Ancora un suicidio dietro le sbarre, l’emergenza carceri non ha fine di Fulvio Fulvi Avvenire, 9 ottobre 2024 Detenuto si toglie la vita a Vigevano. Cresce il sovraffollamento. I casi di San Vittore, con metà reclusi affetti da disturbi psichici e degli istituti della Calabria, con il plexiglas sulle sbarre. Ancora un suicidio in carcere: è il 75esimo dall’inizio dell’anno. Si tratta di un detenuto di circa 40 anni di origini magrebine, con un residuo di pena di pochi mesi, che si è tolto la vita ieri sera impiccandosi nella sua cella nella Casa di reclusione di Vigevano, in provincia di Pavia. L’istituto, nonostante nuove attività lavorative interne organizzate per i reclusi lamenta un pesante sovraffollamento: su 218 posti disponibili c’è una presenza di 142 persone ristrette in più. E il numero degli agenti di polizia penitenziaria è fortemente sotto organico: ne mancherebbero 75, secondo il segretario generale della Uilpa di settore, Gennarino De Fazio, che denuncia anche la condizione di estremo disagio della categoria che ha portato al suicidio di 7 addetti alla sicurezza nei 192 istituti di pena italiani. L’emergenza dunque si aggrava, anche in relazione all’esubero complessivo dei reclusi che ammonta a 15mila e alla carenza del personale di polizia che, nonostante i concorsi indetti di recente dal ministero della Giustizia, è di oltre 18mila unità. Al macabro quadro che emerge vanno aggiunti una cinquantina di decessi di reclusi le cui cause sono ancora da accertare e i tentati suicidi che, secondo un Rapporto del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp) dal 1° gennaio ad oggi sono stati 1.022 e per diverse centinaia di casi è stato solo l’immediato intervento degli agenti a scongiurare altre vittime. Nello stesso periodo le evasioni e i tentativi di fuga sono aumentati del 700% mentre le aggressioni ai poliziotti hanno raggiunto quota 1.950 con le carceri della Campania a tenere il drammatico primato, seguite da Lombardia e Lazio. Le manifestazioni di protesta collettive, sempre secondo il Rapporto del Spp, ammontano finora a 752, i ferimenti a 386 e le colluttazioni a 2.803. Insomma, le tensioni all’interno delle strutture sono a un livello mai raggiunto. E ci sono nuove situazioni esplosive che vengono denunciate dai Garanti regionali per le persone private della libertà o da associazioni di volontariato sociale: in Sardegna, per esempio, il sovraffollamento è arrivato all’83%: i detenuti nei 17 istituti penali sono in totale 2.128 uomini e 50 donne che risultano ammassati e in condizioni poco dignitose e con il diritto alla salute non sempre garantito a sufficienza. Grave è l’emergenza a Milano San Vittore dove sui 1.177 detenuti presenti nel mese di giugno (secondo un dossier pubblicato da Antigone), di fronte a una capienza regolamentare di 450, più della metà sono affetti da un disturbo psichico o psichiatrico. E a Firenze Sollicciano la situazione è “a un punto di non ritorno” come ha sottolineato la direttrice del carcere, Antonella Tuoni: “il nostro carcere è un contenitore dove si alimenta la recidiva”. Un grido di allarme arriva pure dalla Calabria, dove il garante Luca Muglia si è rivolto alle competenti commissioni della Regione e del Senato lamentando, tra gli altri disservizi rilevati nelle 15 carceri, la presenza di schermature in plexiglas sulle sbarre delle finestre delle camere detentive in alcune sezioni delle carceri di Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia: ciò rappresenta “una violazione dei diritti umani fondamentali - afferma il garante - perché nella scorsa estate hanno innalzato a dismisura le temperature delle camere detentive togliendo, in alcuni casi, l’aria e la luce necessarie determinando una cattiva aereazione e cattive condizioni igienico-sanitarie”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto per questo, la sussistenza di “trattamenti disumani e degradanti e la violazione dell’art. 3 della Convenzione”. Il futuro oltre il carcere. Senza casa e lavoro non è possibile ricominciare di Federica Pennelli Il Domani, 9 ottobre 2024 Il tempo che non passa mai, l’assenza di una visione nitida del proprio fine pena unita a tormenti e preoccupazioni su come ricominciare quando si uscirà. In un presente in cui le carceri italiane sono al centro di rivolte, nate dalla rabbia per le condizioni disumane di detenzione peggiorate dal sovraffollamento, e in cui i detenuti muoiono o scelgono di ammazzarsi, il tema del dopo resta al centro dei pensieri di molti. Le domande sono molte: Cosa farò quando uscirò? Dove vivrò? Come farò a trovare un lavoro se non ho soldi e un posto dove tornare? Dopo anni di battaglie di associazioni e cooperative impegnate nella promozione di misure alternative al carcere, alcune risposte sono arrivate. Il Terzo settore è in prima linea per ridurre le disuguaglianze nell’accesso a una vita degna per le persone che stanno finendo di scontare la pena all’esterno del carcere. Ma all’interno sopravvivere è sempre più difficile. Il caso della cooperativa Città Solare di Padova Il progetto - La cooperativa Città Solare di Padova ha messo a disposizione, all’interno di un progetto di fine pena per persone detenute, quattro unità abitative presenti sul territorio della città e un’equipe di operatori sociali per il reinserimento delle persone nel post detenzione in carcere. L’iniziativa, finanziata dalla Cassa delle Ammende (ente del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che sostiene i programmi di reinserimento a favore dei detenuti) è promossa dalla regione Veneto tramite un percorso di coprogettazione. L’obiettivo è quello di fornire contesti protetti in grado di tutelare chi, in seguito all’ordinanza del magistrato di sorveglianza, esce dalle carceri di Padova (circondariale e di reclusione) per intraprendere un percorso alternativo di detenzione ed essere accompagnato alla fine della pena. “Abbiamo messo a disposizione quattro alloggi che ospitano 12 persone - dice Mauro Anselmi, coordinatore del progetto - Le unità abitative hanno al massimo tre persone al loro interno” e sono coordinate dal magistrato di sorveglianza che dà l’autorizzazione all’uscita dal carcere per scontare lì la pena. La cooperativa ha proposto il progetto, seguendo un iter ben preciso: “Gli educatori all’interno del carcere mandano delle segnalazioni rispetto a delle persone che avrebbero i requisiti per uscire, poi sono prese in carico dalla cooperativa tramite una terapeuta che si occupa di valutazione e diagnosi che entra in carcere a conoscere la persona e, dopo la sua valutazione, parte l’iter per l’inserimento degli appartamenti di accoglienza”. Il percorso dura fino alla data del fine pena. L’obiettivo è quello di far uscire le persone dalle carceri, e portarle “all’interno dei territori, delle città. Si cerca di privilegiare territori che sono all’interno di contesti con servizi: supermercati, servizi pubblici e con opportunità di inserimento sociale reali”. La cooperativa supporta queste persone con sostegno psicologico, operatori e operatrici formate per offrire supporto nella ricerca di casa, lavoro e percorsi formativi. Ci sono poi tutti tutti gli aspetti relativi al disbrigo delle pratiche burocratiche, ai diritti della cittadinanza e al riavvicinamento con le famiglie d’origine, nel caso questo fosse possibile. Insomma, una rete di aiuto e relazioni per reinserirsi in un mondo che, spesso tratta in modo non benevolo chi ricomincia a vivere fuori dalle mura di un carcere. Dal carcere alle strutture protette - Francesco (nome di fantasia) parla della sua esperienza: “Sono una persona consapevole delle difficoltà che ci sono. Ce ne sono state, per uscire dal carcere, a livello di permessi e mancata comunicazione tra l’istituzione e chi ti accoglie: quelli del carcere ti buttano fuori come un bidone delle immondizie”. La sensazione di abbandono è forte: “Sono stato buttato fuori senza un soldo, dovevo avere la paga di quando lavoravo in carcere ma mi dicevano sempre “dopo, dopo”“. Francesco lavorava all’interno del carcere grazie all’aiuto dell’assistente sociale che lo aveva supportato nella ricerca di un lavoro, “ma il mio compagno di cella non ha avuto alcun aiuto dentro, ha dovuto tutti i giorni “rompere le scatole” per riuscire a capire se ci fosse la possibilità di lavoro anche per lui”. Inoltre ci sono voluti otto mesi per poter trovare il primo lavoro all’interno dell’istituto di pena: “Facevo il portavitto. Colazione, pranzo e cena”. Come se non bastasse la spesa per beni alimentari e personali, dietro le sbarre, costa più che all’esterno “le cose all’interno del carcere costano, da listino interno, circa 20-30 centesimi in più e questo incide molto per chi non ha soldi”. A questo si unisce il poco tempo che si può passare fuori dalla cella: un’ora al mattino e due al pomeriggio, e d’estate fa molto caldo. “Ci sono 40 gradi dentro, e se vuoi un ventilatore lo devi comprare a trenta-trentacinque euro, che sono tantissimi, contando che poi ti addebitano cinque euro al mese aggiuntivi per l’elettricità. E spesso d’inverno ci facciamo la doccia con l’acqua ghiacciata”. Francesco ha scontato un anno e sei mesi di pena, per poi uscire con l’articolo 21 (i detenuti possono essere assegnati al lavoro all’esterno) nel 2023. E ricorda nitidamente cosa significhi stare in carcere: “Il problema del sovraffollamento è gravissimo e dentro ci sono persone deboli: uno non può andare in carcere a morire”. Ora Francesco lavora per una cooperativa padovana, il lavoro gli piace ma il problema che lo affligge è quello di trovare una casa a fine pena perché, come molte persone che escono, non ha più una rete di relazioni intorno a sé: “Sono rimasto completamente solo e ho dovuto iniziare da zero, tra soldi e amicizie che non c’erano più”. In cella tra topi e scarafaggi - Alvise (nome di fantasia) sta cercando lavoro e vive negli appartamenti della cooperativa Città Solare: “Avrei avuto qualcuno fuori, ma non che mi potesse offrire un alloggio”. Mentre attende di trovare una nuova occupazione, parla del tempo passato in carcere: “Cambierei tutto dentro, partendo dalla sanità, le celle, la pulizia”. Il tema legato alla salute è ancora una volta centrale. Se si ha necessità di ricevere delle cure bisogna insistere e chiamare più volte per essere visitati. Spesso i detenuti soffrono di dolori fisici ma anche di ansia e problemi legati alle dipendenze: “Le persone detenute chiamano continuamente i secondini perché stanno male, chiedono terapie anche fuori degli orari prestabiliti perché soffrono. Ma bisogna sempre aspettare, anche se serve una pastiglia per dei dolori che non possono attendere. Abbiamo i nostri diritti, anche noi abbiamo bisogno di essere tutelati”“. Oltre a questo, le condizioni di igiene sono preoccupanti, tra topi e scarafaggi. Per Mauro Anselmi il lavoro di accoglienza della cooperativa è fondamentale e crea un ponte tra la vita del carcere e la vita dopo il carcere con “un inserimento socio lavorativo in cui la parte emotiva e relazionale è fondamentale. La discriminante è quella tra la rigidità dell’affettività che c’è in carcere e il creare un setting affettivo all’interno dei nostri appartamenti. Si crea un clima di fiducia, con delle regole: strutture sempre pulite, nessun uso di sostanze o alcol e le visite con altre persone si svolgono sempre all’esterno delle case”. Quello che manca alle persone detenute, soprattutto per certi tipi di reati minori, sono “maggiori opportunità di uscita dal carcere, situazioni di accoglienza alternative, di inserimento lavorativo e formative e queste possono produrre degli effetti eccezionali anche in termini di prevenzione rispetto a delle eventuali recidive”. Razzismo dietro le sbarre. “Nelle carceri Italiane abusi e discriminazioni” di Giulio Cavalli La Notizia, 9 ottobre 2024 Un Rapporto Onu denuncia abusi, razzismo e discriminazioni contro africani nelle carceri italiane. Il sistema penitenziario sotto la lente. Un nuovo rapporto dell’Onu conferma le discriminazioni nel sistema carcerario italiano, evidenziando una realtà che molti fingono di ignorare: il persistente razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana. Il documento, presentato al Consiglio per i diritti umani a Ginevra, è il risultato di un’indagine condotta da tre esperti indipendenti che hanno visitato l’Italia tra il 2 e il 10 maggio, toccando le città di Roma, Milano, Catania e Napoli. Il quadro che emerge è tutt’altro che lusinghiero per il nostro Paese. Nonostante l’esistenza di un contesto normativo che sulla carta prevede protezioni contro la discriminazione razziale la realtà dietro le sbarre racconta una storia diversa. Gli esperti dell’Onu hanno rilevato abusi delle forze dell’ordine contro gli africani e le persone di discendenza africana, frutto di un razzismo radicato e sistemico che permea non solo le carceri, ma l’intero sistema di giustizia penale. Il rapporto dice testualmente: “In Italia persiste in maniera significativa il razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana da parte della polizia e dei sistemi di giustizia penale”. Il “razzismo sistemico” si manifesta in molteplici forme: dalla profilazione razziale nelle forze dell’ordine, alla difficoltà per le donne di origine africana di ottenere aiuto e protezione, fino alla separazione delle donne migranti dal resto della famiglia. Un aspetto particolarmente allarmante è la mancanza di dati disaggregati su base etnica che impedisce di valutare appieno il livello di discriminazione e di sviluppare politiche adeguate per contrastarla. Il rapporto non si limita a denunciare, ma punta il dito anche sulle condizioni di detenzione. Nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR), come quello di Milano, sono stati segnalati maltrattamenti allarmanti: “Privazione di cibo e acqua per lunghi periodi, oltre a preoccupazioni per la qualità del cibo”. A Roma, nel CPR di Ponte Galeria, gli esperti hanno notato una “visibile angoscia nei detenuti maschi”, sintomo di un sistema che sembra aver perso di vista il concetto di dignità umana. Ma il problema non si limita ai CPR. Il rapporto cita casi eclatanti come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove “105 agenti di polizia e funzionari del carcere sono imputati per presunte torture e altri abusi, tra cui la morte di un detenuto algerino nel 2020”. Non mancano menzioni ad altri episodi simili in diversi penitenziari italiani, da San Gimignano a Reggio Emilia, fino all’IPM “Cesare Beccaria” di Milano. Particolarmente critica appare la situazione dei minori stranieri non accompagnati, vittime di “pratiche illegali di detenzione e refoulement che violano i loro diritti umani”. A Milano, molti di questi minori finiscono per strada, in condizioni di povertà estrema e facile preda di dinamiche di sfruttamento. Il rapporto non risparmia critiche nemmeno al recente decreto Caivano, esprimendo preoccupazione per gli effetti negativi che potrebbe avere sui minori in conflitto con la legge, in particolare quelli di origine africana. Il timore è che queste misure possano “contribuire alla discriminazione e alla marginalizzazione sociale dei minori stranieri, favorendo l’applicazione di misure più restrittive rispetto ai loro coetanei italiani, senza considerare adeguatamente il principio del miglior interesse del minore”. Verso il cambiamento: le raccomandazioni dell’Onu per un sistema più equo - Di fronte a queste accuse, cosa può e deve fare l’Italia? Il rapporto suggerisce diverse strade: dalla raccolta sistematica di dati disaggregati per comprendere meglio l’impatto della discriminazione, all’adozione di un approccio basato sui diritti umani nell’attività di polizia. Si raccomanda inoltre la creazione di un organo di controllo indipendente per indagare sulle denunce contro le forze dell’ordine e l’adozione di misure concrete per combattere il razzismo sistemico. Abbiamo un problema nelle carceri minorili, e non possiamo più ignorarlo di Benedetta Barone Elle, 9 ottobre 2024 Il numero dei ragazzi reclusi è passato da 392 unità a più di 500 in un anno. Sale del 16,4% la capienza di minori all’interno delle carceri. È una delle tante stime fornite dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. A partire dal decreto Caivano, introdotto nel settembre dello scorso anno dal governo in carica, il numero dei ragazzi reclusi è passato da 392 unità a più di 500. Doveva trattarsi di misure di contenimento del disagio giovanile che prevedevano, oltre a un piano d’investimenti di trenta milioni di euro, il contrasto alla dispersione scolastica, alle baby gang, all’uso di stupefacenti. Aumentando trasversalmente le pene. Che repressione, controlli e intransigenza non si rivelino mai consequenziali a una maggiore docilità, a una maggiore obbedienza in seno al corpo sociale è un attestato intuitivo oltre che esperienziale. Tuttavia i fatti di Caivano li ricordano tutti: un gruppo di ragazzi residenti in questo comune dall’apparenza tetra alle porte della città di Napoli ha condotto due tredicenni in una palazzina sportiva abbandonata e ha approfittato sessualmente di entrambe. Si è poi scoperto che la zona era soggetta a bivacco, spaccio e microcriminalità organizzata. Questi episodi si sono verificati nel corso della stessa estate in cui un branco di adolescenti ha aggredito e stuprato una loro coetanea nel quartiere Vucciria di Palermo, corredando il gesto di commenti successivamente intercettati di questo tenore: “La carne è carne”. La reazione istintiva dell’opinione pubblica, oltre che delle istituzioni, delle famiglie, degli organi disciplinari grida alla pena, alla punizione esemplare. Ha necessità di ricevere una risposta tempestiva che plachi e corregga l’insensatezza scoordinata della violenza. Alla luce di una tale manifesta esigenza si collocano i provvedimenti più recenti del governo: il decreto sicurezza, approvato alla Camera e ora in esame al Senato, che interdice tutte le proteste studentesche, anche quelle pacifiche, condannando a due anni chiunque blocchi il traffico, un’arteria stradale o impedisca il normale svolgimento delle attività lavorative, una norma che gli attivisti di Ultima Generazione hanno ribattezzato amaramente “anti Gandhi”. La riforma scolastica voluta dal ministro Valditara reintroduce il voto in condotta, propone di estendere l’alternanza scuola lavoro al periodo estivo considerando eccessivamente lunghi i tre mesi previsti per le vacanze, condanna tutte le forme di autogestione e di occupazione, vieta l’utilizzo del cellulare in classe. Il leader della Lega Matteo Salvini e il generale Vannacci, deputato al Parlamento europeo, hanno più volte invocato la reintegrazione della leva militare obbligatoria. Sempre per fronteggiare, arginare la mancanza di disciplina delle nuove generazioni, trattate alla stregua di discoli con i quali è necessario confliggere, cioè entrare in conflitto. In questo modo lo Stato corrobora la sua natura paternalista, il suo ruolo di severo pater familias della nazione. Il punto è che l’origine della violenza, senz’altro amplificata da contesti urbani ed economici svantaggiati, è innanzitutto psichica. Al giorno d’oggi, l’orizzonte si è svuotato di senso. Analisti, studiosi, psicoterapeuti convengono sulla prospettiva scarna che circonda e ammanta l’esistenza. La religione, l’azione politica, la retorica del lavoro, tutti gli apparati che regolavano la dialettica della vita individuale sono stati compromessi da almeno tre decenni di gestione malandata della cosa pubblica. Di rado un giovane si trova a frequentare contesti che funzionano, a cominciare dalla scuola. Persino l’ambiente, inteso come intreccio salutare di aria, acqua, suolo e soggetti umani, è minacciato da una crisi epocale. C’è chi protesta, chi ancora trova nella militanza una forma di partecipazione collettiva - e se il decreto sicurezza dovesse davvero entrare in vigore avrà vita difficile. Per gli altri, per moltissimi altri l’alternativa è rappresentata dalla trasgressione, dalla grande dominante della trasgressione, diffusa e spettacolarizzata dalle serie televisive, dalla cultura musicale e naturalmente dal tessuto sociale di riferimento. La trasgressione offre un linguaggio condiviso, riferimenti concreti, presenta subito la possibilità di mettersi alla prova. Conferisce uno statuto, un’identità. Proprio ciò che spetterebbe alla politica intesa come mezzo di messa in discussione della realtà e di cui i licei dovrebbero essere le prime casse di risonanza. L’organizzazione di pratiche comuni, tra cui l’occupazione, l’autogestione, i collettivi e i centri sociali, passa da uno scontro con l’autorità. Andrebbe incentivata, non ostacolata. Cosa succede se le scuole diventano asettici poli di smistamento del mondo professionale e i luoghi di prossimità sono permeati da emergenze continue e povertà? Succede che il senso di sé lo si reperisce altrove, nel classico rito della violazione a quel padre autorevole incarnato dallo Stato. E se un minore a causa di questo si ritrova impelagato nel dedalo mortificante del carcere e della clausura, costretto in celle sovraffollate dove, secondo il rapporto di Antigone, i posti sono 516 a fronte delle 569 certificate nella metà di settembre, le ipotesi che si ravveda sono pressoché nulle. In un clima tanto ingolfato le tensioni sono all’ordine del giorno, così le rivolte. Sedate mediante la prescrizione ricorrente e frettolosa di psicofarmaci. Vista la congestione non sono rari i casi di giovani trasferiti direttamente in centri di detenzione per adulti. E pensare che il governo, all’epoca dei fatti di Caivano, sperava addirittura di abbassare l’età della punibilità al di sotto dei quattordici anni previsti attualmente dalla legge. La rieducazione, la reintegrazione all’interno della società, l’abbassamento del rischio di recidiva suonano ormai alla stregua di parole vuote. Auspici utopici. Uscire, uscirne è già tanto di guadagnato. Nordio parla di lavoro come parte fondamentale del reinserimento, ma poi taglia i fondi di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 9 ottobre 2024 Gonnella (Antigone): “Dal suo insediamento il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte parlato dell’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbattere il tasso di recidiva, ma nella pratica si sta facendo l’esatto opposto, tagliando del 50% i fondi a disposizione per il pagamento delle persone detenute lavoranti in carcere. In una nota del Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta si legge infatti come il fabbisogno rilevato per mantenere i tassi di occupazione fosse di 2 milioni di euro, mentre dal Ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questo fabbisogno. Per questo, il Prap, ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono. Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani). Il lavoro in carcere è già scarso. A lavorare è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana. Il guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Apportare ulteriori tagli al lavoro significa lasciare le persone senza possibilità di guadagno, nella noia e nell’apatia più totale, in una condizione che produce solo ulteriore deprivazione. Così facendo non si aiutano le persone detenute a costruire possibilità diverse dal crimine una volta fuori, incidendo negativamente quindi anche sulla sicurezza. Questi tagli arrivano in un momento di grandi tensioni che si respirano nelle carceri, dove le persone detenute vedono da una parte ridotte al minimo le proprie prospettive, dove vedono crescere il sovraffollamento, dove le condizioni di vita sono in costante peggioramento, con un numero di suicidi altissimo (sono già 73 quest’anno, il secondo dato più alto di sempre). Il governo, invece di rispondere a queste tensioni con il dialogo e con investimenti, pensa solo a introdurre nuovi reati, a proibire a suon di pene draconiane anche le forme di protesta non violenta e a costruire nuove carceri con un milione di euro già investito per la creazione e il mantenimento dell’ufficio del commissario all’edilizia penitenziaria”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Pianeta carceri, ne parliamo con l’architetto Domenico Alessandro de Rossi nuovogiornalenazionale.com, 9 ottobre 2024 Molti lettori ci chiedono il perché della non costruzione di nuove carceri. La domanda sembra banale, abbiamo così intervistati l’architetto Domenico Alessandro de Rossi, un importante esperto in materia, il quale ci ha subito risposto che: “Per realizzare un istituto penitenziario occorrono circa 20 anni. Punterei sullo svuotamento delle carceri di un 30% circa”, come pure “per l’edilizia penitenziaria, partirei dall’assunto che non servono più celle ma interventi di sistema”. L’architetto Domenico Alessandro de Rossi, peraltro presidente del Cesp (Centro Europeo Studi Penitenziari), parla con cognizione di causa stante il suo interesse pluridecennale riguardo le carceri e l’edilizia penitenziaria in generale. Peraltro, ha appena pubblicato la sua ultima fatica letteraria “Quando la pietra scolpisce la mente. Neuroscienze e Semiotica dell’architettura delle comunità confinate”, scritto a quattro mani con Alfredo De Risio, che svolge la professione di psicoterapeuta. Secondo Lei era proprio necessario nominare un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria? Certamente sì. Ovviamente la nomina appare utile allorché si riesca a attuare un insieme di provvedimenti atti a risolvere, o cominciare a risolvere, i numerosi problemi del sistema penitenziario. Mi riferisco in particolare a edilizia, infrastrutture, territorio, normativa, organizzazione e di amministrazione, compresa la polizia penitenziaria. Problematiche che necessitano di una soluzione urgente, in quanto nel passato le stesse non sono state affrontate in modo sistematico. A cominciare dai suicidi, che peraltro non sono certo una realtà attuale, che stanno incrementandosi. Il lavoro affidato a Marco Doglio, neo Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, è un lavoro imponente. Lavoro che certamente il Commissario svolgerà con serietà e competenza, attesa la sua preparazione, che va da una ampia esperienza universitaria alla esperienza manageriale nel settore immobiliare... L’ex ministro della Giustizia Orlando ha a suo tempo promosso gli Stati generali della giustizia penale, con 18 tavoli tematici. Purtroppo, tutto quel lavoro non ebbe una realizzazione concreta, visto che si è parlato in prevalenza di massimi sistemi quando i problemi erano e sono molto più concreti: a cominciare da polizia penitenziaria, burocrazia e sostegno ai detenuti. Il tempo che ha davanti il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria non è lungo, ha avuto un incarico fino al 31 dicembre 2025, termine entro il quale dovrà realizzare le opere necessarie per almeno attenuare la grave situazione di sovraffollamento delle carceri. A mio avviso, gli importi messi a disposizione unitamente ai collaboratori, non sono sufficienti per affrontare in maniera sistemica il compito assegnatogli. Sicuramente potrà dare una organizzazione agli indirizzi per pianificare il lavoro futuro, vista la sua competenza ed esperienza. L’obiettivo sarà quello di costruire nuovi padiglioni e di ristrutturare le strutture esistenti. O si penserà di costruire nuove carceri? Mi sentirei di escludere che si vogliano costruire nuove carceri per risolvere le criticità immediate. Come ho già accennato per realizzare un istituto penitenziario occorrono circa 20 anni. Ma se potessi consigliare una soluzione punterei su altro. Cosa, ce lo può spiegare? Non posso che ripetere quanto ho anche recentemente detto nel corso di un’altra intervista. Punterei sullo svuotamento delle carceri di circa il 30%, perché ci sono persone che possono e devono essere messe in strutture diverse. Mi riferisco ai detenuti tossicodipendenti che potrebbero essere accolte da strutture esterne, in grado di curarle. Una operazione del genere farebbe scendere il numero dei detenuti al di sotto dei posti disponibili, con un costo minore per la collettività e con una attenzione al diritto alla salute previsto dalla nostra Costituzione. Senza considerare la diminuzione evidente della recidiva. Spesso le proteste che scoppiano in carcere non sono fatte per evadere, ma per provare a essere ricoverati in infermeria e avere il metadone. Riguardo le proteste cosa si potrebbe fare? Va fatto un lavoro sull’impiantistica antincendio. Attualmente le carceri italiane sono sprovviste di apparecchiature. In realtà basterebbero gli impianti sprinkler, i sistemi di allarme antincendio, gli estintori e l’utilizzo di materassi e altri arredi ignifughi. Ci sono una serie di accorgimenti tecnologici molto semplici ed economici che eviterebbero una parte degli incidenti che avvengono nelle celle. Se si riesce a ridurre anche la popolazione carceraria si saranno fatti già dei passi in avanti. Farei degli interventi pratici e molto semplici. Non riterrei necessario, nonostante la mia professione, di parlare di architettura penitenziaria. Come mai è così determinato al riguardo? Ogni cosa a suo tempo. A mio avviso si deve pensare a strutture esterne dove poter ospitare una parte di quel 30% di detenuti tossicodipendenti, che con dati alla mano sono 18mila persone. Lo dico anche alla luce della collaborazione che ho a Roma con “Villa Maraini”, struttura della Croce Rossa Italiana, con la quale come Cesp abbiamo un protocollo di collaborazione che va proprio in questa direzione. Quali caratteristiche dovrebbero avere queste strutture? Sicuramente dovrebbero essere diverse dal carcere, con una assistenza psicoterapeutica. Non dovrebbero esserci inferriate, altrimenti queste persone non avvertirebbero la differenza con il carcere. La realizzazione di queste strutture, che comporta peraltro un investimento, relativamente limitato, può essere effettuata in due. Qualche anno fa si era parlato di recuperare le ex caserme da adattare a carcere. E’ ancora una ipotesi utile? Naturalmente tutte le caserme non trasformabili in istituti per la detenzione: parliamo di dormitori per i quali sarebbe complicato garantire la sicurezza. I nuovi padiglioni nelle carceri, già appaltati, sono una soluzione? In realtà tutti gli istituti hanno bisogno, non di nuove celle, ma di altro genere di assistenza per mettere in condizione i detenuti, una volta fuori, di non commettere altri reati. La recidiva, si contrasta con aule, laboratori e spazi di socializzazione. Ieri si è anche insediato al Cnel il Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale, presieduto da Emilio Minunzio, che va in questa direzione... È un passo importante per realizzare un collegamento tra il sistema penitenziario e il sistema produttivo esterno, creando un sistema strutturato. La sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere apre un altro capitolo su come ripensare le carceri... Senza dubbio. Rientra nel discorso degli spazi da realizzare al di fuori delle celle. Il sovraffollamento che affligge quasi tutte le nostre carceri ha dei valori enormi, vedi San Vittore, ma anche Regina Coeli e Poggioreale... Si tratta di strutture costruite da oltre cento anni e in alcuni casi di più. Si potrebbe pensare anche alla realizzazione di strutture più piccole, che richiedono tempi di realizzazione più veloci. COme ho scritto nel mio ultimo libro analizzo il rapporto tra ambiente e comportamento umano, al cui riguardo le carceri e la detenzione vanno calibrate rispetto alla condotta. Questo potrebbe significare che se si facessero degli istituti, più gestibili e integrati con famiglia e territorio, si potrebbero realizzare in tempi più brevi. Vedremo. Corte costituzionale, un autogol sul metodo che alimenta la spaccatura di Massimo Franco Corriere della Sera, 9 ottobre 2024 Riaffiora il problema del metodo e di una cultura politica. La tendenza è a declinare il potere come diritto a decidere senza condizionamenti votazione del Parlamento in seduta comune per l’elezione di un giudice della Corte Costituzionale. C’è solo da sperare che la maggioranza capisca. Quando si tratta di istituzioni di garanzia come la Corte costituzionale, il metodo è sostanza. E il tentativo di imporre un porprio candidato senza coinvolgere le opposizioni può diventare un boomerang; e non solo quando non riesce, come ieri. Lo è anche quando tende a piegare a logiche di governo organi come la Consulta, legittimati dal fatto di essere percepiti come neutrali. Si può poi discutere sull’opportunità di scegliere di non partecipare alla votazione, come hanno fatto le opposizioni. Probabilmente, sulla decisione ha pesato anche il timore di dividersi sul voto segreto. E forse il governo contava su qualche defezione. Ma ha offerto un pretesto agli avversari, e il risultato è stato una sconfitta e una prova di impotenza del Parlamento, incapace di eleggere un giudice costituzionale. Tra l’altro, l’impressione è che optando per la scheda bianca la coalizione di Giorgia Meloni abbia tradito dubbi sulla tenuta della sua alleanza. L’astensione è stata decisa in extremis, quando il governo ha visto che rischiava di perdere pezzi. Ora la questione è che fare dopo l’ottava fumata nera. Si ripresenta il dilemma di un negoziato, sebbene non affiorino ripensamenti: almeno ufficialmente. La maggioranza sembra tentata da nuove prove muscolari. Sembra, perché il pasticcio di ieri dovrebbe spingere tutti a più miti consigli. Prevedere nella Costituzione una maggioranza superiore a quella di governo indica l’esigenza di un accordo ampio. E la scelta del candidato, Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della premier, suggerirebbe cautela. Non per i suoi titoli, che lo legittimano in pieno, ma perché è l’estensore della riforma del premierato: uno dei temi sui quali la Corte si dovrà pronunciare. È possibile che Marini venga riproposto. Ma le probabilità di essere eletto appaiono legate alla capacità di offrirlo al Parlamento non come un’imposizione. Riaffiora, insomma, il problema del metodo e di una cultura politica. La tendenza è a declinare il potere come diritto a decidere senza condizionamenti: un’abitudine emersa già con le coalizioni guidate dal M5S. Può darsi che alla fine questo atteggiamento prevalga. Eppure rischia di logorare le istituzioni di garanzia e lo stesso esecutivo. Entro dicembre dovranno essere eletti altri due giudici. Un epilogo conflittuale come quello di ieri potrebbe riprodursi, radicalizzato. Mentre lo scenario da evitare è quello di una sequela di forzature e ritorsioni che si scaricherebbero sulla Corte costituzionale. Significherebbe rimodellare il sistema in modo distorto. E preparare uno scontro destinato non tanto a riformare le istituzioni ma a delegittimarle. Spartire o condividere: la democrazia in gioco di Donatella Stasio La Stampa, 9 ottobre 2024 Molti, tra opinionisti e politici di ogni colore politico, sono convinti che, nell’attuale partita per l’elezione del giudice costituzionale, non ci sia nulla di nuovo rispetto al passato. Giorgia Meloni starebbe facendo la stessa cosa dei suoi predecessori, scegliendosi e imponendo il “suo” candidato, senza “condividere” nulla con l’opposizione. Tanti sostengono, invece, che - sebbene la melina sia durata quasi un anno - la premier avrebbe dovuto aspettare dicembre (quando dalla Consulta usciranno anche Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) per “spartire” più agevolmente i quattro nuovi giudici tra le forze politiche, anche di opposizione. “Spartire” e “condividere” sono due verbi molto diversi. La condivisione è un metodo obbligato quando sono in gioco istituzioni di garanzia come la Corte costituzionale. E se in passato non è andata sempre così, non significa che debba continuare ad andare così, godendosi lo spettacolo. Tanto più quando, come nel caso di Giorgia Meloni, viene ostentato il proprio potere assoluto sulla base di numeri che non provengono né direttamente dalle urne - ma dal trasformismo politico - né dalla condivisione con l’opposizione. È questa la novità politica, che però si finge di non vedere. E non era mai accaduto. Neanche quando il Parlamento ha mandato a Palazzo della Consulta, con voto bipartisan, personalità con una spiccata storia politica alle spalle, come Ugo Spagnoli, capogruppo del Pci, che non è mai stato un “soldatino” ma un eccellente giudice costituzionale, riconosciuto e ricordato da tutti. Quando la sinistra o la destra hanno preteso - anche se mai con le ostentazioni assolutistiche di Giorgia Meloni - di forzare la mano, non hanno raggiunto il risultato voluto. Inutilmente Silvio Berlusconi si ostinò, per un anno e mezzo, a candidare Filippo Mancuso, il suo ex ministro della Giustizia. Nel 1953, il veto democristiano bloccò, fino al 1955, la candidatura del costituzionalista Vezio Crisafulli, designato dal Pci (al suo posto fu scelto Nicola Jaeger) e, nel 1972, quella di Lelio Basso, ex segretario del Psi nonché membro della Commissione dei 75 che scrisse la Costituzione (gli fu preferito Leonetto Amadei). Non erano candidati condivisi. La condivisione è indispensabile non solo per ragioni di quorum, ma anche e soprattutto per dare al candidato politico o di parte politica - al di là dei suoi meriti personali e professionali - un’investitura e una legittimazione bipartisan che peserà sul suo modo di stare alla Corte, di interpretare il ruolo di giudice costituzionale, di relazionarsi con i colleghi, e di far valere la propria autorevolezza, e autonomia, dentro e fuori palazzo della Consulta. Al contrario, la forzatura unilaterale su un candidato di “parte politica”, anche se tecnico, rischia di farlo apparire, e magari anche diventare, un “soldatino” di quella parte politica, accreditando nell’opinione pubblica l’idea che la Corte sia al servizio dei partiti, che i giudici di nomina politica siano eletti, appunto, con un preciso mandato e che le sentenze adottate siano frutto di scelte politiche. È l’accusa più infamante e delegittimante che si possa rivolgere a una Corte costituzionale che, per sua natura, svolge la delicatissima funzione “contro-maggioritaria” - mai stancarsi di ricordarlo - affidatale dalla Costituzione a garanzia del pluralismo e dei diritti delle minoranze, dopo l’esperienza drammatica del potere assoluto esercitato dal fascismo e dal nazismo. Ecco perché la logica della spartizione è perversa mentre quella della condivisione è virtuosa e va seguita, non a metà strada ma fin dall’inizio. Altrimenti, perché la legge direbbe che la sostituzione va fatta entro un mese? Perciò non si può parlare cinicamente di “fisiologica patologia”, di fronte alla melina alla quale abbiamo assistito finora. Il modo in cui si gioca la partita sull’elezione parlamentare dei giudici costituzionali è un segnale dello stato di salute della democrazia costituzionale, del Parlamento e dei partiti che lo compongono. Ci dice moltissimo della mentalità costituzionale dei giocatori - maggioranza e opposizione, singoli deputati e senatori, premier, ministri, presidenti delle Camere - ma anche degli spettatori, che troppo spesso minimizzano la portata di questo snodo fondamentale della vita democratica e degli strappi che vengono consumati. Tanto più gravi, ed eversivi, se si contestualizzano: viviamo nell’epoca delle regressioni democratiche (l’ultimo rapporto di Freedom House conferma che solo il 20% della popolazione mondiale vive in paesi che possono davvero definirsi liberi) e di fronte agli strappi (tanti, troppi) non possiamo restare a guardare impassibili, come le stelle di Cronin. La giustizia in Italia, un sistema sgangherato di Carlo Lamura Il Roma, 9 ottobre 2024 Nulla è accaduto o è cambiato sostanzialmente dopo la “crisi Palamara”. È dalla inquietante e inverosimile vicenda del giudice Palamara, che ha avuto il “merito involontario” di scoperchiare un sistema tanto collaudato quanto illegittimo che governava e distribuiva gli incarichi apicali per i magistrati iscritti esclusivamente a talune correnti (politico-sindacali) dei giudici, che quel mondo esclusivo di alti funzionari dello Stato è sotto la lente di ingrandimento di osservatori politici, inquirenti e opinione pubblica, oltre al Consiglio Superiore della Magistratura, unico e competente Organo costituzionalmente deputato a gestire promozioni, trasferimenti e aspetti disciplinari per i magistrati. Ma nulla è accaduto o è cambiato sostanzialmente dopo la “crisi Palamara”. E nulla ha prodotto se non la radiazione dalla magistratura proprio del giudice Palamara, unico capro espiatorio di una lunga e tormentata indagine su quel mondo controverso ove il merito e l’esperienza professionale (dei magistrati in odore di promozioni) risultavano essere le ultime prerogative in valutazione. Privilegiando piuttosto l’appartenenza e la fedeltà a “requisiti” molto distanti dalla sempre reclamata indipendenza e imparzialità della magistratura. Ed è proprio in questa veste che “ipso facto”, questi intoccabili dipendenti pubblici con la toga agiscono, talvolta in maniera troppo “autonoma”, spesso discutibile, soprattutto per quanto attiene alla interpretazione delle normative vigenti e ai diversi soggetti cui esse si applicano. Basterebbe pensare alla recente sentenza dei giudici di Palermo che hanno chiesto 6 anni di reclusione per il ministro Salvini per i reati ipotizzati di sequestro di persona (art.605 c.p.) e rifiuto di atti di ufficio (art.328 c.p.). Reati che Salvini avrebbe commesso nell’agosto del 2019 (in piena vigenza del 1° Governo Conte) in qualità di ministro dell’Interno del governo “giallo-verde”. Circostanza questa in vero ripetuta almeno altre due volte consecutive. Dal caso del blocco degli sbarchi di migranti dalla Nave Militare “Diciotti” del 15 agosto 2018, al caso della nave militare “Gregoretti” del 26 agosto 2019. In tutti e due questi ultimi casi il ministro Salvini fu più fortunato: in un caso fu prosciolto dalla Procura di Catania, nell’altro fu salvato dal voto schiacciante della maggioranza del Senato (cinque stelle in testa) che negò l’autorizzazione a procedere per il ministro dell’Interno. In tutti e due i casi, comunque, la fermezza di Salvini fu ripagata dal raggiungimento di un accordo internazionale sulla distribuzione dei migranti tra nazioni cointeressate al fenomeno migratorio e, pertanto, gli sbarchi furono effettuati solo con l’impegno di trasferire i migranti in altri Paesi del Mediterraneo. Cosa che avvenne regolarmente. Nel caso più recente della Open Arms, pur trovandoci esattamente nelle stesse condizioni e circostanze precedenti, (reati contestati a Salvini compreso), la situazione si è presentata subito diversa per via del cambio di maggioranza che ha visto esclusa la Lega dal Governo Conte 2. E pertanto il gruppo dei Cinque Stelle (con tutto il Pd e altre frange della sinistra) non esitava, in questa ulteriore occasione, a votare favorevolmente sulla nuova richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini, non essendo più i due partiti (Lega e 5 Stelle) alleati in quel nuovo governo guidato sempre da Conte e, pertanto perseguendo un diverso disegno politico che prevedesse piuttosto il rinvio a giudizio per l’ex alleato. Con questi presupposti di natura esclusivamente “politici” davvero sconcertanti e singolari, Salvini si trova oggi a rispondere di reati gravi con l’anomalia di essere già stato prosciolto per le medesime accuse da altra Procura si Catania e, nell’altro caso, dalla valutazione del Senato della Repubblica che sanciva la non procedibilità del ministro, per aver difeso i confini marittimi del Paese. Un guazzabuglio davvero intraducibile e contraddittorio che non si può provare a spiegare a persone dotate di buon senso o lontane dalle dispute o dagli interessi dei partiti. Certo è che Matteo Salvini, allo stato, pur molto sicuro di sé e della correttezza della sua azione in quelle circostanze, rischia non poco, proprio in virtù delle “autonome” valutazioni e la “sospetta discrezionalità” di un magistrato non propriamente “ben disposto” con l’imputato Salvini in questo procedimento penale. Tanto per motivi sin troppo noti ed evidenti che certo non sfuggono ai nostri lettori. Così come non può sfuggire a nessuno che una giustizia così malata, contraddittoria, repressiva a senso unico e, non ultimo, estremamente condizionata dalle scelte della politica, ebbene questa giustizia “schizofrenica” e troppo spesso a senso unico rischia fortemente di sovvertire e non garantire i più elementari Diritti Costituzionali dei cittadini di fronte alla legge. Giustizialisti o garantisti? Nessuno lo sa: i partiti decidono solo per opportunismo di Antonio Mastrapasqua* Il Riformista, 9 ottobre 2024 Il rispetto delle garanzie costituzionali è sacro quando bisogna difendere sé stessi o gli alleati, invece per colpire gli avversari si diventa forcaioli. Addio ai valori: dipende tutto dalla convenienza del momento. Giustizialisti o garantisti? Gli italiani sono abituati a dividersi in due partiti. Dai Guelfi e Ghibellini, fino ai Montecchi e Capuleti. Ma le distinzioni tra le parti stanno sfumando, o per lo meno diventano più osmotiche. Si transita un po’ di qua, un po’ di là. Per convenienza? Certamente non per scelta di “valore”. La cronaca ci aiuta a percorrere lo schieramento politico con questa cartina al tornasole, che dimostra quanto la differenza tra giustizialisti e garantisti stia diventando poco più di una convenzione, modificabile sempre. Iniziamo dalla Lega? Matteo Salvini dichiara che, anche se condannato a Palermo, non si dimetterà dal suo ruolo di ministro. Ma non si tratta di garantismo, semplicemente di un giustizialismo “personalizzato”: opportunismo? Di certo il Carroccio non è mai stato “garantista”, nemmeno quando si è trovato insieme ai radicali a raccogliere le firme per un referendum che è finito in niente. All’epoca di questo “disastro annunciato” sulla consultazione popolare, l’ex parlamentare di Forza Italia Gaetano Pecorella sintetizzò così: “Salvini ha cercato di accreditarsi come garantista, soprattutto attorno al tema dello strapotere della magistratura, nonostante sia sempre stato un giustizialista”. D’altronde nel centrodestra l’anima garantista ha albergato solo in