Che amarezza di Mattia Feltri La Stampa, 10 aprile 2025 La sfida è durissima ma abbiamo tutte le carte in regola per vincerla. L’anno scorso, quello del record assoluto, nelle carceri italiane abbiamo avuto ottantotto suicidi, esattamente uno ogni 4,14 giorni. Quest’anno, trascorsi quasi tre mesi e mezzo, i suicidi in carcere sono ventisette - l’ultimo martedì a Cuneo, se il numero non è salito nella notte -, ovvero uno ogni 3,57 giorni. Avanti di questo passo, il primato di ottantotto dovrebbe essere battuto e con un po’ di fortuna si può ambire alla favolosa quota cento, mai toccata manco quando c’era Lui, Benitone. Lo sforzo è immane e, da Giorgia Meloni in giù, nessuno lo prende sottogamba: pensate che, quando l’attuale governo è entrato in carica, nel settembre del 2022, i detenuti erano 55 mila e ottocento. Oggi sono oltre 62 mila. Quasi settemila detenuti in più, in due anni e mezzo, significa una crescita del 12 per cento. Significa soprattutto che non si sta lasciando nulla di intentato per lo storico traguardo. E non è per niente facile in un paese in cui il popolo non ha alcun senso dello Stato, non collabora, e anche l’anno scorso ha commesso meno reati, addirittura gli omicidi fanno registrare un meno 13 per cento. Soltanto grazie a una volontà ferrea e a una fantasia inesauribile, il governo continua a inventare nuovi reati e a inasprire le pene, e a incrementare il sovraffollamento, senza il quale i suicidi andrebbero in drammatica recessione. Dopodiché, si fa quello si può. Per dire: l’anno scorso ottantotto suicidi, ma su oltre duemila tentativi. Cari detenuti, lo sforzo è encomiabile, ma i risultati possono e devono essere migliori. “Il sovraffollamento e i suicidi non si riducono soltanto con gli annunci” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 aprile 2025 Un confronto acceso, cifre discordanti e accuse di inefficacia hanno segnato ieri l’audizione del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove in Commissione Giustizia alla Camera, chiamato a rispondere alle interrogazioni dell’esponente di Italia Viva Roberto Giachetti sulle criticità del sistema carcerario, in particolare sul dramma dei suicidi e sul sovraffollamento. Dopo mesi di attesa, le risposte del governo non hanno placato le critiche, culminate in una dura replica del deputato, che ha definito “fallimentari” le politiche adottate. Delmastro ha aperto il suo intervento snocciolando dati ufficiali: 66 suicidi nel 2023, 82 nel 2024 e 16 nei primi mesi del 2025, a cui si aggiungono 122 decessi per cause naturali nel 2023, 126 nel 2024 e 33 nell’anno in corso. Per quanto riguarda i decessi per cause ancora in corso di accertamento, se ne contano 23 nel 2023, 19 nel 2024 e 13 nel 2025. Ha inoltre sottolineato che “questa tipologia di decessi non è ancora classificata, in quanto sono ancora in corso i dovuti accertamenti da parte dell’autorità giudiziaria”. Ha ribadito: “Le discrepanze segnalate dall’onorevole interrogante - ha spiegato - sono riconducibili a eventi ancora in corso di accertamento, classificati prematuramente come suicidi”. Sul sovraffollamento, il sottosegretario ha escluso una correlazione con l’aumento dei suicidi, citando tassi di incidenza inferiori negli anni con più detenuti (0,09% nel 2010- 2012) rispetto al 2022 (0,15%), “che supera anche quella del 2024 laddove, a fronte di 61.862 presenze, vi è stata un’incidenza di eventi suicidari dello 0,13%”. Ha quindi elencato le iniziative del governo: dal gruppo di lavoro con psicologi e tecnici per il disagio psichico alla collaborazione con l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) per l’introduzione di tecnologie di prevenzione, fino agli stanziamenti per l’edilizia carceraria (440 milioni per 134 istituti) e ai 7.000 nuovi posti detentivi previsti. “Questo governo ha istituito per la prima volta la carriera dei medici della Polizia Penitenziaria, una misura di cui vado orgoglioso”, ha aggiunto, riconoscendo però “problemi strutturali” ereditati dal passato. Pur ammettendo che il sistema penitenziario non può più replicare il modello di decenni fa, ha suggerito che “forse dovremmo fare tutti una riflessione” sul concetto di sanità penitenziaria. Delmastro ha confermato che il tasso di sovraffollamento è attestato al 132,56% a livello nazionale, precisando però che la criticità non riguarda i detenuti del sottocircuito Alta Sicurezza 1 e del circuito dei collaboratori di giustizia, dove i parametri minimi della Corte Europea sono rispettati. Anche nei sottocircuiti Alta Sicurezza 2 e 3, ha sottolineato, non si registrano allocazioni in violazione degli standard. Il monitoraggio delle presenze, gestito tramite applicativi dedicati della Direzione Generale dei Detenuti, attiva provvedimenti deflattivi quando un istituto raggiunge la capienza massima, con l’obiettivo di ridistribuire i detenuti del circuito Alta Sicurezza tra le strutture nazionali. Per la Media Sicurezza, invece, le richieste di trasferimento (o “sfollamenti extradistretto”) vengono valutate per ottimizzare la distribuzione geografica, tenendo conto anche dei legami familiari dei detenuti. Sul fronte finanziario, Delmastro ha evidenziato l’incremento di 261 milioni di euro per il triennio 2025- 2027, con fondi specifici per l’Amministrazione Penitenziaria: 60,6 milioni nel 2025, 146,6 milioni nel 2026 e 127,8 milioni nel 2027. Ha spiegato che le risorse, inserite nella Legge 207/ 2024, serviranno a potenziare l’edilizia carceraria e a contrastare il sovraffollamento, confermando l’impegno del governo in “interventi di ampio respiro”. L’intervento di Roberto Giachetti si è distinto per intensità e fermezza: “Io non so come il sottosegretario, che ringrazio comunque, riesca a stabilire che non c’è nessuna correlazione tra il sovraffollamento e i suicidi”. Il deputato ha sottolineato che “non è solo un fatto tecnico- scientifico, signor Sottosegretario: è correlato anche alle condizioni in cui si trovano gli istituti, che magari sono molto peggiori rispetto a qualche anno fa”. Ha poi puntato il dito contro la questione delle telefonate, ricordando: “Vorrei preliminarmente farle presente che voi non avete ancora approvato il regolamento sull’aumento delle telefonate per i detenuti che avevate annunciato nel famoso decreto carceri. Lo stiamo ancora aspettando”. Secondo Giachetti, si tratta di un elemento tutt’altro che marginale, con un impatto significativo sul benessere psicologico dei detenuti. Il tono si è fatto più duro quando il deputato di Italia Viva ha contestato i dati forniti: “Peraltro le segnalo che lei mi ha dato un dato, se non sbaglio, il 13 marzo del 2025. Ieri è uscita un’agenzia nella quale - non io, ma il sindacato della polizia penitenziaria - comunica che siamo al ventisettesimo. Quindi presumo che da marzo ad aprile ci siano stati già altri dieci suicidi”. Giachetti ha anche sollevato il problema della classificazione dei decessi: “Quello che è morto di sciopero della fame in ospedale probabilmente non viene considerato come suicidio”. Il confronto si è fatto ancor più acceso quando Giachetti ha richiamato il passato: “Vorrei dirle che tutte le cose straordinarie che lei ci ha raccontato sono però la risultanza di un fallimento, signor Sottosegretario, perché tutto quello che lei ci racconta è tutto in itinere: il decreto, le caserme, le carceri”. Non ha risparmiato critiche nemmeno sulle soluzioni annunciate, soffermandosi sul tema delle celle- container: “Questi prefabbricati sono per 384 nuovi posti che costano 32 milioni di euro, cioè 83 mila euro a detenuto che viene messo dentro un prefabbricato”. E ha aggiunto: “Siamo in un sovraffollamento di 16 mila persone e voi spendete 32 milioni per allocare 384 persone”. Concludendo, Giachetti ha ricordato il suo lungo impegno sul tema: “Tutte le cose che sto dicendo le ripeto da 15 anni. Faccio parte di un’associazione che si chiama Nessuno Tocchi Caino che, insieme a Pannella e ai Radicali, si dedica a questo tema da decenni. Abbiamo fatto di tutto: sciopero della fame, sciopero della sete, con tutti i governi”. Ha infine affermato con tono severo: “Mi aspetto, e mi aspettavo, da lei soluzioni che non siano avveniristiche, che non siano una presa in giro rispetto all’emergenza”, ribadendo che il problema dei suicidi e del sovraffollamento non può essere ridotto a mere statistiche o a piani ancora in fase di realizzazione. Magi: “Bisogna applicare la sentenza della Consulta” Nella stessa giornata, il ministro della Giustizia Carlo Nordio è intervenuto al question time alla Camera rispondendo a un’interrogazione sul diritto all’affettività dei detenuti, sancito da una sentenza della Corte Costituzionale nel 2023. “Ci stiamo lavorando intensamente - ha affermato - ma questo sacrosanto diritto va coniugato con esigenze di sicurezza, compatibilità edilizia e del personale. Non è risolvibile in tempi rapidissimi”. Dai dati presentati, solo 32 istituti su 189 hanno spazi potenzialmente idonei, previe costose ristrutturazioni, mentre 157 sono privi di ambienti adeguati. Nordio ha annunciato un gruppo di studio multidisciplinare per affrontare il tema, ma ha ammesso le difficoltà: “È una sentenza storica, ma la realtà non si cambia in pochi mesi”. A replicare è stato il segretario di + Europa Riccardo Magi: “Non si tratta di sensibilità umana, ma di applicare una sentenza. Non posso credere che non esista almeno un carcere per regione già attrezzato”. Ha poi criticato i ritardi: “Al ministero annunciarono una circolare imminente: dov’è?”. Magi ha chiuso con un appello: “Secondo noi non ci sarà alcuna umanizzazione con gli interventi di edilizia carceraria se il commissario nominato dal governo non inizia a lavorare a partire da queste cose, che sono piccole ma che modificano completamente la qualità della vita delle persone e rendono la pena meno crudele e afflittiva”. La situazione nelle carceri è sì grave, ma per nulla seria di Giunta e Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane camerepenali.it, 10 aprile 2025 La circolare sull’Alta Sicurezza diramata il 27 febbraio dimostra come per il DAP la situazione nelle carceri è sì grave, ma per nulla seria. Non passa giorno senza che il carcere smetta di ricordarci le sue intollerabili condizioni di vita. La lunga scia dei suicidi scandisce, inesorabilmente, il tempo delle prigioni e con esso il lugubre calendario dei detenuti. Sono il segno più eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari. E noi avvertiamo un senso di profonda indignazione e di forte timore nel ricordare i 28 detenuti - ultimo, a Cuneo - che, dall’inizio dell’anno, hanno deciso di porre fine alla loro vita. Un tragico numero che, assieme alle morti per altre cause, è arrivato a toccare la vetta degli 88 decessi dentro le sbarre, proiettandosi oltre il record dello scorso anno. Eppure, per il DAP diventa prioritario far scendere una cortina del silenzio sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori. Da giorni circola, tra gli addetti ai lavori, la inquietante notizia di una circolare diramata dal direttore generale dei detenuti e del trattamento, Ernesto Napolillo, il cui testo da poco risulta disponibile, benché datato 27 febbraio 2025. È indirizzata ai Provveditori regionali, ai direttori degli istituti penitenziari, ai comandanti dei reparti della polizia penitenziaria ed ha un titolo il cui incipit è tutto un programma: “Modalità custodiali circuito Alta Sicurezza”. In essa, grazie a non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime “proteste” e “lamentele”, si segnalano generiche “modalità organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore che disciplinano le modalità custodiali del circuito custodiale AS”, tutte non aderenti “alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria”. Tali disallineamenti, si legge nella circolare, troverebbero conferme nelle “numerose indagini espletate da alcune Procure distrettuali Antimafia” che hanno evidenziato una “sostanziale permeabilità del circuito detentivo AS”. Da qui l’invito/ammonizione ai destinatari di rigorosa applicazione del regime di “custodia chiusa” per tutti i detenuti dell’Alta Sicurezza, nei termini fissati da una circolare del 2015. Addirittura, risultando vane le precedenti sollecitazioni, il DAP pretende l’immediata trasmissione: - “del regolamento interno dell’istituto nella parte relativa alla regolamentazione della vita dei detenuti Alta Sicurezza”; - “degli ordini di servizio” vigenti per il circuito AS, con “indicazione degli orari di apertura e chiusura delle camere di pernottamento, del divieto di stazionare nei corridoi, degli orari di fruizione degli spazi comuni presenti nel reparto detentivo e di quelli destinati alla socialità, con la specificazione che le stanze in uso ai ristretti debbano rimanere chiuse”; - Di ogni altro documento relativo alla gestione dei detenuti AS “ivi comprese petizioni, missive, note, lamentele scritte (firmati e sottoscritti da uno o più detenuti AS o da familiari e/o soggetti terzi)”. Un provvedimento per alcuni versi inutile rispetto alle condizioni di vita all’interno delle carceri; per altro, controproducente rispetto alle esigenze trattamentali e rieducative dei detenuti, specie in AS, ma soprattutto utile a rafforzare la concezione securitaria e opprimente che da tempo alligna nelle stanze del Dipartimento e che trova concreta attuazione in una serie di condotte e di disposizioni per nulla condivisibili oltre che dannose. Perfettamente in linea con la brutale visione di chi, investito di specifiche funzioni di governo, non perde occasione per manifestare il suo disprezzo verso i detenuti ed il suo sadico godimento per la morsa letale loro praticata. Una circolare priva di senso, con la singolare richiesta ai direttori di consegna immediata del regolamento di istituto, tanto più ridicola alla luce delle informazioni che, in occasione delle nostre visite in carcere, ci fornisce, di solito, il personale circa l’esistenza di un regolamento di istituto da lungo tempo al DAP “in attesa di approvazione”. Ancor più assurda per la richiesta di trasmissione degli ordini di servizio sugli orari di chiusura delle celle, di fruizione degli spazi comuni e di quelli destinati alla socialità, senza nemmeno porre la giusta attenzione al vero problema del tempo “vuoto” dentro le sezioni. Senza rimedio alcuno all’assenza di contenuti, di attività trattamentali e rieducative proprio in quelle ore, minime 8, in cui si impone l’apertura delle anguste celle. Tanto più scandalosa per la ingiunzione, dal chiaro tenore repressivo ed intimidatorio, di trasmissione di ogni scritto, petizione, richiesta, sottoscritti dai detenuti, dai familiari o da terzi, pur se costituenti manifestazione del fondamentale diritto di denuncia di ogni forma di degrado, di sopruso, di compressione della dignità umana, come spesso accade nelle sezioni detentive. Una circolare-manifesto che tradisce le reali intenzioni di un’amministrazione sempre più disinteressata rispetto ad una esecuzione penitenziaria improntata ai principi ed agli ideali disegnati dalla Costituzione. Forse il DAP ha deciso di farsi megafono di una propaganda tesa a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle reali condizioni di degrado in cui si trovano le carceri, per l’incontenibile sovraffollamento, per l’inarrestabile diffusione del disagio psichiatrico, delle tossicodipendenze, per l’assenza di un’adeguata assistenza sanitaria, di una minima attività formativa e lavorativa, per orientarla verso l’avventata tesi secondo cui il degrado e i suicidi sono il prodotto del controllo mafioso nelle sezioni. Il tutto, però, con una certa dose di irresponsabilità dinanzi ad un clima oramai incandescente, che espone le carceri al rischio di un pericoloso incendio e che segnala come la situazione per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pur essendo grave, non sia per nulla seria. Affettività in carcere, nulla di fatto di Angela Stella Il Dubbio, 10 aprile 2025 “La sentenza della Consulta è storica”, dice Nordio al question time, “ma ci vuole tempo”. Magi (+Europa): “Basta scuse, va attuata”. Nulla da fare per l’affettività in carcere. Lo ha ribadito il Ministro della Giustizia Carlo Nordio rispondendo ieri alla Camera ad una interrogazione di +Europa. Come è noto la sentenza 10 del 2024 della Corte costituzionale aveva riconosciuto che la possibilità per la persona detenuta di continuare a mantenere, durante l’esecuzione della pena, rapporti affettivi anche a carattere sessuale fosse “esigenza reale e fortemente avvertita” e corrispondente a diritto soggettivo da riconoscersi ad ogni detenuto, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario. Tuttavia il principio per Nordio si scontra con la situazione attuale dei nostri istituti di pena e quindi niente da fare: “È una sentenza storica - ha detto il Guardasigilli - che si allinea anche con una normativa più evoluta della nostra, che è orientata a quel principio di umanizzazione della pena. Allo stesso tempo, però, è una sentenza che non prende atto di una realtà che non può essere modificata in pochissimo tempo”. E poi il solito gerundio: “ci stiamo lavorando intensamente”, però “il fatto che sia necessario coniugare questo sacrosanto diritto, sancito adesso dalla Corte costituzionale, con le esigenze di sicurezza, di compatibilità edilizia, di compatibilità con il personale, ha creato e crea dei problemi che non sono solvibili in tempi rapidissimi”. Poi alcuni dati: “con ordine di servizio del 28 marzo del 2024 del DAP è stato costituito questo gruppo di studio multidisciplinare, con rappresentanti del Ministero della Giustizia, del Garante, della magistratura di sorveglianza. Allora, dal monitoraggio è emerso che dei 189 istituti penitenziari, solo 32 hanno confermato allo stato l’esistenza di uno spazio idoneo allo scopo, previa la preventiva attuazione di ingenti e corposi interventi strutturali. Gli altri 157 istituti hanno dichiarato di non avere a disposizione spazi adeguati”. La replica di Riccardo Magi, segretario e deputato di +Europa: “qui non si tratta di aderire o meno con la propria sensibilità, umana o giuridica, si tratta - quando si hanno responsabilità di Governo - di dare attuazione”. Ieri intanto in commissione Giustizia della Camera è arrivata la risposta sempre da parte del Ministero della Giustizia a tre interrogazioni del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti. In