Il carcere non si salva da solo di Stefano Anastasia garantedetenutilazio.it, 7 ottobre 2024 Il sistema penitenziario italiano sembra precipitato in una crisi senza vie d’uscita: le presenze in carcere aumentano costantemente, e quindi conseguentemente il sovraffollamento, l’indegnità delle condizioni di detenzione e la sofferenza dei detenuti, l’insufficienza e la frustrazione del personale, le proteste, gli atti di autolesionismo e i suicidi. Il Governo ignora o sottovaluta quello che sta accadendo, che è ormai sotto gli occhi di tutti, perché è parte del suo programma: “garantisti nel processo, giustizialisti nella pena” dicevano in campagna elettorale, e il giustizialismo nella pena oscilla tra la sua “certezza” detentiva e il “buttare via la chiave”, con buona pace dei progetti di rieducazione e reinserimento attraverso il lavoro che il capo dell’Amministrazione penitenziaria ha messo allo studio con il Cnel. Se il carcere è programmaticamente il contenitore della marginalità sociale, neanche i campi di lavoro forzato saranno in grado di disciplinare e, forse, rendere produttivo un esercito di tossici, malati di mente, senza fissa dimora e manovalanza criminale privi di una prospettiva di reinserimento sociale in condizioni di autonomia e legalità. Certo, la crisi del carcere viene da lontano, forse addirittura da quella sua originaria ipocrisia che ha da sempre confuso contenimento, disciplina e “rieducazione”. Ma c’è poi una crisi che viene da più vicino, e che si inscrive in quella del modello europeo di stato sociale all’interno dei regimi di democrazia costituzionale. L’articolo 27 della Costituzione, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e la finalità rieducativa della pena, sono indissolubili dall’idea della universalità dei diritti fondamentali della persona, quale che sia la sua origine, la sua contingente condizione sociale o economica, quali che siano state le sue biasimevoli condotte, anche penalmente sanzionate. È l’idea di uno stato sociale, e quindi di servizi pubblici, che entrano fin dentro il carcere a rimuovere quelle condizioni di svantaggio sociale che impediscono la piena autonomia e libertà della persona; era l’idea che mosse la riforma del 1975, subito travolta dalla “emergenza terrorismo” e poi dalla crisi dello stato sociale novecentesco. Se quella idea universalistica della dignità si perde e si alzano i muri nella meritevolezza dei diritti, garantiti per nascita (“prima gli italiani!”) o per accettabilità sociale di stili di vita e di comportamento, è inevitabile che i detenuti, persone condannate o accusate di aver violato le leggi penali, ne siano naturalmente esclusi, con piena soddisfazione dei penultimi, che si vedono tolta di mezzo una pericolosa concorrenza sul mercato della sopravvivenza, e serena indifferenza dei benestanti, che pensano che la questione non li riguardi per differenza di status e di habitat sociale. Nonostante una consuetudine ormai trentennale, ogni volta che entro a Regina Coeli c’è qualcosa che riesce a stupirmi: lo scorso anno i pensili staccati dal muro e poggiati per terra per poter mangiare seduti o giocare a carte in cella, quest’anno la coda dei detenuti lungo le scale della I sezione con le ciotole in mano per prendere da mangiare e portarlo ai compagni. Ieri (e ancora oggi) in VII sezione mancavano sedie e tavoli nelle stanze, oggi non funziona l’ascensore che porta ai piani il cibo (e le medicine, le sedie a rotelle, il “sopravvitto”, i pacchi, la posta, …). Questo stato di degrado, che si aggiunge al sovraffollamento, agli infissi rotti, alle muffe, alle perdite d’acqua, non è solo di un antico istituto fuori dal tempo, ma di un intero sistema che alcuni esponenti del Governo non vogliono neppure vedere, rifiutandosi di esercitare le proprie prerogative ispettive nelle sezioni detentive e limitandosi ad andare in carcere per incontrare la polizia penitenziaria e alimentare la guerra tra guardie e ladri che sta affliggendo la disperazione tanto delle une quanto degli altri. Dopo l’inutile decreto-legge estivo, ora il Parlamento è ora impegnato a esaminare un disegno di legge, anch’esso governativo, che è un deposito dell’esibizionismo penale, in cui chiunque abbia una pulsione giustizialista può dire più uno e aumentare il carico della propaganda e della sofferenza dei soliti noti, quelli che sono già in carcere e a cui verrà domani accollato anche il reato di rivolta penitenziaria per non essere rientrati dall’aria, in sezione o in cella per una protesta nonviolenta contro le degradanti condizioni di detenzione o per poter incontrare il direttore, il magistrato o il garante e rappresentargli qualcosa. Non farà grandi numeri l’odiosa modifica in peius del codice penale fascista, che a suo modo tutelava la maternità e l’infanzia, impedendo di entrare in carcere alle donne incinte o madri di neonati fino al primo anno di età, ma la caccia allo scalpo delle impunite ragazzine rom invertirà il senso della pur lentissima marcia in corso verso le alternative al carcere per le detenute madri con bambini piccoli o piccolissimi. E poi la proliferazione delle armi, la criminalizzazione delle manifestazioni non autorizzate o dell’occupazione degli immobili sfitti o abbandonati: tutto passa per una norma penale, come questo Governo ci ha insegnato sin dal suo biglietto da visita, la criminalizzazione dei rave parties. Anche quando non produce effetti diretti, questa concezione panpenalistica delle relazioni sociali informa la cultura degli operatori della giustizia e della sicurezza, orientandoli ad atteggiamenti guardinghi e a interpretazioni restrittive, se non a veri e propri abusi di fatto o di diritto. È così che le alternative al carcere, enormemente cresciute negli ultimi trent’anni, sono diventate alternative alla libertà, destinate a un assaggio di punizione per chi in carcere probabilmente non sarebbe comunque mai entrato. Crescono insieme e non contro il carcere perché rispondono allo stesso motore: l’inflessibilità della legge penale, la serietà del giudizio, una certezza della pena che vale anche per chi riesca ad accedere a un’alternativa, perché ha le risorse culturali, sociali, relazionali, legali che ne distinguono il destino dagli altri, i non abbienti, fatalmente destinati al carcere. È quel motore che ha reso impronunciabile l’unica parola di senso e che tutti coloro che vivono il carcere ammettono come unica soluzione alla involuzione attuale: clemenza. Solo un provvedimento generalizzato di clemenza oggi potrebbe dare respiro al carcere, a chi ci vive e a chi ci lavora. Basterebbe un provvedimento di amnistia e di indulto nel limite di due anni di pena da scontare per azzerare il sovraffollamento e far ripartire il sistema in equilibrio di spazi, risorse e personale. Altrimenti, è inevitabile che il carcere sia quel che è e che da anni denunciamo: l’ospizio dei poveri e degli indesiderati, quelli che quando commettono un reato non se la possono cavare con un’alternativa. Se si vuole che sia altro, in prospettiva bisogna tracciare una linea e tornare ai fondamentali: nel penale, diritto penale minimo e minimizzazione della reazione punitiva alle violazioni della legge penale, escludendo il carcere per i reati non violenti che attualmente lo affollano per oltre la metà; nel sociale, la ricostruzione di un sistema di accoglienza e di sostegno per chi ne ha bisogno e un’idea di sviluppo per ampie aree del Paese che, nonostante i migranti discriminati all’arrivo in Italia, forniscono ancora la metà degli ospiti al sistema penitenziario italiano. Insomma: il carcere non si salva da solo, attraverso la migliore definizione e la migliore interpretazione della legge penale, ma solo se torna a essere parte di una politica nazionale contro le diseguaglianze. Un racconto dalla nave dei folli che attraversa il mare tempestoso dell’insensatezza carceraria di Monica Cristina Gallo e Luigi Colasuonno* altreconomia.it, 7 ottobre 2024 L’apparato penitenziario italiano non è più in grado di tenere una rotta già sgangherata. Suicidi ed episodi di conflitto, pur frequenti in passato, si verificano ormai quotidianamente. Il governo sa rispondere solo con “giri di vite” legislativi, una soluzione buona per gli annunci e non per le vite dei reclusi. “Direzione Casa Circondariale Lorusso e Cutugno Torino”. Chissà quante centinaia di volte sono passata sotto questa targa negli ultimi nove anni eppure ogni volta