Forza Italia. Certamente giustizialista è da sempre il “popolo” di Fratelli d’Italia. È un po’ la sindrome di chi per decenni non ha toccato il potere, e quindi si sente il “più puro” solo perché non ha avuto occasione di “sporcarsi”. E tutto finisce come disse Pietro Nenni: “Il puro più puro che epura l’impuro”. Vogliamo poi credere che il garantismo di Forza Italia, che altro non era che quello di Silvio Berlusconi, fosse suggerito da convenienza? Chi ha a che fare troppo spesso con la magistratura scopre che il giustizialismo prima che essere ingiusto è semplicemente sconveniente. Non voglio usare il caso personale come strumento di verifica: ma in FI non si levarono molte voci “garantiste” quando fui sollecitato alle dimissioni dall’Inps, solo perché era partita una indagine giudiziaria. Peraltro finita in nulla, come è accaduto a tanti prima di me e come a tanti accadrà dopo. Ma anche se guardiamo all’altro campo - non so se poi sia largo o meno - della politica italiana, vedo una oscillazione instabile, tra i due poli: Matteo Renzi (in questo caso non siamo nel campo largo, e forse nemmeno troppo nell’altro campo della politica italiana, se vogliamo ricordare la favola del “royal baby” creata da Giuliano Ferrara, per questo ipotetico erede del Cavaliere) è stato un severo garantista quando si è trattato di difendere le sorti giudiziarie dei genitori, ma ha preferito le dimissioni del suo ministro Maurizio Lupi - investito dalla polemica del rolex regalato al figlio - in assenza di alcun atto giudiziario. E Azione di Calenda? Ammesso che si tratti di un partito e non di una persona e basta, da quando ha perso l’eroe del garantismo Enrico Costa, che scelta farà - se dovesse farla - tra l’una e l’altra parte del pendolo morale tra giustizialisti e garantisti? Il Pd è l’erede improprio della “balena bianca”: sarebbe come chiedere se nella Dc di 30 anni fa fosse prevalente uno spirito forcaiolo o garantista. Per cultura garantisti, per opportunismo amici e compagni di molti “amici” o “compagni” che sbagliano. Dalla cacciata di Josefa Idem dal governo di Enrico Letta, per il sospetto di un’Ici non pagata, alla tolleranza per indagini su governatori regionali e deputati eccellenti, da Emiliano a Fassino. I super-giustizialisti di Bonelli e Fratoianni diventano super-garantisti quando c’è di mezzo Aboubakar Soumahoro. E i “grillini”, che ora forse non si possono più chiamare con desinenze del fondatore, come si possono definire? Forcaioli, certo, più che giustizialisti, ma con una forte deriva relativista. Moralisti con molti incidenti sulla strada della mancata “restituzione” di parte dei contributi promessi. O ancora: inclini talvolta a speciali “condoni” che permisero al senatore Elio Lannutti di candidarsi nonostante la regola che imponeva ai grillini di non aver svolto incarichi con altri partiti; le mancate dimissioni di tre parlamentari del Movimento (Sarti, Lannutti e D’Ippolito) condannati per diffamazione in primo grado; la disparità di trattamento riconosciuta a diversi parlamentari. Fino alla decisione di portare in Parlamento almeno due deputati con un contenzioso non banale con la giustizia: Chiara Appendino e Riccardo Tucci. Insomma, sembra un esercizio antico e inutile la ricerca di “valori” nella politica quotidiana. Garantisti e giustizialisti: due partiti di facciata, dietro alla quale resiste e si rafforza un fortissimo spirito di sopravvivenza, per non lasciare nulla di intentato per entrare e restare nel Palazzo. *Ex presidente Inps Dalla separazione al panpenalismo fino al carcere: la versione di Pinelli di Valentina Stella Il Dubbio, 9 ottobre 2024 “Se non si vuole che il dibattito sull’ordinamento e sulla cd. “separazione delle carriere” si riduca ad uno sterile antagonismo, quasi di bandiera, e se davvero si vuole mettere al centro la questione del “servizio” reso ai cittadini da un lato e la tutela dei diritti individuali dall’altro, occorre allora una riflessione più a monte su cosa debba essere il pubblico ministero nel processo moderno e su cosa sia lecito attendersi da lui nell’attuale contesto” : così il vice presidente del Csm, Fabio Pinelli, nel suo intervento al congresso dell’Unione Camere Penali dal titolo “Separare e riformare - La forza delle nostre idee per una giustizia nuova”. Inoltre, per il numero due di Palazzo Bachelet, “a ben vedere ci sono alcune questioni sullo sfondo, irrisolte, che incidono fortemente su aspetti della riforma e che, in qualche modo, appaiono pregiudiziali ad essa: il ruolo del diritto penale nella società moderna; come vincere l’utopia repressiva ed evitare che il carcere sia una avanzata scuola del crimine; una teoria su cosa debba essere la pena del XXI secolo; la riflessione sul fatto che i Tribunali non sono un pozzo senza fondo ed occorre un rapporto equilibrato tra quantità di norme incriminatrici e possibilità di risposta; le questioni che incidono sul problema di una “obbligatorietà dell’azione penale” che appare sempre più formale e meno effettiva, una vera e propria ipocrisia costituzionale, di fronte ai numeri che la giustizia deve affrontare e che, anche per ragioni organizzative, impone inevitabili scelte”. Ma, “forse ancor prima di tutto”, per Pinelli occorre “comprendere se la giurisdizione possa sopportare e risolvere qualunque conflitto sociale. Alla giustizia attribuiamo, credo, un potere più grande di quello che in effetti può avere. La giustizia non fa miracoli; non cancella il torto, può riequilibrare ma non risanare. Il risanamento è oltre e altro rispetto all’ordine della giustizia: il risanamento sta nella capacità di una comunità di ricostruire i legami sociali, poggiandoli su un complesso di valori umani - verrebbe da dire etici - condivisi. Tutto ciò è estraneo alla giustizia, perché la giustizia semmai ripara da un torto, non risana”. Ha poi concluso: “l’avvocatura continui a combattere: c’è sempre un diritto di un cittadino da tutelare, una vita da salvaguardare, per cui vale la pena di spendersi. Ricordando sempre che non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso. Combatta l’avvocatura per ricordare sempre ad ogni giudice che dietro ogni storia giudiziaria c’è una donna o un uomo da ascoltare, una donna o un uomo da rispettare. Una storia degna di essere compresa, qualcosa da spiegare e per un giudice qualcosa da capire”. “Macché depenalizzare, solo con il ddl sicurezza la maggioranza inventa 14 nuovi reati” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 ottobre 2024 Riprese ieri nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato le audizioni sul ddl sicurezza. Tra gli esperti sentiti a Palazzo Madama, il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano, con cui approfondiamo la questione. Appena insediato, Nordio disse: “La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, una riduzione dei reati”. Ma non sembra che si sia andati, almeno finora, in quella direzione... Purtroppo no. Nella legislatura in corso sono stati introdotti diversi reati: dal primo, quello che incrimina i rave party, con il quale si è presentato il governo Meloni, all’ultimo, che punisce il danneggiamento all’interno delle strutture sanitarie. Gli interventi di contrazione del diritto penale, peraltro discutibili, hanno riguardato la sola sfera dei delitti contro la Pubblica amministrazione: abuso d’ufficio, abolito quasi integralmente, e traffico di influenze, che è stato dimezzato. La bilancia della legislatura pende senz’altro verso nuove incriminazioni. I risultati molto positivi in termini di velocizzazione della giustizia, peraltro, si devono, a mio giudizio, alla riforma Cartabia. Va dato atto al ministro Nordio di averne conservato l’impianto, con i suoi correttivi, compresi quelli relativi all’estensione della procedibilità a querela per molti reati, che ha avuto un rilevante effetto di deflazione processuale. Il guardasigilli aveva anche detto: “Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali”. Eppure in Senato si discute il ddl sicurezza… Beccaria 270 anni fa nel suo “Dei delitti e delle pene” scriveva che “il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne di nuovi”. Egli definiva questo punitivismo, o panpenalismo, diremmo oggi, “la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano”. Il ddl sicurezza è l’espressione ultima e più preoccupante di questa chimera: introduce in un sol colpo, se ho contato bene, 14 nuovi reati e 9 circostanze aggravanti di reati già esistenti. In più incide su effetti penali della condanna, anche non definitiva, sul regime dell’articolo 4 bis, che viene esteso, e sul rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o madri di figli con meno di un anno, che da obbligatorio diventa facoltativo. Il ddl colpisce le fasce più deboli - gli immigrati, i carcerati, i dissidenti - e favorisce le forze di polizia? È così, come hanno osservato nei loro condivisibili comunicati l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale e l’Unione delle Camere Penali Italiane. Quanto agli immigrati, si arriva a vietare la vendita delle schede sim a chi non ha il permesso di soggiorno, si ampliano i casi di revoca della cittadinanza conseguente a condanna penale, e si prevedono pene severissime per le rivolte nei centri per gli stranieri. Non solo: si estende il Daspo urbano al divieto di accesso a stazioni e aeroporti, spesso rifugio degli immigrati, anche ai denunciati e ai condannati non definitivi nei cinque anni precedenti per delitti contro la persona e il patrimonio. Come se la presunzione di innocenza, invocata per la legge Severino, qui non valesse. Quanto ai detenuti, fa davvero scalpore il nuovo reato di rivolta. Che dire poi delle manifestazioni di dissenso? Si introduce tra l’altro un reato di opinione, l’istigazione a disobbedire le leggi in carcere, e col blocco stradale di chi si sdraia per protesta su strade e binari si arriva ad abolire un illecito amministrativo per introdurre un reato. L’esatto contrario della depenalizzazione! Un articolo criticato da molti giuristi è appunto quello relativo alla punizione della resistenza passiva… Equiparare la resistenza passiva alla violenza e alla minaccia, come fa il ddl, contrasta con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e offensività e, ancor prima, con la nostra tradizione giuridica. Non a caso si tratta, assieme al carcere per le donne incinte o neo mamme, della disposizione che più ha fatto sobbalzare sulla sedia i penalisti. Quali sono le altre criticità della norma? In un momento in cui le tensioni salgono, per il sovraffollamento e i continui suicidi, non penso proprio che la più responsabile risposta, anche sul piano della comunicazione, sia quella di punire per la prima volta con una norma ad hoc le rivolte e la mera disobbedienza. Al tempo stesso il ddl stanzia quasi un milione di euro l’anno per pagare le spese legali agli agenti di polizia, anche penitenziaria, chiamati a rispondere di fatti commessi nell’esercizio delle funzioni. Potrebbe apparire una provocazione, per chi vive in carcere e magari ha denunciato maltrattamenti o torture, e alimentare contrapposizioni e tensioni che invece vanno evitate, nell’interesse di tutti, a partire dagli agenti della polizia chiamati a un difficile e duro lavoro. La combinazione tra questo ddl e quello sulle carceri potrebbe peggiorare la situazione negli istituti di pena? Temo di sì. La vita in carcere si regge su delicati equilibri, che bisogna fare attenzione ad alterare, anche per non pregiudicare quanto di buono, con fatica, viene fatto nella direzione del recupero sociale. Le notizie filtrano dalle sbarre e se il messaggio è quello di legge e ordine, salvo alcuni pur pregevoli interventi del ddl in tema di lavoro penitenziario, dei quali va dato conto, il clima non migliora certo. Si stanno susseguendo articoli sulle conseguenze dell’abrogazione dell’abuso di ufficio. Anche lei, come il presidente dell’Anm, ritiene che l’addio all’abuso sia una amnistia? Amnistia è, con indulto, la parola che attendono invano i detenuti. Non si ha però notizia di una sola scarcerazione conseguente all’abolizione dell’abuso d’ufficio. Sono continue, invece, le notizie di archiviazioni o assoluzioni per abusi di potere odiosi, che sarebbe stato opportuno accertare e se nel caso punire: il pubblico ministero che danneggia un indagato a beneficio di un altro, il vigile che annulla le multe a un boss, il professore che ha truccato un concorso universitario, e altro ancora. Stride davvero poi con l’idea dello Stato liberale non punire l’abuso di potere del funzionario pubblico ai danni del cittadino. Sarebbe opportuno ripensare la scelta e reintrodurre, come minimo, l’abuso di danno, che è stato un macroscopico errore abolire. D’altra parte, non è la convenzione di Merida a obbligare lo Stato a valutare di punire l’abuso d’ufficio? Proprio ora che non abbiamo più il reato siamo vincolati a valutare di (re) introdurlo. Sembra un paradosso o una provocazione ma, a ben vedere, non è così. Pacchetto sicurezza, dalle toghe ai giuristi la bocciatura è unanime di Angela Stella L’Unità, 9 ottobre 2024 Pioggia di critiche sul ddl governativo nelle audizioni al Senato. E i garanti lanciano l’allarme sul reato di resistenza passiva. Riprese ieri nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato le audizioni sul ddl sicurezza. Nella mattinata Nordio aveva dichiarato che si tratta di un provvedimento normativo “ovviamente perfettibile, il Parlamento è sovrano e ci affidiamo alla volontà dei rappresentanti del popolo” ma “non credo che proporremo emendamenti, avendolo noi approvato”. Sta di fatto che dagli esperti sono arrivate molte critiche. Ha esordito Mauro Palma, già garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il quale “c’è un rischio sia dell’utilizzo della penalità in funzione simbolica di rafforzamento della sicurezza che poi non supera molto spesso il vaglio anche dell’effettività, sia quello che i diritti possano essere sacrificati in funzione del mantenimento di un presunto ordine sociale”. Ha poi parlato di “diritto penale d’autore” in riferimento all’articolo 15 sulle detenute madri. La norma si pone, altresì, in contrasto “con l’articolo 27 della Costituzione laddove si legge che ‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’ e con la convenzione internazionale sui diritti “dell’infanzia”. Palma si è detto pure “molto perplesso” rispetto all’articolo 16, “laddove si prevede la penalizzazione ulteriore dell’accattonaggio, tenendo presente qual è la realtà del carcere attuale. Voi sapete bene che nella realtà attuale sono proprio molto presenti le figure socialmente deboli. Delle 1.500 persone che ora sono in carcere perché sono condannate a una pena inferiore a un anno 728 sono dei senza fissa dimora”. Critico anche sul nuovo reato di resistenza passiva. Su quest’ultimo punto si è espresso criticamente anche l’avvocato Guido Camera, presidente dell’Associazione ItaliaStatodiDiritto: “la condotta di resistenza passiva appare meritevole di emenda per evitare conflitti con i parametri di cui agli articoli 3, 25 comma 2 e 27 della Costituzione”. In particolare ha ricordato che “la giurisprudenza ha da tempo chiarito che non integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale ‘una mera opposizione passiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale’”. Intervenuto anche l’ex magistrato Armando Spataro che in generale ha ravvisato che “le leggi si susseguono come se fossero frutto di una bulimia. Assistiamo a una moltiplicazione di reati e circostanze aggravanti che sono anche frutto della risonanza mediatica di qualche episodio, di una reazione popolare magari amplificata dagli stessi media. E questo determina la reazione con l’approvazione di una legge o di un comma a leggi esistenti. È diventato così più difficile anche il lavoro del magistrato”. Ha aggiunto: “la sicurezza è un diritto ma non può vincere su tutti gli altri, come quelli fondamentali degli immigrati” ad esempio. “Che senso ha - si è chiesto Spataro - a dieci anni da una condanna poter revocare il diritto di cittadinanza? La persona può essersi ricostruita una vita”. Ha poi detto di trovare “inaccettabili” le novità introdotte dall’art. 15 sulle detenute madri, “si vogliono colpire le donne di etnia rom”. Sulla resistenza passiva ha concluso: “si vuole rendere più dura la detenzione amministrativa nei Cpr quando già ci sono state delle condanne della Cedu in particolare sulle condizioni dei minori. Perché non ci si preoccupa invece di non privare della libertà personale in assenza di reato e condanna?”. A seguire Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre: “se ci sarà incremento della popolazione carceraria si avrà una incidenza sul fine rieducativo della pena, sui suicidi, sull’umanizzazione delle condizioni di detenzione, sui diritti individuali”. Tra i costituzionalisti è stato audito anche il prof. avv. Alfonso Celotto: “non solo si inaspriscono pene ma si crea tutta una nuova serie di fattispecie di reato. Tuttavia come visto in passato con l’omicidio stradale e il femminicidio, creati per inasprire le pene di reati già esistenti, la stratificazione delle norme crea difficoltà operative. Si rischia di dar vita solo a norme bandiera”. Mentre è da segnalare che Giovanni Salvi, già procuratore generale della Cassazione, tra i “punti assolutamente positivi” e “opportuni” della norma in discussione ha annoverato le “misure a tutela delle forze di polizia per ciò che concerne il sostegno nelle procedure legali”. Ieri è arrivato, in merito al ddl sicurezza, anche un documento della Conferenza dei garanti dei diritti delle persone private della libertà personale per cui, tra l’altro, “risulta assai grave l’assimilazione, sul piano del disvalore di condotta, tra violenza, minaccia ed atti di resistenza passiva: difficile, peraltro, anche sul piano logico, immaginare una rivolta pericolosa che consista in atti di mera disubbidienza civile. Sarà quindi criminalizzato lo sciopero della fame portato avanti da tre o più detenuti? Il tenore delle norme non consente di escluderlo”. Norme “al limite del ridicolo”, il ddl Sicurezza fatto a pezzi di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 ottobre 2024 Maratona di audizioni nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato. L’ex procuratore di Torino, Armando Spataro: “Non c’è niente di nuovo e molto di inutile”. Gian Luigi Gatta, docente di Diritto penale: “L’unico provvedimento contenuto nel testo capace di produrre sicurezza è la dotazione delle bodycam agli agenti”. Lo hanno letteralmente fatto a pezzi. La prima maratona di audizioni sul ddl Sicurezza di ben 12 esperti tra costituzionalisti, magistrati, avvocati e professionisti dell’esecuzione penale, in un solo pomeriggio, davanti ai senatori delle commissioni congiunte di Giustizia e Affari costituzionali si può riassumere come una bocciatura generalizzata del provvedimento numero 1236. Testo nel quale, per usare le parole dell’ex procuratore di Torino, Armando Spataro, ascoltato ieri insieme agli altri, “non c’è niente di nuovo e molto di inutile”. Non avendo potuto, in soli venti minuti a disposizione, esporre un’analisi esaustiva del testo “omnibus”, come lo ha chiamato il costituzionalista Alfonso Celotto, ciascuno degli auditi si è impegnato a inviare una relazione scritta più dettagliata in ossequio alla tabella di marcia al cardiopalma - che prevede non più di una trentina di audizioni in tutto - imposta dai partiti di governo per portare a casa al più presto l’ultimo pacchetto-propaganda. Un ddl che, per rimanere all’intervento di Celotto (Roma Tre), è frutto di una visione “panpenalistica” e introduce “tanti piccoli tasselli senza però mostrare una visione d’insieme”. Al contrario di quanto affermato ieri su Sky tg24 dal ministro di Giustizia Carlo Nordio secondo il quale “il ddl Sicurezza ha cercato di colmare dei vuoti normativi e di tutela per fatti che avevano destato allarme sociale”, gli esperti ascoltati e interrogati ieri dai senatori delle commissioni quasi all’unisono hanno sottolineato la totale inutilità del provvedimento ai fini di una maggiore sicurezza sociale. “C’è il rischio - ha sottolineato ad esempio l’ex Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma - dell’utilizzo della penalità in funzione simbolica di rafforzamento della sicurezza che poi non supera molto spesso il vaglio anche dell’effettività”. Di nuovo, ha aggiunto Spataro, “assistiamo a una moltiplicazione di reati e circostanze aggravanti che sono anche frutto della risonanza mediatica di qualche episodio, di una reazione popolare magari amplificata dagli stessi media”. Tanto per fare un esempio, per l’ex pm - peraltro favorevole al numero identificativo sulle divise delle forze dell’ordine - è “al limite del ridicolo la norma con cui si vuol modificare l’insieme degli “obblighi di identificazione degli utenti dei servizi di telefonia mobile e relative sanzioni” escludendo che si possano vendere carte Sim a stranieri senza titoli di soggiorno. Un’altra ferita alla loro umanità. Solo che non ci sono manco più le cabine telefoniche. Mi meraviglio - ha aggiunto con ironia il magistrato - che in quest’ottica non sia stata prevista la punizione di chi presta la carta Sim a un immigrato senza permesso di soggiorno”. Occorre invece, ha concluso Spataro, “stare lontani da ogni tipo di populismo”. Parole al vento per chi evidentemente prende come impegno l’affermazione, ricordata dal costituzionalista Marco Ruotolo, “che a minor stato sociale corrisponde maggior stato penale”. Nel giorno in cui si è costretti a registrare nel carcere di Vigevano il 74° detenuto suicida dall’inizio dell’anno, Ruotolo cita un lungo elenco di sentenze della giurisprudenza costituzionale “che meriterebbero un approfondito dibattito parlamentare” e chiede se è stato mai fatto uno studio sull’impatto che le norme del ddl avranno sulle carceri. Nessuno gli risponde ma tutti conosciamo la risposta. Di questo testo “l’unico provvedimento capace di produrre sicurezza è la dotazione delle bodycam”, afferma netto il docente di Diritto penale Gian Luigi Gatta secondo il quale tutto il resto “si concentra su fenomeni che vedono come autori del reato persone che vivono in contesti di marginalità sociale”, e “al contempo prevede una serie di disposizioni a favore delle forze di polizia”. Come ad esempio il reato di occupazione di immobili, che prevede “una pena da 2 a 7 anni che è la stessa degli omicidi sul luogo di lavoro: francamente sproporzionata”. Si tratta dunque solo della summa di “nuovi reati che rischiano di rallentare il processo penale proprio nel momento in cui dobbiamo raggiungere entro il 2026 gli obiettivi del Pnrr”. Dal reato di rivolta alle occupazioni abusive, dalla resistenza passiva alle manifestazioni contro la costruzione di opere pubbliche, i 14 nuovi reati e le 9 nuove circostanze aggravanti “rischiano la bocciatura in Consulta”, avverte Gatta. La docente di Diritto costituzionale a Torino, Alessandra Algostino spiega nei dettagli perché. In sintesi, seguendo “la logica identitaria della dicotomia