quella relativa ai suicidi in carcere è emerso come dall’inizio del 2025 per il Dap si siano suicidati 16 detenuti, mentre per alcune associazioni o sindacati di polizia penitenziaria sarebbero ventidue al 30 marzo. Questo perché nella risposta all’atto di sindacato ispettivo si conferma che nel computo finale “non vengono inseriti i decessi avvenuti al di fuori degli istituti di pena”. Quindi se si tenta un suicidio impiccandosi in cella ma si muore in ospedale quel decesso non viene calcolato. Nordio: “Solo 32 carceri su 189 hanno spazi per l’affettività, non facciamo miracoli” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2025 Rispondendo al question time il Guardasigilli ha annunciato che il Ministero sta lavorando a dei moduli in legno, sul prototipo di Rebibbia. “Su 189 istituti penitenziari solo 32 hanno confermato allo stato l’esistenza di uno spazio idoneo alla affettività dei detenuti previa attuazione di ingenti e corposi interventi strutturali. Gli altri 157 istituti hanno dichiarato di non aver a disposizione spazi adeguati”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo nell’aula della Camera a un’interrogazione del deputato Magi sul diritto all’affettività delle persone detenute. La sentenza della Corte costituzionale, che nel 2024 - sentenza n. 10 - ha dichiarato incostituzionale il divieto di colloqui intimi senza controllo a vista per i detenuti, secondo il Guardasigilli “è una sentenza storica orientata principio di umanizzazione della pena, ma nello stesso tempo non prende atto di una realtà che non può essere modificata in poco tempo”. Il governo, ha evidenziato ancora Nordio, “ci sta lavorando, ma il fatto che sia necessario coniugare questo principio con le esigenze di sicurezza, di compatibilità edilizia e di compatibilità con il personale ha creato problemi non risolvibili in breve tempo”. “Stiamo intervenendo su questo - ha aggiunto - abbiamo ripreso il progetto MI MA, i moduli di affettività e maternità, realizzato nel 2020 con la collaborazione della Sapienza di Roma che costituisce un prototipo di edificio modulare in legno per colloqui e rapporti affettivi tra detenuti realizzati in economia presso la casa circondariale femminile di Rebibbia”. “Questo modello - ha proseguito - verrà riprodotto in altre strutture penitenziarie per la creazione di spazi dedicati valorizzando al contempo il lavoro nelle carceri”. “Lo ripeto ancora una volta - ha concluso Nordio - è triste dover ammettere che tante volte la realtà confligge con quello che è il dato normativo o giurisprudenziale, il problema delle nostre carceri si è stratificato in decenni e decenni, queste innovazioni mi vedano perfettamente, ci stiamo lavorando al massimo e però ripeto miracoli non ne possiamo fare”. La norma censurata, scriveva la Corte costituzionale, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, “gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza”. La Corte ha così riscontrato la violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, Cost. La decisione rammentava poi che una “larga maggioranza” degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità, per cui ha ritenuto violato anche l’articolo 117, primo comma, Cost., in relazione all’articolo 8 CEDU, per il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell’affettività “entro le mura”. La Corte aveva così auspicato un’”azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, “con la gradualità eventualmente necessaria”. La decisione specificava anche (in coerenza con l’oggetto del giudizio principale) la sentenza non riguarda il regime detentivo speciale di cui all’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all’articolo 14-bis della stessa legge. Decreto Sicurezza, sfregio al Parlamento: perché al peggio non c’è mai fine di Serena Sileoni La Stampa, 10 aprile 2025 L’anno scorso, quando i ministri Nordio e Piantedosi presentarono alle Camere il disegno di legge sulla sicurezza, si sollevò un ampio dibattito sulla deriva securitaria del governo Meloni. I nuovi reati, le aggravanti e gli aumenti di pena, l’irrigidimento dell’ordinamento penitenziario e l’incremento dei poteri di polizia sono stati oggetto di critiche estese per l’impronta panpenalista e propagandistica che recavano. Ma non avevamo ancora assistito al peggio. L’ultimo Consiglio dei ministri si è imposto sul procedimento di approvazione in corso in Parlamento e ha fatto proprio con decreto legge il progetto in esame alle Camere. Poiché al peggio non c’è fine, la parte più irrispettosa nei confronti della funzione parlamentare è stata la motivazione. Il ministro Piantedosi ha riconosciuto che il governo ha voluto in tal modo accelerare i tempi di approvazione e dare una data certa a un provvedimento “che è andato già troppo per le lunghe”. Una delle differenze tra regimi autoritari e democrazie è la concezione del tempo. Un ostacolo all’efficienza per i primi, un elemento politico necessario per le seconde. Il tempo serve non solo a riflettere, ma soprattutto a garantire il confronto tra maggioranza e minoranze che è l’anima della funzione parlamentare. Nel caso del ddl sulla sicurezza, l’insofferenza del governo si è manifestata sulla necessità di andare a una terza lettura per alcune modifiche richieste in Senato. Un’insofferenza alla natura stessa del Parlamento, che non è un semplice organo di ratifica del governo. La questione è grave per un motivo e seria per un altro. È grave perché dimostra l’indifferenza del governo per i più basilari principi dello Stato di diritto. La straordinaria necessità e urgenza che dovrebbero giustificare il ricorso al decreto legge si riducono alla volontà del governo di esibire un tempo certo di approvazione. L’abuso dei decreti legge è una delle prassi illegittime più aperte e note del nostro sistema legislativo. Siamo persino indifferenti al fatto che vi si ricorra per disciplinare la materia penale. Ma un uso così platealmente acrobatico per superare l’esame parlamentare in corso riguarda l’equilibrio stesso che deve mantenersi tra governo e parlamento, prima ancora che l’esercizio della funzione legislativa. La questione è poi seria perché denota la fragilità della maggioranza di governo in parlamento. Difatti, delle due l’una. O i tempi di esame alle Camere sono stati quelli fisiologici e imposti dall’agenda parlamentare e da un approfondito e animato iter legislativo. O la discussione stava andando per le lunghe per via di un mancato accordo tra i gruppi di maggioranza, in particolare di Lega e FdI, stretti tra le fughe in avanti del primo e i dubbi nel frattempo incamerati dal secondo dopo i rilievi del Quirinale e i dubbi emersi durante le audizioni informali. Nel primo caso, l’iniziativa del governo sarebbe ai limiti della sovversione. Nel secondo caso, dimostrerebbe che non dispone della maggioranza parlamentare e debba ricorrere a forzature di questo grado per ottenere la maggioranza semplice necessaria ad approvare le leggi. È possibile che la realtà sia più banale. Il principale partito di maggioranza ha dato un po’di agio politico alla Lega, in una fase interna non facile per le scelte che il governo deve compiere su altri fronti. Salvini su questo decreto ha puntato molto. Se poi le sue aspettative saranno ridotte a più miti propositi durante la conversione del decreto o persino per i rilievi che il Colle, in fase di emanazione dello stesso, potrebbe sollevare fino a rifiutarne la firma, il governo - a proposito di tempo - ne avrà comunque guadagnato un altro po’. Tutti i rischi del decreto sicurezza di Gian Luigi Gatta, Vincenzo Mongillo, Gian Paolo Demuro, Stefano Fiore, Dèsirèe Fondaroli, Carlo Longobardo, Domenico Notaro L’Unità, 10 aprile 2025 Il record di disposizioni penali introdotte con un solo dl. La dubbia compatibilità delle misure con svariati principi costituzionali. L’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza. Il tutto senza benefici per la sicurezza della collettività, Come direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale ribadiamo la seria e oggi concreta preoccupazione per un così vasto intervento espressione di un ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica, per di più realizzato con lo strumento della decretazione d’urgenza. Le opportune modifiche rispetto alla versione originaria del “pacchetto sicurezza”, tese a diminuire la torsione repressiva dell’intervento, appaiono nel complesso marginali e non ne modificano l’impianto complessivo. Vengono infatti introdotti, con decreto-legge, almeno quattordici nuove fattispecie incriminatrici e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Le condotte oggetto di criminalizzazione appaiono, nella quasi totalità dei casi, espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso, con interventi che risultano per diversi profili di dubbia compatibilità con svariati principi costituzionali, compresi quelli di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione. Con altrettanta preoccupazione registriamo l’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza in materia penale. Il Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale ribadisce la seria e oggi concreta preoccupazione per un così vasto intervento espressione di un ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica, per di più realizzato con lo strumento della decretazione d’urgenza. Le opportune modifiche rispetto alla versione originaria del “pacchetto sicurezza”, tese a diminuire la torsione repressiva dell’intervento, appaiono nel complesso marginali e non ne modificano l’impianto complessivo. Vengono infatti introdotti, con decreto-legge, almeno quattordici nuove fattispecie incriminatrici e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Le condotte oggetto di criminalizzazione appaiono, nella quasi totalità dei casi, espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso, con interventi che risultano per diversi profili di dubbia compatibilità con svariati principi costituzionali, compresi quelli di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione. Emblematica in tal senso è la pena per l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (da due a sette anni di reclusione), coincidente con quella comminata dall’art. 589, co. 2, c.p. per l’omicidio con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Con altrettanta preoccupazione registriamo oggi l’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza in materia penale per trasferire in un decreto-legge un intero disegno di legge presentato oltre un anno fa e al cui esame sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi professori ed esperti. Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento. Con le parole usate in una recente sentenza dalla Corte costituzionale (sent. n. 146/2024, Pres. Barbera, Rel. Pitruzzella), ricordiamo che - anche al di fuori della materia penale - il ricorso alla decretazione d’urgenza è soggetto a limiti “fissati allo scopo di non vanificare la funzione legislativa del Parlamento”. Non si può in alcun modo giustificare “lo svuotamento del ruolo politico e legislativo del Parlamento, che resta la sede della rappresentanza della Nazione (art. 67 Cost.), in cui le minoranze politiche possono esprimere e promuovere le loro posizioni in un dibattito trasparente (art. 64, secondo comma, Cost.), sotto il controllo dell’opinione pubblica”. È sempre la Corte costituzionale a ricordare, da ultimo, nella sua recente sentenza che “l’ampia autonomia politica del Governo nel ricorrere al decreto-legge non equivale, tuttavia, all’assenza di limiti costituzionali. L’adozione del decreto-legge è prevista “come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise” principi normativi e di regole giuridiche indisponibili da parte della maggioranza, a garanzia della opzione costituzionale per la democrazia parlamentare e della tutela delle minoranze politiche”. Nel caso di specie, considerato che il pacchetto sicurezza è stato presentato oltre un anno fa con un disegno di legge di iniziativa governativa - e non già come decreto-legge - appare quanto meno dubitabile che siano sopravvenute effettive ragioni di necessità e urgenza in relazione a tutte le eterogenee disposizioni contenute nella quarantina di articoli del provvedimento. Ciò apre la strada a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77 Cost. Non possiamo poi fare a meno di rammentare che, nello specifico della materia penale, la riserva di legge sancita dall’art. 25, co. 2 Cost. impone un ricorso ancora più limitato alla decretazione d’urgenza. Le disposizioni penali introdotte (mai così numerose, a nostra memoria, in un solo decreto-legge) entrano immediatamente in vigore, senza un periodo di vacatio che ne consenta la previa conoscibilità, come imposto dal principio di colpevolezza. Inoltre, prima ancora della conversione in legge, tali disposizioni possono produrre effetti irreversibili sulla libertà personale: si pensi, ad esempio, all’arresto eseguito in forza di una disposizione del decreto sicurezza che, in sede di conversione, dovesse essere abrogata o modificata in senso tale da non consentire più l’arresto. Pensare di garantire la sicurezza dei cittadini facendo esclusivo affidamento sul diritto penale è, d’altra parte, illusorio. Come confermano studi scientifici condotti a livello nazionale e internazionale, la creazione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene non può garantire di per sé migliori livelli di sicurezza per i cittadini, né risolvere le cause - economiche, sociali, culturali - alla base delle forme di criminalità che si intendono contrastare. È rimasta purtroppo inascoltata, ancora una volta, la lezione di Cesare Beccaria, che così scriveva 260 anni fa nel suo “Dei delitti e delle pene”: “il proibire una moltitudine di azioni…non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma… è un crearne di nuovi… e il più sicuro ma il più difficil mezzo di prevenire i delitti è il perfezionare l’educazione”. Più che nuovi reati, Beccaria, padre dell’illuminismo italiano ed europeo, indicava come “mezzi efficaci” per assicurare la “tranquillità pubblica” e prevenire i delitti “la notte illuminata a pubbliche spese [e] le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città”. Gli investimenti per la sicurezza pubblica, pur non assenti nel “pacchetto sicurezza”, hanno purtroppo un peso marginale nel contesto del decreto-legge. Ancora una volta la politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che - essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! - potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva. Viceversa, in assenza di interventi strutturali, la suggestiva quanto vaga nozione di “sicurezza pubblica”, rischia di rimanere una formula vuota e priva di riscontri concreti, come già reso palese da precedenti esperienze legislative e, proprio, da altri “decreti sicurezza”. Sono, altresì, facilmente intuibili le ricadute sulla efficienza della giustizia penale. Introdurre nuovi reati e inasprire le pene per quelli esistenti comporterà un aumento dei procedimenti, con possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi. A ciò si aggiunga un probabile aumento della popolazione detenuta, senza che il provvedimento d’urgenza - che interessa anche la materia penitenziaria - introduca misure per fronteggiare le (reali) emergenze del sovraffollamento carcerario e dell’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere. Il carcere, inoltre, rischia di aprire con maggiore frequenza le sue porte alle donne incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni, anche in ragione del limitato numero Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (attualmente solo quattro in tutta Italia), dei quali non si prevede l’incremento. Professori di diritto penale e avvocati penalisti contro il Decreto Sicurezza di Francesco Grignetti La Stampa, 10 aprile 2025 “Incostituzionale nel metodo e nel merito”. Il decreto Sicurezza, che è un copia-e-incolla di un disegno di legge in discussione in Parlamento da 18 mesi, salvo alcune modifiche concordate con il Quirinale, non va giù all’Associazione italiana dei professori di diritto penale che raccoglie oltre 200 insegnanti universitari. Lo vedono pericolosamente incostituzionale sotto più aspetti. Questione di metodo, innanzitutto. “Registriamo - scrive l’associazione - l’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza in materia penale per trasferire in un decreto-legge un intero disegno di legge presentato oltre un anno fa e al cui esame sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi professori ed esperti”. Il risultato è che il decreto legge “viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato”. Sottolineano che non si vede quale sia la necessità e urgenza per varare un decreto se la stessa materia pendeva in Parlamento da tanti mesi. Ricordano una recentissima sentenza della Corte costituzionale che rimarcava: “L’ampia autonomia politica del Governo nel ricorrere al decreto-legge non equivale all’assenza di limiti costituzionali”. Ma è nel merito del decreto che i professori di diritto penale ritengono sia il vero problema. “Vengono introdotti, con decreto-legge, almeno quattordici nuove fattispecie incriminatrici e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Le condotte oggetto di criminalizzazione appaiono, nella quasi totalità dei casi, espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso, con interventi che risultano per diversi profili di dubbia compatibilità con svariati principi costituzionali, compresi quelli di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione”. È il caso del nuovo reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (pena prevista da 2 a 7 anni di reclusione). Ebbene, è la stessa pena prevista per “omicidio con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”. Di qui la domanda: c’è proporzione se due reati così diversi vengono sanzionati con una uguale pena? Certo, dopo la moral suasion del Quirinale, alcune asprezze del testo d’origine sono state limate (e con mal di pancia della Lega). Ma è sufficiente? Risposta dell’associazione, presieduta dal professor Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano: “Le opportune modifiche rispetto alla versione originaria, tese a diminuire la torsione repressiva dell’intervento, appaiono nel complesso marginali”. Parole che ricalcano non