Carceri, un indulto per superare l’emergenza di Giampiero Catone La Discussione, 15 settembre 2024 Sono passati decenni dall’ultima amnistia. Per i reati minori e solo per quelli servono percorsi rieducativi. L’impegno di sacerdoti e volontari per una nuova umanità. “Aprirò una Porta santa in carcere”. Sono le parole cariche di speranza annunciate da Papa Francesco. Un prezioso intento che diffonde una luce di misericordia in un contesto che si fa giorno dopo giorno più drammatico: nelle carceri italiane i suicidi sono una emergenza intollerabile, il sovraffollamento è una condizione disumana, così come le difficoltà di tutto il personale che è esposto a mille problemi e rischi. Ciò che serve sono pene giuste, severe ma in un contesto profondamente diverso civile e umano da quello che oggi viviamo in Italia. Il Papa: la speranza non delude - Vogliamo in questa riflessione sugli istituti penitenziari, sui carcerati affrontare un tema non facile, aprendo alla possibilità che si arrivi ad un indulto, ad una amnistia - per reati minori - ricordando l’annuncio di Papa Francesco sul Giubileo dell’Anno Santo 2025, che ha come titolo “Spes non confundit”, “la speranza non delude”. “Aprirò una Porta santa in carcere. Vogliamo dare speranza, andando oltre alla durezza della reclusione, al vuoto affettivo, alle restrizioni imposte e, in non pochi casi, alla mancanza di rispetto”. L’emergenza nei numeri - Partiamo dei dati che rispecchiano una situazione che ha superato da tempo il livello di guardia. I numeri del sovraffollamento parlano di per sé, i detenuti presenti nelle strutture sono 61.468, dovrebbero essere invece 47.067, in base ai posti disponibili negli istituti penitenziari. Da puntualizzare un aspetto - spesso causa di dibattito politico - i detenuti stranieri nelle carceri italiane per adulti sono 19.108, pari al 31,3% del totale, quindici anni fa questa quota superava il 37%. C’è poi il dato più sconvolgente quello dei suicidi. I detenuti che dall’inizio dell’anno e, fino al 6 agosto 2024, si sono suicidati in carcere sono 62. Di altre 15 morti la causa è ancora da accertare. C’è anche il carcere ingiusto Questo il difficile contesto del sistema penitenziario a cui però bisogna aggiungere una considerazione critica, sul piano giuridico. Una parte considerevole, circa un terzo dei detenuti in Italia è statisticamente da considerare non colpevole. “Lo dicono i processi successivi o coevi alle spesso lunghe, inutili, dannose detenzioni preventive”, ricorda il giornalista ed editorialista, Giuliano Ferrara, con una sottolineatura: parliamo spesso di poveri cristi, di persone che fanno una vita non integrata, “che sono dentro per imputazioni a volte risibili, che non godono di protezione legale adeguata”, aggiunge Ferrara, “e che quasi nessun occhio politico istituzionale o sociologico inquadra mai a sufficienza tra i fattori di sofferenza umana e sociale più pesanti”. Agenti e lavoratori alle corde - Sull’altra sponda a subirne i pesanti effetti negativi sono i lavoratori del sistema carcerario. In una nota del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) c’è tutta l’amarezza per una condizione di lavoro insostenibile. “È importante per il Paese conoscere il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari”, fa presente Donato Capece, segretario del Sappe, “è importante che la Società riconosca e sostenga l’attività risocializzante della Polizia Penitenziaria e ne comprenda i sacrifici sostenuti per svolgere tale attività, garantendo al contempo la sicurezza all’interno e all’esterno degli Istituti. Il nostro Corpo è costituito da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento credono nel proprio lavoro, che hanno valori radicati e un forte senso d’identità e d’orgoglio. Persone che lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive italiane”. La sfida di una riforma Ci sono soluzioni? Questo è il punto altrettanto delicato, ma che non può essere rinviato. Si è parlato, grazie all’impegno di molti parlamentari, della tenacia degli esponenti del Partito Radicale, del ministro di Grazia e Giustizia Carlo Nordio, di come ridurre il sovraffollamento, di come concedere a una parte dei detenuti, quelli che devono scontare condanne minori, possibilità alternative in particolare per i giovani, con l’inclusione in strutture di accoglienza e di recupero sociale. La riforma del sistema carcerario è una sfida difficile, controversa, un tema dibattuto da molti governi con risultati scarsi e sostanzialmente di rinvii. Oggi servono scelte concrete. Indulto e amnistia - È un tema che va affrontato con grande serietà. La concessione dell’indulto (l’ultimo risale al 2006) riguardava reati non superiori a tre anni per le pene detentive e non superiori a 10 mila euro per quelle pecuniarie. Ancora più lontana nel tempo l’ultima amnistia che risale al 1990 (nello stesso anno è stato concesso anche un indulto). Come è noto c’è differenza tra l’amnistia che estingue il reato, mentre l’indulto è una causa di estinzione della pena. Con l’amnistia lo Stato rinuncia all’applicazione della pena, mentre con l’indulto si limita a condonare, in tutto o in parte, la pena inflitta, senza però cancellare il reato. Sono precisazioni di merito che vanno fatte, così come i due provvedimenti non possono includere reati gravi, quelli contro la persona, di terrorismo, quelli di mafia, di violenza, rapina, estorsioni. Ma ci sono numerosi altri reati minori che possono essere scontati in strutture di accoglienza o amnistiati. L’impegno di sacerdoti e volontari - Oggi 15 settembre, è la Giornata Nazionale di sensibilizzazione per il sostentamento del clero. Come ricorda la Conferenza episcopale italiana, “I sacerdoti offrono il loro tempo, sostengono le persone sole, accolgono i nuovi poveri, progettano reti solidali offrendo riposte concrete. Si affidano alla generosità delle comunità per essere liberi di servire tutti e svolgere il proprio ministero a tempo pieno”. Molti sacerdoti e volontari sono impegnati in comunità di percorso educativo dedicati ai detenuti. Si tratta di un impegno notevole, un percorso che potrebbe funzionare molto meglio se ci sarà anche una possibilità di riduzione della pena o di perdono. Scontare la condanna vivendo in queste comunità è l’occasione di nuovi incontri, di intraprendere relazioni positive, dove l’umanità può rinascere e, se c’è la volontà e la grazia, riprendere nuove vie. Le carceri piene e una legge sbagliata di Aldo Grasso Corriere della Sera, 15 settembre 2024 “In galera, in galera!”, gridava Giorgio Bracardi. Rischia la galera chi occupa abusivamente una casa, chi blocca una strada o una ferrovia (già battezzata “norma anti-Gandhi”), chi commette misfatti nelle adiacenze di una stazione ferroviaria. Il provvedimento in esame alla Camera, fortemente voluto dal governo Meloni, ha introdotto nuovi reati, aggravanti, inasprimenti di pene e criminalizzazione del dissenso. Il ddl Sicurezza inserisce nel Codice penale anche un nuovo articolo, il 415-bis, denominato “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, prevedendo come pena base la reclusione da due a otto anni. In galera, in galera! Alcuni giuristi parlano di “populismo penale”, di “riforma forcaiola” (iniziata con le sanzioni contro i rave-party), di “manettismo elettorale”. Formalizzare nuovi reati non costa nulla ma permette ricavi propagandistici e rafforza una concezione autoritaria e divisiva dello Stato. A parte mettere in discussione i principi fondanti della civiltà giuridica del nostro Paese (la certezza della pena non va confusa con la certezza del carcere), queste proposte giustizialiste non tengono nemmeno conto dell’esplosiva situazione carceraria, dove condizioni di vita inumane contribuiscono significativamente al deterioramento della salute mentale e fisica dei detenuti. Perché non punire anche chi si suicida? Il crollo del sistema carcere di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 15 settembre 2024 Il caos implode tra le sbarre delle patrie galere sotto il peso della sua incapacità, e nonostante questo cerca consenso tra le sue rovine. È noto nella storia dell’umanità che, di fronte agli errori, si cerchi sempre un “colpevole” lontano da sé stessi, come per il carcere, sprofondato in un caos totale, schiacciato da regole obsolete, condannato ad un fallimento ormai evidente a tutti. I fatti riportati dai mass media mostrano il sistema penitenziario italiano in pieno conflitto interno, un colosso al collasso, vittima di una cronica mancanza di visione strategica e di una palese attesa del cosa fare e del dove andare. Anziché affrontare le cause profonde della crisi del sistema carcerario, chi governa ha trasformato le carceri in vere e proprie zone di conflitto, rispondendo alla violenza con altra violenza, anziché il dialogo; dando così avvio ad un circolo vizioso che anche volesse intraprendere la strada per migliorare, non fa che peggiorare la situazione. Infatti alla richiesta di essere adempiente ai servizi, mettendo a disposizione mezzi personale, ha scelto di svuotare gli uffici di base, sacrificando il lavoro fondamentale in sezione col detenuto, per rafforzare il centro direzionale. Ebbene questo “spirito innovativo” ha lasciato un sistema già fragile senza risorse, amplificando le criticità e rendendo il carcere un simbolo di fallimento istituzionale, rafforzando l’autoreferenzialità, che ha il vanto di allontanare dalla realtà quotidiana sia gli operatori che dei detenuti. Ma parlare genericamente di “carcere” è riduttivo: è più corretto riferirsi alle sezioni custodiali, dove il difficile è posto e la criticità da gestire sono posti a normalità e sistema; e qui che si crea tensione tra chi vi opera costantemente tra personale di custodia, infermieri, medici, educatori e servizi offerti dal volontariato. L’agente di Polizia Penitenziaria, sempre presente nella gestione di persone, eventi e situazioni, non dovrebbe ricorrere alla violenza per poi trovarsi coinvolto in procedimenti giudiziari, suo compito è far sì che le sezioni detentive diventino spazi di convivenza, dove il rispetto reciproco prevalga e non si creino tensioni. Ma gli è davvero consentito di svolgere questo ruolo come dovrebbe? E il detenuto, ha davvero la possibilità di vivere la detenzione come un percorso di cambiamento di vita, limitato si alla privazione della libertà, oppure la sua pena si carica di un’ulteriore afflittività? Vivendo in ambienti sovraffollati e inadeguati, dove la dignità personale è spesso messa alla prova, in un simile contesto, la detenzione rischia di diventare non solo un periodo di privazione, ma un’esperienza di sofferenza aggiuntiva, che non facilita il pensiero positivo, ma lo rende ancor più complesso. L’amministrazione penitenziaria, immersa nei “sì” e nei “ma”, finisce spesso per rifugiarsi nei “no”, anche perché questi ultimi hanno il vantaggio di spostare il problema ad un altro organo, risolvendo così, la questione, a livello di risposta al problema. Anche se sembra che occupare