l’indicazione di casa circondariale mi ricorda che fra pochi minuti la contraddittoria realtà con cui mi confronterò mi porterà a incontrare persone appartenenti a tutti i circuiti detentivi previsti dall’ordinamento e non solo in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni come invece prescrivono le norme per questa tipologia di struttura. In ogni caso al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è richiesto di monitorarne la praticabilità da parte di tutte le persone presenti in carcere, anche di quelle che non dovrebbero essere recluse, appunto, in una casa circondariale. Ormai dopo quasi un decennio di attività so per certo che, in termini generali, il bilancio per ciascun detenuto è palesemente in passivo: se lo Stato ti condanna, a prescindere dal reato commesso, non solo perdi la possibilità di libero movimento, la ricchezza del tempo di vita, le relazioni significative; perdono anche di intensità i diritti di cui sei ancora detentore, uno per tutti, quello relativo alla salute e alla possibilità di cura. Quando le giornate si aprono, come oggi, con una lastra grigia di cemento al posto del cielo, i dubbi sull’utilità del mio ruolo e l’ipotesi di costituire una democratica ed elegante foglia di fico per un sistema per niente efficiente ed efficace, si fanno insistenti e verrebbe voglia di rimettersi in macchina e andarsene. Invece ogni volta il vecchio motto contadino “l’ottimo è nemico del buono” finisce per prevalere e così anche oggi mi avvicino allo sportello per essere accreditata all’ingresso. La carta d’identità scivola per pochi millimetri per essere raccolta dall’altra parte del vetro dalle dita di una giovane agente della polizia penitenziaria. Non ci mette molto a tornare indietro accompagnata da un pass numerato; dovrò esibire l’una e l’altro ogni volta che accederò a un nuovo padiglione. All’uscita sarà uno strazio separarli, dopo averli conservati in tasca per l’intera giornata, rischiando che l’identità finisca per confondersi nel numero e il numero nell’identità. Quello che succede quando la persona condannata o reclusa in attesa di una sentenza oltrepassa questo cancello: fino a poco tempo prima era una persona, poi diventa un reato, a seguire è la sua condanna con annesso il fine pena e infine dell’originaria identità rimane un involucro corporeo dalla dignità di numero, di oggetto. Recupero dalla feritoia documento e “pass 8” e poi pochi passi per raggiungere il bar interno e tentare di occupare un tavolino insieme ai componenti dell’ufficio Garante per programmare i colloqui della mattinata. Il colpo d’occhio di agenti, infermieri, educatori e avvocati da una parte del bancone e di detenuti-baristi dall’altra per un visitatore del carcere alle prime armi potrebbe sembrare rassicurante. Si sprecano i “buongiorno”, i “per cortesia”, i “prego, grazie”, si sorride, si chiacchiera, si sbircia il televisore per intercettare l’ultim’ora del telegiornale, si fa la raccolta differenziata. C’è ordine, almeno nell’organizzazione dei rifiuti. Consumato il caffè, mentre procediamo a dividerci cognomi, padiglioni, emergenze e verifiche da fare, abbandoniamo il civile brusio e ci mettiamo in coda per essere accreditati e ammessi all’area più interna della casa circondariale Lorusso e Cutugno. Quattro agenti: uno seduto e tre in piedi alle sue spalle. Questa volta carta d’identità e pass effettuano insieme il percorso di andata e ritorno e a questo punto possiamo avviarci all’area dei padiglioni per verificare lo stato dell’esigibilità dei diritti delle persone private della libertà che incontreremo. Ci vengono incontro due persone con borse ricolme di effetti personali, presumibilmente stanno per essere dimesse, un agente al di là della barriera li aspetta e tende loro un paio di cellulari, ciascuno in una busta di plastica trasparente, un gesto che sancisce simbolicamente la conclusione della detenzione. La vista della saletta in cui attendono le persone fermate in attesa delle procedure di presa in carico da parte del personale ci conferma che le dinamiche che generano il sovraffollamento sono costantemente operative: tre giovani uomini siedono con la schiena piegata, la fronte verso il pavimento, i capelli crespi e abbigliamento decisamente non firmato. Azzardo: non hanno la cittadinanza italiana. Mentre varchiamo il portoncino che immette alla struttura da cui si diramano i padiglioni il risultato è “Ingressi vs Dimissioni 3 a 2”. Poi parte la raffica di “Buongiorno”, offerti a tutti e da tutti ricevuti. Il galateo del carcere lo prevede, è come se con quel saluto insistito si volesse addolcire la dura esperienza della reclusione e dell’articolato lavoro che la rende possibile, come se quella garbata postura potesse allontanare la cruda realtà delle relazioni, la violenza del quotidiano sopravvivere, l’incommensurabile distanza fra detenuti e le altre persone. Raggiunto il padiglione in cui incontrerò i detenuti che hanno richiesto un colloquio tramite la “domandina”, aspetto che si liberi uno dei bugigattoli che sono destinati a questo tipo di attività. Mobilio di recupero, sedie improbabili che a volte sembrano sottratte a qualche scuola elementare, prevale il senso di squallore, ma non è ancora niente: fra poco, facendosi largo nel rumore di fondo composto dallo sbattere dei cancelli che si aprono e chiudono in continuazione, dalle urla che arrivano dai corridoi delle sezioni, dalle comunicazioni altrettanto urlate degli agenti, entreranno le vite di scarto, vicende marginali, genitorialità interrotte, dolori inferti e subiti, ignoranza e speranza. Entrano spesso con ciabatte di plastica ai piedi: sono piedi che a volte hanno superato migliaia di chilometri di terra e mare, piedi che non sono autorizzati a soggiornare, piedi a volte senza nome, piedi che non dovrebbero essere stanziali, piedi che, in quanto piedi, dovrebbero camminare e che invece paradossalmente la nostra società, respingendoli, trattiene. Raramente sono piedi da grave reato, solitamente poggiano sui gradini più bassi della scala della devianza, piedi buoni per il castigo della politica e dell’opinione pubblica a mezzo televisione. Sono piedi che, scuri o chiari che siano, entrano e ci chiedono di fare qualcosa, qualunque cosa pur di non passare le giornate nel tipico nulla del carcere. Chiedono lavoro, soprattutto per sé, per la propria dignità ma anche per provvedere a qualche impegno familiare esterno. Entrano zoppicando e a volte trafficando per entrare nello stanzino perché, ormai inutili, si spostano con la carrozzina. E sono braccia che sporgono da magliette di squadre di calcio oppure coperte, a nascondere l’aratura di tagli ripetuti della pelle che raramente fruttano attenzione e quasi mai un qualche cambio di destino. Li definiscono sbrigativamente come “gesti strumentali”, ma nei colloqui che svolgiamo aiutano a mettere a fuoco una frustrazione che trova quel linguaggio per esprimersi, per trovare una possibilità di ascolto. La pelle come campo identitario: negli spazi lasciati liberi da queste linee che demarcano l’area del dolore da quella della custodia si sviluppano i racconti tatuati della vita precedente e di quella futura. Lacrime, spade, nomi, frasi che legano e impegnano. È un racconto che sempre più spesso occupa luoghi, fino a qualche tempo fa inesplorati, come il viso. Entrano occhi gonfi di noia e di speranza, occhi che ne hanno viste di ogni tipo, insonni, occhi pieni dei gesti che li hanno condannati, occhi, sempre più spesso, vuoti anche se abitati da ingombranti fragilità mentali, occhi che sono lo specchio di un’anima - chissà se esiste - che la persona vorrebbe mettersi in pace, ma che in pace non ci sa stare. E, sotto gli occhi, le bocche, che si fanno più educate perché con noi non c’è bisogno di urlare per farsi ascoltare da un agente o da un compagno di sezione. Bocche “Lo dico, ma non ditelo”, “Con quella storia io non c’entro, mi hanno messo in mezzo”, bocche “Mi raccomando, solo voi mi potete aiutare”. Bocche “Io qua dentro ci muoio”. Bocche che a volte non capiamo. E nei colloqui vengono esibite epidermidi malate, non curate, ulcerate: in questo contesto mura e cura non hanno lo stesso peso. Infezioni che attendono i lunghi tempi della presa in carico della sanità carceraria, carie e ascessi che fanno il proprio quotidiano lavoro incuranti della tempistica delle visite odontoiatriche prenotate a distanza di semestri, accertamenti esami e interventi