casualmente quelle degli avvocati penalisti. Scrive infatti l’Unione delle camere penali: “Nonostante le annunciate modifiche, restano di fatto tutte le criticità: inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, molteplici sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena, introduzione di aggravanti prive di alcun fondamento razionale, criminalizzazione della marginalità e del dissenso, introduzione di nuove ostatività per l’applicazione di misure alternative alla detenzione”. “La legge del più forte”: ecco il manifesto del sovranismo giudiziario di Cataldo Intrieri Il Domani, 10 aprile 2025 Con un importante intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha esposto, con apprezzabile chiarezza, il manifesto del sovranismo giudiziario dei conservatori italiani guidati da Giorgia Meloni. Cerchiamo di dare, nel poco spazio, adeguata sintesi di un pensiero complesso e articolato, comunque nitido nelle sue finalità del tutto simili a quelle perseguite dai vari sovranismi: da Donald Trump a Viktor Orbán a Marine Le Pen la cui condanna richiama espressamente come esempio negativo degli ostacoli frapposti all’azione politica dei neo-conservatori. Giudici “usurpatori” - In sostanza, la sovranità popolare che si esprime nelle scelte parlamentari (ma sarebbe meglio dire nei leader in cui il popolo si identifica) è messa a rischio da ciò che definisce la “strada giudiziaria per l’aggiramento della volontà popolare”. Essa realizza l’usurpazione da parte dei giudici della funzione di legislatore tramite “la creazione delle norme per via giurisprudenziale”; di quella esecutiva con “la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo” e di quella elettorale con “la selezione per sentenza di chi deve governare”. Sullo sfondo egli indica il vero avversario: l’Ue che tramite il proprio ordinamento e i propri organismi “è teatro della progressiva erosione degli spazi regolativi del legislatore nazionale”. Come esempio di tali disfunzioni egli cita l’annullamento dei provvedimenti di internamento dei migranti nei campi albanesi (vera ferita pulsante del melonismo giudiziario di cui egli è l’indiscusso teoreta) ma soprattutto la condanna di Marine Le Pen. La condanna di Le Pen - Sotto apparente prudenza Mantovano, magistrato in aspettativa, esprime la dottrina dell’autoritarismo politico simil-trumpiano secondo cui ciò che il governo (o il sovrano) promuove nell’interesse del paese, in virtù della legittimazione popolare, non può essere ostacolato dai giudici. Egli invoca “un bilanciamento” tra la garanzia del rispetto della sovranità popolare e della onorabilità dei candidati ma, in realtà, auspica ciò che Trump ha realizzato negli Stati Uniti grazie al controllo sulla Corte suprema federale che gli ha garantito la totale immunità anche per i crimini non legati alla sua funzione istituzionale come l’appoggio all’assalto a Capitol Hill. Dimentica tuttavia di dire che la condanna di Le Pen non è sproporzionata: il reato contestato in Francia a Le Pen in Italia è definito alla voce peculato ed è punito con pena da 4 a 10 anni. Le Pen ha avuto il minimo e quanto alla fondatezza dell’accusa, come già scritto qui, è incontestabile. Per ciò che riguarda la misura interdittiva, prevista da una legge populista voluta da Le Pen, essa è stata applicata per altri politici come Alain Juppé, che ha rinunciato a candidarsi, e l’ex ministro di François Hollande, Jérôme Cahuzac. Del resto egli sa benissimo che il nostro sistema conosce misure interdittive e cautelative applicate addirittura fuori dal processo e senza condanna come le misure di prevenzione di cui egli, per diversi anni, si è occupato come giudice in uno dei suoi passaggi da politico a magistrato. Sa benissimo che per i migranti deportati non è previsto contraddittorio mentre i ricorsi si celebrano in fretta e furia in sette giorni, senza la presenza di un avvocato accanto (al massimo in video). Altro che equilibrio e proporzione! La legge del più forte - Solo che queste misure si applicano ai comuni cittadini e ai poveri, per lo più, mentre ciò che interessa il nuovo manifesto giuridico dei conservatori è l’”onorabilità dei politici” da tutelare a ogni costo. Se ci è consentito un ulteriore e non richiesto suggerimento vi è un ulteriore bilanciamento da assicurare e sarebbe quello del parlamento ormai sistematicamente ignorato dal governo. Ciò che sfugge ai neo conservatori è che la democrazia è un delicato equilibrio di contrappesi e controlimiti, non l’estensione del potere singolo sugli altri. Mantovano invoca il ruolo dell’avvocatura come leva di equilibrio: sommessamente penso che ciò che i giuristi dovranno salvare e che i vari trumpisti vogliono demolire per ridurre la giustizia alla legge del più forte è semplicemente il valore universale dei principi scritti nelle convenzioni internazionali. Essi non sono la carta straccia di titoli finanziari, sono carne e sangue degli esseri umani che fuggono sui mari, soffrono nelle galere, muoiono in guerra. Pensino i miei colleghi a quel disgraziato cittadino americano tradotto senza colpa in Venezuela, che un giudice americano, oggi minacciato, ha cercato di liberare e che il governo di Trump ha bloccato accusandolo di ingerire nella politica estera. Ci pensino e decidano dove stare. Giustizia, non vendetta. Ecco perché il diritto non deve assecondare l’onda emotiva di Simona Musco Il Dubbio, 10 aprile 2025 Sulle motivazioni della sentenza Turetta lo solito show di polemiche al buio. “Perché i giudici spesso sembrano stare dalla parte dell’assassino?”. La domanda è apparsa in uno dei tanti commenti alla notizia del giorno, quella relativa ai motivi dell’esclusione dell’aggravante della crudeltà per Filippo Turetta, il giovane che ha ucciso con 75 coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin. Una domanda che appare strana se si pensa alla decisione dei giudici della Corte d’Assise - composta, lo ricordiamo, anche da sei giudici popolari -, che hanno sentenziato l’ergastolo per Turetta. Vuol dire carcere a vita, la pena massima. Se le si guarda con occhi comuni, se si pensa al senso stesso della frase “75 coltellate”, se si prova a contare con le dita questo numero, la crudeltà appare evidente. È evidente che sia crudele la morte - anzi, l’assassinio brutale - di Giulia Cecchettin, che lo sia il modo, anche solo il pensiero - coltivato per giorni, scrivono i giudici - di fare ciò che Turetta ha fatto. Nessuno di noi penserebbe, mai, che il gesto di Turetta non sia stato crudele. Terribile. Ributtante. Ma una cosa è il sentimento personale, la sensibilità di ognuno di sentire - per fortuna - questo gesto come distante, irripetibile, inimmaginabile. Una cosa è il diritto. E l’aggravante della crudeltà, dicono coloro che ogni giorno frequentano le aule dei Tribunali, è quella più difficile da riconoscere. Proprio in questo scarto tra attesa collettiva e lettera del diritto si rivela il nodo filosofico più profondo: il diritto non può piegarsi agli umori, alle emozioni, alla sete di vendetta. Non può rispondere ad una aspettativa, fondata solo sul sentire comune. Non perché non sia importante riconoscere il dolore, ma perché la giustizia - per essere tale - deve rimanere giustizia, non spettacolo o sfogo. Una sentenza non è un’opinione. Non è neanche un atto di empatia, per quanto il dolore delle vittime - e delle loro famiglie - sia riconosciuto e rispettato. È proprio per quel dolore, che deriva dal tradimento delle regole comuni - in questo caso un tradimento spiegato - che il processo è pensato. Ma il processo non ha un solo protagonista ed è, innanzitutto, un esercizio di responsabilità razionale e di garanzie, che deve muoversi entro regole ferree, prima fra tutte: non condannare su base emotiva o intuitiva, ma solo quando vi sia la certezza oltre ogni ragionevole dubbio. Nel caso di Giulia Cecchettin, i giudici non negano la ferocia dell’omicidio, ma distinguono - sulla base delle prove - tra efferatezza e crudeltà deliberata. Non per sollevare l’imputato da responsabilità (infatti la condanna è al massimo della pena), ma per rispettare l’architettura della giustizia come spazio del “giudicare”, non del “reagire”. Ci si può interrogare a lungo - e giustamente - sulla struttura stessa del diritto, che spesso riflette codici maschili. Ma ciò che chiunque, commentando la notizia, non ha notato è che la stessa sentenza non chiude gli occhi sulla matrice culturale del gesto. Anzi, riconosce esplicitamente che l’omicidio affonda le sue radici in un modello di sopraffazione arcaico e patriarcale, incapace di tollerare l’autonomia femminile. Quella di Turetta non è solo la violenza di un individuo, ma l’espressione di una visione tossica dei rapporti, in cui la libertà della donna viene vissuta come una minaccia. Anche in questo, la giustizia serve non solo a punire, ma a nominare: a riconoscere ciò che nella società produce morte. La giustizia, però, per essere tale deve misurare, non solo punire. Chiedersi perché non sia stata riconosciuta la crudeltà è frutto di un’esigenza legittima di dare un nome all’orrore. Ma la filosofia del diritto ci insegna che il processo penale non è lo spazio in cui sfogare la rabbia collettiva: è un luogo in cui la società si impegna, pubblicamente e formalmente, a non rispondere alla violenza con altra violenza. Non con linciaggi morali o con pene simboliche. Con regole, con prove, con la fatica della distinzione. Ma il processo si gioca spesso su due tavoli paralleli: quello del tribunale e quello dell’opinione pubblica. Ed è per questo che parte dello sforzo della misura, data la presenza della stampa nei processi, spetta anche a chi informa. Perché se la verità mediatica è spesso emotiva, veloce, istintiva, la verità processuale è lenta, argomentativa, faticosa. E proprio per questo, civile. Esclude ciò che non si può provare. Non perché lo neghi, ma perché la condanna non può mai poggiare sulle aspettative della folla. E la stampa dovrebbe rendere le decisioni comprensibili, non stravolgerne il senso, amputandolo. La scelta dei giudici di escludere l’aggravante della crudeltà non assolve Turetta: lo condanna, senza attenuanti. E ci ricorda che giustizia e vendetta non coincidono e non devono farlo. Il diritto non può lenire la ferita. Non è rancore, quello che, dice ancora la sentenza, ha covato Turetta nei confronti della sua vittima. La sentenza può riconoscere la gravità del gesto, può punire il colpevole, ma non può restituire la vita, né rendere giustizia al dolore fino in fondo. Forse bisognerebbe anche sforzarsi, nelle sentenze, di trovare parole capaci di parlare davvero al dolore collettivo - ma senza cedere alla retorica o tradire il rigore del diritto. È questa distanza a far esplodere l’insoddisfazione pubblica: il bisogno di senso che un’aula di Tribunale non può, da sola, colmare. Ma è proprio accettando questo limite - e rispettandolo - che una società resta giusta. Perché se il diritto si piega all’onda emotiva, non fa più giustizia: fa vendetta. Innocenti travolti dall’antimafia, i dati non ci sono di Errico Novi Il Dubbio, 10 aprile 2025 Il Governo lo ammette. Lo scrive nero su bianco, in risposta a un’interrogazione parlamentare: lo Stato non sa quanti siano gli innocenti travolti dalle confische antimafia. E neppure conosce il numero dei beni patrimoniali sottratti e poi restituiti ai legittimi proprietari, dopo che un giudice si è accorto che non c’erano elementi infliggere quelle misure. Non ci siamo mai neppure posti il problema: di fatto, il responso che lo Stato fornisce sul numero delle vittime incolpevoli sacrificate al mito dell’antimafia è questo. Ecco l’incredibile, ma per certi aspetti inevitabile esito dell’interrogazione che Roberto Giachetti - deputato di Italia viva iscritto anche a Partito radicale e Nessuno tocchi Caino, oltre che segretario d’aula a Montecitorio - aveva rivolto lo scorso 10 febbraio all’Esecutivo. Ieri, in commissione Giustizia alla Camera, è stato il sottosegretario Andrea Delmastro a riferire a Giachetti gli argomenti raccolti da via Arenula per contro anche di Palazzo Chigi e del ministero delle Imprese. E si tratta appunto di una replica raggelante. Perché lo Stato di fatto ammette la propria consolidata indifferenza al destino degli esseri umani colpiti senza motivo dalle misure di prevenzione. Il documento letto dal sottosegretario alla Giustizia spiega come l’Agenzia per i beni confiscati, e la direzione generale degli Affari interni che elabora la Relazione semestrale al Parlamento, raccolgano sì statistiche sul numero delle aziende confiscate alla mafia e dei beni restituiti al circuito legale: ma a nessuno è mai venuto in mente di censire chi è rimasto stritolato dal sistema. Nessuno ha mai avvertito l’urgenza di verificare quanti cittadini fossero stati ingiustamente privati di tutto, della loro azienda o di ogni altro bene in nome della lotta alla mafia. Né appunto si sa quante volte si sia omesso di incrociare le statistiche sulle misure di prevenzione con l’esito dei processi penali. Troppo faticoso, a quanto pare. Si tratta di un’ammissione rivelatrice. Dà il senso dell’assoluta assenza di proporzione e bilanciamento tra il sistema della prevenzione antimafia e i diritti costituzionalmente garantiti. Non ci si è mai preoccupati di monitorare i dati per capire se quell’equilibrio fosse in pericolo. Si è di fatto accettato, anzi, che quello sbilanciamento ci fosse. L’interrogazione di Giachetti aveva preso spunto innanzitutto dal caso Cavallotti, dalle vicende della famiglia di imprenditori siciliani colpiti dalla confisca di tutti i beni, incluse le abitazioni in cui vivevano, nonostante la piena assoluzione nel processo penale. Ora su quell’abominio, i tre fratelli di Belmonte Mezzagno, un tempo leader negli impianti di metanizzazione, attendono l’esito del ricorso presentato alla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Nella replica del governo, si insiste sulla debolissima tesi secondo cui spogliare un cittadino italiano di ogni bene a fronte della sua innocenza accertata con giudicato penale non costituisca una “pena”. La confisca di prevenzione, secondo l’Esecutivo, non ha “natura sanzionatoria”, non implica “un giudizio di colpevolezza” ma mira “solo” a “prevenire la commissione di atti criminali”. Un corto circuito illogico sul quale i giudici di Strasburgo si pronunceranno a breve. Ma appunto, la parte più clamorosa, spiazzante della risposta rivolta dal governo a Giachetti riguarda l’assenza, nella ricordata “Relazione semestrale al Parlamento sui beni sequestrati e confiscati”, di “informazioni” relative ai “soggetti” e alle “persone fisiche” colpiti dalla “misura ablativa”, cioè dalla confisca o dal sequestro. “Con la conseguenza”, è la storica ammissione dello Stato, “che non vengono distinti i procedimenti di prevenzione sulla base del reato presupposto né sulla base dell’esito del relativo procedimento penale”. Tradotto: del fatto che i destinatari risultino, alla fine, innocenti, lo Stato se ne impipa. E ancora, prosegue la risposta della Repubblica italiana, “per quanto riguarda il numero delle aziende dissequestrate, non viene fatta alcuna rilevazione, essendo la Relazione semestrale incentrata esclusivamente sulle vicende successive in termini di confisca e destinazione dei beni”. Qui la traduzione è la seguente: ci interessa sapere quante volte siamo riusciti a riutilizzare i beni confiscati alla mafia, ma non se abbiamo dovuto restituire i beni agli innocenti legittimi proprietari e se magari glieli abbiamo restituiti in cenere, se cioè le aziende erano fallite. Non ce ne importa proprio. “A maggior ragione, trattandosi di un dato in alcun modo acquisibile dagli attuali sistemi informatici, nessuna informazione può essere fornita in ordine allo stato economico finanziario delle aziende dissequestrate, ad una eventuale riduzione dei posti di lavoro, del fatturato, del gettito fiscale”. Anche chi ha avuto la sfortuna di essere stato assunto da un imprenditore innocente poi travolto da una confisca antimafia, è carne da macello. Vittima necessaria. Così è scritto. C’è solo da augurarsi che il fatto di averlo messo per iscritto, induca lo Stato a ravvedersi. Ieri pomeriggio, negli stessi minuti in cui il sottosegretario Delmastro riferiva a Giachetti la risposta all’interrogazione, la materia è stata al centro di un webinar promosso dal Coa di Milano, e in particolare dalla commissione Diritti umani dell’Ordine: vi hanno preso parte Pietro Cavallotti, esponente di seconda generazione della famiglia diventata il simbolo del tritacarne antimafia, l’avvocato che ha seguito i suoi familiari nel ricorso alla Cedu, Baldassarre Lauria, e il professore dell’università Federico II di Napoli Vincenzo Maiello. Hanno offerto agli oltre 200 professionisti collegati gli elementi per comprendere la deriva del sistema. Senza sapere che un documento ufficiale avrebbe di lì a poco confermato tutto. Roma. “Mio figlio lotta fra la vita e la morte per una meningite contratta in carcere” di Mauro Cifelli romatoday.it, 10 aprile 2025 Lotta fra la vita e la morte in un letto del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Lazzaro Spallanzani dopo aver contratto una meningite neisseria nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto. Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. A lanciare un grido d’aiuto la mamma di Tiziano, Anna, che si trova all’istituto delle malattie infettive romano in attesa di avere l’autorizzazione per poter vedere il figlio, attraverso un vetro. Una situazione critica quella del 40enne: “Preghiamo per un miracolo - le parole al nostro giornale della madre mentre trattiene le lacrime -. È necessario rendere pubblico quanto successo a mio figlio affinché non accada più una cosa del genere in un carcere”. Meningite in carcere - Un grido d’aiuto, “di giustizia”, le parole della sorella Valentina Paloni che racconta l’accaduto: “Siamo stati contattati dalla sorella di un detenuto di Regina Coeli - spiega -. Che ci ha detto che Tiziano aveva avuto un malore mentre si trovava in carcere e che lo avevano portato in ospedale al Santo Spirito”. I familiari del 40enne provano a ottenere informazioni sino a quando riescono a scoprire - anche mediante l’intervento del loro avvocato di famiglia Fabio Harakari - che Tiziano si trovava allo Spallanzani. Preoccupata per le sorti del fratello ma anche per le conseguenze che potrebbe avere su altri detenuti: “Avendo contratto in carcere questa infezione potenzialmente letale, mio fratello sta rischiando la vita e non vorrei che ciò capiti ad altri detenuti che, seppur giudizialmente condannati o gravemente indiziati, meritano ed hanno diritto a un trattamento sanitario efficiente che non abbia nulla da invidiare rispetto a quello offerto a noi persone libere. Essere detenuti non deve comportare alcun limite, specie se si tratta del diritto alla salute”. Il caso di Tiziano Paloni - Una situazione critica quella di Tiziano Paloni, in fin di vita in un letto d’ospedale: “Si dovrebbe indagare circa le condizioni igienico-sanitarie del complesso carcerario. I detenuti non possono rimanere all’ombra. Casi come quello di mio fratello dovrebbero far riflettere tutti - prosegue la sorella Valentina -. Si tratta di una patologia altamente contagiosa che certamente circola tra le mura del carcere. Vi chiedo di fare lumi sulla vicenda onde scongiurare che questo terribile evento non si ripeta”. L’avvocato della famiglia - A spiegare l’accaduto anche l’avvocato di fiducia della famiglia Paloni, Fabio Harakati: “Stiamo lavorando per fare luce sull’accaduto - le parole del legale del Foro Romano -. Da quanto abbiamo saputo avrebbe chiesto di essere portato nell’infermeria del carcere dopo aver accusato un mal di testa lancinante. Come avvocato di famiglia ho avanzato richiesta al giudice - essendo detenuto - di avere il diario clinico e la cartella clinica sia dell’infermeria di Regina Coeli che dei due ospedali dove è stato trasportato. In questo momento di grande preoccupazione per Tiziano, è molto prematuro accertare eventuali responsabilità qualora ci fossero. Il pensiero della famiglia è adesso solo per lui”. Profilassi a Regina Coeli - A confermare il caso di meningite la Asl Roma 1, competente per quanto riguarda il presidio sanitario del carcere di Regina Coeli. Azienda Sanitaria che - una volta accertato il caso - ha attuato il protocollo previsto sottoponendo a profilassi detenuti, medici, infermieri, agenti penitenziari e personale della casa circondariale, che ha dato esito negativo in relazione ad altri possibili casi. Profilassi a cui sono stati sottoposti anche gli autisti delle ambulanze che hanno trasportato Tiziano Paloni prima al Santo Spirito e poi allo Spallanzani, anche loro negativi. Bologna. Giovani detenuti alla Dozza. I Garanti: “È una deportazione” di Francesco Moroni Il Resto del Carlino, 10 aprile 2025 “Difficile che la sezione del carcere minorile chiuda entro l’anno. Ostellari affronti i problemi”. “È in atto una deportazione”. Non usano mezzi termini i garanti regionali dei detenuti. L’allarme riguarda i trasferimenti dalle strutture per minori alla Dozza voluti dal governo per rispondere all’aumento della popolazione carceraria giovanile: una strategia che “non risolve il problema”, ripetono i garanti. Il nodo è quello del sovraffollamento, arrivato al 150% negli istituti penali minorili dopo il ‘decreto Caivano’, che “ha messo in campo una criminalizzazione”. “È un errore trasferire persone dalle carceri minorili alla Dozza perché si allontanano dai loro territori - puntualizza Roberto Cavalieri, garante per l’Emilia-Romagna. Ho fatto due sopralluoghi nella nuova sezione, l’ultimo lunedì: sono già 21 gli ospiti che sono stati allontanati dai territori in cui risiedevano”. Concordi gli altri garanti, anche su come sia “molto difficile che la sezione minorile della Dozza possa essere chiusa entro l’anno”. “In Italia nei 17 istituti minorili sono rinchiusi 359 minorenni e 234 giovani adulti (cioè maggiorenni che hanno iniziato la detenzione da minorenni, ndr)”, aggiunge Samuele Ciambriello, garante in Campania e portavoce nazionale della Conferenza dei garanti. Il garante campano critica poi il sottosegretario Andrea Ostellari, che ha dichiarato come “i trasferimenti temporanei stiano proseguendo senza problemi”. “I problemi - rimarca Ciambrello - ci sono eccome e la situazione è complessa. Il sottosegretario dovrebbe affrontarli anziché criticare chi denuncia”. Per Bruno Mellano (garante in Piemonte) servirebbe “incrementare il sistema delle comunità, perché è sempre più difficile prevedere percorsi esterni al carcere”. Presenti anche i garanti Piero Rossi (Puglia), Mario Caramel (Veneto) e Monia Scalera (Abruzzo), che hanno analizzato l’apertura delle nuove strutture minorili a Lecce, Rovigo e all’Aquila. Attivi sul tema i consiglieri regionali: la dem Simona Lembi, assieme ai capigruppo di maggioranza, ha avanzato ieri la richiesta per convocare una visita alla Dozza con “l’obiettivo di approfondire le condizioni della nuova sezione”. “Abbiamo chiesto che la Commissione VI si riunisca direttamente in carcere - dichiara Lembi - perché occorre vedere da vicino gli spazi, ascoltare chi vi opera ogni giorno e valutare le politiche messe in campo”. Valentina Castaldini (Forza Italia) aveva chiesto un sopralluogo già il primo aprile: “Oggi questa richiesta diventa sempre più urgente - dice l’azzurra -. Al centro credo non debba esserci uno scontro politico, ma l’attenzione e la cura verso questi ragazzi”. Il sottosegretario Ostellari chiude le polemiche: “Il trasferimento è temporaneo” “Quello dei giovani detenuti alla Dozza è un trasferimento temporaneo”. Lo ribadisce il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (foto), ieri alla cerimonia nella cappella Farnese a Palazzo d’Accursio per i 208 anni della Polizia penitenziaria. E tra premi ed encomi agli agenti che si sono distinti, risponde a distanza ai garanti regionali dei detenuti spiegando che “questi ragazzi sono destinati ai nuovi istituti minorili di Rovigo, L’Aquila e Lecce, entro la fine dell’estate”. Il sottosegretario leghista minimizza le critiche di parlamentari, eurodeputati e consiglieri di centrosinistra sulle condizioni dei giovani nel carcere per gli adulti (ma in sezioni separate, ndr) dai pasti agli spazi fino alla mancanza di percorsi educativi: “Si tratta di polemiche che non meritano attenzione. Come ministero e dipartimento della giustizia minorile abbiamo gestito la situazione con la massima attenzione”. Il secondo passo, per Ostellari, è creare per i giovani detenuti “comunità socio-educative alternative al carcere” e insiste con Comune e Regione per proseguire su questa strada. Resta sul tavolo il tema del sovraffollamento carcerario. Una questione che riguarda la Dozza, come ricorda la Comandante di reparto della Casa circondariale, Annunziata Nudo: “A oggi ci sono 784 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 457”. Cagliari. Il carcere minorile di Quartucciu: specchio di una crisi più ampia (che ci riguarda tutti) di Guido Garau cagliaritoday.it, 10 aprile 2025 Sovraffollamento, psicofarmaci e un sistema sotto accusa: l’inchiesta di Altreconomia illumina le ombre di un Ipm simbolo di un disagio nazionale, dove i ragazzi oscillano tra abbandono e timidi progetti di rinascita. Il carcere minorile di Quartucciu, situato in località Su Pezzu Mannu, nei pressi di Cagliari, rappresenta uno dei tasselli di un sistema penitenziario minorile italiano sempre più sotto pressione, come evidenziato dall’inchiesta di Altreconomia intitolata “La stretta repressiva sui giovani. Dagli Ipm alle comunità-ghetto”. Pubblicata il 1° aprile 2025, l’indagine denuncia una realtà preoccupante: sovraffollamento, ricorso crescente agli psicofarmaci, abbandono dei ragazzi reclusi e una risposta governativa che sembra privilegiare la costruzione di nuove strutture piuttosto che affrontare le radici del problema. In questo contesto, Quartucciu emerge come un caso emblematico, tra episodi di cronaca e timidi tentativi di riscatto. Secondo i dati riportati nell’inchiesta, il 70 per cento degli Istituti penali per minorenni (Ipm) italiani supera la propria capacità, con un numero di ragazzi detenuti mai così alto. Quartucciu non fa eccezione. La struttura, pensata per ospitare un numero limitato di giovani, si trova spesso al centro di episodi che ne evidenziano le criticità. Ad esempio, il 7 febbraio 2025, un giovane detenuto ha appiccato un incendio nella sua stanza, dando fuoco al materasso. L’episodio, riportato dall’Ansa, ha richiesto l’intervento immediato del personale e della polizia penitenziaria, con due agenti finiti in ospedale per aver inalato fumo. Questo gesto estremo non è un caso isolato, ma riflette un malessere profondo, spesso aggravato dall’isolamento e dalla mancanza di percorsi riabilitativi adeguati. L’inchiesta di Altreconomia sottolinea come, negli Ipm italiani, si assista a un aumento dell’uso di psicofarmaci per gestire il disagio psichico dei minori, una pratica che sembra sostituire un supporto psicologico strutturato. A Quartucciu, come altrove, i ragazzi si trovano in un limbo: teoricamente, il sistema penitenziario minorile dovrebbe puntare sulla rieducazione, ma nella pratica prevale un approccio custodialistico. La “soluzione” proposta dal governo - l’apertura di quattro nuovi Ipm e di comunità ad “alta intensità” per giovani con problemi psichici - appare come un palliativo che non affronta le cause strutturali, come la povertà educativa, l’esclusione sociale e la carenza di alternative alla detenzione. Eppure, Quartucciu non è solo sinonimo di crisi. Ci sono spiragli di speranza, come l’iniziativa del “Cammino di Bonaria”, un progetto che ha coinvolto i giovani detenuti nella realizzazione di un murale, inaugurato il 22 marzo 2025. Promossa dall’associazione omonima in collaborazione con la direzione del carcere, questa attività ha cercato di trasformare, almeno per un momento, la struttura in un luogo di aggregazione e creatività. Tuttavia, tali progetti, pur lodevoli, rimangono gocce nel mare di un sistema che necessita di una riforma profonda. La realtà di Quartucciu, dunque, riflette le contraddizioni denunciate da Altreconomia: da un lato, il sovraffollamento e l’incapacità di garantire un’effettiva rieducazione; dall’altro, la volontà di alcuni operatori e associazioni di offrire ai ragazzi una possibilità di riscatto. Ma fino a quando le politiche nazionali si limiteranno a costruire nuove mura - fisiche e simboliche - anziché investire in prevenzione e inclusione, il carcere minorile di Quartucciu, come gli altri Ipm italiani, rischierà di rimanere una “comunità-ghetto”, lontana dall’essere un ponte verso il futuro per i giovani che vi sono rinchiusi. La sfida, oggi più che mai, è ripensare un sistema che non si limiti a contenere, ma che sappia davvero rigenerare. Milano. C’è un progetto per il futuro del carcere minorile Beccaria di Antonio Maria Mira Avvenire, 10 aprile 2025 Nella Relazione del ministero della Giustizia il punto su sovraffollamento e percorsi esterni. Poi l’annuncio: grazie al fondo Fami più competenze agli operatori e una migliore governance. L’Istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano, “è certamente quello maggiormente interessato dal sovraffollamento”. Lo afferma il ministero della Giustizia nella “Relazione concernente la disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei detenuti minorenni” relativa al 2024, appena trasmessa al Parlamento. Alla fine dello scorso anno le presenze dei ragazzi nell’Ipm milanese erano 66 a fronte di una capienza di circa 45 posti. Una gravissima situazione diffusa ovunque in Italia. Infatti, si legge ancora nella Relazione, nel 2024 “si è registrato un consistente incremento di ingressi” negli Istituti Penali per Minorenni “tale da superare ampiamente i livelli pre-pandemia”. Nel 2018 il totale degli ingressi era stato 1.132, precipitando a 713 nel 2020, per poi risalire a 813 nel 2021, a 1.051 nel 2022 e 1.142 nel 2023. Nel 2024 si è arrivati a 1.258 con una presenza media giornaliera negli Istituti passata da 320 del 2021 a 556 del 2024. Ma chi sono i detenuti minorenni presenti nel Beccaria? Un po’ a sorpresa nella Relazione non si parla di reati ma della loro vita precedente, di un percorso di fragilità e di violenze subite. “Di questi 66 ragazzi, un’alta percentuale ha un retroterra migratorio e spesso si tratta di minori stranieri non accompagnati, target complesso per le caratteristiche peculiari che lo caratterizza”. E, appunto, si segnalano come “certamente particolarmente rilevanti” le “storie di vita pregresse, spesso segnate da eventi traumatici (viaggi estremamente pericolosi, permanenze nei campi di detenzione libici ecc.) ma anche dall’assenza di legami e di una rete di sostegno all’esterno, che accompagni il percorso riabilitativo”. Una condizione che, scrive il ministero, “unitamente a frequenti avvicendamenti nella gestione, hanno compromesso gravemente il funzionamento dell’Istituto, rendendo necessario un intervento al contempo eccezionale e strutturale per tornare a garantire la sicurezza dei ragazzi detenuti e degli operatori”. Proprio per questo, sottolinea la Relazione, si è ottenuto un finanziamento del Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami), per un progetto “che intende migliorare la governance all’interno dell’Istituto “Cesare Beccaria”, incrementare le competenze degli operatori presenti nell’Ipm, supportare i percorsi riabilitativi di minori e giovani adulti cittadini di paesi terzi, sostenere l’attività degli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm) lombardi nei percorsi di reinserimento dei minori stranieri in uscita dagli Ipm”. Un progetto su cui si punta molto, perché “dovrebbe costituire un laboratorio di sperimentazione il cui prodotto si auspica possa essere esportato e adattato ad altre realtà territoriali”. Ma tutto questo potrebbe naufragare a causa dei provvedimenti del Governo che penalizzano proprio i minorenni. Lo ammette lo stesso Ministero. Scrive, infatti, che “sarà importante verificare, nel corso degli anni, se il dl del 15 settembre 2023, n.123, cosiddetto “Decreto Caivano” - che è intervenuto precludendo l’accesso alla messa alla prova per alcuni delitti - produrrà modifiche relativamente alle fattispecie di reati dei giovani che accedono alle misure di comunità”. Proprio quanto denunciato dal mondo del volontariato carcerario, dai garanti dei detenuti e dai magistrati, e che farebbe aumentare il sovraffollamento. Ora questo lo troviamo anche nella Relazione che, pur portando la firma del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, come si legge nell’intestazione è stata elaborata dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero. Il ministro ha ben altre convinzioni. Lo scorso 3 aprile rispondendo ad un’interrogazione della senatrice di Avs, Ilaria Cucchi ha negato “l’intento “carcerocentrico” dell’attuale amministrazione”, ha ammesso che “il comparto minorile vive un frangente di pregnante criticità, dovuto al sovraffollamento”. Ma questo, assicura, “non ha minimamente risentito delle modifiche introdotte dal “decreto Caivano”. Nessun dubbio, dunque, in evidente contraddizione col suo Dipartimento. Pavia. Il Garante detenuti? Manca da oltre un anno di Edoardo Varese araldolomellino.it, 10 aprile 2025 Detenuti ancora privi del Garante: sprovvisti di quella figura che ha il compito di controllare e verificare che siano garantiti il diritto alla salute, una vita dignitosa, la funzione rieducativa della pena e di assicurare che le condizioni dei luoghi di reclusione siano idonee per gli stessi detenuti. Passano i mesi, ma da oltre un anno la situazione nelle case di reclusione di Vigevano, Pavia e Voghera non è cambiata, tanto da indurre anche istituzioni e esponenti politici provinciali a prendere voce: “Se prima dell’estate non ci sarà la nomina - dichiara Simone Marchesi, segretario provinciale del Pd - alzeremo ulteriormente la voce, coinvolgendo anche le altre forze politiche, incluse quelle di centrodestra. Per il momento stiamo monitorando la situazione senza troppo clamore, in quanto il ruolo del garante dei detenuti è delicato e va oltre all’appartenenza politica. Da parte nostra porteremo avanti l’impegno a sollecitare gli organi competenti per la sua nomina”. Dagli uffici provinciali a riguardo fanno sapere che “il nuovo Garante sarà individuato mediante un bando tenendo conto del fatto che si tratta di un incarico e di un ruolo dal valore giuridico di livello. Le procedure, comunque, sono già state avviate”. La Provincia sta lavorando alla sostituzione di Laura Cesaris, docente della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia, che sebbene si sia dimessa la scorsa estate dal ruolo di Garante, formalmente risulta ancora nel pieno delle sue funzioni, visto che il suo mandato terminerà il prossimo luglio: “Auspico che il consiglio provinciale, il presidente Palli e il capo di gabinetto abbiano in animo di provvedere alla mia sostituzione entro luglio”. All’interno della casa di reclusione di Vigevano situata a Piccolini però l’assenza del Garante inizia a farsi sentire, mentre non sembrano esserci novità in merito alla sua nomina: “Non sappiamo ancora nulla a riguardo - rende noto Rosalia Marino, direttrice della struttura - in attesa che arrivi il nuovo Garante ci affidiamo al lavoro e all’impegno dei nostri volontari, che rappresentano un punto di riferimento anche per gli stessi detenuti”. L’impegno dei volontari non può tuttavia sostituire una figura che tutela i diritti delle persone detenute o private della libertà personale: “Sussiste una situazione di disagio - rende noto Michele De Nunzio, segretario regionale dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria - sia nella struttura di Vigevano sia in molte realtà carcerarie a livello nazionale. Gli agenti della penitenziaria fanno sempre i conti con carenza di organico e sono costretti a sottoporsi a turni straordinari. Spesso assistiamo a liti tra reclusi e tra detenuti e nostri agenti. È una situazione che si ripete ogni giorno e va avanti da troppo tempo. Capita anche che i detenuti non vogliano rientrare nelle proprie celle e che commettano atti di autolesionismo per rendere evidente il loro disagio interiore. Se ci fosse un garante avrebbero a loro disposizione un’ulteriore figura qualificata sulla quale poter contare”. Como. Suicidi di Stato nell’inferno sulla terra, l’incontro alla Ubik di Paolo Moretti La Provincia, 10 aprile 2025 Il cronista Alessandro Trocino racconta dodici storie di persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane. “Un omaggio alla memoria, ma anche un modo di parlare di diritti negati”. Oggi alle 