Il Decreto Sicurezza disprezza i detenuti. Eppure esistono di Marco Grimaldi Il Manifesto, 11 aprile 2025 Nel Paese in cui il sovraffollamento e il degrado delle carceri sta diventando questione umanitaria, la destra sente l’urgenza di introdurre con il decreto “sicurezza” leggi liberticide e criminogene, che riempiranno ulteriormente gli istituti penitenziari. Già il Governo aveva introdotto 48 nuovi reati e numerosi aumenti di pena, per un totale di 417 anni in più di carcere. Mentre cresce il sovraffollamento endemico del 132,7% (62.165 persone detenute per una capienza regolamentare di 51.323 unità, ma reale di 46.836 posti), si tenta di chiudere la bocca a chi è già separato dal mondo: i detenuti, privati di tutto e ora anche del diritto di ribellarsi. Sul sistema minorile vediamo già gli effetti della stretta securitaria: dopo il decreto Caivano si è passati da 392 minori detenuti ai 623, che significa - in concreto- materassi in terra negli Ipm di Torino, Milano e Bari. A Roma - racconta il rapporto di Antigone - ragazzi e ragazze hanno trascorso tutto l’inverno senza riscaldamento. Settanta giovani adulti sono già stati trasferiti in una sezione ad hoc del carcere ordinario di Bologna, quando il diritto internazionale prescrive che minori e adulti siano rigorosamente separati. Li abbiamo visti, i primi arrivati, in un sopralluogo alla Dozza il 7 aprile: ragazzini appena diciottenni, provenienti da istituti minorili di tutto il paese, allontanati dagli avvocati e dalle famiglie, sottratti a percorsi riabilitativi già iniziati con successo, costretti a interrompere ogni attività, compreso il percorso scolastico. Le carceri sono sempre più “mattatoi umani”, in cui ogni quattro giorni un detenuto si toglie la vita; luoghi che versano in condizioni igienico-sanitarie estreme, infestati di muffe, infiltrazioni, insetti; luoghi gelidi in inverno e bollenti in estate; luoghi in cui si sta in celle invivibili fino a 20 ore al giorno, in cui non si può telefonare ai propri cari se non 10 minuti a settimana, in cui dilagano le dipendenze ma scarseggiano gli operatori sanitari, il supporto psicologico, le opportunità di formazione e lavoro. Eppure, di fronte a questa condizione degradante, le persone detenute devono tacere, incassare e subire. Di fronte a comandi impartiti “per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”, la ribellione (compresa la resistenza passiva) diventa punibile con un aumento di pena da uno a cinque anni. Accanto alla repressione del dissenso, il decreto ha una missione che è in sostanza il rovescio di tutto ciò che contiene di punitivo: “Assicurare ai nostri uomini e alle nostre donne in divisa le tutele che meritano” (nelle parole di Meloni). E così arriva la tutela legale a carico dello Stato per gli agenti, una tappa nella progressiva trasformazione del rappresentante delle forze dell’ordine in una figura legibus soluta. Il povero, il disgraziato, quasi sempre autori di un reato minore, dovranno sostenere interamente le spese legali, o accontentarsi di un avvocato d’ufficio. Invece, l’uomo e la donna in divisa, che dello Stato dovrebbero essere i primi servitori, saranno tutelati, agevolati nella propria difesa a prescindere dalla gravità del reato commesso. Quindi, all’”orribile mattanza” acclarata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ai pestaggi di detenuti nelle carceri di Milano (Beccaria), Ivrea, Torino (Lo Russo e Cutugno), Foggia, Bari, San Gimignano si risponde dando più poteri alla polizia penitenziaria e togliendo anche la libertà di dissenso a chi già di libertà non ne ha alcuna. Agli abusi ai danni delle attiviste trattenute nella questura di Brescia, alla morte di Igor Squeo e tanti altri come lui durante un fermo di polizia, si risponde garantendo agli agenti tutela legale a spese della collettività. Ma dobbiamo farlo - si dice - perché sono “i nostri ragazzi”. Come se invece non fossero nostri quei ragazzi dietro le sbarre, che desiderano disperatamente reintegrarsi. Ha scritto Sandro Bonvissuto in un bellissimo romanzo sull’esperienza carceraria: “Nel giardino davanti a casa mia c’è un albero di arance amare. Mi ero sempre chiesto a cosa servissero, perché non sono buone da mangiare. Queste arance stanno lì sull’albero, poi cadono per terra. Non servono a niente. Eppure esistono”. Eppure esistono. E nessuna legge dovrebbe essere scritta per negarlo, per rendere la loro condizione di persone recluse ancora più muta, più invisibile e abbandonata ad abusi e violenze arbitrari. Nordio choc: “Colpa dei magistrati che imprigionano se le carceri sono affollate” di Conchita Sannino La Repubblica, 11 aprile 2025 Insorgono le toghe. Zaccaro (Area): “Il ministro prima aumenta i reati, poi si autoassolve”. Carbone del Csm: “Anche un drink sbagliato colpa delle toghe?”. Bonelli: “Tesi delirante”. E l’Anm si oppone alla proposta della “Giornata degli errori giudiziari”. Il sovraffollamento negli istituti penitenziari? Su una piaga che già registra 26 casi di suicidi, malessere degli operatori e diffusi episodi di violenza, il ministro della Giustizia Carlo Nordio fornisce, in sede di question time al Senato, una singolare spiegazione: “Se aumenta il numero dei carcerati non è colpa del governo ma di chi commette i reati e dei magistrati che li mettono in prigione”. Frasi choc, che di nuovo accendono reazioni. Continua il Guardasigilli: “Con il ddl sul rave party non è stato messo in prigione nessuno, non ci sono stati più rave quindi è servito da deterrente per nuove detenzioni”. Espressioni che non possono restare senza reazioni. Il primo a intervenire è Giovanni Zaccaro, il segretario di Area, la corrente progressista delle toghe. “Siamo al paradosso. Il ministro un giorno accusa i magistrati di eludere le leggi mentre il giorno dopo li accusa di applicarle, mandando le persone in carcere. Un giorno alza le pene ed i casi di arresti in flagranza (dal decreto Caivano al decreto Sicurezza), il giorno dopo non si spiega perché la popolazione carceraria aumenta”. Tutto mentre le carceri, aggiunge, “esplodono, i suicidi aumentano, il personale è allo stremo, la magistratura di sorveglianza trattata come una cenerentola, le pene sostitutive destinate a fallire senza risorse”. Non servono battute e promesse, per Zaccaro, ma solo “misure urgenti per risolvere oggi lo scandalo del carcere in Italia”. È “sinceramente basito”, come spiega a Repubblica, anche il consigliere del Csm Ernesto Carbone, laico in quota Italia Viva. Che usa un commento sferzante: “Siamo messi così. Fanno scappare un criminale con l’aereo di Stato e dicono che sia colpa dei magistrati. E intercettano un giornalista e dicono sia colpa dei magistrati. Oggi scopriamo che anche il sovraffollamento delle carceri sia colpa dei magistrati che ‘imprigionano’ (un po’ di stile signor ministro…) troppo. Aspettiamo tutti con ansia il giorno in cui anche lo spritz fatto male di un bar in via Arenula sarà colpa della magistratura”. Ma toni sarcastici arrivano anche dal gruppo moderato e centrista delle toghe, Unicost, il cui consigliere togato a Palazzo Bachelet, Marco Bisogni, osserva: “Se i magistrati non applicano le misure cautelari sono negligenti; se le applicano, è colpa loro se aumentano i detenuti. Se il giudice da ragione al pm bisogna separare le carriere, ma se il giudice da torto al pm bisogna, comunque, separare le carriere: non mi pare che abbandonare la logica cartesiana sia un buon modo per risolvere i problemi della giustizia”. Strali anche dalle opposizioni, con Angelo Bonelli che parla di “tesi delirante” e invoca “urgentemente un test psicoattitudinale per ricoprire il ruolo di Guardasigilli”. Ma la vera domanda, per il leader Avs, è: “Come fa Nordio a continuare a ricoprire il ruolo di ministro della Giustizia? Davvero secondo lui i magistrati non dovrebbero arrestare chi commette reati, per non aumentare il numero dei detenuti? Siamo all’inversione totale della logica e del buon senso. Il test che Nordio ha previsto per i magistrati, ora lo applichiamo a lui: sarebbe da tempo stato necessario, basti ricordare le sue performance imbarazzanti sui casi Delmastro e Almasri”. Ma a colpire è anche la voce che arriva dai vertici di una delle maggiori sigle sindacali della penitenziaria, l’Osapp, oltre 5mila associati. “La colpa del disastro carceri non è né della magistratura che applica la legge, né di chi si trova dall’oggi al domani a rispondere di nuovi reati introdotti per intenti esclusivamente repressivi dal governo - sottolinea il segretario Leo Beneduci - Il vero problema risiede nella clamorosa assenza di una seria e fattiva politica penitenziaria, come documenta anche la perdurante mancanza di un capo dell’amministrazione. Chi subisce le conseguenze di questo caos? Naturalmente gli agenti e gli operatori tutti delle carceri, come ultimo e più debole anello del sistema. Il ministro Nordio dovrebbe cominciare finalmente ad occuparsi di carceri e del personale che vi lavora: invece di abbandonarli del tutto nelle mani di qualche sottosegretario”. Il riferimento è al caso Delmastro, e alla mancata nomina - ormai da tre mesi - del vertice del Dap: attualmente acefalo, retto temporaneamente da Lina Di Domenico, già vicepresidente del dipartimento e “designata”, con indiscrezioni fatte trapelare da via Arenula, senza che fosse stato avvertito, neanche in via ufficiosa, il Quirinale, cui spetta per legge la scelta e la nomina di quella figura. È in questo clima che il ministro Nordio incontrerà, martedì prossimo, l’Associazione nazionale magistrati, guidata da Cesare Parodi. Congelato il dialogo sulla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere (“Ci prepariamo eventualmente alla battaglia referendaria”), Parodi ammette di essere “un inguaribile ottimista” e quindi: “Porteremo al ministro temi che portino a convergenze e collaborazioni: la questione delle gravi difficoltà segnate dalla app del processo, con diversi casi di malfunzionamento; la carenza davvero pesante del personale amministrativo; gli aspetti legati alla geografia giudiziaria, tra chiusure di tribunali, accorpamento delle loro attività o nuove sezioni”. Un elemento però suscita la contrarietà del pacato presidente: l’istituzione di una “Giornata per le vittime degli errori giudiziari”, voluta dai vecchi “falchi” di FI e della maggioranza. “Sono molto vicino alle persone che sono state vittime di errori giudiziari - precisa il presidente dell’Anm - ma sono meno vicino a coloro che usano queste situazioni per colpevolizzare l’intera magistratura. Questo non mi piace. Sempre ammesso che il provvedimento venga approvato, devo dire che su una proposta che intende favorire la colpevolizzazione della magistratura non posso essere d’accordo”. “Urgente intervenire sull’emergenza carceri. La soluzione non sono nuovi istituti” di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 aprile 2025 Parla Fabio Pinelli. Il vicepresidente del Csm: “Ineludibile riflessione sul dramma delle carceri. Non servono nuovi istituti di pena ma una nuova concezione della giustizia e della pena. L’introduzione di nuovi reati non fa che aggravare il problema”. “Il numero di suicidi, non solo di detenuti, ma anche di appartenenti alle forze di polizia penitenziaria, e le sempre più frequenti rivolte, spesso determinate da condizioni di inaccettabile sovraffollamento, rendono ormai ineludibile una riflessione sull’emergenza carceraria da parte di tutti, inclusa la politica. Occorre garantire risposte equilibrate, che tengano conto delle esigenze sia di tutela della collettività, sia di umanizzazione della pena”. Lo dichiara, intervistato dal Foglio, Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. È Pinelli a elencare i numeri impietosi del dramma carcerario. “Oggi sono 62.389 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare degli istituti di pena di 51.281. Di questi però 4.502 posti non sono disponibili. Il tasso di affollamento è dunque del 133 per cento. Dopo gli 80 suicidi del 2024, già 22 detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane nei primi tre mesi del 2025. Dieci persone avevano meno di 39 anni, 9 persone una pena residua inferiore a tre anni”. “Questo ultimo dato è tra i più allarmanti”, sottolinea Pinelli. Con una pena residua al di sotto dei tre anni infatti i detenuti possono, in assenza di ragioni ostative, accedere alle misure alternative al carcere. “Questo significa che i detenuti che si tolgono la vita sono persone rimaste sole, persino senza un avvocato che possa suggerire loro di avanzare richiesta per accedere a una misura alternativa. Sono detenuti abbandonati a loro stessi. Una classe dirigente all’altezza si ricorda degli ultimi. Ciascuno di noi deve sentire questa responsabilità”, aggiunge il vicepresidente del Csm. Che da tempo, ormai, cerca di richiamare l’attenzione pubblica sul dramma carcerario, così come prima di lui hanno fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco, Due settimane fa, dopo il monito lanciato nel discorso di fine anno, Mattarella ha nuovamente rilevato le “assai critiche condizioni del sistema carcerario”, intervenendo al 208° anniversario di fondazione del Corpo della polizia penitenziaria. Lunedì scorso, invece, proprio Pinelli è tornato sull’emergenza carceri, parlandone di fronte al Guardasigilli Carlo Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf. “C’è un rifiuto - dice Pinelli al Foglio - a comprendere che la grande maggioranza della popolazione detenuta rientra nel circuito della società civile e quindi è interesse della stessa società civile favorire percorsi di risocializzazione dei reclusi. Ritardi nella realizzazione di questi percorsi possono determinare un aumento del tasso di recidiva. Bisogna creare allora una cultura non carcero-centrica: pensare che soprattutto per i fatti meno gravi e per le pene detentive non lunghe il carcere può non essere la risposta dello stato in una moderna liberal-democrazia”. Quale strategia adottare per risolvere o quanto meno attenuare l’emergenza? “La prima cosa su cui ragionare è il ruolo stesso del diritto penale che, in una moderna liberal-democrazia del Ventunesimo secolo, andrebbe ripensato profondamente. I tribunali non possono risolvere ogni conflitto che sorge nella società. Va ripensato anche il rapporto tra sanzioni pecuniarie e sanzioni detentive”, risponde Pinelli. “Fermo restando che spetta al decisore politico definire le azioni più opportune da intraprendere, da giurista ritengo che occorra innanzitutto prendere consapevolezza dell’esistenza di una situazione emergenziale intollerabile, che lede inevitabilmente il principio universale del rispetto della dignità dell’uomo”, afferma il vicepresidente del Csm. “Quando i livelli di sovraffollamento diventano macroscopici, la sola restrizione degli spazi di detenzione determina la lesione del rispetto della persona e della sua dignità, come ha stabilito la Cedu con la sentenza Torreggiani nel 2013. Occorre quindi trovare una soluzione al problema del sovraffollamento”. “Certamente non si può pensare che la situazione emergenziale possa essere affrontata con la prospettiva immediata della costruzione di più carceri. Prima di costruire nuove carceri dovremmo pensare di rendere vivibili gli istituti di pena che oggi sono sovraffollati e che in diversi casi presentano strutture fatiscenti. Inoltre, occorre evitare che una volta che siano state adottate misure contro l’emergenza, questa si possa ripresentare tra 5 o 10 anni. In questo senso, appare cruciale avviare una riflessione su forme diverse di misure alternative al carcere e di espiazione della pena”, spiega Pinelli. Non è tutto. “Il proliferare normativo in forma disorganica, l’introduzione di nuove fattispecie di reato, non può che aggravare l’attuale situazione. L’impegno dello stato deve essere nel senso di avverare il dettato costituzionale, di tendere alla rieducazione del condannato e non consentire che il carcere si risolva in una avanzata scuola del crimine”, conclude Pinelli. Sovraffollamento e boom di suicidi. Ma le nostre carceri sono ancora senza capo del Dap di Valentina Stella Il Dubbio, 11 aprile 2025 Duro scontro a Palazzo Madama. Il ministro elude le tempistiche. PD, IV e M5S: “Grave vuoto al vertice del sistema penitenziario”. La domanda posta dal Partito Democratico e da Italia Viva durante il question time al Senato ieri pomeriggio era semplice: “Quando verrà nominato il nuovo capo del Dap?”. La risposta del Ministro della Giustizia Carlo Nordio è arrivata dopo diverse sollecitazioni da parte dei parlamentari e non è stata altrettanto chiara: “Sarà abbastanza imminente ma si inserisce in tutta quella serie di nomine che vede soprattutto nella giurisdizione la difficoltà di coprire un incarico apicale per una serie di questioni che obbediscono a parametri complessi”. Cosa significhi è difficile a dirsi, tanto è vero che la senatrice dem Anna Rossomando nella sua replica finale lo ha criticato per la sua vaghezza: “Perché non ci risponde? A chi deve chiedere prima?”. La difesa di Nordio era stata: “Perché voi dell’opposizione non vi lamentate quando passa anche più di un anno prima che venga nominato un nuovo presidente di Tribunale o un nuovo Procuratore generale?”. E ancora quanto alla nomina provvisoria di Lina Di Domenico al vertice del Dap, “l’affidamento di funzioni vicarie non è un fatto nuovo, è già stato fatto diverse volte in passato da diversi governi. