L’urgenza di nuove carceri e la pratica di istituti che tendono alla riparazione ed alla riconciliazione di Gloria Saccani Jotti* Corriere della Sera, 4 settembre 2024 Secondo la Costituzione vanno incoraggiati e sempre più praticati quegli istituti che tendono alla riparazione, per agevolare al condannato il non facile inserimento nella società. L’alternativa è semplice: pensiamo che la Costituzione debba essere osservata e attuata anche nelle sue ultime implicazioni o riteniamo invece che essa sia soltanto una raccolta ed una esposizione di ottimi propositi e di buone intenzioni che lasciano peraltro il tempo che trovano? La risposta è - o dovrebbe essere - assolutamente ovvia e, se è così, tutte le volte in cui ci si imbatte con il “problema penale” il pensiero dovrebbe correre immediatamente alla Costituzione che a tale problema dedica disposizioni assai significative e dalle quali non si può prescindere qualunque sia il profilo del problema oggetto di attenzione. Ora, è fin troppo evidente che una visita alle carceri italiane evoca immediatamente il tema della pena e pone interrogativi che proprio nella Costituzione trovano - o dovrebbero trovare - chiare risposte. Apprendiamo così dalla Costituzione innanzitutto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Anche se il soggetto detenuto ha violato la legge, egli continua ad essere un uomo e non può essergli sottratta quella dignità che deve essere sempre riconosciuta ad un essere umano proprio soltanto perché egli è un uomo. È appena il caso di osservare che trattamenti contrari al senso di umanità non sono ovviamente soltanto quei trattamenti consistenti nella inflizione di sanzioni fisiche e che sono contrari invece al senso di umanità tutti quei trattamenti che comportino la negazione della qualità umana di cui è portatore qualsiasi soggetto, qualunque sia il reato che egli ha commesso. Se teniamo presente questo ovvio principio non possiamo certamente dire che l’attuale sistema sanzionatorio, fondato sulla detenzione quale sanzione tipica, rispetti il dettato costituzionale. A prescindere dal rilievo di molte altre criticità basterebbe pensare al più volte denunciato sovraffollamento delle carceri per dover concludere desolatamente che siamo ben lontani da trattamenti rispettosi del senso di umanità: celle che contengono numerosi detenuti costretti a vivere a contatto di gomito; serie di letti a castello; servizi igienici ridotti ed incapaci di garantire un minimo di riservatezza sono situazioni assai diffuse e che rendono indubbiamente disumana la espiazione della pena. Il problema non può essere risolto attraverso indulti, riduzioni di pena e quant’altro. Soluzioni del genere possono avere una “giustificazione” eccezionale, ma non risolvono ovviamente il problema che tornerebbe a riproporsi immediatamente. Il problema va affrontato radicalmente pensando alla realizzazione di carceri efficienti. Piange il cuore all’idea di dover spendere il denaro per la costruzione di carceri anziché di scuole o di ospedali, ma il problema c’è e deve essere affrontato con criteri di priorità. La Costituzione ci rammenta anche che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ovviamente le criticità sopra descritte rendono difficile realizzare tale proposito e quindi anche sotto questo profilo il problema della sanzione penale e della sua esecuzione si ripropone con estrema urgenza. Sotto questo secondo profilo, comunque, vanno incoraggiati e sempre più praticati quegli istituti che tendono alla riparazione ed alla riconciliazione: patteggiamenti, concordati, ammissione alla prova, sono strumenti che potrebbero soddisfare l’esigenza di agevolare al condannato il non facile inserimento nella società dopo l’espiazione della pena. Si tratta come ognuno vede di fissare delle priorità e di avere il coraggio di operare scelte conformi alle indicazioni provenienti dalla nostra Costituzione. *Deputata di Forza Italia Carcere, il modello sbagliato di Stefano Allievi Corriere dell’Alto Adige, 4 settembre 2024 Quando scoppiano le carceri, a causa del sovraffollamento e delle condizioni di vita dei detenuti, la risposta che viene data in automatico è la seguente: più carceri, più agenti. Ma se il problema fosse nel fatto che la risposta è sbagliata perché la domanda è mal posta? Anche perché non si tratta di un evento eccezionale, come viene raccontato: succede tutte le estati, occasionalmente anche in altri periodi dell’anno, mentre i suicidi e gli atti di autolesionismo sono una costante, sia tra i detenuti che tra le guardie (che hanno il più alto tasso di suicidi e di burn-out tra tutte le forze di polizia). Il che dovrebbe farci riflettere sulla bontà del modello, che invece viene reiterato senza riflessione alcuna dalla politica: il rimedio a ogni problema sociale è sempre l’inasprimento delle pene e l’invenzione di nuovi reati, più galera (“buttando via la chiave”, come amano dire molti), più repressione. E se questo producesse il male anziché diminuirlo? O si limitasse a nasconderlo inutilmente sotto il tappeto? A cosa servono davvero le prigioni? In origine erano case di lavoro, di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). In teoria dovrebbero essere dei luoghi dove riflettere sui propri errori: dove scontare una pena, cioè un dolore, ma anche avere occasione di fare penitenza (da cui penitenziario). Troppe ombre sul Garante delle carceri. Serve subito una figura affidabile di Mauro Palma La Stampa, 4 settembre 2024 È degli ultimi giorni una nuova situazione di forte tensione all’Istituto penale minorile di Milano. La tensione è stata connessa a un tentativo di fuga collettiva, dietro incidenti appositamente provocati, che hanno ancora una volta danneggiato suppellettili e speranze di un contesto un po’ rasserenato, dopo altre analoghe situazioni recenti. Di nuovo le rituali richieste di maggiore severità, di minore considerazione dell’età delle persone coinvolte; ime, senza una riflessione su come in breve tempo il sistema penale minorile sia mutato da esperienza d’avanguardia a luogo vissuto e descritto come premessa di maggiore illegalità futura. Dietro questo allarmante quadro, anche la difficile situazione degli operatori che, spesso in numero ridotto, devono istituzionalmente assicurare regolarità e ordine all’interno della struttura. Ma il tema dei minori si aggiunge, nella cronaca odierna, a un quadro complessivo allarmante su cui a più riprese si alzano grida, sull’insostenibilità, sull’inadeguatezza, sulle condizioni inaccettabili. Giuste, ma poiché è urgente passare da quanto gridato a quale siano le ipotesi d’intervento, l’analisi non è più sufficiente. C’è bisogno di decifrare, di guardare con occhi più attenti. Qui emerge il tema delle visite e soprattutto del ruolo del Garante nazionale che ha come primo verbo per il suo agire proprio visitare. Verbo che va letto nel quadro del significato a esso attribuito, in una logica preventiva, dagli organismi internazionali. Perché le visite di un organismo di garanzia devono essere necessariamente diverse per maggiore distesa accuratezza e minore impressionismo, da quelle pur valide che il nostro sistema detentivo democraticamente autorizza a varie associazioni volontarie o professionali e dalle stesse visite dei parlamentari. Per questa sua essenziale funzione, il Garante nazionale deve essere connotato da assoluta e percepita indipendenza, avendo molti poteri nell’organizzare e svolgere tali visite in modo intrusivo e accurato, formulando poi raccomandazioni, sui cui effetti dovrà poi vigilare. Ora il Garante nazionale si trova in una situazione di evidente criticità, essendo deceduto improvvisamente il suo Presidente e dovendosi così aprire nuovamente la delicata procedura per una nuova designazione. Ma critica è anche la percezione della sua indipendenza, da quando è stata pubblicata sui quotidiani la notizia, finora ignota, della detenzione del fratello del defunto presidente nel carcere di Catanzaro, per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. E risulta una recente visita del presidente, con il suo ruolo e non come familiare, proprio nel carcere dove era ristretto suo fratello. Molti giornali si sono soffermati sulla mancata autorizzazione alla partecipazione al funerale del fratello: fatto molto grave e ingiustificabile. Altri, sull’imbarazzo che avrebbe determinato la sua presenza: tema politico di scarso interesse. Il vero tema è proprio l’indipendenza. Mi chiedo se il ministro e gli altri componenti del Collegio fossero a conoscenza di questa sua difficile posizione e se ci fosse stata un’indicazione di astensione, almeno per alcune visite. Sulla notizia è calato il silenzio: di molti, troppi. Con la riapertura dei lavori delle Camere è auspicabile che i parlamentari, chiamati a ragionare sulla proposta di un nuovo presidente, vorranno avere elementi di chiarimento. Perché le istituzioni di garanzia sono essenziali proprio per la loro percepita indipendenza, oltre che, ovviamente, per la capacità di agire. Solo in questo modo hanno la possibilità di essere strumento critico, ma anche cooperativo, accanto a chi è ristretto e anche, fondamentalmente, accanto a chi ogni giorno gestisce le difficoltà. Quale quella di due notti fa a Milano. Affettività, i detenuti di Rebibbia chiedono il rispetto della sentenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 settembre 2024 I detenuti di Rebibbia chiedono a gran voce che sia attuata la sentenza della Consulta, quella che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 18 della legge sull’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che i detenuti possano avere colloqui senza il controllo a vista del personale di custodia con il coniuge, il partner dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. Dopo il reclamo, rimasto nel limbo, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone, hanno scritto alla direttrice del carcere di Rebibbia, Maria Donata Iannantuono, per raccomandare l’immediata individuazione di spazi idonei all’effettuazione di colloqui intimi tra i detenuti e i propri partner, così come stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale. Ricordiamo che si tratta della sentenza numero 10 del 2024 della Consulta, investita da Fabio Gianfilippi, magistrato di Sorveglianza di Spoleto, della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge 26 luglio 1975, numero 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia” : ciò in riferimento agli articoli 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione. L’accoglimento della questione da parte della Corte costituzionale costituisce una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione stessa della pena detentiva, vista non più come una necessaria e totale privazione dei diritti del condannato, ridotto a essere una non- persona per quanto riguarda la dimensione affettiva della sua stessa esistenza. Va evidenziato che la Consulta ha significativamente considerato non solo la sfera sessuale, ma l’intera sfera affettiva delle persone condannate e delle persone che con esse hanno rapporti anche di semplice convivenza. Osserva infatti la sentenza che la compressione - sino all’annullamento - del diritto all’affettività dei detenuti si riverbera necessariamente sui loro partner, costretti a subire, anche per periodi lunghi di tempo, una restrizione senza avere colpa alcuna. Ma finora, nessun carcere si è adeguato. Per la prima volta i detenuti si fanno sentire affinché sia rispettato il principio di legalità costituzionale. Numerosi detenuti del carcere di Rebibbia hanno avanzato richieste alla direzione dell’istituto penitenziario per poter effettuare incontri privati con le proprie mogli o conviventi. In risposta a queste istanze, la direzione aveva comunicato, mediante un avviso del 6 giugno, che la questione era stata sottoposta all’attenzione dell’ufficio dipartimentale superiore, il quale aveva a sua volta istituito un gruppo di studio per valutare e organizzare la situazione. Trascorso più di un mese e mezzo da tale comunicazione, un gruppo di 55 detenuti ha deciso di intraprendere un’azione più incisiva. Il 31 luglio hanno inoltrato un reclamo formale, datato 22 luglio, ai sensi dell’articolo 35 dell’Ordinamento penitenziario. Questo reclamo è stato indirizzato a diverse figure chiave del sistema penitenziario e di sorveglianza: Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Maria Donata Iannantuono, direttrice dell’istituto romano; Marina Finiti, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma; e i Garanti Anastasìa e Calderone. Nel loro reclamo, i detenuti hanno denunciato la mancata attuazione della sentenza 10/ 2024 della Corte Costituzionale, chiedendo informazioni precise e date di implementazione di quanto stabilito dalla Corte. La risposta dei Garanti Anastasìa e Calderone non si è fatta attendere. Hanno inviato una comunicazione ai reclamanti, alla direttrice dell’istituto e, per conoscenza, al capo del Dap e alla presidente del Tribunale di sorveglianza. I Garanti hanno sottolineato l’importanza e l’immediatezza dell’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale. Hanno evidenziato che la decisione della Corte ha efficacia erga omnes, stabilendo un diritto soggettivo per ogni detenuto a svolgere colloqui riservati con il proprio partner, senza il controllo visivo degli agenti penitenziari. I Garanti hanno inoltre sottolineato che l’attuazione di questa sentenza non può essere rimandata e che l’Amministrazione penitenziaria ha l’obbligo di garantirne l’applicazione. Di conseguenza, hanno rivolto delle raccomandazioni specifiche alla direzione della Casa di reclusione di Roma- Rebibbia. Queste includono l’immediata identificazione di spazi adeguati per i colloqui senza controllo visivo e, in assenza di direttive ministeriali, la definizione di un ordine di servizio interno per regolamentare l’accesso a questa nuova modalità di colloquio. Questo fatto evidenzia la mancata attuazione di nuove norme nel sistema penitenziario previste dalla Corte costituzionale. Da ricordare che, a seguito dell’ordine del giorno promosso dal deputato Riccardo Magi di + Europa, il governo Meloni si è impegnato a garantire