un posto (politico o tecnico) sia sufficiente a comprendere la situazione, chi proviene dalla “vecchia scuola” ha una visione diametralmente opposta e provocatoria, perchè mette in luce il conflitto tra l’apparente sufficienza della mera esperienza formale, e magari manca pure quella, e il valore della competenza reale, radicata nella pratica e nella conoscenza concreta delle dinamiche carcerarie. Se tutti i problemi nascono e muoiono nelle sezioni, in quanto contenitori di per se emblematici, parrebbe non più rimandabile l’idea di istituire la figura del dirigente di sezione detentiva, autorità capace di garantire legalità e rispetto e di contrastare l’ingresso di oggetti e sostanze proibite, come cellulari e droghe, ruolo che non può essere affidato a un agente neo-arrivato, ma deve essere ricoperto da un professionista esperto e autorevole, che abbia la capacità di fare rispettare le regole e di proteggere gli altri agenti di custodia. Gli operatori penitenziari non possono infatti essere lasciati soli nell’affrontare le sfide quotidiane di lavorare a stretto contatto con persone che non accettato la detenzione, ma necessitano di una guida esperta, che pare l’Amministrazione Penitenziaria non sappia e non voglia fare: se l’istituzione del ruolo del dirigente di sezione non è in grado di realizzarla, che passi la mano ad altri! Le proposte di riforma non mancano: dalle riforme delle carceri del governo Monti, carcere gestiti da enti privati, o alle mie precedenti proposte di Casa Giustizia del 2008, struttura ricavata da stabili dismessi gestiti dall’Ente Locale e Privato sociale, che dal 2013 vengono riproposte ai vari Guardasigilli sempre con varianti diverse, segno che chi li porta all’attenzione poco ha capito della loro importanza e ancora meno del loro apporto verso la giustizia sociale. Queste strutture potrebbero essere collocate, ad esempio, in ospedali dismessi per accogliere i malati di mente, (non è dare il via ai passati Opg) e coloro che abbisognano di terapie non facili da attuare in carcere, permettendo loro di ricevere cure costanti invece di terapie di contenimento. Ciò garantirebbe non solo una terapia adeguata, ma anche la liberazione di posti nelle carceri, offrendo un’alternativa dignitosa a chi non ha nulla a che fare con la detenzione. Allo stesso modo, si pensi a coloro che, privi di risorse economiche, restano in carcere solo perché poveri, in palese violazione del principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. Questi individui potrebbero essere accompagnati verso un reinserimento graduale nella società, evitando di essere semplicemente scaricati dalle carceri e di ricadere nella criminalità, una soluzione che favorirebbe una vera giustizia sociale e una reale integrazione. Un altro vantaggio sarebbe l’allontanamento dal carcere di persone, quello che non avviene con le Rems, struttura sanitaria di accoglienza per i malati di mente autori di reato, unità sanitarie poste dentro alle mura del carcere, peraltro molto costose con offerte, in termini di numeri minimo. Rimangono nelle sezioni detentive i malati mentali detenuti non in crisi, i tossicodipendenti e i malati terminali, che spesso muoiono lontano dai propri familiari e chi è povero e non ha risorse esterne come gli stranieri o homeless o” criminali stagionali “solitamente invernali. Liberando questi posti letto in carcere, si creerebbe spazio per a chi ha commesso reati più gravi, evitando di ricorrere agli arresti domiciliari, una pratica che in molti casi non risponde alla gravità del reato e contribuisce a indebolire il senso di giustizia nella società. Se è giusto punire, è imperativo che la punizione non diventi una condanna eterna che si estende oltre la morte, lasciando a chi resta solo odio e un risentimento profondo, capace di evolversi in forme estremamente negative. Parlo di questo con una consapevolezza profonda, ma scelgo di lasciare nel non detto il ricordo crudo e drammatico che accompagna tale realtà, ma vorrei che non si riproponesse. Altra proposta, oltre alla figura del dirigente di sezione detentiva, e il collocamento di una serie di detenuti in strutture dismesse, riguarda la creazione di un gruppo di lavoro stabile, ovvero un istituendo Ispettorato Nazionale indipendente dalle periferie, necessario per fornire consulenza e strategie senza piegarsi a logiche contingenti o influenze esterne, rispettando il vero mandato dell’istituzione, nonché le ispezioni costanti per valutare il grado di operatività e di qualità del servizio reso, oltre le ispezioni d’urgenza per fatti gravi ed improvvisi. L’Amministrazione, nel suo stesso interesse, dovrebbe promuovere la costituzione di questo Ispettorato Nazionale, altamente specializzato e basato su solide esperienze. Questo anche in un’ottica di controllo sulla vita in sezione. Il compito non sarebbe solo quello di controllo, ma di orientare e supportare strategicamente la periferia, verso l’orientamento operativo del Ministro, analizzando le criticità operative e superando i dubbi e il non fare con la logica del “punisco o non punisco” per convenienza. Una struttura stabile, con personale in grado di definire strategie efficaci, garantirebbe una gestione coerente e imparziale, evitando la continua creazione di gruppi temporanei. Questa proposta ha un suo fondamento operativo da parte dell’unico Ispettore Nazionale, mai realmente messo in condizione di svolgere il suo incarico, ne credo oggi da qualcuno abbia ricoperto, almeno per settore non detentivo. Se non si vuole considerare la sezione custodiale come il luogo per la sola punizione, ma contemporaneamente dare speranza offrendo servizi, allora è il momento di sciogliere tutto e commissionare la gestione al settore privato (ci sono diverse esperienze illuminanti in Europa) vigilandone la capacità di rendere l’espiazione della pena un processo legalmente corretto. Come scrisse Seneca: “Non quia difficilia sunt, non audemus; sed quia non audemus, difficilia sunt”, ovvero “Non affrontiamo le difficoltà perché sono difficili, ma sono difficili perché non le affrontiamo”. Senza una riforma decisiva e la volontà di conoscere e cambiare, il sistema penitenziario continuerà a sprofondare nel disastro e il caos implode tra le sbarre. *Dirigente sup Giustizia in quiescenza e Giudice Onorario T.S. Milano non operativo Bambini in carcere: nemmeno il fascismo osò tanto di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 15 settembre 2024 Invece che prevedere che nessun bambino possa mai finire dietro le sbarre, la maggioranza rende più facile che madre e piccolo (anche quello non ancora nato) finiscano in galera. Con buona pace di pedagogisti e democrazia. Più duri persino dell’articolo 146 del Codice Rocco, approvato sotto il fascismo. I parlamentari di maggioranza non hanno avuto esitazione, nell’introdurre 24 nuovi reati e aggravanti, a premere sull’acceleratore della sicurezza, nemmeno fossimo in uno stato d’emergenza, e a sancire che sì, in Italia si può anche nascere in carcere o esservi detenuti fin dai primissimi mesi di vita. E così se nel 1930 si pensava al “superiore interesse del minore” stabilendo che “esecuzione della pena è differita in primis se deve avere luogo nei confronti di donna incinta; in secondo luogo se deve avere luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore a 1 anno”, nel 2024 si rende questa norma “facoltativa”. Invece che occuparsi di costruire case famiglie e mettere in condizioni le donne di non far scontare i propri errori ai bambini, le si rinchiude dietro le sbarre per compiacere la pancia di chi pensa che, per chi sbaglia, si debba agire solo “mettendo le persone in carcere e buttando la chiave”. Le norme approvate alla Camera sono un grave passo indietro per la nostra democrazia. In un Paese dove, statistiche alla mano, le recidive calano drasticamente quando vengono comminate misure alternative al carcere e dove i reati sono in diminuzione laddove funzionano meglio servizi sociali, scuole e progetti educativi, si pensa invece di “far cassa” e acchiappare voti premendo sul tasto della paura. E se la maggioranza si difende dichiarando che il giudice potrà sempre affidare le donne incinte o con figli piccolissimi agli Icam (istituti a custodia attenuata) la minoranza fa notare che questi sono solo cinque in tutto il Paese (Milano San Vittore, Venezia alla Giudecca, Senorbì in provincia di Cagliari, Lauro in provincia di Avellino e Torino “Lorusso-Cotugno”) e, dunque, in realtà, non ci sarà alcuna facoltà per il giudice di non spedire in carcere le donne incinte o madri di figli piccoli. E così, come cantava Daniele Silvestri, anche per i bambini si aprono le sbarre: “Nessun reato commesso là, fuori. Fui condannato ben prima di nascere”. O come intonava, sempre a Sanremo La Zero: “Mi chiamo Nina e gioco in tribunale. Con quello che passa il circondariale. La mamma si veste ogni giorno uguale. E piange se chiedo com’è fatto il mare”. A nulla sono valsi gli appelli di psicologi e pediatri che hanno spiegato come sia deleterio passare i primi mesi e anni di vita in un luogo dove non arriva la luce del sole, dove non si possono fare passeggiate all’aperto, dove colori, odori, suoni non sono quelli della vita reale. Senza considerare, spiegano gli addetti ai lavori, che, poi, raggiunta l’età della ragione, può svilupparsi, anche inconsciamente, un odio nei confronti del genitore che, con i suoi errori, ha costretto il piccolo ad anni di galera. Ma nulla frena il populismo giustizialista che spinge, negli stessi provvedimenti, anche a incrementare le pene se il reato viene commesso in stazione, sul metro o in autobus, come se uno stupro consumato vicino ai binari sia più grave rispetto all’identico scempio compiuto cento metri più in là. Ma con il “panpenalismo” la coscienza viene messa a tacere, il popolo plaude, ma, come insegnano gli Stati più severi, i crimini, invece che diminuire aumentano. Perché le ragioni vere alla base della delinquenza non vengono intaccate e i provvedimenti giusti per risolvere i problemi non varcano le aule parlamentari. Cospito e gli altri: il silenzio sui 700 detenuti al 41 bis di Stefania Valbonesi perunaltracitta.org, 15 settembre 2024 È ormai passato quasi un anno e mezzo, da quell’aprile del 2023 quando la Corte d’Assise d’Appello di Torino comminò ad Alfredo Cospito 22 anni e alla sua compagna Anna Beniamino 18. In quell’occasione, fece la sua ultima apparizione pubblica. Da allora, sul suo caso e su di lui, è calato un assoluto silenzio. Eppure, la questione sollevata da Alfredo Cospito, l’anarchico al 41 bis che portò avanti un lungo sciopero della fame (iniziato il 20 ottobre 2022, conclusosi il 19 aprile 2023) per sensibilizzare l’opinione pubblica sul trattamento dei condannati al 41bis, era diventato tema caldo di dibattito sociale e politico. Cospito interruppe il digiuno nel momento in cui la Corte Costituzionale ritenne costituzionalmente illegittimo l’articolo del codice che “vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulla circostanza aggravante della recidiva nei casi in cui il reato è punito con la pena edittale dell’ergastolo”. Per mesi il dibattito rimase aperto sui media e nell’agone politico, ma anche nelle piazze dove cortei e movimenti di sostegno si alternavano, con una scia di condanne che non coinvolse solo gli anarchici. La condanna successiva alla sentenza della Suprema Corte, fu, come ricordavamo, di 22 anni per Cospito e di 18 per Anna Beniamino, la compagna, anche lei ritenuta parte attiva nell’attentato di Fossano, tuttavia non in regime di 41bis. Il 41 bis è un trattamento detentivo che prevede l’isolamento assoluto del condannato, al fine di rompere ogni legame con i sodali rimasti in libertà, per evitare che dal carcere il detenuto possa impartire ordini, dare direttive ecc., insomma continuare a tenere in mano le fila di un’eventuale organizzazione. Il 41 bis fu “inventato” nell’ambito della lotta alla mafia, ovvero fu ed è uno strumento pensato al fine di bloccare la capacità di imperio dei boss mafiosi. Fu poi applicato anche ai condannati per terrorismo, sempre con le stesse finalità. Nel caso di Cospito, anarchico, autore di un attentato che non causò vittime, il punto giuridico fu se si prospettavano i requisiti per l’applicazione di questo stato di detenzione particolarmente duro. Un caso che scosse il mondo degli avvocati penalisti, con intervento anche delle Camere penali. Sulla questione, abbiamo interpellato Sauro Poli, uno degli avvocati facenti parte del pool legale che si occupò del caso. 41 bis”Ormai è trascorso quasi un anno e mezzo dall’ultima pronuncia della Cassazione - dice l’avvocato - Cospito si è ritirato nel suo sarcofago di cemento armato, espressione utilizzata da Flavio Rossi Albertini, suo avvocato difensore, ma alcune cose rimangono nell’aria. A circa due anni dalla pronuncia della Corte di Cassazione che rimandava a Torino il processo per determinare la pena, alcune considerazioni è necessario farle. Intanto, per la prima volta si è contestata la strage politica. Andando alla memoria documentaria dei difensori di Alfredo Cospito e Anna Beniamino, alle obiezioni sollevate dai difensori che mai è stata contestata la strage politica, né nel caso di Bologna del 1980 (l’esplosione alla stazione di Bologna che causò 85 morti e 200 feriti), né per le stragi del ‘92-’93, la Corte di Cassazione ha argomentato che, in quei casi, essendoci dei morti, la superfetazione giuridica era perfettamente inutile”. “Posto che anche il Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Bologna commentò che se quella di Bologna non era una strage politica quale altra strage potrà mai dichiararsi politica (il riferimento è alla sentenza con cui fu condannato all’ergastolo Paolo Bellini, nell’autunno scorso, in cui è stata riconosciuta, dopo 44 anni, la natura politica della strage) ricordo che, dopo il documento dell’ottobre 2022, sottoscritto dai primi 20 avvocati che si esposero per rendere pubblico un caso di carattere generale, i primi a muoversi furono intellettuali, filosofi, primi fra tutti Luigi Manconi e Massimo Cacciari, seguiti a ruota dalle varie associazioni e dai compagni di Alfredo Cospito. A valle di quell’impegno che fece esplodere un grosso dibattito pubblico, si può senz’altro affermare che il sistema si sia ricomposto. All’obiezione che le stragi politiche in Italia non sono mai state contestate, la Corte di Cassazione risponde che l’attentato alla scuola di Fossano rappresenta un attentato alla stabilità interna dello Stato, dal momento che era il luogo dove si addestrano i giovani carabinieri e l’Arma è una delle colonne portanti dello Stato. Perciò, si parla di strage contro lo Stato”. “Il sistema ha mostrato una grande capacità di tenuta, mettendo in campo l’argomentazione che la strage è un reato a consumazione anticipata, non occorre l’evento, non occorrono feriti perché si consumi; se si colloca un ordigno sui binari, il treno passa e non succede niente, è comunque strage. Il sistema ha saputo reagire di fronte alle levate di scudi; con l’aggiustamento, il ricorso alla Corte Costituzionale, la possibilità di contemperare la recidiva a Cospito con il fatto di lieve entità previsto dall’art. 306 del cp, arrivando a una pena tutto sommato ritenuta equanime. Il sistema ha dimostrato di avere i suoi anticorpi nei confronti delle obiezioni più lucide. Sta di fatto che Cospito si è ritirato nel suo sarcofago; rimangono le minuzie dei processi per chi lo ha sostenuto nella sua battaglia, partecipando alle manifestazioni di piazza. È caduto un silenzio tombale sul punto centrale della diatriba, ovvero la sostenibilità costituzionale del 41 bis. Da una battaglia personale, quella di Cospito era diventata quella dei 700 dannati al 41 bis. Il dibattito è risprofondato nell’oscurità assoluta. E dei 700 dannati non se ne sa più nulla”. Ddl Sicurezza, il coordinamento dei Garanti: “Norme di dubbia legittimità costituzionale” Il Dubbio, 15 settembre 2024 Per Samuele Ciambriello, Garante della regione Campania e portavoce nazionale si rischia “un impatto esplosivo sul sistema penitenziario”. Il Portavoce e il Coordinamento della conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale esprimono “ancora una volta preoccupazione per lo scollamento tra la realtà drammatica delle carceri italiane e i provvedimenti normativi già promulgati o in corso di approvazione”. È quanto si legge in un comunicato che critica fortemente il ddl Sicurezza in discussione in Parlamento. “Sovraffollate e con un numero altissimo di suicidi tra persone detenute e agenti di polizia penitenziaria, le carceri sono una polveriera: esasperazione, abbandono e indifferenza verso il modo dell’esecuzione della pena, che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, fanno di questo momento storico il più delicato dopo la sentenza “Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo”, si legge ancora. “Più di ottomila persone detenute, che devono scontare un residuo di pena inferiore a un anno, potrebbero uscire dal carcere con interventi mirati - come, ad esempio, la c.d. liberazione anticipata “speciale” - che il Parlamento non sembra voler prendere in considerazione - spiegano i garanti - Abbiamo così, per un verso, i rimedi omeopatici di scarso o nessun impatto nel breve periodo introdotti dalla legge 8 agosto 2024, n. 112, e, per l’altro, le temibili disposizioni e nuove fattispecie di reato previste dal disegno di legge sulla sicurezza pubblica in corso di votazione in Parlamento”. Non solo. “L’approvazione, solo qualche giorno fa, dell’art. 12 che cancella il differimento obbligatorio della pena per donne in gravidanza e madri di minori di un anno rappresenta un enorme passo indietro rispetto alla tutela della maternità e dell’infanzia, ed è in netto contrasto con i pronunciamenti sul tema della Corte costituzionale e delle convenzioni internazionali - insistono - Per quanto attiene alle norme sul rafforzamento della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e nelle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti, anche qui si evidenzia la logica securitaria che permea l’intero provvedimento normativo perseguendo l’obiettivo della criminalizzazione di ogni forma di dissenso. L’idea di fondo è che ogni specie di dissenso contro l’autorità costituita o le istituzioni totali debba essere punita con esemplare severità”. I garanti sono “preoccupati per la formulazione del nuovo art. 415 bis c.p., che - se approvato - punirebbe la pacifica protesta all’interno di un istituto penitenziario ancor di più se nella forma aggravata” e “lo stesso problema si riscontra anche rispetto al parallelo art. 14 T.U. immigrazione come riformulato dal disegno di legge in esame, che punisce con la reclusione da uno a sei anni chiunque - durante il trattenimento o la permanenza nelle strutture per i migranti - promuove, organizza o dirige una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza anche passiva agli ordini impartiti. Il fatto deve essere commesso da tre o più persone riunite e prevede la punibilità per la mera partecipazione”. Pertanto “risulta assai grave l’assimilazione, sul piano del disvalore di condotta, tra violenza, minaccia ed atti di resistenza passiva: difficile, peraltro, anche sul piano logico, immaginare una rivolta pericolosa che consista in atti di mera disubbidienza civile”. Per poi chiedersi se “sarà quindi criminalizzato lo sciopero della fame portato avanti da tre o più detenuti” e spiegando che “iIl tenore delle norme non consente di escluderlo”. Con un appello finale al Guardasigilli Carlo Nordio. “Ci auguriamo che il Ministro della Giustizia intervenga prima che il Parlamento approvi in via definitiva disposizioni dall’impatto esplosivo e di dubbia legittimità costituzionale”. Stretta dell’esecutivo sulle borseggiatrici: basta con l’impunità anche se sono incinte di Francesco Boezi Il Giornale, 15 settembre 2024 Niente più rinvio obbligatorio della pena per le madri condannate, sia nel caso in cui siano in stato interessante sia qualora abbiano bambini di al massimo un anno. Questa è la novità più rilevante tra quelle contenute nell’articolo 12 dell Ddl sicurezza, che sta per ricevere il via libera dalla Camera dei deputati. I parlamentari proseguiranno con l’esame approfondito del decreto nella prossima settimana. Un provvedimento che la sinistra continua a contestare ma su cui la maggioranza non ha dubbi. “Gli slogan dei contrari si commentano da soli”, ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, riferendosi all’intero pacchetto. E il governo ha una linea consolidata e unitaria: la sicurezza come priorità assoluta. Il centrodestra, poi, è convinto che lo stato dell’arte, almeno prima di questo Ddl, non producesse effetti concreti. Troppe le borseggiatrici seriali, sino ad arrivare a veri e propri casi record, come quello della nomade con 148 furti commessi e 30 anni di carcere da scontare. In questo caso, la donna è stata tratta in arresto nel campo nomadi di Castel Romano. Era lo scorso agosto. La ratio della novità legislativa è anche quella di evitare che le borseggiatrici condannate tornino a rubare. Con l’articolo 12 del Ddl sicurezza, le donne in stato interessante e le madri dei bambini che hanno meno di un anno (o soltanto uno) potranno - resta una facoltà del magistrato - scontare la pena negli Icam, ossia negli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri. Il tutto - ovviamente - in caso di condanna. Si tratta di centri specializzati. In Italia, per ora, ne esistono quattro: uno al San Vittore di Milano, uno a Venezia, uno a Torino e uno a Lauro. Tra i servizi messi a disposizione da alcuni di questi centri, anche le ludoteche. Niente “carcere”, quindi, nonostante la narrativa costruita dall’opposizione in queste settimane. Come premesso, la nuova normativa consente al magistrato di non dover rinviare l’esecuzione della pena. Passaggio che era invece obbligato. Tra i più agguerriti tra i contrari, l’ex presidente della Camera e ora esponente del Pd