18 l’incontro alla Ubik. “Una società dove si contempla l’inferno sulla terra ha perso in partenza”. Parole di una sorella, che in quell’inferno ha perso il fratello. Trovato morto, con un pezzo di lenzuolo attaccato a una grata e poi stretto al collo. Un inferno dove, dall’inizio di quest’anno, si sono tolte la vita già 22 persone. Dove tra il 2021 e il 2024 si sono registrati, ogni anno in media, 73 suicidi. Quel luogo, quell’inferno sulla terra, è il carcere. Sono le carceri italiane. Alessandro Trocino, cronista del Corriere della Sera (con un breve trascorso da giornalista anche Como), penna sensibile ed elegante, ha raccolto dodici storie di altrettante vittime di quell’inferno. E ha scritto un prezioso tascabile per Laterza: “Morire di pena”, 12 storie di suicidio in carcere. Diritti negati - “Scrivere di queste vite perdute - spiega Alessandro Trocino - non è solo un omaggio alla loro memoria, ma è anche un gesto politico, un modo per parlare di diritti negati e di tribunali, di norme contraddittorie e di burocrazia assassina, temi che ci riguardano da vicino”. In un momento storico in cui “certezza della pena” e “buttate via la chiave” sono mantra politici e sociali, le storie raccolte con pazienza e sensibilità da Trocino (che domani pomeriggio alle 18 sarà alla Ubik di piazza San Fedele a Como a parlare di queste storie e del suo libro, insieme a Katia Trinca Colonel) rappresentano una sentenza contro un sistema pensato per stritolare vite, e non certo teso a rieducare i condannati (come vorrebbe la Costituzione). E le vittime di cui si narrano istanti di vita, non sono soltanto i detenuti, perché tra le dodici storie l’autore ha raccolto anche quella di un agente penitenziario che si è sparato a causa del clima di soprusi a cui era sottoposto, nel suo lavoro dentro le carceri. Le storie - Come sottolineato nella prefazione da Luigi Manconi, sociologo da sempre sensibile ai temi carcerari, e da Marica Fantauzzi, scrittrice e giornalist che si occupa di progetti rivolti a minori in pena alternativa alla detenzione, “per tragico paradosso chi è all’interno di un istituto penitenziario spesso non conosce presente né futuro ed è costretto a rivivere senza sosta il suo passato. E la società intorno, pur fissando l’identità del condannato al suo reato, in breve tempo finisce per dimenticarsi di quell’uomo o di quella donna, della sua storia, di chi fosse prima di entrare nell’ufficio matricola e di chi avrebbe potuto ancora essere”. Il valore dell’opera di Alessandro Trocino è quella di aver ridato anima a chi ha smarrito se stesso dentro le nostre carceri, al punto da negarsi al futuro. L’autore è andato a cercare madri, sorelle, compagne - le voci al femminile sono di gran lunga la maggioranza, forse perché più sensibili a certe tragedie - e dopo essere riuscito a superare le loro diffidenza ha riannodato i fili di quelle esistenze freddamente riassunte dai certificati di morte per farci assaporare il valore dell’empatia. Anche nei confronti di chi è accusato, a torto o a ragione, di un reato. Ed è attraverso questa operazione di grande umanità, ma anche di cronaca spietata e senza sconti, che “Morire di pena” può aiutare anche i più scettici, quelli del “fine pena mai” a ripensare a cosa sia e cosa dovrebbe davvero essere “pena”. Un saggio, certo, ma che sa unire il piacere della lettura alla doverosa denuncia. Una denuncia che rievoca Voltaire, quando scriveva che è dalle carceri che “si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Se così è, il libro di Alessandro Trocino restituisce l’immagine di uno Stato clamorosamente e drammaticamente incivile. Treviso. La solidarietà e l’opera del volontariato in carcere trevisotoday.it, 10 aprile 2025 Incontri culturali in carcere, alle librerie Paoline e alla Libreria San Leonardo di Treviso, hanno fatto da speciale cornice all’edizione 2025 del progetto “Libro Sospeso” di Cittadinanzattiva, che consiste nella donazione di libri nuovi - con dedica - alle persone detenute nella casa circondariale di Santa Bona. Con l’iniziativa sul “Volontariato capace di dare forza alla solidarietà e alla speranza” martedì 08 aprile alla Libreria San Leonardo di Treviso si è chiusa l’attività a sostegno del progetto “Libro Sospeso 2025” di Cittadinanzattiva Treviso, attività grazie alla quale i cittadini possono donare volumi nuovi alle persone detenute nel carcere di Santa Bona di Treviso. Quattro sono stati gli incontri svolti. Il primo dove è stata presentata l’Antologia di racconti autobiografici di persone detenute, volontarie, nel carcere di Santa Bona. Progetto della Regione Veneto, rientrante nel DGR n. 1124/2023, denominato “Storie Sbarrate”, ideato e coordinato da Francesca Brotto, autrice e formatrice in tecniche e attività teatrali e di autobiografie di comunità. Due invece sono stati gli incontri sulla sicurezza sanitaria e uno sul volontariato, che anche nel Giubileo 2025 risultano avere un posto importante come momento aggregativo e di supporto alla gestione operativa del progetto. Il “Libro Sospeso 2025” è stato anche quest’anno attivato nel periodo quaresimale, e come nella sua tradizione e motivazione ha avuto come punto di riferimento la solidarietà umana, che nel nostro caso è specificatamente riferita alle persone detenute. Il dono del libro, con la dedica di chi lo regala, è da sempre stato considerato concreto gesto di solidarietà. A proposito di questa, il filosofo Emanuel Kant scrisse: “Che la solidarietà umana non è solo un bello e nobile gesto o segno, ma è anche una risposta ad una necessità pressante”. La sociologia, e per essa i sociologi, l’hanno così interpretato e sintetizzato: “Il dono solidale è un sentimento di fratellanza e mutuo sostegno che emerge dalla consapevolezza di appartenere a una grande comunità. Si esprime in un comportamento altruistico, volto ad aiutare chi ne ha più bisogno e adoperarsi per il bene degli altri”. Sia il pensiero di Emanuele Kant che queste indicazioni sociologiche, spiegano bene che il donare un libro con dedica ad una persona detenuta, equivale a dare un segnale di appartenenza a una comunità. Per capire ancora meglio il nostro concetto, possiamo ricorrere anche a quanto scrive Papa Francesco sulle persone detenute nella “Bolla di indizione del Giubileo 2025”. Egli scrive: “Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Quest’ anno, insieme alla solidarietà che è un valore consolidato del “dono libro”, abbiamo incluso anche la “speranza”. Intesa nella forma indicata e reclamata da Papa Francesco tramite il Giubileo 2025 (Spes confundit-la speranza non delude). La stessa, sempre per volontà del Papa, è all’attenzione e disponibilità verso il vasto universo delle persone fragili (le persone malate, quelle detenute, i poveri, i giovani, gli anziani). Ovviamente, il Giubileo 2025 e anche noi includiamo i detenuti. Riguardo a loro, Papa Francesco descrive bene le sofferenze; per darne massima visibilità, richiama ad un impegno concreto tutto il mondo della Chiesa e inoltre ha dedicato loro una Porta Santa speciale situata nel Carcere di Rebibbia a Roma. Cittadinanzattiva Treviso, fin dalla nascita del progetto, ha considerato che il libro può essere di concreto aiuto, poiché libera i pensieri, i sogni e le emozioni delle persone. Su questo Giacomo Leopardi diceva che “un buon libro è un compagno che ci fa passare momenti felici”. Lui di questo si intendeva bene, avendo nella sua libreria a Recanati 20mila volumi e di questi ne aveva letti, anche più volte, oltre 6mila. Inoltre, era un maniaco della scrittura. Appunti, pensieri, promemoria. Un’ultima considerazione, che riguarda il volontariato in generale e anche noi. Si è riconfermato, anche in questo 2025, un ruolo importante del volontariato nella vita delle varie carceri italiane. C’è una buona presenza nell’area della sussidarietà e solidarietà in quella culturale. Qui i volontari sanno agire sulle emozioni individuali e sulle “libertà di pensiero”, senza che questo incida sulle regole di custodia di per sé rigide e, in diversi casi, in modo più realistico della volontà del re. Occorre anche dire che queste regole per ragioni di sicurezza, non agevolano nè certo aiutano la nostra disponibilità. Milano. Fashion carcere, a Bollate (femminile) è nata Ethicarei Academy di Cristina Giudici Il Foglio, 10 aprile 2025 C’è è chi ha sorriso con discrezione e chi, esuberante, ha improvvisato una gag per “i forestieri” entrati nella sezione femminile del carcere modello di Bollate. Quello noto per i quadri colorati alle pareti, le attività trattamentali, il lavoro, lo studio al fine di rendere la pena meno afflittiva e più rieducativa. Eppure Bollate è pur sempre una prigione, dove a un certo punto c’è chi dice basta, mi arrendo. Come è successo a una detenuta che si è impiccata il 31 marzo (sono già 25 i carcerati che si sono tolti la vita nel 2025). Ed è proprio per questo motivo che l’evento organizzato dalla Cooperativa sociale Alice lunedì scorso nella sartoria della sezione femminile ha portato una brezza primaverile necessaria per incoraggiare le lavoratrici che hanno deciso di accettare una sfida partita da Milano per essere replicata in tante altre carceri italiane. Si chiama Ethicarei: un distretto dell’ecofashion composto da diversi laboratori che coniuga la sapienza artigianale della sartoria alla filosofia sostenibile del fair trade e al reinserimento delle detenute con condanne lunghe da espiare attraverso un mestiere qualificato. Insomma basta con i corsi di formazioni, donazioni, bandi fini a sé stessi. Il lavoro in carcere deve sposare la sostenibilità e poter misurarsi con il mercato, come ci ha spiegato la presidente della cooperativa sociale Alice, Caterina Micolano, che ci ha raccontato cosa è successo lunedì scorso nella sartoria di Bollate dove è stata inaugurata un’accademia in partnership con i maestri del lusso: “Noi creiamo figure professionali preziose. E alle detenute offriamo un percorso che prescinda dal reato. Per noi, loro non sono il reato che hanno commesso ma persone vulnerabili che si stanno creando una nuova identità”, ci ha detto. All’interno delle sezioni femminili (e non solo) delle carceri lombarde, le lavoratrici della cooperativa Alice imparano un mestiere, aiutano a preservare e diffondere il know how italiano e tornano a essere soggetti attivi dell’economia. “Assumiamo le sarte che lavorano anche all’esterno, grazie alle misure alternative al carcere. Lavoriamo negli istituti di Bollate e a Monza, collaboriamo con diversi brand, come Armani, Aspesi, Chloé, Zanellato fra gli altri. E, importante, ci avvaliamo della collaborazione dei maestri artigiani in pensione che hanno lavorato per grandi brand”, ha ricordato la presidente Micolano. A Bollate è stata inaugurata Ethicarei Academy per potenziare le competenze delle sarte che sarà gestita dal Gruppo Florence che promuove l’eccellenza manifatturiera italiana nel settore del lusso. Ad inaugurare la nuova accademia c’era anche l’ex ministra della Giustizia Paola Severino e la senatrice Mariastella Gelmini. La Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Irma Conti ha evidenziato l’importanza delle imprese che ricostruiscono la legalità dando un’occasione a chi vuole costruirsi un futuro dopo l’espiazione della pena. E sono in tanti a crederci, pare. Fra i molti partner presenti, c’erano Eleonora De Benedetto, consigliere della fondazione Severino, Sara Sozzani Maino, direttrice creativa della fondazione Sozzani, le sorelle Toledo e la Fondazione Francesco Morelli dello Ied (Istituto Europeo di Design) che a Bollate condurrà corsi per ricordare alle detenute l’importanza della bellezza dietro le sbarre dove le sarte hanno condanne lunghe e qualcuna persino il fine pena mai. E diverse cooperative che fanno parte del distretto Ethicarei, come Il Cerchio che opera alla Giudecca, Gomito a Gomito di Bologna e Colori Vivi di Torino. Chi c’era, ci ha raccontato l’orgoglio delle detenute di far parte di un nuovo caso di innovazione milanese che sta facendo scuola. “In carcere tutto è piccolo, a partire dagli spazi. Anche la libertà in carcere è un ricordo piccolo”, ha osservato la senatrice Mariastella Gelmini. “Inaugurare un nuovo spazio acquista tutto un altro sapore. Perché questi metri quadrati in più per tante detenute significano lavoro, riscatto, rinascita. Soprattutto perché un detenuto/a che impara un mestiere qualificato, quando torna in libertà smette di delinquere nel 98 per cento dei casi”. Se poi il suo lavoro regge la sfida del mercato, allora si chiama eccellenza. Parma. L’attività del Patronato Acli all’interno del carcere parmadaily.it, 10 aprile 2025 Lunedì 7 aprile si è tenuto un incontro presso la Casa Circondariale di Parma, organizzato da Acli Provinciale Parma, per illustrare l’attività del Patronato Acli all’interno del carcere, che dal 2015 - grazie a un accordo nazionale - offre assistenza previdenziale e fiscale ai detenuti. A Parma, questo servizio è reso possibile grazie all’importante sostegno di Fondazione Cariparma e al prezioso impegno di Mauretta Ghirardi, volontaria Acli, che da anni affianca i detenuti nella gestione delle pratiche, con il supporto delle operatrici di Patronato e Caf Acli. Una figura fondamentale, riconosciuta da tutti i presenti all’incontro, tra cui il direttore del carcere Valerio Pappalardo, la vice Annalisa La Greca, la responsabile educativa Maria Clotilde Faro, l’assessore alle politiche sociali del Comune di Parma, Ettore Brianti, il direttore CSV Arnaldo Conforti, Don Augusto Fontana, Cecilia Scaffardi, direttrice della Caritas di Parma, insieme ai rappresentanti Acli locali e nazionali. La collaborazione tra Acli e il carcere di Parma dura da oltre dieci anni, grazie inizialmente al lavoro di Luciana Gardoni e, dal 2021, all’impegno settimanale di Ghirardi. Dal giugno 2021 a oggi, sono stati richiesti oltre 3300 colloqui e gestite più di 1200 pratiche, in particolare per ISEE, invalidità civile, disoccupazione e pensioni. “Siamo l’unico Patronato presente in carcere - ha ricordato Enrico Fermi, presidente provinciale Acli - e grazie al sostegno della Fondazione Cariparma possiamo portare avanti questa attività con continuità”. “Portare i diritti dentro le carceri è un atto democratico - ha sottolineato il presidente nazionale del Patronato, Paolo Ricotti - perché i diritti non si fermano fuori dalle mura, e il nostro lavoro nasce da una volontà di speranza e cura della persona”. “È raro che il terzo settore riesca a entrare stabilmente in carcere - ha aggiunto Mariangela Perito, delegata nazionale alle attività in carcere - ma l’esperienza di Parma, anche attraverso i numeri, mostra quanto sia importante continuare a esserci”. Le conclusioni sono toccate al direttore Pappalardo e all’assessore Ettore Brianti: “Dialogare con il territorio è fondamentale. È un modo per portare speranza e non far sentire dimenticati i detenuti”. “La collaborazione con la direzione prosegue da anni - ha ricordato Brianti. La cura è un tema centrale per il sindaco, per l’amministrazione e per l’intera città: si tratta di scegliere di prendersi cura ogni giorno delle persone e della comunità a 360 gradi”. Palmi (Rc). Al via il progetto in carcere “Cambia-Menti con lo Sport” di Giuseppe Mancini ilreggino.it, 10 aprile 2025 L’iniziativa, che si avvierà nel carcere locale, mira a restituire alla comunità liberi cittadini, che, attraverso un percorso esperienziale, possano vivere delle concrete prospettive di integrazione. Grazie al supporto di numerosi partner, ci si concentrerà su 4 aree di intervento: attività sportiva, formativa, educativa e di animazione culturale. Sport praticato come strumento di valorizzazione di sé, di socializzazione e di autostima, al fine di restituire alla comunità liberi cittadini, che, attraverso un percorso rieducativo, conoscitivo ed esperienziale, possano vivere delle concrete prospettive di integrazione. Si è tenuta oggi, presso la sala Consiliare del Comune di Palmi, la presentazione del progetto “Cambia-Menti con lo Sport”, che promuove lo sport come strumento ed opportunità di rieducazione per i detenuti, tramite il potenziamento dell’attività sportiva negli istituti penitenziari per adulti e minorili. Il progetto è stato finanziato grazie al bando “Sport di tutti-Carceri”, nato da un’iniziativa promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani, attraverso il Dipartimento per lo Sport e realizzato in collaborazione con Sport e Salute S.p.A. Il progetto “Cambia-Menti con lo Sport”, è stato ideato e predisposto da Carmen Gualtieri in qualità di referente della capofila Asd Arcudace Palmi Club, del presidente Massimiliano Caruso. Carmen Gualtieri ha illustrato le attività programmate nel progetto, che verranno avviate presso la Casa Circondariale “Filippo Salsone” di Palmi, che daranno ai detenuti la possibilità di conseguire, all’interno dell’istituto, la qualifica di Tecnico di primo livello Settore Giovanile, spendibile nel mondo del lavoro una volta fuori dal carcere. Il Progetto, che avrà la durata di 18 mesi, grazie al supporto di numerosi partner, si concentrerà su 4 aree di intervento: attività sportiva, attività formativa, attività educativa e socio psicopedagogica, e attività di animazione culturale. Presente alla conferenza l’assessore alle politiche sociali del Comune di Palmi, Denise Iacovo che, nel corso del suo intervento, ha fatto, tra l’altro, riferimento agli incontri che verranno realizzati a cura del dipartimento dei Servizi Sociali e che, con l’ausilio di psicologi e operatori specializzati, puntano a dare vita ad una piccola rete di supporto per favorire il reinserimento socio-lavorativo di soggetti detenuti, e ricostruire il legame con le famiglie e i figli minori anche attraverso la collaborazione della Camera Minorile “Malala”, per la quale è intervenuta Maria Lucia Zaccuri. Il coordinatore regionale di Sport e Salute, Walter Malacrino, ha elogiato il Comune di Palmi e la Asd Arcudace Palmi club per la capacità di intercettare i finanziamenti proposti dal dipartimento su tutto il territorio nazionale e ha sollecitato le associazioni a partecipare ai bandi che vengono periodicamente pubblicati. Domenico Ciccone, responsabile dell’area trattamentale della Casa Circondariale di Palmi, ha espresso la sua soddisfazione per la realizzazione del progetto, garantendo il massimo impegno, da parte di tutto l’istituto