ai detenuti e agli internati il diritto a una vita affettiva. Europa Radicale: “La Rai dedichi almeno una serata al dramma delle carceri italiane” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 settembre 2024 Salis: “chiudere il Beccaria e abolire tutti gli Ipm” Gratteri: “Indulti e amnistie, argomenti pericolosi”. “6 1.758 detenuti nelle carceri italiane il 31 agosto: 625 più del 31 luglio. Quando si dice degli incisivi effetti del decreto che qualcuno ha chiamato “svuota carceri”! Non ce n’erano così tanti dal gennaio 2014, all’indomani della condanna della Corte europea per i diritti umani. Con gli stessi numeri nel luglio del 2006 fu approvato l’ultimo provvedimento di indulto, che scarcerò più di 20mila detenuti con ottimi risultati in termini di recidiva (dimezzata rispetto a quella ordinaria). Meditate, gente, meditate”: così ieri il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasia. Mentre in carcere si continua a morire: proprio due giorni fa il 68esimo suicidio nell’istituto penitenziario di Benevento. “Un dramma, una strage di Stato che si consuma nell’indifferenza della politica e della società civile”, ha detto il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. È anche per questo che Europaradicale ha inviato una lettera ai vertici della Rai per chiedere “di dedicare almeno una serata nel momento di massimo ascolto alla drammatica situazione nelle quali versano le carceri italiane. Un confronto pubblico, aperto, con le voci dei detenuti, degli agenti di polizia penitenziaria, degli educatori, del personale sanitario, di coloro che in carcere vivono o sopravvivono, tra chi ha opinioni diverse sul sistema carcerario, è quanto mai necessario per consentire ai cittadini italiani di poter toccare con mano una realtà che nella maggior parte dei casi è completamente sconosciuta”. Hanno già firmato, tra gli altri, l’appello l’ex senatore Luigi Manconi, la responsabile giustizia del Partito Democratico Debora Serracchiani, il deputato di Italia Viva Enrico Borghi, l’ex parlamentare Piero Fassino, Marco Bentivogli (Base Italia). Domani alle 11 gli attivisti di saranno davanti alla Rai per un presidio e portare delle lettere ai dirigenti con la richiesta. Nel frattempo l’eurodeputata di Avs, Ilaria Salis, ieri ha chiesto di “chiudere il Beccaria, abolire tutti i Carceri per minori”. Al contrario il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ha sostenuto: “Non penso che questo governo possa permettersi, sul piano del consenso popolare ed elettorale, di pensare a un indulto. Sento parlare anche a livello parlamentare di indulti e amnistie, ma sono argomenti pericolosi. Uno dei motivi delle rivolte nelle carceri è che quasi quotidianamente c’è questo annunciare, parlare di cose che poi non si realizzeranno”. Intanto, mentre non si placano le proteste negli istituti penitenziari di tutta la Penisola, un fascicolo contro ignoti per il reato di omicidio è stato aperto dalla procura di Frosinone sul caso del detenuto di 34 anni che a maggio scorso era stato trovato morto in cella nel carcere del capoluogo laziale. Il magistrato ha disposto accertamenti irripetibili per fare piena luce sulla morte di Manuel Pignatelli, ritenuta altamente sospetta. Una denuncia era stata presentata dalla madre del giovane che, tutelata dall’avvocato Emanuele Carbone, non si è rassegnata a una morte inspiegabile. Gratteri: parlare di indulto è alla base delle rivolte nelle carceri di Dario Del Porto La Repubblica, 4 settembre 2024 “Andrebbe rivista l’esecuzione penale, ma non è un argomento tanto di moda, sento parlare di indulti e amnistie. Uno dei motivi delle rivolte nelle carceri è proprio questo annunciare cose che non si realizzeranno”, accusa il procuratore Nicola Gratteri durante la conferenza stampa sugli arresti nei confronti di 40 indagati in un’operazione anticamorra nel Casertano. “Non penso che questo governo possa pensare a un indulto sul piano del consenso popolare ed elettorale, piuttosto andrebbero accelerate le realizzazioni di comunità di recupero per i detenuti tossicodipendenti e realizzando nuove Rems nei beni confiscati. Questo in attesa che ci si decida a costruire nuove carceri. Ci vogliono sette anni? Ma se non si comincia mai...”, dice Gratteri che poi rileva: “Mediamente nelle carceri di sono 100 telefonini, con detenuti che hanno la spudoratezza di inviare video di feste. Cinque-sei anni fa avevo proposto di mettere i jammer nelle carceri di alta sicurezza, mi hanno risposto che sono pericolosi e che la polizia penitenziaria deve poter comunicare con i cellulari”. “Forza Italia timida sul carcere? Sulle misure cautelari il voltafaccia è del Pd” di Errico Novi Il Dubbio, 4 settembre 2024 Il deputato azzurro Pietro Pittalis replica a Serracchiani: “È il garantismo dem a essere altalenante: svanisce davanti a quei 17mila reclusi in attesa di giudizio”. “Il garantismo non è intermittente. Non può esserlo. Il Pd ci contesta di non essere andati oltre, nelle misure sul carcere? Intanto con il decreto convertito a inizio agosto abbiamo prodotto, come maggioranza, un intervento organico, in materia penitenziaria, di cui non si vedeva l’ombra da anni. Ma poi, se vogliamo parlare di carcere, di sovraffollamento e di patenti garantiste, ecco, vorrei dire al Pd: com’è possibile che vi riteniate dalla parte delle garanzie se non vi arrischiate neppure a prendere posizione su modifiche che riducano la carcerazione preventiva attraverso il rafforzamento della presunzione d’innocenza? Se siete davvero garantisti, perché, se noi diciamo di voler intervenire sul presupposto, oggi discrezionalissimo, della reiterazione del reato come parametro per infliggere misure cautelari in carcere, dove ci sono qualcosa come 17mila detenuti in attesa di giudizio, voi siete già contrari in partenza? Non è il vostro, un garantismo a corrente alternata?”. Pietro Pittalis, avvocato, deputato di Forza Italia, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio, parla tutto d’un fiato. Con voce pacata ma tono deciso. La sua non è solo una replica alla responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, che in un’intervista al Dubbio ha contestato agli azzurri un’incoerenza fra i propositi sul carcere e il successivo adeguamento alla linea della maggioranza. “Mi rivolgo al Pd in generale”, dice Pittalis, “e contesto davvero che si possa essere garantisti e nello stesso tempo ritenere che un presunto innocente possa finire in cella, ed esservi tenuto a lungo, perché magari, se si tratta di un politico, l’eventuale rielezione determinerebbe in sé un pericolo di reiterazione del reato”. Si riferisce al caso Toti? È una vicenda esemplare. Si è detto che Toti doveva restare in carcere, finché fosse rimasto in carica, in virtù dell’assunto secondo cui le funzioni stesse di governatore gli avrebbero potuto consentire di delinquere ancora. Come se gli illeciti contestati fossero già stati accertati in via definitiva e non ci trovassimo solo nella fase preliminare del procedimento. Di per sé la reiterazione è un presupposto che contrasta con la presunzione d’innocenza: prefigura la reiterazione di un reato che è solo in ipotesi. Forzatura ancor più opinabile se relativa a un incensurato... È esattamente la logica entro cui intendiamo muoverci. Rispetto a chi non ha precedenti, la misura cautelare detentiva basata sul rischio di reiterazione è ancora più discutibile. È chiaro che l’istituto, per com’è oggi, lascia al magistrato un margine di discrezionalità davvero eccessivo. Il presupposto va modificato in modo che il giudice lo debba ancorare a elementi concreti. E in tal modo si inciderebbe anche sul sovraffollamento delle carceri. Naturalmente, per i reati più gravi come la mafia, o rispetto alle organizzazioni criminali, ci sono esigenze diverse. Bene. Ma come reggerete la contraerea di Pd e M5S, che vi accuseranno di voler limitare la carcerazione preventiva per gli incensurati in modo da tutelare i colletti bianchi? Abbiamo spalle forti. Nel senso che ci muoviamo sostenuti da un patto stipulato con gli elettori, da un programma che, in materia di giustizia, si basa su principi chiarissimi: i principi, come la presunzione d’innocenza, sanciti dalla Costituzione. Abbiamo già onorato diversi di quegli impegni: dall’abolizione dell’abuso d’ufficio a una delimitazione più chiara del traffico d’influenze, dall’informazione di garanzia che non è più una condanna anticipata alle intercettazioni. E abbiamo introdotto il cosiddetto gip collegiale, che sarà in vigore dal 2026 ma che già conferma l’idea di carcere come extrema ratio, in linea col garantismo che proviene dalla grande lezione di Silvio Berlusconi. Ma Serracchiani vi contesta di aver assunto, sul carcere, posizioni sulle quali poi non avete insistito con gli alleati, al momento di definire il decreto... Partiamo dal decreto. È un provvedimento che affronta per la prima volta dopo anni in modo organico la drammatica situazione delle carceri. Secondo due direttrici: creare le condizioni perché la pena sia espiata in un contesto dignitoso e assicurare l’effettiva rieducazione del condannato. Semplifichiamo le procedure per l’accesso alla liberazione anticipata, che non può gravare solo sul pur straordinario lavoro dei giudici di Sorveglianza. Ampliamo le occasioni di telefonate e colloqui coi familiari. Introduciamo il trasferimento in comunità non solo per i detenuti con tossicodipendenza ma anche per gli stranieri privi di domicilio. Assicuriamo mille unità in più alla polizia penitenziaria. Eliminiamo le lungaggini procedurali in materia di edilizia, sia per i nuovi istituti che per la ristrutturazione dell’esistente. Ma voi stessi vi accingete a proporre, come FI, nuove misure agli alleati e ad andare oltre il decreto. O no? Noi di Forza Italia siamo portatori di una particolare sensibilità: il nostro segretario Tajani ha voluto l’iniziativa “Estate in carcere”, da cui abbiamo ricavato una mappatura delle questioni da risolvere, e in base a quel lavoro intendiamo valutare, con gli alleati, quali ulteriori interventi siano necessari per superare il problema del sovraffollamento. Dopodiché, ripeto: vorrei capire perché chi si dice favorevole alla legge Giachetti, come il Pd, poi è indifferente all’ipotesi di tutelare i 17mila detenuti in attesa di giudizio e contrastare, anche così, il sovraffollamento. Quali ulteriori misure potreste proporre? C’è innanzitutto l’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria. È tra i punti della relazione che sarà elaborata con la supervisione del viceministro Sisto e che conterrà le proposte. Noi riteniamo che per i residui di pena fino a un anno e mezzo si debba ricorrere a misure alternative, per superare il sovraffollamento e anticipare il reinserimento sociale. E c’è l’altro fronte: la separazione delle carriere... È un provvedimento che deriva dall’articolo 111 della Costituzione: tutti i magistrati sono autonomi e indipendenti, ma solo il giudice è terzo e imparziale, e perciò tra il giudice e il pm deve esserci la stessa distanza stabilita fra il giudice e l’avvocato. Nei due Csm, anche grazie al sorteggio, si porrà fine al correntismo, e la rivoluzione sarà completata dall’Alta Corte di disciplina, che nasce da un’idea di Violante. Sarà una nuova stagione di conflitto con le toghe? No. Ma non resteremo indifferenti all’uso delle misure cautelari come strumento per entrare a gamba tesa nel gioco democratico. Creare il “mostro” serve alla propaganda politica: il caso dell’omicidio di Sharon Verzeni di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 4 settembre 2024 Su molti giornali e social quando si parla di qualcuno non esistono individui singoli, ma gruppi sociologici: africani, affetti da malattie, rapper. Questo è avvenuto anche per Moussa Sangare. Non può stupire che questo modo di comunicare dia l’assist a chi per mestiere fomenta e rinfocola il razzismo mai sopito di molti. Le reazioni più becere all’identificazione di un cittadino italiano di origini africane come presunto assassino di Sharon Verzeni sono, per l’appunto, reazioni. (Dico “presunto”, nonostante la confessione, perché forse dovremmo tutti aspettare il verdetto, anche per possibili rei confessi). Si tratta di reazioni a una precisa condotta comunicativa: la profilazione rozzamente sociologica dei sospetti. Su molti giornali, su molti social, per molte persone quando si parla di qualcuno - specialmente se questo qualcuno è un potenziale sospettato di azioni criminali - non esistono individui singoli. Esistono membri di gruppi sociologici: africani (cioè immigrati, sottinteso: irregolari; sottinteso: invasori), disoccupati (cioè pigri; sottinteso: mangiapane a ufo), affetti da malattie, meglio se mentali (cioè pazzi furiosi; sottinteso: pericolosi devianti, irrecuperabili e totalmente alieni e diversi da noi lettori), rapper (cioè giovani scapestrati che credono di saper cantare e invece dicono solo parolacce; sottinteso: modelli negativi per i nostri figli). Diciamo che la cronaca nera, certe volte, somiglia alle barzellette che andavano di moda una volta: c’era un italiano, un francese, e così via; e l’italiano era sempre più furbo, più bravo, vittorioso. Questo è avvenuto anche per Moussa Sangare. Le ragioni di questo modo di comunicare i fatti non sono difficili da capire. La mente umana vuole storie, con particolari vividi. Già ci sono pochi lettori e lettrici di giornali. Una comunicazione algida e cauta non attira né click né acquirenti di copie cartacee. Inoltre, l’inspiegabilità del libero arbitrio ci turba. Se la morte di Verzeni è frutto di un atto immotivato fa ancora più male. Se possiamo dire, invece, che deriva dalle tendenze omicide - conosciute e spiegabili - di un certo gruppo sociologico, allora almeno abbiamo una spiegazione. Non è molto diverso da quando si attribuiscono disgrazie inspiegabili al malocchio. Non è molto diverso da certa geopolitica d’accatto che vuole spiegare complesse dinamiche internazionali e politiche con la psicologia dei popoli. E non può certo stupire che questo modo di comunicare dia l’assist a chi per mestiere fomenta e rinfocola il razzismo mai sopito di molti, e dopo molti femminicidi compiuti da