Laura Boldrini, che ha definito una “barbarie” da “democratura” questo provvedimento, citando il “carcere” per le donne incinte o con “figli neonati”. Asserzioni e posizioni che il centrodestra ha più volte smentito. Ma il leit motiv della minoranza parlamentare è lungi dal cambiare tono. Il centrodestra ritiene anche di aver migliorato la situazione. Oggi come oggi, le madri che hanno dei figli con massimo tre anni di età, in caso di condanna, possono finire in carcere. Il Ddl sicurezza prevede invece la pena possa essere eseguita negli Icam anche in quest’altra fattispecie. E quindi le tutele per il minore - affermano sempre dalla coalizione di governo - sono aumentate, e non certo diminuite. Tra i sostenitori del provvedimento, pure il deputato della Lega Luca Toccalini che ha parlato di misure che “finalmente” intervengono su quelle borseggiatrici “che sfruttano il fatto di essere incinta per rubare ai cittadini”. E poi le altre novità, tra cui la cosiddetta norma anti-Salis. “Garantiamo più tutela alle forze dell’ordine e rendiamo più immediato lo sgombero degli appartamenti occupati”, ha chiosato l’esponente del Carroccio. Sì, perché nel Ddl sicurezza, oltre all’articolo 12, c’è anche la stretta su chi occupa in maniera abusiva le abitazioni. Con modifiche che consentono ai proprietari di tornare in possesso delle case in periodi più brevi degli attuali. Un’altra novità che non piace all’opposizione guidata da Partito democratico e Movimento 5 Stelle. La prossima settimana sarà decisiva per il primo dei due via libera attesi al pacchetto. Caso Open Arms, l’accusa dei pm: “Salvini agì in spregio a tutte le regole” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 settembre 2024 Sei anni per aver trattenuto illegalmente 147 persone a bordo di una nave, “piegando strumentalmente le norme alla strategia dei porti chiusi”, non sono una richiesta politica contro l’atto politico di un ministro. Sono piuttosto la valutazione giuridica di un comportamento considerato illegittimo in base alle leggi nazionali e alle Convenzioni internazionali. Un reato, secondo la valutazione dei pubblici ministeri, commesso non per attuare la linea politica di un governo, bensì l’autopromozione della propria personale posizione. Anche in chiave elettorale. È il punto chiave, per quanto scivoloso, del processo e dell’atto d’accusa finale: alla sbarra non è la politica ma il comportamento di un politico, ribadiscono i pm, sapendo che la difesa ha battuto e batterà proprio su questo punto. Non a caso, la requisitoria parte proprio da qui. “Di fronte al fallimento delle misure varate dal governo - spiega il procuratore aggiunto Marzia Sabella, riferendosi alle direttive e ai decreti sicurezza approvati dall’esecutivo Conte sostenuto da Lega e Cinquestelle - l’imputato Salvini s’è avventurato in atti amministrativi illegittimi e penalmente rilevanti, consapevole di agire in spregio a tutte le regole, distinguendo così la sua responsabilità da quella del governo del suo insieme”. A partire dal 14 agosto 2019, quando il Tar del Lazio annullò il divieto d’ingresso di Open Arms in acque nazionali, gli altri ministri competenti Elisabetta Trenta (Difesa) e Danilo Toninelli (Trasporti) si rifiutarono di firmare un nuovo provvedimento che confermasse il primo; e lo stesso premier Conte scrisse a Salvini per chiedergli di far scendere almeno i minorenni (la loro presenza a bordo è un’aggravante del reato) e poi che l’obiettivo della redistribuzione era in via di raggiungimento. Provocando un “vero e proprio caos istituzionale”, costringendo altri organismi “ad approntare soluzioni di fortuna non potendo permettere di lasciare quei naufraghi senza terra”. Ma il leader leghista ha proseguito con il suo diniego, proclamando in diretta Facebook: “Solo contro tutti”. Una frase che ora finisce nella requisitoria a riprova che la linea politica del governo non c’entrava più; anche perché “non c’era più il governo”, ormai in crisi dopo la decisione della Lega di sfilarsi dalla maggioranza, come hanno testimoniato gli ex colleghi davanti al tribunale. Prima di qualsivoglia volontà politica, collettiva o individuale, nell’impostazione dell’accusa ci sono comunque le leggi. Secondo le quali i diritti fondamentali delle persone - alla vita, alla salute, alla libertà personale - prevalgono su ogni altro. Compresa la difesa dei confini da parte dei singoli Stati. L’obbligo dei salvataggi in mare, che giuridicamente si conclude solo con la concessione del Pos (permesso di sbarco in un porto sicuro), “è un principio ancestrale che risale all’Odissea”, ricorda l’altro pm Calogero Ferrara. Estendendo il concetto: “Anche il terrorista e il trafficante di uomini non possono essere lasciati in mare; uno Stato democratico è diverso dai criminali, prima li salva e poi li processa”. È un altro punto qualificante affrontato dall’accusa per contrastare la difesa di Salvini. Il divieto di approdo e di sbarco era giustificato dall’ipotetica presenza a bordo di terroristi o soggetti comunque pericolosi per l’ordine pubblico. Ma quella presenza, sottolinea Giorgia Righi, terzo magistrato del pool della Procura palermitana, era presunta e indimostrata: “L’ha ammesso lo stesso imputato, qui in aula, quando ha sostenuto che per lui era un automatismo; tutti i passaggi di navi con soggetti imbarcati senza il coordinamento dell’Italia erano considerati potenzialmente offensivi, anche in assenza di segnalazioni o ragioni specifiche”. Un motivo in più, secondo la ricostruzione dei pm, per considerare illegittimo il comportamento del ministro, consapevole di aver innescato “un iter criminoso” interrotto solo dall’intervento della supplenza della magistratura”, quando il procuratore di Agrigento ordinò il sequestro della nave e lo sbarco di tutti i migranti. Niente - almeno negli ultimi sei giorni di un’odissea che era cominciata il 1° agosto e quindi durava da venti, mentre le condizioni di salute e di sicurezza a bordo della nave si stavano facendo drammaticamente pericolose tanto che i migranti cominciavano a buttarsi in mare pur di toccare terra - giustificava il persistente rifiuto del ministro dell’Interno di concedere il Pos. Non il rifiuto da parte del comandante di andare in Spagna né quello di far scendere a Malta solo una parte dei migranti, perché non si poteva continuare a navigare per giorni né si potevano rischiare disordini a bordo. Bisognava solo rispettare le regole, e l’imputato s’è guardato bene dal farlo, concludono i pm. Chiamati a “difendere i confini del diritto”, a fronte di un imputato che invoca solo la difesa dei confini nazionali. Salvini chiama alla protesta dopo la vicenda Open Arms di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 15 settembre 2024 Con la richiesta di condanna a 6 anni dei pm di Palermo che hanno indagato sull’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini per la vicenda Open Arms, è scattata l’offensiva d’autunno della Lega, inaugurata con il video su sfondo nero profondo del vicepremier. Il processo diventa così l’occasione per chiamare i militanti alla protesta anche di piazza contro i “processi politici”. I tipografi abituali della Lega sono già allertati: a ore riceveranno i file dei volantini, con citazione di frasi della requisitoria dei pm, che saranno distribuiti nelle centinaia di gazebo che il partito sta organizzando per i prossimi fine settimana. Fino al 18 ottobre, quando la legale del segretario leghista - Giulia Bongiorno - terrà a Palermo la sua arringa difensiva. Per quel giorno, Salvini ha precettato i parlamentari: dovranno essere tutti di fronte al Tribunale, sfondo anche di una manifestazione di piazza. Una fragorosa iniziativa che, in un’intervista a Libero, Salvini ha spiegato così: “C’è una responsabilità politica della sinistra, che ha deciso di vendicarsi del sottoscritto mandandomi a processo. Un film già visto con Silvio Berlusconi e che stiamo vedendo - per certi aspetti - perfino con Donald Trump”. Non tutto il partito è d’accordo con una strategia tanto incendiaria, e chissà che cosa ne pensa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che è stato tutta la vita pm. Ma il vicepremier andrà dritto in questa direzione: “Faremo in modo - ha detto ai suoi uomini più fidati - che questa ingiustizia possa diventare un’occasione di consenso”. Anche in vista delle urne che si apriranno tra poche settimane in Emilia-Romagna, Liguria e Umbria. Con una sorta di “tanto peggio, tanto meglio”: la previsione, chissà quanto scaramantica, è infatti quella di essere condannato. Sullo sfondo resta una domanda. Giorgia Meloni ieri ha espresso la sua “totale solidarietà” a Salvini, ma sarà poi dell’idea di avere eventualmente un vice condannato, sia pure in primo grado? Giulia Bongiorno ieri ha commentato il processo in modo asciutto: “Non c’è una condotta Salvini sul banco degli imputati, c’è una linea politica”. Ma chi probabilmente interpreta lo spirito che il segretario vuole infondere ai sostenitori è Rossano Sasso, deputato pugliese e commissario del partito in Calabria, a lui vicinissimo: “In caso di condanna non colpirebbero soltanto Matteo Salvini ma un’intera comunità, migliaia di sindaci, di amministratori, di parlamentari, di militanti”. E dunque, “abbiamo il dovere morale di reagire a tutto questo, alle minacce dei giornalisti, alla vigliaccheria dei partiti di sinistra che autorizzarono il processo a un ministro e a un leader che fece semplicemente il suo dovere”. Per il segretario leghista, la campagna è cruciale. E un recupero elettorale alle Regionali ha anche il compito di favorire il congresso federale del partito che Salvini, alla riunione dell’altro giorno con deputati e senatori, è tornato a promettere entro la fine dell’anno. Attenzione: l’ultimo da candidato segretario, se è vero quel che ha detto ai suoi eletti. Qualcosa come: “Tornerò a chiedere il mandato per consolidare il partito e riportare tutti voi e anche altri in Parlamento. Poi, però, nel 2027 sceglierete qualcuno dei tanti giovani in gamba che tra di noi ci sono. Perché io comincio a essere stanco”. Il congresso federale entro l’anno non sarà semplice, perché tra il raduno di Pontida del 6 ottobre e la tornata elettorale del 17 e 18 novembre non rimane molto tempo. Soprattutto, ancora mancano congressi fondamentali come quello della Lombardia. Dove, tra l’uscente Fabrizio Cecchetti e il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo (e altri possibili), un candidato unitario al momento non c’è. Ma Romeo, giura chi lo conosce, non ha alcuna intenzione di fare passi indietro. Uno scontro mai visto tra toghe e governo di Marcello Sorgi La Stampa, 15 settembre 2024 Mai, forse, neppure ai tempi di Berlusconi - che comunque alla fine accettò ed espiò la sua condanna - lo scontro tra governo e magistratura aveva toccato punte così alte. Ed è la presidente del consiglio, non direttamente interessata al processo di Palermo, a difendere il suo vice, che dopo le richieste della pubblica accusa rischia ora una pena molto