amico/nemico” dove il nemico è “il disagio sociale, il dissenso e i migranti”, spiega la professoressa, “le norme del ddl non hanno carattere di generalità e astrattezza che dovrebbe avere la legge”. Ci sono poi articoli, come quello appunto sulle occupazioni di case, “scritto in una maniera tale che io non lo capisco francamente”, dice addirittura Giovanni Salvi, magistrato e già procuratore generale presso la Corte di Cassazione, spiegando quali sono gli “elementi di imprecisione” che “si trasformano un domani in un contenzioso giudiziario che porta ulteriore discredito sulla magistratura. Perché - conclude - questa norma non potrà essere applicata”. Riforma delle intercettazioni, dai limiti temporali all’uso strumentale dell’aggravante mafiosa di Tiziana Maiolo Il Riformista, 9 ottobre 2024 La legge tra svolta e scappatoia per pm. L’introduzione di un tetto alla durata delle operazioni di ascolto sarebbe una vera rivoluzione. Ma attenzione all’uso strumentale dell’aggravante mafiosa: può essere una scappatoia per i pm. Se sarà approvata la riforma di Pierantonio Zanettin di Forza Italia sui tempi delle intercettazioni, che approda domani nell’Aula del Senato, potremo dire che siamo finalmente davanti a una vera svolta di civiltà. Pur con le sue deroghe (ahimè) e vincoli sempre suscettibili di elusione, la riscrittura dell’articolo 267 del Codice di Procedura Penale (che fissa a 45 giorni il limite temporale massimo di intercettazioni durante le indagini preliminari) sarà una piccola preziosa rivoluzione. Innanzitutto perché elimina quella catena infinita di proroghe che consentiva ai pm, con l’approvazione del gip, con la sola indicazione di “sufficienti indizi”, cioè il nulla, dopo i primi 15 giorni, di sommarne altri 15, e poi ancora e ancora. Trasformando così la captazione e l’ascolto da strumento per le indagini a contenuto d’indagine per cercare, una volta individuato il “tipo d’autore”, l’eventuale reato. Intercettazioni, la possibile rivoluzione firmata FI - Sarà la prima volta, se il provvedimento sarà approvato senza ulteriori peggioramenti (perché un piccolo arretramento c’è già stato), che nel nostro Codice di Procedura Penale sarà introdotto un tetto alla durata delle operazioni di ascolto. Una rivoluzione firmata Forza Italia. Due sono le possibili deroghe al principio base. La prima si verifica quando “l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Non basteranno quindi i “sufficienti indizi” di reato - concetto molto soggettivo e astratto - per poter superare i 45 giorni, ma veri nuovi fatti, i quali devono essere “specifici e concreti”, oltre che espressamente motivati. Vincoli precisi e stringenti che hanno già messo in allarme una parte della magistratura, che lamenta di non fare in tempo in un mese e mezzo a trovare i colpevoli dei reati. Si agitano anche quelli del Fatto quotidiano, con la solita ossessione grillina dei “colletti bianchi” e la voluttà di poter pubblicare le loro conversazioni private. Ma l’integrità del tetto massimo rimane garantita, nonostante questa prima deroga. Le intercettazioni con il bollino antimafia - I problemi nascono con la seconda, quella che lascia la situazione pre-esistente per i reati di criminalità organizzata. Senza nulla togliere alla sicura buonafede della relatrice Erika Stefani - la senatrice della Lega che ha voluto questa eccezione - dobbiamo invitare lei e gli atri senatori a dare un’occhiata a tutta la giurisprudenza degli ultimi anni nelle Regioni del Sud e alle decine di inchieste partite con la fanfara del bollino dell’Antimafia, con le corsie preferenziali anche in tema di intercettazioni, e poi finite con assoluzioni o comunque con lievi condanne per reati che nulla avevano a che vedere con la mafia. Ma non c’è bisogno di mettere il naso in casi di Calabria o Sicilia: sarebbe sufficiente fare due passi in Liguria e riportare la memoria allo scorso 7 maggio, giorno del blitz della Guardia di Finanza che avrà come risultato politico la caduta della Giunta di centrodestra e le elezioni regionali anticipate ai prossimi 27 e 28 ottobre. Quel giorno si è saputo che le indagini erano fondate su tre anni e mezzo di intercettazioni infinite, rese possibili proprio dal fatto che i magistrati - prima quelli di La Spezia e in seguito quelli di Genova - avevano contestato ad alcuni indagati l’aggravante di mafia. A questo inquietante fatto è importante aggiungere anche i diversi interventi del ministro Nordio che - svelando trucchi e trucchetti con cui spesso si dilettano alcuni pubblici ministeri - ha rivelato l’esistenza di “fascicoli clonati” e “fascicoli virtuali”, inserendo tra questi ultimi proprio l’uso strumentale dell’aggravante mafiosa. Che, se rimane la deroga anche sui tempi delle intercettazioni, rischia di diventare una sorta di autorizzazione occulta ai pm a cercare la scappatoia che consenta loro di agire sempre in regime di proroga, e di conseguenza di tornare al vecchio regime scavalcando la riforma. Che fino a questo momento è arrivata all’Aula con il voto unanime della maggioranza e l’opposizione del solo Movimento 5 Stelle, poiché il Pd si è astenuto. Forse perché la norma contiene anche inasprimenti sulla possibilità di uso delle intercettazioni tra imputato e difensore. Da De Pasquale a Davigo, la nemesi dei pm di Mani pulite di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 ottobre 2024 Costretti a fare i conti con l’oscenità di una Repubblica fondata sull’impunità della magistratura, gli ex protagonisti di Tangentopoli mettono insieme un mosaico sciagurato, incastrati negli ingranaggi giustizialisti che loro stessi hanno contribuito a costruire. E’ più di una nemesi. E’ più di una lezione. E’ più di un cortocircuito. E’ un formidabile squarcio su una realtà vera, profonda, drammatica, una realtà giudiziaria reale che per anni in pochi hanno voluto vedere e che ora, oplà, è qui magicamente di fronte a noi. La condanna in primo grado ricevuta ieri a Brescia dal procuratore aggiunto uscente di Milano, Fabio De Pasquale, condanna a otto mesi per rifiuto d’atti di ufficio, per non aver cioè voluto depositare nel febbraio del 2021, a ridosso della sentenza del processo milanese per corruzione internazionale Eni-Nigeria, prove rilevanti che avrebbero potuto permettere di dimostrare prima del tempo l’innocenza degli indagati, in quello che il circolo dei mozzorecchi definì “il processo del secolo”, è l’ultimo tassello di un mosaico interessante e sciagurato che riguarda numerosi magistrati che hanno fatto parte del famoso mondo di Mani pulite. De Pasquale non è il primo a finire nei guai, tra i membri di quel team, e pochi mesi prima di lui la stessa sorte era toccata a un altro totem del giustizialismo chiodato: Piercamillo Davigo, per il quale, a marzo, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per la vicenda dei verbali di Piero Amara nell’ambito della famosa e affumata inchiesta riguardante la famigerata “Loggia Ungheria”. I più pigri potrebbero dire che la storia di Davigo e De Pasquale rientra perfettamente all’interno della famosa nemesi del purismo: gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura. Eppure i due tasselli vanno esaminati cambiando inquadratura e concentrandosi su quello che è diventato il destino inesorabile degli ex pm di Mani Pulite: diventare protagonisti di un processo speciale, ancora agli albori, finalizzato a mettere a nudo l’oscenità di una repubblica fondata sull’impunità dei magistrati. De Pasquale in fondo è stato condannato in primo grado per questo: per aver pensato di poter fare prevalere, senza pagarne le conseguenze, la logica del teorema sulla dottrina dei fatti. Davigo in fondo è stato condannato per questo: per aver pensato di poter violare il segreto istruttorio, senza pagarne le conseguenze, per raggiungere un fine considerato più importante del rispetto delle regole. In questo senso, i processi contro Davigo e De Pasquale sono processi al centro dei quali vi è la denuncia di quelli che sono alcuni ingranaggi che permettono alla repubblica fondata sulla gogna, sulla cultura del sospetto e sul trasferimento ai pm di pieni poteri di proliferare allegramente nel nostro paese. Ma accanto a questi casi ce ne sono altri non meno significativi che arrivano ancora dal vecchio mondo di Mani Pulite e che sono a loro modo utili a rafforzare lo stesso fenomeno: reagire contro una repubblica fondata sull’impunità dalla nostra magistratura. Succede così di ritrovare un Antonio Di Pietro, che nella sua nuova vita si è travestito da avvocato garantista, pronto a tuonare contro gli abusi di una magistratura che fa quello che un tempo faceva il suo pool: abusare della carcerazione preventiva. E invece oggi ecco Di Pietro che, sul caso Toti, mesi fa, arrivava a dire che “la motivazione per cui non può essere ridata la libertà a Toti perché potrebbe commettere reati dello stesso tipo è insostenibile”. Stessa storia anche per Gherardo Colombo, che dopo aver chiuso gli occhi per anni sul modo in cui il suo pool utilizzò il carcere in modo discrezionale, da anni sostiene che con il carcere non si deve abusare, “perché non è che il timore del carcere comporti necessariamente l’astensione dal commettere reati”. Una vecchia frase attribuita a Piercamillo Davigo sosteneva una famosa tesi che forse oggi neppure Davigo si sentirebbe di difendere: “Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”. Oggi quell’espressione, osservando la parabola del pool di Mani pulite, potrebbe essere riadattata così: non esistono innocenti, esistono solo giustizialisti che non hanno ancora scoperto i danni prodotti da una magistratura decisa a difendere con i denti la propria impunità. Lombardia. Il progetto che vuole rendere più umane le carceri leccotoday.it, 9 ottobre 2024 Un nuovo progetto per migliorare la qualità della vita legata al sistema penitenziario lombardo. Più risorse per l’accompagnamento dei giovani carcerati, percorsi di formazione per il personale, case popolari per gli agenti di polizia penitenziaria, maggiori risorse alle comunità terapeutiche. Questi i contenuti salienti dell’ordine del giorno sul problema dei giovani detenuti nelle carceri lombarde sottoscritto da tutti i capigruppo e approvato martedì all’unanimità dall’aula del Consiglio regionale. Cosa c’è nel documento sulle carceri - Il documento è frutto di un lavoro di sintesi tra due testi: quello presentato dalla maggioranza a prima firma Alessia Villa (FdI) e quello delle minoranze, primo firmatario Luca Paladini (Patto Civico). L’opportunità di un pronunciamento sul tema era emersa nella Commissione speciale “Tutela dei diritti delle persone private della libertà personale e condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari” presieduta dalla stessa Alessia Villa a seguito dei gravi fatti avvenuti nei mesi scorsi in particolare nel carcere minorile Beccaria di Milano e a seguito dei numerosi suicidi che hanno visto protagonisti giovani detenuti in alcuni istituti di pena lombardi. Il testo approvato impegna la Giunta e gli assessori competenti a intraprendere ulteriori azioni e misure, nonché a prevedere all’interno del bilancio previsionale di Regione Lombardia maggiori risorse finalizzate a potenziare percorsi di accompagnamento, reinserimento sociale e lavorativo delle persone private della libertà personale, in particolar modo nei confronti di minori e giovani adulti; a valutare l’attivazione, d’intesa con il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, di corsi di formazione rivolte agli agenti di polizia penitenziaria, agli educatori e più in generale a coloro che operano all’interno delle carceri per affrontare e gestire in modo più consapevole ed efficace le dinamiche che si sviluppano all’interno degli istituti penitenziari (ad esempio corsi di lingua araba o slava, corsi per interpretare i comportamenti dei moltissimi minori e dei giovani adulti stranieri che popolano le carceri lombarde, corsi di primo soccorso, corsi per spegnere un incendio in una cella); a riservare immobili di edilizia residenziale pubblica o di housing sociale al personale penitenziario così da consentire di affittare alloggi a prezzi calmierati; a intervenire presso il Governo affinché vengano stanziate risorse destinate ad ampliare la capacità delle comunità terapeutiche di accogliere i detenuti che possono espiare la condanna, o parte di essa, in strutture alternative al carcere. L’aula ha approvato con 47 voti a favore e 22 contrari anche il documento originario della maggioranza in cui si sollecita il Governo ad avviare la costruzione di nuove carceri in Lombardia e si sollecita la definizione di accordi con i Paesi di provenienza dei detenuti stranieri perché questi possano scontare la pena nei Paesi di origine. Respinto invece il testo originario delle minoranze (44 contrari e 25 favorevoli); molti contenuti di questo documento sono comunque confluiti in quello unitario approvato all’unanimità. “Non serve solo la certezza della pena” - “Non solo certezza della pena, servirebbe, per quanto possibile, anche una certezza del reinserimento e recupero del condannato - ha commentato Alessia Villa - ancora di più se parliamo di ragazzi che, una volta scontata la pena, hanno ancora una parte importante della loro vita da trascorrere in mezzo alle nostre comunità. Nel nostro documento abbiamo dedicato particolare attenzione ai “giovani adulti” che per effetto delle nuove norme scontano la pena negli istituti di detenzione minorile fino al compimento del 25esimo anno: come dimostrato dai progetti già sostenuti da Regione Lombardia, questi ultimi hanno ancora la possibilità di essere riorientati anche se alle spalle hanno percorsi di devianza determinati spesso dai contesti di appartenenza. Tutto questo lo si può fare solo e soltanto offrendo attività diversificate, in primis quelle lavorative e formative, senza però dimenticare anche quelle ricreative, culturali e sportive. Dobbiamo dare orizzonti di speranza a chi molto spesso non vede più un futuro”. “Abbiamo fatto un lavoro importante trovando un punto di caduta su un testo condiviso anche se non rispecchia del tutto la nostra visione del problema - ha dichiarato Luca Paladini (Patto Civico) -. Siamo lieti tuttavia che il lavoro avviato in Commissione Speciale Carceri abbia prodotto un risultato tangibile che tiene conto dell’esigenza prioritaria di ricostruire percorsi di vita positivi per i giovani detenuti attraverso il lavoro, lo studio, l’attività sportiva e ricreativa. In tale senso a nostro avviso occorre rispondere al tema del sovraffollamento carcerario innanzitutto tramite il ricorso alle pene alternative, all’affidamento in prova, alle comunità di accoglienza esterne agli istituti di pena”. Le carceri della Lombardia sono sovraffollate - Nel suo intervento Paladini ha ricordato come in Lombardia, alla data del 23 settembre 2024, l’indice di sovraffollamento regionale superava il 153%, con picchi allarmanti superiori al 200% nelle case circondariali di San Vittore (227,89% in ambito maschile e 180,46% in quello femminile) e Canton Mombello (204,95%); situazioni superiori al dato regionale si sono registrate anche nelle carceri di Busto Arsizio, Como, Lodi, Varese, Bergamo, Mantova e delle case di reclusione di Vigevano e Brescia. Nel lungo e articolato dibattito sviluppatosi in Aula sono intervenuti Luca Marrelli (Lombardia Ideale), Paola Bocci (PD), Lisa Noja (Azione Italia Viva), Christian Garavaglia (FDI), Paola Pollini (M5Stelle), Roberta Vallacchi (PD), Diego Invernici (FDI), Miriam Cominelli (PD), Massimo Vizzardi (Azione Italia Viva), Andrea Sala (Lega), Onorio Rosati (AVS), Giulio Gallera (Forza Italia), Carmela Rozza (PD), Giacomo Zamperini (FDI), Samuele Astuti (PD), Maira Cacucci (FDI), Giuseppe Licata (Azione Italia Viva), Davide Casati (PD), Nicolas Gallizzi (Noi Moderati), Michela Palestra (Patto Civico), Martina Sassoli (Lombardia Migliore), Alessandro Corbetta (Lega), Claudia Carzeri (Forza Italia) e Pierfrancesco Majorino (PD): per la Giunta l’assessore al Welfare Guido Bertolaso e il sottosegretario Mauro Piazza. “150 euro al giorno - ha detto Zamperini - questo è quanto al giorno d’oggi, un detenuto costa allo Stato per poter vivere e risiedere in uno stato di detenzione. Un costo esorbitante, soprattutto se pensiamo che nella maggior parte dei casi, la detenzione viene vissuta in maniera totalmente passiva. Nel dibattito di oggi si è destinato parecchio tempo a discutere dei giusti trattamenti dei carcerati. Un punto di accordo su questa tematica, però, si potrà trovare solamente quando oltre ai diritti dei detenuti si porrà la stessa attenzione anche alla sete di giustizia delle vittime di reato e delle loro famiglie, che allo stato attuale, invece, sono e si sentono avviliti per quello che dovrebbe essere un dogma: la certezza della pena. Per queste persone, servono maggiori tutele e percorsi come quelli legati alla giustizia riparativa. Per chi è detenuto, serve offrire l’opportunità dei lavori “forzati”, socialmente utili a beneficio sia della comunità che ne trae utilità, sia per chi attraverso il lavoro, pratica un’attività rigenerante e formativa”. Lecco: affollamento al 188% - “Sempre più spesso, - continua Zamperini - assistiamo a episodi di violenza da parte di giovani e giovanissimi, spesso di origine straniera, che non vanno assolutamente confusi con il disagio giovanile, ma come veri e propri atti di criminalità. Queste persone agiscono con una strafottenza dovuta dal senso di impunità. Verso questi individui serve tolleranza zero e certezza della pena”. “Nel carcere di Pescarenico - conclude Zamperini - sono attualmente presenti 94 detenuti a fronte di una capienza di 53 posti, percentuale di affollamento pari al 188%. Circa il 60% dei detenuti è di origine straniera. La struttura è ben integrata all’interno del tessuto cittadino, grazie anche all’ottima gestione da parte della direttrice, Luisa Mattina, ed alla buona volontà e disponibilità degli operatori della Polizia Penitenziaria, del personale educativo, ma anche grazie a un territorio ed enti del Terzo Settore rispondenti. Nonostante la percentuale di sovraffollamento, la struttura ha dimostrato di poter essere un terreno fertile per lo sviluppo di percorsi per l’aumento della funzione rieducativa della detenzione”. A margine dei lavori d’aula il Difensore regionale e Garante dei detenuti Gianalberico De Vecchi ha ricordato come Regione Lombardia da quest’anno, anche su sua sollecitazione, prevede in via definitiva per i detenuti l’esenzione dal pagamento della tassa regionale per il Diritto allo Studio Universitario: un provvedimento che punta a incentivare i percorsi formativi nel contesto penitenziario e che era stato adottato per la prima volta nello scorso anno accademico. Liguria. L’Associazione Coscioni: “Nelle carceri a rischio diritti fondamentali” cittadellaspezia.com, 9 ottobre 2024 “La situazione delle carceri in Liguria continua a destare preoccupazione, con un tasso di sovraffollamento del 120%. Nella regione sono detenuti 1.268 uomini e 66 donne, una condizione che mette a rischio i diritti fondamentali, in particolare quello alla salute”: lo si legge in una nota diffusa dall’Associazione Luca Coscioni. “Lo scorso 9 agosto abbiamo diffidato le 102 Asl nazionali, chiedendo loro di effettuare sopralluoghi negli istituti di pena per valutare la qualità dei servizi sanitari. In Liguria, solo l’Asl 5 Spezzino ha risposto, mentre le altre Asl tacciono, lasciando irrisolti i dubbi sulle condizioni sanitarie dei detenuti”, dichiara Marco Perduca, coordinatore dell’iniziativa per l’Associazione Luca Coscioni. “Attualmente, le carceri liguri sono al limite della capacità, con un sovraffollamento che mette a rischio il diritto alla salute, compromesso da spazi inadeguati e carenze nei servizi medici”, osservano ancora dall’associazione. “Chiediamo ai media locali di farsi promotori della trasparenza e di indagare sulla situazione delle carceri liguri, ponendo quattro domande alle Asl e alle autorità competenti - prosegue Perduca: sono state effettuate ispezioni nei penitenziari? Quando e con quale frequenza? Se non sono state fatte, sono previste ispezioni future? Se sì, quando? Quali sono stati i risultati delle ispezioni effettuate e quali raccomandazioni sono state date alla direzione dei penitenziari o al Provveditorato regionale? Come hanno risposto le autorità competenti, come i Provveditorati regionali, il DAP o il Ministero della Giustizia?” “La mancanza di risposte dalle Asl liguri - prosegue Perduca - riflette una situazione preoccupante a livello nazionale: solo 34 Asl su 102 hanno risposto alle nostre diffide, nonostante l’aumento del sovraffollamento carcerario e i continui appelli alla tutela della salute dei detenuti”. L’Associazione Luca Coscioni, si legge ancora, “denuncia inoltre l’aumento generale del sovraffollamento carcerario in Italia, con 61.758 persone attualmente detenute, e l’incremento del 49% negli istituti minorili a seguito del Decreto Caivano”. Conclude Perduca: “Continueremo a monitorare la situazione, chiedendo alle istituzioni e alle autorità sanitarie di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti, a partire da quello alla salute”. Vigevano (Pv). Ancora un suicidio in cella: sono 74 in Italia da inizio anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2024 All’uomo restava da scontare quasi un anno di pena. L’allarme del Garante sul sovraffollamento: alla Puglia il record negativo. Mentre le carceri italiane continuano a soffrire di un sovraffollamento cronico che mette a dura prova l’intero sistema penitenziario, oggi c’è stato un altro suicidio. Si è tolto la vita nel carcere di Vigevano un magrebino, con un residuo di pena prossimo a un anno. “Si tratta del 74esimo detenuto suicida dall’inizio dell’anno, cui - dichiara Gennarino de Fazio, segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria - bisogna aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria che, altresì, si sono tolti la vita. Una strage senza fine e senza precedenti, rispetto alla quale la politica non pone alcun argine concreto”. E dall’ultimo report del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, aggiornato al 7 ottobre 2024, emerge una situazione allarmante e critica. Secondo i dati forniti, 61.914 detenuti sono attualmente ospitati nelle carceri italiane, mentre la capienza regolamentare è di soli 51.196 posti. Erano 61.800 il 23 settembre scorso. A rendere il quadro ancora più complesso è l’inagibilità di alcune sezioni detentive, che riduce ulteriormente i posti regolarmente disponibili a 46.812, generando un deficit di 4.384 posti. Il risultato è un tasso medio di sovraffollamento del 132,26%, con un indice basato sulla capienza regolamentare del 120,94%. Una situazione fuori controllo in molte regioni. La Puglia detiene il record negativo, con un sovraffollamento del 167,52%, seguita da Lombardia (153,64%), Basilicata (152,63%), Veneto (147,12%) e Lazio (146,14%). Solo Valle d’Aosta e Sardegna sono sotto la soglia regolamentare, rispettivamente il 77,01% e il 97,70%. Il