maschi italiani di buona famiglia non vedeva l’ora che arrivasse l’aguzzino extraterritoriale. Sangare è consolatorio quanto Turetta era perturbante. Il sociologismo digiuno di sociologia - i dati veri non attestano quel che si vuole fare intendere - lo stereotipo travestito da scienza sociale è un classico del populismo e della demagogia spicciola. La cosa più sorprendente è però quando alla malafede e alle esigenze di bassa bottega si unisce il paralogismo. L’idea che le azioni criminali siano statisticamente più diffuse in certi gruppi sociali, o che derivino da condizioni come la mancata integrazione in un paese in cui non si è nati o non si vive da più generazioni è fattualmente sbagliata, come ho detto. Ma di solito la si usa come premessa per una visione sociologica della criminalità: i criminali compiono certe azioni per cause sociali, per ragioni che vanno oltre la loro decisione individuale e libera. È sempre un raptus, insomma: non esistono cattivi veri, è tutta colpa della società. Tanto che si tratti del maschio che vuole lavare l’onta del suo onore ferito quanto del marginale che vuole sfogare il suo rancore contro un membro di gruppi socialmente superiori. E i raptus sono condizioni che scusano il delitto. Li si usa, generalmente, come attenuanti. Quindi Matteo Salvini, quando invoca una pena esemplare, aggiunge alla malafede e al razzismo, e all’ignoranza di tutti i principi di civiltà giuridica, l’errore logico. Se il delitto è stato causato da mancata integrazione, o dalle usanze barbariche di certi popoli, o da qualsiasi altra causa che si possa attribuire non alla volontà individuale del presunto autore, ma alle caratteristiche dei vari gruppi a cui appartiene, allora punire l’individuo non ha molto senso. Bisognerebbe agire sulle cause sociali, semmai. Quindi, nessuna pena esemplare, ma semmai politiche. E le politiche, ovviamente, possono essere di senso opposto: si può pensare di aiutare l’integrazione, oppure di bloccare lo ius scholae per allontanare presunti assassini dalle nostre terre. Si può pensare di iniziare a occuparsi del disagio psichico e delle sue cause sociali, oppure si può prenderlo per abiezione di gruppi marginali. Bisognerebbe avere il coraggio di far politica, insomma. Separiamo le carriere della magistratura: più sicurezza alle garanzie di Luigi Trisolino L’Opinione, 4 settembre 2024 “Populismo carcerario”, “spirito di conservazione e autoreferenzialità”: sono queste le critiche che il viceministro della giustizia Francesco Sisto ha dovuto sollevare verso alcuni atteggiamenti del corpo magistratuale sindacalizzato, al termine di un lungo e articolato confronto con il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Santalucia, nella nota kermesse “La Piazza” a Ceglie Messapica. Nulla di personale, anzi, si parlava di atteggiamenti di corpo istituzionale in generale. Il 31 agosto durante l’ultima delle tre serate di riflessioni, maieutiche e dibattiti in piazza, organizzati dalla testata affaritaliani.it sotto la direzione e conduzione del direttore Angelo Maria Perrino (di stile giornalistico sapientemente british), in uno dei panel si è parlato di separazione delle carriere della magistratura ordinaria e di riforma delle misure cautelari personali di tipo detentivo. A confrontarsi su questi temi caldi sono stati appunto il viceministro della giustizia, il presidente di Anm e il sostituto procuratore della Repubblica Annalisa Imparato. Il viceministro auspicava, secondo il programma di governo voluto dagli italiani, la separazione delle carriere per garantire una effettiva terzietà istituzionale del giudice rispetto all’organo del pubblico ministero, il quale ultimo non decide sulle assoluzioni o sulle condanne ma si occupa solo degli aspetti inquirenti-requirenti. Sisto ha inoltre auspicato la disponibilità a discutere insieme e in buona fede i papabili punti di una riforma sulle esigenze cautelari, per poter addivenire in futuro a misure cautelari detentive (carcerarie o domiciliari) adeguate, in modo costituzionale e mai giustizialista. Santalucia ha replicato con un irremovibile “no” sulla separazione delle carriere, temendo che due Csm (uno dei giudici e uno dei Pm.) al posto di uno solo possano complicare di più la gestione della magistratura; egli ha sostenuto che la terzietà del giudice è già ben realizzata nella situazione attuale dell’ordinamento. Del presidente di Anm si è pure notato un certo fastidio nel parlare di riforma delle misure cautelari personali detentive. Egli ha sostenuto che gli interlocutori politici da un lato s’infastidiscono quando tali misure cautelari detentive non vengono applicate ai migranti (come è successo di recente), mentre dall’altro lato si infastidiscono quando esse vengono applicate ad altre categorie di soggetti. In quelle altre categorie, malgrado non sia stato espressamente detto, si capisce bene che rientrano i politici e gli imprenditori, e non solo. Tra il pubblico della kermesse cegliese, e più in generale tra gli ascoltatori, i più avranno pensato anche al caso del dimissionario presidente della regione Liguria Giovanni Toti, ritornato libero dopo un periodo di limitazione della sua libertà personale nei lunghi giorni d’applicazione di una misura cautelare ai domiciliari. Il viceministro non si è lasciato intimorire dall’accusa di doppiopesismo nella critica di una magistratura che applica la misura cautelare personale ai politici ma non ai migranti, e ha controdedotto sostenendo che questo stato di cose è il frutto di una normativa già vigente, mentre lui stava chiedendo proprio la disponibilità a parlare insieme di una nuova e diversa normativa sulle misure cautelari. A tal proposito si è quindi meravigliato dell’accusa di doppiopesismo ricevuta dal suo autorevole interlocutore, e ha rilevato come non si aspettasse questo “populismo carcerario”. Il sostituto procuratore Annalisa Imparato, invece, non è entrata nel merito della separazione delle carriere, né degli argomenti di specifico dibattito tra Sisto e Santalucia, ma ha egregiamente nonché coraggiosamente lanciato spunti critici verso l’atteggiamento di chiusura che spesso alcune aree del corpo magistratuale assumono, ergendosi sul piedistallo o pensando di avere a prescindere ragione nel volersi conservare, ovvero nel pretendersi esenti dal diritto di critica legittimamente esercitabile da giornalisti e cittadini. Veniamo a noi, appunto, giornalisti e cittadini. Nel perseguire l’interesse generale di tutti gli individui ad avere una giustizia istituzionalmente giusta, non possiamo ritardare e nemmeno ostacolare la separazione delle carriere della magistratura ordinaria. Dobbiamo promuovere la cultura delle garanzie con la separazione delle carriere. Subito. Sono maturi i tempi affinché i giudici e i Pm siano istituzionalmente riferibili a organi diversi, che ne garantiscano autonomia e indipendenza in modo utile alla sana vita liberaldemocratica dello Stato di diritto garantista. Occorre che gli spazi legali ed istituzionali dove promuovere le carriere dei giudici e dei Pm siano distinti e differenti, divisi; non è più possibile una (magari) inconscia ed irriflessa, biunivoca influenzabilità di funzioni, tra il settore giudicante e quello inquirente-requirente della magistratura italiana. Il ddl costituzionale (“Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”), presentato alla Camera dei deputati il 13 giugno 2024, attribuisce la materia disciplinare per i magistrati ordinari ad un’Alta Corte, composta di quindici giudici. Nove di tali quindici giudici saranno magistrati estratti a sorte - sei giudicanti e tre requirenti - che svolgono, o hanno svolto in passato, funzioni di legittimità; e i restanti sei giudici, invece, saranno professori ordinari di università o avvocati nominati, nel numero di tre, dal Presidente della Repubblica e sorteggiati in pari numero dal Parlamento con criteri analoghi a quelli previsti per i due neo-istituendi Csm. Il fatto che nel settore disciplinare voluto dai riformatori di governo i giudici e i Pm ritornino insieme all’interno di un’Alta Corte composta da diverse anime - fatto che è stato criticato da Santalucia come contraddittorio rispetto allo spirito separatista - attiene ad un profilo diverso. È stato infatti ritenuto opportuno far tornare uniti giudici e Pm soltanto negli affari eventualmente patologici di un percorso funzionale dove ordinariamente saranno separati; ma nella gestione delle nomine o degli avanzamenti di carriera, i soggetti istituzionali devono necessariamente rimanere distinti e diversi, sempre separati. E così sarà. A prescindere, il potere giudiziario organizzato meta-sindacalisticamente non è contrario solo alla composita Alta Corte disciplinare, bensì al concetto stesso di separabilità delle carriere della magistratura ordinaria: e questo è un fatto imprescindibile nella dialettica che in questa estate - anzi, da sempre - si agita tra i vari poteri dello Stato italiano. Occorre separare le carriere, per garantire ex ante, durante ed ex post ai procedimenti d’indagine e ai processi la giusta, inalienabile serenità sulla terzietà del giudice, per chi da presunto innocente viene sottoposto a iter pubblici d’accertamento sui fatti. Se ad accertare i fatti, sullo scranno della pubblica accusa e su quello del giudicante, continueranno ad esservi persone appartenenti ad un unico ordine giudiziario con un Csm monolitico, la giustizia continuerà ad esser posta quotidianamente alla mercé ordinamentale di un rischio umano più elevato. Il rischio che presenta l’attuale Csm monolitico, pur nella bravura dei tantissimi magistrati, è un rischio connaturato nonché intrinseco alla medesimezza della fonte produttrice degli agglomerati correntizi, sottesi alle carriere personalizzabili dell’attuale magistratura ordinaria. Se l’Anm ritiene che non esista questo rischio, nessun problema: l’ordinamento costituzionale garantista con la separazione delle carriere si doterebbe di una garanzia in più per tutti-tutti (nessuno escluso). A voler aulicizzare per un momento i toni in modo ironico, cito un filone culturale non in sintonia con il mio razionalismo empirico. Spero sia gradito nel recare un sorriso a tutti-tutti, nel bel mezzo del campo di confronto. Solitamente scomodo Voltaire e Montesquieu. Ma stavolta, ironicamente, scomodo Blaise Pascal. Si faccia un po’ come la scommessa pascaliana: voi scommettete, se Dio esiste ben venga, avete vinto la scommessa al termine della vita, altrimenti se Dio non esiste avete comunque vissuto - e lasciato vivere - meglio le persone. Se il rischio di commistione nella unicità delle carriere dei magistrati ordinari esiste, scommettete bene sulla separazione delle carriere nella buona fede d’intenti dei cittadini; se il rischio dovesse non-esistere, avrete comunque dato più sicurezza ai cittadini quanto alla giustizia giusta da esercitare in nome del popolo italiano nelle vite concrete, in carne ed ossa e spirito degli individui, presunti innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. In tema di garanzie vive dello Stato di diritto, meglio una garanzia in più che una in meno, soprattutto se quella garanzia è connaturata alla natura stessa dei soggetti che dovrebbero applicare la legge. Separiamo le carriere, nella buona fede comune di tutti. Tutti-tutti. Emilia Romagna. Nasce dalla Comunità Giovanni XXIII l’alternativa al carcere di Benedetta Dalla Rovere bolognatoday.it, 4 settembre 2024 In Assemblea legislativa inaugura la mostra “Dell’amore nessuno fugge. L’esperienza Apac dal Brasile all’Emilia Romagna”. Carceri senza sbarre per un vero reinserimento. È questo il messaggio lanciato dalla mostra “Dell’amore nessuno fugge. L’esperienza Apac dal Brasile all’Emilia-Romagna”, presentata in Assemblea legislativa dalla presidente Emma Petitti, da Giorgio Pieri, responsabile del progetto Comunità educanti per carcerati (Cec) che fa capo alla Comunità Papa Giovanni XXIII, Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti della Regione Emilia-Romagna. Presenti all’inaugurazione della mostra anche la consigliera regionale Valentina Castaldini e Claudia Giudici, garante regionale dei minori della Regione Emilia-Romagna. Testimonial d’eccezione, il comico Paolo Cevoli, che si definisce “figlio del progetto e figlio spirituale di don Oreste Benzi che - racconta - al liceo a Riccione è stato il mio insegnante di Religione. Come diceva don Oreste, l’uomo non è il suo errore e in qualunque momento può ripartire”. È proprio questo il senso della Comunità Giovanni XXIII e del progetto delle Cec, le Comunità educanti per carcerati. In Italia sono una decina, di cui quattro in Emilia-Romagna, e vanno avanti con l’aiuto dei volontari e persone che vi si dedicano. Sono frutto dell’impegno dell’Associazione per la Protezione Assistenza Condannati (Apac), esperienze di carcere aperto nate nel 1972 in Brasile a opera dell’avvocato e giornalista Mario Ottoboni a cui è dedicata la mostra. I detenuti, molti dei quali presenti, si chiamano recuperandi. E hanno loro le chiavi delle celle. Non ci sono guardie e muri come nelle carceri tradizionali. La comunità locale aiuta chi sta scontando la pena a reinserirsi, tanto che i tassi di ricaduta nel reato sono molto bassi (12% rispetto al 70% delle carceri tradizionali). Antonio, uno dei detenuti ospitati dalle Cec, parla di “percorso rieducativo” molto arricchente ma anche “difficile, perché in un primo momento non riuscivo a fidarmi. Mi sono trovato in una realtà che non era sovvenzionata dallo Stato, ma dove tutto veniva fatto con un amore gratuito. Per me era una cosa inconcepibile”. Poi gradualmente la sua vita, che lo aveva portato in carcere a Reggio Emilia per reati legati alla droga, ha preso tutt’altra direzione. “La Comunità mi ha costretto a scegliere - conclude - a mettere ordine nella mia vita”. Pettitti: “La rieducazione serve a dare un senso alla pena detentiva” - “La rieducazione, che vuole dire la reintegrazione del detenuto nella società civile, serve a dare un senso alla pena detentiva”, spiega la presidente Emma Petitti, per la quale “da subito, occorre favorire percorsi, anche attraverso la presa di coscienza degli errori fatti, che