di risocializzazione del detenuto, mentre ora non si è fatto altro che palesare l’abisso e lo scollamento che perdura e si acuisce tra realtà dipartimentale e realtà penitenziaria, quest’ultima intesa quale mondo fatto di uomini e donne che meritano rispetto non solo a parole e che mal si conciliano con tutta l’ammirazione espressa sino ad ora e nelle recenti manifestazioni istituzionali che li hanno visti e mostrati alla comunità quali fieri di appartenere ad un coraggioso e orgoglioso Corpo di Polizia dello Stato. Nordio apre al dialogo con l’Anm, ma solo a riforma approvata di Giacomo Puletti Il Dubbio, 12 aprile 2025 Il bastone e la carota. Si può riassumere così la strategia che il governo sta portando avanti nel rapporto con l’Anm, e in particolare nella discussione attorno alla riforma della separazione delle carriere tra giudici e pm, con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano che non disdegna attacchi anche diretti ai magistrati e il ministro della Giustizia Carlo Nordio che invece, almeno stante le ultime dichiarazioni, prova a smorzare i toni e a buttare acqua sul fuoco, anche in vista del faccia a faccia con il sindacato delle toghe, in programma la prossima settimana. “Spero che un’atmosfera (di dialogo ndr) cominci già prima (dell’attuazione della riforma ndr) cioè quando si andrà al referendum in modo che non si arrivi a uno scontro frontale nel quale avrebbe da perdere solo l’Italia - ha detto ieri il Guardasigilli al convegno “La magistratura nel disegno costituzionale. I vari progetti di modifica”, promosso dalla stessa Anm-Sezione autonoma magistrati a riposo - Qui non si parla di chi vince o chi perde, si parlerà di dare ai cittadini italiani una riforma che si allinei con tutti i paesi democratici dove esiste un processo penale accusatorio”. Non solo. “Sappiamo benissimo che ci sono delle ragioni anche di criticità in questa riforma costituzionale - ha continuato- ci sono delle migliori ragioni per andare avanti invece fino al referendum: queste ragioni di criticità possono essere composte e probabilmente lo saranno nel momento delle leggi attuative”. Pronta la risposta del presidente dell’Anm Cesare Parodi, che si è detto “molto disponibile a un dialogo continuo e a tutti i costi”. Aggiungendo che “l’associazione in maniera compatta ha espresso grosse perplessità sulla riforma”, perché “abbiamo delle preoccupazioni tecniche concrete e nessuna volontà di dire per forza a tutti i costi” e che “non siamo oppositori ma persone responsabili che si pongono dei problemi e cercano di dare risposte”. Ma le parole di Nordio arrivano dopo due giorni di incontri fittissimi tra un’ampia delegazione del sindacato delle toghe e i gruppi parlamentari di opposizione, che condividono almeno in parte la contrarietà alla riforma prioritaria del governo Meloni. Nel faccia a faccia con il Pd, fonti dem riferiscono di un clima “molto positivo, dialogante e costruttivo”, in cui l’Anm ha ribadito una posizione molto chiara mentre il Pd ha posto l’accento sulla necessità di ben altri interventi rispetto alla separazione tra giudici e pm. Tuttavia “il governo come noto ha scelto la strada dello scontro con la magistratura” come dimostra non solo la riforma Nordio ma anche il premierato, “provvedimenti che vanno a indebolire principi costituzionali molto concreti”. Da qui la decisione dem di fare una sorta di ostruzionismo in commissione assieme alle altre opposizioni, con tutti i membri iscritti a illustrare alcune migliaia di emendamenti. Il tutto per cercare di portare il più possibile avanti la questione e ribadendo che, in rapporto alla posizione dell’Anm sulla riforma, “nelle rispettive autonomie, si tratta di una battaglia che nel merito ci vede dalla stessa parte”. Che è opposta a quella del sottosegretario Mantovano, il quale, come riferito dal presidente dell’Anm Cesare Parodi, ha parlato di una volontà, da parte della giustizia italiana, di sovrapporsi o limitare il potere dell’esecutivo. “Quelle di Mantovano sono espressioni e dichiarazioni molto gravi che non solo colpiscono l’indipendenza della magistratura ma ne ledono il diritto di partecipare nella formazione delle leggi al dibattito pubblico e istituzionale che è consentito e necessario per ciascun cittadino”, attacca parlando al Dubbio Walter Verini, segretario dem della commissione Giustizia e capogruppo in Antimafia. Una battaglia, quella del Pd, condivisa come noto in primis dal M5S di Giuseppe Conte, il quale era presente in prima persona al faccia a faccia con Parodi e il resto della delegazione di magistrati. “Abbiamo raccolto la preoccupazione dell’Anm rispetto al progetto di riforma della magistratura e ad altre posizioni assunte dal governo Meloni - ha fatto sapere l’ex presidente del Consiglio dopo il faccia a faccia - Sul progetto di legge del governo che stravolge la magistratura, le posizioni del M5S sono molto chiare, così come su tutti gli altri aspetti che riguardano la Giustizia. Aggiungendo poi che “è chiaro il piano del governo che punta a mettere i pm sotto il volere del governo e a mettere sotto scacco i cittadini comuni, demolendo nel frattempo tutto l’impianto di contrasto agli abusi e ai privilegi dei potenti”. E se Avs condivide la battaglia di Pd e M5S, una posizione più dialogante è quella di Iv, che tuttavia ieri ha ribadito pero bocca della capogruppo al Senato Lella Paita l’astensione sulla riforma già votata in prima lettura alla Camera e ora in commissione a palazzo Madama. “Non ci sono aperture sostanziali da parte della maggioranza sulle nostre richieste sulla riforma della giustizia e sulla separazione delle carriere - ha risposto al Dubbio in conferenza stampa - Se questo dovesse essere confermato, penso che confermeremo al Senato il voto già espresso alla Camera, cioè l’astensione”. La riforma della giustizia la vuole davvero il popolo? di Giovanni Palombarini* questionegiustizia.it, 12 aprile 2025 La riforma della giustizia la vuole il popolo, ripetono Carlo Nordio e Giorgia Meloni, alludendo non agli uffici giudiziari dissestati, alle carenze degli organici dei magistrati e dei cancellieri, alla lunghezza dei processi, cose alle quali la generalità dei cittadini vorrebbe che si ponesse rimedio. Alludono invece a una modifica della Costituzione che, insieme alla distinzione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, preveda di conseguenza non uno ma due consigli superiori della magistratura, con composizione rinnovata rispetto all’attuale equilibrata previsione e la scelta per sorteggio dei loro componenti. Davvero il popolo vuole questo? O è un obiettivo politico delle destre? Che da sempre lamentano l’esistenza delle “correnti” di magistrati, e che da qualche tempo hanno messo fra gli obiettivi da raggiungere non tanto una separazione delle carriere che nei fatti già c’è (si contano sulle dita di una mano gli spostamenti, ogni anno, da una funzione a un’altra, resi difficili da specifiche norme), bensì un consiglio superiore dei pubblici ministeri facilmente condizionabile in considerazione delle proprie esigenze. Si tratta solo di fantasie come dice Nordio? O, addirittura, di una misura che potrebbe rilevarsi ancora insufficiente rispetto agli obiettivi governativi? Questo dubbio attraversa la maggioranza, se è vero che un sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro, autorevole esponente di Fratelli d’Italia, ha definito l’operazione governativa sul pubblico ministero “un errore strategico”, che non risolve davvero i problemi. Infatti, a suo giudizio, il Pm, “con un suo Csm che gli garantirà sostanzialmente tutti i privilegi, ancor prima di divorare i politici andrà a divorare i giudici”. Delmastro dovrà chiarire il suo pensiero, perché le cose fin qui espresse appaiono molto confuse, salvo una. “O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti paesi, oppure gli si toglie il potere di impulso alle indagini”. Ma c’è anche chi auspica l’istituzione di un “tavolo di confronto preventivo” fra corte di cassazione e governo per individuare linee comuni per la tutela di determinati interessi. Una recente clamorosa vicenda, quella del poliziotto libico Najem Almasri, dimostra quali siano le logiche che muovono il governo e chiarisce anche la direzione nella quale ci stiamo muovendo. Vale la pena di ricordarla, perché il caso sta passando nel dimenticatoio. La scarcerazione di Almasri, capo della polizia libica condannato dalla Corte penale europea per numerosi e gravi delitti ai danni di migranti sequestrati nei lager del suo paese, è stata disposta dai giudici della Corte d’appello di Roma per un vizio procedurale. Questo vizio era sanabile dal ministro della giustizia italiano, che avrebbe potuto chiedere il rinnovo della misura cautelare. Carlo Nordio, tempestivamente interpellato, ha letto le carte - anche se erano scritte in inglese, si è lamentato - ma si è ben guardato dall’attivarsi. Non ha neppure risposto alla richiesta inoltratagli dal procuratore generale di Roma, così evidenziando la volontà del governo di contrapporsi alle decisioni della Corte Penale Internazionale. L’imputato è stato di conseguenza liberato (e trasportato al suo paese con un aereo di Stato), e i rapporti fra l’Italia e la Libia non hanno subito pregiudizi. La storia non è però finita qui, anche se da sola è sufficiente a evidenziare l’atteggiamento del governo verso le sentenze e le richieste dei magistrati, europei o italiani. Perché il procuratore della Repubblica di Roma ha doverosamente trasmesso al tribunale dei ministri una denuncia presentata da un autorevole avvocato italiano contro la presidente del consiglio, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano per aver essi aiutato l’imputato Almasri a sottrarsi al mandato di cattura disposto dalla Corte Internazionale. Nelle ore successive il procuratore, che pure aveva semplicemente applicato la legge, è stato costretto a subire una dura aggressione dalle destre italiane, con in prime fila proprio la presidente del consiglio. Giorgia Meloni, infatti, ha sventolato sui social e in TV la lettera di trasmissione del procuratore, prima definendola un avviso di garanzia, poi scambiando un atto “dovuto” per un atto invece “voluto”, e ha indicato il denunciante come l’avvocato di alcuni mafiosi, dimenticando che lo stesso era stato anche il difensore della famiglia Calabresi e, in passato, parlamentare di Di Pietro e sottosegretario di un governo centrista di coalizione. Insomma, il procuratore della Repubblica per far contento il governo avrebbe dovuto gettare la denuncia in un cestino. Tutto questo evidenzia in modo chiarissimo il futuro verso il quale stiamo andando. Cosa può avvenire per fermare questa tendenza? *Già procuratore generale aggiunto presso la Corte di cassazione Legittimo criticare i giudici ma basta attacchi personali di Valentina Stella Il Dubbio, 12 aprile 2025 Alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella e delle più alte cariche dello Stato, tra cui il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, ieri mattina il presidente della Consulta, Giovanni Amoroso, ha condiviso le trentanove pagine della “Relazione sull’attività della Corte costituzionale relativa all’anno 2024”. Poi l’incontro di circa un’ora con la stampa, durante il quale ha voluto ribadire “l’importanza e la centralità del dialogo con gli organi di informazione”. Più volte è stato sollecitato dai giornalisti sullo scontro in atto tra politica e magistratura, soprattutto alla luce di quanto detto dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano qualche giorno fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio Nazionale Forense. In quella occasione il magistrato prestato alla politica aveva parlato di “funzione giudiziaria che deraglia dai propri confini”, di magistratura che vuole farsi “establishment”, di “aggiramento della volontà popolare” soprattutto in “materia di immigrazione”. Il riferimento era alle decisioni della magistratura sul Protocollo Italia Albania. Su questo punto Amoroso però ha difeso il lavoro delle toghe che si inserisce in un sistema legislativo articolato: “Sui Paesi sicuri - ha detto il vertice della Consulta - i giudici hanno preso strade diverse: c’è chi ha disapplicato direttamente, chi ha dubitato e ha interrogato la Corte di Giustizia Europea, un altro giudice ha interrogato la Cassazione, su un aspetto diverso che riguardava il rispetto del principio del contraddittorio la Corte di Cassazione ha investito la Corte costituzionale. Tanti i player nella vicenda. Ma questa è una conseguenza della complessità del sistema, soprattutto quando è multilivello, con un ordinamento nazionale inserito anche in un ordinamento sovranazionale che è europeo”. “Governare la complessità non è facile” ha sottolineato rivolto probabilmente a chi quel sistema lo rende sempre più complicato con nuove norme mentre “il lavoro del giudice non è facile, si deve confrontare con plurimi livelli”. Infatti nel prendere una decisione egli “ha un margine di flessibilità e se consideriamo che il nostro è un sistema multilivello il margine diventa ancora più consistente: perché c’è da mettere in relazione la normativa nazionale e quella comunitaria che è regolata sulla base di un principio di primazia della normativa europea rispetto a quella interna”. Poi sugli anatemi lanciati dalla maggioranza verso i magistrati che si sarebbero resi colpevoli di decisioni sgradite Amoroso ha replicato: “Gli strumenti di garanzia ci sono” come le “impugnazioni ordinarie e il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Il giudice del bilanciamento dei poteri è la Corte, che è l’ultima frontiera. Al di là di questa frontiera speriamo di non arrivarci mai”. E comunque, ha proseguito Amoroso, “sarebbe preoccupante un sistema senza giudici; il nostro è un sistema equilibrato ed è un sistema che contiene antidoti e strumenti per arginare possibili debordamenti”. Sul sistema di tutele a livello sovranazionale nella sua relazione Amoroso ha sottolineato come “il legislatore nazionale si muove quasi sempre in un contesto europeo segnato dall’appartenenza all’Unione europea, che ha garantito un prolungato periodo di pace e di sviluppo economico”. Il presidente poi ha tenuto a sottolineare il “numero significativo delle pronunce di incostituzionalità” che “dimostra che quindi un controllo c’è” insieme “ad una certa sensibilità dei giudici che sollevano le varie questioni”. Infatti il giudizio in via incidentale (da giudici nel corso di un giudizio), con le sue 139 decisioni e 94 pronunce di illegittimità costituzionale, continua a rappresentare la quota prevalente del contenzioso costituzionale. Come si legge poi nella conclusione della sua relazione “la Corte è chiamata a dare tutela ai diritti fondamentali e a svolgere la sua missione di giudice delle leggi nel più alto contesto di leale collaborazione istituzionale”. “È una tragedia quella dei suicidi in carcere” ha poi evidenziato Amoroso