penitenziario, per la sua riuscita. Il presidente della capofila Arcudace Palmi Club, Massimiliano Caruso, ha descritto le attività sportive di calcio, basket e pilates che verranno curate e realizzate dalla sua società con il supporto della Asd Pallacanestro Palmi, rappresentata in conferenza dal suo vice presidente Enrico Paratore. Filomena Iatì, Delegato provinciale PGS di Reggio Calabria, si è focalizzata sulle finalità, non solo formative, ma anche educative, del corso di Tecnico primo livello Settore Giovanile e calcio a 5/11, che verrà interamente realizzata grazie alla partnership con il Comitato Regionale delle Polisportive Giovanili Salesiane Calabria e si concluderà con rilascio della relativa qualifica. Per ampliare le competenze in ambito sportivo, a cura della capofila Arcudace Palmi Club con il supporto di psicologi, legali e nutrizionisti, verrà svolto un corso di “sport integrato e inclusivo: uno strumento per promuovere la cultura del rispetto, i valori e l’etica dello sport. Infine, l’attività culturale sarà interamente curata dall’A.P.S. Festival Nazionale del diritto e della letteratura “Città di Palmi”, rappresentata nel convegno di presentazione dell’iniziativa da Mimma Sprizzi, e prevedrà lo svolgimento di un laboratorio di letteratura e cineforum al fine di migliorare la qualità della vita della popolazione detenuta attraverso percorsi di apprendimento culturale. Il progetto è stato patrocinato dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Giovanna Russo, presente alla conferenza, e dalla ONG “Nessuno Tocchi Caino” intervenuta con Clara Veneto, membro del consiglio direttivo. “Qui è Altrove: Buchi nella realtà”, il docu-film ci dimostra che un altro carcere è possibile di Arnaldo Capezzuto Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2025 Un ammonimento per chi pensa (certa politica) ai penitenziari come grandi discariche sociali. Ti siedi sulla poltrona a scomparsa del cinema-teatro Posillipo della Napoli collinare - locale che 20 anni di gestione con proiezioni, cene spettacolo, show e una intensa attività culturale, a breve chiuderà i battenti per volontà della proprietà - per guardare l’ultimo lavoro di Gianfranco Pannone, regista documentarista e teatrale (ultimo spettacolo al teatro San Ferdinando è stato Cinemamuto sulla censura a Elvira Notari) “Qui è Altrove: Buchi nella realtà”. Si tratta di un film documentario corale, che punta la macchina da presa fuori e dentro l’istituto di detenzione, il penitenziario di Volterra, collocato all’interno della Fortezza Medicea dove è nata la Compagnia della Fortezza fondata e animata da ben 35 anni dal regista teatrale e drammaturgo Armando Punzo. Compagine composta, insieme a dei professionisti del teatro, da detenuti-attori. Adesso è un’isola, non è stato sempre così, in un panorama per molti versi desolante, che ci racconta una cosa semplice e chiara: ‘un altro carcere è possibile’. Possibile nella misura in cui i detenuti sono anzitutto persone che condividono con altre persone un’esperienza unica perché fortemente umana. Non c’è alcuna missione educativa, non c’è nulla di didattico, neppure percorsi tortuosi per la redenzione delle coscienze. Come implora Punzo affacciato da un oblò rappresentato da un cerchio disegnato a terra: “Coloriamo il nulla”. C’è solo l’atto teatrale, azione di per sé rivoluzionaria perché cambia la realtà, la vita delle persone e giunge alla mente toccando l’anima. È il sasso lanciato nello stagno. Insieme ad altre compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani, la Compagnia della Fortezza anima il Progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri e sostenuto da 12 Fondazioni di origine bancaria, che vede allievi giovani e meno giovani conoscere da dentro il lavoro di Punzo e delle altre compagnie, confrontandosi su un altro teatro possibile. ?Il racconto per immagini “Qui è altrove: Buchi nella realtà” - prodotto da Bartlebyfilm e Aura Film, in co-produzione con RSI - Radiotelevisione svizzera - del regista Gianfranco Pannone segue, fino al debutto, nel carcere di Volterra, le prove di Armando Punzo con i suoi attori nell’ambito del progetto teatrale Atlantis cap. 1 - La permanenza. Qui, con altri registi provenienti da diverse esperienze di teatro-carcere, la Compagnia della Fortezza organizza la masterclass, riunendo tutte queste realtà nel segno di un’utopia possibile. “La macchina da presa che ‘pedina’ i testimoni sia durante l’attività interna alla Fortezza medicea che ospita il carcere, che nelle fasi esterne, agisce su due modalità diverse - racconta Pannone - se nella prima parte del film documentario carcere e città sono ben distinti, due mondi diversi come lo sono nella realtà, nella seconda parte quei due mondi quasi si impastano fino a diventare una sola cosa. I professionisti della scena, i detenuti e gli allievi, vivono tutti in modo così totalizzante l’esperienza, da portare dietro di sé anche il film. Film che è dentro le cose e con le persone. E in questo agire c’è una necessità anche etica, nel momento in cui le carceri italiane sono iper affollate, spesso soffocanti, e ogni anno con record di suicidi”. Attraverso le straordinarie immagini di Tarek Ben Abdallah (direttore della fotografia) si comprende come non si tratti di un film documentario sul carcere, ma sul teatro in carcere che diviene nutrimento. La Compagnia della Fortezza dimostra che un altro carcere è possibile. È un ammonimento per chi pensa (certa politica) ai penitenziari come grandi discariche sociali. “È evidente a tutti che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi” - spiega Armando Punzo. In effetti se ad inizio proiezioni eri seduto sulla poltrona a scomparsa illudendoti di essere libero, ben presto ti accorgi e maturi che ognuno di noi è un recluso di una realtà brutta che piano piano ci priva di tutto. “Qui è altrove: Buchi nella realtà” è stato l’evento speciale di apertura della 65esima edizione del Festival Dei Popoli e nel suo tour in giro per l’Italia è approdato anche alla Sala della Regina di Montecitorio, in un evento significativo che ha visto la partecipazione del vicepresidente della Camera Sergio Costa. E pensare che lo scorso 29 marzo, un 32enne di nazionalità algerina si è ucciso nel carcere di Poggioreale di Napoli. Già sono 24 i suicidi negli istituti penitenziari dall’inizio dell’anno. Un altro carcere dev’essere possibile. Il tirocinio dei medici a Lampedusa in un libro. “Curare i migranti ti cambia la vita” di Cinzia Arena Avvenire, 10 aprile 2025 “Miya Miya. Riflessioni da uno scoglio di confine”, è il diario collettivo nel quale sono confluiti emozioni, pensieri e riflessioni. In arabo significa letteralmente “100%”, inteso come “va tutto bene” ed è la frase che i giovani specializzandi usano per tranquillizzare chi arriva, ma che viene ripetuta come un mantra dagli stessi migranti. L’esperienza sul molo Favaloro degli specializzandi in malattie infettive dell’università di Bari. L’isola crocevia di speranza e simbolo di accoglienza per chi arriva da lontano. Un mese sul molo di Favaloro ad accogliere i migranti, offrendo loro le prime cure sanitarie, insieme ai beni di prima necessità e ad un sorriso rassicurante. Un tirocinio che si trasforma in un’esperienza formativa cruciale sul significato stesso della professione di medico. Lampedusa è l’isola che non c’è, un luogo dove si parte e si arriva, un crocevia di incontro e di speranza. Gli specializzandi in malattie infettive e tropicali dell’università di Bari dal 2022 hanno la possibilità di andare in missione in questo piccolo lembo di terra diventata simbolo dei flussi migratori e delle morti in mare. “Miya Miya. Riflessioni da uno scoglio di confine”, è il diario collettivo nel quale sono confluiti emozioni, pensieri e riflessioni. In arabo significa letteralmente “100%”, inteso come “va tutto bene” ed è la frase che i giovani specializzandi usano per tranquillizzare chi arriva, ma che viene ripetuta come un mantra dagli stessi migranti. Diventa un simbolo di speranza nonostante il mare, le barche sovraffollate, la paura e il dolore, perché rappresenta il desiderio di credere in un futuro migliore, per chi arriva e per chi accoglie. Insieme ad un altro invito, “bon courage” buona fortuna, che diventa il saluto d’addio. Il libro racconta l’incontro tra chi approda, segnato da viaggi impossibili, e chi tende una mano con solidarietà e con cura. “A tutti coloro che sono in cammino…” è la dedica scelta: perché il viaggio non è solo quello dei migranti ma anche quello fatto dai giovani medici nel loro percorso professionale e personale. Le pagine scorrono veloci intervallate da foto di mare blu, bambini che corrono e navi stracolme. Pensieri che arrivano dal profondo, come onde. “Sul molo c’è una frontiera di vetro” scrive Valentina. “Un muro invisibile che divide i migranti da chi è lì per assisterli. Vengono sfamati, visitati, vestiti ma poi vanno via, oltrepassando di nuovo quella frontiera”. Le emozioni in mezzo al mare “ti schiaffeggiano” dice, ti tolgono il fiato. Il tirocinio dura un mese, ma in molti hanno scelto di tornare, per rendersi ancora utili. In inverno gli arrivi si affievoliscono, si guarda il mare con paura. “Il mare è un binario verso una nuova vita ma a volta ingoia la vita” aggiunge ancora Valentina. “Nessun uomo è un’isola” scrive Roberta sottolineando come coloro che arrivano, spesso bollati come “clandestini” siano in realtà persone che fuggono dalla miseria, dalla morte, dalla guerra. Tra loro tanti bambini che trasformano lo spazio antistante al molo in una piazza in cui correre e giocare. Tra gli episodi che Roberta affida al diario il salvataggio di un piccolo, Mohamed, caduto in mare e subito ripescato che le viene affidato. Carmen è partita con la voglia di conoscere un aspetto nuovo della specializzazione in malattie infettive che aveva scelto, vale a dire il legame con le migrazioni. Sull’isola ha trovato “una dimensione unica, di condivisione con gli altri specializzandi, il bello del lavorare insieme”. Adesso tutte e tre si sono specializzate e hanno iniziato a lavorare. Carmen e Valentina nel reparto di Malattie infettive, la prima a Galatina, l’altra a Matera, Roberta ad Agrigento con Medici Senza Frontiere, ancora in prima linea con i migranti. Tutte e tre sono convinte che Lampedusa non sia stata una parentesi ma un primo passo verso altri progetti umanitari. L’idea del libro è nata per caso. “È stata una collega che per motivi personali non ha fatto il tirocinio a dirci: siete un flusso di emozioni dovreste scrivere un libro. Nonostante il tema dell’immigrazione sia molto conosciuto è un’esperienza che ti cambia la vita, siamo tornate con uno sguardo stupito, diverso” dice Valentina. “La maggior parte delle pagine del diario sono state scritte in loco” aggiunge Carmen con una grande esigenza di fissare i ricordi e le sensazioni. Per Roberta si tratta di “un bagaglio enorme” che la accompagna quotidianamente nel lavoro che sta facendo ad Agrigento. “Essere lì ti dà la consapevolezza che le persone che arrivano hanno la forza di dire va tutto bene, nascondendo le paure e l’insicurezza. Lasciare tutto rischiando la vita stessa è qualcosa di estremo. I migranti vengono poi mandati nei centri di accoglienza, rimangono fragili e il sistema non è preparato a questo tipo di vulnerabilità”. La professoressa Annalisa Saracino, direttrice della scuola di specializzazione dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, che ha stipulato una convenzione con il ministero della Salute e l’Usmaf siciliano (l’ufficio di sanita marittima, aerea e di frontiera) che si pensa di rinnovare, spiega che spesso le malattie infettive sono provocate o esacerbate da tutte quelle condizioni difficili che possiamo ricondurre sotto il termine “povertà”: sia essa materiale, causata da guerre, catastrofi ambientali o climatiche, oppure culturale. “Questo insegniamo come docenti universitari ai nostri studenti perché è quello che osserviamo come infettivologi tutti i giorni nella pratica clinica”. In questo senso, il lavoro sanitario con i migranti, spiega ancora “è da considerarsi una sorta di corso intensivo, una modalità di apprendimento in immersione totale, un prezioso acceleratore di conoscenza”. Nella formazione dei medici non sono importanti solo le capacità tecniche ma anche quelle umane. L’università di Bari ha avviato anche progetti di cooperazione in Africa, dall’Uganda all’Etiopia, e in contesti deprivanti come i ghetti in Capitanata sul Gargano dove vivono e lavorano i migranti. “Nessuna intenzione di strumentalizzare il dolore degli altri” è la premessa che fa la professoressa, ma la volontà quasi l’urgenza sentita dagli specializzandi, di raccontare e far conoscere cosa accade sul molo. Il tirocinio è stato riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità come una best practice per promuovere la salute di migranti e rifugiati e rappresenta un modello per la formazione dei medici del futuro. “Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzioni” di Lorenzo Santucci Il Domani, 10 aprile 2025 Il fallimento delle proteste dell’ultimo decennio: “È possibile essere nel giusto ma venire tragicamente ignorati”. Nel suo ultimo libro “Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzioni” (Einaudi) il giornalista Vincent Bevins ha ripercorso quanto accaduto in giro per il mondo tra il 2010 e il 2020, interrogandosi su cosa non abbia funzionato e sul perché gli obiettivi prefissati non sono stati raggiunti. Come è possibile che il decennio più partecipato di sempre in termini di proteste abbia portato pochi o nulli cambiamenti nella società? È quello che il giornalista statunitense Vincent Bevins ha provato a chiedersi nel suo ultimo libro “Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzioni”, edito da Einaudi, raccontando i vari movimenti che, tra il 2010 e il 2020, sono nati in giro per il mondo. Dal Brasile a Hong Kong, dal Cile alla Turchia, passando naturalmente per le primavere arabe. Eventi che hanno caratterizzato la storia nazionale, incapaci però di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati. L’ultimo decennio è stato il più partecipato in tutta la storia in termini di proteste. C’è un elemento determinate che ha spinto così tante persone per le strade? Ce ne sono diversi. Cerco sempre di affermare che ogni caso è diverso, ma due di questi sono presenti in quasi tutti quelli che ho analizzato. Il primo è la risposta alla crisi finanziaria del 2008 e il modo in cui le élite hanno risposto a quella crisi, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa occidentale, Africa, Asia, America Latina. La seconda è l’avvento dei social media, che hanno contribuito a causare molte di queste rivolte. Spesso, la narrazione di allora era che queste rivolte erano tutte legate ai social media, e che questo fosse un bene. Il mio punto di vista si tratta solo in parte dei social media e che, nella misura in cui è vero, non è una cosa positiva. I social network hanno reso più facile la mobilitazione rapida, ma non hanno certo reso più semplice la vera organizzazione. Forse l’hanno addirittura resa più difficile. Anche quando le proteste hanno avuto successo, non si è ottenuto tutto quello che si voleva conquistare. Rivoluzioni a metà, potremmo chiamarle. Cosa lo ha reso possibile? Ho cercato di ricostruire gli eventi in modo cronologico, chiedendo alle persone cosa è successo, cosa hanno cercato di raggiungere, cosa hanno ottenuto e cosa avrebbero fatto in modo diverso. La dimensione del successo o della sconfitta varia. Alcune di queste proteste sono riuscite a raggiungere quelle che si chiamano vittorie qualificate, come in Corea del Sud o in Cile. In altri casi, le cose sono andate male. Mi sono incuriosito al fatto che le proteste di massa potessero esistere in termini di euforia ma che non avessero la forza di portare a una rivoluzione. Sarebbe però sbagliato dire che questa strategia non abbia funzionato. Il bilancio è più positivo o negativo? È stata incredibilmente efficace nel portare in strada o nelle piazze molte più persone di quante si potesse mai immaginare. Questo ha creato opportunità reali, rovesciando un governo esistente o convincendolo che, per salvarsi, avrebbe dovuto cedere in qualche modo al popolo. Ma quando si sono create queste opportunità si è scoperto che una protesta, in particolare una protesta di questo tipo, era molto poco adatta a sfruttarle. Nei casi specifici che ho esaminato, in nessuno di essi è stato il movimento di protesta a trarre vantaggio. Italia C’entra qualcosa la mancanza di un leader riconosciuto alla guida dei vari movimenti? L’assenza di una leadership chiara ne ha imposta una dall’esterno. Una protesta strutturata orizzontalmente, senza leader, spontanea, riunita dai social media, non poteva colmare un vuoto di potere per formare un governo provvisorio e nemmeno far parte della transizione verso un nuovo esecutivo. Quando i vari governi hanno cercato di andare in piazza per capire cosa chiedevano, questi movimenti non sono riusciti nemmeno a elaborare una serie di richieste chiare. Credevo che fosse comprensibile l’istinto di dare voce a chiunque in modo uguale, rinunciando a quelle strutture verticali che si credeva avessero causato abusi nel passato. E invece? Molte persone che hanno preso parte alle proteste credevano che ci fossero le condizioni per andare avanti, ma questo avrebbe richiesto un meccanismo per agire collettivamente e per decidere come interagire tra il movimento e il mondo esterno. Tutto questo non è necessariamente autoritario. Ci sono modi democratici in mano a un movimento per decidere che struttura vuole avere, chi lo deve rappresentare, quali richieste presentare, cosa tollererà e cosa no. Ma l’orizzontalità tipica dei social network non ha permesso che queste decisioni venissero prese in tempi brevi. Sembrerebbe che i social media abbiano solo remato contro le proteste, invece che favorirle... Hanno permesso una rapida trasmissione delle immagini da una parte all’altra del mondo. Il sottotitolo del libro è “Le proteste di massa del decennio e la rivoluzione mancata” e all’interno del volume mi soffermo molto sul Brasile. Ma avrei potuto chiamarlo “Il decennio di Piazza Tahrir”. Molto di quello che accade dopo il 2011 è una conseguenza di ciò che le persone vedono accadere al Cairo, nel tentativo di fare lo stesso nel loro