subordinati alla disponibilità di personale addetto alla scorta. Questo il rosario delle, chiamiamole, disfunzioni carcerarie che le persone ci riferiscono regolarmente e che noi, altrettanto regolarmente, riportiamo ai responsabili sanitari perché ne traggano le necessarie valutazioni. Il malessere emotivo ed esistenziale delle persone che incontriamo è sempre più palese, le bocche a volte rimangono senza parole e molti colloqui finiscono con la persona che boccheggia, scuote la testa e, non di rado, piange. Manca un senso, non c’è collegamento tra la norma che disciplina e regola gli obiettivi e le modalità della carcerazione e la vita che, faticosamente, si svolge nella struttura penitenziaria. Chiamare “percorso di reinserimento nella comunità” quella che ha tutta l’aria di essere esclusivamente una vendetta, fa girare la testa a me per prima, figurarsi alle persone che sono protagoniste di questa insultante ipocrisia. Ne ho ulteriore conferma all’uscita del padiglione “F”, dove ancora una volta ho incontrato quella eccentrica condizione di reclusione che vivono le donne ristrette, per le quali è davvero difficile spiegare tutte quelle “giornate amare” consumate in una subalternità di genere che le rende ultime fra gli ultimi. Questa nave dei folli naviga nel mare tempestoso dell’insensatezza carceraria spiegando le vele della distribuzione di farmaci, quelli che attenuano il vento e le folate della disperazione, quelli che impattano sulla psiche e, insieme alla massiccia assunzione di nicotina e all’ipnosi televisiva, aiutano a trascorrere il tempo recluso smussandone gli spigoli più acuti. Ultimamente questo sistema pare però essere entrato in una profonda crisi, a Torino come altrove: le vele farmacologiche e l’intero apparato non sembrano più capaci di tenere la già sgangherata rotta e la nave sembra senza controllo e gli episodi di conflitto, già frequenti in passato, si verificano quasi quotidianamente e non saranno gli imminenti “giri di vite” legislativi promossi dall’attuale governo a creare le condizioni per una nuova, serena navigazione. Gli incontri proseguono fra la denuncia di mancati colloqui con i familiari, di nottate passate in compagnia di scarafaggi, di cibo scadente, di mancati trasferimenti per avvicinarsi a figli che stanno crescendo lontani, di tentativi di suicidio di compagni di cella, dell’assenza di educatori mai incontrati, mentre nell’aria si spandono gli odori dei pasti che si vanno preparando in cella mischiati a quelli rilasciati dal carrello del vitto che entra nelle sezioni. Chi ha un fine pena prossimo e scarse prospettive per il periodo successivo alla dimissione ci chiede di indicargli una soluzione abitativa alla sua portata e l’indicazione di un’opportunità lavorativa, tutte richieste a cui non possiamo dare una risposta. La tutela dei diritti della persona privata della libertà non si estende anche alla dimensione della vita libera anche se lo stato delle cose ci convince che tale libertà non durerà a lungo e il rischio di recidiva per le persone è così alto che l’ipotesi di rientro in galera ha forti probabilità di realizzarsi. Questa è la galera di Torino, ma “galera” è anche un vecchio termine ancora in voga che deriva dalla “galea”, un’imbarcazione veneziana ai cui remi persone condannate scontavano i lavori forzati. Mentre lascio il padiglione e mi accingo ad espletare al contrario le procedure per l’accreditamento, mi fermo a respirare all’aria aperta, faccio un bilancio di ciò che ho vissuto nella giornata e mentre mi avvio sento nitido alle mie spalle il rumore dei remi mossi da quella incredibile umanità che si agita a bordo. Oggi, ogni tanto qualcuno si è alzato, ha poggiato i remi, ha lasciato il posto per incontrarmi per qualche minuto per poi tornare a vogare ben sapendo che la rotta è confusa e che a nessuno dei capitani importa davvero. Sono persone che ho guardato negli occhi, ascoltato e cercato di capire, che mi hanno affidato frammenti di vita, raccontato un pezzo della loro esperienza. Sono davanti allo sportello che mi ha accolto a inizio giornata, restituisco il pass e nell’introdurlo nella feritoia il tesserino si piega e il numero “8” diventa per un istante “?”, infinito. Infinito come il senso di frustrazione che sento nel girarmi un’ultima volta a guardare questa nave dei folli, che naviga, senza timone e senza timore, verso il naufragio. Suo e del mondo sedicente libero. *Monica Cristina Gallo è Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino. Luigi Colasuonno è membro dell’ufficio del Garante 2014-2024. I dieci anni di volontariato nel Carcere di Rebibbia CR con progetto di scrittura creativa di Suor Emma Zordan Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2024 Dieci anni fa sono entrata nel carcere di Rebibbia Reclusione in punta di piedi con il cuore che mi batteva, la mente confusa Tutti gli ospiti mi sembravano tristi, appassiti, in disparte. Fui presa allora da tanta tristezza, non avevo il coraggio di incrociare il loro sguardo. Mi sembrava di offenderli. Quei volti tristi, così mi sembravano, mi chiedevano solo di essere ascoltati, considerati, compresi. Ho cominciato ad avvicinarli con un ascolto attento e silenzioso, ho cercato di entrare nelle ferite di ciascuno, di comprendere il dolore per il peso degli anni da scontare, la tristezza per la lontananza della famiglia. Andando avanti nell’esperienza mi è diventato sempre più chiaro che quei racconti, confidenze, emozioni cariche di sofferenza, dovessero essere raccolti e custoditi in un libro. Ho sentito l’esigenza di andare in soccorso di queste persone, private di tutto, in primis della dignità, proponendo loro uno strumento che in qualche modo provasse a restituirgliela: la forza della scrittura, che abilita la persona a prendersi cura di sé, con un effetto terapeutico, e oserei dire anche salvifico È nato così il Laboratorio di scrittura creativa. Al momento sono stati realizzati otto libri: “Oltre i muri verso l’orizzonte”, “Ultimi siamo tutti”, “l’amore dentro”, “Paura della libertà”, Non siamo soli, “Non tutti sanno”, “Ristretti nell’indifferenza”, “Noi fuori” e in cantiere “Oltre il reato la persona”. Tengo a precisare che il mio primo obiettivo è stato quello di far uscire dal carcere le storie scritte da detenuti, aiutandoli a farle “evadere” dal luogo in cui sono nate per portare nel mondo la loro testimonianza. Quello che ho cercato di costruire in questi dieci anni è stato un collegamento tra il carcere e la società esterna, attraverso appunto la scrittura, favorendo legami attraverso le storie, e invitare la società civile a prendersi cura degli scritti, trasformandoli in percorsi educativi: attività per le scuole, parrocchie, istituzioni civili, rappresentazioni teatrali. Insieme alla testimonianza di detenuti che godono della semi libertà rappresentano un significativo “ponte” tra il dentro e il fuori le mura. Le tante presentazioni che abbiamo realizzato, come equipe, ci consentono di far conoscere la realtà del carcere, il pentimento, il dolore per la privazione della libertà e per la separazione dai propri cari, il senso di colpa per il dolore arrecato alle vittime e ai propri familiari, la ricchezza di umanità di chi ha sbagliato e ha deciso di cambiare vita. La speranza che li sostiene, la fede e l’amore della famiglia ma anche la paura del futuro a causa dei tanti pregiudizi che la cosiddetta società “civile” nutre nei confronti di chi ha commesso un reato. Sono tanti gli spunti di riflessione che vengono stimolati dall’incontro con il mondo delle carceri. Sono i poveri e gli ultimi da ascoltare, sono fratelli da accogliere ed amare. Questo ci chiede papa Francesco quando invita la Chiesa a mettersi “in uscita”. Accendere i riflettori sul mondo della detenzione vuol dire sensibilizzare ai temi dell’accoglienza, dell’inclusione, del reinserimento, del perdono, del disagio fisico e psichico. Significa ridurre e superare lo stigma secondo il quale chi commette un reato è impossibile che cambi. E che il buttare le chiavi della cella diventi una necessità e un pericolo da sventare. Esportare oltre le mura del carcere le esperienze acquisite costituisce sicuramente uno strumento di riflessione su importanti tematiche sociali che molto spesso vengono affrontate superficialmente solo attraverso notizie fuorvianti dei mezzi di comunicazione attuali. Il carcere non riguarda solo le persone che vi vivono o che vi lavorano, ma