rispondendo ad una nostra domanda sulla situazione delle carceri. Sulla mancata attuazione da parte dell’Esecutivo della sentenza 10/ 2024 che ha sancito il diritto all’effettività dietro le sbarre, il Presidente ci ha detto: “La Corte era ben consapevole dei problemi organizzativi, ma è un cammino che occorre intraprendere e rendere effettiva questa tutela. Prima c’era un impedimento che ora è stato rimosso. La Corte ha svolto suo compito, ora va affrontato quello organizzativo”. Poco prima nella relazione Amoroso aveva significativamente letto: “L’esecuzione della pena deve tendere alla riabilitazione del condannato con modalità che non rappresentino aggravamenti ingiustificati della stessa”. Amoroso, successivamente, rispondendo ad una domanda sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, ha detto: “L’indipendenza della magistratura è pilastro dello Stato di diritto e va preservata. I giudici non sono eletti e la loro legittimazione si rintraccia nei loro provvedimenti. Ma questi provvedimenti sono criticabili. Non è pensabile che il dictum del giudice non sia criticabile, che sia immune da una critica anche aspra. Quello che non è accettabile è che ci siano attacchi personali perché qui si va su un terreno diverso di delegittimazione della magistratura ed è un terreno scivoloso che bisogna evitare a tutti i costi”. Infine una considerazione sulla recente decisione sul terzo mandato. Dopo la bocciatura della legge regionale campana e le conseguenti polemiche il presidente della Corte Costituzionale ha precisato: “La Corte si è preoccupata di affrontare il tema in termini generali per ricostruire l’assetto di sistema, con riferimento anche ad altre Regioni in modo da affermare un principio che valga per tutti”. Quindi ha ripetuto che la sentenza “vale per la Regione Campania e vale per tutte le Regioni a statuto ordinario. Non ci siamo occupati delle Regioni a statuto speciale”. Parodi replica a Nordio: “Non è una colpa dei magistrati mandare in carcere in base alla legge” La Repubblica, 12 aprile 2025 Il ministro aveva accusato le toghe di essere colpevoli del sovraffollamento dei penitenziari. “Fatico a immaginare come una colpa il fatto che un magistrato mandi qualcuno in carcere in base alle leggi fatte dal Parlamento”. Così dice il presidente dell’Anm Cesare Amoroso intervistato a Specchio dei tempi su Rainews24 replicando alle parole del ministro della giustizia Carlo Nordio che ha detto che il sovraffollamento delle carceri è causato dai magistrati che ci mandano le persone. E di colpo un altro fronte di scontro tra il governo di centrodestra e l’associazione nazionale magistrati è ora aperto. “La frase del ministro Nordio mi ha sorpreso, vorrei capire se è stata estratta da un contesto, oppure se la ha detto lui in modo colloquiale”, ha aggiunto Parodi dicendo che “mi piacerebbe avere su questo un chiarimento con il ministro che magari mi spiegherà perchè non dovrei mandare le persone in carcere se hanno commesso reati in base alle leggi”. “Se aumenta il numero dei carcerati non è colpa del governo ma di chi commette i reati e dei magistrati che li mettono in prigione” aveva improvvidamente detto Nordio ieri scatenando l’insurrezione delle toghe “Il ministro prima aumenta i reati, poi si autoassolve” ha protestato Zaccaro di Area. Ernesto Carbone del Csm: “Anche un drink sbagliato colpa delle toghe?”. Per il verde Angelo Bonelli una “tesi delirante”. “Non è vero che facciamo campagna politica con chi ci fa comodo, noi vogliamo parlare con tutti. Dico di più, se fino ad oggi abbiamo avuto incontri” con tutti i gruppi parlamentari di opposizione, “abbiamo già appuntamenti con FdI e Fi”, che “vedremo prossimamente”, in particolare il 15 aprile l’Anm incontrerà FdI, lo stesso giorno vedrà anche il ministro Nordio, mentre il 17 l’Anm incontrerà FI e Noi Moderati ha pure detto il presidente dell’Anm Cesare Parodi. Così la pressione mediatica ha cancellato il “ragionevole dubbio” dai tribunali di Silvana De Mari* La Verità, 12 aprile 2025 Il dubbio è un concetto oggettivo, non soggettivo. Nel momento in cui dubbi ne aveva qualcun altro, per esempio un altro magistrato che allo stesso caso ha dato un’assoluzione, o anche giornalisti e criminologi che stanno ponendo tesi contrarie intelligenti, quando non c’è una prova certa, quando i moventi sono impalpabili, allora il dubbio è oggettivo. Il punto fondamentale era quello che si può condannare qualcuno solo quando la sua colpevolezza è clamorosa, al di là di ogni ragionevole dubbio. In quel periodo esisteva ancora la assoluzione per mancanza di prove. Mio padre mi spiegava che era assolutamente sbagliato. Se le prove non sono sufficienti allora deve esserci l’assoluzione, un’assoluzione piena. Po l’assoluzione per mancanza di prove è stata pesantemente modificata, ed è stato un disastro: moltissimi magistrati hanno sostituito la assoluzione per mancanza di prove non con la assoluzione piena, ma con la condanna. Periodicamente succede che dopo decenni passati prigione, dopo una vita distrutta, si scopra l’innocenza di qualcuno. Evidentemente la sua condanna non raggiungeva lo standard di cui all’articolo 533 comma 1 del Codice di procedura penale: “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il dubbio è un concetto oggettivo, non soggettivo. Molti magistrati ritengono che se nella loro mente non c’è nessun dubbio, si sia configurato il caso descritto nell’articolo 533 comma 1 del Codice di procedura penale: al di là di ogni ragionevole dubbio. Ripeto: il dubbio è un concetto oggettivo, non soggettivo. Nel momento in cui dubbi ne aveva qualcun altro, per esempio un altro magistrato che allo stesso caso ha dato un’assoluzione, o anche giornalisti e criminologi che stanno ponendo tesi contrarie intelligenti, quando non c’è una prova certa, quando i moventi sono impalpabili, allora il dubbio è oggettivo. I casi di Garlasco, Avetrana, Yara Gambirasio e Olindo Romano e Rosa Bazzi grondano un tale numero di dubbi che sono addirittura stati scritti convincenti libri sull’innocenza delle persone da anni in prigione. Meglio dieci colpevoli nelle strade che un solo innocente in prigione, sosteneva mio padre, tanto più che le prigioni italiane sono orrende. Un solo giorno nelle orrende prigioni italiane rese ulteriormente orride dal sovrappopolamento, giustificherebbe un disturbo post traumatico da stress. Ci sono persone la cui colpevolezza non è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio che hanno la vita distrutta, che sono in prigione da anni e sono proprio gli anni in cui avrebbero dovuto cominciare una vita lavorativa, sposarsi, anni che non si recuperano più. Mio padre quando mi spiegava i rudimenti del diritto insisteva moltissimo sul fatto che un magistrato deve essere assolutamente equanime, e non è facile essere equanimi quando sei politicizzato o quando sei assordato da processi mediatici che dovrebbero essere rigidamente vietati. Il cervello umano ha micidiali meccanismi di censura. Quando noi abbiamo delle convinzioni tendiamo a cancellare tutto quello che contrasta le nostre convinzioni e ad innamorarci di tutto quello che dà invece loro valore. In una nazione giusta i processi mediatici, le interviste ai criminologi, i presentatori in televisione che squittiscono su colpevoli e testimoni dovrebbero essere vietati, perché fanno troppo chiasso e all’interno del chiasso la mente umana può perdere oggettività. Occorre fare molta attenzione a non influenzare i testimoni, perché è possibile influenzarli. Come si spiega in qualsiasi corso di criminologia, la mente umana e la memoria sono influenzabili. Un interrogatorio malfatto può creare false memorie e alterare per sempre la narrazione vera. Un interrogatorio malfatto può spingere un testimone a dichiarare il falso che gli è stato suggerito. Fare domande sbagliate altera la mente delle persone, altera la loro memoria per sempre. E come inquinare la scena del crimine. Un interrogatorio malfatto, molto aggressivo e violento soprattutto contro persone miti e terrorizzate, può spingere innocenti a confessare il falso e cioè di essere colpevoli. Nel momento in cui colui che conduce l’interrogatorio nomina qualcuno, per esempio Olindo, l’immagine di Olindo si forma nella mente del testimone. Una mente molto spaventata, sia per gli eventi precedenti, sia per lo stress dell’interrogatorio, può non distinguere più tra l’immagine reale quella suggerita. Si è creata una falsa memoria. Per quanto riguarda il caso di Garlasco il giovane imputato Alberto Stasi è ritenuto colpevole di alcuni magistrati e innocente da altri già questa discrepanza dovrebbe testimoniare per la sua non colpevolezza, per una colpevolezza non dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. Per quanto riguarda il caso di Avetrana consiglio a tutti di leggere l’interessante libro: Il delitto di Avetrana, perché Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono innocenti di Rino Casazza. La gelosia per un affetto non dimostrato e forse insidiato dalla giovane Sara è un movente molto labile per la cugina Sabina, non può essere considerato un movente decente per la zia Cosima, la quale, secondo logica, avrebbe fermato la figlia, la avrebbe tranquillizzata e tutto si sarebbe risolto con due ceffoni, al massimo. Che due donne si coalizzino per strangolare la rispettiva nipote e cugina per la gelosia di una delle due per un ragazzo che non era nemmeno suo fidanzato è una tesi molto fragile. Uno strangolamento è un delitto che impiega tempi molti lunghi, interi minuti, fino a dieci, necessita di un grande quantitativo di odio e decisione. Sabrina Misseri non poteva avere la forza fisica per strangolare una persona, che si divincola. Avrebbe potuto farlo solo con l’aiuto della madre, ma una madre le direbbe di fermarsi, non le dà una mano mentre diventa un’assassina uccidendo la cuginetta, la figlia della sorella della madre, e soprattutto non potevano avere la freddezza per farlo nel giro di pochi minuti. Il movente sessuale di Michele Misseri è invece un movente forte, la sua prima confessione ha una notevole logica. Sabrina e sua madre avrebbero potuto uccidere Sara Scazzi solo nelle primissime ore del pomeriggio perché dopo sia la cugina che la zia sono sempre state in presenza di altre persone, o al cellulare, cercando appunto Sara. La prova definitiva dell’innocenza della cugina e della zia è il fatto che il cadavere ritrovato una cisterna, attribuito a Sara Scazzi, ha lo stomaco vuoto. La ragazzina aveva mangiato una cotoletta a pranzo con sua madre. Una cotoletta necessita di almeno sei ore per essere digerita. Sara Scazzi non può essere stata uccisa prima di ore sette di sera visto che ha lo stomaco vuoto. Sua cugina e sua zia avrebbero potuto ucciderla solamente nelle primissime ore del pomeriggio. Altro terrificante libro è Olindo e Rosa, il più atroce errore giudiziario nella storia della Repubblica, di Felice Manti e Edoardo Montolli. Su questo titolo non posso essere d’accordo: gli errori giudiziari atroci nella storia della Repubblica sono talmente tanti che è difficile dire quale sia il peggiore. Viene massacrata Raffaella Castagna, sua madre e suo figlio, un bambino di due anni, sono massacrati con contundenti e coltelli, da qualcuno che dà poi fuoco all’appartamento. Nell’appartamento c’è anche un sopravvissuto, Mario Frigerio, mentre sua moglie al piano di sopra stata uccisa. Si ritiene responsabili il marito di Raffaella Castagna, nordafricano con precedenti penali, libero grazie a un indulto, che in realtà al momento del massacro si trovava in Tunisia. Nella prefazione del libro il magistrato Cuno Tarfussel, magistrato, spiega come il crimine non possa che far pensare a una “spietata faida tra bande criminali” È un’azione da professionisti. Vengono incredibilmente incriminati due anziani coniugi vicini di casa, e il movente sarebbero liti condominiali. C’è un solo testimone che sopravvive. Il testimone parla di un assassino di origine nordafricana molto alto e lo ripete diverse volte. L’assassino inoltre deve essere una persona molto atletica. Vengono accusati gli anziani vicini di casa di nuovo con una impalpabile movente. Impalpabili anche le prove. Molte delle prove a favore degli imputati non erano state discusse nel processo, quindi gli estremi per un nuovo processo ci sarebbero. Il sito internet iostoconbossetti.it riporta un’analisi dettagliata di tutte le prove dimostrando che anche qui siamo bel lontani dall’essere al di là di ogni ragionevole dubbio. Chiediamo al governo una legge che vieti la militanza politica dei magistrati e che vieti che un processo possa essere discusso fuori dalle aule giudiziarie. Se al generale Roberto Vannacci è stata contestata la pubblicazione di un libro con le sue idee politiche, perché la pubblica mancanza di neutralità è permessa ai magistrati? *Scrittrice e blogger Quell’inutile pratica di Palazzo Bachelet contro la propaganda delle toghe di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 12 aprile 2025 Felice Giuffré, componente laico del Csm in quota FdI, prova ad arginare l’impegno politico dei magistrati in vista del referendum sulle carriere separate. Quante probabilità ci sono che il Consiglio superiore della magistratura approvi una delibera che ponga un freno alla partecipazione dei magistrati ad eventi organizzati in via esclusiva da partiti politici? Molto poche considerando gli attuali equilibri a Palazzo Bachelet. Sulla carta, infatti, solo i togati di Magistratura indipendente, il gruppo conservatore, sono propensi ad una stretta. Il tema della partecipazione dei magistrati ad “eventi pubblici” è tornato ancora una volta di attualità questa settimana (vedasi Il Dubbio del 9 aprile, ndr) con la richiesta da parte del professore Felice Giuffré, componente laico del Csm in quota Fratelli d’Italia, di apertura di una pratica che dovrebbe contemperare la libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione delle toghe nel rispetto però dell’interesse costituzionale alla garanzia del prestigio, della credibilità, dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. Va detto che da anni il Csm cerca di mettere un punto fermo al riguardo, ma tutti i tentativi sono sempre puntualmente naufragati. E ciò a differenza di quanto accade nelle altre magistrature dove i limiti sono molto stringenti. La giustizia amministrativa, ad esempio, ha anche delle regole di condotta ferree circa l’utilizzo dei social. “Sempre più spesso negli ultimi mesi è stato posto all’attenzione, sia del Csm e sia nel dibattito pubblico, il tema del corretto bilanciamento tra le libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione del magistrato, e i limiti che alle stesse situazioni giuridiche derivano in considerazione del suo particolare status di appartenente all’ordine giudiziario e, dunque, in ragione delle delicatissime funzioni che l’ordinamento gli assegna”, ha ricordato Giuffrè, in attesa che la sua richiesta di