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole”. Un tentativo di sviare senza andare al nocciolo del problema come evidenziato dagli interventi di Scalfarotto (Iv) e Bazoli (Pd). Secondo il primo è “inaccettabile che dal dicembre scorso il Dipartimento, dopo le dimissioni di Giovanni Russo, sia privo di un vertice, considerando altresì come il capo del DAP sia anche il capo del Corpo di Polizia penitenziaria”. Per il secondo “in maniera irrituale e irrispettosa dei passaggi istituzionali, la sostituta sarebbe stata immediatamente individuata, senza previa consultazione del Presidente della Repubblica, che, in quanto capo delle forze armate, è tenuto a firmare il decreto di nomina”. La sostituta sarebbe appunto la di Domenico, già Vicecapo del Dipartimento dal 2023, la quale avrebbe preso il posto di Giovanni Russo, non troppo in sintonia con il sottosegretario Andrea Delmastro. Ricostruzione smentita dal Guardasigilli per cui “il dottore Giovanni Russo ha presentato volontarie dimissioni per la legittima ambizione di ricoprire altro e prestigioso incarico internazionale per il quale mi aveva manifestato profondo interesse”. Entrambi gli interroganti hanno poi sottolineato come “l’assenza di un incarico formale a chi dovrebbe occuparsi dell’amministrazione degli istituti di pena aggrava ulteriormente la situazione drammatica in cui versa il sistema penitenziario del nostro Paese”. Per Nordio, tuttavia, “se aumenta il numero dei carcerati è colpa di chi commette i reati e della magistratura, non certo dei Governo”. Un assist per l’opposizione: “il decreto Caivano ha riempito in modo indecoroso i nostri istituti penali minorili” ha controbattuto Scalfarotto, seguito da Bazoli per cui “quello che a noi preme non sono le cause del sovraffollamento ma come lei intende dare una risposta” e Rossomando secondo la quale “per lei signor Ministro la magistratura è una magnifica ossessione ma siete voi che avete complicato il lavoro dei giudici di sorveglianza modificando la norma sulla liberazione anticipata e non avete messo in atto nessuna iniziativa per alleggerire la popolazione carceraria”. Il Ministro Nordio era stato ‘interrogato’ anche dal Movimento Cinque Stelle che - da quale pulpito viene la predica - lo ha accusato di aver contraddetto le sue dichiarazioni favorevoli ad una depenalizzazione, appena nominato Ministro, con una politica panpenalista. Il responsabile di via Arenula ha risposto: “spiace ancora una volta constatare che l’opposizione, priva di seri argomenti, agiti continuamente nei miei confronti e dell’intero Governo, lo spettro della “bulimia punitiva… volta ad intasare il codice penale… e di un garantismo rivelatosi solo di facciata”. Occorre capire, secondo Nordio, che “per i cittadini sorgono nuove esigenze di tutela alle quali dobbiamo dare risposta, adeguandone gli strumenti anche di tipo repressivo, mediante la previsione di nuove fattispecie di reato in grado di prevenire e contrastare nuovi ed odiosi fenomeni criminosi”. Nordio accusa i giudici, ma il sovraffollamento è soprattutto figlio delle leggi del Governo di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 11 aprile 2025 “Il Ministro della Giustizia Nordio ci dice che il sovraffollamento è prodotto dai giudici e non invece dalle leggi approvate dal governo. Ovviamente ciò non è vero. Ma con questa affermazione Nordio ammette dunque che le leggi introdotte sono pensate per costruire consenso e non servono a reprimere comportamenti effettivamente meritevoli di pena. Ossia ammette che il governo sta facendo semplice propaganda penale e ha usato tutte le tecniche del populismo penale fin dalla norma che introdusse il reato legato ai rave party”. Questo il commento di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, alle dichiarazioni del Guardasigilli. “Il sovraffollamento carcerario - che oggi è arrivato anche nelle carceri minorili, cosa mai accaduta prima - è indubbiamente colpa di alcune leggi del governo, come l’inasprimento delle pene per i reati di lieve entità legati alle droghe e le altre norme del decreto Caivano. E quando sarà in vigore il decreto sicurezza, con il delitto di rivolta penitenziaria che punirà chi protesta senza uso della violenza, le carceri esploderanno. Il discorso pubblico del governo, inoltre, spinge le forze di polizia a effettuare più arresti, come sottolineano anche i dati relativi a Milano, diffusi ieri dal Questore, il quale ha riportato come negli ultimi mesi ci sia stato un aumento degli arresti a fronte di un calo dei reati. La questione della sicurezza è usata come anestetico sociale, per impaurire. Di fronte alla catastrofe penitenziaria, alle morti, alle tragedie, alla vita resa impossibile a detenuti e operatori, non si possono proporre le solite ricette edilizie e qualche posto in più in container improvvisati. Oggi ci sono 15.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Il sistema è illegale. Lo Stato così perde credibilità”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Carriere separate, una lunga guerriglia fino al referendum di Errico Novi Il Dubbio, 11 aprile 2025 Erano convinte di partire battute, nella battaglia sul ddl Nordio: e invece le correnti delle toghe possono trascinare il governo in una contesa estenuante. Nell’Anm circola da mesi un certo timore. Sintetizzabile come segue: noi la politica, quella vera, non la sappiamo fare, quindi come potremo mai condurre una battaglia referendaria sulla separazione delle carriere? Si sentono spacciate, le toghe. Danno per scontato che la consultazione attesa per l’inizio del 2026 abbia un esito già scritto: vincerà il Sì, vincerà il centrodestra. Arriverà il sigillo popolare alla riforma Nordio. Che sarà legge (costituzionale) dello Stato. E non ci sarà più la fortezza del Csm: la forza ordinamentale della magistratura sarà smembrata, annichilita, con i pm isolati da tutto, forse inferociti nell’interpretazione del ruolo ma svuotati di quella leadership carismatica che, dai tempi di Mani pulite, trascina l’ordine giudiziario come se fosse un’avanguardia politica. Perché un conto, e questo è vero, è trovarsi di fronte un Berlusconi e giocare alla Barazzutti (alla Lendl, alla Wilander), ributtare la palla dall’altra parte fino a sfinire l’eclettico e irregolare McEnroe di turno. Altra cosa è il serve and volley, che in termini di comunicazione politica significa rivolgersi agli elettori e convincerli che la separazione delle carriere non s’ha da fare. Tutto vero. Ma intanto, visto che non parliamo di una comunità priva di risorse intellettuali, visto che dalle colonne del Dubbio più volte, e da anni, si è ricordato come in fondo la magistratura sia una delle ultime élite politico-culturali del Paese sopravvissute allo sterminio delle classi dirigenti, l’Associazione presieduta da Cesare Parodi si è messa d’impegno, e ha ricominciato a lavorare su tutte le sponde possibili. Innanzitutto sui partiti, vera pietra dello scandalo. Proprio attorno all’ipotesi di partecipare a eventi pubblici promossi esclusivamente dai partiti si era infatti consumata, sabato scorso, una piccola crisi interna al “sindacato”, con la moderata “Magistratura indipendente” che aveva proposto di vietare i comizi anti-Nordio, e con tutte le altre correnti che avevano respinto l’autoregolamentazione e messo in minoranza il gruppo da cui proviene lo stesso Parodi. L’Anm ha deliberato che la maginot contro le carriere separate val bene un po’ di contaminazione, persino di collateralismo esplicito, fra magistratura associata e politica tout court. Detto fatto: negli ultimi due giorni, Parodi e la sua giunta hanno incontrato (come si riferisce in dettaglio con altro servizio, ndr) i gruppi parlamentari di opposizione. Hanno programmato colloqui anche con le delegazioni del centrodestra. Formalmente, è una banale moral suasion: l’oggetto dei summit si riduce a un semplice quanto velleitario “ripensateci dall’approvare la riforma Nordio, finché siete in tempo”. Ma è chiaro che, per l’Anm, l’incontro ravvicinato coi partiti, e in particolare con le forze di centrosinistra schierate contro la separazione delle carriere, assume in questo momento il significato di una sfida al governo, e in particolare ad Alfredo Mantovano. Dopo lo schiaffo inflitto, sui comizi referendari, a “Mi”, corrente a cui lo stesso sottosegretario alla Presidenza ha fatto riferimento fin quando ha esercitato funzioni giudiziarie, lunedì scorso Mantovano ha pronunciato una dura invettiva contro gli sconfinamenti dei magistrati, nell’intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf. E l’Anm, per tutta risposta, che fa? S’incontra coi partiti d’opposizione. Una scelta che, sebbene programmata da un po’, in un quadro simile acquisisce il gusto della provocazione. Ma magari - per l’Amn - arrivassero reazioni indignate dal governo o dai parlamentari di maggioranza. Tutta pubblicità. Tutta acqua tirata al mulino con cui il sindacato delle toghe punta a trasformare la battaglia sulla separazione delle carriere in un grande evento politico, e a suscitare mobilitazione. A scuotere dal torpore quanti più elettori inerti è possibile, soprattutto tra chi non vota per Giorgia Meloni e il centrodestra, fino a compiere il miracolo di una vittoria del No al referendum sulla riforma. È una finezza strategica, una malizia da consumati attori della scena pubblica di fronte alla quale Meloni, Mantovano, il guardasigilli Carlo Nordio e l’intero centrodestra farebbero bene ad allarmarsi. Perché l’Anm, con la propria instancabile guerra, anzi guerriglia mediatica di logoramento, trascinerà la controparte, la maggioranza di governo appunto, in un estenuante duello da qui alla consultazione confermativa. E così la giustizia, la separazione delle carriere, la riforma (la sola, dei due grandi progetti costituzionali della legislatura, che pare destinata a compiere almeno l’iter parlamentare) rischiano di tradursi in un fronte faticosissimo, per la presidente del Consiglio e il suo Esecutivo. In una fase in cui il quadro politico interno, ma soprattutto i riverberi delle tensioni internazionali sottopongono il governo a uno stress test fra i più duri degli ultimi decenni, doversi sobbarcare anche il peso del conflitto sul ddl Nordio rischia di trasformarsi in una formidabile dispersione di energie. E prima ancora di capire se la magistratura sia capace di dare scacco matto ai partiti su un terreno che è tutto politico, il centrodestra dovrà fare i conti con gli effetti collaterali di questa contesa probabilmente sottovalutata, almeno nel suo carico di perdite. La Cedu condanna l’Italia sul 41 bis: in cella il boss affetto da demenza di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 aprile 2025 Nordio: “Imminente la nomina del nuovo capo Dap”. Penalisti contro la cCrcolare punitiva per l’Alta sicurezza e la censura ai detenuti redattori. Mentre arriva l’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, questa volta riguardo un detenuto affetto da demenza sottoposto al 41 bis, e mentre scoppia la polemica su una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che impone un giro di vite per i detenuti dell’Alta Sicurezza, Carlo Nordio annuncia l’”imminente” sblocco dell’empasse istituzionale che da quattro mesi congela al vertice della gestione penitenziaria la facente funzione Lina Di Domenico, figura particolarmente vicina ad Andrea Delmastro Delle Vedove. Rispondendo al question time in Senato, il Guardasigilli ha puntualizzato però che “spetta al ministro proporre al Consiglio dei ministri la nomina del capo del Dap, non certamente al sottosegretario”. Mentre sul sovraffollamento è riuscito ad affermare che non è colpa della “bulimia legislativa” del governo “ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione”. Nordio in ogni caso ha difeso la prima magistrata donna arrivata a capo del Dipartimento di Largo Daga: “Ha fatto un lavoro che dimostra una sua attenzione eccezionale”, ha detto il ministro ricordando, tra le altre cose, “il gruppo di lavoro multidisciplinare” da lei creato “per la prevenzione degli eventi suicidari delle persone detenute”. Che però non ha impedito il suicidio in carcere e nelle Rems già di ben 28 detenuti dall’inizio dell’anno, mentre si contano 88 decessi totali dietro le sbarre. Un numero che è “il segno più eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari”, segnala l’Unione delle camere penali che evidenzia come in questo contesto il Dap consideri invece prioritario emanare “una circolare-manifesto” che impartisce regole di vita più dure per i detenuti dell’Alta Sicurezza e una più “rigorosa applicazione del regime di “custodia chiusa”“. Una circolare, insiste l’Ucpi, datata 27 febbraio ma “disponibile da poco tempo”, e giustificata da “non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime “proteste” e “lamentele”“ che segnalerebbero, secondo il Dap, “modalità organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore” e non aderenti “alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria”. Gli avvocati penalisti si scagliano anche contro la “cortina di silenzio che il Dap ha fatto scendere sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori”. Un problema, questo, che è stato denunciato dal direttore del trimestrale Voci dentro Francesco Lo Piccolo e dal coordinamento dei giornali delle carceri che riferiscono anche l’”imposizione da parte del Dap di argomenti ammessi alla pubblicazione con la precisa esclusione di altri temi ritenuti non idonei” e “la lettura preventiva degli articoli o dell’intero giornale da parte delle direzioni”. In questo quadro inquietante cala la condanna emessa ieri dalla Cedu nei confronti dell’Italia per aver continuato a tenere recluso in regime di 41 bis un novantenne capo mafioso, Giuseppe Morabito, dal 2014 detenuto nel carcere milanese di Opera, “nonostante il suo progressivo deterioramento cognitivo” e le tante patologie di cui è affetto. Il Governo non ha convinto la Corte di Strasburgo della necessità di applicare in questo specifico caso il regime detentivo finalizzato a recidere ogni possibile contatto con gli altri membri delle organizzazioni criminali di appartenenza. I giudici infatti, puntualizza la sentenza firmata dalla presidente Ivana Jelic, non vedono “come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo - e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer - e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere - in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo - contatti significativi con un’organizzazione criminale”. La Cedu ha invece rigettato il ricorso presentato dall’avvocata Giovanna Beatrice Araniti in difesa di Morabito riguardo l’incompatibilità dell’uomo con la detenzione. Ma ha comunque stabilito che la constatazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani - che proibisce di sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti - “costituisce di per sé un’equa soddisfazione, sufficiente per il danno morale subito” dall’anziano detenuto. L’avvocata si augura che la sentenza di Strasburgo pesi ora sul ricorso presentato da Morabito in Cassazione per ottenere la sospensione del cosiddetto regime di “carcere duro” che subisce come fosse una pena aggiuntiva. 41 bis, Morabito come Provenzano: violati i diritti umani e la Cedu condanna l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2025 Nonostante il deterioramento cognitivo, per il boss novantenne è stato mantenuto il regime del “carcere duro” senza una valutazione adeguata delle sue condizioni di salute. Per l’ordinamento penitenziario, il 41- bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Accade, però, che il nostro Paese, in alcuni casi, ne faccia un uso spropositato, tanto da ledere i diritti umani. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo in luce i limiti di questo strumento. Giuseppe Morabito, noto come U Tiradrittu, considerato a suo tempo il numero uno della ‘ndrangheta, è da quasi vent’anni in isolamento severo, nonostante il progressivo deterioramento cognitivo diagnosticato. La Cedu ha ritenuto che, in un contesto in cui il detenuto non rappresentava più un pericolo reale, l’estensione delle misure restrittive non fosse stata adeguatamente giustificata e, per questo, ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3, che vieta trattamenti inumani e degradanti. Giuseppe Morabito, classe 1934, detenuto al 41-bis dal 2004 per il suo ruolo apicale nella ‘ndrangheta, soffre di numerose patologie: ernia inguinale bilaterale, cardiopatia ipertensiva, infezioni urinarie ricorrenti, declino cognitivo progressivo, diagnosticato infine come demenza senile/ Alzheimer. Detenuto nel carcere milanese di Opera - Milano, ha più volte richiesto la revoca del 41- bis e la detenzione domiciliare per motivi di salute. Ma nulla da fare. Per i tribunali, Morabito è compatibile con il regime duro. A quel punto, tramite l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, ha fatto ricorso alla Cedu, lamentando che il mantenimento del 41- bis, nonostante il suo peggioramento cognitivo, costituisca trattamento inumano e degradante, e che la sua detenzione in carcere, in generale, sia incompatibile con il suo stato di salute. Il caso di Morabito evidenzia come il regime del 41- bis, concepito per isolare chi mantiene forti legami con il crimine organizzato, sia stato applicato in maniera uniforme, senza un’attenta valutazione delle specifiche condizioni di salute del detenuto. Nel corso del procedimento, la Corte europea ha passato in rassegna un’enorme mole di documentazione medica: referti redatti dai medici dell’amministrazione penitenziaria, ma anche numerose perizie commissionate da consulenti privati. Queste ultime, in particolare, hanno tracciato un quadro clinico allarmante: i medici esterni parlano di una forma avanzata di demenza, di perdita di orientamento spazio- temporale, della difficoltà - se non impossibilità - di seguire le udienze, e di un decadimento cognitivo tale da escludere qualsiasi reale pericolosità sociale. Le autorità italiane, invece, si sono affidate quasi esclusivamente alle valutazioni dei sanitari interni al carcere, secondo cui Giuseppe Morabito appariva ancora lucido, collaborativo e in grado di badare a sé stesso nel contesto della vita quotidiana. Sulla base di queste valutazioni, i tribunali hanno confermato, in modo regolare ogni due anni, il 41- bis, sostenendo che l’ex boss calabrese fosse ancora in grado di mantenere contatti con la criminalità organizzata. Le frasi captate durante i colloqui con i familiari, alcune delle quali ritenute ambigue o allusive, sono state lette come segnali di un legame tutt’altro che reciso con il suo passato mafioso. Nonostante le perizie mediche indicassero una condizione di salute sempre più compromessa, i giudici hanno ritenuto che la pericolosità di Morabito non fosse venuta meno. Le richieste di attenuazione del regime detentivo o di detenzione domiciliare sono state puntualmente rigettate. La Corte europea, votando sei contro uno, ha invece sottolineato l’obbligo di una valutazione individualizzata e dinamica delle condizioni di salute del detenuto, evidenziando come le restrizioni imposte abbiano contribuito a rendere la situazione di Morabito incompatibile con il rispetto della dignità umana. L’analisi della sentenza mostra che il problema non risiede nell’adozione del regime in sé, ma nella mancata capacità delle autorità italiane di dimostrare, in modo convincente e aggiornato, che le condizioni particolari del caso - in particolare il marcato deterioramento cognitivo - giustificassero il prolungamento delle misure restrittive. In altre parole, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che il sistema di rinnovo automatico del 41- bis non potesse ignorare i mutamenti nella situazione personale del detenuto, trasformando un provvedimento teso a prevenire il contatto con il crimine organizzato in una misura che, in questo caso, ha finito per ledere la dignità e il benessere umano. D’altronde, una persona che ha un evidente problema cognitivo, come può inviare ordini all’organizzazione mafiosa calabrese? Va contro la ratio del 41- bis stesso. Il ragionamento della Corte trova un parallelo nel caso del boss Provenzano. Nel 2018 la Cedu aveva già condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 in relazione al provvedimento di proroga del 41- bis applicato a Bernardo Provenzano, emesso il 23 marzo 2016, pochi mesi prima della sua morte, il 13 luglio dello stesso anno. In entrambi i casi, la proroga automatica del regime di isolamento non ha tenuto conto delle condizioni di salute e della reale capacità del detenuto di rappresentare un pericolo per la società. Se da un lato la situazione di Provenzano aveva evidenziato una simile mancanza di riesame individuale, dall’altro il caso di Morabito ha sottolineato come il sistema, pur avendo ragioni preventive, debba essere sempre accompagnato da una valutazione puntuale dell’impatto delle restrizioni sulla salute fisica e mentale del detenuto. Torino. Cronaca di un suicidio annunciato, la storia di Alvaro di Franco Plataroti girodivite.it, 11 aprile 2025 È una situazione altamente problematica che rischia di creare un effetto di “normalizzazione suicidaria”, ossia un effetto di assuefazione della società civile dinanzi al crescente numero di suicidi in carcere. Un anno fa, esattamente il 24 marzo 2024, un giovane nativo dell’Ecuador, Fabricio Nuñez Sanchez, si suicidava nella Casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino, dov’era detenuto per aver cercato di accoltellare il padre alla fine dell’agosto 2023. Era affetto da schizofrenia, quel giovane uomo, studente del sottoscritto e di altri insegnanti che, mercoledì 2 aprile, hanno deciso di ricordare la sua vita breve e sfortunata con un incontro presso l’istituto tecnico commerciale “Germano Sommeiller” di Torino, dove Alvaro aveva studiato e si era diplomato. Grazie alla volontà delle professoresse Rosa Maria Parrinello ed Elisabetta Moro, la storia di Alvaro è stata rievocata nell’aula magna dell’istituto, davanti ad alcune classi del triennio, ai familiari del ragazzo morto suicida e ad altri ospiti, ex insegnanti o compagni di Alvaro, ad esempio, che hanno voluto presenziare all’incontro, come forma ulteriore di saluto allo studente scomparso. Non si è trattato di una pura cerimonia commemorativa, perché i docenti organizzatori hanno ritenuto fondamentale inquadrare quella singola vicenda all’interno di una cornice più ampia, per evitare una pura celebrazione fine a sé stessa e per porgere ai giovani discenti uno spaccato della complessità delle carceri, in generale, e del tema spinoso del disturbo psichico nelle nostre prigioni, in particolare. La questione delle carceri è largamente negletta, non fa audience, resta sullo sfondo, tra la nebbia, come se non fosse centrale, come se il trattamento dei detenuti non fosse, secondo quanto attribuito a Voltaire e ripreso da Dostoevskij, lo specchio di una civiltà. Per questo, si è cercato di dare rilievo al singolo caso, quello di Alvaro, e alla tragedia perenne del mondo carcerario, dentro il quale si è consumata l’esistenza del giovane ecuadoriano. A parlare del tema sono state chiamate figure diverse per formazione, ma egualmente competenti in materia: la direttrice della Casa circondariale di Monza, Cosima Buccoliero, che, al tempo del suicidio di Alvaro, era direttrice dell’istituto torinese; l’avvocato Roberto Capra, penalista, e presidente della Camera penale “Vittorio Chiusano”, oltre che scrittore di alcuni volumi di narrativa; la dottoressa Lucrezia Carnero, criminologa, che conobbe Alvaro dopo il primo trattenimento in carcere, a seguito di un’aggressione alla madre; la dottoressa Martina Cacioppo, collaboratrice della dottoressa Monica Cristina Gallo, Garante delle persone private della libertà del Comune di Torino. Dopo i saluti del Dirigente scolastico, il prof. Barbato Vetrano, è il sottoscritto a offrire un breve ricordo di Alvaro - allegato al presente articolo -, per fornire al pubblico alcune indicazioni che scrostassero via qualsiasi tentazione di associare l’ex studente all’immagine inappropriata del delinquente. Perché, sia detto qui com’è stato scritto nel pezzo che lo scorso anno è stato pubblicato su queste pagine, Fabricio o Alvaro, come variamente veniva chiamato, era un uomo delicato, gentile, lontano anni luce da qualsiasi forma di spietatezza dell’animo, se non la spinta omicidiaria derivatagli dalla grave patologia che lo ha soffocato. Ad aprire realmente l’incontro è la dottoressa Buccoliero, collegata in streaming. Offre subito un numero: 25 persone già suicidatesi in carcere nel corso di soli tre mesi; un numero alto, ma che nasconde una sofferenza più ampia, data dallo stesso ingresso in una prigione. E questo ingresso, che marca una rottura radicale con l’esterno, è già di per sé un problema, perché il penitenziario non è in grado, precisa la relatrice, di intercettare le fragilità del neo-detenuto, nonostante ci si provi, nonostante i protocolli e le persone preposte all’accoglienza. Le fragilità sfuggono, com’è sfuggita quella di Alvaro; a lui - continua la Buccoliero - “certamente non siamo stati in grado noi di far vedere una situazione di speranza, una prospettiva di speranza, ma purtroppo in questo il carcere è assolutamente deficitario, perché ha bisogno di tempo per poteri muovere”. Alvaro si è suicidato poco tempo dopo l’ingresso al “Lorusso e Cotugno”, non ha, forse, neanche avuto modo di comprendere il luogo in cui si trovava. Il carcere, ripete la relatrice, è più adatto per chi è detenuto da diverso tempo, da un certo tempo, perché con loro si riesce a costruire un percorso, un progetto individualizzato; chi entra in una galera “deve avere pazienza”. Lo dice, la dottoressa Buccoliero, e sa che è difficile dall’esterno comprendere appieno questo richiamo alla pazienza, ma fa capire che i tempi strutturali dei penitenziari sono quelli e non ci sono alternative. Allora, spiega che a Torino - come attualmente sta facendo a Monza - aveva avviato il progetto dei peer supporters, già adottato, in precedenza, a Bollate: si tratta di detenuti che, debitamente formati, si fanno carico di accogliere i nuovi carcerati, di supportarli nel momento tra i più traumatici dell’esperienza custodialistica, ossia l’ingresso. “L’accoglienza viene fatta da detenuti che sono dei pari, quindi persone che, molto meglio di noi - molto meglio del direttore, dell’educatore, dello psicologo, dello psichiatra, del medico - possono raccontare la vita del carcere e la propria esperienza”, aiutando il novello detenuto a superare alcune fasi problematiche o traumatiche della sua vita tra le sbarre. A Torino, tuttavia, a differenza di Monza, il progetto del peer supporter ha stentato a dare frutti. Torino è un carcere particolare, precisa la Buccoliero, non solo ha una popolazione detenuta pari al doppio di quello lombardo, ma è una realtà in cui arrivano persone molto giovani, persone che hanno disturbi del comportamento, persone che vivono in grande difficoltà anche all’esterno. Il carcere è davvero lo specchio della società e la città di Torino “è una città che si è scoperta molto fragile” e tali fragilità si sono riversate nella casa circondariale del capoluogo di regione. L’anno in cui Alvaro si è tolto la vita, aggiunge, ci sono stati altri tre suicidi, avvenuti nella seconda metà del 2024, tra cui una persona entrata solo 24 o 48 ore prima, incarcerata per via del furto di un auricolare. Il “Lorusso e Cotugno” è una realtà difficile, ammette la relatrice, una delle più difficili d’Italia. Nel corso degli anni, e segnatamente dopo il Covid, l’età media si è abbassata in modo significativo e ciò ha comportato un ripensamento anche delle strategie di intervento, in precedenza mirate su una popolazione carceraria dall’età media pari a 40 anni. Ma il punto è che il penitenziario non era il luogo in cui rinchiudere Alvaro o altre persone come lui, non lo è affatto; persone alle quali spetterebbe una struttura esterna. “Alvaro in carcere non avrebbe mai dovuto entrare”, perché le strutture penitenziarie dovrebbero essere l’extrema ratio, lo spazio per contenere le situazioni più pericolose. Agli altri la prigione - soprattutto quando sovraffollata, come nel caso di Torino - non serve a nulla, non è in grado di andare incontro alle loro esigenze, di fornire servizi adeguati. La dottoressa Buccoliero conclude così. È un intervento di denuncia del sistema, intiepidita appena dal ruolo istituzionale della relatrice, ma il messaggio è chiaro e viene ripreso, immediatamente dopo, dall’avvocato Capra, che esordisce spiegando alla platea che l’associazione che presiede - Camera penale - ha presentato una denuncia relativa al caso di Alvaro. E osserva che, per comprendere la sfortunata vicenda di quest’uomo, è necessario inquadrare il sistema carcere, per verificare dove il sistema non ha funzionato, “perché qualcosa non ha funzionato, questo è sicuro, e non è neanche vero che non ci siano delle colpe”, che era lui che non stava bene. Normalmente, non importa a nessuno di queste persone, aggiunge Capra, questa è la verità, al massimo importa a un manipolo di persone che, ogni giorno, denunciano la condizione di assoluta precarietà nella quale versa il carcere, ma non hanno i cordoni della borsa, mentre chi potrebbe cambiare le cose non è intenzionato a farlo. Eppure, osserva, le cose potrebbero essere cambiate, a partire dalla ricerca corretta dell’errore. Spiega agli ascoltatori che la sua esperienza professionale lo ha portato a dubitare delle semplificazioni, delle divisioni manichee, tipicamente adolescenziali, in bianco e nero; la vita è complessità ed è complessa, è difficile comprendere le ragioni dietro un atto, soprattutto quando questo atto viola le regole della società e ci porta dritti in galera. Ma è essenziale comprendere cosa muova un gesto, un comportamento ed è altrettanto essenziale domandarci se, a nostro giudizio, l’errore provenga da una responsabilità personale oppure dal contesto in cui si è vissuti. E, per fornire una testimonianza della relatività delle posizioni riguardo il tema della colpa o dell’errore, fa riferimento a una comunità aborigena in Australia nella quale, se qualcuno commette un reato, non si fa il processo alla persona, ma alla comunità, per capire dove e come la collettività ha sbagliato. Capra intende portare a un ragionamento duttile i suoi uditori, chiede la loro partecipazione intellettiva, vuole disancorare il caso di Alvaro, e di altre sfortunate vittime di un certo sistema, da una lettura preconfezionata. Torna, quindi, sul giovane ecuadoriano, spiegando che il suo caso rientrava nella categoria dei reati in cui si affaccia il tema dell’incapacità di intendere e di volere e che, per tale ragione, Alvaro non doveva entrare in carcere, ma seguire un percorso differente. Non doveva entrarci, fra l’altro, anche per via di cos’è il carcere in Italia e qui, facendo riferimento all’analisi della dottoressa Buccoliero - a cui tributa stima e di cui sottolinea i riconoscimenti ricevuti per la sua illuminata gestione delle case di pena -, spiega che la direttrice non ha potuto spingere troppo in avanti la critica, mentre lui dichiara di voler criticare aspramente l’istituzione, “perché il sistema carcere è completamente da sventrare”, da ripensare per intero. Il carcere è ancora quel luogo in cui devi stare come nel film “La maschera di ferro” o ne “Il conte di Montecristo”; vero, c’è l’ora d’aria, qualche cella aperta in più ogni tanto, “ma il concetto del posto dove stare è esattamente quello della caverna detentiva utilizzata da sempre”. Una caverna in cui si finisce per una quantità di reati impossibili da quantificare, anche per reati che non sottendono alcun livello di pericolosità sociale, una caverna in cui “manca un profilo di dignità”. E le Buccoliero del caso non possono fare molto, anche se illuminate, anche se capaci di pensare a progetti alternativi e dignitosi, perché senza soldi non fai niente, non vai da nessuna parte. E se non hai mezzi, non sei in grado di garantire neanche una telefonata al detenuto, magari in apprensione per lo stato di salute di un familiare, perché la guardia che gestisce questa telefonata non ce l’hai, e la tensione cresce nelle carceri. E cresce anche perché se, come a Torino, tu hai un carcere che potrebbe ospitare 1000 detenuti e ne detieni, invece, 1400, come potrebbe diminuire la tensione e aumentare il livello di dignità riconosciuta alla persona privata della libertà? Celle con più detenuti, anziché uno come previsto, celle con bagni senza porta o con il cucinino dentro lo spazio del bagno. In questo non degno spazio è arrivato Alvaro, continua l’avvocato, e non doveva arrivarci, come aveva detto un giudice, perché incapace di intendere e di volere, ma un giudice “timido”, perché precisò che non avrebbe dovuto starci ma avrebbe dovuto farlo sino a che non si fosse trovato un posto in una Rems. Ma nelle Rems il posto non c’era; il finale è il suicidio di Alvaro, ma le responsabilità sono di un sistema allucinante. L’intervento incisivo di Capra ribadisce, approfondendolo, quanto già osservato dalla dottoressa Buccoliero, né assume caratteri troppo diversi la riflessione della sociologa e criminologa, Lucrezia Carnero. La terza relatrice, dopo aver spiegato di aver assistito Alvaro durante la sua prima detenzione, fa una rapida rassegna del tema della malattia psichica e della sua contenzione, spaziando dagli antichi reclusori seicenteschi agli ospedali penali giudiziari (OPG), veri e propri luoghi di custodia rigida e anche violenta dei criminali affetti da disturbo psichico, per giungere sino alle Rems. Luoghi, questi ultimi, meno disumani degli OPG, ma anche del carcere, osserva la Carnero, dove l’operazione di disumanizzazione del detenuto è profonda, a partire dalle parole dell’amministrazione - la “domandina” per qualsiasi richiesta, come se si trattasse di bambini - e dove, non di rado, lo sforzo di affiancamento psicologico del carcerato è legato ai volontari che entrano nei penitenziari e non un consapevole investimento dell’amministrazione statale. Circa le carenze carcerarie e Alvaro, la Carnero racconta che il giovane ecuadoriano, durante la prima permanenza in prigione, era riuscito a superare il pudore di chiedere aiuto, aveva lucidamente compreso di aver bisogno di un supporto e aveva contattato il centro di salute mentale. Ma gli era stato risposto che “in quel momento non potevano aiutarlo”. Alvaro, dunque, viene fotografato in quell’istantanea, quella di un uomo che ha coscienza del proprio stato di salute, delle proprie angosce, ma non c’è tempo, non c’è spazio. La macchina burocratica e le inerzie del sistema carcerario e della società, in generale, stritolano quel giovane, come altri. Lo ribadisce l’ultimo intervento, quello della dottoressa Cacioppo, che precisa il ruolo di mediazione dell’ufficio della garante tra il carcere e la società esterna, del ruolo di monitoraggio della condizione dei detenuti tra le pareti di una cella, e sottolinea tutti i limiti delle strutture carcerarie già evidenziati dall’avvocato Capra. Precisa, inoltre, che la situazione è drammatica non solo all’ingresso del detenuto, ma anche in altri momenti, quale, ad esempio, il colloquio con il magistrato di sorveglianza, che ha il ruolo di definire eventuali misure alternative al carcere, eventuali permessi, un’eventuale riduzione della pena. Il potenziale disagio del detenuto è ampio, il disturbo psichico non è solo un dato precedente l’ingresso in una galera, ma, non di rado, si acuisce proprio fra quelle mura, per le particolari condizioni di vita, l’inevitabile disattenzione dell’istituzione, data dalla carenza di personale, la snervante situazione di attesa perenne che caratterizza tanti