riguarda tutti perché riguarda le fragilità umane e le sue conseguenze. Ho riscontrato che chi entra in carcere cambia prospettiva e modo di vedere i detenuti, considerandoli persone e non più “matricole”. Entrare nel carcere è come entrare in un luogo, dove bisogna imparare a “togliersi i sandali”, perché è luogo sacro, perché luogo di sofferenza. Il carcere è il luogo di Dio, dove il mistero del bene e del male si confrontano e si chiamano. Devo confessare che è molto più quello che ho ricevuto io dai ristretti che quello che ho dato: ho imparato la resilienza, la solidarietà, la condivisione, il senso dell’umorismo, la partecipazione, l’accoglienza. Oggi il carcere è casa mia, il solo entrarvi mi dona gioia e tanta pace. Questo lo sanno tutti. Queste persone, con cui passo il mio miglior tempo, sono fratelli, amici e compagni di viaggio. Forse, noi volontari, non salviamo nessuno, ma cerchiamo di tener viva dentro le persone la fiammella della libertà. Un’operazione che non solo favorisce il benessere psicofisico dei detenuti, ma permette loro di favorirne l’inclusione, facendo conoscere ai lettori una realtà spesso invisibile, fatta di gravi ingiustizie e soprusi, ma anche costellata di esempi di solidarietà straordinari. Testimonianze Ho avuto il piacere di assistere varie volte alla presentazione dei libri “testimonianze dentro e fuori il carcere” da parte dei detenuti del CR Rebibbia, curati da Sr Emma Zordan, volontaria da dieci anni in questo Istituto penitenziario. Sono state queste occasioni a permettermi di conoscere in maniera approfondita le situazioni delle carceri in Italia, realtà che spesso rimane sconosciuta ai più. Ascoltare e leggere il mondo delle carceri mi ha fatto comprendere quanto superficiale e spesso carica di pregiudizi sia la conoscenza sul carcere e i suoi abitanti. Grazie alle testimonianze di tanti operatori del settore, mi sono resa conto che il carcere è un microcosmo, in cui è necessario intervenire per rendere la vita dei detenuti migliore e per consentire che questa esperienza, se pur negativa, possa trasformarsi in opportunità per una vita futura al di là di quelle mura. Credo sia necessario e doveroso che queste conoscenze vengano diffuse anche in ambienti laici, quali scuole e centri culturali, poiché ignorare la vita dei carcerati significa ignorare una parte della nostra società e consentire che gli errori che spesso vengono perpetrati nei confronti dei detenuti siano una macchia, simbolo di inciviltà, che si allarga sempre di più. Cristiana Zarra Non è facile portare a conoscenza dell’opinione pubblica la realtà carceraria in una società indifferente e piena di pregiudizi nei confronti dei detenuti. Tuttavia, Sr. Emma, con la sua caparbietà e costanza da oltre dieci anni, porta avanti il progetto di scrittura creativa presso il carcere di Rebibbia che si traduce nella realizzazione di scritti da parte degli stessi detenuti su diversi temi che si trovano ad affrontare nella loro condizione di reclusi. Queste” testimonianze dirette” vengono raccolte e curate da Sr. Emma che ogni anno pubblica un libro i cui Autori, gli stessi detenuti, raccontano le loro storie. Ho partecipato a numerose presentazioni di questi libri ed ho constatato che la maggior parte delle persone non è a conoscenza di questo mondo “nascosto”, ma, dalla richiesta dei libri da parte di quasi tutti gli intervenuti, devo dire che questi incontri raggiungono il loro obiettivo di far conoscere la condizione carceraria dalla voce degli stessi reclusi e dalle testimonianze dei diversi relatori addetti ai lavori invitati. Anche in me questi eventi hanno creato una sensibilità verso la realtà carceraria che prima, francamente, mi era indifferente. Infatti, una per tutti, le notizie dei suicidi in carcere, purtroppo sempre in aumento, oggi mi sconvolgono in quanto, consapevole della condizione in cui vivono queste persone, penso che nella loro vita sia da liberi sia da reclusi siano state doppiamente sfortunati. Certo la missione di Sr. Emma è una goccia nell’oceano, come diceva Madre Teresa, ma è pur sempre una goccia che ha i suoi effetti in chi ha la fortuna di incontrarla. Silverio Di Monaco Scuola Edile: così le aziende formano i detenuti di Valentina Iorio L’Economia - Corriere della Sera, 7 ottobre 2024 Un’opportunità anche per le imprese che troveranno la manodopera qualificata e certificata che il mercato non riesce ad offrire. Il 33% dei detenuti in Italia è coinvolto in attività lavorative, ma nella maggioranza dei casi è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Solo l’1% è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. Incrementare le opportunità di formazione e lavoro tra le persone detenute e favorirne il reinserimento sociale è innanzitutto un dovere costituzionale. L’articolo 27 della Costituzione, infatti, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma lavoro e formazione sono anche due strumenti che aiutano ad abbattere il tasso di recidiva. E proprio per dare ai detenuti una seconda possibilità, insegnando loro un mestiere, è nato il laboratorio della “Scuola edile”, inaugurato all’interno dell’Istituto carcerario milanese di Opera a maggio. Il percorso di formazione è strutturato in due parti: il 16 settembre è partito il corso sulla sicurezza da sedici ore e il 1° ottobre quello da manovale di ottanta ore. L’obiettivo è sviluppare un’attività formativa costante partendo dalla figura del manovale, ma non escludendo di poter nel tempo innescare meccanismi di valorizzazione delle diverse competenze già presenti tra i carcerati interessati a lavorare nel settore delle costruzioni. Le modalità di inserimento lavorativo verranno definite di volta in volta sulla base delle opportunità che si presentano e a seconda delle esigenze delle aziende e delle possibilità dei singoli detenuti, nell’ambito dei programmi di trattamento predisposti dalla Direzione dell’Istituto Penitenziario. Questo progetto nasce da un protocollo firmato un anno fa dall’Amministrazione penitenziaria di Opera, Assimpredil Ance, Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil, Esem-Cpt, Umana spa e Fondazione Don Gino Rigoldi. Le attività di formazione si svolgono all’interno di un laboratorio di 170 metri quadrati, stabile e appositamente attrezzato, che viene gestito da Esem-Cpt, che ha ristrutturato l’edificio dove si trova il laboratorio e lo ha dotato dei materiali e attrezzature necessarie per il corso base di manovale. “Lo spazio - spiega Luca Cazzaniga, presidente di Esem-Cpt - ricrea esattamente un’area di cantiere. Un’area deputata alla formazione di professionalità specializzate da offrire in risposta alla domanda di lavoro del settore edile”. A ogni percorso formativo potranno partecipare fino a 15 persone. “È un’incredibile opportunità sia per i detenuti, che potranno mettere a disposizione le proprie competenze e ricevere una giusta retribuzione, sia per le imprese che potranno trovare quella manodopera qualificata e certificata che il mercato non riesce ad offrire. Ma aggiungerei anche il vantaggio per l’intera comunità che troverà quelle competenze necessarie a produrre reddito e benessere, sia in termini di aumento del Pil che in termini di abbattimento della recidiva”, ha sottolineato Silvio Di Gregorio, direttore dell’Amministrazione penitenziaria di Opera, in occasione dell’inaugurazione del laboratorio. “L’esperienza che abbiamo fatto per l’inserimento delle prime q persone nelle nostre imprese ci ha insegnato, infatti, che non è sufficiente occuparsi del solo lato organizzativo del lavoro, bisogna occuparsi anche dell’uomo e delle sue fragilità e difficoltà”, aggiunge Regina De Albertis, presidente di Assimpredil Ance. Feneal Uil, Filca Cisl e Fillea Cgil evidenziano l’importanza di garantire il reinserimento sociale attraverso “il lavoro dignitoso, sicuro e regolare”. Creare lavoro “fuori e dentro il carcere, non solo è un fattore di civiltà, ma è utile a tutti, anche in termini di costo sociale”, aggiunge Maria Raffaella Caprioglio, presidente di Umana. Per don Gino Rigoldi questo progetto “assicura che, appena concluso il corso, l’accesso al lavoro potrà avvenire immediatamente”, rendendo più semplice l’applicazione dell’articolo 21 per il lavoro esterno. Quel blitz sui giudici della Consulta che mina il pluralismo di Donatella Stasio La Stampa, 7 ottobre 2024 Lo sblocco, improvviso e unilaterale, dell’elezione del quindicesimo giudice della