Decreto carceri: mancanza di una visione prospettica di Lucio Motta filodiritto.com, 8 ottobre 2024 Il recente Decreto carceri (D.l. n. 92 del 4 luglio 2024, conv. l. n. 112 dell’8 agosto 2024), noto anche come “Carcere sicuro”, annunciava propositi di rispondere alla necessità di un sistema più efficiente e rispettoso dei diritti umani. Ma la modifica della procedura per il riconoscimento della liberazione anticipata e un più rapido accesso alle misure alternative, i due cardini del decreto che avrebbero dovuto liberare le carceri dalla morsa del sovraffollamento - a detta del ministro della Giustizia nel giro di tre mesi - si stanno rivelando inutili ed inefficaci. Il sistema penitenziario italiano è da tempo al centro di riforme e dibattiti, spinti dall’esigenza di affrontare annosi problemi come il sovraffollamento delle carceri e le condizioni sanitarie dei detenuti. La liberazione anticipata (misura già esistente - art. 54 O.P. - che consente ai detenuti di ridurre la propria pena in base alla buona condotta) è stata modificata (con intento di semplificare il procedimento) passando da un sistema di richiesta (petitorio) ad un sistema di concessione diretta da parte del Magistrato di Sorveglianza. In sostanza mentre prima il singolo detenuto ogni semestre di pena scontata presentava la richiesta al MdS che valutava di volta in volta, la nuova norma (che modifica le procedura di concessione modificando l’art. 69 bis O.P.) prevede che non sia più il detenuto a richiedere la L.A. ma bensì direttamente il magistrato a concederla per i semestri maturati, ogni qual volta maturino i termini per la concessione di un beneficio (Permessi premio) o una misura alternativa (Semilibertà - Affidamento - Condizionale). Si comprenderà che è stato capovolto il presupposto: da un sistema ad Istanza si passa ad un sistema di mera concessione dall’alto (quando e come dispone il Magistrato). Il problema che emerge in questi primi mesi di applicazione è che il Magistrato non sa quando maturano i termini, atteso che la Liberazione Anticipata viene ancorata al maturare del termine per la richiesta delle misure alternative (Permessi - affidamento Semilibertà - Condizionale) termini che mai coincidono con i termini teorici esposti nell’Ordinamento, evidenzia come i tempi della concessione della Liberazione Anticipata risultano del tutto fuori controllo con conseguente ritardo nell’accesso alle misure alternative se si considera che la L.A. concorre con la detenzione effettiva a computare i termini per l’accesso alle misure stesse. In sostanza già in questi mesi regna il disordine: non si sa chi calcola i termini (semestri) di L.A., non vengono liberati prima dell’esame delle Istanze delle misure alternative e i detenuti iniziano a inondare i Tribunali di Sorveglianza di istanze inammissibili e di solleciti. Nella giustizia dei sogni del Ministro Nordio tutto dovrebbe essere automatico, ma il ministro sembra non avere contezza di come funzionano gli uffici di Sorveglianza, di quanto caos regni in assenza di personale e di strumenti adeguati a mettere in atto automatismi. Forse solo con la adozione del Processo telematico anche per l’esecuzione penale e la Sorveglianza si potrebbe in un tempo ragionevole ottenere gli automatismi necessari, ma allo stato, la cenerentola dei tribunali (la Sorveglianza) procede ancora a mano con i fascicoli cartacei. I roboanti proclami del Ministro secondo il quale già a fine settembre si sarebbero dovuti vedere i primi effetti della riforma sono, non solo disattesi ma assolutamente delusi e frustrati, con l’aggravante di rendere maggiore il carico di lavoro sui Magistrati e sulle cancellerie della Sorveglianza ora occupati anche a far di conto. Il secondo caposaldo del Decreto che avrebbe dovuto garantire il rapido svuotamento delle carceri con il proclama di 15/20 mila detenuti scarcerati entro ottobre, si basava sul più rapido accesso alle misure alternative. Da un lato agevolato dalla più rapida concessione automatica della L.A. (cosa che abbiamo visto non essere), dall’altro l’introduzione delle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale delle persone detenute apprezzabile appare la soluzione dell’istituzione di un apposito elenco tenuto presso il Ministero della Giustizia (art. 8, comma 1). Anche in questo caso occorrerà attendere l’adozione di un successivo atto normativo (decreto ministeriale) al quale fa rinvio il comma 2 dell’art. 8 del decreto-legge. La disposizione fa espresso riferimento all’accoglienza di persone che hanno i requisiti per l’accesso alle misure penali di comunità, ma “non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento”, opportunamente richiamando l’obiettivo di fornire non soltanto servizi di assistenza, ma anche di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo. Credo sia fondamentale in sede di conversione non estendere l’indicato perimetro, al fine di scongiurare il rischio che le predette strutture si trasformino in veri e propri luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere. Un conto è l’intervento sussidiario del privato sociale, pienamente conforme, tra l’altro, alla specifica previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., altro conto sarebbe ipotizzare un intervento sostituivo, a maglie larghe, che potrebbe determinare una sorta di privatizzazione dell’esecuzione penale, senz’altro contraria all’esigenza costituzionale di assicurare la natura pubblica della gestione dell’amministrazione della giustizia, che deve comprendere anche la fase applicativa della pena. La perimetrazione prevista scongiura questo rischio, ma lascia aperto l’interrogativo circa la reale incidenza della previsione in termini deflattivi. Sarebbe utile, allora, compiere un’attenta analisi di impatto della misura legislativa che consenta di avere una stima ragionevole del suo possibile effetto in termini numerici anche per valutare un possibile eventuale allargamento delle maglie della liberazione anticipata. Il Decreto su questo versante appare improvvisato, assente di prospettivi e di finalità. Al di la delle enunciazioni, roboanti e pompose, rivela la scarsa conoscenza della materia e della situazione: annunciare l’aumento delle telefonate da quattro a cinque mensili quale strumento di contrasto ai suicidi significa non sapere che tutto ciò esiste già nella disponibilità dei Direttori degli istituti di pena, quindi del tutto inutile , significa far passare come innovazione qualcosa che innovazione non è, significa non capire che il problema è altro… annunciare la semplificazione della concessione del beneficio della liberazione anticipata appesantendo il compito dei Magistrati chiamati ora anche a far di conto e tenere le scadenze di ciascun condannato, significa voler gravare su uffici già ingolfati non in grado di gestire il nuovo incombente. A meno che non vi sia un preordinato intendimento di togliere ai detenuti il diritto di chiedere per lasciare che tutto sia gestito dall’altro anche quando si vuole non gestire e lasciare che le situazioni stiano nell’incertezza, sino al fine pena. Insomma l’impressione che il Decreto faccia sfoggio dell’ovvio senza voler mettere mano volutamente ai cardini dei problemi, il tutto in nome del mantra di questo governo e dei suo esponenti: la certezza della pena. La pena, quale che ne sia la forma, deve puntare a ricostruire il legame sociale, partendo dal presupposto che la commissione del reato ne ha determinato la lacerazione. È per questa semplice ragione, avente un ben preciso fondamento costituzionale, che l’opzione repressiva, per quanto sempre presente nelle scelte di politica criminale, non può mai relegare nell’ombra il profilo rieducativo (così Corte cost., sent. n. 257 del 2006), imponendo particolare e costante attenzione nei confronti del singolo condannato, come di nuovo richiede l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, questa volta declinando il termine al singolare. La finalità rieducativa - e il principio di umanizzazione che in un certo senso ne costituisce il presupposto - caratterizza ontologicamente la pena, dalla sua astratta previsione sino alla sua concreta esecuzione (Corte cost., sent. n. 313 del 1990), facendo scaturire precisi doveri non soltanto in capo alle autorità penitenziarie e ai giudici (dell’esecuzione, di sorveglianza e persino di cognizione), ma anche sullo stesso legislatore, il quale dovrebbe, tra l’altro, sempre valutare il possibile impatto delle sue scelte rispetto al perseguimento degli indicati obiettivi costituzionali. Questo è l’esito di una progressiva acquisizione di consapevolezza, che ha portato di recente la nostra Corte costituzionale ad affermare “che la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Con l’importante precisazione per cui tale prospettiva non soltanto “chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità”, ma impone una “correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società” (sent. n. 149 del 2018). Plexiglass che schermano le finestre delle celle: una grave violazione dei diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2024 Diverse carceri italiane presentano schermature in plexiglass alle finestre delle celle, impedendo un adeguato ricambio d’aria. Questa situazione crea un ambiente malsano, con un aumento di anidride carbonica, diossido di azoto, batteri e virus, oltre al cancerogeno gas radon. La mancanza di aerazione, soprattutto durante l’estate, rende le condizioni di detenzione inaccettabili. La gravità di questa problematica ha spinto l’avvocato Luca Muglia, Garante regionale delle persone private della libertà della Calabria, a rivolgersi alla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, presieduta dall’on. Stefania Pucciarelli. In un’audizione davanti alla Terza Commissione “Sanità, Attività sociali, culturali e formative” del Consiglio regionale, il Garante Muglia ha presentato la Relazione semestrale 2024, aggiornata al 31 luglio. Il Garante ha fatto il punto sugli interventi della Regione Calabria in materia penitenziaria negli ultimi due anni, inclusi cabine di regia degli assessorati, tavoli tecnici sulla sanità e provvedimenti normativi. Ha inoltre illustrato le iniziative realizzate dall’Ufficio del Garante, concentrandosi poi sulle principali lacune del sistema penitenziario calabrese. Nei giorni successivi, Muglia ha rivolto un appello alla stessa Commissione. Il Garante ha denunciato la presenza di schermature in plexiglass sulle sbarre delle finestre delle camere detentive in alcune sezioni delle Case circondariali di Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Questa situazione era già stata segnalata più volte al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), evidenziando le palesi violazioni di alcune norme dell’Ordinamento penitenziario. Il Garante Muglia ha sottolineato l’importanza di questi atti istituzionali: “L’audizione davanti alla Terza Commissione del Consiglio regionale aveva una duplice finalità: illustrare il contenuto della Relazione semestrale 2024 e richiedere l’intervento della Commissione affinché solleciti una presa di posizione della Regione Calabria”. L’obiettivo è ottenere una maggiore attenzione dalle autorità nazionali sulla situazione penitenziaria calabrese e l’adozione di provvedimenti urgenti riguardanti il sovraffollamento, le condizioni strutturali degli istituti e le carenze di organici. Riguardo alla segnalazione alla Commissione del Senato, Muglia ha espresso la speranza di un intervento tempestivo ed efficace, rilevando una possibile violazione dei diritti umani fondamentali. Il Garante ha evidenziato che le schermature in plexiglass hanno causato un aumento eccessivo delle temperature nelle camere detentive durante l’estate. Ha ricordato che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto la sussistenza di trattamenti disumani e degradanti e la violazione dell’articolo 3 della Convenzione in casi simili, caratterizzati da mancanza di aria e luce naturale, cattiva aerazione, temperature inadeguate e scarse condizioni igienico- sanitarie. L’intervento del Garante regionale mira a catalizzare l’attenzione delle istituzioni sulla critica situazione carceraria in Calabria, sollecitando azioni concrete per migliorare le condizioni di detenzione e garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. E lo fa puntando l’attenzione principalmente all’utilizzo delle schermature in plexiglass, ma che riguardano tante altre carceri sparse nel nostro Paese. Di Giacomo (Spp): “L’emergenza carcere ha raggiunto il livello storico più allarmante di sempre” ansa.it, 8 ottobre 2024 “In questi nove mesi dell’anno l’emergenza carcere ha raggiunto il livello storico più allarmante di sempre determinando una situazione del tutto fuori dal controllo dello Stato”. Lo sostiene il segretario generale del Spp (Sindacato di polizia penitenziaria), Aldo Di Giacomo, che ha realizzato un report con i dati numerici sulla ‘catastrofe’ in corso. “Dall’inizio dell’anno - rileva il report di Spp - 183 sono i morti in carcere, di cui 76 suicidi e almeno una cinquantina di casi con cause ancora da accertare; 7 suicidi tra il personale penitenziario; i tentati suicidi di detenuti sono stati 1.022, per diverse centinaia di casi solo l’immediato intervento del personale ha scongiurato altre vittime; le evasioni e i tentativi di fuga più 700%, con la pronta risposta del personale e comunque la cattura degli evasi; le aggressioni al personale di Polizia penitenziaria (1.950) con le carceri campane al primo posto, poi quelle lombarde e laziali; le manifestazioni di protesta collettive (752), i ferimenti (386) e le colluttazioni (2.803)”. “I detenuti sono aumentati di 15mila unità con una media di circa 300 al mese, sono complessivamente 61.480, a fronte di 47.067 posti regolarmente disponibili, per un indice di sovraffollamento del 130,59%. Invece - prosegue il report di Spp - il personale è diminuito (per effetto dei pensionamenti) di 12mila unità, solo in piccolissima parte compensato da nuove assunzioni; il ritrovamento di stupefacenti e di telefonini segnano rispettivamente più 400% e più 600%; i sequestri di droga sono di alcuni chilogrammi in media al mese”. “Questi numeri - dice Di Giacomo - fanno diventare le carceri italiane le peggiori in Europa e le avvicinano a quelle sudamericane, come confermano le sentenze di condanna per lo Stato Italiano da parte della Ue. La situazione si scarica pesantemente sul personale penitenziario, circa 31 mila in servizio, con un forte sottodimensionamento degli organici: su 5 mila assunzioni avvenute con questo Governo per concorsi, almeno 4 mila sono ‘bruciati’ da pensionamenti con una media di 800 pre-pensionamenti l’anno. Inoltre si scontano due fenomeni: sono già 300 gli agenti che dopo pochi mesi di assunzione lasciano il servizio, non si riescono a coprire i nuovi posti messi a concorso per mancanza di candidati”. “A tutto ciò si aggiunga il forte aumento, del 120% annuo, delle malattie professionali e di conseguenza delle assenze per malattia per effetto delle aggressioni subite e delle pesanti condizioni di lavoro degli agenti. Lo Stato - aggiunge Di Giacomo - ha alzato bandiera bianca lasciando il personale a combattere da solo una guerra contro clan e gruppi criminali che controllano i traffici dalle celle con i telefonini”. “Gli ultimi decreti approvati dal governo hanno avuto l’effetto di