consentano a questi uomini e donne di riprendersi la propria vita. Per ripartire, per ricostruire. L’Emilia-Romagna è fra le regioni più attive in questa direzione e oggi l’azione educativa in carcere serve a promuovere un cambiamento, non coercitivo, non correttivo, ma di opportunità”. Pieri: “Le Cec offrono percorsi educativi personalizzati” - “Le Comunità educanti per carcerati (Cec) - evidenzia il coordinatore Giorgio Pieri - sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere che offrono percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto, garantendo sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime, riscatto al reo. L’auspicio è che, anche grazie a questa mostra, possano essere maggiormente conosciute e avere riconoscimento istituzionale e amministrativo, dato che oggi lo Stato non finanzia le Cec”. Cavallieri: “Sull’accoglienza si gioca il futuro delle comunità” - Al coordinatore fa eco Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti: “L’accoglienza delle persone provenienti da circuiti detentivi è la scommessa sulla quale si gioca il loro futuro - dice -. Spesso il tema carcere è ritenuto ‘materia di Stato’ invece i territori hanno un ruolo fondamentale nella costruzione della speranza per i detenuti e gli enti locali sono attori strategici. Il tema proposto dalla mostra offe punti di riflessione per avviare una ‘rivoluzione” necessaria’”. Sicilia. Nove milioni di euro per l’inserimento lavorativo dei detenuti di Michele Giuliano Quotidiano di Sicilia, 4 settembre 2024 È stato approvato l’avviso n. 12/24 Pr Fse+ per l’inclusione sociale di chi è in esecuzione penale. Possono presentare istanza i soggetti accreditati alla “Formazione continua e permanente”. Un progetto per l’inclusione sociale delle persone che provengono da un passato difficile ma che vogliono trovare una strada per riscattarsi. È stato approvato l’avviso n. 12/24 Pr Fse+ Sicilia 2021-2027, per la presentazione di operazioni “per l’inserimento socio-lavorativo dei soggetti in esecuzione penale”. Nove milioni di euro, da spendere per la promozione dell’inclusione attiva delle persone ai margini del mercato del lavoro. Nello specifico, il target di riferimento è rappresentato dai soggetti condannati in esecuzione di pena negli istituti penitenziari siciliani e in quelli minorili, ammessi a misure alternative alla detenzione o ad altre sanzioni sostitutive, o soggetti sottoposti a misure di sicurezza o in sospensione del procedimento con messa alla prova, o sottoposti a provvedimenti penali dell’autorità giudiziaria, compresi i cittadini di paesi terzi, migranti e comunità emarginate. I soggetti che possono presentare istanza di finanziamento sono gli enti di formazione accreditati alla macro tipologia formativa “Formazione continua e permanente” o le agenzie per il lavoro accreditate per l’erogazione dei servizi per il lavoro in Sicilia. La proposta progettuale, per poter essere ammessa (istanze entro il 60° giorno successivo dalla data di apertura del sistema informativo), deve coinvolgere attivamente gli istituti penitenziari o gli uffici di esecuzione penale esterna e i servizi minorili interessati, in modo da verificare il fabbisogno e la sostenibilità organizzativa dell’operazione progettuale, per garantire la coerenza della stessa proposta con le esigenze connesse all’organizzazione del personale e della sicurezza interna degli istituti e l’integrazione del percorso trattamentale dei soggetti in esecuzione penale che parteciperanno al progetto. I destinatari devono essere residenti o domiciliati nel territorio della Regione Siciliana, avere un’età compresa dai 18 ai 64 anni compiuti, essere condannati in esecuzione di pena negli istituti penitenziari siciliani o essere ammessi a misure alternative alla detenzione o a misure e sanzioni di comunità ai sensi della normativa vigente, o sottoposti a provvedimenti penali dell’autorità giudiziaria minorile. Ancora, gli individui coinvolti devono essere sottoposti a una pena residua non inferiore a 24 mesi e non superiore a 60 mesi per le persone che eseguono la pena negli istituti penitenziari. Almeno il 20% dei soggetti coinvolti devono essere cittadini di paesi terzi. Qualora i destinatari dovessero concludere il periodo di pena prima di aver terminato le attività progettuali, continueranno comunque ad essere destinatari a pieno titolo fino alla conclusione prevista, ad esclusione delle azioni espletate all’interno dell’istituto penitenziario. I destinatari dell’avviso non potranno fruire di altre agevolazioni finanziarie sulla stessa tipologia di servizi previsti. L’istanza dovrà prevedere una serie di operazioni, da svolgersi entro 36 mesi dalla data di avvio del progetto, salvo proroga di massimo 6 mesi. Si parte dall’orientamento iniziale e definizione del percorso, per passare alla formazione, seguita dal tirocinio lavorativo in imprese o in un laboratorio tecnico-pratico. In ultimo, si svolgerà la fase di orientamento specialistico finale, con l’incrocio della domanda e dell’offerta di lavoro. Reggio Emilia. Detenuto morto in cella alla Pulce: “Non crediamo si sia suicidato” di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 4 settembre 2024 I familiari del 54enne: “Il giorno prima era tranquillissimo, vogliamo la verità”. “Noi familiari non crediamo all’ipotesi del suicidio. La moglie ha parlato con lui in videochiamata il giorno prima che lo trovassero morto in cella ed era tranquillissimo. Vogliamo la verità”. A parlare è Tarik Bassiri, 44 anni, cognato di Abdeljalil Saddiki, il cittadino italiano (aveva acquisito la cittadinanza in virtù di un primo matrimonio) di origini marocchine rinvenuto dalla polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia il 29 agosto alle 22.40 impiccato alla grata delle sbarre, tramite una maglietta arrotolata. Un decesso classificato inizialmente come suicidio (il settimo in regione e il 67esimo in Italia dall’inizio dell’anno), ma che lo stesso Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri - che si è subito recato nell’istituto penitenziario di via Settembrini per svolgere un’ispezione - ha definito anomalo e privo delle caratteristiche ricorrenti della triste conta di chi decide di togliersi la vita dietro le sbarre. Saddiki - aveva scontato gran parte della condanna a 4 anni e 2 mesi per due furti di auto fotocopia avvenuti a Sant’Ilario e a Parma e stava trovando un domicilio per gli imminenti arresti domiciliari - era ritenuto un detenuto modello: in carcere aveva conseguito la licenza media, aveva svolto un corso professionale lavorando alla Pulce come cuoco e nulla faceva presagire un gesto estremo. Nulla, a parte un diverbio avvenuto il giorno stesso del decesso con il compagno di cella che aveva indotto gli agenti a separare i due: Saddiki era in cella da solo da poche ore, quando è stato trovato senza vita. Anche secondo la Procura c’è qualcosa che non torna: tanto che il pm Maria Rita Pantani, dopo il sopralluogo sul posto, ha disposto l’autopsia - che si svolgerà domani all’Istituto di medicina legale di Modena, il perito nominato dalla Procura è il dottor Michele Carpinteri - e ha affidato gli approfondimenti al Nic di Bologna (nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, lo stesso che si è occupato delle presunte torture in carcere). Mentre i figli avuti con la prima moglie del 54enne, Fatima e Alex, preferiscono non commentare in questa fase, il cognato parla a nome della moglie Souad che mastica poco l’italiano. “La moglie ha parlato con lui mercoledì a mezzogiorno, in videochiamata - racconta il fratello della moglie - Era tranquillo, leggeva i quotidiani locali come sempre, faceva progetti per quando sarebbe uscito: aveva imparato un lavoro e avrebbe guadagnato anche per mandare soldi all’anziana madre in Marocco. Diceva che nell’ultimo periodo di detenzione era cambiato, voleva sistemare la sua vita e giurava di aver chiuso con gli sbagli”. L’indomani la doccia fredda. “La moglie non è stata neppure avvisata. Abbiamo saputo dell’accaduto da un nostro connazionale e, quando abbiamo chiamato in carcere, hanno confermato. Inspiegabile, impossibile. Una persona che vuole farla finita non si comporta così”. Fin qui siamo nell’ambito delle impressioni. Ma il cognato addita gli aspetti che non tornano. Anzitutto l’orario. “Di solito i suicidi avvengono di notte, quando si è indisturbati: invece alle 22.40 erano tutti svegli. Soprattutto Abdeljalil era un omone alto e dalla corporatura robusta. Come può un uomo alto 1.90 impiccarsi a un’altezza inferiore (1.70), con una maglietta che non reggerebbe il suo peso?”. I congiunti, tutelati dall’avvocato Giacomo Fornaciari, cercano un perché. “In carcere Saddiki non aveva nemici: mai una discussione né con le guardie né con altri detenuti, ad eccezione della lite di quel giorno. Strana coincidenza. Non sappiamo cosa possa essere successo: forse le telecamere potranno essere utili. Speriamo che la Procura vada fino in fondo e che l’indagine faccia chiarezza”. Frosinone. Detenuto muore nel carcere, s’indaga per omicidio: la denuncia presentata dalla madre di Natascia Grbic fanpage.it, 4 settembre 2024 Manuel Pignatelli è stato trovato morto nel carcere di Frosinone lo scorso 12 maggio. In seguito alla denuncia presentata dalla madre e dalla sorella, è stato aperto un fascicolo per omicidio. È stato aperto un fascicolo sulla morte di Manuel Pignatelli, il detenuto di 34 anni trovato morto nel carcere di Frosinone lo scorso 12 maggio. S’indaga per omicidio - al momento contro ignoti - e sono stati disposti accertamenti irripetibili per fare piena luce su un decesso le cui circostanze sono ancora da chiarire. A chiedere di indagare sul caso sono state la madre e la sorella del 34enne, assistite dall’avvocato Emanuele Carbone, che sin dall’inizio hanno evidenziato anomalie nella morte di Pignatelli, che stava scontando un residuo di pena di alcuni mesi dopo essere stato in un centro di recupero per persone tossicodipendenti. Sul corpo è stata quindi disposta l’autopsia, in modo da chiarire le cause della morte del 34enne. I giudici hanno disposto una serie di accertamenti tecnici irripetibili e incaricato il medico legale Alessandro Santurro di effettuare l’autopsia ed il tossicologo Enrico Pagnotta di analizzare i liquidi biologici. A presentare denuncia sono state la madre e la sorella del 34enne, assistite dall’avvocato Emanuele Carbone: spiegano che Manuel Pignatelli era uscito dalla Comunità di recupero ormai disintossicato e che in carcere era andato per chiudere i conti di una vecchia condanna di pochi mesi. Hanno segnalato alla procura del capoluogo una serie di anomalie. Che hanno portato il sostituto Adolfo Coletta a rubricare il reato di omicidio a carico di ignoti e disporre gli approfondimenti. Manuel Pignatelli aveva avuto problemi di tossicodipendenza ma, secondo quanto dichiarato dalla famiglia, li aveva risolti. Una volta terminato il periodo di ricovero in un centro per tossicodipendenti era tornato in carcere, dove doveva scontare un residuo di pena. Pochi mesi, dopo i quali sarebbe uscito. La mattina del 12 maggio però, alla madre è arrivata la tragica telefonata: il figlio era stato trovato morto nella sua cella. La donna e le sue sorelle credono sia successo qualcosa e che la sua morte sia stata provocata da qualcuno. Per questo da mesi chiedono siano effettuati ulteriori accertamenti per spiegare cosa sia accaduto a Manuel, e fare piena luce sulla vicenda. La procura ha aperto un’indagine per omicidio in modo da poter effettuare tutti gli esami possibili e capire se effettivamente il giovane sia deceduto per mano di terzi. Spoleto (Pg). Detenuto di 55 anni muore per un tumore, la famiglia valuta possibile denuncia di Francesco Oliva La Repubblica, 4 settembre 2024 L’ergastolano Angelo Salvatore Vacca è deceduto a causa di un tumore ai polmoni, a 55 anni. La sua fine però potrebbe ben presto trasformarsi in un caso giudiziario. Vacca si è ammalato nell’ultimo anno: lamentava già da tempo forti dolori allo stomaco. Più volte era stato visitato dai medici nel carcere di Spoleto dove era detenuto. Tutti liquidavano i dolori come sintomi di una banale gastroenterite. Negli ultimi mesi, però, le condizioni di salute si erano aggravate definitivamente. Fin quando, dopo innumerevoli rifiuti, un medico legale si era reso disponibile a visitare il detenuto a fine maggio. Con una diagnosi spietata: tumore ai polmoni con metastasi al cervello. E ora i familiari potrebbero presentare una denuncia per verificare se i ritardi nell’accertare la malattia siano stati decisivi per un decesso avvenuto in così pochi mesi: “Abbiamo chiesto l’acquisizione delle cartelle cliniche - commenta l’avvocato Francesco Fasano, legale della famiglia - e dopo aver analizzato con attenzione l’intera documentazione, chiederemo ad un medico legale una consulenza di parte per valutare se ci siano gli estremi per depositare un esposto”. Modena. Rivolta in carcere, la svolta. Il giudice non archivia: “Continuate a indagare” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 4 settembre 2024 Secondo il Gip Carolina Clò “Sono necessari ulteriori accertamenti per chiarire quanto è successo l’8 marzo del 2020 al Sant’Anna”. “È vero che sono emerse numerose contraddizioni, ma è altrettanto vero che alcuni detenuti presentavano lesioni. Anche solo per ‘chiudere’ il cerchio attorno alla vicenda e arrivare quindi ad un quadro completo, è bene continuare ad indagare”. È questa la decisione del Gip Carolina Clò in merito alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura del fascicolo relativo alla rivolta dell’8 marzo 2020 in carcere. Un fascicolo che vedeva l’iscrizione di ben 120 indagati tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria, per i quali è stato ipotizzato il reato di tortura. Il Gip nei giorni scorsi ha disposto l’archiviazione per una ventina di indagati ma ha contestualmente disposto nuove indagini da svolgere entro sei mesi. A presentare denuncia nei confronti degli agenti erano stati diversi detenuti, che avevano accusato gli operatori di averli sottoposti a brutali pestaggi durante la rivolta. Al termine dell’udienza, a maggio il giudice si era