Corte costituzionale conferma, se ce ne fosse bisogno, un tratto identitario del governo Meloni, quello di un potere autoritario, insofferente al pluralismo e ai diritti delle minoranze e, quindi, anche a chi quei diritti è chiamato a tutelare. Come la Corte costituzionale. Che la premier ha deciso di conquistare, forte di una maggioranza “qualificata” ottenuta grazie ai cambi di casacca di alcuni parlamentari. Appropriarsi della Corte significa appropriarsi delle nostre libertà, dei nostri diritti civili e sociali, messi a dura prova in questi due anni di governo. Significa farne ciò che si vuole, senza avere la spada di Damocle di una censura successiva. Significa eliminare ogni argine al proprio potere “assoluto”. Ed è quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, in un clima politico e mediatico di indifferenza che, forse, è ancora più preoccupante del tentativo delle destre di appropriazione indebita della Corte. Lo aveva detto a gennaio: sarebbe stata lei “a dare le carte” nella partita sull’elezione parlamentare dei giudici costituzionali, uno già scaduto a novembre 2023 e altri tre in scadenza a dicembre 2024. Detto, fatto: dopo aver tenuto la Corte zoppa per quasi un anno, ora Giorgia Meloni decide di incassare la sua prima vittoria, senza neanche giocare la partita con l’opposizione, come farebbe chi ha ben chiari i suoi doveri istituzionali rispetto a un organo di garanzia come la Consulta. Un fedele interprete di quei doveri avrebbe cercato subito un candidato che, al di là dell’orientamento culturale, fosse “meritevole, per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell’ufficio così rilevante”, per dirla con le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e sul quale far convergere anche i voti dell’opposizione. Ma la premier non ci pensa proprio a far sedere al tavolo Schlein e compagni. Il trasformismo politico dei parlamentari le ha regalato i 363 voti necessari ad eleggersi da sola i giudici costituzionali, ovvero la maggioranza “qualificata” dei 3/5 di deputati e senatori: un quorum alto - persino più alto di quello richiesto per eleggere il Capo dello Stato - stabilito proprio per garantire la più ampia convergenza politica, in considerazione della funzione “contromaggioritaria” delle Corti costituzionali, nate, dopo l’esperienza tragica del nazifascismo, come limite al potere assoluto e come garanzia del pluralismo e delle minoranze. Ma tant’è. Forse anche in vista dell’udienza del 12 novembre in cui la Corte deciderà i ricorsi regionali contro l’Autonomia differenziata, Meloni ha “ordinato” ai gruppi di maggioranza di presentarsi puntuali martedì prossimo alla Camera per votare il “suo” giudice, il primo dei quattro da sostituire, che sarà il “suo” consigliere giuridico, il costituzionalista Francesco Saverio Marini, figlio di Annibale, già giudice ed ex presidente della Corte nel 2005, designato sempre dalla destra. Un governo che si sceglie da solo i componenti degli organi di garanzia, sulla base di una maggioranza numerica non uscita dalle urne ma dal cambio di casacca politica di alcuni parlamentari, è assolutamente fuori dalle dinamiche di una democrazia costituzionale. Il che rende concreto il rischio di avere alla Corte non dei giudici ma dei “soldatini” con un preciso mandato politico. Un po’ come i giudici della Corte suprema americana voluti da Trump all’epoca della sua presidenza, che il New York Times non chiama più Justice ma Mister, perché quello che era il baluardo della rule of law è diventato il baluardo di una linea politica. Bisogna impedire che avvenga la stessa cosa con la nostra Corte. Secondo Massimo Cacciari, stiamo facendo l’abitudine alla guerra e questo rende più difficile la difesa dei principi dello stato di diritto. Le guerre stanno rafforzando unilateralmente i governi, silenziando i Parlamenti e aprendo la strada a regimi autoritari in nome della sicurezza. Anche da noi. Pensiamo al Ddl del governo Meloni, impregnato di cultura del “nemico”, che in nome della sicurezza criminalizza anche il dissenso. E pensiamo al divieto di manifestare in piazza. Inquietante, ha scritto ieri Vladimiro Zagrebelsky, ricordando che manifestare il dissenso è “un’esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non esiste società democratica”. Eppure, siamo a questo. La Corte costituzionale è, per sua natura, un argine contro questa lenta erosione dei diritti e della democrazia ma i cittadini non lo sanno, altrimenti riempirebbero le piazze, come hanno fatto in altri Paesi, e il governo non tenterebbe di appropriarsene o di fare ostruzionismo alle sue sentenze (vedi il fine vita). Purtroppo, là dove le piazze non si sono riempite, le democrazie si sono svuotate. Perciò, come dice Cacciari, non accontentiamoci di sopravvivere. Consulta, FdI tenta il blitz con Marini, mentre la Sinistra va verso l’Aventino di Emilio Pucci Il Messaggero, 7 ottobre 2024 Domani la conta in aula per eleggere il membro mancante: il candidato è Marini. Casini: “Sbagliato non presentarsi al voto, ma il centrodestra apra al dialogo”. Vigilia tesa per l’elezione in Parlamento del giudice costituzionale: l’appuntamento è per domani alle 12.30, con la convocazione dei deputati e senatori in seduta comune. Si tratta dell’ottavo tentativo, finora le altre prove sono tutte fallite. Ma questa volta il centrodestra non si limiterà a votare scheda bianca, l’accelerazione per cercare di sostituire Silvana Sciarra, cessata dal mandato a novembre dello scorso anno, con Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della presidenza del Consiglio, è stata decisa la scorsa settimana. E ha creato un cortocircuito con l’opposizione che grida al “colpo di mano” e anche un caso all’interno di Fdi per la fuga di notizie sul blitz, tanto che il ministro della Difesa e uno dei cofondatori del partito, Guido Crosetto, ha manifestato l’intenzione di presentare un esposto alla magistratura per “violazione del segreto di corrispondenza”, a seguito della circolazione del contenuto della chat interna proprio sulla vicenda della Consulta. Ma a parlare in Aula saranno i numeri, a rischio per la maggioranza che deve fare i conti con un’operazione non certo facile. Nel centrodestra si parla di abboccamenti soprattutto con i Cinque stelle, della possibilità di mettere sul piatto la direzione del Tg3, di colloqui riservati con esponenti degli altri partiti dell’opposizione. Sulla carta oltre ai 355 parlamentari che possono esprimere Fdi, FI, Lega e Noi moderati ci sono gli esponenti del gruppo misto e delle minoranze linguistiche che potrebbero venire in soccorso, magari al pari di qualche centrista. L’asticella è fissata a 363 sì, ma nei calcoli occorre considerare assenti di lungo corso, malati, malpancisti e le fibrillazioni interne alla coalizione che sostiene l’esecutivo. Nelle prime votazioni servivano i due terzi, ora sono necessari i tre quinti per raggiungere il traguardo della fumata bianca (vietate pure le missioni all’estero), senza attendere la fine dell’anno, quando anche l’attuale presidente della Corte, Augusto Barbera, e i giudici Franco Modugno e Giulio Prosperetti termineranno il loro mandato. Lo schema prevedeva tre giudici al centrodestra, uno alla minoranza. Qualora il centrodestra dovesse dimostrare di essere autosufficiente potrebbe provare a fare filotto ma c’è anche chi ritiene che una simile prova di forza, anche agli occhi del Quirinale, possa trasformarsi in un autogol. Le reazioni da parte dell’opposizione sono veementi: “La Corte Costituzionale non è cosa della maggioranza”, dice il dem Dario Parrini. “Meloni vuole fermare i referendum, cittadinanza e autonomia in primis”, osserva il segretario di +Europa, Riccardo Magi. “No ad assalti alla diligenza”, sottolinea Luana Zanella di Avs. “Invito la premier a fermarsi e a dialogare perché, in assenza di confronto, non parteciperemo alle votazioni”, gli fa eco Angelo Bonelli. Sono in corso contatti tra i partiti dell’opposizione per optare per l’Aventino e costringere chi avrebbe deciso di fare da sponda al centrodestra di uscire allo scoperto. Ma non partecipare ai lavori rappresenterebbe - ragionano in diversi - un segnale non positivo alla chiamata del Capo dello Stato Sergio Mattarella che considera un vulnus la mancata elezione del giudice della Corte costituzionale. Ecco perché Pier Ferdinando Casini invita i parlamentari a non disertare l’Aula. “Votare è istituzionalmente doveroso e io lo