paese. In Occupy Wall Street c’era la riproduzione del modello di Piazza Tahrir, così come nei movimenti in Grecia e in Spagna. A Hong Kong hanno cercato di emulare Occupy Wall Street, che è ispirato dal caso egiziano. I social network permettono una solidarietà immediata in tutto il mondo, oltre che un aumento nell’accesso dell’informazione. È un qualcosa di estremamente positivo. Se pensiamo alle rivoluzioni del 1848, il processo era simile ma molto più lungo. I gruppi rivoluzionari prendevano l’ispirazione da eventi accaduti giorni o settimane prima. Nel 2011 tutto questo è avvenuto cinque secondo dopo. Anche riproponendo le stesse tattiche in contesti molto diversi rispetto al Cairo, come possono essere New York o Hong Kong. Ha parlato di immagini che circolano rapidamente in tutto il mondo. Contrariamente a quanto credeva l’ex primo ministro britannico Gordon Brown, convinto che grazie ai social le atrocità sarebbero diminuite, queste sono comunque state amplificate dalle piattaforme... È difficile spiegare a persone molto più giovani di me che nel 2010-11, all’epoca di Gordon Brown, le persone credevano che Internet e le aziende di social network californiane avrebbero contribuito a rafforzare la democrazia, la trasparenza e a raccontare la verità. Ora è vero l’esatto opposto, ovvero che possono essere venire usati per disinformare invece che fare rivoluzioni. Non solo i buoni hanno imparato a usarli. Gruppi di destra, fascisti, Stati autoritari: tutti hanno imparato a farlo per promuovere le loro idee. Abbiamo una tale quantità di materiale che si può creare qualsiasi narrativa. Lo stiamo vedendo con le guerre in corso. Come giudica l’operato di Israele in termini di comunicazione? Ho personalmente partecipato alle proteste contro ciò che sta accadendo in Palestina, prima e dopo il 7 ottobre. Leader come Benjamin Netanyahu e Joe Biden possono scegliere di ignorarle, se vogliono. Un po’ come successe nel 2003 al momento dell’invasione dell’Iraq. Il messaggio che era stato mandato dalle persone di tutto il mondo a Tony Blair e George W. Bush era molto chiaro, ma hanno scelto di non ascoltare. Il motivo è che queste proteste non sono abbastanza. Di solito è necessario esercitare un tipo di pressione su questioni che interessano davvero chi prende decisioni. La storia dell’ultimo decennio è piena di persone che compiono sacrifici per cause nobili, ma senza che ciò funzioni. È possibile dimostrare al mondo che sei nel giusto ma, allo stesso tempo, venire tragicamente ignorato da chi è al potere. Nel libro c’è una dura critica alla stampa e al ruolo negativo che ha avuto nelle proteste. Il giornalismo cosa dovrebbe imparare dall’ultimo decennio? Abbiamo bisogno di una solida capacità di comprendere il contesto e di capire cosa c’è dietro le storie, piuttosto che limitarci a puntare lo smartphone o la macchina fotografica su qualcosa che appare sensazionale o che si pensi possa interessare di più alla gente perché conferma il loro pensiero. Intervistando le persone per questo libro ho scoperto come molte di loro credono che questa protesta di massa apparentemente senza leader e spontanea è particolarmente vulnerabile al traviamento da parte dei media, o perché lo fanno di proposito o perché vogliono costruire una storia che soddisfi il loro capi. Abbiamo fallito. Servono organi di stampa migliori, giornalisti più numerosi e responsabili. Ma tutto ciò richiede finanziamenti. E il giornalismo sta vivendo un momento crisi, in cui i modelli di business sono tutti scomparsi e non siamo in grado di immaginare alternative. Come cambiare la nostra Costituzione per continuare a costruire il futuro di Anna Mastromarino La Stampa, 10 aprile 2025 Ogni sua disposizione marca concrete discontinuità con il passato anche quando non sembra farlo. Lo fa perché i suoi costituenti avevano già deciso da che parte della storia stare. Le Costituzioni sono documenti capaci più di qualsiasi atto normativo di marcare le continuità e le discontinuità con il passato. In questo senso, a me pare che si possa dire che le costituzioni sono “luoghi di memoria”, ossia spazi pensati non per glorificare il passato e i suoi protagonisti, ma con il fine di costruire un futuro. Questo trovare nella storia le ragioni del presente per definire l’avvenire comporta necessariamente l’accettazione di un fatto incontrovertibile: sin dall’inizio la Costituzione italiana si presenta come diretta conseguenza del fascismo. Potremmo dire che senza l’esperienza del regime di Mussolini la nostra Costituzione sarebbe stata diversa, assai diversa. Ciò perché essa si struttura a partire dal fascismo, nel senso che si muove in tutto e per tutto al contrario rispetto all’esperienza totalitaria del primo Novecento, optando per soluzioni giuridiche che sono prima di tutto l’antitesi di quelle adottate nei decenni precedenti. Se è vero che la Carta del 1948 privilegia soluzioni che sono spesso l’esito di difficili compromessi o che sono il risultato del prevalere di una forza politica sull’altra limitatamente a questo o quell’aspetto, non di meno, per diverse che siano state, tutte queste scelte sono accomunate da un convinto spirito antifascista ed è in questo senso che il nostro testo è antifascista, in quanto pensato per non essere fascista. Ogni sua disposizione marca concrete discontinuità con il passato anche quando non sembra farlo. Lo fa perché i suoi costituenti avevano già deciso da che parte della storia stare. In quest’ottica possiamo arrivare a dire che la Costituzione italiana è democratica e umana perché è antifascista: in contrapposizione a un regime che fa del popolo, o meglio dire delle masse, il suo fondamento, senza concepire alcuna differenziazione, alcun individualismo, senza riuscire a scorporare il singolo uomo e la singola donna dal concetto ideale di italiano e italiana, la Costituzione pone al centro del suo progetto politico gli uomini e le donne, al plurale, variegati, diversi. Quell’uomo e quella donna intesi nella loro concretezza fatta di idee, di desideri, di ambizioni, di paure, di difficoltà, ma anche di divari, discriminazioni, ingiustizie. Nella prospettiva costituente del 1946 non esiste “l’italiano”; esistono gli uomini e le donne della Repubblica. Si pensi, in questo senso, ai diritti sociali. Qualcuno potrebbe essere portato a credere che il regime fascista fosse un ordinamento, certo con molti limiti, ma non di meno già attento allora, come lo è oggi la nostra Carta, ai bisogni dei suoi cittadini. Prendiamo, per esempio, l’interesse dimostrato verso i bambini e i giovani: l’infanzia al centro di molte politiche nazionali, le colonie estive, lo sport, l’educazione scolastica. A un primo sguardo si potrebbe pensare che vi sia stato alla base degli interventi del regime un progetto di sviluppo sociale, quella stessa cura poi ripresa dai costituenti. Ma la verità è ben altra. La verità è che i diritti sociali, quelli che la nostra Carta riconosce ai suoi cittadini e alle sue cittadine, sono una cosa seria e una sfida importante, del tutto estranea alla prospettiva del regime fascista. I diritti sociali, in effetti, sono prima di tutto diritti “di liberazione”, nel senso che il diritto allo studio, il diritto alla salute, il diritto alla casa hanno come primo e fondamentale fine quello di liberare i suoi titolari dall’ignoranza, dalla malattia, dalla povertà. Detto più generalmente, i diritti sociali sono diritti di liberazione perché il loro obiettivo è quello di emancipare uomini e donne dallo stato di bisogno. In questo senso essi sono strettamente legati ai cosiddetti diritti dell’epoca liberale (gli stessi schiacciati progressivamente durante il fascismo) pensati per delimitare spazi “di libertà” all’interno dei quali i pubblici poteri non possono interferire rispetto al loro godimento (o possono farlo solo in determinate circostanze predeterminate). Per meglio capire, si prenda in esame un diritto costituzionale fondamentale come quello della libera manifestazione del pensiero, in forma scritta, orale o simbolica, attraverso opere d’ingegno, artistiche o quant’altro. Si tratta senza dubbio di un diritto che sancisce una libertà la quale - entro certi limiti, che possono cambiare da ordinamento a ordinamento - permette agli individui di contribuire alla diffusione del loro punto di vista; d’altra parte, non sfugge il fatto che senza l’avverarsi di una serie di precondizioni sarebbe difficile poter davvero esercitare questa libertà: senza cioè esserselo formato quel punto di vista, attraverso la lettura, per esempio, o la comprensione e l’interpretazione delle informazioni ricevute; senza poterlo diffondere quel punto di vista, attraverso la scrittura o altro linguaggio; senza avere uno spazio pubblico di confronto dove quel punto di vista possa incontrarsi o scontrarsi con altri punti di vista assumendo nuove forme. Ne consegue che il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero presuppone il riconoscimento di diritti sociali come quello all’istruzione o quello alla cultura, capaci di emancipare dall’analfabetismo e dall’emarginazione. Fuori da questo orizzonte di senso, fuori cioè da un processo di “capacitazione”, i diritti restano desideri più che progetti o, ancor peggio, si trasformano in occasione di discriminazione, non certo di inclusione e integrazione sociale, dal momento che solo coloro che hanno sin dalla nascita gli strumenti economici e sociali per costruirsi una “capacità” possono goderne. Questo vincolo tra diritti di libertà e diritti di liberazione trova espressione proprio nell’art. 3 della nostra Costituzione, dedicato al principio di uguaglianza. Sui documenti si scrive “genitori”: la forzatura ideologica sconfitta dalla realtà di Fabrizia Giuliani La Stampa, 10 aprile 2025 La famiglia, le relazioni, la sessualità, la generazione ma anche la cura e la morte sono temi sono diventati terreno di scontro politico senza prigionieri. Poche cose nuocciono al vivere civile come lo scontro ideologico su materie che definiamo eticamente sensibili, attingendo a un lessico tanto generico quanto poco accessibile, ossia questioni che attengono alla vita, i suoi luoghi e i suoi processi. La famiglia, le relazioni, la sessualità, la generazione ma anche la cura e la morte. Questi temi sono diventati il terreno prediletto dalla politica per lo scontro dove non ci sono prigionieri, dove l’avversario deve essere piegato e vinto e le convinzioni si impongono con la forza dei numeri. Dove la politica intesa come confronto, rispetto, consapevolezza dell’articolazione del corpo sociale e dei mutamenti che lo attraversano muore e resta solo il bastone del comando. Nel secolo scorso la tendenza era stata definita bipolarismo etico, radicalizzazione incapace di produrre l’accordo necessario a qualunque passo avanti legislativo e priva di memoria. Se si studiasse la storia - anche solo un po’, anche per titoli - si scoprirebbe velocemente come ogni avanzamento civile, ogni passo volto ad archiviare i residui patriarcali è stato realizzato attraverso il confronto aperto e il riconoscimento. L’imposizione, lo sapeva bene una classe dirigente che aveva combattuto il fascismo, non è solo dannosa ma improduttiva: non funziona. Le società democratiche sono macchine complesse e la complessità, per essere governata, richiede fatica e conoscenza, pena la paura che porta alla regressione, l’abbaglio che il ritorno alla legge comando metta al riparo da cambiamenti percepiti come minacciosi. Siamo nel pieno di questo passaggio politico, di questa paura non compresa e non governata: da qui bisogna partire per parlare della sentenza della Cassazione che riporta alla dicitura genitori sulla Carta d’Identità. Riportare, si diceva: questa era la definizione prima dell’impuntatura del Viminale (2019), che aveva voluto sostituire genitore con madre e padre. Eppure, genitori era la formula che aveva accompagnato nella storia patria, i documenti di identità fin all’ultima misura del 2015, governo Renzi, relativa alla Carta d’Identità elettronica. L’intento di Salvini era stato chiarissimo: la battaglia per il ritorno alla famiglia naturale passa dalla carta d’identità, persino se questa smentisce lo stato delle cose, ossia non ci sono una mamma e un papà. In altre parole, attraverso la riformulazione della dicitura sul documento si ripristina l’ordine che non c’è. Come se le parole sostituissero o cancellassero i fatti. La storia del vocabolo genitore avrebbe dovuto mettere in guardia dalle forzature, segnata com’è dalla consapevolezza che i bambini possono crescere in famiglie diverse, che nascere non è crescere e soprattutto che le norme non devono produrre discriminazione, per i bambini e le bambine. Questo hanno messo, nero su bianco, i giudici della Corte nella sentenza 9216, sgombrando il campo dai fantasmi che aleggiano sulla battaglia ideologica. Hanno ricordato come una Carta d’Identità non sia un atto di nascita, che il decreto ministeriale impediva di dare “adeguata rappresentazione alla realtà giuridica familiare venutasi a creare”, ossia una coppia omoaffettiva femminile ricorsa regolarmente all’adozione in casi particolari. I giudici hanno sottolineato come questo istituto non ammetta discriminazioni, dunque, la Carta d’identità del minore non può indicare dati difformi, non corrispondenti alle figure genitoriali. Ancora una volta, la forzatura ideologica si è infranta davanti alla realtà, alle leggi e alle ragioni che le sostengono. Speriamo sia letta per intero, questa sentenza e soprattutto sia d’insegnamento. Legge sul fine vita, prove d’intesa a Montecitorio di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 10 aprile 2025 Oggi il dibattito sul libro di d’Avack, con Paglia, Zanettin (FI), Di Biase (Pd) e Greco (Cnf). Si terrà oggi presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati la presentazione del nuovo libro di Lorenzo d’Avack, “Filiazione e fine vita. Riflessioni bioetiche e giuridiche” (Scholé, Editrice Morcelliana), che sarà anche l’occasione per riaprire il dibattito sul tema del fine vita. L’evento organizzato dal Dubbio e moderato dal nostro direttore Davide Varì, sarà introdotto dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, e dal Vicepresidente della Fondazione dell’Avvocatura Italiana, Vittorio Minervini. Seguiranno gli interventi dell’autore del volume, il giurista e bioeticista Lorenzo d’Avack, di Monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, della Deputata Michela Di Biase (Partito Democratico) e del Senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia). Il confronto giunge in un momento cruciale, segnato dalla recente iniziativa della Toscana, prima Regione a dotarsi di una legge sul suicidio assistito. Una scelta che ha riacceso il dibattito e sollecitato una risposta nazionale condivisa. La maggioranza di governo, così come ampi settori del mondo cattolico e laico, riconoscono ormai l’urgenza di una legge chiara, equilibrata e rispettosa della dignità della persona. “Sul tema del fine vita bisogna che il dibattito sia largo - ha spiegato Paglia - e che coinvolga tutti per aiutare il Paese intero ad abbracciare prospettive condivise che non siano laceranti. In questo senso, mi sembra saggia la posizione della Conferenza Episcopale italiana e del cardinale Matteo Zuppi, i quali chiedono che governo e Parlamento lavorino per raggiungere un’intesa la più ampia possibile”. In Italia, il suicidio assistito è stato in parte legalizzato con la storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta “Antonio/ Cappato” sul caso di Dj Fabo, con la quale la Consulta ha stabilito quattro requisiti di accesso alla procedura: che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile; che il paziente sia capace di autodeterminarsi; che il paziente reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; che il paziente sia dipendente da “trattamenti di sostegno vitale”. Un criterio, quest’ultimo, “allargato” dalla stessa Corte con la sentenza 135 dello scorso luglio, con la quale i giudici hanno spiegato cosa bisogna intendere per sostegno vitale. Su questi paletti poggia anche la proposta di legge avanzata dalle forze di maggioranza, di cui sono relatori i senatori Zanettin e Ignazio Zullo (FdI). La bozza di testo presentata lo scorso marzo al comitato ristretto delle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato prevede due articoli: il primo ribadisce che “il diritto alla vita è un diritto inviolabile ed indisponibile, determinato dall’assenza dei valori fondamentali sui quali si fonda la Carta Costituzionale della Repubblica”. Il secondo articolo aggiunge un quinto requisito, prevedendo che il paziente da cui arriva la richiesta sia già inserito in un programma di cure palliative. Un punto critico, per chi intravede profili di incostituzionalità nell’imporre un trattamento sanitario obbligatorio come precondizione. Migranti. Ripartono i trasferimenti nei centri in Albania convertiti in Cpr di Marika Ikonomu Il Domani, 10 aprile 2025 Nuovo Decreto, nuovo trasferimento. Con ogni probabilità la prima nave con a bordo persone trattenute pescate da diversi Centri di permanenza per i rimpatri italiani partirà e arriverà domani, giovedì 10 aprile, in Albania, dopo la modifica di funzione voluta dal governo per salvare l’intesa firmata con Edi Rama. Per mesi i centri costruiti dall’Italia sono rimasti vuoti, in attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea sulla definizione di paese sicuro. Una pronuncia da cui dipende il futuro dell’accordo Roma-Tirana così come pensato inizialmente: centri per i richiedenti asilo, provenienti da paesi considerati sicuri, salvati dalle autorità italiane in acque internazionali, che possono vedersi applicare le procedure accelerate di frontiera. Per questo, lo scorso 28 marzo l’esecutivo ha approvato un decreto che modifica la legge di ratifica dell’intesa, consentendo di trasferire nei centri albanesi persone detenute nei Cpr, destinatarie di un provvedimento di espulsione perché non titolari di un permesso di soggiorno. Opacità - La notizia di un possibile trasferimento circola da giorni, da quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato in un’intervista nuovi spostamenti. Prima alcune agenzie scrivevano che i reclusi sarebbero stati trasportati in aereo, poi si è parlato di nave. Non è dato sapere da quali Cpr siano state prelevate le persone, né quali siano stati i