pesante, di sei anni. Talmente dura da chiedersi se davvero, da condannato, potrebbe tranquillamente continuare a svolgere il suo compito nell’esecutivo. All’epoca dei fatti - governo gialloverde Conte 1, Salvini ministro dell’Interno, talmente convinto di avere nelle vele il vento dell’opinione pubblica che pochi mesi dopo farà saltare il banco nella tragicomica crisi del Papeete - Meloni era all’opposizione. Il centrodestra, che per un soffio non aveva vinto le elezioni nel 2018, si era spaccato, con il leader della Lega che aveva sentito il richiamo della sirena populista ed era andato all’abbraccio dei 5 stelle. Con quali risultati, a partire dalla procedura d’infrazione europea per la mancata correzione dei conti, lo si ricorderà. E con una gara tra il Capitano leghista e l’allora capo politico pentastellato Di Maio a chi faceva la faccia più feroce contro i migranti naufraghi nel Canale di Sicilia. Se non fosse già così lunga la catena dei morti e del dolore, che si allunga ai tempi del governo attuale - basti solo un esempio: Cutro - si può dire che gli interventi della magistratura e della Guardia costiera in molti casi sono serviti soprattutto a limitare il numero delle vittime. La premier ieri nel post in cui ha difeso Salvini, facendo sua la posizione dell’ex-responsabile del Viminale imputato, ha detto che i magistrati non possono impedire al governo di espletare il proprio mandato popolare. Ma è da vedere che anche il cittadino più contrario all’immigrazione clandestina lo sia a tal punto da mettere in conto l’annegamento di donne e bambini, com’è purtroppo avvenuto troppo spesso negli ultimi anni. Oppure che preferisca la deportazione in catene dei clandestini in un Paese straniero, come prevede il progetto Albania di Meloni. Naturalmente, da un punto di vista pratico, nulla cambia per i magistrati di Palermo che devono giudicare Salvini. La giustizia farà il suo corso e in un tempo ragionevole il vicepresidente del consiglio riceverà la sua sentenza. Ciò che invece seguirà le parole della premier sarà un deciso peggioramento dei rapporti tra governo e magistratura, già incrinati dal progetto di separazione delle carriere del ministro Nordio, e dall’impossibilità di qualsiasi interlocuzione sulla riforma, destinata a influire in modo determinante sul ruolo e sul lavoro delle toghe. Nel giro di pochi giorni, dopo un’estate niente affatto tranquilla in cui d’improvviso hanno fatto irruzione i boatos non confermati su un’inchiesta su Arianna Meloni, sorella della premier, e le dimissioni del ministro Sangiuliano per le accuse di una sua mancata consulente, coinvolta in un turbinoso affaire di cuore, anche ieri la giornata era stata segnata dall’esplosione dello scontro tra il ministro Crosetto e i vertici dei servizi di sicurezza. Vicenda assai delicata, che il sottosegretario Mantovano e lo stesso Crosetto hanno provato a silenziare. Ma anche qui: un tale conflitto tra l’esecutivo e gli apparati di sicurezza che avrebbero il compito di proteggerlo non s’era mai visto. La sensazione insomma è quella di un governo che si getta a capofitto contro ogni ordine e corpo separato dello Stato, non appena ha la sensazione, solo la sensazione, che voglia o possa rallentare la sua marcia. Questa tendenza al conflitto, questa voglia di guerriglia quotidiana mal si conciliano con il consenso stabile o crescente confermato dai sondaggi verso Meloni e il destra-centro Così che viene da dire: calma! Nessuno ignora la difficoltà del lavoro della premier e dei ministri Salvini e Crosetto, né intende sminuirla. Ma non pensano che il compito principale di un governo sia di dare un po’ di serenità al proprio Paese? L’horror show che non finisce da solo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 settembre 2024 Non c’è solidarietà umana né lealtà di coalizione dietro la sguaiata difesa che Meloni fa di Salvini, accusato di un reato assai grave, compiuto e rivendicato sotto gli occhi dell’opinione pubblica quando il capo della Lega era in una stanza a palazzo Chigi e l’attuale presidente del Consiglio all’opposizione. Ogni giorno e in ogni occasione possibile, che si tratti di nomine o scelte politiche importanti, i due si danno infatti battaglia in una perenne campagna elettorale all’interno dello stesso bacino di consenso. Sono altre le ragioni che spingono la presidente del Consiglio a stracciare ancora una volta quella veste istituzionale che proprio non le si adatta. Innanzitutto la condivisione che i migranti vanno intesi prima di tutto come carne da propaganda, una minaccia che non esiste sul piano della realtà ma che funziona benissimo, ha sempre funzionato, in campagna elettorale. Poi c’è il disprezzo per qualsiasi cosa possa anche solo alludere alla separazione dei poteri. Nel momento in cui la premier disegna un’architettura istituzionale centrata sul potere assoluto di un’eletta dal popolo è del tutto coerente che ribadisca come nessun controllo di legalità potrà mai essere tollerato. E infine c’è la conferma dell’unica “politica” che questa destra è in grado di immaginare di fronte a un fenomeno come quello delle migrazioni che nessuna mitragliata di decreti sempre meno costituzionali è in grado di affrontare seriamente. La “politica” della paura che se vale per gli elettori in patria deve valere anche per chi si mette in viaggio per sopravvivere: meglio che non ci tentiate. La presidente del Consiglio che qualche anno fa suggeriva di sparare dall’alto sui barconi, il cui ministro dell’interno non si è fatto scrupolo di dare la colpa delle morti nelle traversate agli stessi morti, vede chiaramente nella ferocia di Salvini che ai tempi del primo governo Conte lasciava i migranti in una prolungata condizione di sofferenza la ragionevole anticipazione delle sue deportazioni in Albania. Meglio che non ci tentiate. Crudele, ma anche inefficace. Così come non basta un video fuori da ogni grammatica istituzionale e dai toni allucinati ad allontanare il rischio di una condanna per il vice presidente del Consiglio. Che è tutt’altro da escludere e che sarebbe un’ulteriore problema per il governo. Qui il discorso deve però allargarsi. Perché se mettiamo in fila i nomi che raccontano tutti i guai della destra al potere, Salvini è solo l’ultimo. Prima ci sono quelli di Sangiuliano, Lollobrigida, Delmastro, Toti, Santanchè e sicuramente dimentichiamo qualcuno. Nessuno di questi nomi parla di un’iniziativa dell’opposizione per mettere in difficoltà l’altra parte. La destra si fa male da sola, spesso semplicemente essendo se stessa. Anche perché il centrosinistra non tocca palla, ancora in attesa di definirsi dopo il suicidio elettorale, dal quale però sono passati ormai due anni. Tanto da non escludere in alcune sue componenti, dopo la riapparizione di Draghi, nemmeno la speranza di un nuovo colpo di palazzo con un non nuovo protagonista. Nel frattempo l’opposizione si limita ad assistere allo spettacolo dei disastri altrui. Spettacolo orrendo, ma che può persino peggiorare e non è detto duri poco. Milano. Raccolto da terra ed aiutato a mangiare, la solidarietà dei detenuti per Vallanzasca di Manuela D’Alessandro agi.it, 15 settembre 2024 Nel provvedimento di scarcerazione e trasferimento presso una Rsa, è evidenziato il ruolo di quei compagni di cella del carcere di Bollate, definiti dai giudici “caregiver”, che hanno assistito e supportato l’ex boss non appena si sono manifestati i primi segni di demenza. Nell’ultima parte della storia di Renato Vallanzasca in prigione, quella del declino che ha portato i giudici a farlo uscire dopo 52 anni, c’è una storia di solidarietà da raccontare. I protagonisti sono alcuni detenuti, definiti dai giudici “caregiver”, che lo hanno aiutato nel carcere di Bollate da quando ha iniziato a manifestare i primi segni della demenza alla totale perdita dell’autonomia. Tino Stefanini, l’ex esponente della ‘mala della Comasina’ che spesso visitava l’amico in carcere, racconta all’AGI che “lo raccoglievano da terra quando cadeva dal letto, lo aiutavano a mangiare, lo accompagnavano nei suoi spostamenti sempre più difficili, non solo da quando era nel reparto infermeria ma già da quando si sono manifestati i primi segni della malattia”. In cella chi assiste i compagni ammalati o non autosufficienti viene definito ‘piantone’. E della loro presenza parlano anche gli atti giudiziari richiamati nell’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza ha stabilito il differimento della pena ai domiciliari in una Rsa per il bandito in carcere da più di un mezzo secolo per scontare quattro ergastoli per omicidi, rapimenti ed evasioni. Ne accennano gli avvocati Corrado Limentani e Paolo Muzzi nell’istanza accolta dai giudici riferendosi a due reclusi “che si alternano nel sostenerlo” pur non avendo “le competenze medicali necessarie” e considerando che “il carcere non è una struttura attrezzata a sostenere soggetti colpiti da demenza”. Nella relazione sanitaria dell’istituto di Bollate si riporta anche la testimonianza del “piantone che riferiva che il paziente cammina avanti indietro per il corridoio” aggiungendo particolari sul suo stato di salute che hanno contribuito a verificare che il suo stato di salute fosse effettivamente “incompatibile col carcere”. La giudice Carmela D’Elia, che firma il provvedimento di scarcerazione, scrive del “visibile stato di prostrazione dei caregiver attuali, non formati e preparati nella gestione del paziente”, una delle ragioni per cui viene disposto il trasferimento in un luogo di cura. Difficile che Vallanzasca possa salutare e ringraziare chi l’ha sollevato più volte da terra, non essendo probabilmente in grado di riconoscerli, quando, sbrigati gli atti amministrativi di queste ore, uscirà dal carcere. Torino. Abuso d’ufficio, ora è raffica di assoluzioni di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 15 settembre 2024 Prime sentenze sul reato cancellato. C’è l’agente della penitenziaria che rifila un ceffone a un ragazzo nel carcere minorile “Ferrante Aporti”; il carabiniere che molla uno schiaffo a un’automobilista, alla fine di un diverbio per un controllo stradale; e c’è il poliziotto che maltratta, con le stesse non garbate modalità, un immigrato rinchiuso nel Cpr. Sembra l’incipit di una barzelletta, ma (purtroppo) non c’è molto da ridere: cos’hanno in comune? Tutti prosciolti - in episodi e procedimenti diversi, davanti al gup - con la formula imposta dall’ultima modifica legislativa: “non doversi procedere”, trattandosi di fatti non più previsti dalla legge come reato. Del resto, erano tutti accusati di abuso d’ufficio, reato abrogato dalla legge Nordio, entrata in vigore lo scorso 25 agosto. Va da sé, è stata la stessa Procura ad aver chiesto - correttamente - il proscioglimento per gli imputati, difesi, tra gli altri, dagli avvocati Enrico Calabrese e Carmine Ventura. Ovviamente, il punto non è appiccicare un giudizio sommario - e generico, quindi sbagliato - su comportamenti delle forze dell’ordine: poiché i procedimenti penali erano stati avviati