farò”, dice l’ex presidente della Camera. Che allo stesso tempo invia un messaggio alla maggioranza: “La scelta di procedere con una forzatura su questo terreno - rimarca - è sbagliata e dannosa. Un accordo ampio non è un segnale di debolezza né un rigurgito del tanto deprecato consociativismo, ma solo ed esclusivamente un segno di rispetto reciproco e di comprensione del ruolo terzo che la Corte è chiamata ad esercitare”. Affermazioni che per ora non hanno fatto breccia. È stata proprio il presidente del Consiglio ad invocare una stretta sui tempi, nella convinzione che il nome di Marini sia di alto profilo e che tutta la coalizione sia compatta. C’è ovviamente da considerare che nei prossimi mesi dalla Consulta arriveranno decisioni importanti. “Tiriamo dritto”, ha fatto sapere Meloni. “C’è la possibilità e la volontà di arrivarci finalmente dopo tanto tempo e credo che questa sia una buona notizia anche per il Parlamento”, ha detto ieri il ministro Luca Ciriani. Greco: “Separazione delle carriere cruciale per il giusto processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 ottobre 2024 Il presidente Cnf: “Sosterremo la battaglia”. Romanelli (Ucpi): “Stop a nuovi reati”. La riforma costituzionale sulla separazione delle carriere è “una battaglia portata avanti da anni dalle Camere penali e oggi rappresenta un tema cruciale per garantire il giusto processo nell’intero sistema giudiziario italiano in cui si decide il destino delle persone”: così ieri il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, nel suo intervento di saluto al congresso straordinario dell’Unione delle Camere penali italiane, in corso a Reggio Calabria, dal titolo “Separare e riformare - La forza delle nostre idee per una giustizia nuova”. Si è parlato e si parlerà di magistratura e Costituzione, del tramonto delle impugnazioni, di doppio binario e presunzione di colpevolezza, delle riforme in cantiere. Insomma, tutti temi di attualità della giustizia sui cui è intervenuto anche il vertice dell’avvocatura istituzionale: “Il Cnf - ha detto Greco - continuerà a sostenere questa battaglia sulla separazione delle carriere. È un percorso difficile ed è probabile che si giunga al referendum costituzionale. Sarà fondamentale spiegare ai cittadini la rilevanza della riforma per raggiungere il risultato di avere un processo giusto”. Nel suo intervento, Greco ha fatto riferimento anche a una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea dello scorso 26 settembre, in cui si afferma che il giudice nazionale può disapplicare le norme costituzionali se contrarie al diritto europeo. “Se si arriva a mettere in discussione - ha spiegato il presidente del Cnf - persino la necessità di disapplicare le norme costituzionali laddove in contrasto con i principi dell’Unione europea, forse è arrivato veramente il momento in cui occorre coinvolgere i cittadini e convincerli della necessità di questa riforma”. Greco ha inoltre voluto sottolineare che la separazione delle carriere è una realtà consolidata in molte democrazie avanzate europee: “In paesi come Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Regno Unito, Svizzera, la separazione dei poteri non ha generato crisi giurisdizionali. È una riflessione che la nostra magistratura dovrebbe fare”, ha aggiunto Greco. Infine, il presidente del Cnf ha affrontato la questione del numero dei magistrati: “Non è corretto dire che i magistrati in Italia siano in numero sufficiente. Le statistiche del Cepej, la commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa, mostrano che il nostro Paese ha il più basso numero di giudici professionali tra i 46 stati europei”. E sulla gestione delle risorse economiche nel sistema giudiziario ha concluso: “Non è vero che manchino risorse. Sono comunque più alte di quello che viene stanziato nel resto d’Europa. Il problema è che vengono sprecate nella cattiva organizzazione”. Tra gli interventi anche quello del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, che, criticando tutto l’impianto del ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, ha voluto porre però maggiormente l’accento sull’Alta Corte di Giustizia: “Mi appellerei ad una sentenza importantissima della Corte costituzionale degli anni 80 per ricordare a tutti che il sistema disciplinare per i magistrati non è, né può essere, solo un momento punitivo. La punizione e la censura dei comportamenti deontologicamente scorretti non può essere separata dall’amministrazione della giurisdizione, in quanto occorre conoscerne gli uffici per evitare gli eccessi punitivi. La ratio di prevedere dentro al Csm la funzione disciplinare è proprio quella di non farne un istituto della repressione. È quindi sbagliata l’idea di sottrarre il disciplinare al governo autonomo della magistratura”. In pratica, per il leader delle toghe, “lo scopo della riforma altro non è che quello di ridimensionare profondamente il potere giudiziario”. Ha preso la parola in collegamento anche il vice presidente del Csm, Fabio Pinelli: “Se non si vuole dunque che il dibattito sull’ordinamento e sulla cosiddetta “separazione delle carriere” si riduca ad uno sterile antagonismo, quasi di bandiera, e se davvero si vuole mettere al centro la questione del “servizio” reso ai cittadini da un lato e la tutela dei diritti individuali dall’altro, occorre allora una riflessione più a monte su cosa debba essere il pubblico ministero nel processo moderno e su cosa sia lecito attendersi da lui nell’attuale contesto”. Vi è stata poi la relazione del segretario dell’Ucpi, Rinaldo Romanelli, che tra i vari temi si è soffermato molto sul ddl sicurezza: “In questo contesto politico-culturale siamo chiamati a confrontarci con la ricorrente creazione di nuove fattispecie di reato, con l’ennesimo “pacchetto sicurezza”, attualmente in attesa di trattazione al Senato, con la gravissima crisi in cui sprofonda il sistema carcerario e con le costanti spinte verso normalizzazione del processo penale. Nuove ipotesi di reato, introdotte di al fuori di ogni razionalità e ogni serio approfondimento sul piano criminologico e della dottrina penale, solo al fine di lucrare consenso, rispondendo ad un bisogno di sicurezza generato maliziosamente dalla stessa politica, incapace di dare risposte concrete ai problemi reali che affliggono il Paese”. Eppure, “il nostro tasso di omicidi ogni 100 mila abitanti è pari allo 0,6; quello tedesco è del 50% più alto, mentre è esattamente doppio quello del Regno Unito e quasi triplo quello francese. Una ricerca del 2019, elaborata sulla base dei dati Censis e del ministero dell’Interno, ci informa però che il tema “criminalità” compare nei nostri telegiornali il doppio rispetto a quelli francesi o tedeschi. Percezione e realtà, rispetto al tema della sicurezza, vivono una significativa divaricazione”. Ddl Zanettin, il pm Menditto: “Con la nuova legge non intercetteremo più sequestri e violenze” di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2024 “La legge Zanettin, se approvata, complicherà le indagini sui reati che più impattano sulle persone comuni: maltrattamenti, usura, violenza sessuale, sequestri di persona. E sarà sempre più difficile individuare i responsabili”. Francesco Menditto è procuratore di Tivoli, popolosissimo distretto in provincia di Roma dove è molto alta la percentuale di reati legati alla criminalità comune. Mercoledì in Senato inizia la discussione sul ddl proposto dal senatore Pierantonio Zanettin di Forza Italia che vuole limitare a 45 giorni - prorogabili solo di fronte a “elementi specifici e concreti” - le intercettazioni per tutti i reati che non sono legati alla criminalità organizzata. Una gigantesca tagliola al lavoro delle procure. Procuratore Menditto, quali sono le indagini che questa legge andrà a colpire? Penso ai reati di violenza sessuale e ai maltrattamenti, dove in questi anni si sono fatti molti passi avanti dal punto di vista normativo ma che le limitazioni alle intercettazioni rischiano in parte di vanificare. E poi casi che vediamo tutti i giorni, come il sequestro di persona, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, anche per ingenti quantità. C’è l’usura, reato gravissimo del quale sono vittime tantissime persone in difficoltà economica. E poi ancora le bancarotte, gravi reati finanziari e tributari per cui sarà più difficile sequestrare e confiscare i profitti illeciti, e l’estorsione collegata alle truffe agli anziani, che è una