un’aspirina somministrata ad un malato terminale. Continua a mancare - evidenzia Di Giacomo - un piano complessivo di intervento per affrontare in maniera organica i problemi cronici di sovraffollamento, carenza organici, suicidi e morti per altre cause di detenuti, oltre che aggressioni al personale, rivolte, traffico di droga, diffusione di telefonini. Non è più tempo di ‘pezze’ e di annunci in una situazione che ci vede da più di mille giorni senza il rinnovo del contratto”. Il voto sulla Consulta (che alimenta il nervosismo trasversale) di Massimo Franco Corriere della Sera, 8 ottobre 2024 La votazione sulla Consulta mette alla prova maggioranza e opposizione, esponendole al rischio spaccatura. È la tempistica a sollevare più di un sospetto. Colpisce il tentativo di eleggere un giudice della Corte costituzionale a pochi giorni dalla decisione della Consulta sulla riforma delle Regioni voluta dalla Lega: un giudizio di legittimità che potrebbe affossare il testo appoggiato faticosamente dalla maggioranza; oppure aprire la strada al referendum. Il ricorso di quattro Regioni guidate dal centrosinistra plana su una Corte che finora non è riuscita a completare i suoi ranghi per l’assenza di un accordo tra i partiti. È vero che si tratta di una opzione quasi obbligata, di fronte alle scadenze in arrivo. Ma investe una maggioranza e opposizioni che temono entrambe per la loro tenuta parlamentare. L’irritazione di Giorgia Meloni per la fuga di notizie, peraltro prevedibile, sulla candidatura di un giurista vicinissimo a Palazzo Chigi, è rivelatrice. Il timore, ora, è che Francesco Saverio Marini, l’uomo che ha scritto il testo del premierato, venga bocciato o “bruciato” dai franchi tiratori. C’è chi ritiene che la coalizione governativa reggerà con i suoi 360 voti. E riuscirà a raggiungere, magari con un aiuto insperato, quota 363. Ma nessuno fa previsioni. Per questo si avverte una punta di nervosismo dentro FdI, il partito di Meloni. Se le opposizioni dovessero alla fine optare per uscire dall’aula compattamente, le votazioni potrebbero fare emergere le tensioni interne alla destra; e il voto sulla Corte, l’ennesimo dopo i sette già andati a vuoto, diventare il pretesto per sfogare i malumori contro la premier. Le tensioni tra Lega e FI sulla tassazione degli extra-profitti delle banche e lo scontro con FI sullo ius scholae sono sintomi persistenti. E le previsioni al ribasso di Bankitalia sull’economia preoccupano. Il tema non riguarda solo il candidato ma il metodo. Non è stato concordato con l’opposizione e si è deciso di comunicarlo ai gruppi parlamentari in anticipo. Ma è stata un’imprudenza: era inevitabile che sarebbe circolato. Pericoli simmetrici, tuttavia, corrono Pd, M5S, Avs, Iv e Azione. Le opposizioni hanno già dimostrato le divergenze quando si è votato per il consiglio di amministrazione della Rai. La defezione di Giuseppe Conte, che non si è astenuto come il resto delle minoranze, ha consentito al governo di eleggere i vertici. La domanda è se oggi scatterà lo stesso schema. E se avrà successo o confermerà il caos tra gli avversari di Palazzo Chigi. I segnali sono ambivalenti, anche se sembra che prevalga l’idea di non partecipare al voto, in risposta a quella che viene considerata una forzatura. Ma l’ipotesi non convince tutti. Carlo Calenda, leader di Azione, si mostra perplesso. “Ci sentiremo con le altre opposizioni e cercheremo di prendere una posizione comune”. Ma sono manovre che finiscono per incidere sulla funzionalità della Consulta. Consulta, sinistra verso l’Aventino. “Quello di Meloni è un colpo di mano” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 8 ottobre 2024 Oggi il voto per il giudice vacante della Corte, maggioranza compatta su Marini. Le opposizioni insorgono: “È un blitz, questa destra ha paura dei referendum”. Si dovrà attendere il responso, insindacabile, dell’Aula per sapere se la strategia della maggioranza, e in particolare di Fd’I, andrà in porto. E cioè se Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e “padre” del premierato, sarà eletto giudice della Corte costituzionale, riempiendo quella casella che risulta mancante da ormai undici mesi. Allo stesso modo, soltanto al momento del voto, previsto per mezzogiorno e mezzo, sarà evidente la scelta delle opposizioni dopo le trattative frenetiche andate avanti per tutta la giornata di ieri tra chi era intenzionato da subito ad abbandonare l’Aula, come Pd, Avs e centristi e chi, come il M5S, avrebbe preferito non disertare il voto ma confluire tutti su un nome di garanzia, il cosiddetto candidato di bandiera. E se i gruppi congiunti di Camera e Senato del Pd si riuniranno di prima mattina per decidere il da farsi, i contiani potrebbero convergere su un compromesso, cioè l’entrata in Aula ma senza ritirare la scheda, così da rendere evidente la non partecipazione al voto. Su ogni strategia pesa tuttavia anche il fatto che un eventuale candidato di bandiera potrebbe non essere del tutto tale, visto che per eleggere il giudice mancante servono 363 parlamentari, deputato più, senatore meno di quelli sui quali la maggioranza può contare dopo i recenti arrivi da Azione e M5S. Pochi voti in disaccordo, dunque, e in caso di compattezza delle opposizioni il banco potrebbe saltare. Proprio per questo, pallottoliere alla mano centrodestra e centrosinistra arrivano al voto di oggi con tante incognite e poche certezze. Uno dei punti fermi è la volontà, da parte dei partiti di governo, di eleggere Marini. “Se il nome fosse lui lo voterei molto volentieri”, il commento del viceministro azzurro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, sull’ipotesi Marini. Il quale tuttavia è visto come oggetto di un “blitz” da parte della presidente del Consiglio, secondo quanto detto dalla segretaria del Pd, Elly Schlein. “Questa concezione proprietaria delle massime istituzioni della repubblica deve finire qui, e vederci tutti mobilitati a difesa delle garanzie democratiche”, aveva detto nel weekend durante un’iniziativa contro l’Autonomia. “Se il Parlamento non vota per la Consulta è un “vulnus”, se il Parlamento vota per la Consulta è un “blitz” - ha scritto ieri sui social Enrico Costa, passato di recente da Azione alla “casa madre” Forza Italia - Per la sinistra rispettare la Costituzione significa essere loro a indicare il Giudice, perché chi viene da sinistra è figura moralmente “di garanzia” per definizione”. Lo stesso partito azzurro ha chiamato a raccolta i suoi in vista del voto, tanto che nella chat dei deputati il capogruppo, Paolo Barelli, ha ricordato che il segretario del partito, Antonio Tajani, insieme agli altri leader della coalizione hanno deciso di procedere con la votazione del giudice. Seguiva invito a essere presenti ed evitare missioni e altri impegni, con un rimando a successivi “dettagli” sulle indicazioni di voto. Leit motiv, quello del blitz, ripreso anche dagli alleati del Pd, a partire da Avs e Più Europa. “La presidente Meloni non può occupare il massimo organo di garanzia come la Corte Costituzionale e, per questo, la invito a non procedere con un blitz martedì per l’elezione del giudice costituzionale, scegliendo il suo consigliere giuridico, autore della legge sul premierato - è la posizione del portavoce nazionale di Europa Verde e deputato di Avs Angelo Bonelli - Il professor Marini è anche presidente della commissione paritetica della Valle d’Aosta e, per tale organismo, ha redatto numerosi ricorsi alla Consulta: c’è un evidente conflitto d’interessi che dovrebbe portare la premier a evitare questo blitz, volto a far eleggere Marini, il quale, da giudice della Corte, si troverebbe a dover giudicare l’ammissibilità del referendum sull’autonomia differenziata, la riforma sul premierato da lui stesso scritta e i ricorsi da lui presentati per conto della Regione Valle d’Aosta”. Secondo il segretario di Più Europa Riccardo Magi “Giorgia Meloni ha venduto per mesi il premierato come il modo per dare più potere di scegliere ai cittadini” e invece ora “sta facendo di tutto per nominare dei suoi fedelissimi alla Corte Costituzionale per fermare i referendum sui quali i cittadini hanno raccolto le firme, cittadinanza e autonomia in primis”. Fino a definire “democraticamente pericoloso” che la presidente del Consiglio “punti addirittura sul consigliere giuridico di Palazzo Chigi Francesco Saverio Marini, padre del premierato”. Cerca il pragmatismo invece Carlo Calenda, che fino al tardo pomeriggio di ieri invitava a “insistere” per cercare il dialogo con la maggioranza. “L’unica aspirazione che abbiamo è non fare è la figura degli imbecilli come l’altra volta sulla Rai - è il ragionamento - Penso che non si possa andare avanti continuamente sull’Aventino”. Melonizzano la Corte costituzionale: prove di colpo di Stato? di Franco Corleone L’Unità, 8 ottobre 2024 La nomina di un giudice costituzionale si sta rivelando davvero lo specchio di una crisi istituzionale che rischia di essere contemporaneamente tragica e farsesca. Riuscirà oggi Giorgia Meloni a realizzare il programma annunciato con iattanza nella conferenza stampa di inizio anno circa il diritto della destra di eleggere tutti i giudici costituzionali di competenza del Parlamento? Finora la maggioranza aveva trascurato il monito del Presidente della Repubblica e l’invito ripetuto del Presidente della Consulta Barbera di provvedere celermente alla nomina del sostituto/a della giudice Silvana Sciarra scaduta l’11 novembre dell’anno scorso e si sono svolte sette votazioni segnate dalla vergogna di una scarsa partecipazione al voto dei parlamentari e dalla pressoché totale mancanza di espressione di nomi, magari contrapposti. Tutti d’accordo (tranne rarissime eccezioni) nella scheda bianca, aspettando Godot. O meglio tutti colpevoli ad accettare il gioco dichiarato e spudorato di Giorgia Meloni di attendere la scadenza a dicembre di tre giudici (Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) per dare vita a una grande abbuffata, magari scegliendo un rappresentante, gradito, dell’opposizione. La logica del pacchetto è stata stigmatizzata da Mattarella perché contraria allo spirito della Costituzione che attraverso un quorum altissimo nelle prime tre votazioni e uno comunque significativo nelle successive, dovrebbe spingere alla ricerca di nomi di prestigio, con significativo spessore professionale e di studi, con caratteristiche di indipendenza. Di colpo la manfrina è stata messa da parte e a Palazzo Chigi si è deciso il blitz cercando di raggiungere il quorum necessario con un nome fidato. Il motivo va rintracciato forse nella esigenza di dare una risposta alla accelerazione da parte della Corte di esaminare i ricorsi delle regioni sulla autonomia differenziata. Si potrebbe essere contenti dell’abbandono della pratica ostruzionistica e finalmente del confronto per assicurare il plenum alla Consulta, se non fosse una mossa strumentale e addirittura se non fosse stata compiuta attraverso un ordine di scuderia (mai termine più appropriato) ai parlamentari di essere presenti per il voto, eliminando assenze e impegni. Un vero insulto al Parlamento, tanto per far capire chi comanda e che cosa potrebbe accadere con il premierato. La sostanza della democrazia è legata alle forme; in questo caso l’invito alla presenza alla seduta comune del parlamento poteva essere fatta dai capigruppo, invece si è scelta la strada della usurpazione delle funzioni e delle competenze. Riuscirà Giorgia Meloni a raccattare i 363 voti necessari per eleggere il figlio di Annibale Marini, già presidente della Corte Costituzionale? Nonostante la distorsione nella distribuzione dei seggi prodotta dalla legge elettorale truffaldina, il cosiddetto Rosatellum, sotto esame della Corte europea dei diritti umani, la Cedu, per patente e manifesta violazione di diritti di una scelta libera dei cittadini, il quorum non è appannaggio sicuro della maggioranza. Ma i cambi di casacca e gli scambi di favori possono fare il miracolo di regime. Se non dovesse accadere sarebbe ora che si imponesse una convenzione per garantire il rispetto di una rappresentanza di aree culturali e politiche senza la ricerca di un monopolio per cambiare la natura della Corte Costituzionale e incidere sul pluralismo indispensabile. Per prima cosa sarebbe importante garantire l’equilibrio di genere faticosamente tentato, infatti ora sono presenti solo tre donne. Le forze dell’opposizione dovrebbero mettere in campo una rosa di nomi di giuristi/e che per la loro storia personale siano un esempio di onestà intellettuale. Sarebbe anche ora che la rappresentanza del garantismo fosse assicurata nella sede dove si devono difendere i diritti contro le prevaricazioni del potere. Questa vicenda conferma che è in atto una lotta per cambiare i caratteri di una democrazia già malata, attaccando l’informazione e controllando la Rai, con l’occupazione delle istituzioni culturali con l’obiettivo dichiarato di riscrivere la storia. Il pericolo deve costringere a organizzare la resistenza con intransigenza gobettiana. Abuso d’ufficio, fallito l’assalto della pm di Bibbiano: niente rinvio alla Consulta di Simona Musco Il Dubbio, 8 ottobre 2024 La Corte presieduta da Sarah Iusto non ha accolto la questione di legittimità sollevata dall’ufficio inquirente emiliano. Verso l’assoluzione l’ex sindaco Andrea Carletti. “In parte manifestamente infondata e in parte irrilevante”: si può riassumere con questa frase la scelta delle giudici del processo “Angeli e Demoni” di rigettare la questione di legittimità sollevata dalla procura di Reggio Emilia sull’abolizione dell’abuso d’ufficio. Fallisce, dunque, il primo assalto ufficiale al ddl Nordio, che aveva portato, tra le altre cose, alla cancellazione dell’articolo 323 del codice penale. Con la conseguenza che sta per giungere a termine il processo all’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (difeso da Vittorio Manes e Giovanni Tarquini), mostrificato da politica e media e trasformato in “ladro di bambini” pur non avendo nulla a che fare con i capi d’imputazione che hanno dato vita al processo mediatico, mentre cadono complessivamente quattro capi d’imputazione. Il pubblico ministero Valentina Salvi ha chiesto e ottenuto un termine fino a mercoledì per valutare se portare la questione davanti alla Corte di giustizia europea. Una richiesta alla quale Tarquini si è opposto, ribadendo la propria richiesta di dichiarare il “non doversi procedere” nei confronti di Carletti, in quanto “il fatto non è più previsto come reato”. Ma l’articolata ordinanza di rigetto sottolinea in maniera dettagliata la manifesta infondatezza delle questioni sollevate dalla pm in merito alla presunta violazione degli articoli 3, 24 e 97 della Costituzione. La Corte costituzionale, hanno ricordato le giudici, ha stabilito che non è possibile, per il giudice delle leggi, emettere sentenze che configurino nuove norme penali che peggiorano la posizione dell’imputato. Un principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione, che riserva al legislatore il potere di definire quali fatti siano punibili e quali sanzioni debbano essere applicate. La Corte può intervenire se la norma penale è stata adottata in violazione delle norme che regolano la competenza degli organi legislativi; in caso di norme che concedono un trattamento più favorevole rispetto a quello generale, per evitare la creazione di “zone