dalle relazioni di servizio di colleghi presenti (e dal video di una telecamera nel caso del carcere); a riprova che, come in tutte le categorie, c’è chi sbaglia e chi fa il proprio dovere. Il punto sono le prime ricadute, pratiche, dell’abolizione dell’abuso d’ufficio. L’altra parte del racconto, oltre alla “paura della firma da parte dei sindaci”, che sarebbe poi una delle ragioni dietro la decisione del legislatore. Morale: condotte come quelle ipotizzate dalla Procura paiono abbastanza gravi, violando senza ragione diritti fondamentali altrui; di più, poste in essere da un rappresentante dello Stato. Non è tutto: quando simili comportamenti non sconfinino in vere e proprie violenze o minacce, o nel reato di lesioni (procedibile a querela), sarebbero stati sanzionabili solo a titolo di abuso d’ufficio, appunto. Insomma, dalla legge Nordio in poi, l’impressione è che tali condotte saranno da ritenersi quasi sempre penalmente irrilevanti, trattandosi spesso di abusi commessi nell’esercizio di poteri ampiamente discrezionali, come quelli di forze dell’ordine o di magistrati. Come peraltro avevano avvertito alcuni (inascoltati) accademici: abolendo l’abuso “a danno” si corre il rischio di abbandonare il cittadino alle angherie dei detentori del potere pubblico. Ci vuole una fede temeraria per non sospettare che la modifica legislativa, sul punto, non possa andare in contrasto con il principio di eguaglianza garantito dall’articolo 3 della Costituzione, e quello della possibilità di tutelare i propri diritti, enunciato dall’articolo 24 della Carta. Detto che assoluzioni per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio (per scambio di favori) sono arrivate anche nel processo “Bigliettopoli”, in quest’ultimo si affaccia una simile eventualità pure per il “traffico di influenze illecite” - previsto dall’articolo 346 bis del codice, anch’esso modificato dalla legge Nordio - come chiede, con un’articolata memoria, l’avvocato Mauro Anetrini. Nella sostanza, ora si parla di “mediazione illecita”, ovvero “finalizzata a indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato, dal quale possa derivare un vantaggio indebito”. Ma - sostiene il legale - in questo caso la mediazione sarebbe stata “astrattamente” riconducibile a un abuso d’ufficio, abrogato: ergo, non vi fu “mediazione illecita”. Alla prossima udienza, dopo le osservazioni della Procura, deciderà il tribunale. Torino. Devastazione e saccheggio, il pesantissimo reato a 11 baby carcerati per avere distrutto il Ferrante Aporti di Elisa Sola La Stampa, 15 settembre 2024 L’accusa per i ragazzi che alimentarono la sommossa la notte tra il 1 e il 2 agosto, le manette sono scattate in tutta Italia. Devastazione e saccheggio. È questo il reato, che prevede pene severe, contestato ad undici minorenni considerati organizzatori e promotori della rivolta scoppiata il primo agosto al Ferrante Aporti di Torino. Una sommossa durata dodici ore, nata con un primo rogo appiccato nella biblioteca del piano terra. E terminata con mazzate e colpi di spranghe ai computer degli uffici e ai lavandini dei bagni. Dopo quella notte di fuoco, il carcere minorile di Torino era stato dichiarato parzialmente inagibile. I detenuti erano stati trasferiti in altre Regioni. Oggi, dopo un’inchiesta complessa e svolta a ritmo record, la gip Roberta Vicini, accogliendo la richiesta del pm Davide Fratta e della procuratrice dei minori Emma Avezzù, ha ordinato 11 misure cautelari in carcere per i giovani detenuti coinvolti nella rivolta nell’istituto minorile Ferrante Aporti di Torino, lo scorso agosto. Oltre al reato di devastazione e saccheggio, i giovani arrestati devono rispondere anche di violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Le misure cautelari sono state eseguite in vari carceri minorili italiani, dove gli indagati erano stati trasferiti dopo i fatti. Le violenze all’interno del Ferrante Aporti scoppiarono la sera del 1° e il 2 agosto. I giovani diedero vita ai disordini, appiccando incendi e distruggendo celle e aule. Alcune immagini di quanto stava accadendo nel carcere minorile vennero pubblicate su Tik Tok, grazie all’uso illegale da parte dei detenuti di smartphone. Una ventina di giovani erano finiti sotto inchiesta per la rivolta, che era nata - come avevano appurato gli investigatori e la polizia penitenziaria - per tentare la prima evasione di massa di tutti i detenuti dell’istituto minorile. Quella notte, per favorire la fuga dei minorenni, anche i carcerati del Lorusso e Cutugno avevano dato vita a una rivolta, con l’obiettivo di distrarre e disperdere le forze dell’ordine. I poliziotti avevano chiesto rinforzi, arrivati con il passare delle ore da tutta Italia. Per loro non era stato possibile accedere subito all’interno del Ferrante Aporti, non appena la sommossa era iniziata, perché erano soltanto una decina. Bari. Droghe, l’importanza della prevenzione tra i giovani detenuti di Emiliano Moccia vita.it, 15 settembre 2024 Intesa Sanpaolo e San Patrignano hanno promosso il progetto “WeFree Dentro” nell’istituto penitenziario per minorenni di Bari. Un’iniziativa pilota per avviare percorsi nelle carceri attraverso incontri, testimonianze e condivisioni tra chi è uscito dalla dipendenza ed i giovani reclusi. Raccontano la loro esperienza personale. Le difficoltà, le cadute, la voglia di reagire, la ripresa. Il loro ritorno alla vita normale. La raccontano a ragazzi oggi ristretti nel carcere minorile di Bari. Portano in scena la loro storia attraverso varie forme di linguaggio, come teatro, movimento, workshop, incontri. Perché quel tunnel oscuro delle dipendenze lo hanno conosciuto anche loro quando erano più giovani. Ma ne sono venuti fuori e adesso condividono la loro esperienza facendo capire quanto siano importanti le scelte di ogni giorno. Quanto sia prezioso riprendere per mano la propria vita. Per questo, nell’istituto penitenziario per minorenni “Nicola Fornelli” ha preso il via l’iniziativa pilota per la prevenzione delle tossicodipendenze “WeFree Dentro: prevenzione e legalità per costruire un futuro”, il progetto promosso e realizzato da Intesa Sanpaolo e San Patrignano, che in questo format vede i suoi educatori confrontarsi con i giovani detenuti proponendo loro attività mirate e condividendo le proprie esperienze di vita. Intesa Sanpaolo da tanti anni realizza progetti rivolti al mondo delle carceri e alla prevenzione dalle dipendenze insieme alle più importanti realtà italiane del Terzo settore. Come la comunità di San Patrignano che in questi anni ha incontrato studenti, famiglie, educatori per attivare percorsi di prevenzione dalle dipendenze. “Il progetto si chiama “WeFree Dentro” perché abbiamo deciso di portare questo format dal mondo della scuola a quello degli istituti penitenziati per minori. L’intervento di Bari fa parte di un progetto più ampio che ci vede presenti all’interno di diverse carceri italiane per dare il nostro contributo a superare le condizioni difficili e critiche che vivono questi luoghi. Allo stesso tempo, sosteniamo l’impegno di San Patrignano nelle azioni di prevenzione e di reinserimento sociale dei soggetti più fragili. “WeFree Dentro” tiene insieme queste due anime, favorendo degli incontri tra i testimoni di San Patrignano ed i giovani detenuti del carcere, in uno scambio di esperienze e di storie”. Paolo Bonassi è chief social impact officer di Intesa Sanpaolo. Ha partecipato con coinvolgimento al lancio dell’iniziativa nel carcere minorile di Bari, scandito da una giornata di attività e di riflessioni sul tema delle devianze e delle dipendenze, dall’ascolto delle voci dei giovani detenuti che hanno condiviso le loro fragilità, le loro cadute, le loro paure. “? stata un’esperienza molto bella, molto interessante. ? stata un’occasione non solo per presentare il progetto, ma anche per sollecitare i ragazzi a riflettere sulla loro vita, sulla forza che devono avere in questo periodo di detenzione, sulla loro capacità di costruire un futuro migliore rispetto al passato e a quello che stanno vivendo” dice Bonassi. “Quello che è emerso dai loro racconti è la conferma che le disuguaglianze sono un grande fenomeno di ingiustizia sociale e di impedimento di sviluppo della società. Troppo spesso il nascere in determinati contesti familiari o sociali può determinare la vita delle persone, in questo caso dei ragazzi. Per fortuna ci sono carceri, come quello di Bari guidato da un direttore illuminato, che avviano tante iniziative che aiutano i giovani a capire che si può andare oltre, che c’è sempre una possibilità”. Per comprendere l’esigenza di attivare percorsi di prevenzione tra i giovani anche all’interno degli istituti penitenziari, è importante guardare i numeri. Lo scorso anno si è registrato un aumento del 10% di minorenni denunciati all’Autorità giudiziaria per reati penali droga-correlati. Dati che vanno a sommarsi con quelli dell’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024, secondo cui sono quattro su dieci i giovani tra i 15 e i 19 anni che, nel 2023, hanno fatto almeno una volta uso di sostanze stupefacenti. E le due sostanze più usate dagli adolescenti sono l’alcol e la cannabis. Per questo, c’è bisogno di parlare, di fare prevenzione, di condividere storie e testimonianze positive in un intreccio di destini, per far comprendere che è possibile superare le difficoltà e le dipendenze. “L’obiettivo è sperimentare un nuovo approccio a supporto dei minori per offrire loro strumenti utili a riscoprire le proprie potenzialità, a superare le fragilità e a uscire dalle dipendenze, che sempre più fra i giovani e a volte nell’ambito degli istituti carcerari si esprimono a volte in dipendenze da psicofarmaci” spiega Antonio Boschini, responsabile terapeutico di San Patrignano. ““WeFree Dentro” si rivolge ad una fra le categorie più fragili del nostro Paese, per costruire percorsi di possibile uscita dall’emarginazione e dall’esclusione sociale”. Nel corso della giornata, quindi, si è svolto anche il primo incontro fra i giovani detenuti dell’istituto minorile di Bari con i testimoni della Comunità San Patrignano, che hanno messo in scena il format “Snodi”, a cui ha fatto seguito un workshop con la presenza del ballerino Carmelo Trainito. “La prevenzione primaria è quella che veramente interviene prima che i fenomeni della dipendenza patologica provochino i danni che conosciamo” evidenzia Nicola Petruzzelli, direttore dell’istituto penale per minorenni “Fornelli”, da cui parte il progetto pilota per la prevenzione delle tossicodipendenze. “WeFree Dentro”, però, non è il primo intervento che Intesa San Paolo dedica al carcere pugliese. “In questi anni abbiamo sostenuto la cooperativa Semi di Vita che gestisce diversi beni confiscati alla mafia in cui svolge attività di agricoltura sociale, coinvolgendo nelle attività lavorative anche i giovani dell’istituto minorile “Forcelli”, che ospita una serra in cui si coltivano cardoncelli ed è presente un essiccatoio” aggiunge Bonassi. “Lo scorso anno, invece, abbiamo