apertura pratica ottenga il via libera da parte del Comitato di presidenza del Csm. La Corte costituzionale, con diverse sentenze, la prima già nel 1976, è intervenuta sul punto mettendo dei limiti, anche impliciti, alla libertà di manifestazione di pensiero, di riunione e di associazione dei magistrati, proprio con l’esigenza di tutela del prestigio e della credibilità dell’ordine giudiziario e quindi dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giurisdizionale. “A bilanciare le istanze di libertà individuale e altri interessi di pregio costituzionale sono del resto poste anche le previsioni normative di rango primario che valgono a sanzionare talune condotte extra-funzionali del magistrato o a considerare in sede di valutazione di professionalità i prerequisiti di equilibrio e indipendenza”, ha puntualizzato Giuffrè, evidenziando il rilievo particolarmente delicato della questione alla luce dell’enorme ampliamento di canali e, quindi, di opportunità comunicative “senza filtri” che le nuove tecnologie e, in particolare, i social network offrono anche agli appartenenti all’ordine giudiziario. Con l’approssimarsi della campagna referendaria sulla riforma della separazione delle carriere, che il governo vuole portare a casa prima possibile, è prevedibile che si moltiplicheranno gli eventi di partito a cui prenderanno parte le toghe. Già adesso esponenti dei gruppi progressisti della magistratura, contrarissimi a qualsiasi paletto, hanno presenziato ad iniziative dei partiti dell’opposizione contrari alla riforma sollevando molte polemiche. Fra i casi più noti, quello pm antimafia Eugenio Albamonte, intervenuto in una sezione del Pd a Roma, e quello del segretario di Magistratura democratica, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Stefano Musolino, che, per aver partecipato ad un dibattito in un centro sociale ed aver criticato alcuni provvedimenti del governo, era stato anche oggetto di un procedimento per incompatibilità ambientale al Csm, poi archiviato, aperto su richiesta delle laiche Isabella Bertolini (FdI) e Claudia Eccher (Lega). Su questa tematica Magistratura indipendente, nel corso dell’ultima riunione del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, si era fatta promotrice di una mozione, non approvata, che invitava i colleghi a declinare l’invito a partecipare ad eventi “organizzati in via esclusiva da partiti politici in occasione della prossima campagna referendaria”. “La credibilità della magistratura è un valore essenziale in uno Stato democratico: si custodisce e si coltiva tanto nell’esercizio delle funzioni, quanto con i comportamenti pubblici dei singoli”, avevano scritto le toghe di Mi, ponendo l’accento sul principio secondo cui il magistrato non solo deve essere ma anche “apparire” imparziale e indipendente. “Chiaramente l’Anm non mancherà di esprimere la propria posizione in convegni, incontri con la cittadinanza ed in eventi organizzati dai gruppi parlamentari, nazionali o regionali, ai quali è opportuno che partecipino magistrati che ricoprono ruoli nell’ambito dell’Anm o delegati”, avevano comunque aggiunto le toghe di Mi, le uniche che potrebbero dunque concordare con l’iniziativa di Giuffrè. Laconico, invece, il commento del togato indipendente del Csm Andrea Mirenda: “Viviamo in una bolla tutta nostra, fatta solo di diritti e di scarsa attenzione verso il punto di vista esterno. E la domanda resta sempre la stessa: ferma la libera manifestazione del pensiero, giova al prestigio della magistratura essere il prezzemolo politico ovunque?”. L’esodo da via Arenula. Lasciano i due capi di dipartimenti chiave per la giustizia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 aprile 2025 Ancora irrisolta la “successione” al Dap. Non si ferma l’esodo dei magistrati arruolati dal Guardasigilli Carlo Nordio al ministero della Giustizia. L’ultimo in ordine di tempo a chiedere di andarsene e rientrare in ruolo è Luigi Birritteri, capo del Dag, il Dipartimento degli affari di giustizia, ma secondo voci ben informate è prossimo a compiere lo stesso passo anche Gaetano Campo, al vertice del Dog, Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Sono due tra le articolazioni più importanti del dicastero. Al Dag sono affidate la gestione amministrativa dell’attività giudiziaria, l’attività preliminare all’esercizio delle competenze ministeriali in materia penale e civile, la cooperazione internazionale; al Dog spetta, fra l’altro, il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia e la gestione del personale amministrativo. Motivazioni ufficiali degli addii non ce ne sono, ma da tempo il clima al ministero è diventato difficile. Non solo per gli attriti sempre più forti tra Nordio e i magistrati, che provocano un certo imbarazzo tra le toghe distaccate in via Arenula, ma anche per i rapporti interni agli uffici. Soprattutto da quando s’è n’è andato, ormai più di un anno fa, il capo di Gabinetto scelto dal ministro all’inizio della sua esperienza, Alberto Rizzo, per l’efficienza veneta mostrata quando presiedeva il tribunale di Vicenza. Quelle dimissioni, dovute a una crescente incompatibilità con l’attivismo della sua vice Giusi Bartolozzi (magistrata in aspettativa e deputata di Forza Italia nella scorsa legislatura) hanno lasciato campo libero alla stessa Bartolozzi, divenuta una sorta di “ministro ombra” a sentire chi riferisce di frequenti tensioni con gli altri collaboratori del Guardasigilli. Prima di essere nominato a capo del Dag da Nordio, Birritteri è stato al vertice del Dog con ben cinque ministri, di destra, di sinistra e “tecnici”: da Angelino Alfano ad Andrea Orlando passando per Nitto Palma, Annamaria Cancellieri e Paola Severino. Poi era andato alla Procura generale della Cassazione, da dove Nordio lo richiamò per guidare il Dag; ora tornerà al “palazzaccio” di piazza Cavour, ma già lo scorso anno aveva manifestato la volontà di lasciare quando s’era messo in corsa per il posto di segretario generale del Csm. Altri che hanno lasciato sono Maria Rosaria Covelli, a capo dell’Ispettorato fino allo scorso anno, e a dicembre 2024 il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. Queste sono state le dimissioni più rumorose, per il prestigio e la responsabilità del ruolo (che prevede il comando della polizia penitenziaria, una vera e propria forza armata) e per la situazione di emergenza in cui versano le sovraffollate carceri italiane. Da oltre tre mesi senza un responsabile nel pieno dei suoi poteri. Nordio (ma forse sarebbe più esatto dire più il sottosegretario Andrea Delmastro, che ha la delega sulla penitenziaria) aveva scelto di promuovere l’attuale vice, Lina Di Domenico, già magistrata di sorveglianza in Piemonte, che sta svolgendo il ruolo di supplente e alla quale il Csm ha dato il via libera per il nuovo incarico. Si tratta però di una nomina da concordare con il presidente della Repubblica che deve firmarla, che invece Sergio Mattarella ha visto annunciata e decisa senza saperne niente. Ne è derivato uno stallo tra governo e Quirinale che non è stato ancora superato. L’altro ieri in Senato il ministro ha detto che la nomina “sarà abbastanza imminente”, una strana formula da cui non si capisce quando il Dap avrà il suo nuovo capo. E soprattutto chi sarà. Anche l’addio di Russo è collegato a tensioni interne al ministero, stavolta però con il sottosegretario Delmastro. Del quale l’ex capo del Dap aveva rivelato davanti ai giudici l’insistenza quando gli chiese, a gennaio 2023, informazioni sui colloqui dell’anarchico Cospito con alcuni detenuti mafiosi ristretti come lui al “41 bis”, rivelati poi in Parlamento e per i quali Delmastro è stato condannato in primo grado. Nordio ha provato a minimizzare sostenendo che è “perfettamente naturale” per un magistrato tornare a svolgere le proprie funzioni dopo due-tre anni di esperienza ministeriale; ma Russo non ha lasciato il Dap per tornare a indossare la toga: ha solo cambiato ministero, trasferendosi agli Esteri. Graziano Mesina è stato scarcerato. “Ha un tumore ed è gravissimo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2025 Graziano Mesina, l’ex primula rossa del banditismo sardo, ha ottenuto la scarcerazione: il tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto la settima istanza dei suoi avvocati, che chiedevano il differimento della pena per motivi di salute. L’ex bandito, attualmente ricoverato nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano, ha 83 anni e vive in condizioni disperate. Le avvocate Beatrice Goddi e Maria Luisa Vernier hanno sottolineato come le condizioni cliniche di Mesina siano peggiorate negli ultimi due mesi. Non si alimenta, non si muove, fatica a parlare e non riconosce chi gli sta vicino. La diagnosi: una patologia oncologica diffusa, incurabile e in fase terminale. Dopo più di 40 anni di detenzione - tra fughe rocambolesche e bravi latitanze - la situazione clinica è divenuta insostenibile, spingendo la difesa a presentare nuovamente un’istanza di differimento della pena. Nonostante in passato le richieste siano state respinte sei volte, questa volta il tribunale ha dovuto prendere atto che il carcere non è compatibile con lo stato di salute del detenuto. Il personale medico del San Paolo ha dichiarato di non poter più intervenire, evidenziando la gravità della situazione. Le legali hanno anche ricordato i tentativi di trasferimento in Sardegna, sempre rifiutati, che avrebbero potuto alleviare i patimenti grazie alla vicinanza dei familiari e a un ambiente più adatto alle necessità cliniche del loro assistito. Graziano Mesina nasce il 4 aprile 1942 a Orgosolo, in un piccolo centro montano della provincia di Nuoro. Fin da giovane, immerso in un contesto di povertà, isolamento e faide, si confronta con le dinamiche del banditismo barbaricino, dove - come ogni organizzazione di stampo mafioso si rispetti - giocavano un ruolo fondamentale la retorica dell’onore e della lealtà familiare. Il suo primo arresto arriva a soli 14 anni per possesso illegale di armi e, negli anni Sessanta, viene condannato per omicidio, un episodio che ancora oggi alimenta narrazioni contrastanti. La sua figura si arricchisce di una serie di evasioni rocambolesche: fughe da carceri di massima sicurezza, inseguimenti nelle montagne del Supramonte e settimane di latitanza tra campagne e rifugi segreti. In questo scenario, il soprannome di “bandito gentiluomo” nasce dalla sua capacità di alternare gesti di violenza a momenti di apparente generosità, sebbene la realtà fosse ben diversa, segnata da crimini e tensioni. Durante gli anni 60 e 70, Mesina diventa un protagonista indiscusso della cronaca nera italiana. Le sue imprese fanno scuola, rendendolo l’inevitabile oggetto di ammirazione da una parte della popolazione che cede al fascino. Nel 1992, mentre era in libertà condizionale, si attribuì il ruolo di mediatore tra i sequestratori e la famiglia del piccolo Farouk Kassam, rivelando in anteprima al Tg1 l’avvenuta liberazione. Tornò dentro nel 1993 dopo il ritrovamento di armi da guerra nel cascinale di San Marzanotto d’Asti. Divenne subito “leggendario”, un criminale astuto, capace di muoversi tra legalità e clandestinità, ma anche simbolo di una storia che attraversa le trasformazioni della società sarda. Nel 2004, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, su impulso dell’allora dal Ministro della giustizia Roberto Castelli, concesse la grazia a Mesina. Per un breve periodo sembrò voler cambiare: aprì un’agenzia turistica a Orgosolo e partecipò a incontri pubblici. Ma il passato non gli diede tregua: nel 2013 fu arrestato nuovamente con l’accusa di traffico di droga e favoreggiamento di sequestri. Ciò gli costò una condanna a 30 anni, e l’inevitabile revoca della grazia. E qui il suo ultimo colpo di coda: la fuga per evitare la carcerazione dopo la sentenza definitiva pronunciata in Cassazione nel luglio 2020. Dopo una latitanza di circa un anno e mezzo, venne catturato a Desulo. I tempi in cui era la giovane primula rossa del banditismo sardo e riusciva a nascondersi tra rocce e arbusti erano ormai lontani. A dicembre 2021 si riaprono i cancelli del carcere, chiudendo un ulteriore capitolo della sua vita. La storia di Graziano Mesina non è solo quella di un criminale che ha sfidato le istituzioni, ma anche quella di un personaggio che incarna le contraddizioni di un’intera regione. Per alcuni è l’ultimo esponente di un mondo antico; per il resto della società civile, è solo il simbolo di un passato da cui prendere le distanze. Oggi, con la sua scarcerazione, la cronaca si ferma a un nuovo e ultimo capitolo, segnato dalla sofferenza e dalla consapevolezza che il carcere non può più offrire le cure necessarie a chi, come Mesina, è ormai in fin di vita. Il braccialetto elettronico ai domiciliari non supera la presunzione di custodia cautelare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2025 Il giudice che nega i domiciliari in caso di reati per cui è presunta l’adeguatezza del carcere non è tenuto a motivare sulla proposta di uso dello strumento se accerta la sussistenza del rischio attuale di reiterazione. La richiesta di arresti domiciliari - anche con l’aggiunta del braccialetto elettronico - in luogo della custodia cautelare in carcere non impone al giudice di motivare esplicitamente sull’inadeguatezza dello strumento elettronico di controllo se si rientra in uno di quei casi in cui la necessità della restrizione inframuraria è presunta dalla legge e il giudice ha appurato la sussistenza del pericolo attuale di reiterazione del crimine. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 14120/2025 - ha respinto la richiesta della misura restrittiva personale meno afflittiva in quanto l’imputato già condannato in primo grado si era macchiato di reati che presumono l’adeguatezza della restrizione inframuraria a meno di prova contraria sull’attualità del pericolo di reiterazione che, appunto, il giudice di merito aveva escluso con congrua motivazione puntando il dito sull’aspetto negativo della condotta connotata brutalità e dello stato di prostrazione dlela vittima di maltrattamenti, violenza sessuale e stalking. Due sono i punti su cui si attagliava la difesa e la Cassazione li ha respinti. Il primo la non considerazione della derubricazione dello stalking in violenza privata e minaccia. Infatti, restano in piedi anche nel processo di secondo grado le imputazioni per due gravissimi reati che fanno scattare le presunzioni suddette di adeguatezza della restrizione cautelare a meno di assenza di attualità del pericolo di reiterazione, che il giudice aveva motivatamente escluso. Il secondo aspetto respinto era quello che lamentava la mancata esplicita motivazione del giudice in ordine alla proposta di adozione del braccialetto elettronico. Infatti, risponde la Cassazione, che tale presidio di controllo elettronico è solo una modalità applicabile alla restrizione domiciliare. E quando questa non può essere concessa il giudice non è tenuto ad una esplicita risposta sul punto. Veneto. Nelle carceri sovraffollamento al 140 per cento. E per suicidi quarta regione in Italia di Sabrina Tomè Il Mattino di Padova, 12 aprile 2025 Allarme carceri in Veneto: 2.722 detenuti contro 1.938 posti disponibili. Sovraffollamento al 140%, con picchi del 183% a Treviso. Crescono i suicidi, mancano agenti e medici. Le proposte del Garante e della politica. Il tema del sovraffollamento delle carceri, è tristemente noto. Ma in Veneto è particolarmente grave, con numeri - quelli del 2024 del Garante per i Diritti della Persona Mario Caramel illustrati il 10 aprile in Commissione Sanità e Politiche Sociali - tra i più alti d’Italia. I detenuti rinchiusi nei nove istituti penitenziari sono 2.722, un piccolo paese. Un paese che però potrebbe accoglierne, stante i posti a disposizione, 1.938. Questo si traduce in un tasso di sovraffollamento pari al 140% che colloca il Veneto al quarto posto in Italia, dietro Puglia, Lombardia e Friuli (al 142%). La situazione peggiore è a Treviso con il 183% di sovraffollamento, poco più sotto Verona con il 179%, quindi il circondariale di Venezia (maschile) con il 164%; meno peggio la Giudecca con l’89%. Il disagio - In questo contesto ecco l’altra emergenza, quella dei suicidi: lo scorso anno sono stati 9 (quarti in Italia) di cui 4 a Verona e 3 a Venezia. Caramel, nella sua relazione, rileva che il 2024 verrà ricordato e come “uno dei più “caldi” per il sistema penitenziario. Un vero e proprio annus horribilis, segnato da alti picchi di suicidi, riscontrati anche negli istituti di pena siti in Veneto, nel quale è pienamente esplosa a tutti i livelli la questione emergenza carceri”. E prosegue: “Va rilevato che il dibattito sulle possibili cause - sovraffollamento, carenza del supporto psicologico, carenza dell’organico del personale - porta a constatare una chiara corrispondenza fra numero dei suicidi e sovraffollamento certamente individuabile almeno come “concausa” del fenomeno”. Di scenario allarmante parlano le consigliere del Pd Anna Maria Bigon, Chiara Luisetto e Francesca Zottis: “Tutto questo in un quadro nel quale il personale vigilante è insufficiente, ma anche quello sanitario langue, rendendo così impossibile una piena tutela dei detenuti sotto il profilo sanitario e di supporto psicologico”. Carceri sedi disagiate - Elena Ostanel del Veneto che Vogliamo lancia una proposta: “È ora di dichiarare tutte le strutture penitenziarie regionali disagiate, come ho proposto e ottenuto per Venezia e Rovigo, per dare incentivi al personale, in particolare sanitario, che decide di lavorare nelle carceri. Ho chiesto che si convochi una commissione dedicata, in forma congiunta tra la prima e la quinta, insieme ai direttori delle strutture, ai direttori sanitari, l’assessore Lanzarin e il Garante per mettere fine alla carenza di accesso ai servizi sanitari per le persone detenute”. Sulla carenza del personale: “La situazione è critica perché a oggi mancano 158 agenti rispetto allo standard previsto. Altro capitolo che deve essere attenzionato è quello della salute psichica dei detenuti, perché un quarto delle segnalazioni di criticità trattate dal Garante riguarda proprio l’ambito sanitario, in capo alla Regione”. Ostanel rileva come dalla visita fatta al carcere di Treviso sia emerso un alto consumo di psicofarmaci tra i detenuti e come manchi il personale medico. Roma. “Tiziano rischia la vita per la meningite, ci dicano cosa è successo in carcere” di Valentina Petrini La Stampa, 12 aprile 2025 I familiari del detenuto in coma: “Un suo amico racconta che stava male già da tre giorni”. La direzione del Regina Coeli: “Trasportato in ospedale ai primi sintomi”. “Quando siamo arrivati in ospedale la dottoressa di turno, con le lacrime agli occhi, ha detto: mi dispiace mi hanno portato Tiziano che era già in coma. Da lì è iniziato il calvario”. Valentina è la sorella di Tiziano Paloni, 40 anni, romano, detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Regina Coeli per detenzione illecita e aggravata di stupefacenti. Mercoledì 9 aprile la famiglia di Tiziano Paloni, attraverso l’avvocato Fabio Harakati contatta La Stampa. “Il mio assistito sta morendo. Non vogliamo accusare nessuno, ma abbiamo delle domande perché diverse cose non sono chiare. Una su tutte: i familiari hanno saputo del ricovero di Tiziano solo ore dopo e non da autorità carcerarie o ospedaliere. Sono stati informati dai parenti di un altro detenuto. Perché?”. Il racconto di Valentina inizia così: “La mattina di lunedì 7 aprile ho ricevuto la telefonata dalla sorella di un altro carcerato che conosceva mio fratello: Tiziano purtroppo ha avuto un ictus - mi ha detto - non parla più, si è fatto la pipì sotto. Mamma ha chiamato subito il carcere: ma che sta dicendo signora? Non ci risulta - hanno risposto-, suo figlio è a Regina Coeli”. La richiesta di informazioni al carcere - Vanno di persona all’ufficio Colloqui, relazioni con il pubblico di Regina Coeli: “E lì dicono che non potevano darci informazioni perché, in quanto familiari, avremmo potuto organizzare un tentativo di evasione di Tiziano”. Mamma e papà, invece, vogliono solo sapere se il figlio è vivo. Arriva anche l’avvocato Harakati: “Sono così riuscito a sapere che Tiziano era stato portato all’ospedale, probabilmente al vicino Santo Spirito”. La corsa al pronto soccorso, il divieto assoluto di vederlo, poi il trasferimento allo Spallanzani, terapia intensiva, malattie infettive. Tiziano stava male, ma non aveva avuto un ictus. La diagnosi è: meningite neisseria, la più pericolosa e letale. La scoperta della meningite - L’avvocato Harakati, fa richiesta ufficiale di acquisire la cartella clinica del suo assistito. “Sempre e solo domande. Si è sentito male all’improvviso il 7 aprile? Non ha manifestato sintomi prima? E come è avvenuto il contagio?”. Nel frattempo i genitori di Tiziano e sua sorella vengono autorizzati a vederlo, ma solo a distanza. II 9 aprile decidono di rendere pubblica la notizia: “La meningite neisseria, ci hanno spiegato i medici, si contrae attraverso il contatto con le secrezioni di naso e gola di una persona infetta, per via respiratoria, tosse, starnuti o quando si parla. Con chi ha avuto contatti mio fratello? Lo chiediamo a tutela di tutti, per mio fratello ormai è fatta. Tiziano, inoltre, è svenuto la mattina del 7, da quello che abbiamo saputo ufficiosamente, ma aveva manifestato sintomi prima?”. La lettera di un altro detenuto: “Stava male da giorni” - Valentina l’8 aprile riceve dei messaggi e una lettera. “Mi ha scritto la sorella di un detenuto di Regina Coeli e mi è arrivata una lettera da un altro detenuto. Entrambi sostengono che Tiziano stava male dal 4 aprile, cioè tre giorni prima di svenire ed essere portato d’urgenza in ospedale”. Due testimonianze che ovviamente non possono essere prese per vere ma che andranno verificate dal personale giudiziario competente. “La sorella del detenuto che mi ha avvertito la mattina del 7 aprile che Tiziano era stato portato in ospedale, mi ha scritto che i compagni lo hanno visto iniziare a stare male già da venerdì 4 aprile ma che gli era stato detto di non preoccuparsi perché al massimo aveva una semplice influenza. Lunedì 7 aprile poi lo hanno visto che non parlava, aveva la bava alla bocca e si era fatto la pipì addosso”. Nella lettera inviata a Valentina da un altro detenuto invece si legge: “Ogni giorno passeggiavo nell’ora d’aria con lui all’aperto. Venerdì 4 aprile non l’ho visto e questo mi è parso strano perché mi aveva detto che lui usciva anche se faceva freddo. Allora sono andato da un suo compagno di cella e mi ha detto che Tiziano stava a letto, male male e non riusciva ad alzarsi”. Il detenuto chiede il permesso di salire da Tiziano. Glielo concedono: “Gli avevano dato una branda più comoda - continua la lettera. - L’ho abbracciato e gli ho detto che la mattina seguente avrebbe subito dovuto avvertire l’avvocato e voi a casa. E che doveva scendere in infermeria. Mi ha fatto molto male vederlo così, mi rispondeva a stento. Poi ho visto un po’ sul corpo, braccia e gambe, delle vene come scoppiate, chiazze rosse, ed era stanchissimo. Ho capito subito che era qualcosa di grave”. Sempre il detenuto scrive di essere andato a quel punto dal capoposto, la guardia penitenziaria di turno, e di aver detto: “Guardate che Tiziano Paloni sta malissimo”. La lettera continua così: “Domenica mattina (6 aprile, ndr) speravo di vederlo come al solito a messa, invece non c’era”. Il detenuto chiede a quel punto di poter far visita a Tiziano, ma non lo autorizzano. “Verso le 22, ho visto che erano fuori all’infermeria e lui (Tiziano, ndr) era seduto su una sedia con infermieri e medici e tanti assistenti penitenziari”. Prova a urlare il suo nome, ma Tiziano non si gira. “La mattina seguente girava voce in carcere che c’era stato un caso di ricovero ospedaliero per meningite”. La nota dell’Asl: avviata la profilassi in carcere - L’ufficio stampa della Asl Roma 1 ci ha scritto: “Per maggior tutela di tutti, il servizio di Igiene e Sanità Pubblica ha messo in atto la profilassi per la popolazione carceraria, sanitaria, civile e volontaria. Allo stato attuale anche i contatti stretti, monitorati, non presentano sintomi”. Invece la direzione del carcere di Regina Coeli non ci ha risposto, ha però precisato via posta certificata, ieri al legale Fabio Harakati: “In data 7 aprile alle ore 10, 30 il detenuto Tiziano Paloni ai primi sintomi è stato trasportato d’urgenza presso l’ospedale Santo Spirito e nella stessa giornata trasferito presso l’Ospedale Spallanzani”. Le domande ancora aperte - “Cosa è accaduto tra il 4 e il 7 aprile? - chiede mamma Anna - Quanto raccontato dal detenuto nella lettera inviata a mia figlia è vero? Oppure no?”. Papà Mario è seduto accanto alla moglie, non trattiene le lacrime. Preferisce far parlare lei. “Tiziano è entrato in carcere in salute in forma, pulito, profumato. Ora è intubato, in coma, con la meningite. Abbiamo diritto a sapere cosa gli è successo”. Per ora la prognosi di Tiziano resta riservata. “I dottori ci hanno dato però una flebile speranza. Tiziano è giovane, forte, al momento sembra che non ci siano altri organi danneggiati, ma a livello cerebrale l’infiammazione c’è”. Intanto il giudice ha autorizzato il legale Fabio Harakati ad acquisire la cartella clinica e il diario sanitario in carcere di Tiziano. “Attendiamo la documentazione e solo dopo faremo le nostre valutazioni sul caso. Per ora la priorità è che Tiziano si salvi”. Milano. Una seconda chance per tutti, tra i progetti e le esigenze di San Vittore di Manuela Sicuro mitomorrow.it, 12 aprile 2025 La direttrice Palù: “Il recupero dei detenuti riguarda la collettività”. A tu per tu con chi dirige il carcere più affollato d’Italia, partendo dal progetto di recupero degli arredi di Regusto, per arrivare alle esigenze dell’istituto penale milanese: “Il personale carcerario affronta delle situazioni difficili da immaginare”. Dare una seconda opportunità di recupero è, o almeno dovrebbe essere, il principio di ogni istituto di pena. Questo è l’obiettivo del progetto Second Chance, che gestisce il riciclo e la distribuzione di prodotti e arredi a rischio spreco donati da aziende a strutture detentive del territorio. L’iniziativa di economia circolare, coordinata dal Comune di Milano e Regusto, prima piattaforma ESG blockchain per la lotta allo spreco, ha donato oltre 43 tonnellate di prodotti e arredi a quattro carceri del territorio, San Vittore, Beccaria, Bollate e Opera. “Un modo per acquisire beni e arredi che altrimenti non potremmo avere con le nostre forze economiche”, spiega a Mi-Tomorrow Elisabetta Palù, direttrice Carcere San Vittore. Qual è il significato del progetto per voi? “Il significato è profondo, rende più spesso il legame tra ente pubblico e il privato e aiuta a diffondere la cultura della conoscenza dell’ambito carcerario, che spesso viene alla ribalta solo per eventi critici”. Come verranno distribuiti beni e arredi? “Abbiamo migliorato la sala polivalente, acquisito dei prodotti per la cura dei capelli che utilizzeremo per brevi corsi di formazione per parrucchiera per le detenute che apprezzano molto. Inoltre in parte li abbiamo utilizzati per fare educazione sulla raccolta differenziata dei rifiuti”. Un modo per agevolare il reinserimento all’esterno? “Esattamente. È uno dei focus più importanti, fa parte del prendersi cura del detenuto per non consentire alla persona di lasciarsi andare, ma indurre una riflessione rispetto a un cambiamento di vita. Questo è un luogo di privazione, ma può offrire spunti per le persone cresciute in contesti che non prevedevano vie d’uscita. Qui si possono gettare dei semi che possono germogliare in qualcosa di positivo”. Quanto il miglioramento dell’ambiente influisce sul benessere del detenuto e sul suo recupero? “Creare ambienti più vivibili è importante per chi ci lavora e per i detenuti, promuove un cambiamento emotivo e relazionale alla base del percorso dei detenuti. Circa il 70% dei detenuti qui sono stranieri irregolari con aspetti di povertà, non hanno famiglia e ricevere delle donazioni di beni primari, vuol dire tanto”. San Vittore è per molti un carcere di passaggio, quali le iniziative per il reinserimento per chi invece sconta la pena? “Il carcere San Vittore ha pochissimi spazi rispetto al numero dei detenuti, ma l’idea è di attivare dei percorsi per cercare di offrire una formazione professionale, grazie ai finanziamenti della Regione, ma anche un’istruzione, sapere la lingua del posto per gli stranieri è avere accesso a più opportunità”. E per il lavoro? “Abbiamo circa 200 detenuti che fanno lavori domestici, manutenzione ordinaria del fabbricato, curano il verde all’interno del carcere. Oltre a imparare qualcosa acquisiscono le regole, alzarsi la mattina per andare a lavorare, avere cura delle cose affidate, molti non hanno mai avuto contezza di queste cose prima del carcere”. Il ministro della Giustizia Nordio ha annunciato un provvedimento di legge per l’emergenza carceraria che va in tre direzioni: le prime due sono l’espiazione della pena nei Paesi di origine per i detenuti stranieri e per i tossicodipendenti una detenzione nelle comunità, cosa ne pensa? “Per i tossicodipendenti se sono irregolari le comunità hanno difficoltà ad accoglierli. A San Vittore abbiamo quasi metà dei detenuti tossicodipendenti, in questa categoria non si includono però i dipendenti da farmaci, che oggi è un numero elevatissimo. Questi non vengono presi in carico dai SerT e mi chiedo quindi dove andrebbero”. La terza direzione è invece la custodia cautelare per i detenuti in attesa di giudizio può essere una soluzione? “Molte di queste persone che non hanno una dimora, sono irregolari, come potrebbe il giudice applicare una misura diversa? Spesso il carcere è uno strumento quasi obbligato”. Ci sono sempre più episodi di violenza nelle