riservato circa la richiesta di archiviazione del caso, ma ora ha ordinato il proseguo delle indagini indicando anche in quale direzione muoversi. Il giudice fa presente come le versioni dei detenuti da una parte e degli agenti dall’altra siano totalmente discordanti e come, nel corso della rivolta, sia stato accertato l’uso della forza allo stato in modo legittimo. Dopo di che fa riferimento alle telecamere, facendo presente come nulla sia dato sapere circa il mancato funzionamento dei sistemi di videosorveglianza presso il campo sportivo e tra le due porte carraie gialle; teatro dei presunti pestaggi. Il Gip sottolinea poi come le intercettazioni abbiano messo in luce un incontro avvenuto tra tre indagati prima di presentarsi in questura, ove erano stati convocati per parlare appunto della rivolta. Il giudice ribadisce infine come da una relazione emergesse che: “i detenuti presentavano tutti quanti i segni fisici dovuti all’intervento della polizia penitenziaria e delle altre forze dell’ordine durante la sedazione della rivolta”. Gli avvocati difensori Luca Sebastiani, Ettore Grenci e Simona Filippi sottolineano: “Il Giudice non ha accolto la richiesta della Procura ritenendo accertato l’uso della forza nei confronti di alcuni detenuti e pertanto ha disposto una serie di indagini suppletive, da eseguire nel termine di sei mesi, per verificare la legittimità della stessa. È una decisione importante, che attendevamo e per la quale ci siamo battuti per anni”. “Il provvedimento del giudice ha una finalità di esclusiva garanzia, in primo luogo perchè ha già accolto la richiesta di archiviazione per svariati agenti - afferma l’avvocato Cosimo Zaccaria, che rappresenta molti degli indagati. Nello stesso testo del provvedimento, il giudice ha ribadito l’uso corretto degli sfollagente e delle armi ad opera del personale penitenziario. E questo rispetto - e lo ha detto il giudice - ad una gravissima devastazione in atto e gravi lesioni ai danni degli agenti penitenziari da parte di un numero indeterminato di reclusi. Sempre il giudice - conclude - ha sottolineato come i racconti dei denuncianti fossero contraddittori e lacunosi”. Milano. Salis: “Il carcere Beccaria è un vero disastro, deve essere chiuso il prima possibile” milanotoday.it, 4 settembre 2024 Le parole dell’europarlamentare Ilaria Salis dopo l’ennesima rivolta al Beccaria. Lo fa con un post sui social, dopo l’ennesima rivolta di domenica al carcere Beccaria di Milano. “L’istituto penitenziario per minori milanese, come tanti altri, è infatti un vero disastro, pieno di criticità che si ripetono da anni e che non possono più essere ignorate - scrive sulla sua pagina Facebook -. Le problematiche sono molteplici: dalla carenza di mediatori culturali alle strutture fatiscenti, dalla mancanza di adeguati programmi di reinserimento alla violenza usata come strumento di gestione. Non possiamo dimenticare le immagini del brutale pestaggio di un detenuto 15enne da parte di più agenti di polizia penitenziaria, avvenuto lo scorso marzo. Le condizioni attuali sono inaccettabili e l’istituto non può continuare a operare in queste condizioni. Deve essere chiuso il prima possibile”. “Bisogna tornare al passato” - Da qui la sua proposta: abolire tutte le carceri minorili. Ilaria Salis opta per un recupero attraverso percorsi educativi più che detentivi. “Come evidenziato da Antigone Onlus - prosegue - l’Italia, in passato, grazie alla capacità di rendere residuale la risposta carceraria per minori puntando su un approccio di tipo educativo, è stata un modello positivo di giustizia penale minorile in Europa e nel mondo. Questo modello, anziché essere protetto e ampliato, è stato progressivamente smantellato, e l’attuale governo sta completando l’opera”. “In Italia la detenzione dei minori è normalità” - Una richiesta di ritorno al passato puntando su quelle comunità per minori e reti di assistenza e protezione che nel corso di questi anni sono via diminuite. “Le opportunità per percorsi alternativi alla detenzione stanno diminuendo drasticamente - aggiunge -. Soprattutto per tutti quei ragazzi che già in partenza hanno meno possibilità. Di conseguenza, la detenzione, anziché essere intesa come extrema ratio, diventa la soluzione normale, una scelta peraltro incentivata dagli ultimi decreti governativi che hanno ampliato la possibilità di ricorso alla custodia cautelare in carcere. Anziché andare avanti, andiamo indietro. Invertiamo la rotta”. Lucca. Una visita speciale per scoprire le carceri da dentro: “Segnalati vari problemi” di Iacopo Nathan La Nazione, 4 settembre 2024 Ieri la Camera Penale di Lucca ha organizzato un sopralluogo all’interno della Casa circondariale San Giorgio, invitando anche la società civile. La società civile lucchese ha deciso di immergersi all’interno della casa circondariale San Giorgio, per vedere da vicino la reale condizione dei detenuti. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha organizzato in tutte le Carceri italiane durante il periodo estivo una visita ai detenuti dei vari istituti. L’obiettivo era quello di “responsabilizzare la politica sulla indifferibilità di interventi idonei a rimuovere concretamente le cause che rendono la pena inumana e degradante e a dare consapevolezza alla società civile delle reali condizioni degli istituti e di formare una coscienza sociale comune e informata sul tema del carcere”. Una visita lunga, durata diverse ore, che ha permesso a tutti i presenti di entrare davvero in contatto con l’attuale situazione del carcere lucchese. “La visita ha riscontrato un bel successo - spiego l’avvocato Marco Treggi, presidente della corte di Camera Penale di Lucca- . Sovraffollamento, chiusura delle sezioni, riduzioni drastiche delle attività trattamentali, caldo insopportabile, carenze igieniche, idriche, strutture fatiscenti, passeggi assolati e infuocati, violenze, autolesionismo, suicidi non sembrano per nulla affievolirsi nelle Carceri Italiane. Abbiamo voluto visitare anche il carcere della nostra città coinvolgendo la società civile e la magistratura. L’iniziativa ha avuto un ottimo risultato, abbiamo potuto cogliere le criticità e anche i pregi del carcere di Lucca: i presidenti degli ordini professionali, avvocati, commercialisti, architetti e ingegneri, hanno potuto prendere consapevolezza delle condizioni delle strutture e della vita condotta dai detenuti all’interno dell’istituto. Occorre dire che rispetto ad altri carceri abbiamo trovato l’istituto lucchese con un livello di criticità minore. I numeri, le condizioni riescono ad essere ben gestite dalla direttrice, pur mancando personale ma anche ad esempio l’acqua calda nelle celle, una separazione tra locale wc e cella, una sola doccia per sezione per circa 30/40 persone, c’è poco lavoro per troppe persone”. “Mancano inoltre le celle per il primo ingresso e l’impossibilità di individuarle per carenza strutturale - conclude Treggi -. I presidenti degli ordini si sono sentiti sensibilizzati e si sono detti disponibili a cercare il modo e gli strumenti per contribuire alla risocializzazione, si cercheranno fondi per acquistare la vernice e pennelli per ritinteggiare le scalcinate, celle e parti comuni, ma oggi, subito servono misure idonee per eliminare il sovraffollamento e i suicidi che con il finire del mese di agosto è giunto all’impressionante numero di 68 in tutta Italia”. “Ringraziamo la Camera Penale che ci ha offerta questa possibilità - aggiunge Umberto Quiriconi, presidente dell’ordine dei medici della provincia di Lucca -. Dall’esterno non si ha l’idea di cosa sia la vita all’interno di un carcere. Le strutture sono fatiscenti, c’è sovraffollamento, anche se non drammatico come in altre realtà, e anche la manutenzione è carente. Ci sono alcuni locali nuovi che sono ben strutturati e accuditi, e questo fa ben pensare per il futuro”. “Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, c’è un collega che si occupa delle attività quotidiane, c’è personale infermieristico - conclude Quiriconi -. Quello che è carente è la consulenza specialistica, molto importante specialmente per i pazienti psichiatrici”. Palermo. D’Orso (M5S): “All’Ucciardone stesse criticità di tutto sistema penitenziario italiano” agenparl.eu, 4 settembre 2024 “Oggi ho visitato il carcere dell’Ucciardone di Palermo, alla presenza anche del componente del collegio del Garante dei Detenuti Prof. Mario Serio, e ho potuto riscontrare che le principali criticità dell’istituto palermitano sono un esempio attendibile dei problemi di tutto il sistema carcerario italiano: una ristrutturazione che va a rilento (sull’edificio ove è allocata la nona sezione non si è ancora intervenuti), piante organiche di tutti i profili inadeguate, carenza di organico nella polizia penitenziaria, uno spazio esterno - che potrebbe ben essere adibito a campo di calcio - inutilizzato perché non ci sono i soldi per adeguarlo allo scopo. Mi ha molto colpito che nonostante siano ospitati 84 detenuti stranieri l’istituto non abbia neppure un mediatore culturale. Anche il numero dei funzionari giuridico-pedagogici pari a tredici unità è del tutto insufficiente rispetto alla popolazione detenuta da seguire che conta 518 persone. E l’offerta di lavoro all’interno del carcere per i detenuti è necessariamente molto limitata, riducendosi per talune mansioni solo ad un paio di ore al giorno. È chiaro dunque che è fondamentale incentivare occasioni di lavoro extramurarie. C’è ad esempio un protocollo con il Comune di Palermo che stenta a decollare perché non vengono effettuate le visite mediche preliminari. Il quadro si aggrava proprio spostandoci al settore sanitario: all’Ucciardone il supporto psichiatrico è circoscritto a poche ore a settimana, i detenuti lamentano gravi difficoltà nell’accedere ad alcune visite specialistiche e ci sono ostacoli burocratici persino per ottenere il certificato di idoneità necessario per svolgere attività sportiva non agonistica dentro il carcere. Quanto al sovraffollamento, la visita di oggi mi ha confermato la bontà della proposta del M5S: inviando nelle Case di Comunità di Reinserimento Sociale i detenuti con una pena residua inferiore ai 12 mesi, dal carcere palermitano uscirebbe oltre il 10% delle persone attualmente detenute, senza mettere a rischio la certezza della pena e la sicurezza collettiva. Mi chiedo cosa ancora aspettino il Governo nazionale - e per la competenza in campo sanitario - il governo regionale a dare risposte concrete per superare tutte queste problematiche. Così la deputata palermitana Valentina D’Orso, capogruppo M5S in commissione Giustizia alla Camera. Palmi (Rc). Iniziative di “Nessuno Tocchi Caino” per tenere alta l’attenzione sulle carceri ilreggino.it, 4 settembre 2024 Oggi, mercoledì 4 settembre 2024, Palmi sarà sede di due iniziative promosse dalla ONG Nessuno Tocchi Caino nell’ambito del “Grande Satyagraha 2024-Forza della verità sulla condizione delle carceri” che, ispirandosi ai metodi della nonviolenza, si pone l’obiettivo di tenere alta l’attenzione sulle drammatiche condizioni di vita negli istituti di pena in Italia anche attraverso il dialogo con i rappresentanti istituzionali che hanno potere di intervento rispetto alla piaga del sovraffollamento delle carceri ed all’urgente e indifferibile problema delle carenze di personale di ogni professionalità: agenti, educatori, direttori, assistenti sociali, mediatori culturali, medici e operatori sanitari, magistrati di sorveglianza. Il programma prevede, per la mattina, la visita presso la Casa Circondariale di Palmi, a cui parteciperanno - oltre alla delegazione di Nessuno Tocchi Caino ed alcuni magistrati - i rappresentanti degli enti che patrocinano l’evento, ossia Comune di Palmi, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Camera Penale “V. Silipigni” e Camera Minorile “Malala” di Palmi, nonché Rotary Club di Gioia Tauro. Nel pomeriggio, alle ore 17,00, presso la Villa Comunale si terrà invece la conferenza sul tema “La fine della Pena” che, dopo i saluti istituzionali dell’Avv. Giuseppe Ranuccio e della Dott. ssa Denise Iacovo, rispettivamente Sindaco ed Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Palmi, del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Palmi, Avv. Angelo Rossi e del Presidente del Rotary Club di Gioia Tauro, Avv. Vincenzo Barca, con la moderazione dell’Avv. Carmen Gualtieri del Consiglio Direttivo di Nessuno Tocchi Caino prevede gli interventi dell’On. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, della Dott. ssa Serena Tortorici, Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, dell’Avvocato Armando Veneto, già presidente del Consiglio dell’Unione delle Camere Penali Italiane, dell’Avv. Luca Muglia Garante Regionale dei diritti dei detenuti, del Dott. Ilario Nasso Consigliere presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dell’Avv. Giuseppe Milicia, Presidente della Camera Penale di Palmi, dell’Avv. Maria Teresa Santoro, Vice Presidente della Camera Penale di Palmi, dell’On. Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, del Dott. Domenico Ciccone- Responsabile dell’Area Trattamentale della Casa Circondariale di Palmi, dell’Ing. Mimmo Gangemi, scrittore e giornalista, dell’Avv. Clara Veneto, Responsabile Nazionale Osservatorio Scuole Forensi UCPI, dell’Avv. Renato Vigna, componente dell’Osservatorio Carcere UCPI e dell’On. Elisabetta Zamparutti, Tesoriere di Nessuno Tocchi Caino. Genova. Reinserimento dei detenuti: l’esperienza della Veneranda Compagnia di Misericordia ilcittadino.ge.it, 4 settembre 2024 A Genova tre case-famiglia per accogliere i detenuti in misura alternativa. Il recente decreto-legge sulle carceri ha introdotto rilevanti cambiamenti nel sistema penitenziario italiano, focalizzandosi sulla riduzione del sovraffollamento e sul miglioramento delle condizioni di detenzione. Tra le principali innovazioni, il decreto prevede l’adozione di misure alternative alla detenzione per reati minori, l’ampliamento delle opportunità di lavoro e formazione per i detenuti, e un potenziamento del supporto psicologico e sanitario all’interno delle strutture carcerarie. In questo contesto, la Veneranda Compagnia di Misericordia (VCM), storicamente impegnata a Genova nell’assistenza cristiana, nel sostegno dei detenuti, delle loro famiglie e di coloro che si trovano in difficoltà con la giustizia, ha accolto con favore le nuove disposizioni. La Compagnia ha sviluppato diverse iniziative in collaborazione con le istituzioni penitenziarie locali, con l’obiettivo di agevolare la reintegrazione sociale dei detenuti. Tra le attività promosse, spiccano i programmi di volontariato che coinvolgono i membri dell’associazione nell’offerta di supporto educativo e formativo ai detenuti accolti in misura alternativa. Questi programmi, non solo forniscono competenze pratiche utili dopo il termine della pena, ma favoriscono anche un dialogo costruttivo con la società civile. Inoltre, vi è l’intento di rafforzare i servizi di assistenza psicologica e spirituale, in collaborazione con volontari e professionisti qualificati unitamente ai Cappellani delle due Case Circondariali di Marassi e Pontedecimo, Don Paolo Gatti per la prima e Mons. Giacomo Martino per la seconda. Tali servizi sono pensati per offrire un sostegno continuo e personalizzato ai detenuti, aiutandoli a vivere il periodo di detenzione con maggiore serenità e preparandoli al reinserimento nella società. La combinazione tra le misure legislative del decreto e le iniziative della VCM rappresenta un passo significativo verso un sistema penitenziario più umano e orientato alla riabilitazione, piuttosto che alla mera punizione. Questi sforzi congiunti mirano a ridurre il tasso di recidiva, promuovendo un reale cambiamento nelle vite di chi è pronto a riscattarsi e a iniziare un nuovo capitolo della propria esistenza. Tra i progetti di maggiore rilevanza sociale, vi è l’istituzione di tre case-famiglia - due già operative da tempo, una maschile e una femminile, e una terza di prossima apertura - destinate ad accogliere detenuti in misura alternativa. Queste strutture offrono una risposta concreta al problema del sovraffollamento carcerario e rappresentano un’opportunità di reintegrazione per coloro che hanno intrapreso un percorso di riabilitazione. Le case-famiglia della VCM accolgono detenuti che, per buona condotta o per la natura dei reati commessi, possono scontare la pena in un ambiente più familiare e meno restrittivo rispetto alla detenzione tradizionale. Queste misure alternative alla carcerazione consentono ai detenuti di sperimentare una vita più simile a quella esterna, facilitando il loro reinserimento nella società. All’interno delle case-famiglia, i detenuti partecipano a programmi strutturati di formazione e lavoro, finalizzati a fornire competenze utili per il futuro. La Compagnia collabora con educatori, psicologi e volontari formati per seguire i detenuti nel loro percorso di crescita personale e professionale. L’obiettivo è creare un ambiente positivo e stimolante, dove i detenuti possano riscoprire il valore del rispetto reciproco, della responsabilità e dell’impegno. Un esempio di queste attività è il laboratorio di cucito femminile, che non solo insegna nozioni base di cucito, ma offre anche un piccolo sostegno economico per l’attività svolta. Altrettanto significativa è la lavanderia industriale situata nei locali a piano terra della sede, che offre un servizio di raccolta e riconsegna per enti pubblici e privati. Oltre agli aspetti educativi e lavorativi, le case-famiglia della VCM pongono un forte accento sulla dimensione relazionale e umana. Gli ospiti sono incoraggiati a partecipare a momenti di condivisione e dialogo, sia tra di loro che con la psicologa della struttura e i volontari della Compagnia. Questo approccio mira a costruire un senso di comunità e appartenenza, elementi fondamentali per un’efficace reintegrazione sociale. La casa-famiglia femminile offre, inoltre, un’importante risorsa per le detenute, molte delle quali devono affrontare problematiche legate alla maternità e alla gestione dei rapporti familiari. La VCM fornisce supporto specifico in queste situazioni, permettendo alle madri detenute di mantenere un rapporto costante e positivo con i propri figli, contribuendo così a ridurre il trauma della separazione e a garantire un contesto di crescita più equilibrato per i minori. In conclusione, le case-famiglia rappresentano un modello innovativo e umanitario di esecuzione penale. Offrendo una seconda possibilità a chi ha commesso errori, queste strutture non solo contribuiscono a decongestionare le carceri, ma promuovono anche una giustizia che guarda alla riabilitazione e al reinserimento, favorendo la costruzione di una società più inclusiva e solidale. Milano. Il carcere di Bollate apre le porte per la Mostra Mercato sestonotizie.it, 4 settembre 2024 L’organizzazione sociale Catena in Movimento, in collaborazione con la II Casa di Reclusione di Milano - Bollate e con il patrocinio del Ministero della Giustizia, della Città Metropolitana, del Comune di Milano, oltre al sostegno istituzionale del D.A.P. e del Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Milano presenta sabato 21 settembre, la Mostra Mercato BOLLATEin. L’evento ha l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, avvicinando la cittadinanza alla realtà carceraria attraverso il lavoro artigianale. Oltre 30 detenuti, impegnati da mesi nella preparazione, esporranno i loro manufatti artigianali realizzati nei laboratori del carcere con il coordinamento di Catena in Movimento. Tra gli articoli in mostra ci saranno prodotti di sartoria, falegnameria, accessori di bigiotteria, borse, zaini e portacarte in pelle. Alcuni di questi oggetti sono stati pre-lavorati nel laboratorio di Catena in Movimento a Trezzano sul Naviglio da alcuni detenuti in articolo 21 O.P. già assunti, per poi essere assemblati e rifiniti all’interno del carcere. BOLLATEin si propone di abbattere i muri che separano la cittadinanza civile dalla popolazione detenuta, offrendo un’occasione per conoscere da vicino le storie di coloro che stanno scontando una pena attraverso un percorso di rieducazione. La mostra mercato non solo esporrà i manufatti realizzati, ma fungerà anche da ponte per promuovere il riscatto personale, grazie al lavoro e all’impegno dell’istituzione carceraria e dei suoi funzionari e con la collaborazione dell’Amministrazione penitenziaria e la Direzione, rappresentata dal Dr. Giorgio Leggieri e della Dr.ssa Simona Gallo, funzionario giuridico pedagogico. L’evento permetterà al pubblico di avvicinarsi al mondo del carcere, offrendo ai detenuti l’opportunità di mostrare le loro abilità in vari campi: dall’artigianato alla gastronomia (pasticceria) fino alle espressioni artistiche del laboratorio ARTEMISIA e alle performance musicali del gruppo BEHIND TEAM del 7° reparto. La partecipazione è aperta al pubblico esterno previa iscrizione sul sito www.catenainmovimento.com a partire dal primo settembre. La partecipazione sarà a numero chiuso. Il ricavato delle vendite dei manufatti sarà utilizzato per creare nuovi posti di lavoro per i detenuti e per l’acquisto di beni di uso comune all’interno del carcere. “Italiani dopo 5 anni con residenza e reddito”. La sfida del referendum di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 settembre 2024 Magi, Bonino, Manconi, don Ciotti e realtà del Terzo Settore tra i depositari oggi del quesito in Cassazione, I dubbi del M5S e l’attesa del Pd. Tempo di finirla con l’eterna melina sulla cittadinanza. L’ultima discussione a vuoto tra le forze politiche ha fatto precipitare la decisione: un “cartello” di associazioni e personalità politiche depositerà oggi in Cassazione il quesito per cambiare lo Ius sanguinis e allargare le maglie della cittadinanza italiana. Dalle proposte di legge si passa al referendum. Interviene abrogando una delle norme della legge del 1992, e quindi non entra nel merito di Ius soli o Ius scholae (cittadini italiani per nascita o dopo un ciclo di istruzione), semplicemente il quesito mira a ridurre a 5 anni (da dieci) il termine di residenza legale ininterrotta in Italia per diventare cittadino italiano. Dopo 5 anni di permesso, i residenti immigrati potranno fare richiesta e ottenere la cittadinanza. Vale per gli adulti ed è esteso ai bambini figli di stranieri. Don Luigi Ciotti, Emma Bonino, Riccardo Magi, Luigi Manconi, Teresa Bellanova ma soprattutto la rete delle associazioni dei cittadini senza cittadinanza tra cui CoNNGI, Arci, Pippo Civati, Gianfranco Schiavone e moltissime realtà del Terzo Settore si sono fatti promotori del referendum. Sarà quindi l’inizio di una mobilitazione in tutta Italia per raccogliere le 500mila firme necessarie. Latitano i partiti della sinistra. Il M5Stelle con Alessandra Maiorino è perplesso sullo strumento referendario che non permette di chiarire la norma. Nel Pd si sta valutando. Ieri era in programma l’incontro con le associazioni per soppesare i pro e i contro, tenuto conto che sono in ballo gli altri referendum su Jobs act e Autonomia differenziata. I partiti puntano alla legge di riforma (che però non si vede) e di cui si discute dal 1999, sempre nell’illusione di essere a un passo dall’approvarla. Venticinque anni di scontri politici e almeno un milione di ragazzi ad aspettare. “Di fronte al tradimento delle aspettative di cittadini italiani di fatto e tuttavia senza cittadinanza, questo è lo strumento più incisivo che abbiamo”, rincara Magi. Il meccanismo dei 5 anni come contatore di cittadinanza già esisteva in Italia, poi la legge del 1992 ha cambiato regola. A potere diventare italiani secondo gli ultimi dati Istat, avendo 5 anni continuativi di permesso di soggiorno Ue (che prevede come requisiti reddito adeguato, alloggio), sono 2.300.000 italiani di fatto e non di diritto. I figli minori conviventi acquisirebbero la cittadinanza automaticamente quando l’avessero acquistata i genitori con cui convivono. In un calcolo del “cartello” referendario diventerebbero cittadini italiani con questa norma più bimbi figli di stranieri che se fosse introdotto lo Ius scholae. Dice Magi: “Su un totale di 900 mila alunni stranieri presenti oggi in Italia quasi 600 mila sono nati in Italia... E tra questi possiamo stimare che con genitori residenti da oltre 5 anni siano almeno 500 mila. Invece quelli che hanno già completato il ciclo scolastico sono 135 mila”. I numeri d’altra parte sono impietosi nella descrizione dell’anacronismo italiano sulla cittadinanza. Danila Ionita, giovane presidente dell’associazione “Italiani senza cittadinanza”, passava ieri da una call all’altra, per raccontare esperienze personali e anche battere su un tasto: “Il testimone delle battaglie va passato alle nuove generazioni, spetta a noi il protagonismo; le cose si fanno con noi non per noi: sembra semplice ma non lo è. Il quesito in Cassazione è il primissimo passo. Che non esclude gli altri, le proposte di legge”. Simohamed Kaabour rincara: “Di passi e tentativi ne sono stati fatti, ma si tratta di concludere, bisogna accelerare in Italia, non è possibile continuare con questo nulla di fatto”. Oggi a depositare il quesito in Cassazione ci saranno anche i giovani italiani senza cittadinanza. Ius scholae, Tajani temporeggia: “Avvieremo uno studio sul tema” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 4 settembre 2024 Dopo gli scontri delle scorse settimane con la Lega, Forza Italia tira i remi in barca ma Calenda attacca: “Noi presentiamo la nostra proposta e vediamo chi ci sta”. Se ne è parlato per settimane, proprio mentre le scuole erano chiuse, il Parlamento pure e il caldo d’agosto premeva sul Paese. Ora che scuole e Parlamento stanno per riaprire e il caldo ha le ore contate, ecco che di Ius scholae non si parla più. O meglio, colui che aveva cominciato la battaglia, tanto per infastidire una volta di più l’amico- nemico leghista, cioè Antonio Tajani, ha ribadito che sì, Forza Italia è favorevole, ma che siccome al momento non è una priorità ha semplicemente “dato mandato ai gruppi parlamentari” di avviare uno studio, “approfondito”, ci mancherebbe, sul tema. Che se fossimo sul set di Amici miei e non tra i palazzi della politica romana, verrebbe da riderci su. E invece il tema è serissimo, visto che Forza Italia e Lega se le sono date di santa ragione per mesi e solo l’intervento di Fratelli d’Italia, che ha l’arduo compito di tenere a bada i due alleati di governo, ha calmato un po’ le acque. E così il leader di Fi, dopo aver insistito per settimane, ora ha lanciato la palla in tribuna, per la soddisfazione di Matteo Salvini. Non solo infatti ha messo sul piatto l’idea dello “studio approfondito”, ma anche confermato che non voterà alcuna proposta di legge delle opposizioni sul tema, rispondendo indirettamente al leader di Azione, Carlo Calenda. Che nelle vesti del professore che di ritorno dalle vacanze è pronto a chiedere agli studenti se hanno svolto i compiti richiesti, ha ribadito che mercoledì, alla riapertura di Montecitorio, depositerà il testo che mira a introdurre lo Ius scholae. “Tajani dopo aver straparlato di tutta l’estate ha deciso che prima deve studiare - ha detto il leader di Azione - In compenso la Schlein dice che prima deve “parlarne con le persone interessate” : parlate e studiate, intanto ci sono 560 mila ragazzi che aspettano”. Anche la segretaria del Pd, infatti, nel suo tour alle Feste dell’Unità in giro per l’Italia, ha lanciato segnali contrastanti sul tema. Larga parte del Pd sarebbe infatti favorevole allo Ius soli, un’altra è d’accordo con lo Ius scholae ma in forma facilitata, un’altra ancora esprime qualche dubbio. Insomma, anche al Nazareno le idee non sono chiarissime. “Io ho sempre creduto che esiste una coalizione se esiste un programma di governo - ha aggiunto Calenda in riferimento al cosiddetto “campo largo” Io non ho mai detto no a prescindere. Sullo Ius scholae noi presentiamo un emendamento. Risposta di Tajani: devo prima fare uno studio, ma fallo prima. Risposta di Schlein: prima devo parlare con gli immigrati. Contano le cose per noi, la chiacchiera non produce niente”. Contro la posizione di Tajani si schiera apertamente anche Italia viva, impegnata nel riposizionamento al fianco di Elly Schlein e dei suoi alleati. “La dichiarazione con la quale Tajani annuncia di aver dato mandato