franche” sottratte al controllo di costituzionalità; nei casi in cui la riespansione di una norma generale comporti un effetto negativo per il reo e per garantire che lo Stato rispetti gli obblighi internazionali, anche se ciò comporta effetti sfavorevoli per l’imputato. Nel caso in questione, però, le motivazioni addotte dalla pm risultano infondate: l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, infatti, non configura una “norma di favore” che sottragga a una normativa generale un sottoinsieme di condotte, ma esprime una scelta legislativa che rientra nella discrezionalità del Parlamento. Ammettere il sindacato costituzionale su una norma abrogata equivarrebbe, si legge nell’ordinanza, a reintrodurre un reato che il legislatore ha scelto di eliminare, comportamento contrario al principio della riserva di legge. Con riferimento all’articolo 117, in relazione alla presunta violazione della Convenzione Onu contro la corruzione (Convenzione di Merida), le giudici hanno invece un giudizio più cauto: la questione, affermano, è astrattamente ammissibile, poiché costituisce una delle eccezioni al divieto di sindacato in malam partem in materia penale. Tuttavia, appare manifestamente infondata e in parte irrilevante: la Convenzione Onu prevede infatti misure per prevenire e combattere la corruzione, ma non impone agli Stati un obbligo rigido di incriminazione per l’abuso d’ufficio, bensì suggerisce di “prendere in considerazione” l’adozione di leggi che incriminino tali condotte, lasciando un margine di discrezionalità legislativa ai singoli Stati. L’abolizione dell’articolo 323 del codice penale, dunque, non viola la Convenzione di Merida. E per quanto riguarda il presunto contrasto con la Direttiva Ue 2017/1371 (direttiva Pif), che richiede agli Stati di sanzionare penalmente condotte che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, sebbene l’abrogazione dell’abuso d’ufficio abbia eliminato una norma rilevante per alcune condotte di distrazione di fondi, l’introduzione del nuovo reato di peculato per distrazione (articolo 314-bis) colma parzialmente questa lacuna. Tuttavia, il reato introdotto, secondo la Corte, copre solo condotte relative a denaro e beni mobili, lasciando fuori gli immobili, e ciò potrebbe creare una parziale violazione degli obblighi di incriminazione derivanti dalla Direttiva. La questione rimane però irrilevante nel caso Bibbiano, dal momento che le condotte contestate agli imputati non risultano lesive degli interessi finanziari dell’Ue, come richiesto dalla direttiva stessa. L’ordinanza, ha evidenziato al Dubbio il professor Manes, “è molto in sintonia con le argomentazioni prospettate dalle difese. È un’ordinanza straordinariamente approfondita - ha evidenziato - di grande consapevolezza giuridica su problemi molto complessi e molto analitica nel distinguere tutti gli aspetti importanti”. Uno dei passaggi centrali riguarda la riaffermazione “molto forte” della discrezionalità legislativa in materia penale, “che è un campo governato dalla riserva di legge, sostanzialmente rimarcando che le scelte legislative in materia penale, condivisibili o meno che siano, sono affidate alla responsabilità del legislatore. E non possono essere conculcate costruendo, spesso attraverso interpretazioni analogiche e in contrasto con la lettera della norma, pretesi, ma insussistenti, obblighi costituzionali di tutela interni o sovranazionali”. La richiesta di un termine per valutare di sollevare la questione davanti alla Corte di Giustizia, secondo Manes, rappresenta una sorta di tentativo di “reclamare i tempi supplementari” su una questione che “i giudici hanno già deciso”, in maniera “molto coraggiosa, ribadendo la discrezionalità del legislatore in campo penale”. In ogni caso, anche se le questioni di legittimità fossero state ricevibili, la decisione della Corte costituzionale, evidenzia l’ordinanza, non sarebbe stata applicabile al processo in corso. “Quello del collegio è stato un grande esempio di attenzione giuridica a un problema che non è solo quello della legittimità dell’abolizione dell’abuso d’ufficio - ha concluso Manes -, ma anche della scelta di riconoscere il giusto rispetto alla discrezionalità del legislatore, e in definitiva di stare dalla parte della democrazia parlamentare penale oppure no”. Nel corso delle scorse udienze era stato Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi, a stroncare la richiesta della procura. “È una questione politica, niente di più”, aveva evidenziato il legale. Che oggi esulta: “La Corte ha evidenziato in maniera chiara come certe scelte politiche siano insindacabili da parte della magistratura ed è un buon segnale per il nostro Paese - ha evidenziato -, perché l’abuso d’ufficio è stato il terreno d’elezione dello scontro tra politica e magistratura. Oggi la magistratura ha finalmente deciso di applicare la legge e sindacarla nei limiti della costituzionalità, ma non per le scelte di fondo, ed è comunque una buona notizia per la nostra democrazia”. Per quanto riguarda il possibile contrasto con la normativa europea, “le giudici hanno colto che la condizionalità europea è sul risultato, ma non sui mezzi. L’Unione europea chiede un risultato che è quello del law enforcement contro i reati contro la pubblica amministrazione, ma non ci dice quali sono gli strumenti esatti che noi dobbiamo utilizzare, perché quello verrebbe, ancora una volta, a limitare la sovranità degli Stati nella materia del diritto penale, che è un principio assoluto cardine dell’Unione. Quindi l’Unione può chiedere, imporre, diciamo, un’obbligazione di risultato, ma non di mezzi. Questo è il senso del vincolo europeo. I giudici hanno preso atto, finalmente, di una cornice di stretto diritto - ha concluso -. Tutte le ordinanze di rimessione che ho visto fino adesso sono mosse da un pregiudizio di natura politica. E voglio ricordare che a tutela della collettività c’è anche l’aggravante dell’abuso di potere, che è un’aggravante specifica dei reati comuni”. Lombardia. Carceri, primo passo delle istituzioni regionali (sperando non sia l’ultimo…) di Luca Talotta mitomorrow.it, 8 ottobre 2024 Il 4 ottobre 2024, la Regione Lombardia ha segnato una tappa importante nella sua storia con la convocazione di un Consiglio straordinario dedicato al tema delle carceri. È la prima volta che la Regione affronta in maniera così diretta una problematica complessa e urgente: quella del sovraffollamento carcerario e delle difficoltà strutturali degli istituti penitenziari. L’iniziativa è stata fortemente voluta dalle forze di opposizione, con Luca Paladini, consigliere regionale, come primo firmatario della richiesta. Paladini ha sottolineato l’urgenza di intervenire su un sistema che “non funziona più”, evidenziando come l’attuale situazione non sia solo insostenibile per i detenuti, ma anche per il personale penitenziario. Carceri in Lombardia, un sistema in crisi: sovraffollamento e mancanza di risorse - I numeri parlano chiaro: in Lombardia, il tasso di sovraffollamento supera il 150%, con picchi che raggiungono il 220% in istituti come San Vittore. Questa situazione non è solo un problema di numeri, ma ha gravi ripercussioni sulla qualità della vita dei detenuti e sulle condizioni di lavoro del personale. Gli istituti lamentano una carenza cronica di personale, che va dalla polizia penitenziaria agli educatori, dai medici agli infermieri, fino agli psicologi e ai mediatori culturali. Le condizioni disumane all’interno delle carceri sono rese ancora più drammatiche dal crescente numero di suicidi, un segnale inequivocabile del fallimento del sistema attuale. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” ha ricordato Paladini, citando Voltaire, per sottolineare l’urgenza di un cambiamento. Una nuova visione per il sistema carcerario - Durante la seduta del consiglio straordinario, Luca Paladini e le forze di opposizione presenteranno proposte concrete per affrontare la crisi. Il loro approccio è chiaro: il carcere non può essere considerato una “discarica sociale”, ma deve diventare un luogo in cui i detenuti possano reinserirsi nella società attraverso percorsi di rieducazione e formazione. Le proposte includono: 1. Aumento del personale: È necessario incrementare le risorse umane all’interno degli istituti, non solo per la polizia penitenziaria, ma anche per educatori, medici e psicologi. La mancanza di personale adeguato è uno dei principali fattori che contribuiscono al deterioramento delle condizioni nelle carceri. 2. Programmi di reinserimento sociale: Occorre potenziare i programmi di formazione e rieducazione per i detenuti, con l’obiettivo di offrire loro una seconda possibilità una volta scontata la pena. In questo contesto, l’istruzione e la formazione professionale giocano un ruolo fondamentale. 3. Interventi strutturali: Molte delle strutture carcerarie lombarde sono fatiscenti e richiedono interventi di ristrutturazione urgenti. Migliorare le condizioni degli edifici, ridurre il sovraffollamento e garantire spazi adeguati per le attività di rieducazione sono passaggi fondamentali per il miglioramento del sistema. 4. Rafforzamento delle misure alternative alla detenzione: Le misure alternative, come i lavori di pubblica utilità e la detenzione domiciliare, devono essere potenziate. Queste soluzioni offrono l’opportunità di alleggerire il carico delle carceri e di reintegrare gradualmente i detenuti nella società. Un consiglio straordinario per una questione straordinaria. L’incontro straordinario sul tema delle carceri è un’occasione importante non solo per fare il punto della situazione, ma anche per tracciare una strada futura. La crisi del sistema carcerario lombardo, come sottolineato da Paladini, non può più essere ignorata. Il numero crescente di suicidi, la carenza di personale e il sovraffollamento richiedono azioni immediate e concrete. “Non sarà una giornata facile”, ha affermato Paladini, “ma è una di quelle da non sprecare”. Ecco perché l’obiettivo delle opposizioni è quello di presentare alla maggioranza proposte serie, lontane da qualsiasi forma di demagogia. L’intento è quello di offrire soluzioni che possano migliorare le condizioni delle carceri e garantire un trattamento dignitoso sia ai detenuti che al personale. La sfida del futuro: riformare il sistema penitenziario - Il sistema carcerario lombardo rappresenta una delle sfide più urgenti per la Regione. Il sovraffollamento, la carenza di risorse e l’alta incidenza di suicidi sono segnali di un problema strutturale che va affrontato con serietà. La riforma del sistema penitenziario non è solo una questione di numeri, ma di dignità umana. Le proposte avanzate durante il consiglio straordinario potrebbero rappresentare un primo passo verso un cambiamento necessario. L’auspicio è che questo incontro possa aprire la strada a riforme strutturali, volte a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e a garantire il reinserimento sociale. La convocazione di un consiglio straordinario dedicato al tema delle carceri in Lombardia rappresenta un momento di riflessione fondamentale. La sfida per il futuro è chiara: riformare un sistema che oggi non funziona più e restituire dignità a chi vive e lavora nelle carceri lombarde. Il carcere non può più essere visto come una discarica sociale, ma deve diventare uno strumento di rieducazione e reinserimento. Sardegna. Carceri sovraffollate: il diritto alla salute sotto pressione algheronotizie.com, 8 ottobre 2024 Le carceri italiane sono da tempo un problema irrisolto, e in Sardegna la situazione non fa eccezione. Con un sovraffollamento dell’83%, i numeri parlano chiaro: 2.128 uomini e 50 donne ammassati in strutture che, evidentemente, non possono garantire condizioni dignitose. Lo scorso 9 agosto, l’Associazione Luca Coscioni ha diffidato le ASL nazionali, chiedendo loro di effettuare sopralluoghi negli istituti di pena per accertare le condizioni igienico-sanitarie e l’accesso ai servizi socio-sanitari. Solo 34 su 102 hanno risposto, tra queste l’ASSL 2 della Gallura in Sardegna, che ha sostenuto di tutelare il diritto alla salute dei detenuti. Un’affermazione che, però, viene messa in dubbio da Marco Perduca, coordinatore dell’iniziativa per l’Associazione Luca Coscioni. Le parole di Perduca sono dure e dirette: “Chiediamo ai media di verificare”. Ecco il punto centrale: in un sistema in cui le istituzioni continuano a ribadire il proprio impegno, chi controlla che queste promesse vengano mantenute? Il problema non è solo il sovraffollamento, che riguarda 61.758 detenuti a livello nazionale, ma anche il rischio di peggiorare la situazione. L’introduzione del decreto Caivano ha già provocato un aumento del 49% negli istituti minorili, e il DdL sicurezza, qualora venisse approvato, porterebbe addirittura donne incinte dietro le sbarre. In un quadro già così critico, l’approccio resta fermo su “ordine e disciplina”, senza mai affrontare le questioni di fondo: condizioni di vita degradanti, servizi sanitari inadeguati e un sistema che sembra più interessato a punire che a riabilitare. Perduca non si ferma qui e lancia un appello ai media locali, invitandoli a chiedere conto alle ASL: sono state effettuate visite ispettive nelle carceri? Quando sono avvenute e quali sono state le conclusioni? Ci sono stati interventi reali o tutto è rimasto sulla carta? E qui si tocca un altro punto dolente. La nomina di Riccardo Turrini Vita a presidente del Collegio dei Garanti dei Diritti delle Persone private della Libertà personale è vista come “del tutto inopportuna” dall’Associazione Coscioni. Turrini Vita è un uomo che ha lavorato per 20 anni nell’amministrazione penale. “Con quale indipendenza o terzietà potrà garantire il pieno rispetto dei diritti umani di chi è ristretto, a partire da quello della salute?” si chiede Perduca. Questa è la situazione. Un sistema che continua a implodere sotto il peso di politiche miopi e decisioni che ignorano la dignità umana. Le carceri non sono solo un problema di sovraffollamento: sono un riflesso di un approccio che, più che cercare soluzioni, continua a rimandare le emergenze. Campania. Carceri, si insedia l’Osservatorio regionale incardinato presso l’ufficio del Garante ansa.it, 8 ottobre 2024 Visite in luoghi detenzione e monitoraggio sulla salute. Si insedia l’Osservatorio regionale sulle condizioni delle persone private della libertà personale, incardinato presso l’ufficio del Garante. I componenti dell’Osservatorio nominati, su proposta del Garante, con decreto del Presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero, sono: Alessandro Gargiulo (Movimento Forense), Anna Malinconico (docente universitaria), Elena Cimmino (Il Carcere Possibile Onlus), Giuliana Trara Genoino (Osservatorio nazionale sul sistema penitenziario), Maria Rosaria Cardenuto (docente universitaria), Mena Minafra (docente universitaria), Paolo Conte (presidente di Antigone Campania), Valentina Ilardi (ass. Liberi di volare) Il Presidente del Consiglio regionale ha nominato, nell’Osservatorio, due suoi delegati tra i consiglieri un’espressione della minoranza Carmela Rescigno (Lega) e l’altro della maggioranza Roberta Gaeta (Demos). “L’Osservatorio utilizzerà tutti gli strumenti, comprese le visite nei luoghi della privazione della libertà per verificare se ci sono trattamenti inumani e degradanti” ha detto Samuele Ciambriello, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale “Promuoverà iniziative presso il Consiglio regionale della Campania che prevedono monitoraggi su temi attinenti la sanità penitenziaria, la salute mentale, la formazione professionale, istruzione e cultura. Studierà i problemi normativi e pratici dell’Ordinamento penitenziario e della realtà carceraria, valorizzerà lo scambio di esperienze e di buone prassi, promuovendo anche dibattiti e convegni”. Uno degli obiettivi - è stato evidenziato - è avvicinare l’opinione pubblica alle problematiche relative alla detenzione per una grande sfida di modifica del concetto di esecuzione della pena. “È importante perché si comincia a ragionare e a confrontarsi, a raccogliere dati e informazioni fondamentali per ripensare anche a delle strategie e strumenti che possono essere utili affinché le persone detenute ma anche la comunità, di cui loro fanno parte, possano trovare nuove soluzioni, nuovi linguaggi e approcci diversi” ha detto Roberta Gaeta “perché la detenzione non sia solo una punizione ma un momento in cui può esserci una possibilità di riscatto”. Carmela Rescigno ha aggiunto: “Le carceri oggi vivono un momento di grande complessità sia gestionale che per quanto concerne i detenuti che vivono situazioni difficili per sovraffollamento e per la problematica della sanità nelle carceri che non riusciamo a garantire adeguatamente” ha spiegato “E allora, l’Osservatorio nasce per iniziare a fare l’analisi dello stato dell’arte e per capire da dove cominciare a dare risposte concrete a queste problematiche. Io come rappresentante del centrodestra sono stata nominata nell’Osservatorio e, nel duplice ruolo di presidente della Commissione anticamorra, spero di potermi mettere a disposizione anche in questa nuova veste”. Voghera (Pv). Detenuto di 59 anni ritrovato morto in cella, probabilmente stroncato da un infarto di Giuseppe Recca La Sicilia, 8 ottobre 2024 È morto la scorsa notte nel carcere di Voghera, dove era detenuto, il saccense Mimmo Maniscalco, di 59 anni, coinvolto in un’inchiesta dello scorso luglio della Direzione Distrettuale Antimafia che avrebbe smantellato la cosca di Sciacca. La morte sarebbe avvenuta per un improvviso infarto. Maniscalco, che in passato era stato coinvolto e poi assolto nell’indagine denominata “Montagna”, insieme ad altre persone era accusato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Poche settimane dopo il Tribunale per il Riesame accolse un’istanza dei suoi difensori e annullò parzialmente l’ordinanza cautelare nei suoi confronti, confermando però la misura cautelare della custodia in carcere. L’indagine, coordinata dal procuratore Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Sergio Demontis, ha fatto luce sulla riorganizzazione del clan all’indomani della morte dello storico capomafia Salvatore Di Gangi. La cosca, secondo gli investigatori, avrebbe messo le mani su diversi appalti pubblici e tentato di condizionare le elezioni amministrative svolte a Sciacca nel giugno 2022. Maniscalco, secondo le accuse, avrebbe tentato di prendere il comando della locale famiglia mafiosa all’indomani della morte del boss, attivando una competizione con Domenico Friscia, anch’egli raggiunto da misura cautelare e attualmente detenuto. Carinola (Ce). Tragedia in carcere, muore detenuto vittima di un malore edizionecaserta.net, 8 ottobre 2024 Tragedia ieri mattina nel carcere di Carinola. Un detenuto è deceduto all’improvviso. Secondo quanto emerso a stroncargli la vita è stato un malore che non gli ha lasciato scampo. Sul posto sono giunti immediatamente gli operatori sanitari del 118 che però non hanno potuto fare altro che constatare l’avvenuto decesso. Dopo l’analisi la salma sarà ora restituita alla famiglia per il rito funebre. Grande sconcerto e dolore tra i compagni di cella e gli altri presenti. Milano. Fronte sanitario dell’emergenza carceri: a San Vittore è psichiatrico un detenuto su due di Giulia Bonezzi Il Giorno, 8 ottobre 2024 E al minorile Beccaria dalla Pandemia è triplicato il ricorso agli psicofarmaci: oggi un Consiglio regionale dedicato al tema. A San Vittore 1.177 detenuti a giugno a fronte di una capienza di 450, più di metà affetti da un disturbo psichico o psichiatrico. Questo numero, impressionante, fa il paio con un altro, spaventoso, citato in un dossier dell’associazione Antigone sull’emergenza nei 17 Istituti penali per minorenni italiani a un anno dal dl “Caivano”: in base a un’inchiesta di Altreconomia in cinque Ipm la “spesa a persona” per l’acquisto di farmaci antipsicotici è aumentata in media del 30% tra il 2021 e il 2022, ma in uno, il Beccaria di Milano, la somministrazione di psicofarmaci è più che triplicata dopo la pandemia (+219 per cento tra il 2020 e il 2022). Condizioni di salute - Un numero che parla da solo, anche perché quanti siano esattamente i minorenni con disturbi psichici tra le mura di via dei Calchi Taeggi non è stato possibile scoprirlo con un accesso agli atti, dal momento che a quell’età non vengono formulate diagnosi definitive, spiega Carmela Rozza, consigliera regionale del Pd al Pirellone dove oggi la seduta del Consiglio regionale sarà dedicata all’emergenza carceri in Lombardia. Ma da altri dati ottenuti dai dem sui penitenziari milanesi è chiaro che la sproporzionata percentuale di detenuti con malattie psichiatriche più o meno importanti sia tra le cause dell’emergenza, già analizzata un anno fa dalle Commissioni Sanità e Carceri del Pirellone ascoltando i sindacalisti dell’Asst Santi Paolo e Carlo che gestisce la sanità penitenziaria nel Milanese. Gli istituti - A Opera, carcere di massima sicurezza, su 1.368 reclusi a giugno 2024 ben 324 risultavano affetti da un disturbo psichico o psichiatrico. Uno su quattro. La stessa percentuale si registra nel penitenziario “modello” di Bollate, che a giugno contava 1.381 detenuti di cui 322 con disturbi psichici o psichiatrici. A San Vittore, che è una Casa circondariale, dunque per definizione ospita persone ancora in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni, la percentuale di detenuti con disturbi psichici o psichiatrici è più che doppia: a giugno 581, su un totale di 1.177. Una situazione ingestibile a prescindere dai numeri sempre risicati della sanità penitenziaria: sette psichiatri di cui due a tempo indeterminato e otto psicologi, due a indeterminato; Opera ha gli stessi psichiatri e due psicologi in meno, Bollate due psichiatri e sette psicologi, il Beccaria uno psichiatra e due psicologi a tempo indeterminato più 4 psicologi a contratto. “La nuova direzione dell’Asst Santi Paolo e Carlo, in carica dall’inizio dell’anno, si è impegnata in una riorganizzazione mirata a rendere i servizi più funzionali, naturalmente con il personale che ha”, spiega Rozza. Carenze e tragedie - A San Vittore, il carcere più sovraffollato d’Italia, con una popolazione composta per tre quarti di stranieri, arriva anche chi in prigione proprio non dovrebbe stare. Come Joussef Barsom, che è morto un mese fa a diciott’anni, nell’incendio della cella condivisa con un altro detenuto ora indagato per omicidio colposo. Il ragazzo egiziano, ex minore non accompagnato, prigioniero in Libia a 15 anni prima di arrivare in Italia su un barcone, era in cella da luglio per una rapina in strada nonostante da minorenne fosse stato assolto da reati simili per vizio totale di mente. “Non poteva stare in carcere - ha spiegato la sua ex avvocata - ma non c’era posto nelle comunità terapeutiche”. Una terra di mezzo che scoppia quanto i penitenziari italiani dove Ristretti orizzonti, rivista fatta nella Casa circondariale di Padova, ha contato la morte di 183 reclusi dall’inizio dell’anno. Il 40%, ossia 74, certamente suicidi in carcere, sulla strada per superare gli 84 dell’annus horribilis 2022. Milano. Dalla cella al lavoro edile: “Il futuro nelle nostre mani” di Thomas Fox Il Giorno, 8 ottobre 2024 Patto con Assimpredil e sindacati sulla formazione. “Dignità e opportunità”. Partito un anno fa, il progetto consente alle imprese di assumere reclusi. La Costituzione parla chiaro: la pena deve “tendere alla rieduzione del condannato”. Difficile, se i detenuti vivono in carceri sovraffollate, ridotti alla somma dei reati commessi, stigmatizzati dalla società e rigettati dal mercato del lavoro. La loro condizione è un’emergenza spesso dimenticata, ma in questo deserto di prospettive esiste un’oasi, un progetto avviato dal carcere di Opera: un laboratorio per formare i detenuti come addetti nel settore edile e reintegrarli nel mondo lavorativo. Ieri la presentazione dei risultati ottenuti nel primo anno, in un incontro nella sede di Assimpredil Ance trasmesso in diretta streaming con il carcere. “Ho visto un cambiamento nella mia vita”, racconta Moustapha, detenuto assunto a una settimana dalla fine del corso di formazione. “Loro hanno fiducia in me, quindi ce l’ho anche io. Ora il futuro è nelle mie mani”. Sono parole che raccontano tutto il valore dell’esperienza, perché è attraverso il lavoro che il detenuto trova un’opportunità di riscatto e impara a essere una persona migliore. “Il loro mondo si ricolora - racconta Don Gino Rigoldi, il vero motore del progetto -. Si apre un’occasione che cambia la loro vita”. In concreto, il corso di formazione comprende 16 ore dedicate alla sicurezza e 80 all’insegnamento dell’arte muraria e alla costruzione di casette. “Credo sia il primo laboratorio edile in un istituto penitenziario in Italia”, commenta Luca Cazzaniga, presidente di Esem-Cpt, l’ente che gestisce lo spazio all’interno del protocollo firmato con l’amministrazione penitenziaria, Assimpredil Ance, i sindacati, Umana e Fondazione Don Gino Rigoldi. Il progetto consente poi l’assunzione da parte delle imprese edili che ne fanno richiesta: queste sanno di avere di fronte un detenuto che al termine dell’attività deve rientrare in istituto, ma non ne conoscono i reati. Ne guadagna l’azienda, che così trova la manodopera qualificata di cui ha bisogno. Ne guadagna il Paese, perché il lavoro aumenta il Pil e abbassa il tasso di recidiva, rendendo più sicuri i territori. Ma soprattutto, ne guadagna il detenuto, che ritrova una dignità che pensava di avere perduto per sempre. “La strada è ancora lunga - conclude Regina De Albertis, presidente di Assimpredil Ance - ma abbiamo visto un’umanità meravigliosa disposta a mettersi in gioco per offrirsi una nuova opportunità”. Milano. Detenuti al lavoro nei cantieri. Don Rigoldi: “È il modo migliore per cambiare vita” di Massimiliano Melley milanotoday.it, 8 ottobre 2024 Terminato il primo ciclo dell’iniziativa con cui Assimpredil Ance, il carcere e i sindacati collaborano per formare detenuti e poi farli assumere. 10 persone hanno imparato un mestiere durante la permanenza nel carcere di Opera e hanno trovato un lavoro. È il risultato di un progetto di formazione e reinserimento avviato un anno fa in collaborazione tra Assimpredil Ance, il carcere di Opera, i sindacati, la Fondazione Don Gino Rigoldi e Umana. Il bilancio è arrivato a conclusione del primo ciclo e in concomitanza con la partenza di quello nuovo. I detenuti che hanno ottenuto il permesso di uscire e lavorare all’esterno possono partecipare a un laboratorio-scuola con 96 ore di formazione, a cui segue l’inserimento lavorativo nei cantieri o imprese che ne fanno richiesta. I detenuti partecipano a 16 ore di corso base sulla sicurezza e a 80 ore di formazione per diventare operatore edile di base. Il primo corso si è concluso ad aprile del 2023, a cui è seguito l’inserimento nel mondo del lavoro. “L’adesione al progetto comporta di per sé il raggiungimento di 3 degli 8 impegni previsti da ‘Cantiere impatto sostenibilè”, ha commentato Regina De Albertis, presidente di Assimpredil Ance: “Certo la strada da percorrere per abbattere i pregiudizi è ancora lunga, ma oggi abbiamo visto all’opera un’umanità meravigliosa disposta a mettersi in gioco per offrire una nuova opportunità. Abbiamo creato uno sportello dedicato per le imprese aderenti a questo progetto che offre un servizio di affiancamento strutturato e qualificato, in grado di superare le barriere e rendere il reinserimento lavorativo un’impresa non solo possibile ma appassionante”. Lavoro strada migliore per cambiare vita - “Questo progetto potrebbe essere anche un suggerimento a tante imprese che hanno carenza di personale, come occasione per rompere la diffidenza che c’è”, ha aggiunto don Gino Rigoldi: “La cosa che apprezzo di più è la felicità e la contentezza che hanno questi uomini che escono. Anche il dire a chi fa queste cose: ‘Ho cambiato la vita delle persone, ho ridotto la recidiva’. Il lavoro è la strada migliore per cambiare la vita. Qui è successo qualcosa in più, perché è un lavoro fatto dentro un carcere, è una sorta di riabilitazione. Non si prende solo lo stipendio ma si impara a essere una persona come le altre, autonoma. Abbiamo inventato un format. Si rovesciano le parti, il datore di lavoro entra in un carcere, forma le persone e le assume veramente”. Soddisfatto anche il direttore di Opera, Silvio Di Gregorio: “Magnifica avventura pubblico-privato. Cesare Beccaria ha avuto la lungimiranza di scorporare, dividere, il reato dalla persona. In carcere non ospitiamo reati ma persone. Ognuno può riscattarsi. Avere l’opportunità di poter sviluppare competenza, un tempo dedicato alla presa di coscienza di sé stessi, a riscoprire l’umanità che c’è in ogni persona. È il lavoro che permette alle persone di creare solide basi per evitare che si rientri nel carcere. Se poi una volta fuori manca la rete, il pericolo della recidiva è elevato”. Sostegno a detenuti e aziende - All’inizio del percorso, come ha spiegato l’educatrice e tutor Susanna Frongillo, c’è un colloquio individuale per conoscere la storia e le aspettative del detenuto. E c’è anche un servizio di tutoraggio per le aziende che vogliono aderire al progetto, per ascoltare dubbi e incertezze sull’assunzione di persone che provengono da un istituto penitenziario. “Il nostro tutoraggio - ha detto Frongillo - continua anche nei primi 6 mesi sia per le imprese sia per i detenuti, anche con visite periodiche in pausa pranzo ai cantieri”. Palermo. Progetto “Svolta all’Albergheria!”, un percorso di reinserimento sociale per i detenuti di Giancarlo Macaluso Giornale di Sicilia, 8 ottobre 2024 Si è concluso, dopo tre anni di lavoro e diverse tappe, il progetto “Svolta all’Albergheria!”, sostenuto da Fondazione Con il Sud e coordinato dalla cooperativa sociale Rigenerazioni onlus. Diversi gli attori istituzionali coinvolti: la casa di reclusione Ucciardone di Bona, le case circondariali Pagliarelli Lorusso, Burrafato e Cavadonna, l’istituto penale per i minorenni di Palermo, l’Ufficio di Servizio Sociale per i minorenni di Palermo, l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna (Sicilia), il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sicilia e l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di Siracusa. Le realtà di natura sociale che hanno preso parte alle attività insieme alla cooperativa sociale Rigenerazioni onlus: Fondazione Don Calabria per il sociale Ets, le associazioni Next - Nuove Energie X il Territorio Ets, Lisca Bianca, Mosaico, Addio Pizzo, Lega Coop Sicilia, le Cooperative Addio Pizzo Travel, l’Arcolaio, Prospettiva Futura e ancora Wonderful Italy srl, Clean Sicily srl e la Confederazione Nazionale della Piccola e Media Impresa. Il