carceri, come avere più sicurezza? “A noi mancano 150 agenti, il lavoro del personale penitenziario non è conosciuto, affrontano situazioni che all’esterno è difficile immaginare, raccolgono tutti i bisogni dei detenuti e devono garantire la sicurezza. La gestione di un numero così elevato di detenuti richiede un numero maggiore di risorse che invece diminuiscono”. Progetti come Regusto possono aiutare il rapporto tra società e mondo carcerario? “Chi pensa che il recupero delle persone che hanno commesso un reato non sia una questione della collettività ha una visione miope, significa restituire alla società una persona diversa, abbassa il rischio di recidiva che vuole dire fare difesa sociale”. I risultati del progetto… Nella prima fase del progetto sono state donate oltre 43 tonnellate di prodotti e arredi per un valore di 135.000 euro e un impatto ambientale positivo quantificabile in 25 tonnellate di CO2 evitata, oltre 83.000 metri cubi di acqua e oltre 127.000 metri quadri di terreno risparmiati. Dei 4.000 beni recuperati la maggior parte riguarda l’arredo, il 53,2% sedie, 14,8% tavoli e 8,4% scrivanie. Bolzano. Il Vescovo: “Affrontare il problema del sovraffollamento, serve un nuovo carcere” di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 12 aprile 2025 Il vescovo Ivo Muser ha celebrato la messa di Pasqua per una cinquantina di detenuti: “Diritto di espiare la pena in condizioni dignitose. “Garantire condizioni dignitose nelle carceri non è una concessione, ma un obbligo”. L’esortazione è del vescovo Ivo Muser che ieri mattina, 10 aprile, nella casa circondariale di via Dante, ha celebrato la messa di Pasqua alla presenza di una cinquantina di detenuti. Tornando a ribadire la necessità di costruire un nuovo carcere: “L’anno santo è l’anno del cambiamento, e cambiare richiede coraggio. Il coraggio di affrontare il problema del sovraffollamento, di migliorare le condizioni di vita in carcere, di investire in percorsi di rieducazione che diano una reale possibilità di riscatto. Non è un problema bolzanino, ma tocca tutto il Paese. E agire è una responsabilità politica e morale, perché anche chi ha sbagliato ha il diritto di espiare la pena in condizioni dignitose”. “Tenere accesa la luce della speranza” - La dignità è stata al centro dell’omelia di Muser, aperta con un riferimento alle parole di papa Francesco, in occasione dell’apertura della porta santa nel carcere di Rebibbia (“il carcere è diventato una basilica”) e di quelle del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso di fine anno (“i detenuti devono poter respirare un’aria diversa che li ha condotti al crimine”). Rivolto ai detenuti, il vescovo li ha esortati ad assumersi le responsabilità per scelte sbagliate, a chiedere perdono”. E un pensiero è andato anche agli operatori che lavorano all’interno del carcere: “Anche a loro bisogna garantire un ambiente di lavoro altrettanto dignitoso”. Muser li ha ringraziati per il loro impegno quotidiano “nel tenere accesa la luce della speranza. Grazie a tutti voi se tentate di rendere umano questo ambiente. È una missione pasquale”. La visita in carcere - Dopo la messa, il vescovo è stato accompagnato dal direttore della casa circondariale, Giovangiuseppe Monti, in una visita all’interno della struttura, dove gli ha mostrato le importanti migliorie apportate con i lavori di ristrutturazione tuttora in corso. Dal rifacimento del tetto, a quello delle facciate esterne e del cortile interno. Sono state rifatte completamente anche le docce, ed entro l’anno si punta a realizzare un nuovo sistema di anti-scavalcamento e anti-intrusione. Tutti lavori portati avanti “a carcere aperto”, ossia con i detenuti all’interno. “Una nuova struttura darebbe maggiore ossigeno - osserva Monti - ma questo non deve far perdere di vista il focus del nostro lavoro, che ci impone di pensare a come migliorare la struttura attuale, e quindi le condizioni di lavoro e di detenzione. Fare questo significa non lasciarsi trasportare da discorsi che non hanno orizzonti temporali brevi”. Roma. Carcere, quando la cultura diventa un laboratorio di speranza e futuro di Amedeo Lomonaco vaticannews.va, 12 aprile 2025 L’incontro “Cultura è vita nei luoghi di detenzione”, promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione e dal Dicastero per la Comunicazione, è stato l’occasione per illustrare progetti, legati al mondo penitenziario, in cui la formazione, l’arte e lo studio riescono a riaccendere la speranza anche in chi è privato di uno dei beni più grandi, la libertà. Intervenuti, tra gli altri, i prefetti dei due Dicasteri il cardinale José Tolentino de Mendonça e Paolo Ruffini. Il carcere non è solo dolore, affollamento, suicidi. La cultura può essere, anche e soprattutto negli istituti penitenziari, uno strumento di emancipazione e di dignità. Un canto libero per crescere e maturare, per “evadere” oltre le sbarre delle celle. È in questa prospettiva che si inserisce l’incontro intitolato Cultura è vita nei luoghi di detenzione, promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione e dal Dicastero per la Comunicazione. All’evento, tenutosi la sera del 10 aprile nella Sala San Pio X, hanno partecipato esperti del mondo accademico, dell’arte, del giornalismo e della cultura. De Mendonça: la cultura è una speranza concreta - L’incontro è stato aperto dal cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. “L’attenzione e la sensibilità alle comunità del carcere sono un dono condiviso da tutti coloro che hanno la responsabilità della gestione di queste realtà e da tante associazioni, istituzioni”. Il carcere può essere il luogo della ricerca “di una umanità più profonda”. Il porporato, nell’intervista concessa a Radio Vaticana - Vatican News ha poi spiegato che “la cultura è una grande opportunità di conoscenza, l’occasione di una speranza concreta che ci arriva in tante forme”. “La cultura è l’arte di mettere insieme un’idea di vita e questo può accadere anche all’interno di un penitenziario. Noi che siamo fuori dal carcere - ha detto il cardinale José Tolentino de Mendonça - siamo chiamati ad assumere una responsabilità sociale e culturale davanti a questi luoghi di detenzione che devono essere anche laboratori di speranza, di futuro”. Ruffini: la cultura è già libertà - Il prefetto del Dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, ha ricordato che l’incontro “Cultura è vita nei luoghi di detenzione” nasce dalla volontà di riannodare “il filo che lega il Giubileo al carcere offrendo la prospettiva del cambiamento, della conversione e la possibilità di un nuovo inizio. Si può connettere il carcere con la libertà, si può connettere il male commesso con un bene futuro; si può riparare, rigenerare e perdonare”. La società spesso “getta la chiave invece di aprire la porta” e questa è la sfida più grande per la cultura: “quella di aprirsi alla speranza anche quando tutto sembra perduto”. Nell’intervista rilasciata a Vatican News - Radio Vaticana il prefetto ha inoltre sottolineato che “la cultura ci fa uscire da qualsiasi recinto in cui ci confiniamo e, quindi, anche da quelle che sono le mura, le sbarre di una prigione”. “Non c’è niente che ci liberi di più della cultura, che ci fa volare al di là di noi stessi verso un incontro con la memoria, con la storia, con la letteratura e con tutto quello che ha fatto cultura nella storia. Credo che questo - ha spiegato il prefetto del Dicastero per la Comunicazione - ci aiuti a recuperare il senso del nostro essere umani. Questo ha a che fare anche con la comunicazione. La cultura ci aiuta a trasfigurare anche ciò che è stato male in bene. Dare spazio alla cultura anche in carcere è una grande sfida: una sfida che ci fa riscoprire la bellezza dell’essere umani, fratelli e sorelle tutti”. “Papa Francesco ha detto come la cultura sia un’anticipazione di libertà. Potremmo dire - ha detto il prefetto Paolo Ruffini - che la cultura è essa stessa già libertà. Rompere i muri dell’indifferenza - Durante l’incontro, moderato dal giornalista Riccardo Iacona, sono stati presentati diversi progetti realizzati all’interno degli istituti penitenziari. Laurie Anderson, artista e compositrice di fama internazionale, ha illustrato il progetto “Dal Vivo”, realizzato per la Fondazione Prada nel 1998 presso il carcere di San Vittore. Un’altra opera dedicata al mondo penitenziario è “Habeas Corpus”, una installazione del 2015 che ritrae un ex-detenuto del carcere di Guantanamo facendo emergere, in varie dimensioni semantiche, la relazione tra prigione, corpo, e immagine. Storie, ha affermato Laurie Anderson, in cui l’arte riesce a rompere i muri dell’indifferenza. Cristiana Perrella, curatrice del nuovo spazio per l’arte contemporanea del Dicastero per la Cultura e l’Educazione “Conciliazione 5”, ha presentato il progetto dell’artista Yan Pei-Ming, dal titolo “Oltre il muro”. Si tratta di un percorso composto da 27 ritratti di chi vive e lavora nel carcere romano di Regina Coeli, il luogo vicino la Basilica di San Pietro dove sembra difficile trovare la speranza. “Ho chiesto all’artista cinese - ha affermato Cristiana Perrella - di fare dei ritratti dei detenuti e delle persone che lavorano in carcere. Abbiamo raccolto le storie delle persone ritratte. L’idea è quella di rendere visibile uno spazio vicino all’area di San Pietro ma che spesso resta invisibile. Vogliamo rendere visibili le persone che vivono oltre il muro”. Una fune a cui aggrapparsi - Il docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Roma UnitelmaSapienza e garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ha centrato la sua riflessione sul fenomeno della “prigionizzazione” e sul ruolo della cultura nel processo di riappropriazione dell’identità da parte delle persone detenute. La cultura - ha affermato - è quella trama della fune della speranza a cui, come ha detto Papa Francesco, “i detenuti devono aggrapparsi per pensare al futuro”. Pisana Posocco e Marta Marchetti, dell’Università Sapienza di Roma, hanno presentato progetti di educazione e di reinserimento sociale per le persone detenute, volti a offrire opportunità culturali, tra cui spettacoli teatrali. Altre iniziative promosse hanno la finalità di rinnovare gli spazi all’interno del carcere. La cultura cura l’anima - Le sfide legate al lavoro e alla promozione della cultura negli istituti penitenziari sono spesso al centro delle iniziative destinate ai detenuti. Marcello Smarrelli, direttore artistico della Fondazione Pastificio Cerere, ha illustrato una iniziativa, in collaborazione con la Fondazione Severino e il Ministero della Giustizia, promossa all’interno della casa circondariale femminile di Rebibbia “Germana Stefanini”. In questi spazi sono stati avviati, in particolare, laboratori di disegno per dare alle detenute “la possibilità di esprimere le loro emozioni con immagini visive”. Un ulteriore progetto in un istituto penitenziario, che prende vita dal Padiglione della Santa Sede a Venezia per la passata Biennale Arte 2024, è stato presentato da Rosa Galantino, autrice e produttrice del documentario “Le Farfalle della Giudecca”. “Abbiamo documentato gli effetti che l’esperienza della Biennale ha avuto sulle detenute e sugli agenti di polizia penitenziaria. Una detenuta ad esempio, spinta proprio da questa esperienza, ha deciso di intraprendere gli studi universitari”. “Ricordiamoci - ha detto Rosa Galantino a Vatican News - Radio Vaticana - che ci sono purtroppo tanti detenuti, se non addirittura analfabeti, che non conoscono la lingua italiana perché sono stranieri. Queste piccole scuole in carcere diventano dei luoghi dove queste persone possono riuscire, attraverso la cultura, lo studio, la poesia, l’espressione poetica, a dare un alleggerimento al loro carico esistenziale”. Storie di fallimenti e riscatto - La giornalista di Presadiretta (Rai 3), Teresa Paoli, si è soffermata sul progetto “Tra arte e mestieri”, che offre ai giovani detenuti dell’istituto penale minorile di Nisida l’opportunità di riscoprire sé stessi attraverso laboratori e corsi pratici, dai mestieri manuali alla musica. Le cose che fanno la differenza per i ragazzi detenuti “sono la relazione con l’altro e avere un progetto individuale”. Roberta Barbi, giornalista di Radio Vaticana - Vatican News ha ripercorso alcune storie emerse nel corso del programma radiofonico “I Cellanti”, dedicato ai “compagni di cella”, alla pastorale carceraria e alle storie di vita all’interno degli istituti penitenziari. “Un programma che nasce alla richiesta di Papa Francesco di essere abbattitori di muri e costruttori di ponti. Sono voci rappresentative di tutta la popolazione carceraria”. La cultura attinge dalle sue radici, dalla mitologia, dall’epica. Tommaso Spazzini Villa ha presentato “2024Autoritratti”, un progetto di arte partecipativa che coinvolge detenuti in tutta Italia, permettendo loro di esprimersi sugli scritti di Omero. “L’idea è stata quella di portare una pagina dell’Odissea ad ogni detenuto: ho incontrato 361 detenuti - 361, esattamente quante sono le pagine dell’Odissea - e ad ognuno ho chiesto di sottolineare dei termini per formare una frase”. Le parole scelte hanno disegnato un tracciato con paure, errori, fatiche, speranze, frammenti di vita. Scegliendo tra i vocaboli nell’ultima pagina dell’Odissea la frase composta da un detenuto è un abbraccio alla vita: “Senza più spavento il futuro aspetto”. Firenze. “La speranza adesso è vivere una vita normale” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 12 aprile 2025 Gli errori fatti e le speranze nelle lettere dei carcerati dall’inferno di Sollicciano. A Firenze la lettura del cappellano al termine della processione. “Vorrei tornare a fare passeggiate coi miei figli”. “Tutti questi anni di prigione mi hanno fatto capire l’immenso errore, quanta parte della mia vita avevo sciupato, quanto dolore avevo inferto”. Le lettere dei detenuti dall’inferno del carcere di Sollicciano a Firenze riecheggiano lungo la Via Crucis dei giovani. Parole dove i reclusi raccontano le loro sofferenze, i loro errori, le loro speranze. Tra loro c’è un signore siciliano. La sua lettera inizia così: “Sono un detenuto ed ho scontato fino ad oggi oltre 30 anni di carcere per reati di mafia. Sono nato in Sicilia, una terra meravigliosa, che amo profondamente ma che purtroppo è stata ferita più volte anche a causa mia da questa maledetta mafia. Da giovane, a causa di cattive compagnie, senza voler per questo attenuare le mie responsabilità, ho creduto che la mafia fosse la speranza di una vita migliore. Ma man mano che crescevo mi rendevo conto che in realtà era tutto un bluff, una terribile falsità nella quale ero caduto e dalla quale era difficile uscire. La mafia professava valori di lealtà, onore, fede in Dio e nei santi, quando invece l’unico scopo, che passa sopra ogni cosa, anche alla vita umana, è quello che chiamano lo sterco del demonio: il denaro unito al potere”. Lui aveva creduto in tutto