ai gruppi parlamentari “di fare uno studio approfondito sulla cittadinanza”, di non votare in proposito nessuna proposta delle opposizioni e che registra come ora occorra concentrarsi ‘ sulla vera priorità” che è la manovra economica, annovera e archivia ufficialmente la battaglia d’agosto di Forza Italia sullo Ius scholae nel capitolo “abbiamo scherzato” (e qualcuno ha anche abboccato)”, ha commentato sarcastico il capogruppo renziano in Senato Enrico Borghi. Ma lo stesso Tajani ha confermato la linea, rassicurando un elettorato di centrodestra piuttosto scettico sul tema. “Nessuno vuole allargare le maglie della cittadinanza, anzi vogliamo che le regole per concedere la cittadinanza siano ancora più severe - ha detto sulle reti amiche di Mediaset - Serve una riforma delle regole sulla cittadinanza, serve sentirsi italiani, non è questione di colore della pelle o dove sono nati i propri antenati, è questione di sentirsi italiani e di essere veramente dtei patrioti”. Parole che avranno di certo fatto piacere ai vertici della Lega, la cui linea è condivisa anche dagli amministratori locali. “L’Italia è tra i Paesi europei che concede maggiore cittadinanza - ha sottolineato il presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga - Penso che un ragazzo che viene da una famiglia non italiana, con una cultura, a 18 anni può fare la scelta oggi per diventare cittadino italiano: se ci sono delle lungaggini tra il momento in cui può fare la domanda al momento della concessione della cittadinanza, risolviamole dal punto di vista amministrativo”. Aggiungendo poi di non considerare lo Ius scholae una priorità, e neppure come “un’esigenza il numero di cittadinanze che garantiamo”. Migranti. L’allarme dei Gip di Roma: “Il Cpr in Albania è un rebus giuridico” di Irene Famà La Stampa, 4 settembre 2024 I giudici competenti per i reati commessi nel centro, ma l’organizzazione è complessa e si rischiano tempi lunghi. Cpr in Albania, che confusione. E l’allarme, questa volta, arriva dal Tribunale di Roma, competente, così prevede la legge, per tutti i reati commessi nel nuovo Centro di permanenza per il rimpatrio. Quello per l’identificazione in costruzione a Shenjing mentre il Cpr vero e proprio sarà a Gjader, due paesi che distano uno dall’altro una ventina di chilometri. L’accordo tra il governo Meloni e il governo Rama parla chiaro: realizzare il primo centro per migranti italiano in terra straniera. E quella superficie di oltre 77 mila metri quadrati, con dieci container attorniati da altissimi muri e filo spinato, sarà sotto la giurisdizione dello Stato Italiano. Forze dell’ordine italiane, leggi italiane. Subito fuori dal perimetro la situazione cambia. E lo dimostra la presenza dei corpi armati albanesi. Queste le linee guida. L’applicazione dal punto di vista giuridico però appare decisamente più complessa. Tutte le questioni che riguarderanno i reati commessi nel Cpr, tranne quelli ai danni dei cittadini albanesi, transiteranno al quinto piano di piazzale Clodio. Ufficio Gip. Dove i giudici dovrebbero essere quarantuno, ma sono trentadue. Di cui quattro con esoneri di vario tipo. Per cui, il numero effettivo scende a ventotto. Ecco. Sulle loro scrivanie finirà ogni tipo di questione: dalle rivolte alla resistenza a pubblico ufficiale ai fatti violenti tra i trattenuti. Pure quegli episodi più lievi, che generalmente vengono trattati diversamente. Con le manette che scattano in flagranza e la decisione della convalida o meno dell’arresto che arriva nel giro di 48 ore. “In questo caso non si applicano le norme dei giudizi di direttissima”, spiegano tra i corridoi di Palazzo di Giustizia. Senza nascondere perplessità. E lesinare sulle critiche. Cpr, entro due mesi il piano per l’apertura: ecco cosa prevede e come saranno organizzati - Si inizia dalla questione personale. “Siamo sotto organico”, mormorano a piazzale Clodio. “È una questione nota. Eppure l’ufficio Gip accumula competenze, ma le risorse non vengono aumentate”. E il Ministero della Giustizia, così dicono, per ora pare non preoccuparsene. Alla carenza di personale rispetto ai possibili carichi di lavoro, si sommano poi le perplessità tecniche. L’affaire Cpr in Albania pone una sorta di rito obbligatorio. Con tempi inevitabilmente più lunghi anche per le questioni poco più che bagatellari. “Andiamo per ordine”, sollecitano dagli uffici. “Perché ogni passaggio rappresenta un problema”. Il pubblico ministero ha 48 ore per comunicare l’arresto e il giudice a sua volta deve fissare l’udienza di convalida entro le 48 successive. “Tempi lunghissimi, come se fosse un processo speciale per reati che si potrebbero trattare molto più facilmente”. All’udienza, va da sé, l’imputato deve presenziare. “Verrà fatta da remoto sulla piattaforma Teams”, spiegano. “Ma per questo servono aule con schermi da videoconferenza”. Quelle, ad esempio, che sono state allestite alla diciottesima sezione del tribunale civile. “Se servirà, ci metteremo lì”. E i difensori come potranno dialogare con gli arrestati in modo riservato? E gli interpreti? E il legale, prima dell’udienza, potrà connettersi dal proprio ufficio o dovrà usare sempre la postazione del tribunale? In caso di convalida dell’arresto, infine, ci sarà da capire dove il detenuto resterà in misura cautelare. In Albania? O verrà portato in Italia? Con costi che si aggiungono a quelli già esorbitanti del progetto. Per la costruzione delle due strutture, fino a questo momento, sono stati spesi 800 mila euro. E solo per l’indennità di trasferimento delle forze dell’ordine in servizio al Cpr c’è da considerare circa un milione al mese. L’ultima perplessità, poi, ruota intorno all’aspetto umano. E al concetto di giustizia. Anche chi, deportato tra quelle mura che non sono un carcere ma sembrano qualcosa di molto peggio, commetterà reati lievi, dovrà seguire un iter giuridico molto più lungo. E complesso. Pensato per rispondere a comportamenti ben più gravi. Ecco tutte le incognite che aleggiano sul Cpr extraterritoriale, progettato per arginare le ondate di immigrazione rischia di diventare un rebus per giuristi. Stati Uniti. I ghetti del Fentanyl, viaggio tra gli schiavi della nuova droga di Monica Maggioni La Stampa, 4 settembre 2024 Nelle strade di Philadelphia, tra gli zombie della droga che sta devastando l’America. Migliaia di vittime, un bollettino di guerra: l’overdose è la prima causa di morte tra 15 e 45 anni. La scena si svolge in una strada di Philadelphia. Sette miglia dal centro, un quarto d’ora in macchina. La sporcizia sul marciapiede distrae lo sguardo, confonde l’immagine. Poi, uno ad uno, gli zombie si scoprono alla vista, spuntano dai cartoni, popolano l’asfalto. Ma non sono zombie. Sono persone. Uomini, donne, ragazzini. Sono lì accartocciati, immobili. Senza respiro. Qualcuno si gratta, infila l’unghia lercia nel nodo dei capelli, si spulcia. L’ultimo arrivato barcolla. Kathy cammina lì in mezzo con i suoi tatuaggi e la canotta bianca. Uno le si struscia addosso e lei lo scosta rabbiosa, come fossero un cencio di cui liberarsi, ne insulta altri due che le bloccano la strada. Kathy, la biondina fa lo slalom tra i mostri di Kensington. A guardarla così sembra venga da lontano, che non abbia davvero nulla a che spartire con i disperati che popolano il marciapiede. Eppure, lei lo racconta senza alcuna timidezza, lei è una di loro. Solo, in questo momento non si è ancora fatta di Fentanyl. Succederà di sicuro, fra un’ora o due quando noi saremo su un’altra strada, a raccontare un’altra storia e lei tornerà nella tendina sul bordo della scarpata ferroviaria, dove la polizia finge di non vederla e gli stracci prendono una forma di casa. Kathy ha 33 anni e il precipizio l’ha incontrato dieci anni fa. Dal giorno che è nato il suo bambino, la vita è diventata troppo pesante. La fatica delle notti insonni, senza nessuno a darle una mano, senza un soldo e il padre del piccolo che beve, le urla contro di tutto, la picchia. Poi sbatte la porta e se ne va con le altre. “He was abusive”. Kathy usa tre parole per sintetizzare l’inizio della fine. Da quel momento lei entra ed esce dagli ospedali a furia di botte. L’incubo si ripete, il piccolo strilla, il padre non sopporta di sentirlo e comincia di nuovo a picchiare lei, ancora una volta, e poi un’altra. Davanti a una vita così le pastiglie di tranquillante sembrano regalarle attimi di paradiso. E non è difficile trovarne sugli scaffali degli store in cui l’America propone rimedi miracolosi contro ogni malanno. Per un malanno ci sono centinaia di pastiglie. E quando non bastano più quelle dei negozi, c’è un medico compiacente. E in fondo al tunnel internet, e gli spacciatori. Ma quella è la fine della storia. Torniamo a Kathy e al nostro giro sulle strade di Kensington, Philadelphia. I passi vanno veloci per lasciarsi alle spalle i mostri. E portarsi appresso un po’ di vergogna. Per non essersi fermati. A cercare di svegliarli, uno per uno. A cercare di raddrizzarli e riportarli in vita. Invece, ti fermi lì, sull’angolo del marciapiede a guardare ancora una volta le statue di cenci. La scena è apocalittica. E la composizione visiva perfetta, nel suo essere atroce. La coscia bianca di Lucy spunta nell’immondizia e si stende lungo il marciapiede, Luis è rimasto appeso, come folgorato, sulla rete verso la sopraelevata: l’uomo ragno divenuto statua. È bloccato, immobilizzato, fissato nell’ultimo gesto prima del vuoto. Greg, a pochi metri, arrotolato su se stesso come una piccola, fragile, chiocciola in una camicia che una volta doveva essere stata azzurra. I capelli lunghi e unti gli coprono il viso. Lo diresti morto stecchito, se non fosse per quel dito che gratta ogni tanto, ritmicamente, l’angolo dell’occhio. Si muove solo l’ultima falange. Il resto è fermo. Di marmo. La droga degli zombie - Insieme a Kathy, nelle vie di Philadelphia, stiamo scendendo lungo i gradini dell’abisso scavato da una droga che si sta portando via una generazione ed è diventata una questione politica. Argomento di campagna elettorale, bollettino di guerra da migliaia di morti. L’overdose è la causa principale di decesso negli Usa tra i 15 e i 45 anni. Supera le guerre e gli incidenti stradali. E la vita da drogati di sostanze micidiali che portano rapidamente alla morte non è una storia di bidonville, periferie desolate e mondi lontani. Ci si distrugge nel cuore dell’america, sui marciapiedi del centro città. Kathy le droghe le ha attraversate tutte e adesso è brava a spiegarle con le parole. “Queste nuove sostanze sono come lame”. Parlandone con chi è arrivato qui dall’Europa cercando di capire cosa succede, scende di nuovo i gradini del precipizio le fasi dei tranquillanti e poi l’eroina, il caldo tiepido dell’eroina che scende nelle vene. “Questi no. Non fai in tempo a sentire niente. Ti addormenti di botto. È tutto bianco. Non senti nulla, ma appena ti riprendi li cerchi di nuovo. Non puoi pensare ad altro hai un bisogno feroce”. Il Fentanyl, e tutti i nuovi cocktail di sostanze chimiche mortali che annullano ogni giorno centinaia di ragazzi americani, agiscono proprio così. Sono rapidi, violenti e senza ritorno. Il Fentanyl è cento volte più potente della morfina e cinquanta volte più potente dell’eroina. E chi comincia a usarlo si sente in trappola. È in trappola. Kathy passa la giornata a procurarsi le dosi, poi torna alla tenda sulla ferrovia e si fa. Adesso, mentre parla, razionalmente, lucidamente, analizza le sue possibilità: “Se vai in rehab (il percorso della riabilitazione) ci stai trenta giorni e poi? Ricominci a star male e devi tornare lì per strada. E la vita da senzatetto non la puoi fare se hai la mente lucida, reggi quello schifo solo quando ti fai!”. Le voci del mondo esterno sembrano raggiungerla solo a tratti come bagliori senza scia, senza conseguenze. La voce di suo padre che le ripete, perché non la smetti con quella roba? Una roulette russa - E lei che, ormai senza disperazione, dice semplicemente che non ce la fa. Non è per nulla facile. Le crisi di astinenza da Fentanyl sono durissime. Scuotono il corpo e la mente. “Ti senti morire, anzi, morire è più semplice. E lo sai che pochi milligrammi uccidono”. Ogni volta che la dose di Fentanyl entra nel corpo è come un colpo sparato durante la roulette russa. “Questa volta morirò oppure no?”