cuore del progetto è stato quello di mettere al centro le abilità individuali delle persone in esecuzione di pena, orientandole verso la comunità, attraverso un impatto rigenerante sul territorio, nel quartiere di Ballarò e nel diffuso contesto locale. Ed è proprio nei territori che si è provato a ricucire il patto con la comunità di appartenenza, attraverso attività di giustizia riparativa e restituzioni in aree a rischio di marginalità sociale della città di Palermo (quartieri Kalsa, Cep e Ballarò) con interventi di riqualificazione urbana. Bilancio in positivo nella profilazione e nel bilancio delle competenze delle persone coinvolte: su 250 percorsi previsti ne sono stati realizzati 321. Alla formazione tecnico-pratica, realizzata all’interno del carcere Pagliarelli e all’interno dell’istituto Malaspina, su Facility management, Cleaning e panificazione, si sono affiancati laboratori di narrazione come strumento di eccellenza per promuovere nelle persone detenute l’autostima, la progettualità affettiva e l’identità professionale, elementi necessari a intraprendere un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Anche i tirocini formativi hanno rappresentato un intervento strategico finalizzato all’inclusione socio-lavorativa di minori e adulti in esecuzione di pena: 22 percorsi avviati con l’obiettivo di trasmettere competenze tecniche e trasversali in settori specifici e agevolare il passaggio alla successiva stabilizzazione lavorativa. Momenti fulcro del progetto sono stati i Jail Career Days, giornate di matching tra detenuti e aziende che hanno visto la partecipazione di oltre cento aziende e altrettanti candidati tra persone detenute ed in esecuzione penale esterna. Nello specifico, 130 aziende attivamente coinvolte, oltre 250 sensibilizzate, 107 persone in esecuzione di pena per un totale di 575 colloqui di lavoro realizzati. “Svolta all’Albergheria!” ha, infine, visto la nascita della struttura ricettiva Casa San Francesco Rooms, all’interno dell’edificio storico di Casa San Francesco, dove è stato possibile avviare percorsi di formazione e tirocini. Gli obiettivi raggiunti in termini di contratti stipulati hanno superato ben oltre gli indicatori e su 8 previsti, sono state assunte 18 persone, dimostrando che il terreno è fertile e che la comunità è pronta a recepire un cambiamento significativo. “Svolta All’Albergheria! ha lavorato sulla connessione di tre macro-sistemi - dichiara Nadia Lodato, coordinatrice del progetto - Sistema Penitenziario, Sistema Produttivo e Sistema Comunità. In un processo osmotico, in cui gli interventi su un sistema influiscono e orientano l’altro, il progetto ha promosso e sostenuto questa comunicazione. L’intervento sui tre macro-sistemi - conclude - ha prodotto una nuova percezione del benessere sociale e del Bene Comune, in cui gli attori coinvolti (persone in esecuzione di pena, imprese, singoli cittadini) continueranno a operare su una collettività accogliente. Un percorso che non può e non deve concludersi qui oggi e che, vista la grande disponibilità di tutti gli attori coinvolti, potrà costituire la base per ragionare su un’implementazione dei processi di inclusione. Siamo solo all’inizio di un lungo cammino”. Firenze. Carcere di Sollicciano, l’allarme della direttrice: “Siamo a un punto di non ritorno” di Azzurra Giorgi La Repubblica, 8 ottobre 2024 “Sollicciano è un contenitore dove si alimenta la recidiva”. Parola della direttrice del carcere, Antonella Tuoni. Che, sentita in commissione politiche sociali di Palazzo Vecchio, descrive una “situazione veramente drammatica” dal punto di vista strutturale, di organico, e pure del post carcere. Coi detenuti che “riconsegniamo al territorio esattamente, se non peggio, a quando sono entrati”. Il perché, spiega Tuoni, è dovuto alla mancanza di serie politiche di reinserimento, specie in un contesto - come quello di Sollicciano - in cui il 70% dei detenuti è extracomunitario per cui, all’uscita, “rimarranno irregolarmente soggiornanti, senza radicamento sul territorio o prospettive di vita. Anche se fossimo un istituto modello, e non lo siamo, pur avendogli fatto seguire di corsi di alfabetizzazione, di scrittura creativa e di formazione, non potranno spendere questi titoli e abilità. Bisogna lavorare, e questa è una mia opinione personale, a una regolarizzazione, a un’integrazione e inclusione. Altrimenti li riconsegniamo alla micro-criminalità, è inevitabile”. I problemi di Sollicciano riguardano ogni ambito. Il 23 ottobre, spiega la direttrice (che in estate ha ricevuto due procedimenti disciplinari per le condizioni del carcere, mentre un fascicolo è stato inviato in Procura), è il termine entro il quale le era stata chiesta una bonifica della struttura, “servirebbero, anche solo per l’imbiancatura, 800mila euro. Esula di gran lunga da quelle che sono le competenze del direttore, che è un ordinatore secondario di spesa. Le condizioni sono fatiscenti e ogni volta che piove ci sono infiltrazioni importanti. La situazione è tale per cui siamo a un punto di non ritorno” spiega lei. Che racconta di 4 milioni, impegnati dal dipartimento di amministrazione penitenziaria, per risolvere alcuni problemi: un appalto che dal 2023 è sospeso per, “a quel che mi risulta, un’erronea progettazione legata alle facciate”. I lavori erano partiti dal reparto femminile, poi sarebbe dovuto toccare a quello maschile. Durante un sopralluogo, però, era emerso come le infiltrazioni non fossero state risolte così “ho scritto al dipartimento, chiedendo di fare attenzione perché, andando avanti allo stesso modo, i problemi non sarebbero stati risolti e i soldi sarebbero stati spesi inutilmente. Da allora l’appalto è sospeso. Ho fatto - dice Tuoni - istanza di accesso civico agli atti per capirne di più”. Nel frattempo, la direzione generale dei detenuti e del trattamento “sta lavorando a un appalto, ad affidamento diretto, per ripristinare una delle due sezioni devastate durante la rivolta del 4-5 luglio” dice Tuoni. Per quel che riguarda i numeri, la capienza di Sollicciano “dovrebbe essere di 497 detenuti, allo stato sono 514. Uno potrebbe pensare che tutto sommato siamo in linea, ma non lo siamo affatto. Mancano all’appello 223 posti letto e quindi la capienza si riduce notevolmente, con una percentuale di sovraffollamento importante”. 416 i poliziotti che dovrebbero essere in servizio, “ma ne contiamo 348 - dice la direttrice -. Dovremmo avere nella linea di comando 5 dirigenti di polizia penitenziaria ma ne abbiamo 1-2. Io stessa dovrei avere 2 colleghe. Quando si parla di incuria e abbandono di Sollicciano bisognerebbe chiedere a chi è ascrivibile, visto che io da mesi lo gestisco in assoluta solitudine”. Gli educatori sono 9 invece di 11, i contabili dovrebbero essere 4, con almeno 5 anni di esperienza, ma ve ne sono due con meno di 5 anni di servizio mentre uno è in prova. “È una situazione veramente preoccupante e allarmante, con carichi di lavoro pesantissimi” dice Tuoni che, dopo aver elencato le attività all’interno del carcere (corso di scuola alberghiera, teatrale, di alfabetizzazione, di scrittura creativa), spiega di aver bussato a diverse porte - dal teatro della Pergola agli Uffizi - per cercare di fare entrare la cultura dentro la struttura, “ma senza risultati. Probabilmente perché il carcere non è appetibile e non porta consensi o voti”. Poi la stoccata alla politica: “Non vedo politiche concrete finalizzate al reinserimento. L’ho detto a tutti: politici di destra e di sinistra. Così si perde di vista l’obiettivo perché al momento Sollicciano è un contenitore dove si alimenta la recidiva”. Su questo pesa la carenza di personale, basti pensare che il protocollo sulla cura del verde siglato col Comune di Firenze è fermo perché non ci sono sufficienti funzionari contabili: “È rimasto carta straccia” dice Tuoni. Che non esita a definire la situazione “incandescente” e destinata a peggiorare in mancanza di interventi. “Poco prima di venire qui - conclude lei - il comandante mi ha inviato una foto di un quadro elettrico bruciato nella caserma femminile per eventi meteorici. Siamo costretti a chiuderla”. Firenze. I lavori di Sollicciano bloccati dal 2023 per un errore nel progetto di Luca Gasperoni Corriere Fiorentino, 8 ottobre 2024 Due edifici saranno costruiti da zero, altri due riconvertiti grazie anche al Pnrr. Ristrutturazione bloccata a Sollicciano per colpa di un errore nei lavori che non ha risolto il problema delle infiltrazioni nell’edificio, lasciando i detenuti in balia anche dell’acqua portata dalle piogge. A spiegarlo è la direttrice Antonella Tuoni durante un’audizione in commissione comunale: “Il nostro dipartimento ha impegnato 4 milioni per risolvere la situazione, peccato che dal 2023 l’appalto sia fermo per un’erronea progettazione del trattamento delle facciate”. A poche settimane dalla scadenza dei 90 giorni (23 ottobre) per risolvere le criticità del carcere, intimata dal dipartimento di amministrazione penitenziaria, è la direttrice Antonella Tuoni durante un’audizione in commissione comunale a lanciare l’allarme sui lavori di bonifica per cui stata multata lo scorso luglio. “La struttura è fatiscente e due sindaci che si sono avvicendati ne hanno chiesto la demolizione, quando l’anno scorso c’è stata l’alluvione anche il carcere è diventato un lago. Il nostro dipartimento ha impegnato 4 milioni per risolvere questa situazione, peccato che dal 2023 l’appalto dipartimentale sia fermo non so se sospeso o interrotto per un’erronea progettazione del trattamento delle facciate”. Durante i lavori portati avanti dalla ditta in appalto, infatti, le facciate oblique sono state trattate come delle pareti e quindi non impermeabilizzati come previsto per i soffitti. Dopo il primo intervento nella sezione femminile, spiega Tuoni, “abbiamo fatto un sopralluogo e abbiamo verificato che le infiltrazioni non erano state risolte”. Conscia dell’ulteriore tegola la direttrice quindi si è subito rivolta al dipartimento che però ha bloccato la prosecuzione delle opere. In questa situazione l’unico segnale positivo arriva dall’avvio da parte della direzione generale di un piccolo appalto in affidamento diretto per il ripristino di una delle due sezioni devastate dalla rivolta dell’estate. Ma anche se completato non cambierà il problema del sovraffollamento. La capienza di Sollicciano è di 497 detenuti a fronte dei 514 presenti ma, sottolinea Tuoni, “non siamo affatto in linea perché all’appello mancano 223 posti letto di sezioni chiuse o inagibili”. Sassari. Convegno sulla tutela della salute in carcere di Giuseppina Granito sireneonline.it, 8 ottobre 2024 Promossa dall’Aps Co.n.o.s.c.i., l’iniziativa fa il punto sui servizi sanitari nei penitenziari del Nord Sardegna (Sassari, Alghero, Tempio Pausania, Nuoro, Mamone). Salute e assistenza sanitaria nelle carceri sarde: criticità attuali, impegni istituzionali e soluzioni per garantire la dignità delle persone detenute e del personale operante. Il tema sarà affrontato nel convegno “Tutela della salute negli istituti penitenziari del Nord Sardegna: peculiarità e criticità”, promosso dal Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane (Co.n.o.s.c.i.), in collaborazione con la Regione Sardegna e il Tribunale di sorveglianza di Sassari e il patrocinio di importanti enti, istituzioni, Asl di Sassari, organizzazioni del Terzo settore e di volontariato legate alla tematica dell’assistenza alle persone ristrette, che si svolgerà l’11 ottobre presso il Palazzo di Giustizia della Corte di Appello di Cagliari - sezione distaccata di Sassari aula delle udienze penali, in via Budapest 34. I lavori inizieranno alle ore 9 e il giorno prima, 10 ottobre, una delegazione dei partecipanti al convegno si recherà in visita presso le case circondariali di Alghero e Sassari. Numerosi i relatori: magistrati, medici specialisti, psicologi, psichiatri, garanti delle persone sottoposte a misure restrittive, rappresentanti della amministrazione penitenziaria, direttori delle case circondariali, assessori regionali, coordinatori sanitari delle case circondariali, rappresentanti delle associazioni di tutela delle persone recluse. Invitati rappresentati delle istituzioni tra cui, il presidente della Regione Sardegna, il sindaco di Sassari, presidenti e magistrati dei Tribunali e uffici di sorveglianza della Sardegna. I lavori saranno coordinati dal presidente di Co.n.o.s.c.i., Associazione di promozione sociale, Sandro Libianchi. Per info e prenotazioni: conosci2000@hotmail.com. Genova. “Amunì”: la paternità mancata dei detenuti e la solitudine dei figli in scena a teatro genova24.it, 8 ottobre 2024 Genova. Nell’Odissea la narrazione è incentrata sulle gesta di Ulisse che per anni resta lontano da casa. Ad aspettarlo soprattutto un personaggio quasi silente, il figlio Telemaco, il quale ogni giorno nell’orizzonte del mare cerca le tracce di un ritorno sperato quanto atteso. Questo è uno degli spunti a cui si ispira “Amunì”, spettacolo teatrale ideato nel 2013 dalla regista Grazia Isoardi, prodotto dall’associazione Voci Erranti e che sarà interpretato dai detenuti della casa di reclusione di Saluzzo sabato 12 ottobre alle ore 19 al Teatro dell’Arca, presso il carcere di Marassi, in via Clavarezza 16. La storia nasce dalla riflessione dei detenuti sul tema della paternità, sul fatto di essere padri assenti e figli difficili, di essere cresciuti senza padri non perché orfani, quanto privi di padri autorevoli, portatori di valori e testimoni delle responsabilità della vita. Ora questi figli vivono l’attesa del ritorno alla libertà e attendono il ritorno del padre, proprio come Telemaco fece con Ulisse. “Amunì” è la storia di nove fratelli che grazie ai giochi e i ricordi dell’infanzia ritornano a loro volta bambini. “Che cosa vuol dire essere padre? Chi me lo può insegnare? C’è un altro Padre? Cosa sarebbe cambiato nella mia vita se papà fosse stato presente?”