questo, ma “l’unico risultato è stato sofferenza per me e per chi mi stava intorno”. Poi la lettera continua: “Dopo 12 anni di detenzione, anche al 41bis, ho deciso di collaborare con la giustizia, perché volevo dare un taglio definitivo a quella vita/non vita. È stato un passo molto difficile, sia perché diventavo ufficialmente un traditore, un infame per i miei vecchi compagni, sia per la paura di possibili ritorsioni verso la mia famiglia, ma troppo forte era diventata l’esperienza di chiudere con quel passato, prendere le distanze da quei non valori in cui avevo creduto fino a quel momento”. Il detenuto si chiede cosa sia adesso la speranza. “La speranza per me, adesso, è vivere una vita normale: amare una donna senza aver paura di dormire a casa col rischio di essere ammazzato, amare i miei figli senza aver paura che possano essere vittime di ritorsioni, fare un lavoro onesto, avere degli amici e divertirmi con loro, fare delle passeggiate, fare tutto ciò che in questi anni non ho potuto fare”. Poi si rivolge ai giovani: “Mi piacerebbe, ora, poter parlare a tutti quei giovani che credono nella mafia come speranza. Vorrei dirgli: scappate, quello che state vivendo vi porterà solo in due direzioni: la morte o la prigione. Distruggerete la vostra vita e quella dei vostri familiari”. La fede lo sostiene nei momenti di sconforto: “Credere in Dio mi aiuta nei tanti momenti di disperazione, la fede mi dà speranza che la vita che ho davanti possa essere diversa e fondata sull’amore invece che sull’odio”. Ed è proprio la fede un filo rosso che lega le storie e le lettere di molti detenuti di Sollicciano. “Il Signore lo sento vicino quando vengono i volontari che destinano parte del loro tempo per ascoltare e starci vicino - racconta un altro recluso del penitenziario fiorentino - Lo troviamo nella messa, nel catechismo, nella preghiera. Anche le associazioni laiche ci fanno sentire il Signore vicino attraverso la loro vicinanza. E il Signore si fa compagno attraverso l’amicizia rafforzando la speranza di un domani migliore. Quando ci sono momenti bui spero e prego. Il Signore lo sento vicino tutti i giorni perché mi dà tranquillità, anche quando sono nervoso penso al Signore e mi rilasso”. Ci sono lettere, scritte per la Via Crucis di venerdì 11 aprile che arrivano anche dalla sezione femminile del carcere. “Quando nella mia vita c’è un periodo in cui sto male - racconta una detenuta - il Signore trova il modo di farmi stare meglio. Ad esempio, io mi drogavo e in fondo il Signore ha trovato la strada di farmi smettere anche andando in carcere. Ho trovato anche l’amore”. Verona. Giustizia riparativa, seguiti oltre 60 minori autori di reato L’Arena, 12 aprile 2025 “Non vanno esclusi ma responsabilizzati”. Giovedì 17 aprile il convegno nazionale con la presentazione dei risultati del progetto che ha visto il Comune di Verona a guida delle 8 città italiane coinvolte. Ragazzi autori di reato, esiste un percorso che aiuta a ricostruirsi allontanandosi dalla devianza. La giustizia può anche riparare non solo punire. Si chiude a Verona, il 17 aprile al Palazzo della Gran Guardia, il progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto” con un convegno in cui saranno presentati i risultati ottenuti ed una riflessione sulla condizione giovanile. L’iniziativa ha permesso di sperimentare l’approccio del paradigma riparativo per prevenire la criminalità minorile, responsabilizzare i minorenni autori di reato, attivare le comunità locali per recuperare e far ripartire i ragazzi coinvolti nel circuito penale. Se si vogliono ridurre i reati e gli atti devianti commessi dai minorenni è necessario che l’intera comunità si attivi con azioni preventive e precoci. È questo il messaggio che i promotori di “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”, progetto selezionato da Impresa Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, che ha visto il Comune di Verona in qualità di Ente partner, hanno voluto sviluppare nelle diverse attività realizzate. L’iniziativa è frutto della consolidata collaborazione nel campo della giustizia riparativa tra la Fondazione Don Calabria per il Sociale, capofila del progetto, e il Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti (CNCA) e ha coinvolto come partner altri 57 soggetti pubblici e del terzo settore attivi in otto province italiane (Milano, Brescia, Cremona, Verona, Vicenza, Venezia, Treviso, Trento). “Il convegno nazionale di giovedì prossimo sarà l’occasione per restituire i risultati raggiunti di un progetto caratterizzato da interventi ad personam, ovvero realizzati in base alla storia e alle diverse necessità di ogni ragazzo - ha spiegato l’assessora alle Politiche sociali e Terzo settore Luisa Ceni-. Ricordiamoci che stiamo parlando di ragazzi che vivono situazioni di povertà educativa e di fragilità, questo progetto li rimette al centro delle loro vite, curando le fratture procurate dei reati che hanno commesso”. “Un progetto innovativo che trova la sua forza nella capacità degli enti coinvolti di unire le forze per accompagnare i ragazzi nel loro percorso di cambiamento- ha aggiunto Marilena Sinigaglia del Centro per la Giustizia Minorile di Venezia-. Emerge la necessità di una presa in carico precoce dei minori al momento del loro ingresso nel circuito penale, una presa in carico integrata con i servizi sociali territoriali e specialistici, valorizzando il ruolo proattivo del terzo settore per promuovere interventi flessibili e tempestivi”. “Sono state coinvolte otto province distribuite tra le regioni Veneto, Lombardia e Trentino, a Verona presi in carico 64 ragazzi veronesi, realizzando 350 attività di vario tipo, dal tempo libero al recupero scolastico e lavorativo - ha spiegato il responsabile Fondazione don Calabria per il Sociale ETS di Verona Silvio Masin-. Tante le associazioni che hanno partecipato, un progetto quindi rilevante anche per l’impatto sociale sul territorio”. I beneficiari del progetto - Alcuni dati generali: beneficiari del progetto sono stati, prima di tutto, 536 ragazzi provenienti dal circuito penale (oltre il 98%), che hanno commesso un reato. L’80% di essi è nato in Italia (ma solo il 70% ha la cittadinanza italiana), mentre il restante 20% proviene da altri Paesi. L’87% di questi ragazzi sono stati bocciati almeno una volta e la metà almeno due volte. Più del 50% di loro non segue alcun percorso di istruzione, mentre circa il 20% frequenta un percorso triennale o quadriennale di formazione professionale. Il 43% presenta disturbi psichici, disturbi evolutivi specifici e/o bisogni educativi speciali e/o svantaggi culturali, sociali, linguistici e il 29% dipendenze patologiche, quasi sempre da sostanze. Più della metà di questi beneficiari (58%) al momento dell’ingresso nel progetto non era in carico ad alcun servizio specifico. Circa tre quarti di loro erano sottoposti a una misura penale al momento della presa in carico (per il 75% la messa alla prova). Per questi ragazzi il progetto ha attivato diverse tipologie di attività: potenziamento delle competenze di base (supporto scolastico…), potenziamento delle life skills (attività sportive, attività artistico ricreative, produzione audiovisivi…), potenziamento delle competenze professionali (formazione professionale…), attività di tempo libero, coinvolgimento in attività di volontariato o di impegno sociale, supporto psicologico e sociale, orientamento scolastico e professionale, rafforzamento dei legami familiari e sociali, interventi di giustizia riparativa (incontro tra reo e vittima…). Tra Zenit e Nadir ha,però, attivato anche numerose iniziative di prevenzione rivolte ad adolescenti, in particolare nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado, per ragionare con loro sui temi della giustizia, della riparazione, dei reati. Nel complesso sono stati 4.096 (di cui il 73% italiani e il 27% stranieri) i ragazzi raggiunti dal progetto. 557 (di cui l’85% italiani e il 15% stranieri) sono invece i genitori che hanno usufruito delle attività del progetto e 1.055 gli insegnanti e gli operatori coinvolti. Sono stati attivati 120 laboratori: 77 per i minorenni, 17 per i genitori, 26 per docenti e operatori. Le attività svolte a Verona - Per il territorio del Comune di Verona i dati riportano che il progetto ha preso in carico 64 minori e giovani autori di reato. Si sono realizzate più di 350 attività, nell’ottica della “sartorialità” individuale del loro percorso riparativo e di riscatto sociale, coinvolgendo più di 40 associazioni o enti territoriali con l’obiettivo di costituire quella comunità educante che favorisca la prevenzione e la riparazione dei reati e degli atti devianti, ed in grado di responsabilizzare, sostenere ed includere nella comunità i ragazzi autori di reato invece di escluderli. ll progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto” si è posto l’obiettivo di promuovere e facilitare l’adozione del paradigma della giustizia riparativa come prassi metodologica per l’approccio ai minorenni coinvolti in procedimenti penali e alle loro famiglie. L’obiettivo principale del progetto è stato quello di ridurre nel tempo il rischio di recidiva tra i minorenni autori di reato che sono sotto l’attenzione degli USSM. Il modello di intervento si è basato sulla relazione tra l’autore del reato, la vittima e la comunità locale di appartenenza, considerando il reato come una rottura di questa relazione e interpretando l’azione riparativa come un’opportunità per ricostruire un senso di appartenenza reciproca. Con “Cemento” Claudio Persico ha raccontato l’umanità e la violenza del carcere di Andrea Aversa L’Unità, 12 aprile 2025 Un giovane con problemi di salute e che ha commesso degli errori, ha narrato l’inferno vissuto a Poggioreale. Ma ha anche descritto i sentimenti e le emozioni che possono caratterizzare la comunità penitenziaria e la convivenza tra i detenuti. Lo scopo è quello di affermare che così com’è la pena non serve, perché finalizzata soltanto alla punizione e non al recupero delle persone Dalla tradizione di fare il letto ai nuovi arrivati, al guinzaglio per portare i detenuti in Tribunale. Da Zio Mimì al povero Martino, in cella nonostante non abbia le gambe, fino a Salvatore. Quest’ultimo obeso, vittima di un ictus, di un infarto e di problemi alla vista, eppure costretto a stare dietro le sbarre. Il buon caffè e il servizio ‘Freccia rossa’ che garantisce una corrispondenza rapida tra i reclusi e le loro famiglie. Il tempo infinito e trascorso a giocare a carte. La necessità di avere soldi per fare la spesa. I colloqui con i genitori, vittime anche loro di un sistema che punisce e non rieduca. Madri e padri in fila per ore, dalla notte, per trascorrere più o meno un’oretta insieme al proprio figlio. E lui che vede nei loro occhi la tristezza e la rabbia. C’è tutto questo e molto altro nelle 60 pagine di “Cemento” libro scritto da Claudio Persico, giovane che si è trovato a vivere un mese all’interno del carcere di Poggioreale a Napoli. Un libro dalla scrittura semplice e scorrevole, pubblicato da Olisterno Editore, con l’introduzione del professor Annibale Elia. Un sistema che punisce e uccide la speranza nel futuro - In Cemento l’autore ha raccontato la violenza del carcere e di come l’attuale sistema penitenziario sia fallimentare. Un sistema che ha trasformato le strutture detentive in discariche sociali, dove si è puniti ma non rieducati, come invece predica la Costituzione. Ma tra celle sovraffollate, sanità che non funziona, attività rieducative che scarseggiano, anziani, persone con problemi mentali e di tossicodipendenza, Persico ha saputo descrivere e far emergere l’umanità e la solidarietà che si genera tra i detenuti. Migranti. I diritti negati e l’argine giudiziario di Matteo Losana Il Manifesto, 12 aprile 2025 La giustizia, come scritto in tutte le aule giudiziarie, dovrebbe essere uguale per tutti. Ma in alcuni frangenti agli ultimi - proprio coloro che ne avrebbero più bisogno - la giustizia è garantita attraverso procedimenti speciali, difficilmente compatibili con i principi costituzionali che disciplinano la magistratura e sanciscono il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale. È ciò che accade proprio con riferimento ai procedimenti riservati ai migranti e richiedenti asilo, spesso incentrati su presunzioni (come quella della provenienza da Paesi di origine sicura) e sul contingentamento dei tempi processuali che rendono particolarmente difficile far valere in giudizio le proprie ragioni. Anche quando si tratterebbe di buone, se non ottime, ragioni. Insomma, quella che colpisce i migranti è spesso una discriminazione al quadrato: fuori e dentro il processo. Proprio nei giorni in cui il nostro governo avanza spedito verso la riconversione dei centri albanesi e il loro primo utilizzo, è bene ricordare due vicende giudiziarie che - ancora una volta - riconoscono anche ai migranti il diritto fondamentale a una tutela giurisdizionale effettiva. La prima vicenda è rappresentata dal giudizio - attualmente in corso dinnanzi alla Corte di giustizia europea - per l’interpretazione della definizione di Paesi di origine sicuri stabilita dal diritto dell’Unione e applicata dai nostri giudici. Nell’ambito di quel giudizio, l’Avvocato generale della Corte di giustizia ha appena formulato le sue conclusioni che rappresentano un indirizzo - seppur non vincolante - per la futura decisione della Corte. Al di là della questione interpretativa (se quella definizione tolleri o meno eccezioni territoriale e personali), l’aspetto rilevante in questa sede è che le conclusioni hanno ribadito esplicitamente che gli Stati non possono sterilizzare del tutto il controllo giurisdizionale sui presupposti della domanda, neanche tramite un atto legislativo. Anche i migranti - ecco il punto - hanno diritto a un giudice e la politica non può certo negarglielo. La seconda vicenda è invece rappresentata dalla recentissima sentenza numero 39 del 2025 della nostra Corte costituzionale. Una sentenza apparentemente tecnica e per addetti ai lavori, ma che ribadisce l’importanza dei principi costituzionali in materia processuale. Il decreto flussi, tra le altre cose, aveva modificato la disciplina del processo in Cassazione sulla convalida del trattenimento dello straniero espulso o richiedente la protezione internazionale, estendendo a questo giudizio il procedimento già previsto in materia di mandato d’arresto europeo consensuale (un procedimento speciale, contingentato nei tempi e che non prevede, tra l’altro, l’intervento dei difensori). Se giustificabile per il mandato d’arresto europeo consensuale, questo procedimento è stato invece ritenuto illegittimo per quanto concerne il trattenimento degli stranieri: si tratta infatti di un modello processuale - osserva la Corte - che “sconfina nella manifesta irragionevolezza”, risultando così “inidoneo ad assicurare il confronto dialettico tra le parti”. Anche i migranti - ecco il