momenti della vita quotidiana. È una situazione altamente problematica, sottolinea la relatrice, che rischia di creare un effetto di “normalizzazione suicidaria”, ossia un effetto di assuefazione della società civile dinanzi al crescente numero di suicidi in carcere. Una società civile lontana, poco sensibile al problema, alla vicenda di Alvaro o a quella, come racconta la dottoressa Cacioppo, di una persona suicidatasi in cella, mentre gli altri detenuti erano nell’ora d’aria, nel luglio dello stesso 2023. Un uomo affetto da disturbo psichiatrico e da tossicodipendenza, che aveva da poco incontrato il giudice di sorveglianza e mentre l’organo di garanzia era nel carcere. L’ultima relatrice chiude leggendo un documento, una lettera composta dagli stralci di alcune missive che una giovane donna spedì alla madre, prima di suicidarsi anche lei, affetta anche da lei da una forma di disagio psichico. Una lettera che, tra gli altri drammatici passaggi, dati dallo sconforto e dalla solitudine, dai fantasmi che le si agitavano dentro, recita: “tutte le mie forze fisiche e psicologiche mi avevano abbandonato. Intorno a me solo il vuoto di una cella priva di oggetti e umanità e dentro di me il vuoto in cui ero sprofondata, trascinata dalla solitudine e dall’abbandono di chi invece doveva prendersi cura di me. Ero in trappola”. È lo stesso sconfinato senso di solitudine non compresa e di costrizione in cui dev’essersi trovato Alvaro. Lo stesso di tanti altri, morti nell’inerzia legale di un luogo pubblico, ma sottratto alla vista e alla conoscenza più dettagliata dei suoi piccoli orrori quotidiani, perché non disturbi troppo la nostra coscienza pudica. Firenze. Carcere di Sollicciano, altro appello a Nordio. Ci riprova il Comune di Luca Gasperoni Corriere Fiorentino, 11 aprile 2025 In dieci mesi cadute nel vuoto due richieste di incontro e tre lettere. Il Comune: situazione insostenibile. Tre lettere di denuncia al ministero della Giustizia, firmate da Comune, Regione e Sappe, e due richieste di confronto urgente al ministro avanzate dal governatore Eugenio Giani, negli ultimi dieci mesi. Tutte cadute nel vuoto. A certificare l’abbandono non solo pratico - visto che il carcere è in condizioni gravissime e l’assenza di una direttrice stabile non può che acuirne le criticità - ma soprattutto politico di Sollicciano che da tempo ha superato il punto di non ritorno. E allora Palazzo Vecchio ci riprova, rivolgendosi ancora una volta al ministro, Carlo Nordio. “Sollicciano necessita di un intervento di rigenerazione radicale: andrebbe demolito e ricostruito, lo abbiamo detto più volte. Versa in una situazione di degrado insostenibile. Insieme alla sindaca Sara Funaro scriverò a Nordio per invitarlo a fare un sopralluogo”, chiarisce l’assessore al Welfare, Nicola Paulesu, memore dell’ultima ispezione al carcere da parte della Asl a metà marzo. A Sollicciano, infatti, le condizioni della struttura (infiltrazioni, luce ridotta, scarse condizioni igieniche) si sommano al sovraffollamento (362 posti al momento disponibili per 535 detenuti) provocando atti di autolesionismo, con già tre suicidi nel 2025. “Chiediamo un intervento urgente, accogliendo l’appello dei magistrati che chiedono la chiusura degli spazi detentivi per una completa ristrutturazione”. Appello rilanciato dall’ordine fiorentino degli architetti che nei mesi scorsi ha sollecitato una riflessione pubblica. “Bene la lettera a Nordio - dice il presidente Luca Scollo - è un gesto necessario e coerente con la gravità della situazione, che richiede un confronto diretto e immediato con le istituzioni locali. Sollicciano necessita di un intervento di rigenerazione radicale ma nell’attesa di una scelta così drastica è imprescindibile avviare subito una fase progettuale seria per affrontare il degrado attuale”. Problemi condivisi anche dal carcere minorile di Firenze, visitato ieri mattina dal segretario dei Radicali, Filippo Blengino: “Anche in questo carcere c’è sovraffollamento e le condizioni delle celle sono disumane. I minorili andrebbero aboliti perché lo Stato non è in grado di assicurare condizioni accettabili”. Brescia. Carcere di Verziano, l’ampliamento pronto per l’estate del 2029. Il “giallo” dei posti di Manuel Colosio Corriere della Sera, 11 aprile 2025 Si dovrà attendere l’estate del 2029 per vedere compiuto l’ampliamento del carcere di Verziano. A dare notizia dei tempi esecutivi è stato ieri il Ministro della Giustizia Carlo Nordio durante il question time su istanza dalla senatrice bresciana Mariastella Gelmini (Noi Moderati), che ha chiesto aggiornamenti e rassicurazioni rispetto agli impegni presi ad inizio anno dal Ministero della Giustizia sui lavori per il secondo carcere cittadino. La ristrutturazione di Verziano dovrebbe portare nuovi posti, ma quanti? Qui i numeri divergono ed il Ministro non ha fatto chiarezza, anzi, ha generato ancora maggiore confusione: ha affermato che al momento il carcere di Verziano “può contare su una disponibilità di 220 posti” ma in realtà la capacità attuale è di soli 71. Resta dunque da capire su quanti spazi ulteriori potrà contare: le ultime notizie fissavano la capienza futura dopo l’ampliamento a 348, dopo che nei mesi precedenti si era parlato di addirittura che sarebbero stati 400. “A fronte della complessità degli interventi programmati non ci sono novità rispetto a gennaio” ha esordito Nordio, confermando come la conclusione dell’iter di procedura d’affidamento congiunto per la progettazione esecutiva per i lavori avverrà a dicembre 2025, come stimato dal Ministero delle Infrastrutture. Arrivano comunque particolari fino ad oggi inediti: da quel momento ci vorranno 3 anni mezzo per concludere i lavori, per i quali sono stati confermati il 19 marzo scorso 38 milioni di euro di finanziamento. Fatti i dovuti calcoli temporali si stima che il carcere di Verziano, ampliato ed anche ristrutturato dato che Nordio ha annunciato “interventi anche sulle mura perimetrali”, arriverà a metà 2029. Se tutto filerà liscio, perché i nodi da risolvere non sono pochi e gli imprevisti sempre in agguato, a partire dagli espropri delle aree esterne al carcere necessari per garantire che l’ampliamento non sacrifichi le aree trattamentali attualmente a disposizione dei detenuti, dedicate alle attività sportive e lavorative. La senatrice Gelmini ha chiesto rassicurazioni anche su questo aspetto e il Guardasigilli ha convenuto come “la garanzia per le aree dedicate a sport e lavoro sono fondamentali”; “cercheremo di acquisire gli spazi, ma non compete solo a noi, è un lavoro collegiale”. Il riferimento è esplicito: “Stiamo interloquendo soprattutto con il Comune d Brescia, nostro migliore interlocutore, e se il Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria troverà adeguata attenzione, come sta trovando, spero che questi tempi possano essere abbreviati”. Gelmini è a conoscenza del fatto che “le competenze dell’attuazione di quest’opera appartengono a enti diversi ma siamo soddisfatti dell’impegno assunto dal ministro Nordio al fine di coordinare l’attività e vigilare sul rispetto dei tempi di realizzazione. Brescia e la Lombardia hanno bisogno di risposte piuttosto urgenti”. Reggio Emilia. Detenuti transessuali. La sezione Orione, il caso: “Il teatro le rende libere” di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 11 aprile 2025 Il convegno in Regione sull’esperienza del carcere di via Settembrini “Necessità di ampliare l’offerta di progetti e di aumentare i percorsi alternativi”. La casa circondariale di Reggio Emilia è tra i sei istituti penitenziari italiani che accolgono le persone transgender all’interno di una sezione dedicata e protetta. La sezione Orione, così si chiama, accoglie attualmente undici detenute trans, su una settantina totale in Italia. A fare il punto sulla sezione transgender Orione, anche in rapporto alle altre realtà sul territorio nazionale, lo scorso mercoledì si è tenuto a Bologna - organizzato dal garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna Roberto Cavalieri nella sede dall’Assemblea legislativa regionale - il convegno “Carcere, transessualità e limitazione della libertà personale. Dall’esperienza di Reggio Emilia all’Italia. Visioni sul rispetto dei diritti di una minoranza penitenziaria’. Tra i relatori reggiani: Elena Carletti (presidente commissione parità Emilia Romagna), Annalisa Rabitti (assessora al Welfare Reggio Emilia), Cecilia Di Donato (responsabile della scuola di teatro MaMiMò, all’interno della Pulce), Carmela Gesmundo e Mario Tafuto degli Istituti penali di Reggio Emilia e Marco Bedini, magistrato di sorveglianza a Reggio Emilia. Nella sezione Orione, le detenute sono undici: quattro le italiane, sette le straniere. Dall’intervento dei relatori è emerso per prima cosa che ogni sezione protetta è di fatto un carcere nel carcere, ma a rendere ancora più drammatica la condizione è che nello specifico si tratta sempre di persone che hanno perso ogni legame con la famiglia e con l’esterno. I livelli di istruzione sono poi molto diversi e per questo servirebbero proposte di attività individualizzate. “Dal 2017 mi occupo di attività teatrale all’interno del carcere di Reggio Emilia - ha detto Cecilia Di Donato -. Un’attività che non si è mai interrotta, nemmeno durante la pandemia. Ai detenuti vengono fatte proposte di attività e sono loro a scegliere come investire il loro tempo. In questo momento sono due le ragazze della sezione Orione che partecipano al progetto di teatro. È vero: non sono molte, ma sono comunque un sassolino nell’acqua che alimenta positività. Da poco hanno rappresentato uno spettacolo tutto loro, ‘Cuciture’, dove hanno espresso che il teatro è il loro sogno e quando sognano sono libere”. A parlare poi è stata Marcia De Oliveira, di origine brasiliana, ristretta nella sezione Orione e ora operatrice sociale in Romagna. “In carcere mi sentivo sola e non vedevo via d’uscita - ha raccontato Marcia -. Poi ho capito che dovevo reagire. Ho conosciuto persone, a partire dai volontari, che mi hanno aiutata. Sono riuscita a uscire dall’isolamento, a ripartire. Sono stata in carcere sei mesi, arrestata come straniera irregolare in Italia. Oggi, chiuso il capitolo carcere, lavoro come operatrice sociale e mi impegno per sostenere le detenute che stanno vivendo una situazione simile a quella che ho vissuto io. Il mio sogno adesso è poter lavorare nella sezione Orione e spero di realizzarlo presto”. Il convegno ha fatto emergere la necessità di ampliare l’offerta di progetti rivolti ai transgender detenuti e di aumentare l’offerta di percorsi alternativi, per chi ne ha il diritto, alla pena penitenziaria. Ribadita più volte l’estrema necessità di somministrazione delle terapie ormonali, nella sezione Orione garantita, anche se subordinata a specifiche richieste e non sempre a titolo gratuito. Monza. Intervista a Roberto Rampi, Garante dei detenuti di Villy De Luca ildialogodimonza.it, 11 aprile 2025 Colloquio con Roberto Rampi, recentemente nominato Garante dei diritti dei detenuti del carcere di Monza. Ho incontrato Roberto Rampi durante la sua attività politica ed in alcune visite al Carcere di Via San Quirico di Monza con l’Associazione Nessuno Tocchi Caino. Mi è sembrato una persona molto sensibile al tema della situazione Carceraria. Cosa che si è confermata durante i dialoghi con detenuti e con gli operatori. Ho percepito una profonda umanità. Rampi crede fermamente che le strutture carcerarie debbano essere luoghi di rieducazione rispetto al reato commesso. Una possibilità concreta per il detenuto che, scontata la pena, possa riacquistare tutti i diritti e i doveri di cittadino libero, nel rispetto delle leggi dello stato, con la possibilità di svolgere un lavoro, avere una casa e quindi una vita dignitosa. Riporto alcuni dati relativi alla Casa Circondariale di Monza considerando che, sotto alcuni aspetti, ci mostrano condizioni migliori rispetto altre carceri italiane non solo per il sovraffollamento ma anche per la manutenzione delle strutture carcerarie spesso fatiscenti e con scarse misure igieniche. Il Carcere di Monza accoglie 716 detenuti di cui 300 in attesa di giudizio, a fronte di una capienza di 483 detenuti con una presenza di 350 agenti di polizia. La recidiva è circa del 70%. Numerosi detenuti dovrebbero avere la carcerazione domiciliare, ma non avendo una dimora o una residenza permangono nella Casa Circondariale. All’interno della Casa Circondariale operano molte realtà associative di volontariato che svolgono attività con i detenuti proponendo attività di musica, di teatro, culturali con laboratori artistici ed artigianali. Sono circa 199 le persone adulte che partecipano alle attività proposte dalle associazioni. Immagine da web La tua nomina è stata proposta anche dall’associazione Nessuno tocchi Caino. Che progetti porti avanti con questa associazione? Ho conosciuto Nessuno tocchi Caino molti anni fa e mi sono impegnato con loro nella campagna per la moratoria internazionale contro la pena di morte andando in alcuni Paesi del mondo, come lo Swaziland o la Liberia, a discutere e convincere i governi a votare a favore della moratoria alla Nazioni Unite. Da qualche anno ci occupiamo di carcere, morte per pena e pena fino alla morte. Visitiamo molte carceri per verificare le condizioni dei detenuti, teniamo con loro lavoratori mensili di confronto e cittadinanza, combattiamo contro i pregiudizi e le normative che non permettono il reinserimento sociale e non considerano possibile il cambiamento delle persone. Insomma alla fine proviamo a dare corpo allo spirito della nostra Costituzione. Ho letto che hai iniziato ad interessarti delle condizioni carcerarie già 20 anni fa con Roberto Vecchioni? Si, allora lavoravo con lui sia per l’organizzazione dei concerti che in tante sue attività culturali nelle scuole, nelle università e in campo editoriale. Organizzammo anche un concerto nel carcere di San Vittore. Non fui sorpreso perché l’idea che avevo del carcere era già molto negativa ma di certo fu un impatto molto forte. Cosa ti ha spinto ad occuparti di questo tema? Credo le mie letture, la filosofia, i cantautori che amo molto. Tutto questo insieme mi ha sempre fatto pensare che le persone cambiano, che le situazioni e il contesto spesso determinano quel che ti accade nella vita. E che lo Stato non deve giudicare o punire ma piuttosto creare le condizioni per evitare che certi fatti accadano e per favorire il cambiamento e il reinserimento sociale. Il mio è un pensiero che riguarda l’uomo. E se vogliamo anche la natura del potere e dello Stato. Penso ovviamente a Focault, una lettura già degli anni del liceo. Sei stato vicesindaco a Vimercate con delega alla cultura, senatore e deputato della repubblica. Ci sono stati dei momenti che ricordi in modo particolare durante le tue visite nel Carcere di Monza? Se penso a Monza, penso in particolare a un concerto che portammo in carcere con l’allora Assessore provinciale Gigi Ponti. Da parlamentare ci sono state tante visite in Italia e anche all’estero: nelle carceri ucraine, kazache, catalane. Situazioni molto diverse anche se la privazione della libertà è sempre una forma di violenza. Ci racconti le iniziative politiche da parlamentare che hai promosso per un sistema penitenziario attento ai principi costituzionali? Intanto depenalizzare i reati. Che non significa come molti pensano cancellarli. Significa evitare che si finisca in carcere quando non è strettamente necessario. E poi molte azioni sulle alternative al carcere e sulla verifica di efficacia e di efficienza del sistema. Qualche segnalazione di problemi soprattutto gravi. Qualche momento di conflitto con chi purtroppo pensa che alla carcerazione debba corrispondere la perdita dei diritti se non addirittura dell’umanità. Durante la tua esperienza di Vicesindaco quali iniziative hai intrapreso per il Carcere di Via San Quirico? Ricordo in particolare l’acquisto e la donazione di volumi per la biblioteca del carcere. Soprattutto dizionari e codici di natura giuridica. Come garante dei detenuti hai già fatto dei colloqui con i detenuti di Monza? Che impressione hai avuto rispetto il loro stato di salute? Monza mi sembra un luogo dove molti sono impegnati a dare il meglio nelle condizioni date. Ma la struttura è quella che è. Ed è invecchiata male. Ci sono il doppio delle persone che dovrebbe e potrebbe ospitare. Ci sono limiti oggettivi nella tempestività delle cure e le difficoltà di una struttura vecchia come la presenza di cimici. C’è un enorme lavoro particolarmente difficile per il contesto e la mancanza cronica di risorse. Quali priorità porterai all’attenzione delle istituzioni, Direttrice, Comune di Monza, Provincia? Il mio approccio non è tanto quello di segnalare problemi che credo siano anche a loro molto ben noti. Piuttosto vorrei provare con le relazioni che ho costruito nel tempo a dare una mano per risolverli. Credo soprattutto che ci sia la necessità di offrire molte più opportunità di lavoro dentro e fuori il carcere. E poi di seguire con attenzione il momento dell’uscita e del reinserimento nella società e di creare le condizioni per applicare tutte le misure alternative possibili. Secondo te, per la tua esperienza politica, da dove bisognerebbe partire per risolvere il problema del sovraffollamento? Evitando che tante, tantissime persone che non dovrebbero essere in carcere ci finiscano. Io contesto l’efficacia del carcere e sono convinto che ci siano molto modi migliori per occuparsi di queste persone. Molti sono in carcere in attesa di giudizio e non dovrebbero starci. Altre sono persone che hanno bisogno di cura di tipo psicologico o psichiatrico o sono dentro per problemi legati alla dipendenza da sostanze e andrebbero quindi