. Telemaco ha atteso il ritorno del padre e pregato affinché la legge si ristabilisse nella sua casa invasa dai Proci ma oggi nessuno sembra più tornare dal mare, anche se tutti almeno una volta abbiamo guardato il mare in attesa che qualcosa da lì tornasse. Pensieri di vite recluse, dubbi abitati dai sensi di colpa e responsabilità mancate, nostalgie di infanzie negate che prendono forma sul palcoscenico in un contesto di festa dal sapore amaro dell’“assenza”. Lo spettacolo è inserito all’interno della rassegna “Periferiche visioni”. Per assistervi è obbligatoria la prenotazione entro le ore 12:30 del 10 ottobre. Catanzaro. “Soglie”, mostra fotografica sul carcere al Coriolano Paparazzo lanuovacalabria.it, 8 ottobre 2024 Se è vero che la civiltà di un Paese si misura dalla condizione delle sue carceri, allora il nostro è ben lontano dal poter essere definito un Paese civile. Del resto, la condanna inflitta all’Italia nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il trattamento inumano e degradante dei detenuti non è arrivata certo a caso. E soprattutto non è servita granché, visto che dall’inizio del 2024 i suicidi in carcere sono più di 70, compresi i sei di altrettanti agenti di polizia penitenziaria e si va avvicinando al numero record del 2022, quando si tolsero la vita 84 persone, una media di 7 al mese. La drammaticità dei dati è emersa ancora una volta ieri nello spazio “Coriolano Paparazzo”, dove si è inaugurata la mostra fotografica “Soglie…”, il primo dei tre appuntamenti autunnali della rassegna “La Fotografia dell’Umano” organizzata dalla Cine Sud di Francesco Mazza e che, in questo caso, ha goduto del patrocinio della camera penale di Catanzaro “Alfredo Cantafora”, che si è sempre distinta per il forte impegno sulla condizione del sistema penitenziario. A discutere degli scatti realizzati dal fotografo professionista Paolo Ranzani nel corso di un laboratorio teatrale tenutosi all’interno di un istituto penitenziario, lo stesso Mazza e il presidente della camera penale, Francesco Iacopino. Un confronto impreziosito dalle letture di Aldo Conforto e Anna Maria Corea tratte dal “Memoriale del carcere” dello scrittore calabrese Saverio Montalto. Pubblico nutrito e attento, a dimostrazione che Catanzaro ha ben compreso l’importanza del tema trattato ma, più complessivamente, il valore di una rassegna che, come ama ribadire Francesco Mazza, ha lo scopo di indurre alla riflessione sui temi dell’Umano per favorire il cambiamento delle coscienze. E questo fuori dalla logica delle iniziative mordi e fuggi che, al di là di tutto, spesso attirano per il solo tempo circoscritto al singolo evento, prima di cedere il passo al successivo. “Soglie…” resterà aperta al pubblico, con ingresso gratuito, fino al prossimo 20 ottobre nello spazio al 189/B di Corso Mazzini a Catanzaro. Bologna. “Joseph &Bross”, spettacolo teatrale nel carcere della Dozza di Antonella Cortese Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2024 Nella meravigliosa cornice dell’Oratorio di San Filippo Neri il 25 settembre c’è stata una rappresentazione molto intensa che ha visto la sua ‘prima’ nel carcere della Dozza, per volontà dell’autore del testo da cui è stato tratto lo spettacolo teatrale. Si tratta di “Joseph & Bross”, con la regia di Alessandro Berti, attore, regista e drammaturgo, in scena con Francesco Mariuccia e Savì Manna. Il testo lo ha scritto Ignazio De Francesco, monaco dossettiano, islamologo, co-fondatore di Eduradio. Si chiama Giuseppe e i suoi fratelli, dal suo libro ‘Vivere senza la chiave”, Zikkaron Edizioni, una piccola casa editrice che pubblica testi preziosi. La storia racconta di tre persone, Gadi, Salvo e Ahmad, che si sono trovati, non certo per scelta, nella stessa camera di pernottamento (così si chiamano le celle oggi) e subito si differenziano per cultura, lingua, credo, provenienza e anche reato. Costretti e ristretti in nove metri quadrati, tra l’attaccamento alle proprie tradizioni, famiglie, storie personali e la consapevolezza che cresce battuta dopo battuta che lì dentro, giocoforza, respirano la stessa aria, subiscono gli stessi odori, percorrono gli stessi piccoli spazi, condividono le stesse sofferenze facendosi coraggio l’uno con l’altro. Uomini con identità diverse alle quale si attaccano con la forza della disperazione, ma Gadi insinua il dubbio proprio sull’ idea di identità. Quel lemma che definisce, restringe, limita, isola ma allo stesso modo rassicura, unisce i consanguinei, i ‘fratelli’, magari contro chi non è della stessa famiglia, etnia, cultura. De Francesco, nel dialogo con il pubblico, parla della necessità di una Costituzione della Terra, una nuova legge superiore a quella attuale che, nel nostro mondo che cambia velocemente, è ormai datata e infatti spezzetta, parcellizza, inquina e, soprattutto, non promuove la Pace. Perché, dunque, la prima dello spettacolo in carcere? Per tanti motivi. Il primo è che ci troviamo in un microcosmo spesso precursore di cambiamenti sociali che in quell’ambiente si manifestano prima di realizzarsi all’esterno. È un incubatore nel quale c’è tutto il male, ma anche a pensarci tutto il bene, quello tra le persone che attraversano insieme un cammino difficile, spesso di espiazione, sempre di sofferenza. La scrittrice Goliarda Sapienza, che ha conosciuto da ‘interna’ la reclusione e ci ha scritto un libro dal titolo “L’università di Rebibbia”, asseriva che il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale. E non è forse così? Le comunità umane hanno una grande e ineludibile responsabilità, senza questo atto di coscienza i detenuti restano reati che camminano, predestinati lombrosiani che devono marcire in carcere, marchiati a vita, lontano dalle ‘persone per benè, incapaci di rigenerazione, risocializzazione e una qualche forma di risarcimento nei confronti della comunità che hanno ferito. Tra l’altro, l’inasprimento delle pene anche nei confronti dei minori che affollano sempre di più anche le carceri per adulti, rappresenta un fallimento e una resa preferendo la soluzione più facile, che poi soluzione proprio non è. E se, come diceva Voltaire, la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri, non ne usciamo certo bene. Tornando a Joseph & Bross ad un certo punto Gavi dice: “… Ma una cosa ci accomuna: la chiave. Non abbiamo la chiave, la chiave è in mano ad altri. Il carcere alla fine è solo questo. Si tratta di imparare a vivere senza la chiave”. Ma vivere senza la chiave non è solo una condizione di chi vive in restrizione dietro le sbarre, è anche quella di chi non può lasciare il proprio paese, di chi vive nei campi profughi, nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) o di chi vive recintato nella propria terra. L’autore ci ha raccontato di come si sia sentito ristretto ad Ain Arik, il villaggio in cui c’è una sede della Piccola Famiglia dell’Annunziata, situato a circa 6 km a nord-ovest di Ramallah con 1800 abitanti dei quali meno di un terzo sono cristiani e due terzi musulmani, mentre sulla sua testa passavano le bombe. È lì che è nato questo racconto, in quel ‘carcerè da cui nessuno poteva uscire e dove, anzi, tante persone cercavano rifugio. La similitudine è presto fatta, le sbarre immateriali ci sono, la convivenza pacifica si può imparare - sull’esempio di Gadi, Salvo e Ahmad - la Costituzione della Terra è quanto mai necessaria, è ora di mettersi tutti insieme al lavoro e di ripensare a come vogliamo vivere e in che mondo. Giornata Mondiale Salute Mentale. “In Italia 770mila assistiti e 2 mln senza cure” quotidianosanita.it, 8 ottobre 2024 “Servono 2 mld in più e aumento del 30% di personale”. L’Allarme dei Dipartimenti. A lanciarlo, mentre è all’esame in Senato il Ddl Zaffini sulla riforma dell’assistenza psichiatrica sul territorio, il Collegio Nazionale dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale. Servono, tra le varie priorità, strategie di prevenzione e screening nella popolazione, soprattutto tra i più giovani, maggiore integrazione tra i servizi dell’infanzia, dell’età adulta e delle dipendenze. Da Cenerentola della sanità pubblica, a fantasma nei lavori del G7 Salute, stretta tra risorse economiche scarse, poco personale e una crescita del disagio psichico, la salute mentale è sempre più in affanno, con una preoccupante quota di sommerso, ovvero di italiani che dovrebbero esser seguiti dai servizi di cura e non lo sono, pari a circa a due milioni di persone. A lanciare l’allarme, in vista della Giornata Mondiale, sono i Dipartimenti di Salute Mentale che, con 150 incontri previsti in tutta Italia, chiedono risorse adeguate e un aumento dell’organico per un rinnovato modello organizzativo e dei rapporti con l’Autorità Giudiziaria, mentre in Senato è stato avviato, con un ciclo di audizioni, l’esame del disegno di legge Zaffini che ha l’obiettivo di riformare l’assistenza psichiatrica sul territorio. In Italia 2 milioni di persone senza cure: a pagare il prezzo più alto bambini e ragazzi. A parlare del sommerso sono i numeri: “Secondo le stime epidemiologiche, a soffrire di disturbi psichici, sarebbe almeno il 5% della popolazione, pari a circa 3 milioni di persone, percentuale che sale al 10% se si includono anche i disturbi più lievi, come ad esempio gli attacchi di panico - osserva Giuseppe Ducci, Vicepresidente del Collegio Nazionale dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche della ASL Roma 1 -. Le persone con disturbi mentali prese in carico nel 2023 dai servizi sanitari pubblici sono state in Italia oltre 770mila, pari all’1,5% della popolazione. Ciò significa che, considerando solamente i disturbi più gravi, c’è un 3,5% di persone, equivalente a oltre due milioni di cittadini, che non ha accesso ai servizi. A pesare è la paura dello stigma, ma anche la difficoltà stessa delle strutture nel prenderli in carico e a pagare il prezzo più alto sono le categorie più fragili. Le fasce sociali più svantaggiate, donne, anziani, ma soprattutto bambini e adolescenti, sempre più vittime delle dipendenze da sostanze, ansia, depressione, e disturbi del neuro-sviluppo che nel 50% dei casi risalgono già alla gravidanza”. Le aree di intervento prioritarie “La salute mentale in Italia ha fatto significativi passi avanti a partire dalla Legge 180, conosciuta come Legge Basaglia, di cui si festeggiano quest’anno i 100 anni dalla nascita, che ha promosso un approccio comunitario, fondato sul rispetto della soggettività e dei diritti della persona - afferma Fabrizio Starace, Presidente del Collegio Nazionale dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Modena -. Tuttavia, i cambiamenti sociali ed epidemiologici degli ultimi decenni e la nascita di nuovi bisogni, come ad esempio il dilagare dell’abuso di sostanze e dei disturbi dello spettro autistico, impongono di rilanciare e ridisegnare i DSM per aggiornare e migliorare la qualità dell’assistenza psichiatrica in tutte le fasce di età a partire da quella neonatale, con un aumento delle risorse e di investimenti sul personale per un nuovo modello organizzativo dei DSM che includa i servizi per l’età evolutiva e per le dipendenze, presenti solo nella metà dei dipartimenti”. Questa, in estrema sintesi, la proposta lanciata dal Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale, una rete nazionale di 120 direttori, ogni giorno in prima linea e insieme per la prima volta in un organismo unitario, in rappresentanza delle esigenze e delle difficoltà di tutte le professionalità operanti nei DSM, dei pazienti e dei loro familiari. Servono 2 miliardi in più e un aumento del 30% del personale. “Uno dei problemi più urgenti per i servizi di salute mentale in Italia è la scarsità di risorse economiche e professionali. Chiediamo che almeno il 5% del Fondo Sanitario Nazionale e Regionale venga destinato alla salute mentale, più percentuali specifiche per l’infanzia e l’adolescenza (2%) e per le dipendenze (1,5%). Un investimento che darebbe un grande ritorno sul piano assistenziale, oltre a essere un volano di sviluppo del Paese fortissimo pari ad almeno il 2% del PIL - osserva Ducci -. È dunque indispensabile per la stessa sopravvivenza dei DSM, ridefinire la quota di spesa per l’assistenza psichiatrica, oggi in calo in media al 2,5% del Fondo Sanitario Nazionale e Regionale, pari a poco più di 3 miliardi e mezzo che rendono l’Italia fanalino di coda in Europa tra i Paesi ad alto reddito. Per raggiungere il 5% previsto dalla conferenza unica Stato-Regioni solo per la salute mentale degli adulti, servono almeno 2 miliardi in più, essenziali per garantire l’adeguamento degli organici agli standard ministeriali”. Nei DSM, sono presenti circa 25.000 operatori tra psichiatri, psicologi, infermieri e educatori, cioè 55 per ogni 100mila abitanti, oltre il 30% in meno rispetto a quanto previsto dagli standard AGENAS, recepiti in Conferenza Unica Stato-Regioni e sottoscritti dal Ministero della Salute, che prevedono 83 operatori ogni 100mila abitanti. Solo il 12% dei ragazzi con disturbo psichico passa ai servizi per adulti: necessario garantire continuità delle cure Il secondo nodo sono i modelli organizzativi. “In questa situazione d’emergenza, siamo chiamati a rispondere a nuovi bisogni, soprattutto tra i giovanissimi, come i disturbi del comportamento alimentare, i disturbi della personalità e quelli dello spettro autistico, il dilagare delle dipendenze da sostanze e alcool, che sollecitano soluzioni diverse rispetto al passato e più specifiche competenze - afferma Ducci -. Obiettivo irrinunciabile è attuare interventi di prevenzione in tutte le fasce di età, fin dalla gravidanza, con particolare attenzione agli stili di vita e al contesto familiare, e poi con successivi programmi di screening per intercettare precocemente problemi del neuro-sviluppo che, nel 50% dei casi, risalgono già all’età prenatale”. La maggiore età è un passaggio critico per i disturbi mentali. “Solo la metà delle regioni garantisce la continuità delle cure tra infanzia ed età adulta per bimbi e ragazzi affetti da disturbo psichiatrico -prosegue Starace -. In Italia, infatti, appena il 12% dei giovani passa ai servizi di salute mentale per adulti, dopo aver raggiunto il limite di età massimo per le cure pediatriche”. “L’integrazione tra salute mentale per adulti, dipendenze patologiche e servizi per l’età evolutiva - aggiunge Ducci - è, dunque, una soluzione organizzativa necessaria per facilitare la transizione tra i servizi per minori e adulti, modello attualmente applicato solo in alcune regioni, mentre va esteso a livello nazionale”. Psichiatria strumento di cura, non di custodia: urgente creare sezioni psichiatriche nelle carceri e riforma del codice penale Un terzo aspetto critico è il rapporto tra disturbi psichici e il sistema della giustizia. La priorità da questo punto di vista è evitare il rischio di un ritorno al passato con la psichiatria usata come strumento di custodia e controllo sociale, anziché di cura. “Il sistema rischia di usare le nuove residenze, che hanno preso il posto dei manicomi giudiziari, come “svuotacarceri”. Molti detenuti sono assegnati alle REMS per disturbi di personalità antisociali, dipendenza da sostanze, marginalità sociale, che non vanno confuse con le malattie psichiatriche che possono giovarsi di percorsi residenziali nelle strutture di cura”, sottolinea Ducci. Fra i nodi irrisolti, invii inappropriati sulla base di perizie disinvolte di pericolosità sociale e infermità di mente. “Proponiamo la creazione di sezioni sanitarie specialistiche psichiatriche all’interno delle carceri dove poter effettuare trattamenti sanitari obbligatori (TSO) in conformità con la legge - precisa Starace -. Inoltre ci sono in questo campo riforme legislative necessarie, come l’abrogazione dell’articolo 89, relativo al vizio parziale di mente, e dell’articolo 203, sulla pericolosità sociale di tipo psichiatrico”. Di qui l’appello alle istituzioni, sottolineando l’importanza di reinterpretare i principi della Riforma Basaglia alla luce delle attuali sfide sociali e sanitarie. “La salute mentale - concludono Ducci e Starace - richiede interventi urgenti e mirati e investimenti adeguati. Il coinvolgimento delle istituzioni in questa battaglia è essenziale”. Per parlare di tutto questo con i cittadini, i Dipartimenti di salute mentale si aprono al pubblico, il prossimo 10 ottobre, con oltre 150 eventi previsti in tutta Italia e un collegamento in streaming tra tutte le “piazze”. Tutti i cittadini sono invitati a partecipare agli incontri tra operatori, utenti, familiari e associazioni per confrontarsi sui temi del benessere psichico che si terranno in luoghi aperti di pertinenza dei DSM, ma anche nelle scuole e in altri luoghi istituzionali. Salute Mentale, tra negazione e necessità di cambiamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2024 In prossimità della Giornata mondiale della salute