punto - hanno diritto a un “giusto processo” e la politica non può certo sottrarglielo. Migranti. Se la propaganda del Governo cancella i nostri valori di Giorgia Linardi* La Stampa, 12 aprile 2025 Ammanettati con fascette ai polsi. Trattati come rifiuti pericolosi per mostrare il pugno duro, ma verso chi? Le persone deportate in Albania sono un nemico costruito ad arte per legittimare un approccio securitario sempre più sfacciatamente violento, sulla pelle di chi dovremmo invece proteggere. Il Governo emula i video social della Casa Bianca sulle deportazioni in catene dagli Usa, in un vortice di globalizzazione della cattiveria in cui gli Stati ricorrono alla forza come mezzo di controllo e affermazione di potere, ostentando disumanizzazione a scopo propagandistico. Quelle fascette ai polsi servono a far credere che le quaranta persone trasportate in Albania siano pericolosi criminali da allontanare dal territorio italiano, un Paese che i veri criminali li riaccompagna a casa con volo di Stato come il torturatore e aguzzino Almasry, arrestato su mandato della Corte penale Internazionale con dieci capi d’accusa tra crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma immediatamente liberato per non intaccare gli accordi con la Libia. Così, ad essere deportati in manette di plastica, trattati come pacchi postali di un baraccone itinerante, sono persone che in gran parte non hanno commesso alcun reato se non quello di essere arrivate in Italia in cerca di un futuro. Persone trattenute in detenzione amministrativa, come automobili sottoposte a fermo, che in Italia erano rinchiuse in quelle strutture infernali chiamate Cpr - i centri per il rimpatrio. Un limbo in cui le persone, perlopiù selezionate per profilazione razziale e Paese di origine, restano intrappolate per mesi senza sapere cosa ne sarà di loro. Solo il 10% dei provvedimenti di espulsione, infatti, si traduce in un rimpatrio, poiché l’Italia non ha sufficienti accordi bilaterali con i Paesi d’origine. I deportati in Albania erano rinchiusi nelle gabbie dei Cpr siciliani in condizioni disumane, soggetti a violenza poliziesca e imbottiti di psicofarmaci per non ribellarsi. D’altronde, con il nuovo disegno repressivo del Governo, rappresentato dal decreto sicurezza approvato la scorsa settimana, anche rivoltarsi contro il calpestamento dei propri diritti può costare fino a 8 anni di carcere. Alcuni di questi ragazzi arrivano dal Cpr di Trapani, dove nelle ultime settimane si sono registrati episodi di estrema violenza tra cui pestaggi di cui abbiamo ascoltato le grida disperate in video trasmessi alle reti di società civile di supporto, privi di immagini poiché gli agenti hanno spaccato la videocamera dei pochi telefoni all’interno della struttura. In questi luoghi è comune sentire storie di giovani ragazzi disperati che “fanno la corda” - cercano di impiccarsi- o ingoiano rasoi e forchette dalla disperazione e vengono per questo sedati oltre misura. I centri in Albania sono stati finora un fallimento imbarazzante. Tutti i trattenimenti per ora effettuati non sono stati convalidati dai tribunali competenti. Ed ecco che il Governo decide di estendervi il crudele sistema dei Cpr, pur di dare un senso alle centinaia di milioni di euro investiti nel progetto e fare ancora una volta da faro di disumanità per l’Ue, che intende esportare il modello Albania su scala europea. Finché continueremo a definirci e considerarci un popolo civile e democratico non possiamo permetterci di abituarci a questa violenza, di assuefarci alla propaganda sulla pelle delle persone che dovremmo proteggere, rinunciando ai nostri valori. Quanto ancora siamo disposti a sopportare in termini di sconti alla tutela dei diritti fondamentali della persona? D’altronde la premier Meloni lo aveva promesso: “I centri in Albania funzioneranno!” - letteralmente al costo della dignità del nostro Paese. *Portavoce Sea Watch Migranti. Come squarciare il velo di opacità sui centri in Albania di Vitalba Azzollini* Il Domani, 12 aprile 2025 Circa un anno fa, parlando del velo di opacità che avvolge le politiche nazionali in tema di immigrazione, avevamo preannunciato che esso sarebbe calato pure sui centri in Albania. E così è stato. Come spiegato su queste pagine da Nello Trocchia, il direttore della struttura di Gjader ha respinto un’istanza di accesso agli atti presentata da Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, e la decisione è stata confermata in sede di riesame dal ministero della Giustizia. De Fazio aveva richiesto, in particolare, “copia del regolamento per la disciplina del sistema di videosorveglianza (…) presso la struttura penitenziaria di Gjader”, la data della sua emanazione e “copia del provvedimento con cui sono stati nominati il responsabile e gli incaricati del trattamento”. Nell’atto di diniego si dice che, secondo il Regolamento del ministero sui casi di esclusione del diritto di accesso, non può esservi trasparenza sui “programmi per la collaborazione internazionale in materia penitenziaria e di giustizia, quando la loro conoscenza può arrecare un pregiudizio concreto ed effettivo alla sicurezza, alla difesa nazionale e alle relazioni internazionali”. È necessario chiarire, perché qualcosa non torna. Il regolamento del sistema di videosorveglianza serve a stabilire le modalità e i limiti per l’uso delle relative telecamere. Esso usualmente include, tra l’altro, le finalità del sistema, le aree soggette a sorveglianza, i tempi di conservazione delle immagini, i soggetti autorizzati alla loro visione e gestione, le misure adottate per proteggere i dati raccolti, in conformità alla normativa in tema di privacy. Una disciplina specifica (d.lgs. 51/2018) è applicabile alla protezione dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali. Lo stato di detenzione non comporta, infatti, la compressione del diritto alla tutela dei dati delle persone recluse. L’accesso civico sul sistema di videosorveglianza dei centri in Albania, come detto, è stato negato con la motivazione che il relativo protocollo rientrerebbe nell’ambito dei programmi per la collaborazione internazionale in materia penitenziaria e di giustizia, riguardo ai quali via Arenula esclude la trasparenza. Innanzitutto, i programmi cui il regolamento si riferisce sono, di norma, inerenti all’esecuzione della pena, a forme di criminalità internazionale o ad altri profili che richiedono collaborazione fra stati, come si evince dalle schede di programmazione operativa annuale per il 2025 del ministero della Giustizia. Nelle schede non si fa cenno al protocollo Italia-Albania. È vero che tra i due paesi nel 2024 è stata definita un’intesa per la cooperazione, tra l’altro, in materia giudiziaria e penitenziaria, ma il protocollo non è contemplato. Peraltro, il Regolamento del ministero prevede il rifiuto dell’accesso agli atti “quando la loro conoscenza può arrecare un pregiudizio concreto ed effettivo alla sicurezza, alla difesa nazionale e alle relazioni internazionali”. Dunque, non c’è alcun automatismo nel diniego, ma dev’esserci un danno. E ci si chiede quale danno possa derivare dalla conoscenza pubblica, ad esempio, delle finalità della videosorveglianza, dei tempi di conservazione delle immagini o della normativa applicabile, considerato che quest’ultima è, in particolare, quella del regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) e del codice della Privacy, oltre alla disciplina più specifica sopra menzionata. Infatti, il centro di Gjader, pur essendo in territorio albanese, è sottoposto alle leggi italiane. Precludere la conoscenza del regolamento sulla videosorveglianza significa impedire l’accertamento che esso rispetti la richiamata normativa in tema di privacy, nonché la regolamentazione giuslavoristica, riguardante anche chi è impiegato nei luoghi controllati da telecamere. Infine, se pure il ministero della Giustizia avesse voluto mantenere il “segreto” su qualche informazione, avrebbe potuto concedere un accesso parziale, oscurando le parti da tutelare, come previsto dalla legge (d.lgs. 33/2013), anziché negare l’accesso in toto. Ora Uilpa potrebbe ricorrere al Tar per vedere riconosciuto il proprio diritto alla conoscenza. Se è vero che la normativa vigente ha sancito il principio che “la regola generale è la trasparenza mentre la riservatezza e il segreto eccezioni”, in tema di immigrazione pare che valga l’opposto. E forse non è un caso. *Giurista Migranti. Albania, l’ultima parola spetterà ancora alla magistratura di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 aprile 2025 La scena del crimine Le garanzie non si aggirano. È sempre possibile chiedere il riesame immediato del trattenimento. Questa volta sulla detenzione in Albania non dovrà esprimersi nessun giudice. O almeno così spera il governo che ci ha fatto un decreto apposta. Nonostante tanti sforzi, però, i migranti potrebbero comunque invocare il controllo giurisdizionale. In diversi modi. I primi tre round di trasferimenti hanno coinvolto richiedenti asilo mai entrati in Italia. Per questo sono stati portati a Gjader e rinchiusi nel centro di trattenimento, la prima delle tre strutture dell’ex area militare (seguono Cpr e penitenziario). Tra quelle mura avevano atteso che le toghe capitoline, prima del tribunale civile e poi della corte d’appello, decidessero sulla richiesta di convalida della detenzione avanzata dal questore di Roma. L’articolo 13 della Costituzione prevede un termine massimo di 48 ore. Come noto, tutte e tre le volte è stata ordinata la liberazione dei cittadini stranieri. I 40 SBARCATI ieri dalla nave Libra, nella prima deportazione dal territorio nazionale, sono stati invece portati nel Cpr di Gjader, simile all’altro centro ma dotato di protezioni rinforzate e sbarre a ogni porta e finestra dei moduli abitativi in formato container. In questo caso, infatti, non si tratta di richiedenti asilo ma di migranti “irregolari”, destinatari di un provvedimento di espulsione e provenienti da un’analoga struttura in Italia dove erano già trattenuti in seguito alla convalida decisa da un giudice di pace. Il decreto con cui il 28 marzo scorso l’esecutivo ha esteso l’uso dei centri in Albania agli stranieri “irregolari” è intervenuto specificamente su due norme, il testo unico immigrazione e la legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana, proprio per scongiurare che sull’attraversamento dell’Adriatico intervenga la magistratura. Cosa che però avverrebbe se il cittadino straniero chiedesse il riesame immediato del trattenimento. “Una sentenza della Corte di giustizia europea afferma che la direttiva procedure rende sempre possibile presentare questa domanda”, afferma l’avvocato Salvatore Fachile. Va indirizzata al giudice competente, che non ha una scadenza perentoria entro cui rispondere ma deve farlo in modo “tempestivo”. In genere i giudici di pace ci mettono una o due settimane. La richiesta può essere giustificata dalla comparsa di nuovi elementi: per esempio che il luogo di detenzione “potrebbe non essere idoneo a garantire diritto di difesa o all’unità familiare”, continua Fachile. Un altro caso in cui dovrà intervenire la magistratura, nello specifico la corte d’appello della capitale, è quando un trattenuto chiederà asilo. Cosa che il cittadino straniero può fare in qualsiasi momento, anche dopo aver ricevuto un diniego. Tecnicamente si chiamano “domande reiterate” e possono essere avanzate anche in fase di espulsione. “Il protocollo parla di “procedure di frontiera o rimpatrio”. Dalla pur discutibile interpretazione che ne ha proposto il governo resta comunque fuori il caso di un richiedente asilo sottoposto a procedure accelerate ma non di frontiera, come quelle per chi chiede asilo in detenzione”, spiega Fachile. Se i giudici condividessero questa interpretazione i migranti da riportare nei Cpr in Italia potrebbero essere parecchi. Nel caso in cui fosse impedito di chiedere asilo o anche se i giudici di pace, che non sono magistrati ordinari, risultassero avulsi da alcune delle complicate questioni giuridiche che si porranno, i migranti potrebbero anche rivolgersi con procedura d’urgenza direttamente al tribunale civile. Questo, secondo una recente sentenza capitolina, è sempre e comunque il garante dei diritti fondamentali della persona straniera. Dulcis in fundo: non è detto che la pretesa del governo di evitare il controllo giurisdizionale sia legittima. “Siamo convinti che il trasferimento debba essere motivato - afferma Fachile - Chiederemo di produrre l’atto di trasferimento con le ragioni che lo giustificano. Se riteniamo che non siano adeguate lo impugneremo. In caso non ci sia seguiremo altre strade di azione legale”. Amoroso: “Migranti, lo scontro tra toghe e politica si risolve con la legge” di Andrea Carugati Il Manifesto, 12 aprile 2025 Il presidente della Corte costituzionale: “Legittimo criticare i giudici, no agli attacchi personali”. “Lo stop al terzo mandato vale per tutte le regioni a statuto ordinario”. E ribadisce i paletti al governo sui decreti: “Serve omogeneità”. Lo scorso anno 212 pronunce della Consulta e 94 dichiarazioni di incostituzionalità. “Il controllo sulle leggi funziona”. Dal fine-vita all’affettività in carcere, dai rapporti tra Stato e regioni al limite dei mandati elettivi, dalle norme sui licenziamenti all’abitazione come “diritto inviolabile” fino alle tutele per i conviventi di fatto anche nelle imprese familiari. La relazione sull’attività delle Corte costituzionale nel 2024, presentata ieri dal presidente Giovanni Amoroso davanti al Capo dello Stato, ai presidenti delle Camere e al Guardasigilli Nordio, è un lungo elenco di interventi con cui i giudici hanno rimodellato e corretto la legislazione italiana e fatto da arbitro ai conflitti tra poteri: 212 pronunce lo scorso anno, di cui 94 di illegittimità costituzionale, “percentuale vicina al 50% e molto più alta rispetto ai decenni precedenti”, ha spiegato Amoroso alla stampa. Segno di un ruolo molto attivo nel sindacato delle leggi, ma mai intrusivo. “Il riconoscimento di nuovi diritti spetta al Parlamento e anche la loro estensione”, ha precisato, spiegando che anche i ripetuti moniti della Corte non sono mai finalizzati a svolgere un ruolo di supplenza, ma solo a stimolare il legislatore. Come è avvenuto nel 2024 con il diritto alle visite coniugali per i detenuti. Ora che il diritto è stato riconosciuto, spetterà al Parlamento con gradualità renderlo effettivo. Interpellato dai cronisti sui numerosi conflitti tra politica e giustizia, come il caso dei Cpr in Albania, il presidente ha spiegato che la legge contiene già tutti gli strumenti per dirimerli, compreso il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla stessa Consulta. Insomma, “il sistema contiene gli antidoti per ogni possibile tracimazione” di uno dei poteri. E se “il governo dei giudici non è auspicabile, un governo senza giudici sarebbe senza dubbio preoccupante”. Nel caso dei