aiutati, altri a causa delle norme che regolano male i flussi da altri Paesi. Insomma il sovraffollamento dipende dal fatto che abbiamo deciso come società di non occuparci di queste persone ma di farle scomparire in questi luoghi. Perché è così difficile applicare le misure alternative alla detenzione? Per motivi culturali, sociali e pratici. Perché si investe troppo poco. E perché le misure alternative non sono sentite come una priorità. Perché ci si crede poco e perché c’è un discredito sociale e anzi una richiesta indotta di carcere e di pene. Si tratta in fondo di un desiderio di vendetta e di una forma di semplificazione basata sulla logica colpa/punizione. Una logica che è, però, totalmente sbagliata e inefficace. Chi ha scritto la nostra Costituzione (e spesso in carcere c’era stato) aveva invece immaginato un sistema molto diverso. Ed è a questo che dobbiamo lavorare. Reggio Emilia. Terapie ormonali negate alle detenute transessuali, la smentita dell’Usl Ristretti Orizzonti, 11 aprile 2025 In riferimento all’articolo comparso su Il Resto del Carlino il 9 aprile 2025 a pag. 40, dal titolo "Diritti dei detenuti trans. Negate terapie ormonali”, il Dipartimento ad Attività Integrata di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Azienda USL di Reggio Emilia tiene a smentire nel modo più reciso possibile che, come affermato nello stesso, le detenute trans non abbiano accesso alle terapie ormonali e ai colloqui psicologici. L’Azienda USL di Reggio Emilia prevede, per questa popolazione, una assistenza continua erogata quotidianamente dal personale medico, psicologico e infermieristico. L’offerta è arricchita dalla presenza, a cadenza almeno mensile, di uno specialista endocrinologo che garantisce la regolare prescrizione e il necessario monitoraggio della terapia ormonale. È inoltre da tempo attiva una proficua collaborazione tra gli operatori sanitari e gli operatori del MIT (Movimento Identità Trans) di Bologna. Firenze. Migrazioni, carceri disumane, pace: “Ripensiamole con padre Balducci” di Daniela Giovannetti La Nazione, 11 aprile 2025 La Fondazione festeggia oggi i trent’anni di attività. La presidente Bellini: “Curiamo. l’incontro e l’accoglienza”. La Fondazione Ernesto Balducci compie 30 anni e questo pomeriggio celebra anniversario con un evento di condivisione dal titolo “Percorrere le distanze” che propone mostre, un convegno e musica alla Badia Fiesolana, la chiesa dove padre Ernesto officiava la messa. Presidente Grazia Bellini, di strada la Fondazione ne ha fatta tanta. “In 30 anni abbiamo organizzato convegni, tavole rotonde, mostre, pubblicato riedizioni degli scritti di Balducci e nuove pubblicazioni sempre ispirati dai temi a lui (e a noi) cari”. Perché la giornata di oggi si chiama “Percorrere le distanze”? “Vuol dire accettare, curare l’incontro, riconoscere i diritti, lasciarsi guidare dalla fraternità. È un impegno non solo per questa giornata, ma una direzione per i nostri passi”. In questi 30 anni avete incontrato e coinvolto grandi personalità e gente comune, uniti sotto il segno dell’Uomo planetario di balducciana memoria. “Faremo sempre tesoro di chi abbiamo incontrato, ma con lo sguardo sulla strada che sta davanti a noi, per leggere insieme alcune sollecitazioni del nostro tempo, per dare spazio ai germi di speranza nascosti sotto le foglie secche delle nostre abitudini”. Quali sono? “Per esempio il progetto Metamorfosi della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Milano che abbiamo abbracciato in questa giornata: alla Badia suoneranno le note del “Violoncello del mare”, strumento creato col legno delle barche dei migranti di Lampedusa trasformato in musica dai detenuti del carcere di Opera. È dare voce a migranti e carcerati, che di solito voce non hanno. È ascoltare le loro storie e uscire dal monologo che ci racconta quello che già sappiamo. Inoltre premieremo una giovane ricercatrice con il ‘Premio per la Pace 2025’. Migrazione, condizioni carcerarie, pace: son temi cari a Balducci. Leggendo i suoi scritti oggi, sono di un’attualità spiazzante. Segni di speranza anche per il futuro”. Milano. Basta parlare di carcere, diamo voce al carcere. La storia di Mabul di Davide Assael Il Domani, 11 aprile 2025 Da un corso dell’Università cattolica di Milano svoltosi a Opera nasce Mabul, rivista ideata e redatta interamente da detenuti, che prende spunto da un termine biblico che descrive un’esperienza di smarrimento. Un progetto da sostenere. Nell’ambito del corso di Giustizia riparativa dell’Università Cattolica di Milano, tenuto da anni con enorme seguito dalla professoressa Claudia Mazzucato, un paio d’anni fa abbiamo tenuto all’istituto penitenziario di Opera, alle porte di Milano, delle lezioni sul mabul, categoria biblica che già altre volte abbiamo assunto sulle pagine di Domani come chiave interpretativa del tempo di crisi continua che ci tocca vivere. Mabul è un termine ebraico che troviamo nei capitoli 6-11 del libro della Genesi e nel Salmo 29. Nelle lingue occidentali, viene solitamente tradotto con “diluvio” ed è associato alla storia di Noè. Basta, però, dare una rapida scorsa al testo per capire che lì non si descrive affatto un diluvio, ma un fenomeno, se vogliamo meteorologico, assai diverso: la caduta delle acque dall’alto e la contemporanea emersione delle acque dal basso. Dunque sì la pioggia, ma anche l’esondazione dei laghi, dei fiumi, dei mari, delle falde acquifere. Fenomeni, del resto, intuitivamente collegati. In ambito ebraico, la lettura biblica attraversa cinque livelli racchiusi nell’acronimo pardes, che sta per peshat (livello letterale), remez (simbolico), derash (midrashico-comparativo), sod (mistico). Se il primo livello ermeneutico ci porta a ricercare le tracce geologiche di questo terrificante fenomeno che avrebbe riportato l’intera terra emersa sott’acqua, i livelli successivi ci invitano a estrarre un significato più ampio del racconto. Mabul è, qui, il punto in cui alto e basso si incontrano fino a confondersi, momento di massima perdita dell’orientamento. Come quando ci si trova sepolti sotto una valanga di neve e non si sa più se, scavando, ci si stia dirigendo verso l’uscita o se ci si stia seppellendo ulteriormente. Durante il mabul, fenomeno talmente distruttivo da non trovare equivalenti nella storia biblica, ogni nostro segno di orientamento è caduto, lo smarrimento è massimo. La rivista - Nel corso delle nostre lezioni, è stata tale l’immedesimazione di alcuni detenuti di Opera con questa condizione che, grazie alla mente ciclonica e la capacità realizzativa di Claudio Lamponi, hanno deciso di usare il termine ebraico per dar vita a una rivista, la prima in Italia redatta e gestita all’interno di un istituto penitenziario, in cui i detenuti potessero descrivere la vita carceraria italiana, notoriamente tra le peggiori fra i paesi sviluppati, come anche Domani documenta da tempo. Dopo una presentazione in pompa magna alla presenza delle autorità carcerarie, cittadine e della comunità ebraica milanese svoltasi in una gremita aula magna dell’istituto penitenziario e scandita dagli interventi di alcune figure artistiche e giornalistiche coinvolte nell’iniziativa, il progetto sta ora prendendo definitivamente forma. Inutile dire che c’è bisogno di fondi, che la redazione della rivista ha pensato di cominciare a raccogliere attraverso l’organizzazione di una partita di calcio, che si terrà il 5 luglio, alle ore 18.00, presso il centro sportivo Vige a Milano. Il contributo non dev’essere per forza economico. Per dare risalto all’iniziativa, preziosissimi sarebbero, ad esempio, dei contributi di giornalisti, intellettuali, nomi noti del panorama culturale italiano, anche di questo stesso giornale che si è sempre dimostrato così sensibile al tema. Alcuni si sono già arruolati, altri sarebbero graditi. Nel 2024 si è raggiunto il triste record di suicidi nelle carceri italiane, da dove, quando si esce, è altissimo il tasso di recidiva. Strutture spesso fatiscenti, sovraffollamento, assenza di personale qualificato sono solo alcuni dei mali che rendono impossibile un percorso di riabilitazione, già di per sé concetto altamente problematico. Chiunque voglia interessarsi all’iniziativa, entrare in contatto con la redazione, o semplicemente venire a vedere la partita di calcio, può trovare informazioni e contatti su www.mabul.it. Piuttosto che parlare di carcere, cosa sempre preziosa, per una volta permettiamo al carcere di parlare. Turi (Bat). “Punto e a capo”: un periodico per restituire dignità ai detenuti di Rossella Cea Quotidiano di Bari, 11 aprile 2025 Il valore terapeutico della scrittura come strumento di recupero e riscatto. Se Dovstojeski affermava che il grado di civiltà di una nazione si evince dalle sue carceri, per Gandhi chi si appresta a trascorrere anni della propria vita, o l’intera esistenza in carcere, è come un paziente che necessita di cure, e che si appresta a trascorrere una serie di interminabili giorni vuoti. Ma è proprio da quei giorni che bisognerebbe ripartire, per riuscire a dare un senso a quella vita spezzata, che pur continua, e che attenderà un giorno chi ne è rimasto lontano per lungo tempo. Presentato nella sede di Bari dell’Ordine dei giornalisti della Puglia, un progetto ad ampio respiro, che si propone di restituire attraverso il valore terapeutico della scrittura, quella dignità che in un ambiente come quello del carcere, viene spesso dimenticata dal mondo esterno. Promotore della lodevole iniziativa il giornalista Valentino Sgaramella che, partendo dall’istituzione di un laboratorio di scrittura creativa all’interno del carcere di Turi, ha creato un periodico mensile dal titolo ‘Punto e a capo’: “ Questo progetto è una sorta di polmone che si contrae e poi si espande, trasmettendo all’esterno quelli che sono gli stati d’animo e le sensazioni all’ interno di una parte della società da sempre emarginata, perché vista come colpevole, ma che ha diritto a far sentire la propria voce. È stato proprio ascoltando le sensazioni e le storie raccontate dai detenuti, spesso storie caratterizzate dalla difficoltà di reinserimento nella società, una volta scontata la pena, di solitudine e sofferenza, che ho compreso il valore aggiunto che la scrittura può dare a questa causa. Può davvero costituire un veicolo attraverso il quale elaborare la propria esperienza e trasformare il proprio dolore in una significativa rinascita”. Il progetto è stato realizzato grazie al sostegno dal punto di vista editoriale di Giovanna Giannandrea, amministratrice unica della Willy Green Technology, e di Emanuele Ventura presidente dell’associazione Cultura & Armonia di Turi: “Questo progetto rientra nell’ambito ideologico che da sempre fa capo a quell’ idea di inclusione senza discriminazione alcuna, che anima qualsiasi tipo di nostra iniziativa culturale, nell’obiettivo comune di far crescere il nostro territorio”. La conferenza stampa è stata moderata dalla giornalista Maria Liuzzi. Ospite d’onore il nuovo Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, Maurizio Marangelli: “Siamo lieti di dare il nostro contributo a questa nobile iniziativa, mettendone in rilievo l’importanza sotto il profilo culturale. Il giornalista diviene mediatore fondamentale di questo processo interno ed esterno al carcere, attraverso il quale è importante che si formi anche la coscienza del giovane, in vista di un futuro più umano”. Insieme a lui anche Piero Ricci, consigliere nazionale Ordine Giornalisti, Piero Rossi Garante per la Regione Puglia dei detenuti, Marisa Savino Presidente della Camera Penale di Bari e Nicoletta Siliberti, direttrice del carcere di Turi: “La scrittura è un mezzo importante che ci consente di riscrivere, attraverso le potenzialità del linguaggio, un sistema fatto ancora di espressioni inadatte e poco dignitose rispetto ad una certa condizione. Questo progetto rappresenta una meravigliosa occasione per restituire, attraverso lo sfogo della scrittura, una seconda possibilità a chi pensava di aver perso ormai tutto”. Presenti per un saluto istituzionale anche Lucia Parchitelli, consigliere regionale e presidente della VI Commissione Istruzione Cultura e Lavoro, Tommaso Scatigna consigliere regionale, Giuseppe De Tomaso sindaco di Turi e Fabio Romito consigliere regionale: “In un mondo dominato dall’odio e dall’invidia, non possiamo che sostenere e accogliere con gioia un progetto come questo, che punta alla valorizzazione dell’individuo in un ambito in cui regna da sempre l’emarginazione. Ci auguriamo che altri progetti del genere possano fiorire anche a Bari”. Punto è a capo sarà dunque uno strumento virtuoso e di confronto, utile a veicolare tematiche relative a diritti e doveri, passando attraverso il tessuto emotivo della scrittura e promuovendo uno scambio essenziale tra istituzioni, valori della collettività e senso profondo di un recupero alla vita. Avellino. “Alba di carta”, un libro per lanciare un messaggio di speranza ai detenuti di Monia Gaita corriereirpinia.it, 11 aprile 2025 Si è svolto ieri, 9 aprile, nella Casa Circondariale di Bellizzi Irpino, un significativo incontro di presentazione del libro di un ex detenuto, Antonio Sauchella. Il volume dal titolo “Alba di carta - Memorie di una prigionìa”, racconta il tormentato percorso carcerario dell’autore che attraverso un ispirato-ragionato processo di introspezione, è riuscito a scavalcare gli argini del vuoto e a superare il baratro della droga. L’evento, curato dall’Unpli provinciale di Giuseppe Silvestri, è stato possibile grazie alle promotrici responsabili del progetto, le professoresse Elvira Micco e Ersilia Criscitiello, felicemente coadiuvate dai professori Bruno Vantaggiato, Giuseppe Nigro, e dalla referente, professoressa Claudia Di Franza. Per Elvira Micco: “Antonio Sauchella con la sua testimonianza ci ha fatto vivere momenti toccanti e soprattutto pieni di speranza. Il messaggio che io ne ricavo è che nella vita si può anche sbagliare e pagare per i propri errori, ma la vita stessa ci regala sempre una seconda possibilità, ed è soprattutto questa che non dobbiamo lasciarci sfuggire. Voglio, in breve, illustrare le ragioni che ci hanno portato a questo evento. La scuola in carcere costituisce sicuramente un’opportunità di crescita umana e professionale per noi insegnanti, però presenta caratteristiche di intervento educativo peculiari. Essa è prima di tutto destinata ad un’utenza di apprendenti adulti, ma direi di più, apprendenti adulti ristretti. Inoltre, abbiamo a che fare con un particolare luogo di lavoro con variabili organizzative particolari, distintive. In un contesto di detenzione, i tempi sono molto dilatati (l’arrivo degli studenti in classe avviene in orari spesso variabili), quindi le ore di insegnamento diventano numericamente inferiori a quelle preventivate. Un altro fattore influente per l’insegnamento è sicuramente il numero “fluttuante” degli studenti. Noi, però, dobbiamo svolgere il nostro lavoro al meglio. Il nostro compito è Educare ad apprendere, e ogni giorno, ci chiediamo come catturare l’attenzione dei nostri alunni e quale strategia o metodologia attuare. Perché un insegnante in carcere non deve soltanto trasmettere allo studente detenuto delle conoscenze, ma far venire fuori potenzialità latenti, soppresse, e spesso, mai coltivate. È da un po’ che stiamo portando avanti l’idea di far leggere in classe durante l’anno, uno o due libri, facendo una lettura condivisa. Ecco perché quando Giuseppe Silvestri mi ha proposto questo libro, ha attirato la nostra attenzione. Il libro propone uno spaccato di vita dell’autore che ha vissuto un’esperienza comune a tanti nostri alunni. Lo abbiamo letto insieme, discusso in classe, commentato, esaltato e anche criticato”. Per Giuseppe Silvestri: “Questo libro che vi invito a leggere, ha creato un ponte tra la società esterna e quella interna del carcere. È stato un momento di grande umanità che ci lascia in dono una lezione. Dopo il buio arriva sempre l’alba”. Antonio Sauchella ha parlato ai ragazzi con voce sincera: “Io mi sento uno di voi, avendo sperimentato la dura realtà del carcere. Ho commesso molti errori. La droga mi aveva condotto su una strada sbagliata prospettandomi il miraggio dei soldi facili. Quando sono finito in galera ho avuto modo di pensare a quello che ero diventato. Ma ho capito pure che il carcere sarebbe stato la mia salvezza perché mi forniva l’occasione di poter meditare. Da quell’analisi ho trovato piano piano la forza di riscattarmi, il coraggio di vivere nei valori veri. Ho nutrito la speranza di potermi rialzare. E dopo un faticoso cammino, anche grazie al sostegno della fede (mi sono avvicinato all’Islam), ho capito che potevo farcela. Voglio dire anche a voi che non dovete sentirvi vinti dalla vita, ma con la volontà potete diventare migliori, rispettando e amando chi vi sta accanto. Ai miei figli insegno l’amore ogni giorno. La nostra esistenza ha significato solo se sappiamo amare e aiutare gli altri”. A moderare il dibattito, la valente giornalista Katiuscia Guarino. Sono intervenuti con illuminanti spunti e considerazioni, la direttrice della Casa Circondariale, Maria Rosaria Casaburo; la psicologa e presidente dell’Associazione Terra Dorea, Maria Saffo Di Maio; l’avvocato Gaetano Aufiero, presidente della Camera Penale Irpina; la dirigente scolastica operativa in laboratori di Filosofia dialogica con i detenuti e la società civile, Mirella Napodano; il garante dei detenuti di Avellino, Carlo Mele; Pietro Caterini, dirigente scolastico dell’Istituto De Sanctis-D’Agostino-Amatucci. I relatori hanno rimarcato la necessità di una legislazione più incisiva per fronteggiare le criticità e le carenze in cui versano le carceri, puntualizzando l’obiettivo della rieducazione