mentale, un nuovo studio dell’Unicusano rivela un’allarmante crescita dei disturbi psicologici in Italia. L’analisi, concentrandosi sulle difficoltà più diffuse e sulle carenze del sistema, sottolinea l’urgenza di interventi mirati. Secondo lo studio, negli ultimi due anni si è registrato un incremento del 6% nel numero di italiani che soffrono di disturbi psicologici. Donne e giovani: le prime vittime della crisi psicologica. L’aumento della violenza domestica e la precarietà hanno messo a dura prova la salute mentale femminile, mentre i giovani, in particolare la Generazione Z, si sentono schiacciati da ansia e depressione. Un allarme lanciato dai dati: oltre 700mila giovani italiani soffrono di disturbi mentali, e il suicidio è una realtà che non può essere ignorata. Tra i sintomi più ricorrenti, gli sbalzi d’umore si manifestano in ben il 60% dei casi, seguiti da vicino dall’insonnia, che tormenta il 59% degli individui colpiti. Non meno preoccupante è la presenza di sintomi depressivi, che si riscontra nel 58,9% dei casi, mentre le crisi di panico, seppur meno frequenti, colpiscono comunque il 38% delle persone affette da problemi di salute mentale. Lo scenario si fa ancora più preoccupante quando si considera il diffuso ricorso ai farmaci. Nel 2023, quasi un italiano su cinque ha fatto uso di psicofarmaci per gestire i propri problemi di salute mentale. Contrariamente alla tendenza mondiale, dove i problemi personali sono la principale causa di disturbi psicologici (33%), in Italia è il lavoro a rappresentare la fonte primaria di disagio. Il 76% dei lavoratori ha manifestato almeno una volta sintomi come stanchezza, disturbi del sonno, stress, disinteresse o ansia legati all’attività lavorativa. Nonostante la gravità della situazione, persiste una discrepanza tra la percezione individuale e la realtà dei fatti. L’ 88% degli italiani valuta la propria condizione mentale come buona o media, mentre il 26% manifesta sintomi depressivi, ansia o stress in forma grave o molto grave. Un dato preoccupante è che il 44% degli italiani decide di autogestire i disturbi relativi ai malesseri mentali, mentre il 33% non richiede un consulto medico. Lo studio mette in luce significative lacune nel sistema sanitario italiano per quanto riguarda il supporto alla salute mentale: Solo un terzo di chi soffre di disturbi mentali riceve un trattamento adeguato. Su 130mila psicologi presenti sul territorio nazionale, solo il 5% lavora in strutture pubbliche. Il bonus psicologo, introdotto dal Governo Draghi, ha rappresentato un tentativo di avvicinare i cittadini ai servizi di supporto psicologico. Tuttavia, i fondi stanziati sono stati drasticamente ridotti. “Infermità mentale, il carcere non può essere la risposta. Neanche per i crimini più efferati” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 ottobre 2024 Pietro Pietrini, Ordinario presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca: “La psichiatria forense non può abdicare a quello che è il suo scopo, semplicemente per motivi di ordine pubblico. Così come la magistratura non dovrebbe mai dimenticare cosa prevede l’articolo 27 della Costituzione”. Neuroscienze e diritto: come cambia il concetto di imputabilità e di conseguenza come dovrebbe essere diversamente espiata una pena. Ne parliamo con lo psichiatra di fama mondiale Pietro Pietrini, Ordinario presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Professore, quali sono gli ambiti di intervento delle neuroscienze nelle aule di tribunale? Il ruolo delle neuroscienze è cercare di dare il più possibile una base oggettiva, un correlato misurabile alle conclusioni che si raggiungono in termini di imputabilità. In sintesi: ridurre il margine di soggettività. Questo perché in psichiatria forense manca ancora, rispetto alle altre branche della medicina, la possibilità di avere un riscontro oggettivo. Oggi, ad esempio, grazie alle moderne tecniche neuroradiologiche, abbiamo la possibilità di misurare la densità neuronale in aree del cervello che sono cruciali per il controllo degli impulsi. Quanto nel nostro Paese i giudici sono pronti ad accogliere le tesi difensive che tendono, attraverso le nuove scoperte, ad evidenziare la minorata capacità di intendere e volere? Non saprei darle delle statistiche, perché non ho l’esperienza su tutti i giudici. Diciamo che dipende da caso a caso. Noi abbiamo incontrato giudici molto aperti, pensi alla sentenza di Como: Stefania Albertani fu dichiarata colpevole con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i genitori. Il Gip di Como, Luisa Lo Gatto, le riconobbe un vizio parziale di mente, anche per la presenza, dal punto di vista genetico, di fattori “significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”. Secondo lei i giudici si lasciano influenzare anche dal “tribunale del popolo” che non è pronto ad accettare una detenzione in una Rems invece che in carcere, che per molti erroneamente è un hotel a 5 stelle? Facciamo una premessa: una perizia serve a stabilire se il soggetto è bad or mad, cattivo per scelta o perché malato, incapace di fare altrimenti. Detto ciò, dinanzi ai crimini anche più efferati, ai crimini più odiosi, noi dobbiamo porci comunque sempre nel rispetto della Costituzione e del codice penale. Quindi se la persona che ha commesso anche il crimine più orrendo l’ha fatto in presenza di una incapacità di intendere o di volere non è imputabile e non può andare in carcere. Tuttavia succede che l’efferatezza del delitto commesso, la brutalità del delitto o la stessa attenzione per la vittima, ad esempio una neonata o una giovane donna, possano indubbiamente condizionare il comune sentire e il sentire di tutti, anche dei giurati e degli stessi giudici togati. Il problema è che c’è una percezione nella società ma anche tra gli addetti ai lavori - periti, consulenti e gli stessi magistrati - per i quali esistono individui che sono così pericolosi che vanno per forza rinchiusi in carcere e condannati all’ergastolo. Ma così il nostro sistema giuridico, costituzionale fallisce. Ci spieghi meglio... Se mentre prima, quando esistevano gli ospedali psichiatrico-giudiziari, la pena veniva percepita da tutti - gente comune e addetti ai lavori - addirittura un quid pluris, un aggravamento, rispetto a una comune detenzione in carcere, adesso essere rinchiusi in una Rems significa non essere puniti abbastanza. Per molti la Rems viene considerata quasi alla stregua di un centro benessere, senza che riesca a tutelare, sotto il profilo custodiale, la società da una persona pericolosa. In effetti la Rems non ha addetti alla sicurezza, non vi sono agenti di Polizia Penitenziaria. Vi è solo la vigilanza all’ingresso, che controlla i documenti di chi entra ed esce, ma che non potrebbe neppure intervenire in caso di bisogno. In altre parole, se qualcuno ad esempio cerca di evadere, la vigilanza si limita a chiamare le forze dell’ordine. Ma c’è di più. Se una persona in Rems si rifiuta di assumere le terapie, il personale non può far altro che ricorrere al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) che deve essere eseguito in ambiente ospedaliero esterno. Infatti, nonostante una sentenza della Corte Costituzionale (n. 22 del 2022) abbia riconosciuto alla Rems la facoltà di somministrare terapie anche contro la volontà dell’individuo, di fatto mancano le norme per poterlo fare. Ci sono pazienti in Rems ai quali tutti i mesi viene fatto un TSO per poterli così portare in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dove viene loro somministrato il neurolettico depot. Con queste limitazioni - anche tralasciando il ben noto problema delle liste di attesa, che vede attualmente un numero di domande doppio rispetto ai posti disponibili - si comprende come di fronte ad autori di reato malati di mente e con conseguente elevata pericolosità sociale, il carcere possa apparire come la soluzione di miglior garanzia e tutela della comunità. Tuttavia, il carcere non è veramente in grado di gestire e di guarire un malato di mente. C’è una proposta intermedia che è quella che dice di predisporre dei centri psichiatrici in alcuni carceri, dove tenere gli individui che sono autori di reati gravi e che sono malati di mente. Questo secondo me è un ritorno all’ospedale psichiatrico giudiziario, far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Ma è addirittura peggiorativo, perché di fatto non può garantire le necessità terapeutiche e riabilitative di queste persone. La psichiatria forense non può abdicare a quello che è il suo scopo, semplicemente per motivi - diciamo - di ordine pubblico. Così come la magistratura non dovrebbe mai dimenticare cosa prevede l’articolo 27 della Costituzione. Non si può periziare e giudicare di pancia? L’applicazione del codice deve andare oltre l’emotività, altrimenti non siamo in uno Stato di diritto. Quando io sento dire che viene invocata una pena esemplare, mi chiedo che cosa voglia dire. La pena esemplare contrasta con la definizione di Stato di diritto. Pensi ai casi Pifferi, Turetta, Neumair: cosa dobbiamo fare con queste persone? Impiccarle sulla pubblica piazza? Per quanto esecrandi possano essere i reati commessi, tutti hanno diritto al giusto processo e alla pena prevista dal Codice. Un terzo degli italiani vorrebbe vedere ripristinata la pena di morte... Senza neppure entrare in considerazioni morali ed etiche, le statistiche, ad esempio quelle che vengono dagli Usa, ci dicono che la pena capitale non rappresenta una deterrenza. Così come non è un deterrente l’incremento delle pene. Io ho periziato diversi indagati e imputati in oltre 20 anni di carriera: non ho mai trovato una persona che mi abbia detto “se avessi saputo che sarei stato condannato a 30 anni non avrei ucciso mia moglie”. La perdita del controllo e la perdita della capacità di autodeterminarsi non sono comunque condizioni in cui le conseguenze possono fare da deterrente. Fratelli d’Italia ha presentato una proposta di legge per esonerare dall’imputabilità solo i casi di psicosi... È un ritorno indietro. Prima del 2005, della famosa sentenza Raso, era così. La non imputabilità veniva riconosciuta solo nel caso delle psicosi maggiori - psicosi schizofrenica, psicosi depressiva - cioè laddove lo stato di mente alterato dell’individuo era tale da non fargli percepire i dati di realtà, propriamente interpretarli e di conseguenza agire. Quindi lo psicotico che pensa che stiano venendo gli extraterrestri a prenderlo e deve sacrificare la propria figlia per salvare il mondo dagli extraterrestri. È una tendenza che c’è nella psichiatria; molti colleghi la pensano così e dinanzi a disturbi di personalità, pur riconoscendone la presenza, ne danno una lettura tale da escludere il vizio di mente. Decreto Flussi, il diritto violato dal governo nella guerra contro i migranti di Vitalba Azzollini* Il Domani, 8 ottobre 2024 Il cosiddetto Decreto Flussi presenta una serie di criticità in punto di diritto. Dal trattenimento dei richiedenti asilo all’accesso ai dispositivi elettronici dei migranti. Non c’è provvedimento normativo del governo che non presenti serie criticità in punto di diritto. È la volta del cosiddetto decreto Flussi, del quale può essere utile rilevare almeno alcuni dei profili più problematici, quali emergono dalle indicazioni del Governo. Il respingimento dei richiedenti asilo - Il decreto introduce una nuova ipotesi di respingimento, deciso dal questore, degli stranieri rintracciati a seguito di operazioni di ricerca e soccorso mare da parte delle autorità preposte. È previsto che i migranti, trovati in acque internazionali, siano condotti in “zone di frontiera”, che tecnicamente non sono territorio nazionale, così da evitare l’obbligo di accoglienza ai sensi del regolamento di Dublino. Peccato il governo non consideri che anche navi e aeromobili delle autorità italiane sono suolo italiano, ai sensi del codice della navigazione. I respingimenti non si applicano ai richiedenti protezione internazionale. Ma i tempi ristretti dell’espulsione - 48 ore per la convalida del giudice - rischiano di far sì che uno straniero appena soccorso in mare non sia in condizione di presentare tempestivamente la richiesta. Il divieto di respingimento sarebbe così vanificato. Per coloro i quali presentino domanda di asilo è previsto il trattenimento se non consegnano il passaporto o altro documento equipollente oppure non prestino idonea garanzia finanziaria. Ma, ai sensi della normativa europea (direttiva 2013/33), e come attestato dai giudici, il trattenimento è una misura eccezionale: va motivato, e non può costituire una conseguenza “automatica” per il solo fatto che un richiedente protezione non abbia risorse per la cauzione. Invece, è proprio ciò che fa il decreto in esame. I cellulari - In caso di mancata cooperazione dello straniero con le autorità ai fini dell’accertamento della propria identità e di altro, il questore può disporre l’accesso ai suoi dispositivi elettronici, senza che sia presa visione di corrispondenza e comunicazioni. La norma suscita perplessità sul piano privacy. Escludendo chat, mail e similari, l’accesso potrà riguardare ad esempio la cronologia del navigatore, le reti Wi-Fi cui il cellulare si è connesso, le foto scattate o archiviate, le app installate. Ma le informazioni così ottenute rischiano di non essere utili per l’identificazione del migrante: nel corso del viaggio, lo stesso device potrebbe essere stato usato da più individui oppure perso e trovato da qualcuno, e ciò inquinerebbe le “tracce” digitali. La raccolta di dati prevista dalla legge, non conseguendo gli scopi cui è finalizzata, violerebbe il Regolamento Ue sulla privacy (GDPR). Inoltre, ogni dato personale dev’essere valutato correttamente, anche alla luce delle circostanze in cui è stato originato. Ma se non c’è nemmeno la certezza che il possessore del dispositivo sia colui cui dati personali appartengono, molto elevato è il rischio di equivoci, quindi di eventuali conseguenze pregiudizievoli anche sul piano legale per la persona sbagliata. Ancora, ai sensi del GDPR, i migranti dovrebbero essere messi in grado non solo di ottenere, ma anche di capire compiutamente ogni aspetto relativo alla raccolta e gestione dei propri dati. Cosa non agevole per stranieri soccorsi in mare, che non conoscono la nostra lingua né la portata di normative qual è quella europea sulla privacy. I soccorsi e la Libia - Il nuovo testo prevede che le navi umanitarie “non pongano a repentaglio l’incolumità dei migranti” non più solo a bordo, come previsto finora. Potrebbe essere sanzionata una ONG per il solo fatto che si avvicini a un’imbarcazione in difficoltà. Si vuole, da un lato, evitare che i giudici sospendano, come nei mesi scorsi, provvedimenti di fermo amministrativo delle navi delle ONG, motivati dal fatto che queste ultime non hanno rispettato gli ordini della cosiddetta guardia costiera libica, mettendo in pericolo i migranti soccorsi con il loro trasbordo; dall’altro lato, lasciare ai libici la gestione degli individui in mare. Un’altra norma dispone che i piloti degli aerei delle ONG, i quali avvistino imbarcazioni in difficoltà, avvertano l’ente dei servizi di traffico aereo e il centro di coordinamento dei soccorsi, attenendosi alle loro istruzioni. Già oggi gli aerei, tramite il team di terra delle ONG, forniscono a tali soggetti le informazioni necessarie, convogliate però prima alle navi