migranti trasferiti in Albania, “abbiamo visto giudici che hanno preso strade diverse: c’è chi ha ritenuto ci fosse una violazione delle norme europee e non ha applicato la norma interna in ragione del principio della preminenza delle norme europee, chi invece ha interrogato la Corte di giustizia Ue; un altro giudice si è rivolto alla Cassazione; la Cassazione ha investito la Corte costituzionale”. Questo, ha osservato Amoroso, “è conseguenza dalla complessità del sistema: soprattutto quando è multilivello, cioè ordinamento nazionale e sovranazionale. Governare la complessità non è facile ma gli strumenti ci sono: gli strumenti di garanzia, quelli ordinari e quelli straordinari come il coinvolgimento della Corte”. E se criticare le decisioni dei giudici, anche “in modo aspro” è sempre legittimo, diverso è il caso di “attacchi personali” ai singoli magistrati, “perché così si finisce nel terreno scivoloso della delegittimazione della magistratura”. Il presidente non ha voluto pronunciarsi su provvedimenti in corso di approvazione, come il decreto sicurezza o le norme sull’elezione dei sindaci (la destra vuole abolire i ballottaggi). Però ha ribaditi i paletti cari alla giurisprudenza della Consulta: i criteri di urgenza e “omogeneità” per i decreti, che sono a rischio bocciatura nel caso in cui diventino spezzatini di norme diverse; e il principio della “parità di voto” che deve contemperarsi con “l’esigenza di governabilità” nel caso delle norme elettorali. Amoroso ha ricordato la doppia bocciatura di leggi elettorali nazionali, Porcellum e Italicum in relazione alle soglie per il premio di maggioranza. E, riferendosi al 40% che la destra vorrebbe fissare come soglia per la vittoria di un sindaco al primo turno, ha detto: “Abbassando la percentuale il principio della parità di voto va in sofferenza. Vedremo quale sarà la norma e poi ci ragioneremo”. Più esplicito il riferimento alla recentissima pronuncia che ha bocciato la richiesta del governatore della Campania di correre per il terzo mandato. Altro che sentenza ad hoc per il caso specifico della Campania. “La Corte si è preoccupata di affrontare il tema in termini generali per ricostruire l’assetto di sistema, in modo da affermare un principio che valga per tutte le Regioni a statuto ordinario”. Diverso il caso di quelle a statuto speciale, “di cui non ci siamo occupati” e che “hanno competenza primaria” in materia elettorale. Amoroso ha poi citato la recente sentenza che consente anche ai single di adottare minori stranieri. E per i bambini italiani? “Il tema è sullo fondo”, ha risposto, “certamente la sentenza 33 del 2025 crea un precedente”. All’inizio della sua relazione, il presidente ha ricordato come anche “in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, con vari parametri globali in rapido e imprevedibile mutamento”, lo stato di diritto costituisce ancora un “saldo ancoraggio del vivere insieme”. Del patto fondativo della società il controllo di costituzionalità delle leggi è “componente essenziale” E il suo “normale esercizio costituisce fattore di stabilità e di garanzia dell’ordinamento”. E presidio del bilanciamento dei poteri. Migranti. Prima respinti poi deportati in Tunisia: l’inferno degli ultimi di Don Mattia Ferrari* La Stampa, 12 aprile 2025 Mentre si avvicina la festa di Pasqua, c’è un’immagine molto importante per i cristiani e per tutti coloro che, laici o di altre religioni, partecipano in vario modo ai misteri pasquali: l’Orto degli Ulivi, dove Gesù vive la sua Passione, prima di essere processato dal potere religioso e politico, colpevole di essere portatore di un amore che sovverte in nome della fraternità universale le logiche di potere e di dominio. Anche oggi c’è un orto degli ulivi dove coloro che Gesù di Nazareth ha indicato come suoi fratelli e sorelle più piccoli subiscono una passione: è l’uliveto nei pressi di Sfax, nel Sud della Tunisia. Nella zona di Sfax vengono riportati indietro molti migranti catturati in mare dalla Garde Nationale tunisina sulla base degli accordi siglati con l’Unione Europea, su spinta dell’Italia. Molti migranti contestualmente al respingimento vengono caricati sui bus e deportati al confine con l’Algeria, dove vengono poi abbandonati nel deserto. In questi mesi abbiamo ricevuto molte segnalazioni e telefonate da loro e dai loro amici e la gran parte di loro risulta ad oggi dispersa. Nell’area nei pressi di Sfax si trova un uliveto, una sorta di nuovo orto degli ulivi, dove sono accampati molti migranti subsahariani (le autorità tunisine parlano di 20 mila), che hanno costruito delle tende e hanno creato una rete di solidarietà e fraternità in cui si prendono cura dei più poveri. In quell’area i migranti hanno costruito anche un ospedale, dove curano quelli che subiscono violenze e spesso arrivano con ferite sanguinanti. Contro questa solidarietà si sono scagliate però le forze militari tunisine. Lo scorso 3 aprile il portavoce della Garde Nationale tunisina aveva annunciato che ci sarebbero state operazioni di sgombero. E così è stato. Da giorni si susseguono queste operazioni nella regione di Sfax e nella cosiddetta area degli uliveti. Il portavoce della Garde Nationale tunisina aveva assicurato che alle persone sfollate sarebbero stati offerti assistenza e percorsi di rimpatrio volontario, col sostegno dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Tuttavia, questa tesi sembra smentita. Gli smantellamenti invece proseguono e si allargano. Prima arrivano le ruspe, poi i miliziani bruciano tutto, comprese le scorte alimentari e i beni medico-sanitari. Ci sono già alcune vittime, a causa delle violenze e dall’assenza di soccorsi. Alle violenze ai danni dei migranti si aggiungono le violenze ai danni della società civile tunisina. La solidarietà verso le persone migranti senza documenti è criminalizzata e repressa. Ieri il ministro degli Interni tunisino era a Napoli, per discutere di migranti e contrasto ai trafficanti con i suoi omologhi italiano, algerino e libico (cioè Emad Trabelsi, indicato nei report internazionali come uno dei capi dei trafficanti). Tuttavia la nostra società è ancora troppo prigioniera dell’indifferenza, che si salda con il cinismo delle politiche, per farsi sentire a sufficienza. Mentre cresce il grido che sale dalla Tunisia e dalla Libia, in Italia e in Europa siamo ancora in attesa che si faccia piena luce sullo spionaggio che è stato fatto ai danni del direttore di Fanpage Francesco Cancellato e di alcuni di noi, che dedichiamo la nostra vita proprio a raccogliere e far risuonare quel grido, che è un grido di fraternità. Martedì scorso eravamo convocati presso la Commissione per le libertà civili, la giustizia e i diritti umani (LIBE) del Parlamento Europeo, ma all’ultimo la convocazione è stata rinviata. Restiamo in attesa della possibilità di portare all’attenzione delle istituzioni alcuni elementi importanti. Perché il nostro obiettivo è collaborare con tutti: solo in questo modo possiamo cambiare le cose e costruire finalmente un mondo bello e giusto. Questa vicenda, già lo abbiamo spiegato, si inserisce nel quadro per cui la solidarietà è diventata sovversiva, a tutti i livelli. Tuttavia la solidarietà resiste e cresce. Lo diceva Martin Luther King: “L’amore è il potere più duraturo che vi sia al mondo”. Il grido che sale in questi giorni dall’orto degli ulivi in Tunisia ci ricorda che c’è un sogno, che tutte le persone di buona volontà nella storia hanno coltivato: la fraternità universale. È anche il sogno di Gesù. La Pasqua ricorda a tutti, cristiani e laici, che l’amore vince, su tutto: ma bisogna dargli carne, disobbedendo al “me ne frego” divenuto imperativo dominante e assumendo la cura, la solidarietà, la fraternità, come bussole della vita e della società. Solo allora ci sarà veramente redenzione per questo mondo, sempre più in fiamme. C’è sempre più bisogno che le nostre coscienze si sveglino, che tutti insieme ci alziamo in piedi e iniziamo ad amare veramente. *Cappellano di Mediterranea Saving Humans “Il Governo della paura sta minando i diritti delle persone trans” di Simone Alliva Il Domani, 12 aprile 2025 Roberta Parigiani è un’avvocata di trentasei anni, portavoce e attivista del Movimento identità trans (Mit). La più antica associazione in Europa, nata in maniera informale nel 1976. È brava a parlare, la cadenza senese e la battuta pronta l’aiutano, e dunque a stare in tv. A scontrarsi con detrattori, politici e transfobici dichiarati, negli studi televisivi più ostili. È diventato popolare un suo scontro con una pioniera del movimento transfobico che l’accusava di dire banalità (“Lei è la campionessa dell’acqua calda, dottoressa”. “Ci si faccia un tè con la mia acqua calda”. Risate nello studio Mediaset. Video virale). “Ci troviamo forse nel periodo più buio per le persone non conformi”, racconta a Resistenze. Disegnando la resistenza della comunità trans fatto di percorsi di affermazione di genere oggi rallentati e attacchi costanti dal governo Meloni. Che sensazione ha dalle ultime notizie che arrivano dal Governo: soprattutto di questo tavolo tecnico fortemente voluto dalla ministra Eugenia Roccella e dal ministro Orazio Schillaci che potrebbe riscrivere il diritto di salute delle persone trans? Penso si stia andando verso qualcosa di inevitabile. Che il governo con l’istituzione di un tavolo da parte di Roccella e Schillaci sui protocolli di affermazione di genere non voleva andare verso la direzione di percorsi autodeterminati, lo sapevamo già. Quello che possiamo fare è raccontare quello che avviene ed esternare le nostre preoccupazioni. Ma tutto è prevedibile. Terribile e prevedibile, mi stupisce lo stupore di fronte a queste notizie. Può raccontarci come è nata questa commissione? È nata insieme a quella che è stata la risoluzione in commissione Affari sociali della Camera per la definizione di linee guida ministeriali sui percorsi di affermazione di genere delle persone transgender, con particolare attenzione ai trattamenti medici sui minori. Era stata presentata dall’esponente di Europa Verde Luana Zanella. E nasceva da fatti di cronaca, come il caso del ragazzo transgender che ha scoperto di essere al quinto mese di gravidanza e dalle ispezioni del governo al Centro per l’incongruenza di genere Careggi di Firenze. Non erano fatti preoccupanti di per sé, ma se alla luce di fatti che raccontano solo l’autodeterminazione delle persone trans il governo si muove e apre un tavolo di discussione, cosa ci potevamo aspettare? Sembra che nel mirino della destra ci siano soprattutto i minori con varianza di genere... Sì parte quasi sempre da qui negli ultimi anni. Ora vediamo la triptorelina ma anche le carriere alias, tutto racconta di un attacco ai danni dei minorenni. Perché lì si riesce a introdurre una questione retorica che arriva meglio alla massa. Quello che è l’attacco alla comunità trans è certamente un attacco all’autodeterminazione ma anche all’incapacità politica di dare queste risposte. È una costruzione fatta per andare a comunicare alla pancia delle persone. In questa costruzione patriarcale e paternalistica non è l’anello debole ma il più sensibile. La transfobia viene usata come grande distrattore. E in tutto questo le persone trans più piccole sono le vittime sacrificali certe. Per la sua esperienza da avvocata e attivista: quali sono gli effetti concreti oltre seminare paura e insicurezza? Seminare paura e insicurezza mina la certezza giuridica in uno stato di diritto. Qualcosa che è davvero un valore concreto. Le persone sono fatte anche di emotività quindi nei tribunali si crea così un contesto di incertezza giuridica. La magistratura è assoggettata e lo vediamo dal fatto che i procedimenti di affermazione di genere nell’ultimo anno e mezzo si sono ulteriormente complicati. L’elasticità con cui molti tribunali accoglievano il percorso di affermazione di genere delle persone transgender non c’è più. È una forma di attacco indiretto che ferisce quel diritto alla certezza e si traduce in qualcosa di concreto. In politica, come nella vita, quando qualcosa accade è perché è già successo. A memoria di cronista non ricordo nessuno che abbia parlato di autodeterminazione delle persone transgender, nessuno fino all’altro giorno. Neppure i partiti che oggi la invocano... Purtroppo dice bene. Se ci troviamo a patire le retoriche oscurantiste di un governo come questo è perché quei pochi diritti che c’erano non sono stati messi in sicurezza. Siamo stati molto pavidi. C’era la stagione in cui eravamo in grado di approvare il ddl Zan ma la politica non l’ha fatto. Oggi assistiamo a un clima discriminatorio che sarebbe stato arginato. Sono 30 anni che chiediamo la revisione della legge 164 del 1982. L’autodeterminazione è a rischio perché a oggi non si è fatto niente. Quando a Malta hanno puntato molto sull’autodeterminazione di genere che è la più sviluppata d’Europa, la prima ministra dell’epoca disse: la nostra missione è fare dieci passi avanti così, se dovessero arrivare le destre e fare quattro passi indietro, almeno un po’ di strada l’abbiamo fatta. Noi neanche un passo avanti. Oggi è bastato un clima ostile per farci tornare indietro. Solo la comunità Lgbtq+ sta tentando di fare da argine a questo clima esercitando resistenza, in che modo? Noi siamo bersagliate da un certo tipo di attacco perché rappresentiamo un concetto di liberazione, libertà e autodeterminazione e non riguarda solo noi ma l’intera comunità, quello che facciamo è costruire alleanze intersezionali. Nella consapevolezza che certe strade se non le costruiamo insieme per noi non lo farà nessuno. Piazze, cortei, momenti di lavorazione comune rispetto a una comunità che è estesa. Si è capito che colpire le persone trans vuol dire colpire tutte. Così come scendere in piazza contro i provvedimenti securitari di questo governo. Il corpo femminile in senso esteso è non conforme a determinate dinamiche di potere. Non è un caso che la comunità Lgbtq+ e quella transfemminista scenda in piazza insieme, perché lo abbiamo capito. Poi ci sono corpi più in vista e meno in vista. Lei è molto esposta. Come resiste agli attacchi che riceve quotidianamente... Sa, lei ha detto una cosa molto saggia. Non ha detto che sono visibile, ma esposta. L’esposizione vuol dire essere in balia di una serie di eventi, le persone trans sono esposte. Chi si batte per le nostre libertà è esposto, il nostro corpo è diventato qualcosa che polarizza. Questo certo ci crea un minority stress, questa cosa sta erodendo molte delle mie energie. Rivendicare l’esistenza di persone che esistono è faticoso. Purtroppo stiamo attraversando una delle fasi più buie di questo percorso democratico italiano e occidentale e siamo costrette a scendere a fare patti che esistere, vuol dire esporsi. È faticoso ma questa è resistenza. Nei periodi così bui la resistenza è un atto doveroso, di tutela della nostra comunità. Me lo risparmierei volentieri. Ma non ci è concesso fermarci.