sovraffollamento raggiunge picchi drammatici in alcuni istituti, tra cui spicca San Vittore, con un impressionante 228,03%. Non va meglio al Canton Mombello di Brescia con il 207,14% e Foggia, che registra un 205,8%. In totale, 155 istituti penitenziari su 190 (pari all’81,57% del totale) superano il limite di affollamento consentito, con ben 54 istituti che oltrepassano il 150% di capienza, rendendo urgenti interventi strutturali e logistici. Un altro aspetto critico riguarda la composizione della popolazione carceraria: 19.592 detenuti sono di cittadinanza straniera, pari al 31,64% del totale, con una prevalenza di persone provenienti da paesi extra-Ue (27,08%). La maggioranza dei detenuti è di sesso maschile (59.235 uomini), a fronte di sole 2.679 donne. Il report analitico sottolinea anche la crescente pressione derivante dal numero di nuovi ingressi rispetto alle uscite. Nel periodo compreso tra il 7 ottobre 2023 e il 7 ottobre 2024, ci sono stati 43.146 ingressi dalla libertà, mentre 29.574 detenuti sono stati liberati, generando un saldo negativo di 13.713 unità. Questo squilibrio contribuisce ulteriormente a peggiorare il già drammatico sovraffollamento, rendendo indispensabile un intervento rapido e mirato da parte delle autorità competenti. Ma finora, l’unica strada intrapresa è quella relativa a piani edilizi che, come la storia italiana insegna, prevedono templi biblici e comunque sia non è la risoluzione come già indicato dagli organi internazionali, a partire dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Lodi. Detenuto morto in carcere, attesa per l’esito dell’autopsia di Federico Dovera Il Cittadino, 9 ottobre 2024 Tra poche ore sarà più chiara la causa del decesso del 30enne morto in carcere nella notte tra venerdì e sabato. Si attende, infatti, l’esito dell’autopsia, una procedura dovuta per fare chiarezza sulla morte dell’uomo, disposta dalla Procura di Lodi guidata da poco dalla dottoressa Laura Pedio. Il 30enne, di origini brasiliane, con problemi di tossicodipendenza alle spalle, era arrivato alla Cagnola da poco, trasferito dal carcere di Busto Arsizio dove, secondo i primi riscontri, aveva avuto delle incompatibilità con qualche detenuto. Il 30enne, ospitato nella sezione terza, dove la libertà è maggiore, è stato male nella notte tra venerdì e sabato e quando l’equipe di emergenza urgenza del 118 è intervenuta ha provato a rianimarlo, ma non c’è stato nulla da fare. La sua morte, secondo i primi riscontri, potrebbe essere compatibile con un eccesso di psicofarmaci, ma senza autopsia non si può fare nessuna ipotesi. Quello dell’abuso di psicofarmaci in detenzione è un problema denunciato nei suoi interventi pubblici anche dal dottor Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica. Prima di andare in arresto cardiaco, l’uomo ha vomitato e nell’emesi del paziente sono state riscontrate lievi striature di sangue. “Non lo conoscevo personalmente - spiega il cappellano don Maurizio Bizzoni -, sono andato oggi (ieri per chi legge, ndr), ho cercato di parlare con i ragazzi di quello che è successo. Venerdì celebreremo una Messa per lui. I detenuti sono seguiti dal punto di vista sanitario, ci sono 2 medici e un gruppo di 3-4 infermieri a disposizione per chi ha bisogno”. Il decesso del 30enne nella casa circondariale del capoluogo ha messo sotto i riflettori il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. Qualche giorno fa la consigliera regionale del Pd Roberta Vallacchi ha evidenziato la presenza di 80 detenuti alla Cagnola, il doppio di quanti ne sono previsti, il 60 per cento dei quali con problemi di tossicodipendenza. “Il sovraffollamento genera diverse problematiche - precisa il segretario della Funzione pubblica della Cgil di Lodi Guido Scarpino -; Lodi come altre carceri subisce il problema del sovraffollamento, dell’incuria e la carenza di personale costretto a turni esasperati. Proprio per questo non può curare il singolo bisogno delle persone in detenzione. Si cura il servizio, ma magari si perdono le sensibilità individuali. Il servizio si è un po’ massificato. Il rapporto tra gli agenti e i detenuti chiaramente viene meno. Gli agenti sono presi da mille attività. È questa la questione credo. Il detenuto va confortato da chi lo sorveglia. Questo rapporto, una volta prezioso, ripeto, si è perso. C’è una distanza professionale determinata dal fatto che vale più svolgere l’attività che curare la relazione. Le cose in più si tralasciano. I segni di disagio nei detenuti ci sono, ma serve attenzione per vederli”. Quello della carenza del personale penitenziario è un tema sottolineato anche dal segretario del Sappe. “Il carcere di Lodi è piccolo - annota Donato Capece - è tranquillo, non è così tanto sovraffollato, a parte qualche unità in più. Non ha problemi. Il tema però è la carenza di organico per quanto riguarda il coordinamento delle unità operative: più agenti consentirebbero di organizzare meglio il lavoro”. Genova. “Massacrato un detenuto fragile nel carcere di Marassi”. La denuncia choc di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2024 Yousef, un giovane con disturbi della personalità, sarebbe stato brutalmente aggredito da agenti penitenziari nella sala colloqui. Esposto dell’Associazione Yairaiha che chiede un’indagine approfondita. Il 3 ottobre, una sconvolgente vicenda di presunta violenza ha turbato la quiete del carcere di Marassi a Genova. Secondo l’esposto presentato dall’Associazione Yairaiha Ets, impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti, un giovane detenuto con disturbi della personalità sarebbe stato vittima di un brutale pestaggio da parte di agenti penitenziari. L’episodio, secondo la ricostruzione che Il Dubbio ha potuto visionare, avrebbe avuto inizio in sala colloqui, mentre il giovane, Yousef, si preparava a incontrare il proprio avvocato. Durante il tragitto, un alterco con un brigadiere della polizia penitenziaria sarebbe degenerato rapidamente. Stando alla testimonianza, tutto sarebbe iniziato con un semplice saluto, percepito da Yousef, particolarmente fragile dal punto di vista psichico, come una provocazione. La reazione esclusivamente verbale del detenuto, seppur aggressiva, sarebbe stata scatenata da questo episodio. Il brigadiere, a sua volta, avrebbe reagito in modo sproporzionato, sia verbalmente che fisicamente. Avrebbe cominciato a urlare: “Tu non sai con chi hai a che fare, come ti permetti di rispondere così, tu sai chi cazzo sono io?”. Poi il brigadiere avrebbe colpito Yousef con uno schiaffo, rompendogli gli occhiali da vista e ferendolo al volto. La scena, stando sempre al racconto, si sarebbe spostata nella sala colloqui. Yousef, visibilmente scosso, gli occhiali rotti a testimoniare l’accaduto, cerca conforto nel suo avvocato che l’attende nella sala colloqui. Ma la tregua è breve. Il brigadiere, come un predatore che non vuole lasciare andare la sua preda, irrompe nella sala, rinnovando le sue provocazioni, gli insulti, le minacce. La tensione sale, l’aria si fa elettrica. In un disperato tentativo di autodifesa, il detenuto avrebbe cercato di reagire. Ed è qui che la situazione sarebbe degenerata del tutto. Come rispondendo a un richiamo silenzioso 5 o 6 agenti penitenziari sarebbero arrivati in rinforzo. E poi... il buio. Un pestaggio brutale, sproporzionato, che non avrebbe tenuto conto né della vulnerabilità psicologica del detenuto, né dei principi più basilari di umanità. L’Associazione Yairaiha, nell’esposto, sottolinea che il disturbo borderline di Yousef lo rende particolarmente vulnerabile allo stress e alle provocazioni, una condizione che avrebbe dovuto indurre il personale a maggiore cautela. Viene menzionata la presenza di potenziali testimoni, incluso l’avvocato di Yousef e un altro avvocato presente nella sala colloqui. Inoltre, l’esposto riporta che la sorella di Yousef sarebbe stata contattata dalla madre di un altro detenuto, il quale avrebbe notato le condizioni di Yousef durante l’ora d’aria. Suscita perplessità il successivo trasferimento improvviso di quest’ultimo detenuto, avvenuto il 5 ottobre, che potrebbe far sorgere dubbi sulla possibilità di allontanare potenziali testimoni. L’Associazione Yairaiha Ets chiede pertanto un’indagine urgente, con l’acquisizione di tutte le testimonianze disponibili e di eventuali registrazioni video. Richiede inoltre l’adozione immediata di misure volte a garantire la sicurezza e l’integrità psicofisica di Yousef, nonché un costante monitoraggio del suo stato di salute mentale durante la detenzione. L’esposto-querela è stato presentato contro i soggetti responsabili dei presunti fatti delittuosi, con riserva di costituirsi parte civile. L’Associazione chiede di essere costantemente informata sull’andamento delle indagini, sull’eventuale archiviazione del procedimento o sull’esercizio dell’azione penale. A corredo dell’esposto, sono state allegate una copia della perizia psichiatrica del giugno 2023, che attesta il disturbo di Yousef, e delle immagini degli ematomi riportati dal detenuto, acquisite tramite screenshot durante una videochiamata con la sorella. Tali elementi, a parere dell’Associazione, corroborano la versione dei fatti denunciata. L’Associazione Yairaiha, rappresentata dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta del Foro di Marsala, intende fare piena luce su questa grave vicenda, che getta l’ennesima ombra inquietante sul sistema carcerario. Come può un luogo deputato alla riabilitazione trasformarsi in un teatro di violenza? E come può un disturbo psicologico, che richiederebbe comprensione e supporto, diventare invece il pretesto per un’escalation di brutalità? Queste sono le domande a cui si chiede di rispondere. Taranto. Detenuto si ammala e ora non cammina più: l’Italia condannata dalla Corte europea di Giuseppe Di Bisceglie Corriere del Mezzogiorno, 9 ottobre 2024 “Mancanza di cure adeguate”. Il 65enne, condannato a 30 anni di reclusione, era entrato in carcere in buone condizioni di salute ed era perfettamente in grado di camminare. Ma durante la detenzione sono subentrate patologie alla colonna vertebrale non curate in modo appropriato. Le cure ricevute da un detenuto durante il suo periodo di permanenza in carcere non sono state adeguate e per questo l’Italia dovrà risarcirlo con ottomila euro. È quanto stabilito da una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in riferimento al caso di un detenuto 65enne, originario di Taranto, che durante il periodo di detenzione in carcere ha visto aggravarsi le sue condizioni di salute, al punto da non riuscire più a camminare. In carcere dal 2000 - L’uomo, condannato alla pena di 30 anni, era entrato in carcere nel 2000. Al momento del suo ingresso nel penitenziario non aveva alcun tipo di problema di natura motoria e riusciva regolarmente a camminare. La sua detenzione si è consumata in diversi penitenziari italiani e, durante questo periodo, gli sono stati riscontrati una serie di disturbi alla schiena, al punto da dover ricorrere ad alcuni interventi di chirurgia alla colonna vertebrale. I medici che hanno svolto su di lui gli accertamenti clinici hanno certificato una “cronicizzazione dei disturbi motori”. Una situazione clinica tale da richiedere delle cure continue e cicli di fisioterapia costanti. Cure che, però, non sarebbero state somministrate in maniera adeguata. L’avvocato: “Doveva essere assistito in una struttura ad hoc” - Il difensore del detenuto, l’avvocato Carlo Gervasi, in più occasioni ha presentato istanze per ottenere delle cure adeguate per il suo assistito ma, ad eccezione di pochi casi, il 65enne non è stato assistito in una struttura riabilitativa. Per questo, si è rivolto alla Corte Europea per i diritti dell’uomo che ha stabilito che c’è stata la violazione dell’articolo 3, che sancisce il diritto dell’individuo a non subire pene disumane o degradanti e violazioni dell’integrità fisica o psichica. “L’elemento importante di questa sentenza della Cedu - spiega l’avvocato Gervasi - è che viene rilevata l’inadeguatezza dell’assistenza per il detenuto in carcere”. Una pronuncia che potrebbe avere dei risvolti sociali importanti. Varese. Carcere “inutilizzabile” da più di 20 anni, ma è pieno e anzi sovraffollato di Veronica Deriu La Prealpina, 9 ottobre 2024 “Il carcere di Varese è stato dichiarato non utilizzabile all’inizio degli anni 2000, nonostante questo continua ad essere pieno di detenuti. Quindi è evidente che c’è qualcosa che va rivisto. Ci auguriamo che si possano trovare nuove soluzioni, anche un po’ diverse rispetto alle attuali”. Lo ha detto oggi, martedì 8 ottobre, il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, nell’ambito di un ragionamento sulle carceri lombarde fatto a margine del Consiglio regionale. “È un dato di fatto che dove i detenuti lavorano la recidiva si abbassa del 70-80%. È chiaro che bisognerà cercare delle soluzioni tali per cui all’interno del carcere ci sia la possibilità per tutti i detenuti di crearsi una professione per garantire all’uscita la possibilità di avere un’occupazione. Bisogna trovare un mix tra carcere e lavoro” ha spiegato il governatore. “Va bene scontare la pena ma allo stesso tempo serve avere un reinserimento veloce perché con il lavoro si anticipa il reinserimento - ha aggiunto Fontana -. Credo che sia importante affrontare il problema delle carceri che da ormai 50 anni è sempre stato messo da parte. Credo che siano troppi anni che non se ne parla”. Ed ecco poi il riferimento ai Miogni di Varese. Ci sono anche “questioni che derivano dal fatto che si sono chiusi, per esempio, i manicomi criminali - ha concluso Fontana - e quelli erano luoghi dove sicuramente chi aveva queste problematiche poteva essere ricoverato”. “La situazione delle carceri lombarde è sempre più grave: il sovraffollamento, la carenza di personale e le strutture fatiscenti sono solo alcune delle gravi criticità che affliggono il sistema penitenziario regionale, minando il ruolo rieducativo delle carceri e generando condizioni lavorative molto precarie per la polizia penitenziaria e tutto il personale”, così Giuseppe Licata, consigliere regionale di Italia Viva, intervenuto in aula questa mattina nel Consiglio Regionale dedicato all’emergenza carceri. Licata ha portato in aula proprio l’esempio del carcere di Varese: “Il carcere dei Miogni dispone di una struttura vetusta, risalente al 1893, dichiarata in dismissione già nel 2001 e che oggi continua ad ospitare molti più detenuti della propria capacità, in condizioni igieniche e ambientali a dir poco problematiche. Solo nel 2017, grazie all’intervento dell’onorevole Maria Chiara Gadda, sono state installate le docce, ma tuttora in alcune di esse manca l’acqua calda”. Continua Licata: “Bisogna dire grazie alla polizia penitenziaria e a tutto il personale carcerario, che, spesso in condizioni proibitive, riescono a far funzionare queste strutture, ma a prezzo di turni massacranti e sovente senza poter garantire pienamente la funzione rieducativa del carcere. Il tema riguarda sia lo Stato che la Regione, per questo Regione Lombardia deve esercitare la giusta pressione sul Governo, ma deve anche assumersi le proprie responsabilità, soprattutto nell’accompagnamento sociale, nella formazione professionale e nell’inclusione lavorativa dei detenuti”. Il Consiglio si è concluso con l’approvazione di un documento condiviso tra maggioranza e opposizione che impegna Governo e Giunta Regionale ad intraprendere azioni concrete a favore delle carceri lombarde, tra queste più percorsi di formazione e inserimento sociale, nuovi fondi per le assunzioni e specifiche indennità per i sanitari che operano nelle carceri. In conclusione del suo intervento Licata ha citato l’esempio virtuoso di Don David Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio: “Don David con grande ed encomiabile sforzo riesce a promuovere il reinserimento lavorativo dei detenuti grazie alla sua associazione La Valle di Ezechiele, costituendo in quel caso l’anello mancante tra la carcerazione ed il reinserimento sociale: in quest’aula abbiamo molto da imparare dall’esperienza di Don David. Adesso raccogliamo la sfida di fare che i Don David in Lombardia e in Italia possano continuare il proprio lavoro di affiancamento e sostegno, senza doversi di fatto sostituire alle Istituzioni, come è oggi”. “Sbattiamolo in galera e buttiamo le chiavi è una frase agghiacciante, spesso pronunciata anche da politici, che non si dovrebbe sentire mai più, perché il nostro compito dev’essere quello, indicato anche dalla nostra Costituzione, di essere capaci costruire delle alternative e dare alle persone detenute delle nuove possibilità di reintegrazione”, così il consigliere regionale del Pd Samuele Astuti ha iniziato oggi il suo intervento in aula consiliare, durante il dibattito sull’emergenza carceri in Lombardia. “Analizzando i dati si evince che moltissime delle persone che entrano in carcere provengono da contesti sociali difficili e molto spesso non hanno avuto gli strumenti per costruirsi un’alternativa di vita ed è dimostrato, altresì, che la recidiva crolla drasticamente quando una persona esce dal carcere con una prospettiva vera di lavoro - dice Astuti -. Ritengo che occuparci di questo problema rientri tra le nostre responsabilità. Dobbiamo garantire che all’interno delle carceri ci sia la possibilità di costruire alternative e ciò può avvenire solo attraverso la dignità del lavoro”. “Abbiamo parlato tante volte di dignità del lavoro, ma è un impegno fondamentale che dobbiamo assumerci anche in questo contesto. È per questo che all’interno dell’ordine del giorno che abbiamo presentato ci sono tre richiami in proposito - fa sapere il consigliere -: il primo richiede di aumentare le borse lavoro e promuovere la stipula di accordi a livello territoriale permettendo a queste persone di poter lavorare e acquisire professionalità; il secondo chiede di potenziare i percorsi di formazione, anche per permettere agli stranieri di imparare la lingua italiana e il terzo chiede di attuare misure adeguate affinché vi sia un aumento delle posizioni lavorative di pubblica utilità rivolte alle persone detenute o ex detenute presso i comuni lombardi”. “A livello regionale noi possiamo fare molto - conclude Astuti - e mi auguro che l’ordine del giorno bipartisan appena approvato dall’aula consiliare rappresenti un passo avanti verso la costruzione di un’alternativa vera”. Roma. Regina Coeli, audizione sui recenti episodi di suicidio nella struttura consiglio.regione.lazio.it, 9 ottobre 2024 Negata da alcuni dei relatori una connessione diretta con la tematica del sovraffollamento, che però resta un problema grave. Audizione oggi in VII Commissione - Sanità, politiche sociali, integrazione sociosanitaria, welfare del Consiglio regionale del Lazio con tema: “Episodi di suicidio recentemente verificatisi nel carcere di Regina Coeli”. La presidente Alessia Savo ha precisato in apertura che l’audizione sarebbe stata incentrata sulla situazione sanitaria del carcere, come impone la materia di cui si occupa la commissione. Il consigliere Rodolfo Lena del Partito democratico ha introdotto i lavori, esprimendo la sua preoccupazione per lo stato di grave sovraffollamento della struttura. La parola è passata quindi alla direttrice del carcere circondariale Regina Coeli, dr.ssa Claudia Clemente, che ha parlato di situazione complessa di una struttura che per motivi di competenza giurisdizionale riceve tutti gli arrestati, cosicché il numero degli ospiti è da tempo al di sopra delle mille unità. Ovviamente non si tratta solo di un problema di posti letto, ma complessivo rispetto a tutti i servizi. Molto buono il livello della assistenza sanitaria, ha detto la direttrice, che però ha rilevato come il problema sia anche di tipo sociale ed economico: non esiste per molti detenuti la possibilità di percorsi alternativi al carcere e ci sono problemi di integrazione dovuti alla forte presenza di stranieri, quasi la metà. Ma l’aumento del numero dei suicidi nelle strutture carcerarie va di pari passo con quello complessivo all’interno della società, a suo avviso. Né si può ridurre la problematica a una sezione piuttosto che a un’altra. La direttrice ha comunicato infine che si sta lavorando a un trasferimento di più di cento detenuti dalla sezione ottava della struttura, ma è un’operazione di complicata realizzazione perché richiede simultaneità. A seguire, il Commissario straordinario della ASL Roma 1, Giuseppe Quintavalle, accompagnato da professionalità della Asl operanti nella struttura carceraria, ha fatto notare come molti dei suicidi riguardino soggetti che non avevano mai tentato il suicidio prima. La Rm1 è molto sensibile al problema di Regina Coeli ma la problematica è strutturale, a suo avviso. Tra i miglioramenti intervenuti, citati da Quintavalle l’introduzione di un reparto gastroenterologico e la prossima dotazione di un apparecchio Tac, mentre è in via di introduzione la cartella informatizzata. Radiologia è già attiva, così come il servizio di guardia medica h24, le diete personalizzate e la farmacia interna, la chirurgia generale e vascolare, la dermatologia, mentre urologia è in fase di definizione e vi sono convenzioni in essere con altri enti. Un progetto sperimentale tra Asl e distretto prevede la presenza di medici di medicina generale nella struttura per le visite. Salute mentale e dipendenze è un connubio cui si pone molta attenzione da parte della Asl. Anche per Quintavalle il dato dei suicidi non è conseguenza diretta del sovraffollamento carcerario. Inquadrare il paziente nel suo complesso è il tipo di approccio prescelto, ha detto la dottoressa Di Stefano del servizio psichiatrico della Asl. In tal modo si può personalizzare l’assistenza al paziente. 58 persone con disturbo mentale grave, 150 con disturbo mentale semplice è il carico di lavoro che esiste nella struttura romana, ma che non è suo peculiare perché rispecchia dati più generali. Le misure alternative sono state incrementate. Non sono i soggetti con patologie mentali che si uccidono, perché quelli sono seguiti, ma gli altri, ha aggiunto la dott.ssa Di Stefano. Ogni sezione ha un suo ambulatorio, incrementate le traduzioni all’esterno e forte potenziamento del momento dell’accoglienza ai detenuti, è stato ancora riferito dagli intervenuti della Rm1. Un reperimento di medici è attualmente in corso ma i bandi rischiano di essere poco attrattivi. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, dott. Stefano Anastasia, ha riconosciuto che il sovraffollamento di Regina Coeli non è difforme dal dato nazionale. Non si può tuttavia negare il peso che ciò abbia sui fenomeni suicidari, a suo avviso. I casi più gravi dovrebbero ottenere la possibilità di scontare la pena al di fuori della struttura, ha detto il Garante, ma esiste una difficoltà nel trovare le alternative. Qui viene in rilievo il ruolo della Regione, secondo Anastasia. Persino le suppellettili talvolta scarseggiano. Sicuramente la situazione attuale non è sostenibile e va in qualche modo affrontata e risolta dall’amministrazione penitenziaria, perché ai detenuti attualmente in sofferenza poco o nulla interessa delle prospettive di miglioramento future, ha concluso il Garante. Per la Direzione regionale salute e integrazione sociosanitaria, era presente il dott. Marco Nuti, il quale ha detto di aver apprezzato il fatto che la Asl abbia dimostrato di aver accolto le indicazioni della Regione, stando a quanto riferito. Obiettivo è limitare al minimo gli spostamenti della popolazione carceraria e questo può essere ottenuto in primo luogo attraverso l’incremento della telemedicina. Il problema non è solo sanitario evidentemente, ma ha una forte componente sociosanitaria, ha concluso Nuti, aggiungendo che il fabbisogno non si misura solo in unità di personale, ma nel numero di servizi erogati. Tra i consiglieri, Emanuela Droghei del Pd si è detta delusa dal fatto di aver ascoltato più o meno le stesse cose ascoltate alcuni mesi fa in occasione di una audizione sui servizi sociosanitari in carcere. Come possa la Regione svolgere un ruolo più forte in questo contesto, questo è il tema che si pone la consigliera. Le carceri sono ormai un luogo di disagio sociale del nostro paese, ha detto Marta Bonafoni del Pd: ciò a fronte di una situazione in cui ci potrebbe essere un ulteriore aumento della popolazione carceraria, in conseguenza della legislazione in preparazione a livello nazionale. La ripresa delle attività scolastiche nel carcere e i luoghi atti a creare momenti di socialità sono altre due delle questioni sollevate da Bonafoni. Bisogna svuotare le carceri, questa l’esigenza immediata ravvisata da Claudio Marotta di Verdi e sinistra, e non si vedono altre soluzioni che non siano l’amnistia o l’indulto, all’orizzonte. Secondo Luciano Crea della lista Rocca, importanti sono gli sforzi fatti dalla Rm1 con il potenziamento della squadra medica, specialmente nel settore della salute mentale. Purtroppo ci sono dei limiti precisi all’azione che la Regione può compiere in questo campo, a suo avviso. In conclusione, la presidente Savo è tornata a rimarcare il problema dell’attrattività dei bandi per i medici da destinare alle strutture carcerarie, quale situazione di indubbio disagio. Erano presenti all’audizione anche il capogruppo Daniele Sabatini e Maria Chiara Iannarelli di Fratelli d’Italia, i consiglieri Salvatore Lapenna e Massimiliano Valeriani del Pd, e Nazareno Neri del gruppo misto. Sassari. Piove dentro il carcere di Bancali. Irene Testa: “Presenterò un esposto alla Procura” La Nuova Sardegna, 9 ottobre 2024 La Garante regionale dei detenuti ha effettuato una visita ispettiva riscontrando gravi carenze. “Esco ora dal carcere di Bancali e ho saputo che piove dentro le celle, presenterò un esposto alla Procura della Repubblica di Sassari, per denunciare le infiltrazioni d’acqua in tutte le sezioni”. La Garante regionale dei detenuti Irene Testa ha effettuato insieme a Gianfranco Favini, garante dei detenuti del Comune di Sassari, una visita ispettiva nelle sezioni maschili e femminili dell’istituto, riscontrando gravi carenze che segnalerà alla magistratura. “Sono presenti 510 detenuti - spiega la garante - la maggior parte con gravi patologie psichiatriche e di dipendenza. Alcuni detenuti in attesa di cure da oltre un anno. Oltre le gravi numerose carenze di organico - un solo agente per due sezioni, costretto ad accollarsi un gravoso lavoro che spesso gli compete - ciò che mi pare più grave e urgente, per il quale presenterò un esposto alla Procura della Repubblica, riguarda le infiltrazioni d’acqua in tutte le sezioni. Nel carcere di Bancali piove dentro. Intere pareti sono bagnate e ricoperte di muffa, ovunque. I detenuti sono costretti a spostare gli arredamenti nelle celle, il tavolo dove mangiano, a causa dell’acqua che viene giù”. Secondo la garante regionale dei detenuti nel carcere sassarese ci sarebbe un grave problema di inagibilità. “Sono venuta a conoscenza di svariate richieste di intervento a cui finora non è stato dato seguito e per il quale si potrebbe configurare il reato di omissione d’ufficio. In qualità di pubblico ufficiale - aggiunge Irene Testa - nella veste che ricopro e dopo aver constatato personalmente la situazione chiedo che con la massima urgenza vengano finanziati e attuati i lavori di manutenzione straordinaria per l’istituto. Non possiamo pretendere di rieducare o riabilitare nessuno se chi dovrebbe garantire la legalità è esso stesso fuorilegge”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Dal carcere una risposta concreta per il diritto all’infanzia percorsiconibambini.it, 9 ottobre 2024 Il progetto “Altrove - Non è la mia pena” nasce da una esigenza fondamentale: non far ricadere sui più piccoli le pene che i loro genitori stanno scontando in carcere. Per un bambino vivere il distacco dai propri genitori è un trauma indelebile, incontrarli solo periodicamente in spazi inadeguati peggiora la situazione e impedisce anche agli adulti di vivere la loro genitorialità. La situazione delle carceri italiane è critica con un numero di suicidi senza precedenti. Tutto questo non può ricadere sui più piccoli. Altrove cerca di dare risposte efficaci a queste criticità per garantire ai figli dei detenuti la possibilità di vivere una infanzia felice. L’obiettivo del progetto è anche quello di mettere insieme esperti del settore quali psicologi, educatori, operatori, volontari e tutti quanti vivono il carcere a vario livello per ragionare su pratiche efficaci per migliorare la condizione di vita dentro e fuori, ponendo particolare attenzione ai bisogni dei bambini e delle bambine. L’intento è quello di chiamare all’azione anche enti pubblici e privati coinvolti nell’ambito della genitorialità detenuta e della tutela dei diritti dei minori figli di detenuti. Il progetto avrà la durata di 38 mesi ed è articolato in diversi step e proposte per l’utenza. L’iniziativa parte dalla Campania, in particolare dalla Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere “F. Uccella”, un carcere tristemente noto alle cronache, dove nascerà il “Centro Altrove”. Il primo step del progetto Altrove riguarda proprio la Riqualifica del percorso esterno e di uno spazio interno al carcere di S. Maria Capua Vetere. Grazie alla collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli, due esperti un gruppo di allievi, si occuperanno della rigenerazione di uno dei tanti non-luoghi della Casa Circondariale di S. Maria Capua Vetere, una sala colloqui posizionata all’interno della zona intramuraria, e del percorso che permette di accedervi, consentendo così ai familiari dei detenuti di vivere il carcere in spazi riqualificati a misura di bambini e ragazzi. La sala sarà rigenerata in modo da accogliere il Centro ALTROVE, una sala colloquio “montessoriana”, con pareti, soffitto e tavoli decorati con giochi interattivi, didattici ed educativi, tavole sensoriali, numeri, lettere, planetari, carte delle stelle e delle costellazioni, metri da parete con l’indicazione dell’altezza, scaffali per i libri, proiettore e telo per la visione di film, dispositivi per l’ascolto della musica. La sala accoglierà le attività previste dal progetto, ma diverrà anche sala interattiva che potrà essere utilizzata da tutti i genitori detenuti nel carcere di S. Maria Capua Vetere. Tavolo sull’Affettività ristretta - Nel Centro si apriranno i lavori del “Tavolo sull’Affettività ristretta”, che coinvolgerà inizialmente tutti i partner di progetto, per poi allargarsi sempre più sul territorio. Un referente di tutti gli enti coinvolti e dei familiari dei detenuti prenderanno parte ad incontri di concertazione sui fabbisogni educativi dei bambini e dei ragazzi coinvolti in tutte le attività progettuali, al fine di allargare le opportunità territoriali, ideare nuovi servizi e migliorare quelli già esistenti, favorire incontri tematici ed allargare il Tavolo ai soggetti che sono già impegnati nelle diverse realtà penitenziarie campane e nell’ambito della giustizia riparativa e di comunità (U.S.S.M., U.E.P.E., garanti territoriali dell’infanzia e dell’adolescenza, garanti dei detenuti, servizi sociali territoriali), ma che spesso non sono in rete tra loro (creando una parcellizzazione degli interventi posti in essere a sostegno delle persone in area penale e dei loro familiari). Un intervento unico e stabile, che nascerà dalla partnership di progetto per poi ampliarsi grazie agli strumenti operativi che si prevede di attivare nel corso delle attività. Gruppi di sostegno alla genitorialità per detenuti e detenute - Due psicologi accompagneranno i genitori nel confronto sui temi che riguardano la propria genitorialità reclusa e i bisogni dei propri figli. I gruppi di parola accresceranno la consapevolezza di sé tramite la riflessione sui propri vissuti e l’analisi delle dinamiche familiari. I detenuti daranno voce alle loro narrazioni, condividendo gli ostacoli legati all’esperienza di genitori reclusi, creando uno spazio di accoglienza, formazione, crescita e arricchimento, in cui poter essere genitori prima che detenuti. La metodologia usata sarà quella del circle time, che con una comunicazione circolare e flessibile, garantirà l’espressione di sè e l’ascolto attivo dell’altro. Gruppi di sostegno alla genitorialità per genitori liberi - Parallelamente due psicologi guideranno i partner dei detenuti accolti nel primo gruppo in incontri in circle time in cui si lavorerà su: supporto emotivo e condivisione delle esperienze; informazione su temi legati alla genitorialità; abilità pratiche e strategie di coping nelle sfide genitoriali quotidiane; costruzione di relazioni e rete di supporto; auto-empowerment. In entrambe le tipologie di gruppo gli esperti favoriranno la “progressione” dei genitori detenuti e di quelli liberi: trasmettendo regole e tecniche psicoeducative, si consentirà l’avvio di gruppi di auto-mutuo-aiuto, che potranno essere portati avanti anche al termine del progetto dagli stessi detenuti. Percorsi di psicoterapia familiare - Nel Centro si darà vita a percorsi di psicoterapia familiare con cui si prenderanno in carico le persone detenute, i partner liberi e i figli minori coinvolti in tutte le altre attività di progetto. Gli psicoterapeuti lavoreranno con l’intero sistema familiare sull’esperienza traumatica del carcere, il senso di abbandono, sconfitta e assenza, la lacerazione dei rapporti, la vergogna, l’incapacità di dire la verità sulla detenzione ai figli, lavorando sull’attivazione delle risorse. Attività quotidiane per il nucleo familiare - Tra le attività proposte alle famiglie dal progetto Altrove ci sono le attività quotidiane che saranno svolte nel centro all’interno del carcere. Madri e padri detenuti, il caregiver libero e i loro figli minori potranno prendere parte ad una serie di attività che ricreeranno un momento di quotidianità per il nucleo familiare. Gli incontri con visione di film per bambini e ragazzi vogliono creare un momento di condivisione semplice, che può però portare genitori e figli a riconnettersi ed avvicinarsi in modo spontaneo. Un’azione come quella di guardare un film, che all’esterno del carcere può essere fatta autonomamente, a casa o al cinema, all’interno dei penitenziari è negata sia al genitore detenuto che a suo figlio. Il laboratorio di ascolto e lettura di fiabe e favole nasce dall’idea che la lettura possa essere un momento di condivisione di emozioni, pensieri e fantasie tra chi legge e chi ascolta, in grado di ricreare un momento di intimità familiare e favorire la condivisione di valori positivi. L’attività consisterà nella lettura di gruppo a voce alta e a momenti più intimi di lettura tra genitori e figli. Il progetto prevede poi la realizzazione di un laboratorio per la preparazione di biscotti, attività concepita per ricreare il più possibile una situazione di normalità all’interno del carcere. Infine il laboratorio di ballo, musica e movimento. Supporto allo studio per i figli minori dei detenuti (con i genitori reclusi) - Il Centro ALTROVE ospiterà i figli minori dei detenuti e delle detenute e i loro genitori reclusi anche per attività di supporto extrascolastico. Con questa attività si mirerà a sostenere i minori che presentano fatiche e difficoltà scolastiche, con l’aiuto degli stessi genitori detenuti, favorendo anche in questo modo la tutela del loro legame. Due operatori con esperienza pluriennale in sostegno extrascolastico e doposcuola specializzato con alunni che presentano DSA e BES si occuperanno di accompagnare i figli minori dei detenuti e i detenuti stessi in una serie di compiti: affiancamento nello studio e nell’apprendimento; valorizzazione delle capacità personali; sviluppo dell’autonomia; ricerca di strategie per la risoluzione delle difficoltà nello studio. Capacity building - Buone pratiche per la genitorialità - Il progetto prevede il coinvolgimento di alcuni poliziotti penitenziari che lavorano all’interno della C.C. di S. Maria Capua Vetere e che interagiscono a vario titolo con i genitori reclusi, i partner e/o i loro figli minori. Gli agenti prenderanno parte ad un corso di capacity building che riuscirà a: favorire una riflessione sul proprio ruolo e sull’impatto che il proprio lavoro ha sulla vita dei genitori detenuti e del loro nucleo familiare; fornire informazioni e competenze sulla genitorialità ristretta e la tutela dei diritti dei minori, attraverso un lavoro sul tema dell’accoglienza dei bambini e sull’importanza di tutelare la genitorialità in carcere; fornire competenze specifiche (educative, psicologiche, giuridiche e sociali) che riguardano i diritti del minore e il valore della genitorialità; lavorare sulle pratiche esistenti per un contatto adeguato con il minore; offrire strumenti per intervenire nelle situazioni di conflitto, durante le perquisizioni personali e nella gestione di momenti di tensione familiare che possono generarsi in carcere, concentrandosi anche sui rischi a cui i minori possono incorrere a causa della reclusione di un caregiver. Sportello di ascolto e sostegno alla genitorialità per persone in esecuzione penale esterna, ex detenuti e loro familiari - Il progetto “Altrove - Non è la mia pena” prevede anche un’attività all’esterno della Casa Circondariale “F. Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, con l’intento di dare vita ad un sistema integrato che continui la presa in carico anche all’uscita dal circuito penitenziario e che possa raggiungere anche persone in misure alternative alla detenzione e in messa alla prova: nella sede della capofila Officine Periferiche si aprirà uno Sportello (sia in presenza che a distanza) di ascolto e sostegno alla genitorialità per persone in esecuzione penale esterna, ex detenuti e loro familiari. Partner del progetto: Associazione di volontariato “Officine Periferiche” (capofila), Aragorn, NapolinMente A.P.S., Casa Circondariale S. Maria Capua Vetere, Atena Società Cooperativa Sociale, La Livella APS; Centro Turistico Giovanile Turmed, Caraxe APS, Associazione Sbarre di Zucchero APS Bergamo. I carcerati sperimentano il giornalismo di Filippo Merli Italia Oggi, 9 ottobre 2024 Grazie a un progetto editoriale tra Magnetti building e la casa circondariale di Bergamo nasce la rivista “Spazio”, con una tiratura di 500 copie. La rivista trimestrale ha una tiratura di 500 copie. E viene distribuita ai detenuti, alle loro famiglie, agli operatori e alle istituzioni che ogni giorno dialogano con la casa circondariale di Bergamo. Il periodico si chiama “Spazio. Diario aperto dalla prigione”. E permette ai carcerati di cimentarsi nel giornalismo. L’iniziativa è stata promossa da Magnetti building, azienda dell’edilizia del gruppo Grigolin con sede a Carvico, nel Bergamasco, da sempre impegnata nelle pratiche di inclusione sociale. Attraverso una collaborazione con la casa circondariale di Bergamo la società ha scelto di sostenere il progetto editoriale che offre ai detenuti la possibilità di misurarsi con la scrittura giornalistica e di dialogare con i cittadini e la comunità nell’affrontare e indagare su temi di attualità, dal carcere sino al territorio. Magnetti building, tramite una donazione, sostiene i costi relativi alla stampa e alla distribuzione del magazine, che mira a rompere le barriere dei pregiudizi incoraggiando un confronto aperto e costruttivo tra chi vive all’interno e all’esterno delle mura carcerarie. La redazione di Spazio è composta da detenuti della casa circondariale di Bergamo che trovano nella lettura e nell’incontro con esperti di scrittura e professionisti un modo per dare significato alla loro detenzione e mettersi alla prova in nuove attività. La rivista, di cui è stato appena pubblicato il primo numero, ospita anche contributi di studenti, ex detenuti e operatori legati al carcere, creando un dialogo che cerca un equilibrio tra pena e rieducazione, giustizia e reinserimento sociale e lavorativo. “Questa rivista rappresenta un’occasione per i detenuti di imparare ad ascoltare, un’opportunità di fare qualcosa insieme e un progetto di cui farsi carico ed essere responsabili”, ha spiegato la coordinatrice del periodico, Adriana Lorenzi. “Il carcere ferma il male e la sfida è far fiorire il bene: lavoriamo per realizzare delle situazioni e progetti grazie ai quali i detenuti imparino a lavorare su loro stessi insieme ad altri per poi proporsi in maniera diversa una volta usciti dalla struttura penitenziaria”. “La scrittura diventa uno strumento di riscatto, contribuendo da un lato al reinserimento sociale dei detenuti e dall’altro, non meno importante, a realizzare una cultura aziendale aperta e di comprensione reciproca, sfidando gli stereotipi e costruendo ponti concreti e reali tra il carcere e la comunità”, ha sottolineato il ceo di Magnetti building, Benedetta Grigolin. “Ritengo che le aziende non siano solo attori economici, ma abbiano un ruolo sociale fondamentale su cui devono investire, contribuendo alla realizzazione di una società inclusiva e aperta al dialogo”. Napoli. “Carcere, parole in libertà” il progetto del Mattino si rinnova: “Diamo voce ai detenuti” di Dario De Martino Il Mattino, 9 ottobre 2024 Per il terzo anno consecutivo il giornale entra a Poggioreale e Secondigliano. “Carcere, parole in libertà” si rinnova e si rafforza. L’iniziativa del “Mattino” che dà voce ai detenuti di Poggioreale e di Secondigliano è stata rinnovata ufficialmente ieri con una conferenza stampa che ha riunito tutti i protagonisti nella sede consiglio regionale della Campania. Il progetto ha aperto una finestra sul mondo ai detenuti e ha dato la possibilità ai lettori di guardare con occhio diverso alla realtà del carcere e ai suoi ospiti. Per il terzo anno, quindi, nelle case circondariali arriveranno le copie del giornale e ogni settimana, come i nostri lettori più affezionati già sanno, ci sarà una pagina dedicata agli articoli che arriveranno dai detenuti, frutto dell’attività di laboratorio svolta all’interno del carcere. Un’iniziativa apprezzata dai detenuti, dai loro garanti, dalla società civile, dal mondo della politica e pure dai lettori del “Mattino”. E per questo il protocollo d’intesa che suggella il prosieguo dell’esperienza è stato firmato con soddisfazione da tutte le realtà protagoniste: il garante regionale dei detenuti, la Fondazione Banco di Napoli che finanzia il progetto, la fondazione Polis, le case circondariali di Poggioreale e Secondigliano e ovviamente il “Mattino”. “Il Mattino ha aderito a questo progetto per il suo valore sociale. Il carcere è il luogo dove il detenuto, a seconda del reato commesso, deve scontare la pena prevista, ma è anche il luogo dove va garantita la dignità e la volontà di ricostruirsi nell’ottica di un reinserimento sociale”, ha spiegato Roberto Napoletano. “Il carcere - ha aggiunto il direttore del “Mattino” - non può essere un luogo di condanna per sempre. La pena deve essere scontata ma in essa è necessario che ci siano anche lo studio, l’educazione e la formazione. Elementi che aiutano a capire anche le colpe commesse e possono contribuire a far nascere una persona nuova. E noi questa speranza non dobbiamo toglierla”. E proprio a questo senso di speranza si riferisce Samuele Ciambriello quando parla di tutti i protagonisti dell’iniziativa come di “pellegrini dell’utopia”. Il garante regionale chiama i detenuti “diversamente liberi” e spiega come in questi due anni “attraverso la lettura del giornale e la discussione che ne scaturisce, siano riusciti ad andare oltre le mura, interessandosi e ponendosi domande su quello che succedeva dall’altra parte del mondo”. Samuele Ciambriello ci ha tenuto a ringraziare pubblicamente “i volontari che da ogni settimana, ormai già da due anni, per due ore a settimana hanno trasformato, grazie a questa esperienza, degli spazi comuni in una redazione vera e propria dove discutere e ragionare su quello accade e sui progetti per il futuro”. Pienamente soddisfatto anche Orazio Abbamonte, presidente della fondazione Banco di Napoli: “Questa iniziativa si rivolge a persone che, per tanti motivi, hanno perso o non hanno mai acquisito a pieno il senso della civitas del vivere in comune. Noi confidiamo che con questo progetto possano sollecitarsi un esercizio responsabile della libertà di pensiero che equivale a sentirsi più cittadini”. “Tra i nostri scopi - ha detto invece il presidente della fondazione Polis don Tonino Palmese - c’è quello di far incontrare il mondo delle vittime con quello dei colpevoli e di far uscire entrambi dalle proprie condizioni. In questa ottica, l’iniziativa del “Mattino” ha un profondo significato teso a favorire il pieno coinvolgimento sociale”. Tra i prossimi obiettivi del progetto - lo ha svelato Ciambriello durante l’appuntamento di ieri - c’è anche quello della pubblicazione di un libro che raccolga alcuni degli articoli pubblicati in questi anni. D’altronde, ed è forse l’aspetto più importante, il progetto coinvolge ed entusiasma i detenuti. “Ho imparato con la mia esperienza che quando un’iniziativa non interessa viene abbandonata per scarsa partecipazione. Invece questo progetto ha raccolto e continua a raccogliere tante adesioni”, ha spiegato Carlo Berdini. Il numero uno del carcere di Poggioreale ha aggiunto: “Il periodo di detenzione deve essere utile. Per far ciò c’è bisogno di attività formative e questa è una delle più valide. I partecipanti non si sono limitati a parlare dei problemi del carcere, ma dei vari temi di attualità della nostra società”. Sulla stessa scia la direttrice del carcere di Secondigliano Giulia Russo: “Con questa iniziativa i detenuti hanno imparato a leggere un giornale andando oltre gli articoli di cronaca nera e giudiziaria. Dare loro questa opportunità significa dargli l’occasione di partecipare da cittadino alla vita della società. È questa prospettiva che ha fatto sì che il progetto fosse apprezzato”. Il presidente del consiglio regionale Gennaro Oliviero ha chiuso l’evento sottolineando “la positività dell’iniziativa che dà l’occasione ai detenuti di esprimere il proprio pensiero e di partecipare al dibattito della società campana”. Assisi (Pg). Movimento No Prison: “Le carceri incostituzionali, ora un