sostenuto “Meta Insieme”, una settimana di sport condotta dall’ex campione di rugby Diego Dominguez, che ha coinvolto i ragazzi del carcere con interventi di promozione dei valori del rispetto delle regole, della legalità, dello stare insieme, dell’affermazione dell’importanza della determinazione nel perseguimento di un obiettivo”. Infine, sempre in tema di inclusione sociale dei detenuti, “Intesa Sanpaolo affianca Caritas italiana con il programma “Aiutare chi aiuta”, che sollecita le 220 Caritas diocesane a presentare progetti dedicati a giovani e adulti del circuito carcerario e al sostegno delle loro famiglie” conclude Bonassi. “Si tratta di un intervento che si sviluppa attraverso il contrasto alle povertà materiali, all’attivazione di percorsi di formazione per favorire l’occupabilità e alla promozione dei valori della legalità” Napoli. Il convegno “Criminalità tra carcere, violenza e giustizia ripetitiva” di Fiorangela d’Amora Il Mattino, 15 settembre 2024 L’incontro a Castellammare organizzato da un pool di avvocati. La situazione delle carceri in Italia, l’analisi fatta da addetti ai lavori. Si è tenuta a Castellammare, presso la sala convegni dell’Hotel Stabia il convegno “Criminalità tra carcere, violenza e giustizia ripetitiva”. Tra i relatori Irma Conti, garante nazionale delle persone private della libertà: “La situazione precaria delle carceri è cronica e non è una emergenza solo di questi ultimi anni - ha detto l’avvocato Conti - vanno implementate le assunzioni nella polizia penitenziaria, anche perché quelle fatte in questi anni servono solo a coprire i pensionamenti. Attualmente in Italia ci sono 61mila detenuti, un numero sproporzionato rispetto agli addetti alla sicurezza. Il carcere deve essere un luogo per il recupero, e questo non va mai dimenticato. Tempo fa ho incontrato un ergastolano ad Oristano che si era laureato. Mi disse che il carcere aveva fatto il suo dovere ed ora, grazie a questa possibilità, i suoi figli l’avrebbero ricordato non solo per quello che ha fatto ma soprattutto perché si era laureato. Oggi occorre puntare sull’implementazione della giustizia riparativa. Bisogna farlo per le carceri, per i detenuti e soprattutto per la società”. L’incontro è stato organizzato dallo studio legale Paolillo & Partner che ha inteso concentrarsi sull’attuale situazione esplosiva, aggiornato colleghi ed esperi “per i crescenti episodi gravi di cronaca - ha spiegato l’avvocato Andrea Paollilo - che si sono verificati nelle carceri”. “Poggioreale è un girone dell’inferno - ha commentato la deputata Annarita Patriarca, intervenuta al convegno - Nei mesi scorsi abbiamo visitato gli istituti penitenziari nel sud Italia. A Poggioreale ci sono stanze con 12-13 detenuti, con letti a castello da tre. Una situazione da migliorare. Il problema numero uno è sicuramente il sovraffollamento. A Poggioreale ci sono attualmente 2.060 detenuti per un carcere che ne può contenere 1300 considerando la chiusura di un padiglione per lavori che si concluderanno tra tre anni”. Presente anche la direttrice del centro penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano, la dottoressa Giulia Russo: “Nelle carceri noi dobbiamo rieducare e risocializzare e per essere credibili bisogna puntare da una cosa semplice: la quotidianità - ha detto Russo - A Secondigliano abbiamo distribuito 300 frigoriferi, cambiato le televisioni e sostituito 680 materassi. Per il reinserimento abbiamo allestito delle sale di formazione lavorativa e nel 2018 abbiamo firmato un protocollo d’intesa con la Federico II. Oggi sono iscritti ai corsi 80 detenuti e 8 di questi sono laureati”. A concludete gli interventi Angelica Di Giovanni, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli: “Nel 2010 scrivevo che la confusione totale che accompagna le istituzioni del diritto penale risolvendosi in un’incertezza del diritto della pena costituisce il nocciolo della crisi che il nostro sistema del diritto penale sta attraversando. Non è cambiato molto da allora. Resta immutata la domanda di base ancora oggi: stare dalla parte di Abele o recuperare Caino? In questo paese tutti hanno ragione e tutti hanno diritto a tutto. Per dirla alla giuridichese: nella corsa all’ultima garanzia, l’unico a non essere garantito è lo Stato”. Milano. Carcere e società s’incontrano alla Tenda di Mamre di Emilia Flocchini chiesadimilano.it, 15 settembre 2024 Domenica 15 settembre, nella parrocchia di Maria Madre della Chiesa, inaugurazione di un luogo d’incontro tra detenuti in permesso, comunità cristiana e società civile. A rappresentare l’Arcivescovo, monsignor Vegezzi e monsignor Bressan. Dopo quasi un anno dal lancio, La Tenda di Mamre, luogo d’incontro tra il mondo del carcere e le persone esterne, è pronta per l’inaugurazione. Domenica 15 settembre, dalle 16, gli spazi della parrocchia di Maria Madre della Chiesa a Gratosoglio, dove fino al 2022 viveva una comunità di Suore di Maria Bambina, saranno ufficialmente aperti, anche se l’accoglienza dei detenuti in permesso è già iniziata. Le autorità religiose e civili e hanno garantito la loro presenza. A rappresentare l’Arcivescovo di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi, Vescovo ausiliare e Vicario episcopale per la Zona I, e monsignor Luca Bressan, Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale. Caritas Ambrosiana ha seguito da vicino i lavori, anche con una visita del presidente Luciano Gualzetti, e li ha sostenuti economicamente. Quanto alle autorità civili, sarà presente il direttore dell’Istituto penitenziario di Opera Silvio Di Gregorio, affiancato da esponenti del Municipio 5. Più soli fuori che dentro - Cristina Ragonesi, che col marito Renato Mauri fa parte della squadra che ha seguito il progetto de La Tenda di Mamre, si è resa conto che le persone in carcere hanno un profondo bisogno di relazioni: “Spesso la persona detenuta che ottiene un permesso è più sola fuori che dentro il carcere: l’idea è affiancare dei volontari, in modo tale che questa solitudine sia ridotta anche in operazioni semplici, come prendere i mezzi pubblici, in cui vanno seguiti quanti, per esempio, stanno vivendo una pena particolarmente lunga”. Una boccata d’aria fresca - La Tenda di Mamre comprende cinque stanze, di cui tre attrezzate con letto doppio, una con uno singolo e una nella quale si è trasferito don Francesco Palumbo, uno dei cappellani di Opera, vicario parrocchiale a Maria Madre della Chiesa. In tempi nei quali la situazione carceraria vede rivolte, incendi, suicidi, l’iniziativa della Tenda appare come una boccata d’aria fresca, non solo perché concede ai detenuti in permesso di assaporare un po’ della vita oltre le sbarre. “Io sono lì come diacono permanente - commenta Roberto Buzzi, da tre anni membro della Cappellania di Opera - ma non ero diverso da loro: certo, ho fatto scelte diverse da loro, ma le potenzialità ci sono, e sono molto grandi”. Il programma - Nel pomeriggio del 15 settembre sarà quindi possibile iniziare a riconoscere quali di queste potenzialità sono già in atto. Dopo gli interventi delle autorità, dalle 17 saranno aperti alcuni punti d’informazione. In una sala dell’oratorio di Maria Madre della Chiesa sarà allestita la riproduzione di una cella carceraria, visitabile per capire come si vive effettivamente al suo interno. In un altro punto si ascolteranno alcune persone che vivono il carcere, mentre in un altro ancora saranno illustrate le opportunità che Milano offre perché le persone detenute ricomincino a vivere. Dalle 18.30, infine, sarà aperta una piccola paninoteca, dove mangiare e ascoltare altri racconti dal carcere. “Queste persone contengono in sé infiniti mondi - sostiene don Palumbo -. Questo luogo li farà incontrare, anzi, lo sta già facendo, con il mondo che le circonda”. La Tenda di Mamre si trova in via Michele Saponaro 28/a e aspetta sempre nuovi volontari e persone che intendono incontrare i suoi ospiti. Per questa ragione e per richiedere altre informazioni, è attivo l’indirizzo di posta elettronica latendadimamre@tim.it. Andria (Bat). I taralli fatti dai detenuti acquistati dalla “Saint Pio Foundation” del Vaticano di Aldo Losito Gazzetta del Mezzogiorno, 15 settembre 2024 I taralli realizzati e commercializzati nell’ambito del lavoro “A Mano Libera-Senza Sbarre”. “A mano libera-Senza sbarre” ideato dall’associazione San Vittore della Diocesi di Andria. Cresce e acquista sempre più valore il progetto “A mano libera-Senza sbarre” dell’associazione San Vittore della Diocesi di Andria. Da anni, infatti, la masseria San Vittore è diventata il quartier generale del programma, che offre il carcere alternativo ai detenuti impegnati nel reinserimento sociale. La “Saint Pio Foundation” acquisterà i taralli realizzati e commercializzati nell’ambito del lavoro “A Mano Libera-Senza Sbarre”. Proprio i taralli e altri beni provenienti dalla masseria andriese, saranno al centro di una nuova collaborazione avviata tra la “Saint Pio Foundation” e l’”Elemosineria Apostolica”. È stato il cardinale Konrad Krajewski, che dirige l’Ufficio della Santa Sede preposto ad esercitare la carità verso i poveri, a comunicare questa notizia a don Riccardo Agresti, autentico motore trainante di questo progetto di riscatto sociale e di reinserimento per i detenuti, divenuto negli anni un vero e proprio modello nazionale, apprezzato e sostenuto da istituzioni laiche e religiose. A Roma, presso il Vaticano, nei giorni scorsi, don Riccardo ha incontrato il delegato di Papa Francesco che gli ha assicurato, grazie ai buoni auspici di Luciano Lamonarca fondatore della “Saint Pio Foundation”, la fornitura dei prodotti della masseria per circa tremila assistiti dall’”Elemosineria Apostolica”. Una delle operazioni di sostegno avviate proprio dalla fondazione intitolata a San Pio, è denominata “Miglio Verde” ed è rivolta a coloro che cercano la redenzione e sono disposti a rimettersi in gioco, dimostrando agli altri che si può imparare dagli errori. Di fatto lo stesso intento alla base del progetto “A Mano Libera-Senza Sbarre”, che ha visto nel vescovo Luigi Mansi il suo convinto assertore, ed ha avuto in don Riccardo Agresti, la forza, il coraggio, il pragmatismo e soprattutto la fede nel prossimo, nel portarlo quotidianamente avanti, pur tra mille difficoltà. Ius soli per costruire il futuro di Emma Bonino La Repubblica, 15 settembre 2024 La cittadinanza per i maggiorenni cittadini di Stati non appartenenti alla Ue? Non dovrebbe essere il regalo del “Principe”, ma un diritto. Aiuta ordine, sicurezza e legalità. In Italia dal 1992 è in vigore una legge per cui un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri può richiedere la cittadinanza quando ha compiuto 18 anni, a condizione di essere stato residente legalmente e senza interruzioni dalla nascita. C’era una proposta di riforma approvata nel 2015 alla Camera e mai arrivata in Senato. Da allora, sono stati fatti pochi altri tentativi, tutti falliti; per mere ragioni elettorali è mancato il coraggio e l’argomento è stato