piaga. Vorrei citare le indagini per omicidio, fattispecie che non vedo esclusa dal disegno di legge. Insomma, diventa sempre più complesso tutelare le persone offese e la collettività. Di solito, nella vostra procura, quanto tempo devono durare le intercettazioni affinché si possa costruire un quadro probatorio completo? Solitamente per questo tipo di reati servono almeno tre mesi. Ma questa non è una media, è un termine minimo. Ci sono poi reati più complessi, come i reati economici per i quali spesso servono anche otto o nove mesi. È molto tempo, è vero, ma posso assicurare che noi magistrati abbiamo tutto l’interesse a chiudere le intercettazioni il prima possibile, anche perché poi possiamo sbloccare risorse e personale su altre indagini. Non bisogna dimenticare che le plurime riforme introdotte hanno reso molto più complesse le intercettazioni. I relatori potranno opporre l’argomentazione che, di fronte a elementi sostanziali o particolari esigenze, sono previste proroghe... Certo, ma si continua a introdurre “complessità” nel processo penale. Mi spiego. Ogni motivazione del giudice sulla necessità di superare i 45 giorni, richiesta con estrema specificazione, può essere “contestata” nel corso del processo, fino alla sentenza di secondo grado, così aprendo varchi a dichiarazioni di inutilizzabilità delle intercettazioni oggi non previste. Insomma ostacoli su ostacoli. Secondo lei c’era la necessità di intervenire sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche? Le riforme da questo punto di vista vanno avanti dal 2017 e sono stati introdotti numerosi limiti e modifiche creando incertezze applicative e rischi di declaratorie di inutilizzabilità. Intervenire diventa sempre più complesso. Lodi. Detenuto morto in carcere per un’emorragia. “Cause naturali, esclusa la violenza” di Mario Borra Il Giorno, 7 ottobre 2024 Il sindacato Sappe fa propria l’ipotesi che esclude un intervento esterno nel decesso di un 31enne brasiliano arrivato da poco dal carcere di Busto Arsizio. Sarà l’autopsia a definire le precise cause del decesso del trentunenne di nazionalità brasiliana avvenuto tra le mura del carcere di via Cagnola venerdì sera. Ieri però intanto è stato comunque escluso che la morte sia sopravvenuta per cause esterne come un’aggressione. Anche dal Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe) è arrivata una smentita circa la possibilità che il detenuto sia morto per circostanze diverse da un’emorragia interna determinata da cause naturali. “È assolutamente escluso che la morte del detenuto sia sopraggiunta per cause diverse da una problematica di natura fisica”, taglia corto Donato Capece, segretario generale della sigla sindacale. Il trentunenne era arrivato da pochi giorni alla casa circondariale di Lodi, esattamente dal 3 ottobre, dal carcere di Busto Arsizio “per motivi di ordine e sicurezza”, come ha sottolineato il rappresentante sindacale. A diffondere la notizia della morte del recluso attraverso un post sui social era stato Andrea Ferrari, segretario provinciale Pd nonché volontario all’interno dell’istituto di pena, che era venuto a conoscenza della tragedia sabato mattina in via Cagnola dov’era impegnato nella redazione del giornalino del carcere. Solo alcuni giorni prima, seppur lodando le molteplici attività di aggregazione messe in atto dalla Direzione della casa circondariale, la consigliera regionale Roberta Vallacchi, in visita alla struttura, aveva denunciato il sovraffollamento delle celle, ribadendo che attualmente il carcere ospita oltre ottanta detenuti quando ne potrebbe contenere solo quaranta. Il 60 per cento è costituito da tossicodipendenti, molti dei quali potrebbero accedere alla pena alternativa nelle comunità terapeutiche per consentirne la cura in un luogo idoneo e per alleggerire le carceri che scoppiano. Ma la lista d’attesa è lunga per carenza di posti. Genova. Detenuto denuncia: “Pestato dagli agenti di Polizia penitenziaria” di Francesco Li Noce genovatoday.it, 7 ottobre 2024 Ad assistere sarebbe stato anche il suo avvocato. Presentati due esposti in Procura, uno dal Garante dei detenuti della Regione. Un venticinquenne ha denunciato di essere stato brutalmente pestato da alcuni agenti di polizia penitenziaria all’interno del carcere di Marassi, dove è detenuto. Pestaggio che sarebbe avvenuto davanti agli occhi del suo avvocato, che ha presentato un esposto in procura. I fatti risalgono allo scorso 3 ottobre, giorno in cui l’avvocato era atteso in carcere per un colloquio con il suo assistito che si trova a Marassi dallo scorso agosto per reati di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Il giovane, italiano, di origini tunisine, è residente in Lombardia. Dal 2022, anno del suo arresto, è stato continuamente trasferito prima dal carcere di Milano ad altri penitenziari lombardi, poi a Cuneo, a Torino, e infine a Genova. I fatti - La mattina di giovedì 3 ottobre l’avvocato Sonia Bova del Foro di Lecco si reca nel carcere di Marassi a trovare il venticinquenne suo assistito che, come da prassi viene fatto entrare nella sala avvocati in attesa del colloquio con il legale. Cinque o sei agenti sarebbero entrati nella stanza in cui si trovava il detenuto. Una volta dentro uno degli agenti avrebbe colpito al volto con uno schiaffo il venticinquenne facendogli cadere gli occhiali. Il giovane avrebbe reagito e a quel punto anche gli altri agenti si sarebbero scagliati su di lui, pestandolo con calci e pugni per alcuni minuti, non fermandosi nonostante le urla disperate della vittima e del suo avvocato. Le ferite - L’avvocato ha avvertito la famiglia del detenuto, che più volte ha chiesto di conoscere le sue condizioni di salute. Per giorni l’unica novità in merito è arrivata dalla madre di un compagno di cella. La donna poche ore prima aveva parlato con il figlio che l’avrebbe pregata di avvisare la famiglia del venticinquenne sul suo stato di salute in seguito a un pestaggio. Dopo oltre 48 ore dalla presunta aggressione, il giovane è riuscito a contattare la famiglia. Avrebbe il labbro e alcune costole rotte. Attualmente si troverebbe in isolamento. Gli esposti - Sono stati presentati due esposti alla procura della Repubblica di Genova. Uno dalla famiglia del venticinquenne, tramite l’avvocato Sonia Bova, testimone oculare di quanto accaduto, l’altro dal garante dei detenuti di Regione Liguria Doriano Saracino, che sabato si è recato a Marassi a trovare il detenuto, sincerandosi delle sue condizioni di salute. Per quanto riguarda il secondo esposto è bene chiarire che si tratta di un atto dovuto. Il garante, se viene avvisato di un presunto pestaggio avvenuto all’interno di un istituto penitenziario è costretto a intervenire chiedendo formalmente spiegazioni su quanto sia effettivamente successo. Da quanto risulta a Genova Today, sulla vicenda sono stati avviati accertamenti interni al penitenziario. Ivrea (To). L’appello delle Associazioni: “Fare di più per la dignità dei detenuti” primailcanavese.it, 7 ottobre 2024 L’appello delle Associazioni, della Caritas Diocesi di Ivrea e delle Officine del Terzo Settore: “Le carceri sono troppo piene di persone, ma soprattutto sono troppo vuote di attività”. Le Associazioni Volontari Penitenziari “Tino Beiletti”, Fraternità di Lessolo, Santa Croce onlus, Culturale Rosse Torri, la Caritas Diocesi di Ivrea e le Officine del Terzo Settore hanno sottoscritto una lettera-appello a tutti i sindaci del Canavese sulla situazione delle carceri, con particolare riferimento a quello di Ivrea. L’incontro è previsto domani, lunedì 7 ottobre, dalle 15:00 alle 18:00, presso il Polo Formativo Officina H - Facoltà Infermieristica di Ivrea. “Il 18 marzo il presidente della nostra Repubblica, fondata sul lavoro, ha lanciato un appello a intervenire per rendere il nostro sistema penale rispettoso della dignità delle persone recluse, coerente con le leggi e con la nostra Costituzione e, aspetto non secondario e conseguente, capace di concorrere alla edificazione di una comunità più sicura nel rispetto delle leggi e della convivenza. Un appello ripetuto spesso in questi mesi, un appello che non ha trovato, secondo noi una adeguata accoglienza e risposta da parte del Governo e del Parlamento. Noi siamo testimoni del progressivo degrado del sistema penale del nostro Paese, e delle pesantissime condizioni di vita, e anche di lavoro, delle persone recluse o che vi lavorano. Noi siamo testimoni e sentiamo la