e del reinserimento sociale per i detenuti. Le azioni predisposte per riqualificare la vivibilità all’interno dell’Istituto Penitenziario di Bellizzi, sono molteplici e vedono l’impegno congiunto di più energie. I detenuti frequentanti l’Istituto per Geometri, hanno animato la manifestazione con canti e letture, recitando con notevole espressività e pathos anche una mia poesia a tema. Il dolore e il rimpianto per la privazione della libertà hanno lasciato il posto alla gioia, alla voglia di dire, di esprimersi, di accendere la propria creatività, di abbracciare il mondo. Un piccolo evento che ha costruito e cementato lo spirito di comunità scongiurando il rischio sempre incombente dell’isolamento e della separazione. Perché il carcere non è una comunità a parte e una sua cattiva o negletta gestione rifletterebbe soltanto la nostra inettitudine e un pacchiano menefreghismo civico. Ecco perché Avellino ha da calare sul tavolo una fiche decisiva per ridefinire e corroborare le politiche sociali e di governo su una prospera amministrazione del carcere di Bellizzi. Una scommessa che chiama in causa tutti. In gioco è il patto di responsabilità con una legione di cittadini che non ha bisogno di rifiuti, ma di cura, di sentimenti positivi e integrazione anche nella complessa, delicata fase della fuoriuscita dall’iter reclusivo e del reingresso nella società civile. Trovano, dunque, giusta eco e adesione, le parole della direttrice, Maria Rosaria Casaburo: “Siamo contenti quando possiamo smentire la solita, abusata narrazione del carcere come luogo di degrado e mortificazione dei bisogni primari. Questi momenti di condivisione e attività testimoniano una storia diversa; si rivelano prioritari per tessere una solida rete di confronto, collaborazione e valori condivisi”. Milano. In cella a Dropcity, viaggio tra le carceri di tutto il mondo di Marta Bravi Il Giornale, 11 aprile 2025 “Prison times” analizza arredi e stanze per riflettere sulla detenzione oggi. “Prison Times - Spatial Dynamics of Penal Environments” è una mostra (fino al 31 maggio, dalle 11 alle 19), un catalogo e un calendario di incontri, che punta ad analizzare e a riflettere sullo stato contemporaneo della detenzione, ricostruendo gli ambienti penitenziari in Italia e nel mondo. Dalla domanda “Qual è la giornata tipo di un detenuto?” da Dropcity, il centro per l’architettura e il design ideato e creato dallo studio Caputo nei 10mila metri quadrati dei Magazzini Raccordati della Stazione Centrale, è nata una ricerca (curata da Andrea Caputo con la direzione creativa di Giada Zuan) che rivela la prigione come uno spazio scandito da tempi propri. La mostra si snoda per 1.500 metri quadri per cinque tunnel (42-140) in ambienti ritmati dai diversi momenti della giornata: “Entering Time” (tempo dell’ingresso), “Eating Time” (pasti), “Monitoring Time” (osservazione), “Cleaning Time” (igiene personale) e “Sleeping Time” (sonno). Il tempo è la metrica fondamentale dell’incarcerazione e un elemento chiave nelle sentenze penali in tutto il mondo. Eppure il tempo rimane soggettivo acquisendo significati diversi a seconda degli individui e delle pratiche istituzionali. Spesso la punizione si manifesta come tempo sospeso e forse è per questo che, nei corridoi delle prigioni, gli orologi non mostrano mai la stessa ora: manipolare la percezione del tempo è una delle strategie per mantenere la disciplina. Per altri versi, i mobili dei vari ambienti - sono stati invitati i produttori di arredi carcerari del mondo - messi in mostra come pezzi unici sembrano avulsi dal tempo, diventando quasi oggetti a sé, ma profondamente intrisi della cultura, delle sensibilità e delle legislazioni dei Paesi. Si capisce così come un oggetto sia la sintesi di una serie di requisiti tecnici, di sicurezza e legali da rispettare. Un esempio? Le sedute inglesi e americane sono diverse, riflettendo le sensibilità delle due nazioni: se, infatti, la legislazione carceraria inglese impedisce di legare i detenuti, le sedute hanno il baricentro spostato in modo da rendere più complicato per i detenuti alzarsi. Diversa la panca americana con due anelli integrati per poter fissare le catene ai piedi. Così i tavoli sono inchiodati a terra, possibilmente senza bulloni o elementi che si possano staccare e senza profili che permettano di nascondere degli oggetti. I coperchi degli armadi sono inclinati per lo stesso motivo, mentre i coloratissimi vassoi delle mense hanno gli angoli smussati e sono realizzati con materiali che non si possono spezzare per evitare che chiunque si possa ferire o fare male agli altri. Da qui nasce il catalogo, che presenta gli arredi con le loro specifiche tecniche. “Reform Trust: Ideas on Penal Environments”, a cura di Federica Verona e Valeria Verdolini, è il ciclo di incontri parallelo: ogni sessione analizza la funzione esistenziale delle prigioni, affrontando tematiche legali, politiche, amministrative e sociali (instagram_dropcity.org). Roma. “Cultura è vita” anche in carcere: il Vaticano e l’evento per promuovere progetti artistici di Ester Palma Corriere della Sera, 11 aprile 2025 Grazie ai dicasteri della Santa Sede per la Cultura e l’Educazione e per la Comunicazione, esperti del mondo accademico, arte, giornalismo si sono confrontati sulla cultura come strumento di crescita, emancipazione e dignità anche negli istituti di pena. Che Papa Francesco sia da sempre vicino ai detenuti e ai loro problemi lo si è capito fin dall’inizio del suo pontificato: era il 27 marzo 2013, Giovedì santo, ed era stato eletto da 14 giorni, quando a sorpresa scelse il carcere romano minorile di Casal del Marmo per celebrare la Messa in Coena Domini: per la tradizionale lavanda dei piedi scelse 12 giovani reclusi, tra cui due ragazze e due musulmani. A tutti parlò di speranza e sostegno reciproco anche nelle difficoltà della vita carceraria: lo stesso rito lo ha ripetuto nel 2023. E già da arcivescovo di Buenos Aires aveva detto in un’intervista: “Alcuni dicono: sono colpevoli. Io rispondo con la parola di Gesù: chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano”. E ancora nell’incontro con i cappellani delle carceri dell’ottobre 2013, il Papa stupì tutti dicendo: “Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro”. I partecipanti e i progetti - In questo spirito il Dicastero per la Cultura e l’Educazione e dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede hanno promosso un evento dal titolo, “programmatico”, “Cultura è vita nei luoghi di detenzione”, che si è tenuto nella Sala San Pio X in via dell’Ospedale 1. All’incontro, moderato dal giornalista Riccardo Iacona, hanno preso parte esperti del mondo accademico, dell’arte, del giornalismo e della cultura, per confrontarsi sull’importanza della cultura come strumento di crescita, emancipazione e dignità anche all’interno delle carceri. A aprire i lavori, i saluti istituzionali del cardinale José Tolentino de Mendonça e Paolo Ruffini, rispettivamente prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione e del Dicastero per la Comunicazione. Fra gli altri intervenuti, Stefano Anastasia di Unitelma Sapienza; l’artista Laurie Anderson; Roberta Barbi giornalista di Radio Vaticana - Vatican News; Rosa Galantino, autrice e produttrice del documentario Le Farfalle della Giudecca; Teresa Paoli, giornalista di Presadiretta (Rai 3); Cristiana Perrella, curatrice di Conciliazione 5 e direttrice del Macro; Pisana Posocco e Marta Marchetti della Sapienza di Roma; Marcello Smarrelli, direttore artistico della Fondazione Pastificio Cerere; l’artista Tommaso Spazzini Villa. L’evento è stata l’occasione di presentare progetti, passati, presenti e futuri, nazionali e internazionali, realizzati all’interno degli istituti di pena, per e con i detenuti. Come “Dal Vivo” di Laurie Anderson, artista e compositrice di fama internazionale e vedova del grande rocker Lou Reed: è il progetto realizzato per la Fondazione Prada nel 1998 presso il carcere milanese di San Vittore, e di “Habeas Corpus”, del 2015, un’installazione che ritrae la figura di un giovane prigioniero di Guantanamo. Cristiana Perrella, curatrice del nuovo spazio per l’arte contemporanea del Dicastero per la Cultura e l’Educazione “Conciliazione 5”, ha presentato il progetto artistico del pittore cinese Yan Pei-Ming, “Oltre il muro”: 27 ritratti di detenuti e operatori del carcere di Regina Coeli, il principale e più noto istituto penitenziario romano, che non è lontano dallo stesso Vaticano. Dobbiamo parlare parlare e riparlare dei referendum di Franco Corleone L’Espresso, 11 aprile 2025 Il governo ha deciso la data per i referendum: si voterà l’8 e 9 giugno. Sarà una prova decisiva per capire se l’indignazione per le nostalgiche provocazioni di Giorgia Meloni si tradurrà in una forte partecipazione, necessaria per superare l’iniquo quorum, e fare in modo che il risultato sia valido creando una valanga di democrazia. Il tema della cittadinanza è fondamentale per rifiutare la discriminazione e i rigurgiti di razzismo, ma l’occasione di questo voto - che è stato conquistato prima con la raccolta straordinaria delle firme occorrenti per promuovere un referendum e poi con il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale - ha un valore che va oltre il merito del quesito. Lo stesso vale anche per i referendum proposti dalla Cgil che, travalicando la lettera delle domande, devono assumere il senso di una risposta alla strage continua delle morti sul lavoro, alla povertà crescente e a un modello di sviluppo parassitario e consumistico. Da qui il contestato richiamo di Landini alla “rivolta”. È una forzatura? È la stessa di chi diceva che i soldati russi nella Prima Guerra mondiale avevano votato con i tacchi. Impelagarsi nei dettagli impedirebbe di concentrare l’attenzione sul fatto che, finalmente, con il voto di giugno si potrà decidere e incidere in direzione di una società più giusta esercitando una forma di democrazia diretta, senza condizionamenti né deleghe a rappresentanti delle segreterie di partito. L’astensione non è una dannazione ineluttabile e lo dimostrano le ultime elezioni in Germania che hanno visto la partecipazione dell’82,5 per cento degli elettori. Qui molte e molti hanno compreso che si trattava di una partita decisiva. In modo diverso, lo sarà anche in Italia. Ora si tratta di costruire un’efficace campagna di mobilitazione da parte delle associazioni promotrici dei referendum, e decisivo sarà il ruolo di informazione che devono assicurare tutti i media, pubblici e privati. Il Comitato promotore ha già chiesto ai vertici del servizio pubblico non solo di organizzare i confronti tra i rappresentanti del Sì e del No, ma soprattutto uno spazio adeguato nei programmi di approfondimento e nei Tg. Mentre i giornali possono garantire una spinta alla costruzione di reti nelle città e nei paesi, utilizzando anche le edizioni online. È stata ottenuta la possibilità del voto per i “fuori sede” per ragioni di studio o di lavoro, e la loro risposta sarà determinante per il successo, come lo sarà il voto degli italiani all’estero. La primavera è finalmente iniziata e il sole deve scaldare i cuori per una stagione di passioni: la prossima Pasqua, il 25 aprile, il 1° maggio, il 2 giugno non possono essere vissuti come ponti di vacanze, ma come occasioni di propaganda con strumenti originali per far conoscere la scadenza referendaria (ripetiamolo: l’8 e 9 giugno) e convincere ad andare al seggio, respingendo il luogo comune degli scettici secondo cui “votare è inutile, tanto il quorum non sarà raggiunto”, facendo piuttosto leva sul senso di colpa degli assenti che non avranno il diritto poi di lamentarsi della ingiustizia e del malgoverno. Il referendum, che è pratica di sovranità popolare, può essere una leva capace di valorizzare il protagonismo sociale diffuso ma parcellizzato e senza un obiettivo generale. E può contribuire a una società ricca di felice convivialità, senza odio e violenza. È un sogno? Basta un sì per farlo vivere. Fine vita: (quasi) tutti d’accordo: la legge si farà di Francesca Spasiano Il Dubbio, 11 aprile 2025 Mondo cattolico, politica e avvocatura discutono alla Camera. Trovare una sintesi possibile, per una legge possibile sul fine vita. Ciò che il Parlamento cerca da almeno 6 anni, ovvero da quando la Consulta gli ha chiesto di legiferare sul suicidio medicalmente assistito, è stato anche il cuore del dibattito tra politica, avvocatura e mondo cattolico che si è svolto ieri nella sala stampa della Camera in occasione dell’evento organizzato dal Dubbio. Ad ispirare l’iniziativa è l’ultimo libro di Lorenzo d’Avack, membro e già presidente del Comitato nazionale di bioetica, che indica già nel titolo gli elementi in gioco: “Filiazione e fine vita. Riflessioni bioetiche e giuridiche” (Scholé, Editrice Morcelliana). Per ciò che riguarda il secondo tema, su cui ieri si è concentrata la discussione, gli strumenti del giurista sono quelli del diritto. Che però si intrecciano con i principi della morale nell’obiettivo di convergere su una risposta unica di fronte alla pluralità di posizioni e scelte che compongono la società: ciò che d’Avack riassume nell’espressione “politeismo etico”. Ma nell’incapacità di trovare valori in cui riconoscersi tutti, è preferibile affidarsi alla giurisprudenza? Oppure una legge si rende oggi indispensabile? “L’avvocatura si sta interrogando con attenzione e responsabilità sul tema del fine vita”, ha esordito il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, introducendo il dibattito. “Non si tratta soltanto di un problema etico, medico o psicologico: il fine vita è, a pieno titolo, anche una questione giuridica ha aggiunto -. In questo contesto, il Cnf ha avviato con una società di ricerca un’indagine per comprendere il sentiment dell’avvocatura su questo tema delicato. I dati sono attualmente in fase di analisi e offriranno spunti preziosi per un contributo consapevole alla riflessione in corso. Attendiamo che il Parlamento affronti questa materia con la necessaria lucidità e con il rispetto dovuto a tutte le considerazioni politiche, religiose, morali ed economiche che la attraversano. Da parte nostra, riteniamo che l’avvocatura possa e debba offrire il proprio contributo, ponendosi come voce dei diritti e promuovendo una riflessione che metta al centro la dignità della persona e la tutela delle sue libertà fondamentali”. Anche per Vittorio Minervini, vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana, “il legislatore oggi deve essere attento a porre al centro della sua riflessione il rapporto tra etica e diritto. Assumendo come punto centrale e fondamentale la dignità della persona”. Sulla necessità di legiferare si è espresso anche l’autore del libro, il quale ha sottolineato il ritardo del Parlamento rispetto ai richiami della Corte Costituzionale, che con le sue sentenze ha inevitabilmente aperto dei vuoti normativi da colmare. Di fronte ai quali, ha ricordato d’Avack, “i conflitti che si sono verificati sono stati risolti attraverso le decisioni dei tribunali. Qualcuno potrebbe anche essere contento di tutto questo: secondo alcune correnti di pensiero, in determinati casi, la giurisprudenza può essere un vantaggio rispetto a delle regole emanate dal Parlamento. Ma io ho qualche dubbio in merito - ha spiegato il giurista -, perché la mia vicenda professionale mi porta a ritenere che in tal modo non realizzeremo mai una certezza del diritto. Saremo sempre nelle mani dei tribunali e dei giudici, i quali svolgeranno magari perfettamente le loro funzioni, ma ponendosi in delle posizioni ideologiche che a volte la società può condividere, e altre a volte no”. Se una legge è dunque necessaria, ragionano i relatori dell’evento, bisogna costruirla a partire dai quattro requisiti sanciti dalla Consulta con la sentenza 242 del 2019 sul caso Dj Fabo/ Cappato. Ma anche secondo una prospettiva umanistica, ha avvertito Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontifica accademia della vita, per il quale “parlare di inizio e fine vita, significa parlare di una dimensione che non può essere racchiusa in una legge”. “Entriamo in un orizzonte nel quale è indispensabile legiferare - ha chiarito Paglia - ma attenzione a non cadere in quella che io chiamo “l’adorazione della legge”. Il dibattito sul tema richiede una comprensione della vita e del suo senso a tutto campo, e nessuno su questo può avere la risposta assoluta. Come sostiene il Papa, nella società contemporanea esistono di fatto una pluralità di etiche, e questo richiede la corresponsabilità di tutti, quando si tratta di tradurle in legge. Perché la legge non esprime l’etica, ma allo stesso tempo produce cambiamenti culturali ed etici di cui bisogna tenere conto”, ha concluso Paglia. Il quale ha espresso anche il timore che le cure palliative siano legate soltanto alle prospettive di fine vita. Si tratta del nodo centrale previsto dal disegno di legge di cui è relatore il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin (insieme a Ignazio Zullo di FdI), che nel corso dell’evento si è confrontato con l’esponente dell’opposizione Michela Di Biase, deputata del Pd. La bozza in esame a Palazzo Madama aggiunge un quinto criterio: che il paziente che richiede di accedere a un percorso di fine vita sia già inserito in un programma di cure palliative. “Un punto che pone altri problemi, soprattutto perché queste cure non sono disponibili su tutto il territorio nazionale”, ha spiegato Zanettin. Per il quale bisogna però chiarire che non si tratterebbe di trattamenti sanitari obbligatori: “Chi chiede la morte medicalmente assistita perché soffre dolori insopportabili, può essere considerato del tutto capace di intendere e volere? Le cure palliative che attenuano o