. Poi gli occhi si riaprono sull’asfalto della strada, vedi il piede immobile di quello che si è fatto dopo di te e capisci che sei tornato indietro. Anche questa volta, ma chissà ancora per quanto. Sei tornata viva nella strada dei pupazzi immobili, delle statue disperate. Ogni tanto il suolo nell’ambulanza irrompe nel rumore regolare del traffico che scorre intorno. Chi passa per le vie di Philadelphia lo sa, non fa nemmeno più caso a questo presepe di umani perduti per sempre. Non gira la testa, non fissa la scena. Solo, passa attraverso. I paramedici iniettano Narcan nelle vene di Tom che qualche istante fa se ne stava andando per sempre. Una scossa segna il suo ritorno. Ma per quanto? Quante altre volte qualcuno lo riporterà indietro? Tutti i volontari di Kensington si portano nella sacca le dosi di Narcan, antidoto salvavita per chi sta morendo di overdose. Ma l’ultimo veleno resiste anche al narcan. È il Tranq, una micidiale miscela di Fentanyl e Xilazina, potente sedativo per animali, per esclusivo uso veterinario. Per il tranq non esiste antidoto. Provoca una rapida depressione sistema respiratorio, e una vasocostrizione così severa da provocare in un tempo molto breve ulcere sulla pelle. Le ferite te le fanno vedere i ragazzi come Steve, che paiono lebbrosi. E tutti quelli in carrozzina e con le stampelle. Le amputazioni sono l’unico modo per rallentare il decadimento: il traq si infiltra fino alle ossa, ti corrode da dentro. E un giorno rimani lì, per sempre sull’asfalto - Ma nei posti come Kensington, non ci sono solo i ragazzi di Philadelphia. Arrivano fino a Allegheny Ave road da lontano, anche dagli altri Stati, perché sanno che qui le dosi costano ancora meno. Che la polizia ti guarda ma in fondo non fa nulla. Che c’è un’intera comunità di disperati con cui tentare di dividere l’esistenza fino al momento dell’overdose. Che arriva sempre più spesso. Ci sono gruppi su facebook e instagram per trovare chi si perde qui dentro. Sono bacheche digitali di fotografie e messaggi di famiglie disperate. Lost in Kensington. Quelli che non si trovano più, dentro Kensington. All’angolo è rimasta li, paralizzata sotto il cartello stradale, la ragazza venuta da lontano. Stava per attraversare la strada ma la tossina è arrivata ai suoi neuroni prima che arrivasse alle strisce perdonali. Si è fatta di Fentanyl due minuti fa mentre pensava di andare all’altro marciapiede. Così, in un istante, le gambe hanno smesso di muoversi. Pietrificata. Le passiamo accanto e lei non sente, non vede. Chissà dove è in questo momento. Quando si risveglia sente tutta la sua miseria addosso, ma non tornerà a casa. Si vergogna troppo a tornare indietro. E diventerà un numero tra gli scomparsi. I missing in Kensington dal gorgo non escono più. L’onda che porta morte sta attraversando tutti gli Stati Uniti, dalla costa ovest a quella est. Non risparmia i simboli del fascino made in Usa. A poche centinaia di metri dallo splendore del Golden Gate ci sono vie di San Francisco uguali a Kensington, persino peggio. Il quartiere degli zombie della città dei tram che vanno in salita è Tenderloin, pienissimo centro. Uno snodo così centrale che le guide turistiche devono mettere in guardia gli stranieri che ci finiscono dentro per caso. Le vetrine dei drugstore sono chiuse a doppia mandata, i drogati e i senzatetto ormai si rubano di tutto. Qui, come a New York. Vengono messi sottochiave anche il dentifricio e gli spazzolini, perché chi li ruba poi li rivende per qualche centesimo. Disperazione e degrado che raggiungono il cuore della California dorata, dei film e della Silicon Valley, culla di tecnologia e di futuro. Eppure qui le droghe sono arrivate persino prima. In modo subdolo e seducente. Sull’onda del permissivismo e della libertà. Si sono infilate nella vita delle persone. Poi sono diventate l’inferno. Rapide e incontrollabili, perché così agiscono queste nuove sostanze. Negli Stati Uniti ne entrano illegalmente centinaia di migliaia di dosi al giorno, seguendo le strade già collaudate dei cartelli della droga messicani. Per questo il Fentanyl è diventato una questione politica. Legata alla frontiera sud, all’ingresso dei migranti. Così politica da essere divenuto elemento di scontro nel dibattito che aveva visto Biden contro Trump a giugno, quando Biden era ancora in corsa per le elezioni. E non era certo la prima volta. Era stato proprio Biden, nel discorso sullo Stato dell’Unione del 7 febbraio 2023, ad annunciare un’operazione massiccia di controllo di frontiera contro il narcotraffico. E, in effetti, il 98 per cento del Fentanyl sequestrato dalla Dea è di provenienza messicana mentre i precursori (gli agenti chimici di base) arrivano tutti dalla Cina. Un’alleanza micidiale tra triadi cinesi, cartelli e industria legale cinese che diventa una minaccia globale diventata protagonista dell’incontro tra Biden e XI del novembre dell’anno scorso anche perché, si è scoperto, i laboratori cinesi che producono i precursori non sono solo illegali. E qualcuno inizia a dire che si tratta di una guerra ibrida contro gli Stati Uniti. Almeno è quello che pensano le famiglie dei ragazzi morti di overdose che si sentono vittime di una macchinazione molto più grande di loro e si radunano a parlarne un sabato mattina sotto il porticato di casa di April. Da quando Shawn se ne è andato, questa casa è diventata un mausoleo. Coperta di foto, ninnoli. Ricordi a catturare un passato destinato a non tornare e due immensi cartelli fuori. L’associazione che April ha fondato si chiama “Lost voices of Fentanyl”, le voci perdute del Fentanyl. La stradetta tra le case dei dintorni di Baltimora non farebbe pensare a nulla che suggerisca l’abisso di dolore nel quale le persone stanno vivendo. Forse qualche frustrazione, ma non questo dramma. Invece il sabato mattina di si trasforma in un racconto corale in cui le lacrime tessono i ricordi. I nomi di chi non c’è servono a cercare un po’ di forza in mezzo alla disperazione. Ma come fai a dare la forza ai genitori di una ragazzina di quattordici anni che se ne è andata in pochi mesi perché il Fentanyl trovato in Snapchat ha sostituito i farmaci che ha iniziato a prendere durante il Covid? E ai due anziani che si tengono la mano perché John prima si è curato con troppi antidolorifici in un Paese che ne abusa (ma questo è un altro pezzo della storia) e poi ha cominciato a comprarli in internet fino a quando il Fentanyl ha vinto contro di lui? Trump ha gioco facile nel dire che se farà lui il Presidente sigillerà la frontiera con il Messico e questo problema finirà, ma le frontiere oggi sono cosa complessa. Loro, i genitori, protestano contro tutti a Washington. Contro chi ha liberalizzato le droghe, contro chi è al potere ora e contro chi c’è stato prima. La campagna elettorale cercherà i loro voti, tenterà qualche risposta ad effetto. Nessuno porterà indietro i loro figli. Una sola cosa ripetono, e magari potrebbe servire anche a noi che li guardiamo senza soluzione: “Se solo tutti avessero capito il rischio. Se solo ci si fosse mossi prima”. Consapevolezza. Forse. Libia. Perché è stato ucciso Bija, il trafficante di esseri umani che era protetto dall’Italia di Luca Casarini L’Unità, 4 settembre 2024 Criminali ricercati a livello internazionale in Italia ricevono una sorta di immunità. Questo perché fungono da garanzia nel respingimento dei profughi al di fuori dell’Europa. Abdurahman Al-Milad, conosciuto come “Bija”, uno dei trafficanti assoldato dai vari governi italiani per catturare e detenere i richiedenti asilo altrimenti in procinto di raggiungere le nostre coste, è stato ammazzato ieri davanti all’Accademia navale di Janzour, poco fuori Tripoli. Bija è il nome più noto della indicibile connection che lega le milizie libiche e i governi di Italia e Malta in particolare, ed è anche quello più conosciuto dai migranti che da Tripoli a Zawiya, tentano di salvare la pelle dalle scorribande dei cacciatori di schiavi che spesso, in Libia, portano le divise dei vari corpi armati inventati dai signorotti della guerra che si spartiscono la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Bija, dicono le agenzie, era un ricercato internazionale, colpito anche da un’ordine di rintraccio dell’Interpol, accusato insieme al cugino “Osama” delle peggiori efferatezze contro esseri umani. Eppure, guarda un po’, era anche un alto ufficiale della cosiddetta “Guardia costiera libica”, e in una delle ultime foto si era fatto ritrarre a bordo di una delle motovedette fornitegli dal governo italiano per fare il lavoro sporco in mare che conosciamo tutti. L’hanno eliminato, chissà per quale regolamento di conti, come si usa in un paese dove vige la legge mafiosa e i gangster, se sono più bravi degli altri, li ritrovi al governo o con i gradi di generali. Quelli come lui, oltre al traffico di esseri umani, gestiscono la “protezione” dei pozzi petroliferi che Eni e Total sfruttano, e del gas che corre sulle pipeline strategiche per l’Europa. Era un uomo d’azione, come lo è l’attuale ministro degli Interni Imad Mustafa Trabelsi, vero capo del governo fantoccio messo in piedi dall’occidente per fronteggiare Khalifa Haftar, il capo della Cirenaica, molto amico di Putin. Nei video che circolano, lo si vede spesso a bordo delle motovedette italiane classe Corrubia, risistemate dai nostri militari di stanza nel porto di Tripoli, mentre deporta donne, uomini e bambini, spesso legati, che poi spariscono una volta giunti al porto. Questi criminali ricercati godono dell’immunità totale in Italia, e mai uno straccio di interrogazione parlamentare ne ha chiesto conto al governo, proprio per la loro funzione strategica di “garanzia” per gli interessi nazionali, e fra questi c’è il “respingimento”, ad ogni costo e con ogni mezzo, legale ed illegale, di persone migranti, profughe, richiedenti asilo. Bija è uno dei fondatori del “sistema” Italia-Libia, quello che ha introdotto l’arruolamento di trafficanti e miliziani come vera e propria polizia di frontiera illegale, squadroni della morte e deportazione, al servizio dell’Italia. Famosa la foto che lo ritrae con i nostri funzionari dell’Aise e del ministero degli Interni, a Mineo, in provincia di Catania, durante il vertice segreto organizzato da Minniti e dal governo Gentiloni, nel 2017. Teoricamente, come ricercato internazionale dalla giustizia, avrebbe dovuto essere arrestato. Ma, invece, partecipò a quel vertice e venne protetto in Italia, come è successo al figlio di Haftar, Saddam, pochi mesi fa. Giunto a Fiumicino con jet privato e documenti falsi, e nonostante un mandato di arresto internazionale, dopo un’ora di fermo operato dalla polizia di frontiera, agenti dei servizi segreti qualificati come operanti sotto il controllo della “presidenza del Consiglio”, hanno intimato alla polizia di rilasciarlo, e l’hanno fatto ripartire. Qualcuno ne ha chiesto conto a Piantedosi? No. La “lotta ai trafficanti” sbandierata dal governo, è un’enorme menzogna, perché i grandi trafficanti, come lo era Bija, sono indispensabili per portare avanti quel “Piano Mattei” che ha due facce: una di propaganda, fatta di viaggi ed incontri pomposi e conferenze stampa senza giornalisti, e l’altra, nascosta, di accordi intessuti dai funzionari operativi sul campo, che portano a casa il risultato accordandosi per soldi in cambio di blocco degli esseri umani. Il livello “politico” ovviamente, sa esattamente ogni dettaglio di questi accordi: le torture, i lager, le catture in mare, in violazione delle convenzioni internazionali, le fosse comuni dove vengono fatti sparire i cadaveri delle vittime innocenti, gli stupri, il traffico di organi. Ma quando stringono le mani dei loro corrispettivi, come il pluri-indagato Trabelsi, gli basta che il sangue non sgoccioli. Sono in doppiopetto, sfoggiano divise e medaglie, soggiornano a Roma al Plaza e allo Sheraton. Il lavoro sporco lo fanno i loro operativi, i Bija, gli Osama e da noi l’Aise e qualche esponente della Marina militare. Questi ultimi avranno stappato una bottiglia ieri, alla notizia dell’uscita di scena di uno come Bija. La procura di Agrigento, ma anche la Corte penale internazionale, stavano proprio indagando su di lui, anche sui rapporti con funzionari italiani, e sul ruolo svolto dalla sua milizia, il clan Al-Nasr di Zawyah, nel quadro degli accordi per fermare i migranti stipulati con Italia e Malta. Sembra che ultimamente proprio la minaccia di Bija, che tentava l’espansione del controllo per il business di petrolio, armi e migranti verso la città di Zwara, di rivelare alcuni “segreti” che avrebbero fatto male a qualche alto papavero nostrano, avesse destato una certa preoccupazione negli ambienti dell’Aise e della Marina militare. Di certo, con l’eliminazione di uno dei più intraprendenti banditi libici, divenuto scomodo anche per la Marina di Tripoli e per Trabelsi, che lo ha protetto fino ad ora, nonostante le richieste delle Nazioni unite, qualcuno si è tolto un pericoloso testimone a carico, e questo non fa mai male a chi “lavora sistematicamente” - come dice papa Francesco - al respingimento degli esseri umani. Questo lavoro, una porcheria che passerà alla storia per il livello di disumanità e inciviltà che esprime, nonché per il numero di morti che provoca in terra e in mare, ha bisogno ogni tanto che qualcuno cancelli le tracce. Resta il fatto che tutte le agenzie internazionali raccontano che Bija era un trafficante ricercato ufficiale della cosiddetta “Guardia costiera libica” a cui l’Italia fornisce mezzi e soldi per fermare i migranti. Speriamo che la Corte dell’Aja non perda anch’essa le tracce di questa complicità. E i nomi e cognomi, italiani, che ci sono. Il sistema Italia - Libia, con il foraggiamento a suon di milioni di euro della mafia dei traffici, ha distrutto non solo le vite di decine di migliaia di innocenti, ma anche la possibilità che un paese come quello potesse avere un percorso minimamente democratico, incentrato sulle esigenze di un popolo e non dei signorotti della guerra. E questa distruzione di possibilità di democrazia, in favore di autocrazie compiacenti e funzionali, sta accadendo anche con la Tunisia. Congo. Maxi evasione dal carcere di Makala: oltre cento detenuti morti Il Dubbio, 4 settembre 2024 Il tentativo di fuga dalla prigione di Kinshasa finisce in tragedia, segnalati stupri e violenze sui detenuti. Erano diverse migliaia in una struttura adatta per 1.500 persone. È di almeno 129 morti e 59 feriti il bilancio della maxi evasione dal carcere di Makala, a Kinshasa, avvenuta nella notte tra il primo e il 2 settembre. Lo ha reso noto in conferenza stampa il vicepremier e ministro dell’Interno congolese dell’Interno Jacquemain Shabani, secondo cui delle 129 vittime 24 sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco e gli altri detenuti sono morti soffocati, tuttavia la cifra è ancora provvisoria. Segnalati anche episodi di stupro nei confronti di diverse detenute. Anche a livello materiale i danni sono ingenti. L’edificio amministrativo è stato dato alle fiamme, così come quelli dell’anagrafe, dell’infermeria e dei depositi alimentari. L’oppositore Martin Fayulu ha condannato “il brutale assassinio dei prigionieri” e ha chiesto che venga fatta luce sull’accaduto e che i responsabili siano assicurati alla giustizia. In un comunicato, la Bill Clinton Peace Foundation (Fbcp) ha criticato la gestione del carcere, sottolineando l’urgenza di separare i militari dai civili, situazione che secondo l’organismo aggrava le tensioni già esistenti all’interno della struttura. Secondo i dati a disposizione della Fondazione, nel carcere di Makala sarebbero rinchiusi oltre 4 mila militari. La situazione a Makala era già motivo di preoccupazione prima di questo tentativo di fuga. All’inizio di agosto, durante una visita al Centro di rieducazione penitenziaria di Kinshasa, il ministro della Giustizia, Constant Mutamba, aveva ribadito il suo impegno a decongestionare il carcere sovraffollato. Inizialmente progettata per ospitare 1.500 detenuti, la prigione di Makala ne ospita al momento diverse migliaia.