criteri di selezione. Non sono stati specificati nemmeno il numero preciso o l’origine dei trattenuti destinati ai centri albanesi. Una settimana fa otto trattenuti sono stati portati dal Cpr di Trapani a quello di Brindisi, probabilmente per l’imbarco. A questi dovrebbero aggiungersi altre decine di persone, si parla di 40 o 50. “L’impressione è che, per responsabilità del governo, siamo al limite dell’improvvisazione”, dice la deputata del Partito democratico Rachele Scarpa, che ha visitato il centro di Gjader nella giornata di mercoledì con alcuni rappresentanti del Tavolo asilo e immigrazione. Nella struttura “ancora semideserta” ha potuto incontrare solo gli operatori di Medihospes, l’ente gestore che a febbraio aveva licenziato quasi tutti i dipendenti. Non erano presenti forze di polizia e la viceprefetta di Roma dovrebbe arrivare giovedì mattina. “Alla vigilia (presunta) del primo trasferimento nel neo convertito Cpr albanese, nemmeno l’ente gestore ha informazioni precise su quante persone, di che nazionalità, e come verranno trasferite”, racconta Scarpa, sottolineando come non sia ancora chiaro come avverranno i rimpatri: “Dall’Albania o dall’Italia?”, chiede. Di certo, quello che è arrivato con ufficialità è che i trasferimenti saranno solo via nave, con imbarcazioni della Marina Militare o della Guardia costiera. È complicato immaginare l’uso dell’aeroporto, considerando che ogni trattenuto deve essere scortato da due agenti e, senza un accordo con il paese di Edi Rama, le forze di polizia italiane non possono spostarsi liberamente sul territorio albanese. Gli stessi dubbi emergono sui rimpatri nei paesi d’origine delle persone portate nel centro di Gjadër. Elementi che fanno presumere che i trattenuti, per essere rimpatriati, dovrebbero essere portati nuovamente in Italia per poi essere condotti nello stato di provenienza. “L’Italia non può organizzare un viaggio di rimpatrio da un altro paese”, ha precisato il coordinatore del Tavolo asilo e immigrazione, “perché non è previsto dal protocollo né dalla legislazione”. Per ora non c’è alcuna risposta, ma molta confusione. Sembra quasi che non si stia parlando di persone, che vivono - già nei Cpr italiani - condizioni di vita complicate: senza aver commesso reati, sono rinchiusi in strutture che nei fatti sono carceri, nell’incertezza del loro futuro, spesso in situazioni di abuso di psicofarmaci, conoscono storie di autolesionismo e tentativi di suicidio. Ora, si aggiunge un’ulteriore incognita: il trasferimento in Albania. Ore di viaggio via mare e la reclusione in un territorio isolato, senza alcuna rete a sostegno. “Evidentemente il ministero”, dice Scarpa, “non ha ancora definito con precisione le modalità”. “Un’operazione di propaganda”, la definisce, segnata da “troppa confusione e troppa fretta”, “giocata tutta sulla pelle delle persone deportate: l’unica urgenza che c’era qui, evidentemente, era mettere una toppa sullo spreco vergognoso di un miliardo di euro dei contribuenti italiani”. Le associazioni che si occupano di diritto dell’immigrazione hanno sollevato queste criticità durante le audizioni in commissione Affari costituzionali della Camera, dove si sta discutendo della conversione del decreto legge del governo. Action Aid ha chiesto di non procedere alla conversione del provvedimento, perché “dal punto di vista costituzionale, la decretazione d’urgenza non appare giustificata né dalla necessità né dall’urgenza” e, in questo caso, “non si rileva alcuna emergenza tale da giustificare un intervento straordinario in relazione ai Cpr: quelli attualmente operativi in Italia funzionano spesso al di sotto della loro capienza, pari dal 2017 in poi al 52 per cento della capienza”, ha spiegato Francesco Ferri. E, ha aggiunto, c’è il rischio di una violazione del diritto di difesa e della libertà personale. Migranti. Albania, l’arrivo dei migranti slitta dopo due rivolte al Cpr di Brindisi di Flavia Amabile La Stampa, 10 aprile 2025 Oggi era in calendario il quarto sbarco nel Paese. Un intervento che non riguardava più i richiedenti asilo salvati in mare ma stranieri irregolari in Italia. Ma le proteste hanno rinviato l’operazione. Sarebbero state due rivolte nel Cpr di Brindisi a costringere il ministro Matteo Piantedosi a rivedere i suoi piani sull’operazione Cpr in Albania. Che non sarà più oggi come previsto ma, forse, domani. Le rivolte sarebbero scoppiate quando ormai era dato quasi per certo l’arrivo per oggi, 10 aprile, di un primo gruppo di persone trasferite dai Cpr italiani a quello di Gjader. Si trattava di circa 40 stranieri, recuperati dopo un complesso processo di selezione in diversi Cpr italiani. Trasportati nei giorni scorsi a Brindisi, sarebbero dovuti partire con due navi diverse nel pomeriggio di oggi. La notizia era stata annunciata anche alle 19.19 dall’Ansa. Poco dopo sono arrivate le prime indiscrezioni sull’ulteriore rinvio di un trasferimento che negli ultimi giorni è apparso in affanno rispetto ai tempi previsti dal ministero. Era stato il ministro Piantedosi il 31 marzo a prevedere che il trasferimento sarebbe avvenuto entro sette-dieci giorni. Il processo di selezione delle persone è stato però più complesso di quanto il Viminale aveva immaginato. Si trattava di trovare persone in possesso di alcuni requisiti: la priorità veniva data ai soggetti socialmente pericolosi, a coloro per i quali era previsto un provvedimento di rimpatrio entro poche settimane ma al tempo stesso non dovevano avere vulnerabilità che avrebbero potuto annullare il trasferimento. Dopo due settimane di ricerche si pensava di aver trovato le persone giuste ma le due rivolte hanno frenato gli entusiasmi del governo e messo in luce gli aspetti deboli di un meccanismo che anche in questa nuova versione sembra ancora piuttosto inefficace. Il 28 marzo il consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che trasforma la struttura di Gjader in Centro per il rimpatrio di migranti in attesa di espulsione provando a rendere operative le due strutture albanesi inaugurate nell’ottobre scorso con un costo di 653 milioni in 5 anni. Piantedosi ha assicurato che l’operazione si farà senza alcun costo aggiuntivo rispetto agli stanziamenti previsti e che il centro di Gjader è equivalente rispetto ai Cpr presenti in Italia. La situazione in Albania - “La notizia è che una parlamentare dell’opposizione deve recarsi fino a qua per rendersi conto che nemmeno l’ente gestore sa che cosa accadrà nelle prossime 24 ore”, denuncia la deputata del Pd Rachele Scarpa dopo un’ora di colloquio con i responsabili dell’ente gestore del centro di Gjader, la cooperativa Medihospes. A partecipare all’incontro c’erano anche Giorgia Jana Pintus e Amr Adem dell’Arci Nazionale in rappresentanza del Tavolo Asilo e Immigrazione. Le incognite che circondano l’operazione sono molte. Non si sa chi siano le persone trasferite in Albania, quali siano i loro Paesi di origine e, quindi, le lingue parlate. Questo crea un problema nel reperire i mediatori per consentire alle persone di comunicare e di capire dove sono e che cosa sta accadendo. “L’ente gestore ha organizzato la mediazione linguistica basandosi sulle lingue maggiormente parlate nei Cpr italiani, un calcolo statistico che non sappiamo se è adeguato o se lascerà qualcuno privo del diritto di avere una mediazione linguistica”, spiega Rachele Scarpa. “Non sono definiti i protocolli nel caso in cui dovesse esserci un’emergenza sanitaria. In Italia se accade un suicidio o un atto lesionistico c’è un intervento dell’Asl. Qui non è chiaro ancora come si interverrà. È assurdo pensare che Piantedosi possa sostenere che quello di Gjader sia un Cpr equivalente a quelli italiani”, aggiunge la deputata del Pd. Né è chiaro come potrebbero essere trattati eventuali soggetti psicopatici o tossicodipendenti. “Questa condizione di vaghezza lascia molto perplessi”. All’arrivo a Gjader le persone trasferite avranno dei colloqui individuali per spiegare loro dove sono e essere messe al corrente dei propri diritti come, per esempio, quello di poter presentare di nuovo la domanda di asilo o reiterare la richiesta già fatta. Dovrebbero essere sottoposte a una visita per ottenere la certificazione sanitaria e prenderanno conoscenza della Carta dei diritti e doveri del cittadino. Difficile capire che cosa accadrà se non troveranno il mediatore in grado di parlare la loro lingua. Saranno messi a disposizione 5 o 6 telefoni per le chiamate ai parenti. Saranno telefonate effettuate con il piano tariffario internazionale che prevede uno scatto di scatto di 3.90 euro alla risposta e poi 3.90 euro al minuto che per ora sono a carico dell’ente gestore ma che saranno inseriti nel nuovo contratto fra gli extra-costi che saranno invece a carico dei conti pubblici. È di 18 mesi il tempo di trattenimento massimo in questo tipo di centri. Quando ci sarà la possibilità di rimpatriarli - la Tunisia è il Paese con cui l’Italia ha l’accordo più efficace per i rimpatri - dovrà però avvenire con partenza dall’Italia. Gli ospiti di Gjader verranno quindi riportati sul suolo italiano prima di essere espulsi. “Direi, quindi, che appare difficile parlare di invarianza di costi”, commenta Rachele Scarpa. Per Giorgia Jana Pintus c’è una “grandissima fretta di riattivare questi centri anche a scapito del lavoro dell’ente gestore. Permangono, quindi, tanti dubbi sul diritto alla difesa, sull’accesso alla salute e sulle garanzie fondamentali già in crisi nel sistema fallimentare dei Cpr in Italia ma che con la extraterritorialità del sistema Albania appaiono ancora più problematiche”. Migranti. Un’intrusione a casa del sacerdote dell’Ong nell’indagine Paragon di Mario Di Vito Il Manifesto, 10 aprile 2025 Don Mattia Ferrari spiato e vittima di un blitz a dicembre 2023. Mediterranea: “La destra sta cercando di insabbiare tutto”. Al Copasir auditi i rappresentanti della società israeliana: il nodo dei contratti. Un tentativo di intrusione, avvenuto nel dicembre del 2023, nella casa di famiglia di don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della ong Mediterranea, a Formigine, in provincia di Modena. È questo l’elemento nuovo che stanno valutando gli inquirenti di Bologna, dove il sacerdote aveva inoltrato un esposto riguardante lo spyware Graphite installato sul suo smartphone. La vicenda, in un primo momento, era stata affrontata dalla procura di Modena, dove don Ferrari aveva inoltrato una denuncia per delle minacce ricevute in passato, ma venne in breve derubricata a un tentativo di intrusione a scopo di furto sfumata a causa dell’allarme domestico che aveva cominciato a suonare. Adesso però la vicenda viene affrontata sotto una nuova luce: quella decisamente sinistra che arriva dagli sviluppi del caso Paragon. Agli atti, comunque, ci sono le immagini di una telecamera di sorveglianza, che ha immortalato l’individuo che stava cercando di entrare nell’abitazione. Intanto, ieri pomeriggio, davanti al Comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi segreti, a palazzo San Macuto a Roma, sono comparsi i rappresentanti di Paragon Solutions, l’azienda israeliana che produce lo spyware Graphite. Nell’occasione sono stati ripercorsi gli ultimi complicatissimi mesi di rapporti tra Paragon e l’Italia. Inizialmente, la società informatica aveva sospeso le sue relazioni con il governo di Roma il 31 gennaio scorso “per estrema cautela” dopo la diffusione delle prime notizie sul possibile abuso di Graphite sugli smartphone degli attivisti di Mediterranea e del direttore di Fanpage Francesco Cancellato. Meno di una settimana dopo, il 5 febbraio, Paragon avrebbe deciso di rescindere definitivamente i suoi contratti con l’Italia per violazione delle clausole etiche. Il 14 febbraio, però, arriva un’intesa: l’intelligence italiana e Paragon si sono accordate per una sospensione temporanea dell’operatività di Graphite in attesa che il Copasir e l’Agenzia nazionale per la cybersicurezza finiscano i loro accertamenti. In tutto questo è ormai chiaro che i servizi segreti italiani abbiano usato questo spyware per svolgere attività di controllo preventive su Mediterranea. L’installazione del trojan sarebbe stata autorizzata dalla Corte d’appello di Roma nel maggio del 2024. I servizi, però, non possono indagare per conto delle procure, dunque tutte le attività di controllo svolte sull’ong in nessun caso potrebbero diventare elementi utili a un’indagine. Il perché dell’utilizzo di Paragon, dunque, si riduce a una formula tanto semplice quanto in grado di comprendere ogni possibilità: “Motivi di sicurezza nazionale”. Questo hanno detto il direttore dell’Aisi Bruno Valensise, quello dell’Aise Giovanni Caravelli e il sottosegretario Alfredo Mantovano durante le loro audizioni al Copasir delle passate settimane. In questi frangenti, peraltro, è arrivata anche la conferma che l’intelligence ha effettivamente usato Graphite. L’origine di questa operazione va ricercata in una nota su carta intestata del Viminale, arrivata ai servizi il 6 maggio del 2024, che dava conto di un’indagine avviata e poi abbandonata dalla procura distrettuale di Palermo per “associazione a delinquere nel reato di immigrazione clandestina”. Sotto controllo c’era soprattutto David Yambio, portavoce dell’ong Refugees in Lybia, interlocutore stabile di Mediterranea e testimone della Corte penale internazionale contro Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria di Tripoli arrestato a Torino a fine gennaio e lasciato andare via nel giro di 48 ore malgrado su di lui pendesse un mandato d’arresto dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. La vicenda, che da settimane causa un notevole imbarazzo al governo italiano, sarebbe dovuta arrivare davanti alla commissione Libertà civili dell’europarlamento martedì, ma l’audizione del portavoce di Mediterranea Luca Casarini e di don Mattia Ferrari (che avrebbe parlato proprio dei numerosi “monitoraggi” subiti) è stata rinviata per decisione del Ppe e di Ecr, i gruppi di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Il motivo ufficiale riguarda la “selezione degli ospiti esclusivamente italiana”. Ma l’ong attacca: “La destra non vuole che si possa discutere di questa vicenda e avrebbe voluto insabbiarla sin dall’inizio, rifugiandosi prima nel segreto di Stato e poi affidando alla opacità del Copasir, un argomento che meriterebbe invece una riflessione pubblica, viste le implicazioni con la Libia e l’attività criminale delle milizie”. Se ne riparlerà il 23 aprile. Iran. Il regime sta per impiccare Verisheh Moradi. Bisogna salvarla di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 10 aprile 2025 Rischia di essere giustiziata nei prossimi giorni (forse nelle prossime ore) Verisheh Moradi (mentre il suo appello è in attesa di giudizio presso la Corte suprema), una donna, attivista, appartenente alla minoranza curda in Iran. Il suo è stato un processo fortemente macchiato da diverse irregolarità. La sentenza di morte è stata pronunciata nel novembre 2024, con l’accusa “standard” di ribellione armata contro lo stato anche se Verisheh ha sempre negato di aver imbracciato le armi in Iran. Amnesty International ha lanciato un appello per salvare la donna dalle grinfie del boia. Si evince che le autorità iraniane hanno equiparato la sua lotta contro Daesh, l’Isis, a una ribellione contro la Repubblica islamica. Quella della donna è stata da sempre una battaglia contro le barbarie dello Stato Islamico. Nel 2014, nel nord-est della Siria, a Kobane, la città a maggioranza curda, rimase ferita durante un conflitto armato tra Daesh e le forze di autodifesa curde. La stessa Verisheh ha fatto sapere, attraverso una lettera scritta nella famigerata prigione di Evin, a Teheran, come è avvenuto il suo arresto, nell’agosto 2024, quando gli agenti hanno sparato contro l’auto in cui si trovava, rompendo i finestrini e aggredendola fisicamente. Una volta portata in prigione è iniziato il calvario della detenzione. Le denunce, mai prese in considerazione dalle autorita carcerarie, parlano di maltrattamenti e tortura. Inoltre a causa delle durissime condizioni di vita, Verisheh ha contratto importanti problemi di salute. Nel settembre dello scorso anno, è stato aperto un secondo caso riguardo le proteste condotte, con altre detenuti. i, contro l’uso della pena di morte che ha subito una drastica accelerazione come arma per combattere e distruggere il movimento “Donna Vita Libertà”. Così alla fine dello scorso ottobre, è stata condannata a sei mesi di carcere per disobbedienza a funzionari governativi. Ma tutte le iniziative, portate avanti da Verisheh Moradi sono state pacifiche. A causa del peggioramento della sua salute, in particolare problemi intestinali ed emorragie interne, la sua famiglia si è mobilitata per garantirle l’assistenza medica fuori dal carcere ma il trasferimento è stato bloccato. Le autorità le avevano anche negato l’accesso all’adeguata assistenza sanitaria di cui ha bisogno per il dolore al collo e alla schiena, inclusa la fisioterapia. Verisheh Moradi è stata trasferita dal reparto femminile della prigione di Evin alla sezione 209 per nuovi interrogatori durati fino al giorno successivo. Con un aggravio di ferocia le sono state negate anche le visite della sua famiglia come rappresaglia per il suo attivismo. In questo stato di isolamento prolungato nel penitenziario, sotto il controllo del ministero dell’Intelligence, che Verisheh Moradi e riuscita a scrivere la lettera aperta in cui ha raccontato di soffrire di mal di testa, sanguinamenti dal naso e forti dolori al collo e alla schiena. La pena capitale è diventata una macchina di morte per incutere paura tra la popolazione. A farne le spese proprio le minoranze etniche. Lo dimostra la messa a morte dei dissidenti curdi Pejman Fatehi, Vafa Azarbar, Mohammad (Hazhir) Faramarzi e Mohsen Mazloum, condannati dopo un processo gravemente iniquo alla fine del 2023. Molto colpite sono le donne detenute con accuse di natura politica. Basta citare il caso dell’operatrice umanitaria, Pakhshan Azizi, anch’essa curda dell’Iran, giudicata per ribellione armata contro lo Stato in relazione alle sue pacifiche attività umanitarie e per i diritti umani nel nord- est della Siria. I numeri delle persone giustiziate stanno assumendo dimensioni impressionanti. Nel 2024 le autorità iraniane hanno eseguito almeno 972 esecuzioni, quasi 100 in più rispetto all’anno precedente.