eliminano il dolore a mio giudizio hanno il compito di mettere il malato che richiede il suicidio assistito in una condizione di più libera determinazione della propria volontà”, ha spiegato l’esponente azzurro. Della necessità che la politica proceda speditamente di fronte al dolore e alla sofferenza di tanti ha parlato invece Di Biase, la quale ha ricordato che nella scorsa legislatura era stato votato alla Camera il ddl Bazoli, interrotto nel suo iter con la caduta del governo. “Il Parlamento deve assumersi la responsabilità di fare una legge, come ci chiede la Consulta, ovvero in modo sollecito e compiuto. Noi naturalmente siamo disponibili a trovare un testo condiviso, perché questi sono argomenti in cui bisogna provare a lavorare insieme - ha concluso Di Biase. Però ricordiamo che il testo Bazoli era un’ottima sintesi, da cui si potrebbe ripartire”. Migranti, detenzione, rimpatri: quanta leggerezza sul riconoscimento e la tutela dei diritti di Maurizio Ambrosini Avvenire, 11 aprile 2025 I rimpatri sono il tallone d’Achille delle politiche di contrasto dell’immigrazione irregolare: nell’UE nel 2024 soltanto il 30% dei migranti colpiti da un ordine di espulsione, a loro volta una modesta frazione dell’immigrazione indesiderata, sono stati effettivamente rimpatriati. Nel nuovo Patto sull’Immigrazione e l’Asilo (bozza del settembre 2023) il termine “ritorni” era citato 93 volte: un’autentica ossessione per i decisori europei. Ancora più magri i risultati italiani: 4.304 rimpatriati nel 2022, 4.751 nel 2023, circa la metà verso un solo Paese, la Tunisia. Anche tra i 6.665 trattenuti nei Cpr nel 2023 soltanto il 47% (3.134) è stato realmente espulso. Si spiega così la recente proposta della Commissione Ue per la riforma della Direttiva del 2008 sui rimpatri, che introduce la possibilità di allestire centri di detenzione per gli immigrati da rimpatriare (definiti “return hubs”) in Paesi terzi. Scelti in base a due criteri: o perché i migranti abbiano qualche relazione con quei Paesi, oppure perché si tratta di Paesi che hanno sottoscritto accordi con l’Ue e sono stati definiti “sicuri”. Una sorta di progetto Guantanamo all’europea. La base di Guantanamo però è sotto il controllo statunitense, qui invece si discute di Stati sovrani. Sorge dunque il problema della tutela dei diritti fondamentali e del rispetto del principio di non-refoulement, che vieta di trasferire delle persone in Paesi dove potrebbero subire violenze o trattamenti degradanti. Non che l’Ue e i governi europei siano andati molto per il sottile nel recente passato, quando hanno ingaggiato le autorità turche, libiche, marocchine o tunisine per trattenere i profughi in transito, anche quando provenivano da Paesi in guerra come la Siria. Qui però si prevede di allontanarsi di un altro grande passo dalla difesa dei diritti umani basilari, consegnando delle persone soggiornanti nell’Ue, magari da anni, alle autorità di Stati esterni. Non si vede come si potrà poi controllare il loro operato, una volta che l’Ue li avrà pregati di gestire per suo conto la spinosa partita della detenzione e dell’eventuale rimpatrio dei migranti sgraditi. L’esempio libico dovrebbe suonare da monito. Enormi poi i costi, se si vuole andare al di là di azioni meramente dimostrative. Nel frattempo, il governo italiano ha annunciato la trasformazione di uno dei due costosi centri allestiti in Albania in Cpr. Una decisione che sembra anticipare il nuovo (eventuale) corso europeo. Ma il progetto italiano, anche ammettendo di superare lo sgarbo della modifica unilaterale di un accordo internazionale con l’Albania, non si allinea con Bruxelles. L’Italia mantiene infatti la giurisdizione sui centri realizzati sul territorio albanese, senza delegarne la gestione alle autorità locali, e senza che l’Albania sia definita come un Paese terzo di destinazione degli immigrati espulsi. Pertanto dall’Albania non sono previsti dei rimpatri. In caso di accordi con i Paesi di provenienza, i malcapitati dovrebbero essere riportati in Italia, titolare degli accordi, per essere poi rimandati nel loro Paese. Non si comprende poi che ne sarà di coloro che, al termine della detenzione, anche allungata a 24 mesi come prevede la nuova bozza europea, non saranno stati rimpatriati e dovranno essere liberati. Difficile immaginare che se ne facciano carico le autorità albanesi, che già si erano rifiutate di farlo nella precedente versione dell’accordo. La gestione dell’immigrazione irregolare è una questione spinosa, ma esistono altri strumenti per affrontarla: ritorni volontari assistiti, regolarizzazioni mirate al lavoro, sponsorizzazioni da parte di soggetti affidabili. Non servono invece misure che, pur di illudere l’opinione pubblica di aver trovato la soluzione, si accingono a consentire la violazione dei diritti umani, aggravano i costi per l’erario, rendono i governi europei più ricattabili da parte dei partner esterni, e probabilmente neppure otterranno i risultati auspicati. Migranti. Posti vuoti in Italia, ma si va in Albania. “A brevissimo” i primi quaranta trasferimenti di Giansandro Merli Il Manifesto, 11 aprile 2025 La nave militare Libra al porto di Brindisi, in attesa di sciogliere le ultime incognite. “Gli stranieri irregolari saranno trasferiti oltre Adriatico al fine del loro successivo allontanamento verso i paesi di origine”, afferma il ministro Piantedosi. Ma a fine marzo nei Cpr italiani c’erano più posti vuoti di quelli disponibili a Gjader. “A brevissimo è previsto il trasferimento dei primi quaranta stranieri irregolari al fine del loro successivo allontanamento verso i paesi di origine”, ha dichiarato ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi riferendosi alla nuova fase del progetto Albania. Grazie a un recente decreto del governo nei centri di Shengjin e Gjader andranno migranti in situazione di irregolarità amministrativa già presenti sul territorio nazionale, in attesa che la Corte di giustizia Ue si pronunci sul tema dei “paesi sicuri di origine” dei richiedenti asilo (il parere indipendente dell’Avvocato generale europeo diffuso ieri non lascia ben sperare il governo). L’ORA X dovrebbe scattare questa mattina, al porto di Brindisi, dove è presente la nave Libra che secondo le informazioni trapelate finora sarebbe pronta a entrare nuovamente in azione nell’ambito del protocollo Italia-Albania, giunto ormai al quarto tentativo dopo tre flop fragorosi. A breve il mezzo militare sarà dato in regalo alle autorità di Tirana, come ha dichiarato nei giorni scorsi il ministro della Difesa Guido Crosetto durante una visita nel paese delle Aquile. Fino a quando i migranti non saranno a bordo e la prua rivolta verso le coste albanesi, comunque, conviene usare il condizionale. Sull’operazione restano ancora delle incognite logistiche. Mercoledì sera era circolato un lancio di agenzia che parlava di un trasferimento in due scaglioni: prima quindici e poi altre venticinque persone. Sarebbe dovuto avvenire ieri ma alla fine non se ne è fatto nulla. Secondo alcune informazioni raccolte nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) del capoluogo pugliese due sere fa all’interno ci sarebbe stata una protesta. Una piccola protesta di routine, legata alle condizioni di detenzione e non allo spostamento al di là del mare, che non ha richiesto nemmeno l’intervento delle forze dell’ordine. “Non ci sono stati tafferugli, la situazione è apparsa tranquilla”, afferma il consigliere regionale Pd Maurizio Bruno. Ieri pomeriggio ha visitato la struttura di Brindisi Restinco e parlato con alcuni migranti e il personale dell’ente gestore. “La direzione ha detto di non avere informazioni sul trasferimento e di essere in attesa di comunicazioni dal ministero. I trattenuti non sanno proprio nulla e ripetono che vogliono stare in Europa, non in Albania - continua Bruno - Soprattutto non tornano i conti: all’interno, in questo momento, ci sono 46 migranti provenienti da Marocco, Algeria, Egitto, Bangladesh e Nigeria. Ma molti di loro hanno presentato domanda d’asilo”. Non risultano dunque idonei alla detenzione in Albania. Verosimilmente ne dovranno arrivare al porto anche da altri Cpr, magari da quello di Bari Palese, poco lontano. Sui dettagli dell’operazione vige il più stretto riserbo. Il Viminale dovrà comunque selezionare con molta attenzione i casi individuali e le nazionalità per evitare, se possibile, altre brutte figure. In totale nel Cpr di Gjader sono disponibili 48 posti, che in futuro diventeranno 144. Lo ha detto ieri il direttore centrale di immigrazione e polizia delle frontiere Claudio Galzerano, audito dalla commissione Affari costituzionali della Camera che sta preparando la conversione in legge del decreto che estende l’uso dei centri albanesi ai migranti “irregolari”. A pieno regime la struttura detentiva in Albania aumenterebbe, ha affermato Galzerano, la capienza complessiva dei Cpr italiani “del 15%”. Anche qui i conti non tornano del tutto, visto che teoricamente i posti delle dieci strutture situate nel territorio nazionale sono quasi 1.350. Alla fine del mese scorso quelli effettivamente in funzione erano 790, ma 163 risultavano vuoti. Quindi oltre il triplo delle possibili presenze nella struttura albanese. A Gjader, intanto, ad attendere i migranti c’è la nuova missione del Tavolo asilo e immigrazione (Tai) e la deputata Pd Rachele Scarpa, che ieri hanno realizzato una nuova ispezione. “Le autorità che gestiscono il centro affermano di non sapere quando avverrà il trasferimento. In generale notiamo che con il passaggio a Cpr c’è molta meno disponibilità a fornire informazioni”, afferma Francesco Ferri, in rappresentanza del Tai. “È tutto all’insegna di un’opacità che fa riflettere. Riceviamo da giorni informazioni contrastanti e lacunose a proposito di una “grande operazione” che il governo dovrebbe avere voglia di rivendicare. Invece pare proprio stiano improvvisando, per esigenze di becera propaganda”, afferma Scarpa. Migranti. Lista dei “Paesi sicuri”, la Corte Ue frena l’Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 11 aprile 2025 “I giudici possono valutare la legittimità delle designazioni legislative”. L’avvocato generale della Corte di Giustizia europea Richard de la Tour precisa: un Paese può essere definito sicuro solo con garanzie concrete. Gli Stati Ue possono designare la lista di Paesi sicuri con atto legislativo ma i giudici posso valutare la scelta: questa la posizione espressa dall’avvocato generale della Corte di Giustizia Europea, Richard de la Tour, in merito al protocollo Italia Albania e al dl Paesi Sicuri. In particolare leggiamo nel provvedimento, non vincolante per la decisione finale della Cgue attesa prima dell’estate, che: “Uno Stato membro può designare un Paese terzo come Paese di origine sicuro mediante un atto legislativo. Tuttavia, il giudice nazionale chiamato a esaminare un ricorso avverso il rigetto di una domanda di protezione internazionale deve disporre, nell’ambito dell’esame sulla legittimità di tale atto, delle fonti di informazione che sono servite da base per tale designazione”. Inoltre, secondo de la Tour, “la mera circostanza che un Paese terzo sia designato come Paese di origine sicuro mediante un atto legislativo non può avere la conseguenza di sottrarlo ad un controllo di legittimità, salvo privare di qualsiasi efficacia pratica la direttiva. L’atto legislativo applica il diritto dell’Unione e deve garantire il rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali riconosciute ai richiedenti protezione internazionale dal diritto dell’Unione”. Per quanto riguarda la possibilità di designare un Paese terzo come Paese di origine sicuro mentre non lo è per talune categorie di persone, l’avvocato generale Richard de la Tour ritiene che “la direttiva (direttiva Ue 2013/32, ndr) non osti a che uno Stato membro attribuisca ad un paese terzo lo status di paese di origine sicuro, identificando nel contempo categorie limitate di persone che possono essere esposte, in tale paese, al rischio di persecuzioni o violazioni gravi. Ciò è possibile solo qualora, da un lato, la situazione giuridica e politica di tale paese caratterizzi un regime democratico che garantisca alla popolazione in generale una protezione duratura contro tali rischi e, dall’altro, lo Stato membro interessato escluda espressamente tali categorie di persone dall’applicazione del concetto di paese di origine sicuro e dalla presunzione di sicurezza ad esso connessa”. Il caso era stato dibattuto dinanzi ai giudici di Lussemburgo lo scorso 25 febbraio: com’è noto il protocollo Italia Albania, siglato il 6 novembre 2023 e ratificato dal Parlamento italiano con legge 14/2024, ha istituito centri per il trattenimento e il rimpatrio in territorio albanese, ma sotto giurisdizione italiana. A Shengjin e Gjader possono essere trattenuti i richiedenti protezione internazionale sottoposti a una procedura accelerata di frontiera, riservata a persone provenienti da Paesi considerati sicuri. La questione discussa riguarda due cittadini del Bangladesh, la cui richiesta di protezione è stata respinta dalla Commissione territoriale di Roma, poiché il Bangladesh è stato disegnato Paese sicuro da un decreto interministeriale del maggio 2024, poi sostituito nell’ottobre successivo dal cosiddetto “dl Paesi sicuri”. La sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma con due ordinanze di rinvio pregiudiziale aveva chiesto alla Cgue di rispondere sostanzialmente a quattro domande: il diritto dell’Unione osta a che un legislatore nazionale proceda anche a designare direttamente, con atto legislativo primario, uno Stato terzo come Paese di origine sicuro? Quali garanzie procedurali devono esserci per verificare le fonti usate per questa decisione? Qual è il ruolo delle autorità giurisdizionali nel verificare la situazione del Paese interessato? Un Paese può essere definito sicuro se non lo è per alcune categorie di persone? Droghe. L’Onu: “Il proibizionismo è causa di tortura in carcere” di Leonardo Fiorentini L’Unità, 11 aprile 2025 Da molto tempo la società civile italiana impegnata nella riforma delle politiche sulle droghe denuncia la pervasività della legislazione sulle sostanze illegali nella società e quindi, a valle, sulle patrie galere. Il libro bianco, promosso fra gli altri dalla Società della Ragione e Forum Droghe, da ben quindici edizioni sottolinea come la legge Jervolino-Vassalli sia il volano del sistema repressivo nel nostro paese, e porti sostanzialmente in carcere un terzo della popolazione detenuta (per la precisione, al 31.12.2024 il 34,16%). Una percentuale abnorme, sia rispetto alla media europea (18%) che rispetto a quella mondiale (22%). È importante quindi che il Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura (SPT) abbia dedicato, nel suo diciottesimo rapporto annuale adottato nello scorso febbraio, un’intera sezione alla valutazione delle politiche sulle droghe, inquadrandole come uno dei principali fattori di rischio per episodi di tortura e maltrattamenti nei luoghi di privazione della libertà. Finalmente, da quando nel 2008 la Commission on Narcotic Drugs a Vienna ha introdotto per la prima volta in una sua risoluzione il tema del rispetto dei diritti umani, il sistema di controllo globale delle droghe ha cominciato a fare i conti con il resto del diritto internazionale. Per quasi 50 anni l’impianto proibizionista aveva viaggiato in un compartimento stagno, incurante delle tragiche conseguenze della repressione e dello stigma sulle persone che usano droghe e i loro diritti fondamentali. Negli ultimi anni invece, anche gli organismi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, basati a Ginevra, hanno cominciato a mettere il naso all’interno agli affari di Vienna. In particolare, va ricordato il rapporto dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani che ha denunciato le palesi violazioni dei diritti umani e invitava ad “assumere il controllo dei mercati illegali delle droghe attraverso una regolamentazione responsabile, per eliminare i profitti del traffico illegale, della criminalità e della violenza” (vedi l’Unità del 22 settembre 2023). Nelle sue “raccomandazioni ai meccanismi nazionali di prevenzione sull’impatto delle politiche sulle droghe nella prevenzione efficace della tortura” l’SPT riafferma che le politiche repressive sulle droghe hanno avuto a livello globale e locale impatti sistemici. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite la zero tolerance e la war on drugs, e i conseguenti arresti diffusi, hanno alimentato il sovraffollamento carcerario, anche a causa di pene sproporzionate e a volte “obbligatorie”. Non solo: questi approcci ostacolano l’accesso alle cure e generano abusi nelle fasi di arresto e detenzione preventiva. Le carceri, o le stazioni di Polizia, “di solito non sono attrezzate per offrire i servizi sanitari specifici richiesti dai detenuti che fanno uso di droghe”, compresi quelli legati alle crisi di astinenza. Nelle sue visite ispettive in giro per il mondo, la sottocommissione ha documentato l’assenza di programmi di trattamento “nel rispetto del principio dell’equivalenza delle cure” fra dentro e fuori i luoghi di detenzione. Il rapporto dell’ONU, tenendo conto degli “approcci istituzionalizzati al problema della droga in tutto il mondo”, chiarisce che le strategie efficaci sono la prevenzione, la riduzione del danno, l’offerta di trattamenti ambulatoriali efficaci, con un adeguato follow-up e l’offerta di cure e trattamenti diffusi nella comunità, al fine di “ridurre al minimo il ricorso alla privazione della libertà come parte della risposta al consumo di droga”. Perché anche i luoghi di cura, gli ospedali come i centri specializzati o le comunità, sono luoghi di privazione di libertà, e quindi contesti “rientrano nel mandato sia del Sottocomitato che dei meccanismi di prevenzione nazionali”. I trattamenti debbono essere volontari, basati sulle evidenze scientifiche, rispettosi della dignità e dei diritti umani e condotti da personale medico, al di fuori di contesti coercitivi o punitivi. In Italia è il collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ad essere stato formalmente riconosciuto come Meccanismo di prevenzione nazionale, sin dal 2014. Questo rapporto rappresenta quindi un’occasione concreta per il collegio di ampliare il proprio raggio di azione, inserendo sistematicamente le politiche sulle droghe, e i luoghi altri dove queste sviluppano i loro effetti, tra gli ambiti di monitoraggio. Va ricordato che l’Italia è già entrata nel 2021 nel rapporto del gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, direttamente per la sovra rappresentazione dei migranti in carcere per droghe (e indirettamente per l’eccessiva carcerazione), mentre nel 2023 è stato il Comitato per i diritti economici e sociali a esprimere preoccupazione per “l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione e del danno” raccomandando di rivedere “le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme internazionali sui diritti umani e alle migliori pratiche, e che migliori la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno” anche riferendosi alle carceri. Nel 2024 erano stati gli esperti del meccanismo dell’ONU per la giustizia razziale a segnalare l’Italia per le attività di profilazione etnica delle forze dell’ordine italiane e per la presenza di minori stranieri negli IPM, in particolare a seguito dell’aumento delle pene per lo spaccio di lieve entità e la maggior facilità di incarcerazione dei minori contenuti nel decreto Caivano. L’indicazione è quindi chiara: è impossibile prevenire efficacemente tortura e trattamenti inumani senza affrontare criticamente il paradigma proibizionista e le sue conseguenze strutturali. Il Garante nazionale dovrà tenerne conto e includere nelle proprie valutazioni le politiche nazionali sulle droghe e il modo in cui queste modellano le condizioni di detenzione e l’accesso ai diritti fondamentali. Dovrebbe tenerne conto anche il Governo Meloni, ma è come parlare ai sordi. Cannabis light, la ghigliottina del Decreto Sicurezza sulla fiera a Bologna di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2025 “Indica sativa trade” è l’evento più importante dell’anno, per la filiera. Paura di sequestri e denunce per droga. E il desiderio della disobbedienza civile per vincere in Corte costituzionale. Rischiano l’imputazione per droga, dopo il dl sicurezza, eppure cento imprenditori della cannabis light sono pronti a sfoggiare la loro merce negli stand bolognesi della fiera “Indica sativa trade”, all’Unipol arena di Bologna. È l’evento più importante dell’anno, per la galassia canapa, sconvolta dal decreto del governo Meloni. La fiera si apre oggi 11 aprile e chiude i battenti il 13, in un clima surreale. Rischio sequestro e denuncia per droga - Venerdì 4 aprile il Consiglio dei ministri ha licenziato lo schema del decreto che mette al bando le infiorescenze della canapa legale e i suoi derivati, come fossero sostanze stupefacenti. Entrerà in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta, con la firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Da quel momento, chiunque verrà trovato con una bustina di cannabis light è suscettibile di incriminazione. Anche l’olio e i prodotti a base di cannabidiolo (cbd) sono equiparati agli stupefacenti. Il fiore e i prodotti collaterali sono il piatto forte di Indica sativa trade. Dunque la fiera, a Bologna, debutta con la mannaia sul capo: cosa accadrà non appena il decreto entrerà in vigore, magari a manifestazione in corso? Gli imprenditori tirano dritto, compatti - Il fuggi-fuggi dalla fiera, nel timore dei sequestri e dell’accusa per droga, è scongiurato. Anzi gli imprenditori sono compatti: tutti decisi e restare, qualunque cosa accada e alla faccia del governo. Non sappiamo come risponderà il Viminale e il dipartimento antidroga di palazzo Chigi. Sono in cento, ad esporre la loro merce in fiera: hanno pagato lo stand, i viaggi e l’alloggio, lavorato sodo per prepararsi all’evento ed esibire le primizie della canapa. Malgrado il panico, venerdì scorso appena approvato il decreto, nessuno vuole gettare al vento i denari e i frutti del sacrificio. Dunque gli imprenditori sono pronti a resistere, confortati dagli avvocati più esperti del settore: lo studio Miglio-Simonetti, i legali Giacomo Bulleri e Carlo Alberto Zaina. ?Gli avvocati: si vince in tribunale - Secondo loro, il quadro legale non cambia: i sequestri di cannabis light e le incriminazioni per droga avvenivano prima e proseguiranno dopo il decreto. Ma in tribunale arrivano le assoluzioni, per lo più. “Secondo costante e granitico diritto giurisprudenziale, la commercializzazione delle infiorescenze di canapa industriale non è una condotta penalmente rilevante se la ‘sostanza’ non è offensiva, ovvero se non reca efficacia drogante”: è scritto nel documento intitolato L’illusione dell’illegalità, firmato dallo studio Miglio-Simonetti. È rivolto agli imprenditori canapicoli con la lista delle domande più frequenti: “Oggi come ieri, secondo il nostro parere, la detenzione e la vendita delle infiorescenze prive di efficacia drogante non costituiscono reato ai sensi della Legge Stupefacenti”, recita la nota, richiamando la sentenza della Cassazione n. 30475 del 2019. L’obiettivo: arrivare alla Corte Costituzionale - Gli ermellini imponevano un principio: senza effetto drogante non c’è reato. Nessuna prova scientifica dimostra reazioni psicotrope all’assunzione del cannabidiolo nel fiore della cannabis light. Ecco perché, secondo Zaina, la legge poggia su un pilastro fallato: l’equivalenza tra la canapa con Thc entro lo 0,5% e la cannabis stupefacente. Dunque presenta profili di illogicità, consegnando alla filiera la speranza di una bocciatura alla Consulta. “Se gli imprenditori non vogliono chiudere bottega dopo aver speso i loro soldi, possono prendersi un rischio calcolato e andare avanti con un atto di disobbedienza civile”, dice Carlo Alberto Zaina. “Qualcuno cadrà nella tagliola e sarà incriminato, ma la filiera dovrà sostenerlo per portare il divieto delle infiorescenze fino al giudizio della Corte costituzionale”, suggerisce Zaina. Insieme a Giacomo Bulleri ha pubblicato online un commento sul decreto che vuole uccide la canapa. I due legali sono ottimisti sulle chance di sopravvivenza della filiera. Ma servirà una battaglia legale. “Abbiamo sempre vinto - dice Zaina a ilfattoquotidiano.it - nel 2008 c’era il divieto sui semi e nel 2016 è iniziata la lotta per la cannabis light, l’importante è restare uniti senza andare in ordine sparso”. Il bluff del governo sulla pelle di 30 mila lavoratori - Alcune associazioni sono già alleate nella tutela degli operatori, con un fondo comune per i contenziosi e polizze assicurative per il rimborso delle spese legali. È scritto nel comunicato firmato Canapa Sativa Italia, Sardinia Cannabis, Resilienza Italia Onlus, Imprenditori Canapa Italia. Allo studio ci sono ricorsi al Tar, al tribunale civile, richieste di risarcimento, interventi in Europa. Il testo si chiude con le note dello studio legale Miglio-Simonetti: “Il Decreto non stravolge la disciplina penale già esistente, bensì amplifica la percezione di rischio”. Un bluff del governo Meloni, per spaventare le imprese e indurle alla chiusura. Le aziende hanno rilanciato, presenziando compatti la fiera Indica sativa trade, a costo di sequestri e denunce. Ora la mano torna al governo, in una partita a poker sulla pelle di 30 mila lavoratori a rischio disoccupazione. Su di loro, Giorgia Meloni ha chiuso gli occhi. Parla Noury: “Riarmo? Piuttosto c’è bisogno dell’Europa dei diritti” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 11 aprile 2025 “Repressione delle manifestazioni, legislazioni punitive, uso illegale della forza: in tanti stati europei si riduce ancora lo spazio di riunione pacifica, inclusa l’Italia. La deriva verso una società basata sulla sorveglianza fa comodo a chi governa”. Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Italia: Lo scorso anno, di questi tempi, Amnesty International denunciava la profonda crisi del multilateralismo. Quest’anno, a che punto siamo? Alla sua annunciata fine. C’è una data che possiamo appuntare sul calendario: il 20 gennaio, il secondo ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Quello è stato l’acceleratore di tutto: delle decisioni estemporanee, al risveglio, per dettare il tema del giorno potenzialmente riguardante miliardi di persone al mondo; della messa dell’Europa con le spalle al muro per farle prendere decisioni improvvisate; delle cose impensabili che diventano non solo pensabili ma anche realizzabili; del trionfo del cattivo gusto e del cinismo. Naturalmente, niente nasce il 20 gennaio 2025. L’autoritarismo di Trump era emerso anche nel suo primo mandato e non possiamo dire che l’amministrazione di mezzo - quella di Biden - abbia portato a una soluzione dei problemi che affliggono il mondo. Tuttavia, notiamo di recente quanti leader stiano trovando conforto nella condivisione, evidente da parte di Trump e Putin riguardo al futuro dell’Ucraina, del disprezzo per il diritto internazionale e dell’idea che i diritti umani e la giustizia possano, anzi debbano essere sacrificati. In queste settimane abbiamo visto cosa ha significato l’annunciata fine, dal punto di vista dei diritti umani, del multilateralismo nell’Unione europea. L’abbiamo visto, con un’azione provocatoria da parte di colui dal quale in fondo non ci aspettavamo sorprese: il primo ministro dell’Ungheria Orbán, che ha invitato e accolto il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza. Di fronte alla richiesta di rispettare i suoi obblighi di cooperazione giudiziaria e, di conseguenza, arrestare Netanyahu, Orbán ha annunciato stizzito che il suo paese si sarebbe ritirato dalla Corte. Si è scordato però che, sebbene il ritiro sia consentito ai sensi dell’articolo 127 dello Statuto di Roma, questo vale un anno dopo il deposito della decisione presso l’Ufficio dei trattati delle Nazioni Unite. Quindi ogni volta che Netanyahu o Putin o chiunque altro sia ricercato dalla Corte, da qui all’aprile 2026, vorrà mettere piede in Ungheria, dovrà essere arrestato. E poi che altro è successo? Ci sono stati altri gesti, meno eclatanti ma non meno gravi. I tre stati baltici (Estonia, Lituania e Lettonia), insieme alla Polonia e seguiti all’inizio di questo mese dalla Finlandia, hanno dichiarato l’intenzione di ritirarsi dalla Convenzione sulle mine anti-persona del 1999. Già che c’era, la Lituania si è anche ritirata dalla Convenzione sulle bombe a grappolo del 2010. Entrambe mettono al bando munizioni inerentemente indiscriminate, destinate (come ampiamente successo nella storia) a fare danni al momento del loro impiego e per il tempo a venire alle popolazioni civili. Ritiri del genere vogliono dire che si prevede che in futuro sarà necessario usarle. E questo, ovviamente, ha a che fare col tema del riarmo. Che è il tema del momento… Alla fine di marzo, nel vertice internazionale di Parigi cui insieme ai leader europei sono intervenuti quelli di Australia, Canada, Corea del Sud, Giappone, Nuova Zelanda e Turchia, è stata ribadita la determinazione di difendere l’Ucraina dall’aggressione della Russia. Ma, neanche tanto dietro le quinte, pare che non ci sia via di mezzo tra due opposti: auspicare “una pace ingiusta” o essere pronti a “una guerra giusta”. Da qui, due conseguenze: la seconda è ovvia, il riarmo. La prima prevede che i diritti umani e la giustizia non debbano intromettersi in soluzioni tutte politiche. Continuiamo ad ascoltare mantra sulla “complicazione delle cose” se nella risoluzione dei conflitti entrano elementi giuridici; si diffonde la domanda “Come si fa a fare la pace se X è ricercato dalla Corte penale internazionale o se addirittura viene arrestato?”, laddove X è di volta in volta Putin o Netanyahu. Vorrei rovesciare la domanda facendone tre, e attenendo risposte: “Come si fa a evitare la prossima guerra se X resta impunito?”; “Se X fosse stato già arrestato, le attuali guerre non avrebbero potuto essere evitate?”; “Con che faccia vi presenterete alle popolazioni ucraine e palestinesi vantandovi, nel caso, di aver raggiunto una ‘pace ingiusta’, ossia una ‘pace senza giustizia’”? Invece, di che Europa avremmo bisogno? Di un’Europa che sia sì una coalizione ma di giustizia e di diritti, che sono indispensabili tanto alla pace quanto nei periodi post-conflitto: quella che ha descritto Francesca Mannocchi nel suo intervento alla manifestazione per l’Europa di Bologna del 6 aprile, per intenderci. Abbiamo bisogno che accanto al riarmo e ancora prima del riarmo - che dovrebbe prevedere comunque investimenti circoscritti, il divieto di produrre e diffondere armi vietate e il rispetto del Trattato internazionale sul commercio delle armi e della Posizione comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armi - l’Europa investa nei diritti fondamentali: salute, lavoro, istruzione, uguaglianza di genere. Serve un’Europa che abbandoni i doppi standard, diventati un punto cardinale della sua politica estera e che sono emersi clamorosamente nell’aver abbandonato la popolazione palestinese della Striscia di Gaza al genocidio israeliano mentre si sosteneva il diritto, sacrosanto, della popolazione ucraina a difendersi dall’aggressione della Russia. Un’Europa che, a proposito di armi, rafforzi l’embargo su quelle che continuano ad arrivare in Sudan, dov’è in corso da due anni un conflitto interno spaventoso. Un’Europa che si renda conto che, indebolendo il diritto internazionale, perderà sempre più credibilità. A proposito di manifestazioni per l’Europa, cosa pensa di come è stata descritta nella prima, quella di Roma? L’ho seguita da vicino, considerandola un’assemblea di persone che avevano timori diversi e speranze diverse. L’immagine più bella che ho di piazza del Popolo è di aver visto, in un unico luogo, le bandiere dell’Ucraina, della Palestina e della pace insieme. Meno bello è stato ascoltare una serie di oratori parlare in toni trionfalistici dell’Europa, elencandone successi e meriti, facendo lunghe liste di persone che hanno fatto grande e unica l’Europa e omettendo quelle che, a citarle, avrebbero rovinato quella narrazione così sublime del nostro continente: da re Leopoldo II di Belgio al kaiser del Secondo Reich Guglielmo II coi loro genocidi in Africa. Già sento arrivare l’obiezione: “A piazza del Popolo si parlava dell’Europa dopo il nazifascismo, dell’Europa in cui, da allora, quelle cose non le abbiamo fatte più”. Vero, però le abbiamo affidate ad altri, ad esempio alla Libia, o abbiamo lasciato che le facessero altri. Mica poi così lontano da noi. A cosa si riferisce? Al mito che in Europa abbiamo vissuto ottant’anni in pace. La Bosnia dov’era, in Asia? La Cecenia era in America latina? Il Nagorno-Karabakh era in Oceania? Allora precisiamolo: solo in quel pezzetto di Europa che sentiamo nostro, quello dei padri fondatori e delle madri fondatrici dell’Europa unita, siamo stati in pace. Ma praticando l’orientalismo anche all’interno del continente, abbiamo visto come lontani da noi crimini di atrocità, compreso il genocidio di Srebrenica esattamente 30 anni fa, del tutto europei. Non c’è da essere granché fieri. E quanto al rispetto dei diritti umani all’interno degli stati europei, come stiamo messi? Lo spazio già trascurabile di riunione pacifica si è ridotto ulteriormente e in modo drammatico in diversi stati, con azioni repressive dirette in particolare contro chi manifestava solidarietà alla popolazione palestinese della Striscia di Gaza, con legislazioni punitive e con l’uso illegale della forza. In tutti e tre i casi, l’Italia è inclusa. Il rischio è che questo insieme di provvedimenti scoraggi la partecipazione alle attività in favore dei diritti umani di coloro che potrebbero essere i leader e le leader dell’attivismo futuro. Poi, non si riesce a fermare, perché fa comodo a chi governa, la deriva verso la creazione di una società basata sulla sorveglianza. Discriminazione, stigmatizzazione e violenza basate su etnia, religione, sessualità e genere prosperano (vedi i femminicidi in Italia, che ovviamente nessun inasprimento delle pene ferma), insieme a crimini e discorsi d’odio. Si continua a introdurre politiche e pratiche che non danno priorità alla protezione delle vite delle persone rifugiate e migranti rispetto al controllo delle frontiere e a dipendere pericolosamente da stati terzi per impedire od ostacolare le migrazioni. Le Ong e le persone che difendono i diritti umani subiscono criminalizzazione. In Grecia, ci sono continui procedimenti giudiziari per aver assistito persone rifugiate e migranti. Tre esperti delle Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per le restrizioni dell’Italia sulle attività di coloro che salvano vite in mare. In cosa dobbiamo sperare allora? In ogni momento buio, resta accesa la candela della speranza, simbolo anche di Amnesty International che proprio nel 2025 compie 50 anni. Quindi c’è da sperare nelle ragazze e nei ragazzi della Serbia, che da mesi stanno sfidando l’autoritarismo del presidente Vu?i?; nelle persone che in Georgia resistono alla violenza da parte di assalitori non identificati, in alcuni casi apparentemente incoraggiati o istigati dalle autorità; nei milioni di persone che hanno sfidato i divieti di manifestare imposti dal leader turco Erdo?an dopo l’arresto del sindaco di Istanbul. Questa è l’Europa di cui abbiamo bisogno.