tempo responsabile” Ristretti Orizzonti, 9 ottobre 2024 La Cittadella di Assisi (Pg) sarà teatro della convention “Le carceri incostituzionali” che si terrà giovedì 17 ottobre dalle 15,00 alle 19,00 e dell’assemblea di venerdì 18 ottobre dalle 10,00 alle 13,00 organizzate dal Movimento No Prison con la presenza, tra l’altro, di don Tonio Dell’Olio (presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi), Livio Ferrari (giornalista, portavoce del Movimento No Prison), Giuseppe Mosconi (sociologo del diritto), Rosa Palavera (docente di diritto penale all’Università degli studi di Urbino), Giovanna Perna (avvocato, componente Osservatorio Carcere Ucpi) ed Elisabetta Zamparutti (componente del “Comitato Europeo Prevenzione Tortura” e “Associazione Nessuno Tocchi Caino”). “E ora di vivere un tempo responsabile - afferma il portavoce Livio Ferrari - da parte di tutti coloro che gravitano nel circuito penitenziario: ministro, governo, amministrazione penitenziaria, detenuti, agenti, operatori del trattamento, volontariato e società civile, nessuno si senta escluso! Sono trascorsi inesorabilmente i mesi e davanti a tutte le morti, ai numerosi suicidi di persone recluse, le uniche scelte prodotte sono state di approvare un finanziamento per contrastare i suicidi che servirà solo per aumentare il bacino elettorale, non certo per ridurre le morti in carcere, e un decreto legge in fase finale di approvazione che intende inasprire ancora di più le condanne a fronte di un silenzio che dovrebbe così divenire tombale”. “Non è possibile creare nemici anche nelle patrie galere - continua Ferrari - per un virus alla guerra che sta struggendo la pacifica convivenza che dovrebbe supporre comprensione e rinnovate possibilità anche per chi ha sbagliato e infranto la legge, per alimentare percorsi di ritorno alla legalità”. Sovraffollamento e suicidi, a livelli inauditi, occupano la scena mediatica del carcere oggi, ma non sono che la punta dell’iceberg di un sistema che manifesta così l’insieme delle contraddizioni e dei paradossi di cui è permeato, della violenza che complessivamente caratterizza le sue logiche. Di fronte a questo dramma, assurda e crudele è la scelta di incancrenire ancora di più la situazione con l’introduzione di nuovi reati, l’aumento delle pene, anche per i minori, la solita risposta muscolare che adotta un certo tipo di politica nell’affrontare i problemi. L’idea negativa di punire e di creare dolore, soprattutto verso i più fragili e gli emarginati, rappresentati come “nemici”, sta alla base della deleteria cultura degli attuali vertici istituzionali. E tutto ciò conferma ancora una volta l’urgenza di abbandonare il carcere come risposta a problemi che arrivano alla penalità ma sono innanzitutto sociali, e di dischiudere l’orizzonte a politiche alternative di gestione dei reati e alla chiusura di questi ultimi avamposti manicomiali. Teramo. La formazione universitaria dei detenuti, convegno a Unite ekuonews.it, 9 ottobre 2024 Si terrà venerdì 11 ottobre, alle ore 10.00, nella Sala delle lauree del Polo didattico G. D’Annunzio dell’Università di Teramo il convegno dal titolo “I percorsi formativi dei Poli Universitari Penitenziari per l’inclusione e la sostenibilità sociale”. “Il convegno - spiega Emilio Chiodo, delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Teramo - partendo dalle esperienze del nostro Ateneo e della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori ai Poli Penitenziari, ha l’obiettivo di approfondire la riflessione sul ruolo della formazione universitaria nel percorso educativo delle persone detenute. Un percorso che si svolge in carcere ma che chiama in causa le relazioni tra le istituzioni, le interazioni con il territorio e la società civile, la creazione di possibilità di reinserimento lavorativo in un’ottica di “public engagement” dell’istituzione universitaria finalizzato all’inclusione e alla sostenibilità sociale”. “Il Polo Universitario Penitenziario del nostro ateneo - continua Chiodo - la cui crescita è stata fortemente voluta e sostenuta dal rettore Dino Mastrocola, opera attualmente presso la Casa circondariale di Teramo e la Casa di reclusione di Sulmona. Gli iscritti all’anno accademico 2023/24 sono stati 55, con 10 nuove immatricolazioni rispetto all’anno precedente, di cui 40 nella Casa di reclusione di Sulmona, 14 nella Casa circondariale di Teramo e 1 nella Casa circondariale dell’Aquila in regime di 41bis”. Al convegno interverranno il presidente della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori ai Poli Penitenziari Giancarlo Monina, il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Irma Conti e il vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Lina Di Domenico, insieme ai rappresentanti della magistratura di sorveglianza, degli istituti di pena e della società civile dei comuni di Teramo e Sulmona. Nel corso dell’incontro sono previste testimonianze dirette da parte di alcuni studenti del Polo penitenziario, sia in presenza che collegati in videoconferenza dalla Casa di reclusione di Sulmona. Verrà presentata anche, dal direttore Alberto Mochi Onori, l’attività del Pastificio Futuro, che dà lavoro ai ragazzi e alle ragazze detenuti presso il carcere minorile di Casal del Marmo di Roma e che sta collaborando con il Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Teramo per gli aspetti tecnologici della produzione. I lavori del convegno saranno aperti dal rettore Dino Mastrocola, dall’assessore alle Politiche sociali della Regione Abruzzo Roberto Santangelo, dal presidente dell’ADSU di Teramo Vincenzo Di Giacinto e dall’ex garante delle persone detenute della Regione Abruzzo Gianmarco Cifaldi. Al termine si terrà una tavola rotonda a cui parteciperanno il presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila Maria Rosaria Parruti, il sindaco di Teramo Gianguido D’Alberto, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Sulmona Paola Fiorino, il capo area trattamentale della Casa circondariale di Teramo Patrizia Bruna Boccia, il direttore della Casa di reclusione di Sulmona Stefano Liberatore, il direttore dell’Istituto penale per minorenni “Casal del Marmo” Giuseppe Chiodo, dalla coordinatrice della Scuola di legalità e giustizia dell’Università di Teramo Fiammetta Ricci e dalla vice presidente dell’ADSU di Teramo Federica Benguardato. Forlì. L’esperienza di servizio in carcere nel carcere della Rocca: don Enzo Zannoni si racconta forlitoday.it, 9 ottobre 2024 Stasera alle 20.30, nel quadro delle iniziative della festa parrocchiale di Ravaldino, si terrà un incontro con don Enzo Zannoni sull’esperienza di servizio in carcere all’interno della Rocca. “Spetta alla società civile, non solo agli specialisti, prendersi cura dei detenuti: cosa stiamo facendo?” chiede don Zannoni, Direttore dell’Ufficio per la Pastorale Penale e Cappellano della Casa Circondariale di Forlì. L’appuntamento, nella chiesa di Sant’Antonio Abate in corso Diaz, sarà aperto a domande pur essendo l’occasione per ascoltare chi è a contatto con il mondo carcerario forlivese: 160 detenuti cui si aggiungono altri 500 “invisibili” reclusi con altre forme, vale a dire una comunità spesso sconosciuta o mal conosciuta da chi vive al di fuori da provvedimenti penali. Le informazioni veicolate dai mezzi di comunicazione spesso suscitano emozioni contrastanti, tra lo scandalo e l’indignazione, non permettendo di addentrarsi sul tema. Quella che manca, secondo don Zannoni è “una riflessione sulla validità della pena” che può consistere anche nel “divieto di incontrare e frequentare altre persone, limitazioni di orari” cioè “limiti pesanti che spesso non consentono di fare un percorso comunitario”. Così, il “percorso rieducativo” invocato dalla Costituzione è costantemente in salita. L’incontro proposto, dunque, sarà l’occasione per conoscere meglio un mondo, quello dei detenuti che vivono all’interno della Cittadella della Rocca: una città da molti ignorata e quasi invisibile che cerca ogni giorno di trovare un modo per riscattarsi. Terre des Hommes, reati su minori: più 34% in dieci anni di Enrica Muraglie Il Manifesto, 9 ottobre 2024 Diritti In guerra, bambine e ragazze sono più esposte anche alle mutilazioni genitali e all’abbandono scolastico, “per il quale la probabilità è 2,5 volte maggiore rispetto alle loro coetanee che non si trovano in questi contesti”. Dal 2017 al 2022, il numero di donne e ragazze che vivono nei contesti di guerra è aumentato del 50 percento, raggiungendo i 614 milioni. “In Medio Oriente, dove il fenomeno non era abituale, la pratica è entrata nelle famiglie, soprattutto quelle rifugiate. Affidare la figlia minore a un uomo più grande significa proteggerla”, afferma Donatella Vergari, la presidente di Terre des hommes Italia, organizzazione impegnata nella difesa dei diritti dei bambini e delle bambine. Secondo la restituzione del dossier “Indifesa”, dedicato alla condizione delle bambine e ragazze di tutto il mondo nel 2023, e presentato ieri alla Camera, la pratica dei matrimoni combinati sarebbe più diffusa nelle zone di conflitto, dunque. In guerra, bambine e ragazze sono più esposte anche alle mutilazioni genitali e all’abbandono scolastico, “per il quale la probabilità è 2,5 volte maggiore rispetto alle loro coetanee che non si trovano in questi contesti”, come si legge nel dossier. E d’altronde, dal 2017 al 2022, il numero di donne e ragazze che vivono nei contesti di guerra è aumentato del 50 percento, raggiungendo i 614 milioni. L’undici ottobre si avvicina, e quasi alla vigilia di quella che è considerata la Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze, Terre des hommes denuncia che molti obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile non saranno raggiunti. I miglioramenti ci sono, ma lenti e bloccati dalle contingenti situazioni sociali, politiche, di conflitto e di gravi crisi, soprattutto quelle legate ai cambiamenti climatici. Anche in Italia i dati sembrano preoccupanti. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana (Lega), in apertura alla presentazione del dossier, ha evidenziato la “fotografia drammatica e di marcata vulnerabilità in cui le donne continuano a vivere”, parlando anche dei contesti di guerra in Ucraina e a Gaza, e di “stupro e violenza sessuale come strumento di annientamento della persona umana”. Fontana, però, sembra avere la memoria corta. Sono molto note, infatti, le sue dichiarazioni contro l’aborto e l’autodeterminazione delle donne, le adulazioni alle madri e agli incentivi sulla natalità. Eppure, proprio su “Indifesa”, è ribadito che “ogni anno circa quattro milioni di ragazze decidono di porre fine a una gravidanza non voluta (frutto anche di violenze) ma non hanno accesso a strutture sanitarie che permettano loro di praticare un aborto in sicurezza”. Le gravidanze precoci sono alimentate anche “dall’estrema difficoltà per le adolescenti ad accedere ai contraccettivi e ai servizi di pianificazione familiare. A livello globale sono circa 43,2 milioni le ragazze e le giovani donne tra i 15 e i 24 anni che non riescono ad accedere a metodi contraccettivi moderni”, e a questo si aggiunge la mancanza di informazioni su tutti i temi che riguardano la sfera sessuale, soprattutto in alcune aree del mondo. Eugenia Sepe, vice questore della Polizia di Stato, ha posto l’accento sull’aumento delle vittime di violenza sessuale, l’89 percento delle quali sono di genere femminile. La violenza sessuale è il secondo reato più diffuso in Italia, con 912 casi solo nello scorso anno, l’1 percento in più rispetto al 2022 e il 51 percento in più del 2013. Quello dei maltrattamenti in famiglia è il primo, con un aumento di circa il 6 percento. Per Sepe, i maltrattanti sono “persone a cui i minori sono affidati per ragioni di cura, sportive o didattiche e questo rafforza il senso di vergogna e colpa nel minore, che non fa emergere il disagio e il reato”. Federica Giannotta, responsabile advocacy e programmi di Terre des hommes Italia, si è soffermata sui rischi del web: “l’Unesco ha detto che tutto il mondo dei social veicola contenuti che spingono bambine e ragazze ad avere uno stile di vita non sempre sano, equilibrato. I dati lo dimostrano a livello internazionale. Il 32 percento delle adolescenti che utilizza Facebook non si sente a suo agio con il proprio corpo, e 3 ragazze su 5 in Canada dicono di aver visto contenuti a sfondo sessuale che non volevano vedere ma a cui sono state comunque esposte”. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità riscontra un peggioramento nel benessere dei giovani: il 28 percento delle quindicenni segnala una profonda solitudine, a fronte del 13 percento dei coetanei maschi. Ogni giorno in Italia vengono compiuti 19 reati contro i minori di Luca Liverani Avvenire, 9 ottobre 2024 Terre des Hommes: in 10 anni maltrattamenti e abbandoni sono saliti del 34%. La violenza si consuma sempre di più sul corpo delle ragazze. Quando arrivano nelle pagine di cronaca fanno notizia. Ma l’attenzione dei mass media non restituisce la vera dimensione di un fenomeno più diffuso di quanto si possa immaginare. Sono gli odiosi reati contro i minori: maltrattamenti, violenze sessuali, abbandoni. Ben 6.952 in Italia nel 2023, una media di 19 ogni giorno, 95 in più rispetto al 2022. Una crescita del 34% in 10 anni, addirittura dell’89% dal 2006. I più diffusi sono i maltrattamenti in famiglia: 2.843 casi, più 6% dal 2022, raddoppiati dal 2013. A raccontare il lato doloroso dell’infanzia sono i dati elaborati dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale Polizia criminale, resi noti dalla Fondazione Terre des Hommes, che ha elaborato il Dossier In-difesa 2024 su “La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo”, presentato a Montecitorio in vista della Giornata internazionale delle bambine dell’11 ottobre. All’incontro anche il Presidente della Camera Lorenzo Fontana e la vice questore della Polizia di Stato Eugenia Sepe. La crescita degli indicatori, dicono i ricercatori, si spiega in buona parte con la crescita delle denunce. Dalle 112 pagine del Dossier - che allarga lo sguardo al mondo, con focus tra l’altro sulla piaga delle mutilazioni genitali femminili e sulla condizione die minori nei teatri di guerra - emerge che sono bambine e ragazze le più colpite, vittime nel 61% dei casi. Afar crescere la percentuale soprattutto i crimini di violenza sessuale e violenza sessuale aggravata, per l’89% e l’85% di vittime femminili. Poi gli atti sessuali con minorenni (il 79% su femmine), la detenzione di materiale pornografico e corruzione di minorenne (78% di vittime femmine), la prostituzione e pornografia minorile (64% su bambine o ragazze). Più vittime maschili per l’omicidio volontario (67%), l’abbandono di minori o incapaci (61%), l’abuso dei mezzi di disciplina (59%) e la sottrazione di persone incapaci (55%). Parità nei reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare (entrambi i generi al 50%) e di maltrattamenti in famiglia, l’aumento più significativo rispetto al 2022. In crescita anche le violenze sessuali, 912 casi (+1% dal 2022 ma +51% dal 2013), il secondo reato più diffuso; la sottrazione di persone incapaci (302 casi, +4% dal 2022 e +39% dal 2013); l’abbandono di persone minori o incapaci (568 casi, +3% dal 2022 e +25% in 10 anni); gli atti sessuali con minorenni (+3% dal 2022 e +5% dal 2013, con un totale di 444 casi); l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (+1% con 349 casi; +47% dal 2013); la pornografia minorile (171 casi, aumentati dell’1% dal 2022 ma calati del 7% dal 2013). Calano, invece la prostituzione minorile (28 casi), (-24% dal 2022 e -65% in 10 anni); la detenzione di materiale pedopornografico (59 casi, - 18% sul 2022 ma in aumento, sempre del 18%, rispetto al 2013); la corruzione di minorenne (94 casi, -12% in un anno e -24% dal 2013). Diminuiscono rispetto al 2022 le violenze sessuali aggravate (645 casi, -7%), ma in grave aumento (+73%) dal 2013. Invariati da 10 anni gli omicidi volontari con 12 casi. Per la vice questore Eugenia Sepe “i dati dimostrano un incremento delle denunce da parte delle vittime. Significa che le azioni delle Forze di Polizia con le campagne di informazione tese a scardinare gli ostacoli di carattere socioculturale, che alimentano ancora le violenze e gli abusi sui minori, stanno producendo risultati e fiducia delle vittime. Un risultato, tuttavia, che non distoglie il nostro sguardo dal “numero oscuro” di casi non denunciati e dai delitti che si consumano nel “mondo virtuale” dove i minori sono sempre più esposti ed indifesi”. “Due fattori devono farci riflettere - dichiara Paolo Ferrara, direttore generale di Terre des Hommes - e cioè in primo luogo l’immagine della famiglia come luogo sicuro e accogliente, che mostra più di una crepa e chiama in causa tutti i nostri sforzi affinché i genitori non debbano affrontare in solitudine una fragilità che appare sempre più evidente. Poi la violenza, soprattutto fisica, che continua a consumarsi in maggioranza sul corpo delle bambine e delle ragazze. Ciò costringe tutti noi a non mollare nella battaglia culturale, per superare la struttura patriarcale e creare una società più inclusiva fondata sul rispetto dell’altro”. Le aggressioni contro i minori spesso anche sono virtuali. Dalla Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze emerge che il 45% degli studenti, specie le ragazze, riferisce di essere stata oggetto di cyberbullismo. Internet Watch Foundation rivela che la produzione della pedopornografia online è soprattutto una piaga dell’Occidente sviluppato: il 64% delle immagini analizzate era ospitato in server di paesi europei (includendo anche Russia e Turchia), seguite dal Nord America col 17%, in Asia il 14%. Per il presidente Fontana il Dossier “restituisce una fotografia drammatica della condizione di marcata vulnerabilità. In particolare, come riconosciuto dall’assemblea generale dell’Onu, bambine e ragazze sono le più esposte. Dal conflitto in Ucraina fino ai piu’ recenti eventi in Medio Oriente abbiamo purtroppo assistito alla deplorevole pratica dello stupro come strumento di annientamento della persona”. Fontana ricorda che “si stima che oltre 600 milioni di ragazze sotto i 18 anni siano state costrette a contrarre matrimoni precoci. E sono 4 milioni le bambine vittime di mutilazione genitale, con conseguenze atroci e devastanti”. Anche l’educazione, sottolinea, presenta profili di grande criticità: “Secondo l’Unesco, oltre 100 milioni di bambine e ragazze non frequentano la scuola. Nessun Paese che ambisce a definirsi civile può consentire la violazione sistematica del diritto alla salute, alla sicurezza e all’istruzione. La loro negazione rappresenta un freno allo sviluppo”. La cittadinanza come arma contro la discriminazione di Francesca Barra L’Espresso, 9 ottobre 2024 Il razzismo s’incarna in mille forme subdole. Parola delle madri di giovani italiani con la pelle nera. “Mamme per la pelle” è un’associazione non profit nata nel 2018, dopo un post sui social sotto elezioni scritto dall’agente e scrittrice Gabriella Nobile e dedicato a Matteo Salvini. Il figlio quattordicenne di Nobile era stato aggredito verbalmente da diversi adulti. Il post della madre diventò virale e lei fu contattata da altre mamme adottive e da tantissime famiglie affidatarie e biologiche, con in comune il fatto di avere figli di diverse origini e neri. Nobile riteneva responsabile Matteo Salvini di un clima di diffidenza e odio nei confronti dei ragazzi di colore. Lui le rispose quando vinse le elezioni: “Salvini non fa paura ai bambini”. La invitò anche a bere un caffè con i rispettivi figli, ma ciò non è mai avvenuto. “Non serve insultare per essere razzisti. Fare cultura antirazzista vuole dire contrastare atteggiamenti nei confronti delle persone nere come sguardi diffidenti, micro-aggressioni quotidiane come toccare i capelli delle bambine, non affittare le case, non dare i lavori, cambiare strada tenendosi stretta la borsetta al petto. I nostri figli subiscono queste aggressioni quotidianamente. Cerchiamo di decostruire il razzismo andando nelle scuole, facendo mostre fotografiche, raccontando la vita dei nostri figli che sono esattamente uguali a quelli di altre, solo che hanno la pelle scura. Fabien, mio figlio, è stato adottato quando aveva due anni e viene dal Congo, mentre Amelie aveva un anno e viene dall’Etiopia. Ha subìto più lui di lei perché il maschio quando cresce viene visto come una minaccia. Lui oggi ha diciotto anni, ma ha subìto azioni violente a calcio, per strada. Ha le spalle forti, si è abituato purtroppo: quando può, risponde e, quando non ne vale la pena, lascia correre. Amelie diventerà una preda quando crescerà, me lo raccontano tante donne nere. In Italia la vita per i ragazzi e le ragazze con la pelle scura è difficile”. Quando chiedo a Gabriella quali soluzioni esistano per contrastare questa discriminazione mi risponde che è attraverso la legge di cittadinanza perché solo così gli italiani capiranno che ci sono anche italiani con la pelle nera. “Quello che l’onorevole Roberto Vannacci non ammette è che un italiano possa avere la pelle nera. La legge sdoganerebbe in modo ufficiale questa realtà. Un’altra soluzione passa dalla rappresentazione. Perché a parlare di razzismo sono i bianchi? Che cosa ne sanno? Non hanno mai subìto ciò che subiscono i giovani con la pelle scura. Possono aver avuto altre discriminazioni, ma non questa. Bisogna dare spazio a ragazzi e ragazze dalla pelle nera e mettersi in ascolto. Non abbiamo molti attori di colore che abbiano parti normali, o vu’ cumprà o prostitute. In altri Paesi i ragazzi di colore possono sognare di diventare presidenti, ad esempio, o attori. Ciò mina la personalità e la sicurezza dei nostri figli, che vogliono andarsene il prima possibile”. Gabriella e suo figlio Fabien Cordera hanno scritto a quattro mani il libro “Sette giorni per diventare amici” per dare voce a una narrazione differente sui ragazzi che vivono in Italia. “La parola “integrare” non mi piace perché presuppone che esista un essere superiore che integra un essere inferiore. Preferisco la parola accoglienza. Vannacci dice che bisogna dare la cittadinanza a chi la merita. Mi piace. Ma allora togliamola ai bianchi che non la meritano. Deve valere per tutti”. Così Bergoglio cancellò il femminismo di Grazia Zuffa L’Unità, 9 ottobre 2024 Le affermazioni sull’aborto e l’attacco ai medici “sicari” hanno giustamente suscitato grande scalpore. Non hanno riscosso (a torto) la stessa attenzione le parole sulla donna, pronunciate dal papa all’Università Cattolica di Lovanio. Ha suscitato scalpore la dichiarazione di papa Bergoglio in Belgio, che ha definito i medici che praticano la interruzione di gravidanza “sicari”. L’Ordine dei Medici di Torino ha inviato al Ministro della Salute, Orazio Schillaci, e al Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, una lettera in cui si chiede un passo del governo italiano presso lo Stato di Città del Vaticano “per il marchio di infamia impresso sulla categoria medica,” dalle parole del Pontefice “al limite dell’ingerenza nella legittimità di una norma di legge del nostro stato”. In Belgio, le istituzioni stesse si sono mosse, poiché il premier Alexander De Croo, rispondendo a una interrogazione alla Camera, ha definito le parole del Papa “inaccettabili” e ha annunciato che convocherà il Nunzio Apostolico. Nella lettera dell’Ordine dei Medici di Torino si ricorda che già nel 2018 i medici erano stati marchiati dal Pontefice con il titolo di “sicari”. La notazione è rilevante: dimostra la pervicacia del pensiero della Chiesa circa il ruolo della dottrina, a guida delle leggi dello Stato, non solo delle coscienze. Non è solo una questione di (insidiata) laicità dello Stato. Ciò che colpisce è la violenza di quel particolare “marchio d’infamia”. Il potere malefico della parola “sicario” balza agli occhi, avendo in mente il tormentato contesto della questione aborto, nel cammino degli ultimi cinquanta anni dalla proibizione alla decriminalizzazione. Io stessa ho visto in America presidi di cristiani fondamentalisti di fronte a un consultorio dove entravano le donne per l’interruzione di gravidanza, muniti di scritte “fermiamo gli assassini”. Qualche anno prima, qualche medico era stato fermato a colpi di fucile. L’epiteto “sicario” di per sé esprime anche disprezzo perché rimanda all’artefice principale del crimine, il mandante. Chi sono i mandanti? I legislatori che in molti paesi europei a suo tempo hanno cambiato le leggi proibizioniste? Oppure sono le mandanti, le donne che richiedono ai medici l’interruzione volontaria di gravidanza? Oppure ambedue? O forse altri e altre? La domanda non è di poco conto sotto l’aspetto morale, nel contesto della rappresentazione dell’aborto come crimine di omicidio, cara alla Chiesa. Eppure, sembra che la domanda rimanga inevasa, mentre al centro dell’invettiva rimangono i medici non obiettori: nelle cui mani risiede concretamente la possibilità che una legge dello stato sia applicata. Oppure non lo sia. Ed è qui che l’aggressione verbale a quei medici mostra il volto politico, di conflitto di potere. Non sarà sfuggito che l’attacco ai medici “sicari” è avvenuto in collegamento all’annuncio dell’iter di beatificazione di re Baldovino: fra i suoi meriti, espressamente esaltato dal Papa, l’aver abdicato per il tempo sufficiente a non firmare la legge di decriminalizzazione dell’aborto appena approvata dal parlamento. Un gesto con cui il defunto re dimostrò di “essere un politico coi pantaloni”, dice Bergoglio ai giornalisti (la colorita espressione, di cultura machista, meriterebbe un commento a parte). Dal rifiuto di coscienza del santo in pectore Baldovino all’invettiva contro i medici: i quali potrebbero evitare di diventare “sicari” se solo si astenessero dal praticare quanto richiesto dalla legge. Il che sarebbe possibile, facendo ricorso all’obiezione di coscienza: questa sembra essere l’approdo finale delle parole di Bergoglio. Può l’obiezione di coscienza, da diritto individuale diventare uno strumento di potere - propugnato ed esercitato in via collettiva - per invalidare una legge dello stato? Di nuovo, quella parola “sicari” è eloquente, sotto un diverso aspetto, di incitazione terribile allo scontro di potere. Come dire: questo è l’infame marchio per chi rifiuta di arruolarsi nella santa battaglia contro le leggi che hanno decriminalizzato l’interruzione di gravidanza. Niente a che fare con la libertà di coscienza di chi non obietta e di chi obietta, e ancora meno col diritto individuale all’obiezione di coscienza. Quanto a quest’ultimo, va ricordato che il delicato rapporto fra diritto all’obiezione e il diritto riconosciuto dalla legge ha una giustificazione etica nell’equilibrio fra i due diritti, senza sopraffazione dell’uno sull’altro. Come scriveva nel 2012 il Comitato Nazionale per la Bioetica, la tutela dell’obiezione di coscienza, per la sua stessa sostenibilità nell’ordinamento giuridico, non deve limitare, né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti per legge, né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza al corpo sociale. Se pensiamo all’Italia e alla legge 194, un certo utilizzo dell’obiezione di coscienza ha reso più gravoso, se non in alcuni casi addirittura impedito, il diritto delle donne all’interruzione volontaria di gravidanza: problema manifestatosi fin dall’inizio e che negli anni non ha trovato soluzione. Se ne deduce fra l’altro che solo i famigerati “sicari” sono stati a presidio dei “vincoli di solidarietà” sociale invocati dal CNB. C’è un’altra puntata del viaggio del Papa, altrettanto significativa, che pure ha riscosso - a torto - minore attenzione: l’incontro/ confronto con l’Università Cattolica di Lovanio, a partire dal discorso introduttivo della rettrice, Francoise Smets. In Italia si è genericamente parlato di contestazioni al Papa, l’Avvenire (28 settembre) con più precisione parla di “una lettera di studenti e professori” letta di fronte al Pontefice. Guardando alla stampa belga, l’episodio acquista una diversa coloritura. Smets - si dice- ha esposto al Papa una posizione lungamente preparata, frutto di un processo di discussione fra studenti, ricercatori, professori: si chiede di affrontare le responsabilità storiche della Chiesa nel colonialismo, così come il ruolo della donna nella Chiesa e l’accoglienza alle minoranze di genere, in particolare in merito alla omosessualità. Un documento che peraltro il Papa conosceva da tempo, dunque avrebbe avuto tutto il tempo di rispondere. Il Papa però ha evitato il confronto, che pure gli era stato richiesto con un lavoro di approfondimento e ricerca. E proprio questo può essergli contestato in prima istanza (cfr. Gabriel Ringlets, già professore e vicerettore della stessa Università Cattolica, RTBF Actus, 30 settembre). Vero è che il Papa qualcosa ha detto in merito alle donne e alla Chiesa, segnalando la necessità di “ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa” (Avvenire, cit.). Lasciando da parte la Chiesa, quanto alla donna il Papa afferma: “ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie; la dignità della donna è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne”. “Carne” è parola sorprendente, che qui sta a rappresentare il dato biologico di “natura”, in cui il Papa legge la “verità” della differenza di genere, nonché la “verità” della divisione dei ruoli. E poiché quella lettura del genere e dei ruoli è per l’appunto una lettura (ampiamente contestata da movimenti delle donne e non solo da almeno cinquanta anni), la “verità” della divisione dei ruoli si poggia sull’autorità della Chiesa stessa che la proclama, più che sulla “carne” femminile. Un modo dogmatico di affrontare la questione della differenza di genere, che per l’appunto non permette il confronto, avendo bollato tutto ciò che fuoriesce da detta “verità della carne” come ideologia. Povere donne - mi verrebbe da dire- costrette dal Papa fra “carne” e “ideologie”: neppure menzionando (forse ignorando) la ricerca su di sé, fulcro del femminismo, per ritrovare quell’essere donna, anzi quell’essere donne al plurale, fuori dal potere e dall’ideologia patriarcale. Sui cui fatti e misfatti, compresa la storica riduzione della donna a pura “carne” (da riproduzione), ci sarebbe molto da dire. Ma su cui il Papa tace, preferendo prendersela con la donna “perché è brutto quando vuole fare l’uomo”. La Corte Ue salva la canapa (e la cannabis light) e manda in… fumo i piani del governo di Giulio Cavalli La Notizia, 9 ottobre 2024 La sentenza UE sulla canapa idroponica sfida il governo Meloni, evidenziando il divario tra progresso europeo e rigidità italiana. Ancora una volta l’Europa smentisce l’Italia. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla coltivazione della canapa ha messo in luce un divario sempre più ampio tra le visioni progressiste di Bruxelles e l’approccio restrittivo del Belpaese. L’Europa apre, l’Italia chiude: il paradosso della canapa - La Corte di Lussemburgo ha decretato che gli Stati membri non possono vietare la coltivazione della canapa in sistemi idroponici in ambienti chiusi, a patto che il contenuto di THC non superi lo 0,2%. Una decisione che suona come una fanfara per gli agricoltori europei ma che in Italia riecheggia come un campanello d’allarme per un governo che sembra voler tornare all’epoca del proibizionismo. Mentre l’Ue apre le porte a nuove tecniche di coltivazione, riconoscendo i benefici dell’agricoltura idroponica per la Politica Agricola Comune (PAC), l’Italia si barrica dietro il Ddl sicurezza del governo Meloni, che ha dato uno stop alla cannabis light. Un passo indietro che fa stridere i denti non solo agli imprenditori del settore ma anche a chi crede in un’Europa unita e progressista. La sentenza della CGUE è chiara come l’acqua di un sistema idroponico ben funzionante: la coltivazione indoor della canapa è possibile, anzi, auspicabile. Si parla di incremento della produttività, progresso tecnico, migliore impiego dei fattori di produzione. Concetti che sembrano essere incomprensibili dalle parti di Palazzo Chigi. Canapa, voci dal settore: un grido inascoltato per il progresso - Mattia Cusani, Presidente dell’Associazione Nazionale Canapa Sativa Italia, non usa mezzi termini: “Questa sentenza rafforza la necessità di basare le politiche nazionali su dati scientifici e sul rispetto delle normative europee”. Un invito al governo italiano a riconsiderare le misure proposte nell’Articolo 18, per evitare di danneggiare un settore che offre lavoro a circa 15 mila persone e genera un fatturato annuo di 500 milioni di euro. Numeri che, evidentemente, non fanno abbastanza rumore nei corridoi del potere. Il governo Meloni difende la sua posizione sostenendo che le limitazioni servano per evitare il commercio illegale di infiorescenze e derivati per uso ricreativo. Un argomento che suona come una scusa mal congegnata, soprattutto alla luce della sentenza europea che sottolinea come l’unica limitazione possibile sia quella basata sull’evidenza empirica di rischi per la salute pubblica. Le associazioni di filiera invocano una riconsiderazione dell’articolo 18 del Ddl sicurezza, chiedendo una regolamentazione basata su evidenze scientifiche e lo sviluppo sostenibile del settore. Ma le loro voci sembrano perdersi nel vuoto di una politica sorda alle istanze di modernità e progresso. Dalla Corte Ue un segnale chiaro - La sentenza della CGUE è un monito chiaro: non sarà più possibile limitare il commercio e la coltivazione di canapa sativa L in modo arbitrario, ma solo se effettivamente sussistono rischi per la salute pubblica. Un principio che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto, ma che in Italia sembra essere considerato come una provocazione. Il contrasto tra l’approccio europeo e quello italiano sulla questione della canapa è emblematico di una divergenza più ampia. Da un lato, un’Unione europea che cerca di bilanciare innovazione, sviluppo economico e tutela della salute pubblica. Dall’altro, un’Italia che sembra voler rimanere aggrappata a vecchi pregiudizi e paure infondate. La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potrà l’Italia permettersi di andare controcorrente rispetto alle direttive europee? La canapa appare essere solo la punta dell’iceberg di un disallineamento più profondo tra le politiche nazionali e quelle comunitarie. La strategia di Meloni di voler pesare in Europa facendo la sovranista in Italia è uno sgretolamento continuo a suon di sentenze. Il mondo è entrato nell’Era del Castigo di Domenico Quirico La Stampa, 9 ottobre 2024 Siamo entrati nell’Era del Castigo. Chi non ha qualcuno da punire severamente, e soprattutto definitivamente e senza mezze misure: i palestinesi e i libanesi complici “oggettivamente” degli assassini di Hamas ed Hezbollah, i persiani burattinai in turbante e zimarra nera di ogni perversione anti-occidentale, gli israeliani ultimi zeloti di un colonialismo senza pudore da 75 anni, gli ucraini “nazisti”e traditori della Santa Russia, i russi ammalati antropologicamente di espansionismo criminale e di prevaricazione planetaria eccetera eccetera. Imperialismi grandi e microscopici ma pestiferi, intolleranze neppur troppo selettive, fanatismi religiosi e sciovinismi nazionalistici sgretolano le vecchie ortodossie delle dispute internazionali, sotto gli assalti sovversivi di Liquidatori decisi a eliminare il problema senza far troppe indagini sulle vittime. “Brain trust” di prepotenti che credono fermamente nel potere inumano della menzogna fanno a gara nel trasformare il momento punitivo in una sorta di idealismo: diamine, lottiamo per la nostra sicurezza… come osate? siamo la Resistenza...giù le mani, difendiamo l’Occidente libero... ammirate! costruiamo il Nuovo ordine perfetto. Si vede ogni cosa sotto una luce offuscata dove la domanda fondamentale e che dovrebbe essere inaggirabile: qual è la differenza tra punizione e vendetta? Sfuma in opacità omicide. Il populismo penale che ha guadagnato consenso politico con la inesorabile severità del castigo, tambureggiando opinioni pubbliche fragili e disposte a farsi convincere non solo nelle terre della sharia, si estende alla politica internazionale. I pachidermici ottimismi del debutto del nuovo millennio (... la nostra civiltà assomiglia a un giardino che si deve valutare dalla qualità dei suoi fiori... l’Occidente ha reso più bello e vivibile il mondo…) si squagliano come castelli di ghiaccio lasciando dietro di sé solo un ammasso di fango: quarantamila morti a Gaza, centinaia di migliaia nelle trincee dell’Ucraina, i danni collaterali di venti anni americani in Afghanistan, dei francesi nel Sahel, milioni di profughi che aspettano di sapere “fino a nuovo avviso” dove forse non li bombarderanno. Il castigo presuppone l’infliggere una sofferenza ma richiede anche altre condizioni: quella perentoria è che a patire sia solo colui o coloro che hanno commesso il reato. Se manca questo elemento, se il colpevole è collettivo o semplicemente presunto, scivoliamo inesorabilmente dal diritto alla vendetta. Applicare questo concetto a Gaza o alla Palestina determina dei produttivi e dolorosi distinguo. Per capirci: il conte di Montecristo punisce coloro che gli hanno distrutto la vita o applica solo una arzigogolata vendetta? Netanyahu e Israele puniscono i killer del 7 ottobre o si vendicano di tutti i palestinesi che vivono a Gaza, e dei libanesi che non per scelta sono conterranei del partito di dio? Ci basta la constatazione che castighi collettivi sono diventati normalità punitiva nel vicino oriente? Hamas liquida i partecipanti a un pacifico raduno musicale o kibuzzin annoverabili tra gli israeliani meno attratti da sogni escatologici di ricostruire il Terzo Tempio. I terroristi da settanta anni scelgono le fermate degli autobus e non le caserme. i governi israeliani, non solo quello di Netanyahu, da anni distruggono per rappresaglia le case dei presunti colpevoli, fanno raid indiscriminati a cui danno nomi beffardi (“Margine di protezione”) che provocano la morte anche di molte donne e bambini. Di fronte a tutto questo sarebbe pretendere troppo citare san Tommaso d’Aquino. Per lui la distinzione tra punizione e vendetta era contenuta nell’intenzione di chi corregge la colpa. Se il male del colpevole serve a trarne “godimento”, singolare parola! è illecita; se invece punta a un bene, proteggere la sicurezza o redimere, è lecita. Con queste idee il povero Doctor Angelicus non sarebbe invitato in nessun talk show, accusato da destra e da manca di essere un collaborazionista. L’era del Castigo spazza via il vecchio abbecedario della proporzione, dell’immaginare il giorno dopo, perfino i concetti di colpa e di rimorso. Tutti sono orgogliosi di quello che hanno commesso, la giustizia internazionale resta nelle scartoffie di paci provvisorie e sifilitiche. Bisogna castigare senza perder tempo nel distinguere popoli e jihadisti, povera gente e zar rosso bruni, innocenti e mestatori senza scrupoli. “Tutti sono in fondo complici e quindi colpevoli, credete a noi” così tempestano innumerevoli macchinisti della locomotiva della Storia a est e a ovest. Non a caso si preferiscono, per punire, i bombardamenti, aerei, droni, missili: le vittime son coperte da nubi di polvere, periscono in scenografiche e anonime esplosioni da notte dei fuochi. Si mettono in conto punitivo anche carestie ed epidemie, altra modalità di castigo che lasciano sullo sfondo l’orma dell’assassino. Già: una volta che le teste son tagliate non ci si lamenterà per la perdita dei capelli, parola di Koba il terribile, uno che non aveva paura del numero delle vittime collaterali. Non si ha tempo oggi per ciarle intorno alla santità della vita umana. In fondo una totale sicurezza si può raggiungere soltanto in un cimitero. Ma la Giustizia? La difesa israeliana davanti alla Corte penale internazionale: ecco le memorie di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 ottobre 2024 La richiesta di arresto per Netanyahu? Per lo Stato ebraico la Corte dell’Aia non ha giurisdizione perché non c’è mai stato uno Stato palestinese sovrano. Lo Stato d’Israele si difende (attaccando) sul campo di battaglia e davanti alla Corte penale internazionale. Dopo la richiesta di mandato d’arresto dello scorso maggio, firmata dal procuratore Karim Khan, nei confronti del premier Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa, Yoav Gallant, Israele ha presentato, tramite il Procuratore generale aggiunto, Gilad Noam, le proprie osservazioni contenute in due memorie. Negli scritti difensivi di 22 e 44 pagine, resi pubblici ieri, si evidenziano diverse questioni procedurali e, soprattutto, sostanziali. In quest’ultimo caso i rilievi ruotano in prevalenza sul difetto di giurisdizione della Corte penale internazionale in base a quanto stabilito dallo Statuto di Roma, che ha istituito il Tribunale con sede in Olanda, all’Aia. Israele contesta la mancanza di giurisdizione della Cpi, in quanto “la Palestina non soddisfa la precondizione giurisdizionale del “territorio” di uno Stato”. Nello scritto difensivo sulla giurisdizione della Cpi si insiste sullo status giuridico del territorio palestinese. “L’assenza di territorio palestinese sovrano - osserva il Procuratore Noam - significa che non esiste alcun “territorio di uno Stato”, ai sensi dell’articolo 12(2)(a) (dello Statuto di Roma, ndr) su cui la Corte possa esercitare la propria giurisdizione. Determinare diversamente implica una pronuncia giudiziaria sulla sovranità sul territorio, rispetto al quale vi sono rivendicazioni legali concorrenti. Qualsiasi delimitazione da parte della Corte del territorio interessato implicherebbe l’agire in violazione di accordi israelo-palestinesi vincolanti, che lasciano espressamente tali questioni alla negoziazione diretta tra le Parti, e che si prendano decisioni del tutto inadatte a un Tribunale penale internazionale”. In merito alla presenza di un non-Stato palestinese, Israele argomenta dedicando molte pagine. Il richiamo all’articolo 12 dello Statuto di Roma, “sull’esistenza della sovranità territoriale ai sensi del diritto internazionale pubblico”, è ricorrente. Nel paragrafo 71 si evidenzia che “sebbene il termine “Stato” non sia definito nello Statuto di Roma, il suo significato comunemente accettato e riconosciuto nel diritto internazionale generale è Stato sovrano”. In mancanza di tale requisito, richiedere l’intervento della Cpi è impresa ardua, per non dire impossibile. “L’atto di delegare la giurisdizione penale alla Corte - afferma lo Stato d’Israele - è di per sé un “esercizio della sovranità nazionale”, e la Procura ha riconosciuto in passato che la giurisdizione della Corte deriva dall’esistenza di una “capacità sovrana di perseguire”“. Di qui, come si legge nel paragrafo 80, la considerazione che “ogni resoconto fattuale e legale appropriato dimostra che non c’è mai stato uno Stato palestinese sovrano. L’ultimo sovrano riconosciuto del territorio in questione è stato l’Impero Ottomano, che ha formalmente rinunciato ai suoi diritti e titoli nel Trattato di Losanna del 1923”. Nelle conclusioni, il Procuratore generale israeliano Noam sottolinea che “Israele è consapevole dei propri obblighi legali ed è profondamente impegnato a prevenire e punire qualsiasi violazione del diritto internazionale umanitario e penale internazionale”. “In ogni caso - aggiunge -, le preoccupazioni in merito a una potenziale lacuna nella giurisdizione della Corte non possono essere utilizzate come giustificazione per estendere l’ambito della giurisdizione della Corte penale internazionale oltre i suoi limiti legali”. In difetto di giurisdizione, dunque, la richiesta d’arresto per Netanyahu e Gallant deve essere respinta. Giuseppe Paccione, professore a contratto di Diritto internazionale umanitario dell’Università “N. Cusano”, riflette su alcuni meccanismi che regolano l’intervento dell’Aia. “La Camera preliminare - dice Paccione - può emettere un mandato di cattura contro il premier israeliano e il suo ministro delle Difesa solo se ritiene che vi siano ragionevoli motivi per considerare che gli individui abbiano commesso un crimine che compete alla Cpi perseguire e che l’arresto sia necessario per frenare la condotta criminale di competenza della stessa Corte. Per il Procuratore Karim Khan non vi è dubbio che Netanyahu e Gallant siano responsabili di aver usato una deliberata politica statale, affamando la popolazione civile per colpire Hamas e per ottenere il ritorno a casa degli ostaggi israeliani. Secondo Israele, invece, il Procuratore della Corte penale internazionale ha agito prematuramente perché non ha notificato gli atti a tutti gli Stati parte dello Statuto di Roma. Altro aspetto della vicenda concerne il fatto che la sovranità sulla Striscia di Gaza e della Cisgiordania resta in sospeso e, pertanto, non esiste alcun territorio su cui la Corte penale internazionale possa esercitare la propria giurisdizione. Si supponga che, secondo la posizione israeliana, un’entità non sovrana accetti la giurisdizione della Cpi, la sua portata deve essere valutata riferendosi alla giurisdizione effettivamente posseduta dall’entità”. Paccione ricorda pure quanto stabilito dagli Accordi di Oslo oltre trent’anni fa: “Gli Accordi di Oslo evidenziano che l’Autorità palestinese non ha giurisdizione penale e non può delegarla alla Cpi. Secondo Israele, pur di mettere una pezza rispetto alla mancanza di giurisdizione totale palestinese, il Procuratore Karim Khan ha cercato di affidarsi al principio di autodeterminazione, che, per le autorità di Tel Aviv, in mancanza di sovranità territoriale, non può conferire la giurisdizione già in precedenza riconosciuta come inesistente”. Il Procuratore Gilad Noam è intervenuto con un post su X, rilevando la posizione di Israele davanti alla Corte penale internazionale. “Insistiamo - ha scritto - nel ribadire che il Tribunale non ha giurisdizione e che il ricorrente ha sostanzialmente violato il principio di complementarità. Invito tutti coloro che hanno a cuore la giustizia internazionale e lo Stato di diritto a rivedere le nostre proposte”.