chiuso in un cassetto, ignorando i milioni di stranieri che vivono, studiano e lavorano in Italia, che non vedono riconoscersi la cittadinanza che tanto vorrebbero per poter assolvere anzitutto ai doveri che questa comporta. Ecco perché, già prima dell’estate, con il Segretario di +Europa, Riccardo Magi, ragionavamo se, grazie alla piattaforma governativa per la raccolta firme on line per i referendum, non fosse il caso di avanzare una proposta chiara, dirompente sulla cittadinanza. D’altronde, dopo lo stop all’emendamento sullo ius scholae nel ddl sicurezza, con la significativa retromarcia di Forza Italia, non rimane che prendere atto che anche in questa legislatura la via parlamentare è preclusa. Ecco perché è oggi importante più che mai seguire la strada referendaria di un quesito che nasce dall’interlocuzione tra le reti che lavorano sul tema e molte altre associazioni e partiti. La proposta è molto semplice: dimezzare da dieci a cinque gli anni necessari per poter chiedere la cittadinanza italiana per loro stessi e per i loro figli minorenni, allineando di fatto l’Italia ad altri Paesi europei. Per il resto, resterebbero invariati gli altri requisiti già stabiliti dalla normativa vigente ai fini della concessione della cittadinanza, come la conoscenza della lingua italiana, il possesso di adeguate fonti economiche, l’idoneità professionale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica. In Italia le persone in possesso di questi requisiti sono circa 2,3 milioni, ai quali si aggiungerebbero circa altre 500 mila persone, ovvero i loro figli e le loro figlie, a cui sarebbe estesa la cittadinanza del genitore. Il dato numerico è impressionante, considerato che lo ius soli puro riguarderebbe circa un milione di persone, mentre lo ius scholae solo mezzo milione. È un referendum che ci interroga sul futuro del Paese, perché riguarda persone che vivono, studiano e lavorano come tutti gli altri italiani ma a cui, per una legge che nessuno in questi anni ha voluto modificare, è precluso poter partecipare, ad esempio, a programmi di studio come l’Erasmus o a concorsi pubblici. C’è anche un altro aspetto, tra i tanti altri. E riguarda l’inverno demografico che sta attraversando il nostro Paese. E non è solo una questione di natalità ma anche di tenuta dei conti pubblici. Lo stesso governo Meloni aveva sottolineato nel Def 2023 l’impatto positivo dell’immigrazione sulla sostenibilità del debito, evidenziando l’effetto significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull’offerta di lavoro. Non è dunque solo una battaglia progressista che dovrebbe interessare tutti i partiti politici che si definiscono tali, ma una riforma che serve per l’immediato futuro dell’Italia. Mancano davvero pochi giorni. Servono 500 mila firme entro il 30 settembre. L’invito che faccio a tutte e tutti è di firmare e mobilitarsi su www.referendumcittadinanza.it. Per un’Italia più giusta, più aperta, più reale. Torture, Israele dica no a ogni cedimento di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 15 settembre 2024 Punizioni e violenze nei confronti di terroristi reclusi. L’ex primo ministro Bennett: “Vogliamo uno Stato qui o delle milizie che fanno quello che vogliono?”. La guerra è guerra e malgrado lo si neghi durante un conflitto casi di torture di prigionieri non mancano quasi mai. Non ne mancarono, e non fu un onore, neppure durante la giusta lotta del nostro Paese contro il terrorismo negli anni Settanta. Questo tuttavia conferma e non riduce il valore fondamentale dei progressi che nel mondo le democrazie, gradualmente, hanno compiuto decidendo di non ritenere più legali i mezzi violenti di punizione e di interrogatorio che erano ordinari in secoli precedenti verso reclusi e inquisiti. È dunque motivo di preoccupazione e indignazione quanto accaduto in Israele, a fine luglio, quando gruppi di contestatori di estrema destra hanno fatto irruzione nella base di Sde Teiman chiedendo il rilascio di nove militari arrestati con l’accusa di aver sottoposto a violenza sessuale un ufficiale della polizia di Hamas catturato. Alcuni dei manifestanti sono riusciti a raggiungere il luogo di detenzione dei nove. Il New York Times ha riferito che tra i contestatori rientravano tre parlamentari della coalizione del governo di Benjamin Netanyahu. Secondo la rete AbcNews erano coinvolti nelle proteste anche un paio di ministri. Stando al Jerusalem Post, uno. La prima testata ha riferito che a un parlamentare del Likud, Hanoch Milwidsky, altrove è stato chiesto se fosse accettabile abusare sessualmente di un detenuto e la sua risposta è stata di sì: “Se lui è Nukhba, tutto è legittimo da fare. Tutto”. Nukhba è un’unità di élite di Hamas che ha la responsabilità di numerose delle 1.200 feroci eliminazioni di israeliani compiute il 7 ottobre. Legittimo è che le forze israeliane ne cerchino i componenti e li colpiscano in combattimenti a Gaza. Illegale e incivile è che essi vengano sottoposti ad abusi sessuali con mezzi di offesa se catturati. “Vogliamo uno Stato qui o delle milizie che fanno quello che vogliono?” è stata una domanda posta al Paese da un ex primo ministro israeliano di destra, Naftali Bennett. “Smettete di gettare benzina sul fuoco”, ha aggiunto riferendosi ai contestatori di Sde Teiman e a chi li appoggia. L’esercito aveva mandato due battaglioni a difendere la base. L’inchiesta sull’abuso sessuale durerà ancora. Nei giorni scorsi tre dei nove militari sono stati rilasciati e per cinque sono stati disposti brevi arresti domiciliari. Spesso le Nazioni Unite sono risultate sbilanciate contro Israele. Ma anche se fossero vere soltanto in parte andrebbero considerate le affermazioni recenti dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, l’austriaco Volker Türk, su centri di detenzione israeliani: “Le testimonianze raccolte dal mio ufficio e da altre entità indicano una serie di atti spaventosi, come il waterboarding (soffocamento con acqua interrotto prima delle estreme conseguenze, ndr) e il rilascio di cani sui detenuti, in flagrante violazione del diritto internazionale”. Il Servizio Prigioni Israele, la struttura di Stato, nega la veridicità di analoghi addebiti contenuti in rapporti di organizzazioni di volontariato. Allo stesso tempo rivendica che dopo il 7 ottobre “sotto la direzione del ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir le condizioni per i prigionieri di sicurezza in carcere sono peggiorate. In accordo con la politica del ministro, sono stati bloccati miglioramenti applicati in passato”. Hamas ha commesso crimini raccapriccianti. Tuttora a Gaza tormenta decine di ostaggi israeliani innocenti, la cui sola prigionia è di per sé barbara. In ottobre terroristi palestinesi (e alcuni civili, per modo di dire) usciti da Gaza hanno inflitto a ragazze e donne ebree stupri ricostruiti con dati di fatto dal documentario Urla prima del silenzio, Screams before silence, reperibile su Internet. Israele dunque ha l’indubbio dovere di difendere se stesso. Anche, di certo, da coloro che dall’interno collidono con la sua preziosa democrazia e con il suo Stato di diritto. Due anni dopo Mahsa non è morta. Il mondo resta con le donne dell’Iran di Antonella Mariani Avvenire, 15 settembre 2024 La giovane era stata picchiata perché non indossava il velo: spirò il 16 settembre 2022. Il padre chiede di poterla commemorare nel cimitero in cui è sepolta. Mentre prosegue la corsa allo spazio, lanciando in orbita il suo secondo satellite di ricerca, domani l’Iran si prepara a vivere una giornata che al contrario dei successi del Chamran-1, preferirebbe passasse sotto silenzio: il secondo anniversario della morte di Mahsa Amini, la giovane curdo-iraniana pestata a morte dopo l’arresto a Teheran perché non indossava in maniera appropriata il velo. Mahsa morì il 16 settembre, dopo tre giorni di agonia e da questo omicidio di Stato nacque il movimento “Donna Vita Libertà”, che portò nelle piazze centinaia di migliaia di persone per sfidare decenni di oppressione e discriminazioni di genere. Ciò che accadrà domani nelle città iraniane sarà un banco di prova per il nuovo presidente “moderato” Masoud Pezeshkian, impegnato in una campagna di ripulitura di immagine di cui ieri si è vista una dimostrazione con l’annuncio della trasformazione del famigerato carcere per detenuti politici di Evin, a Teheran, in un polo universitario “per trasmettere un messaggio positivo e di conciliazione alla comunità internazionale”, secondo le parole del vicepresidente Mohammed-Reza Aref, citato dall’agenzia Isna. A Evin è detenuta anche il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi. Da una parte le parole, dall’altra i fatti: la famiglia di Mahsa Amini in un messaggio inviato a Radio Farda hanno espresso l’intenzione di commemorare la figlia con una cerimonia “tradizionale e religiosa” nel cimitero in cui è sepolta, a Saqqez, nella provincia del Kurdistan, che per motivi di calendario si svolgerà oggi, “se non verranno imposte restrizioni”. L’anno scorso alla famiglia fu impedito di muoversi da casa, e il padre Amjad Amini era stato trattenuto dalle forze dell’ordine. La protesta contro la violazione dei diritti dei cittadini e in particolare delle donne non si è mai fermata. E nemmeno la repressione: Iran Human Right, Ong con sede in Norvegia, stima che oltre 500 dimostranti sono stati uccisi dalle forze dell’ordine dal settembre 2022, mentre gli arresti hanno superato i 19mila e almeno 10 persone sono state condannate a morte in relazione alle manifestazioni. Senza che fossero loro concessi processi giusti e una difesa adeguata. Secondo un report diffuso in questi giorni dalla Missione internazionale d’inchiesta delle Nazioni Unite, composta da esperti indipendenti, le donne vivono ancora da cittadine di “seconda classe” e le forze dell’ordine hanno aumentato le azioni repressive nei confronti di chi viola le prescrizioni relative all’hijab obbligatorio. Il Piano Noor (luce in iraniano), approvato lo scorso aprile, dà il via libera a controlli capillari delle pattuglie della polizia morale nei luoghi pubblici e perfino in ambienti privati come l’automobile, e non sanziona comportamenti violenti come schiaffi, percosse, calci. Il 22 luglio scorso agenti di polizia hanno sparato contro l’auto su cui viaggiava la 32enne Arezou Badri, che non indossava il velo. La giovane madre da allora è in coma. In agosto sui social media è circolato un video che mostrava diversi agenti che attaccavano violentemente due ragazze di 14 anni che si erano tolte il velo. Accade sempre più spesso: se le manifestazioni di piazza si sono attenuate, si moltiplicano gli episodi di disobbedienza civile a viso aperto: dottoresse che rifiutano di entrare in ospedale senza velo, artisti e scrittori che esprimono il dissenso con il proprio lavoro. Anche in Italia si preparano diverse manifestazioni per appoggiare la lotta degli iraniani e delle iraniane. Domani a Roma Amnesty International organizza una serie di incontri e manifestazioni con attivisti in esilio.