ONG, che possono così intervenire. L’intento della norma, pure in questo caso, sembra quello di lasciare la gestione delle persone in mare ad altri Paesi, specie alla Libia. Ma favorire l’intercettazione dei migranti da parte di uno Stato non sicuro concreta un respingimento, più che un soccorso. Peccato che il governo italiano paia non rendersene conto. *Giurista Migranti. “Corte Ue impedisca a Frontex di segnalare imbarcazioni alla guardia costiera libica” di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2024 Ong contro Frontex. Le organizzazioni non governative Front-Lex e Refugees in Libya hanno presentato un’azione legale contro Frontex - l’agenzia europea per la sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime - presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Entrambe sostengono che la fornitura da parte di Frontex di informazioni sulla posizione delle imbarcazioni dei migranti nel Mediterraneo centrale alla Guardia Costiera libica - di fatto in mano alle milizie armate già accusate traffico di esseri umani - sia illegittima ai sensi del diritto dell’UE. Pertanto Front-Lex e Refugees in Libya chiedono che la Corte ordini a Frontex di cessare di inviare queste informazioni agli enti libici. L’azione legale è stata presentata a nome di un richiedente asilo sudanese bloccato in Libia dal suo rappresentante, l’avvocato Francesco Gatta, e potrebbe avere implicazioni sia per Italia che per Malta. Le organizzazioni hanno presentato numerose prove che dimostrerebbero come Frontex non solo fornisca la posizione delle imbarcazioni di migranti direttamente a Tripoli, ma condivida anche i dati di sorveglianza raccolti dai suoi aerei con le autorità italiane e maltesi. Queste autorità, a loro volta, comunicano le posizioni rilevate da Frontex alle autorità di Tripoli. Si chiede di conseguenza che la Corte ordini a Frontex di evitare tanto le comunicazioni dirette con Tripoli, così come qualsiasi comunicazione indiretta tramite Italia e Malta. Secondo le Ong, nel dare alla Guardia Costiera libica (LCG) la posizione delle imbarcazioni nel Mediterraneo centrale, l’obiettivo di Frontex non è salvare vite, ma facilitare le intercettazioni. Nell’azione legale esaminata da Il Fatto Quotidiano sono state presentate le prove raccolte dalla Ong tedesca Sea-Watch che dimostrerebbero come, anche quando le imbarcazioni di soccorso umanitario sono nelle vicinanze, Frontex si astenga dall’allertarle, per notificarle solo a Tripoli. Le organizzazioni hanno anche denunciato come i migranti, nel tentativo di sfuggire una volta intercettati dalla LCG, spesso preferiscano buttarsi in mare piuttosto che essere riportati con la forza in Libia. Secondo una missione indipendente di accertamento dei fatti sulla Libia, commissionata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, queste persone subiscono crimini contro l’umanità al momento del rimpatrio forzato in Libia. “Se Frontex avesse voluto salvare vite in mare, avrebbe informato e coinvolto le imbarcazioni di soccorso delle ONG o avrebbe avviato nuove operazioni di ricerca e soccorso nell’area. Invece, la vera motivazione di Frontex sembra essere quella di prevenire lo sbarco di individui in fuga da crimini contro l’umanità nei porti europei,” sottolinea l’avvocato Iftach Cohen di Front-Lex. David Yambio, co-fondatore di Refugees in Libya, aggiunge: “Frontex non può ‘salvarè le persone dalla morte per annegamento inviandole nuovamente nei lager libici spacciati per centri di accoglienza. Questo è particolarmente vero quando queste persone scelgono consapevolmente di rischiare di affrontare il pericoloso viaggio attraverso il Mediterraneo centrale per sfuggire ai torturatori libici.” La Cassazione ha recentemente riconosciuto che i richiedenti asilo che resistono al rimpatrio in Libia stanno esercitando il proprio diritto all’ autodifesa. Inoltre, la Corte di Crotone ha recentemente stabilito che le intercettazioni e i rimpatri in Libia non possono essere considerati operazioni di soccorso. La Corte di Giustizia del Lussemburgo è stata sollecitata a giudicare con urgenza il caso contro Frontex con la partecipazione di tutti i propri giudici, a causa dell’importanza della questione. Migranti. La vicenda Apostolico si è conclusa nel silenzio: il governo ha rinunciato ai ricorsi di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 8 ottobre 2024 La magistrata era stata criticata, in primis da Salvini, per non aver convalidato il trattenimento in un Cpr di un migrante tunisino, nonostante non avesse pagato la caparra da 5mila euro introdotta dal decreto Cutro. Il Viminale aveva fatto ricorso, ma poi ha chiesto alla Cassazione di estinguere il giudizio. Il governo ha anche modificato le norme per evitare che la questione finisse in sede di giustizia europea. La vicenda della giudice di Catania Iolanda Apostolico che aveva suscitato tanto clamore mediatico e critiche da parte della destra italiana si è conclusa con un nulla di fatto. E per evitare un giudizio severo della Corte di giustizia europea, che rischiava di inficiare il decreto Cutro anche nelle parti che riguardano la realizzazione dei cpr in Albania, il Viminale ha deciso di fare un passo indietro. A fine settembre è arrivata la decisione delle sezioni unite civili della Cassazione sulla decisione di alcuni giudici di non convalidare i fermi dei migranti in applicazione del decreto Cutro (che ha suscitato dure reazioni del governo Meloni). Apostolico, così come altri giudici, aveva deciso di non convalidare il trattenimento di un migrante tunisino in un centro di permanenza per il rimpatrio, nonostante questo non fosse in grado di pagare la cauzione da cinquemila euro come previsto invece dal decreto varato dopo il naufragio di Cutro, nel quale morirono almeno 94 persone nel febbraio del 2023. Il ricorso ritirato dal ministero - Le sezioni unite civili della Cassazione, con due ordinanze, hanno dichiarato “estinto il giudizio” sul ricorso presentato dal ministero dell’Interno e dal Questore di Ragusa. La decisione segue la scelta del ministero dell’Interno e del Questore di depositare la rinuncia al ricorso chiedendo “la dichiarazione di estinzione del giudizio” ritenendo che sia “venuto meno il loro interesse all’impugnazione in ragione della irreperibilità” dei migranti destinatari del provvedimento e dal “sopravvenuto nuovo decreto interministeriale che ha introdotto una nuova disciplina integrativa”. Le sezioni unite civili della Cassazione hanno anche disposto “il ritiro della domanda di pregiudiziale” presentata alla Corte di giustizia europea e dichiarati assorbiti i ricorsi incidentali. I giudici di Strasburgo erano infatti stati chiamati a pronunciarsi in via d’urgenza sulla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo deve versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. La Corte di giustizia europea, su parere dell’avvocato generale, lo scorso 26 febbraio non ha accolto la domanda pregiudiziale avanzata dalla Corte di Cassazione sull’applicazione del decreto Cutro, decidendone la trattazione con la procedura ordinaria, non iniziata. “Il ritiro della domanda di pronuncia pregiudiziale - affermano le sezioni unite civili della Cassazione nelle due ordinanze - non ingenera dubbi neppure riguardo all’estensione delle competenze della Corte di giustizia, visto che, a fronte del ritiro, resta sempre affidata alla valutazione della Corte la decisione sul se pronunciarsi o meno”. Il dato più eloquente che emerge da tutto ciò è la richiesta da parte del Viminale dell’estinzione del giudizio, dopo i tantissimi attacchi del governo nei confronti della magistrata, in primis di Matteo Salvini che aveva anche pubblicato dei video che ritraevano Apostolico durante una manifestazione. Interpellato sulla questione il Viminale fa sapere di non commentare notizie riguardo magistrati. La vicenda è iniziata il 2 ottobre del 2023 quando la giudice civile del tribunale di Catania - sezione immigrazione - Iolanda Apostolico aveva depositato un’ordinanza con la quale non convalidava il trattenimento di un migrante tunisino in un cpr, nonostante quest’ultimo non avesse pagato la cauzione prevista dal decreto Cutro. La motivazione fornita dalla giudice è che, a suo avviso, la norma era contraria alle direttive dell’Unione europea in materia. Il decreto ministeriale, infatti, prevedeva la possibilità per i migranti arrivati in Italia da paesi considerati sicuri di fornire una “garanzia finanziaria” di 4.938 allo stato per evitare di aspettare nei cpr la risposta alla loro richiesta asilo. Una decisione che aveva fatto infuriare la premier, Giorgia Meloni, che commentò così la notizia: “Sono rimasta basita di fronte alla sentenza del giudice di Catania, che con motivazioni incredibili rimette in libertà un immigrato illegale, già destinatario di un provvedimento di espulsione, dichiarando unilateralmente la Tunisia paese non sicuro (compito che non spetta alla magistratura) e scagliandosi contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”. Pesanti critiche sono state formulate anche da parte del vicepremier Salvini, che ha postato sui suoi canali social un video in cui si vede la giudice Apostolico partecipare nel 2018 a un sit-in di protesta contro il governo che non aveva permesso lo sbarco di alcuni migranti dalla nave Diciotti che li aveva soccorsi. All’epoca Salvini era ministro dell’Interno, e nei mesi successivi verrà implicato nella vicenda giudiziaria di Open Arms per un caso analogo. Per l’attuale titolare del ministero dei Trasporti, quel video era la dimostrazione che Apostolico aveva dei pregiudizi personali nei confronti delle misure del governo e un approccio con un occhio di riguardo in favore dei migranti. Da parte sua, invece, la giudice ha difeso il suo operato: “Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale”. Senza contare che altri giudici hanno deciso in maniera analoga su alcuni casi come accaduto a Firenze il 4 ottobre 2023. Ma cosa ne è rimasto di quella cauzione introdotta dal governo Meloni? Dopo le decisioni dei giudici di Catania, il governo ha fatto ricorso in Cassazione, a cui ha chiesto di pronunciarsi contro la mancata applicazione delle misure del decreto Cutro. Ma questo rischiava far approdare la questione nelle scrivanie della Corte di giustizia che avrebbe anche potuto esprimere il suo giudizio su altri punti del provvedimento varato dopo la strage di Cutro, tra cui anche la realizzazione dei centri per i migranti in Albania smontando uno dei cavalli di battaglia della premier Meloni dell’ultimo anno. Per questo motivo in un secondo momento, a maggio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva annunciato di essere pronto a eliminare la cauzione o graduare l’importo con “un’applicazione caso per caso” della misura. Detto fatto. Il 10 maggio scorso è stato firmato da Piantedosi e dai ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, un nuovo decreto ministeriale specifico sulla questione della cauzione. Ma cosa cambia? Il documento, si legge nel testo, ha l’obiettivo di “assicurare la flessibilità alla prestazione della garanzia finanziaria anche dal punto di vista soggettivo, sulla base di una valutazione effettuata caso per caso”. Questo significa che se “lo straniero consegna il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità”, il decreto “non si applica”. Inoltre, la misura abbassa abbassa anche livello della cauzione richiesta, stabilendo una cifra minima di 2.500 euro e una massima di 5.000 euro che sarà decisa dal questione competente “con valutazione compiuta caso per caso e tenuto conto della situazione individuale dello straniero”. A influire sulla decisione del questore, tra le altre cose, c’è “il grado di collaborazione fornita dallo straniero nelle procedure di identificazione, desumibile dalla documentazione, anche di natura elettronica”. Se si collabora la cifra richiesta sarà minore e se si presenta un passaporto la cauzione viene annullata. Questo perché qualunque persona dimostra di provenire da uno stato della lista dei paesi sicuri viene rimpatriato nel giro di pochi giorni. Migranti, l’Ungheria chiede di uscire dal Patto di Marina Della Croce Il Manifesto, 8 ottobre 2024 17 Paesi vogliono rimpatri più veloci. I recenti successi elettorali ottenuti dall’estrema destra in Francia, Germania, Austria e, prima ancora, Olanda, cominciano a far sentire il loro peso in Europa nel tentativo di imprimere alle politiche migratorie dell’Unione un’ulteriore stretta repressiva. Dopo l’Olanda, che appena un mese fa ha chiesto a Bruxelles l’opt-out, ovvero una deroga alle regole del Patto su immigrazione e asilo, ieri è stata la volta di Budapest avanzare la stessa richiesta: “L’Ungheria ritiene che ristabilire un controllo nazionale più forte sulla migrazione sia oggi l’unica opzione” per proteggere i confini e limitare l’immigrazione irregolare, è scritto in una lettera inviata alla commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson dal sottosegretario per gli Affari europei ungherese Janos Boka. E sempre ieri è stata resa nota un’altra lettera, inviata questa volta da 17 paesi, nella quale si chiede alla Commissione europea nuove norme per rendere più rapidi i rimpatri. Rispetto a un’analoga iniziativa dello scorso mese di maggio, la novità è che questa volta la missiva è stata firmata anche da Francia e Germania, a ulteriore riprova di come l’avanzata delle destre estreme condizioni sempre più pesantemente le politiche degli Stati. L’opt-out ungherese. Era nell’aria e nonostante l’Ungheria sia presidente di turno dell’Ue rappresenta il punto più alto dello scontro sui migranti che ormai da anni contrappone il paese a Bruxelles. L’annuncio lo aveva dato sempre Boka il 18 settembre, subito dopo la richiesta olandese, insieme alla comunicazione che Budapest non ha alcuna intenzione di pagare la maxi-multa di 200 milioni di euro comminata dalla Corte di Giustizia Ue per il mancato rispetto delle regole in materia di asilo. A far salire ulteriormente la tensione ci ha pensato poi Viktor Orbán promettendo di spedire pullman carichi di migranti in Belgio “e li deponiamo davanti agli uffici di Bruxelles”. Promessa che il leader magiaro ha ribadito anche due giorni fa parlando dal palco del raduno leghista di Pontida. Come l’Olanda, però, almeno per ora anche l’Ungheria dovrà continuare a rispettare le politiche migratorie dell’Unione. Un opt-out è infatti possibile, ma solo dopo una modifica dei Trattati Ue che, come ha spiegato un portavoce della Commissione, per ora non è all’orizzonte e richiederebbe comunque tempi lunghi. La lettera dei 17 Occorre “un cambio di paradigma” nella gestione dei rimpatri. È quanto chiedono alla Commissione Ue Austria, Paesi Bassi, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Slovacchia e Svezia più due paesi, Norvegia e Svizzera, che non appartengono alla Ue ma sono nell’area Schengen. L’obiettivo è quello di arrivare a una nuova base giuridica che consenta di accelerare gli allontanamenti e sanzionare il migrante che non collabora alla sua identificazione (con il decreto flussi il governo italiano ha appena reso possibile l’ispezione dei cellulari dei migranti per identificarli). Sullo sfondo c’è la richiesta, avanzata già a maggio, di realizzare in paesi terzi hub destinati ai migranti che devono essere rimpatriati sul modello dei centri che l’Italia sta costruendo in Albania.