responsabilità di partecipare alla azione educativa, ma sentiamo anche il dovere di dire forte che oggi tale azione è quasi impossibile”. Il carcere di Ivrea - “Le carceri sono troppo piene di persone ma soprattutto sono troppo vuote di attività, e di proposte che generino speranze, producano cambiamento e, quindi, sicurezza. Nel carcere di Ivrea operano 2 (due) educatrici per più di 250 persone detenute! Poche altre figure sono dedite ad attività educative: mai così poche in passato! Mancano anche figure amministrative: la tipografia che, dagli anni ‘80, lavora all’interno non lavora per clienti esterni perché non c’è personale sufficiente per emettere le fatture per i servizi prestati! Spesso attività culturali, educative, ricreative che le nostre associazioni di volontari propongono, anche con la partecipazione di persone e gruppi del territorio, non sono realizzate perché manca personale. Da anni la maggiore biblioteca è chiusa ed è sospeso il fruttuoso rapporto che esisteva con la Biblioteca Comunale per accesso ai libri e quale occasione di volontariato: succede a Ivrea capitale italiana del libro 2022!” L’appello - “Per questo ci rivolgiamo a Voi che siete una importante rappresentanza delle nostre Comunità che hanno nella propria storia e nella propria cultura, forte la considerazione per il lavoro e la formazione e la crescita della persona come indispensabili ingredienti di comunità coese e sicure. La condanna all’ozio a cui sono sottoposte le persone detenute contiene questo chiaro e distruttivo messaggio: “non pensiamo possiate avere un ruolo positivo nella comunità! Non ci fidiamo di voi! Da voi non ci aspettiamo niente di buono!” Questo è un messaggio sbagliato e dannoso che genera disperazioni e inimicizia. Buona parte della nostra azione di volontari in carcere è rivolta, invece, a proporre un ruolo positivo, utile a sé e alla comunità. Possiamo farlo assieme? Ve lo chiediamo convinti che ciò sia utile per tutta la comunità. Già in passato diversi Comuni hanno organizzato attività di volontariato, cantieri di lavoro e lavori socialmente utili per l’impiego di persone detenute nel carcere di Ivrea, ammesse alla attività esterna. Oggi ci risultano essere attuati dai Comuni di Borgiallo, Chiesanuova, Ivrea e Vidracco. Possiamo fare di più?”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Al via corsi di Agraria per 18 detenuti di Biagio Salvati Il Mattino, 7 ottobre 2024 Il programma didattico include anche laboratori e discipline specifiche come tecnologie agrarie e chimiche. Oggi inizieranno ufficialmente le lezioni in presenza dell’indirizzo Agrario nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, grazie all’istituto di istruzione superiore Foscolo di Teano. Questo nuovo percorso, Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurali, rappresenta un’importante aggiunta ai corsi già attivi, come le classi di Enogastronomia e Sala avviate negli scorsi anni. La cerimonia di apertura sarà presieduta dal dirigente scolastico Paolo Mesolella, insieme al capitano Massimo Bencivenga e al colonnello dell’Opm Nicola Chirico, per accogliere i 18 studenti che parteciperanno al nuovo corso. Il programma didattico include, oltre alle materie tradizionali, anche laboratori e discipline specifiche come tecnologie agrarie e chimiche, fisica e scienze agrarie. Un percorso che si sviluppa su tre periodi didattici: biennio iniziale, biennio avanzato e quinto anno, al termine del quale gli studenti otterranno il diploma, che aprirà le porte a diverse opportunità, come l’iscrizione all’albo degli Agrotecnici, la possibilità di lavorare nei settori agroalimentare e agroambientale o di proseguire gli studi universitari. Il preside Mesolella ha sottolineato come l’iniziativa non solo rappresenti un valore educativo, ma assuma anche un importante significato sociale. Catanzaro. Viaggio al termine della pena: perché il carcere è una fabbrica di suicidi di Raffaele Nisticò catanzaroinforma.it, 7 ottobre 2024 Il report di Francesco Iacopino sul fallimento della funzione rieducativa della pena in occasione della mostra fotografica “Soglie” allo Spazio Paparazzo. Perché si applaude a un funerale? Ormai è un’abitudine, con qualche sparuta, lodevole eccezione. Eppure il momento, il luogo, la circostanza, tutto insomma imporrebbe tutt’altro, perché l’appaluso è figlio del plauso, del consenso su ciò che accade, si osserva, si ascolta. Lo stesso interrogativo, che non sarà angoscioso ma indubbiamente curioso e degno di un qualche ragionamento interiore, si può dire dell’applauso a un pronunciamento gravoso che arriva a colpire nel profondo la coscienza dell’ascoltatore. Come ieri sera, subito dopo che Francesco Iacopino, ospite di Francesco Mazza allo “Spazio Coriolano Paparazzo”, verso la fine del suo lungo appassionato report sull’inferno nelle carceri, aveva rivelato come la maggior parte dei suicidi in cella avvengano in prossimità della fine del periodo di detenzione. Togliendo di mezzo ogni residua convinzione sulla funzione rieducativa della pena, anzi delle pene perché tali le riferisce e le riconosce la Costituzione, e conferendo il sigillo del fallimento alle limitate possibilità di reinserimento sociale del condannato. È sempre il caso di riportare le due frasi dell’articolo 27 che si tende a considerare ininfluenti, inutili orpelli consolatori rispetto alla cruda realtà fattuale: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Certamente l’ha dimenticato, più probabilmente, semplicemente, non lo sa, l’operaio dell’episodio raccontato da Iacopino per introdurre l’argomento. Francesco Iacopino è il presidente della Camera penale “Antonio Cantàfora” di Catanzaro, la Camera penale essendo l’associazione degli avvocati penalisti. La Camera di Catanzaro, nell’ambito delle numerose iniziative volte a sensibilizzare sul tema, a maggio ha organizzato la Maratona oratoria a staffetta “Fermare i suicidi in carcere” coinvolgendo decine di esponenti delle professioni e delle associazioni che si sono alternati al microfono. In Piazza Matteotti, davanti al Palazzo di giustizia, dove erano in svolgimento dei lavori di manutenzione. “Ah, quelli… Devono tutti morire in carcere e buttare via le chiavi”: questa la risposta dell’operaio una volta richiesto da Iacopino di volere sospendere la parte più rumorosa del lavoro. L’operaio “giustizialista” è l’esponente di una larghissima parte dell’opinione pubblica che la pensa così, a ciò portata dalla narrazione univoca e preponderante, frutto della spettacolarizzazione della giustizia e del circuito mediatico corrispondente. E, certo, l’operaio probabilmente non sa, e con lui larga parte delle persone, quali sono le condizioni in cui vivono i quasi 67mila detenuti nelle carceri italiane, quelle condizioni che nel 2013 portarono l’Italia a essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante, frutto in gran parte del sovraffollamento ma non solo. Dall’inizio del 2024 i suicidi sono più di 70, compresi anche sei agenti penitenziari, e si va avvicinando il numero record del 2022, quando si tolsero la vita 84 persone. È il sistema carceri che non regge più: “si è ridotto il carcere - ha sostenuto Iacopino - a una discarica sociale, il centro di raccolta delle periferie esistenziali del nostro tempo: 7mila malati psichiatrici, 20mila tossicodipendenti, quasi 20mila extracomunitari, altrettanti sono i poveri del nostro tempo, i disperati della storia” con “il diritto penale diventato il surrogato della politica sociale, il cui fallimento è sostituito dalla leva penale”. Le condizioni sono alienanti: quasi l’80 per cento dei detenuti assume psicofarmaci, si trascorrono in cela ventidue ore su ventiquattro, Il sistema non regge neanche dl punto di vista utilitaristico: “un detenuto costa allo Stato 150 euro: quanta politica sociale si potrebbe fare con queste somme” chiede il presidente dei penalisti catanzaresi - quante persone si potrebbero togliere dall’emarginazione sociale da cui proviene la maggior parte dei detenuti prima che finiscano in carcere. Istituzione che diventa a sua volta una vera e propria fabbrica criminogena, come dimostrato dalla prova contraria del successo delle prove di reinserimento lavorativo nel periodo ultimo della pena a seguito delle quali il pericolo di recidiva è quasi azzerato”. Di fronte allo sfacelo, non è ampliando l’ipotesi di reato e aumentando le pene che si risolve il problema della sicurezza, non è neppure costruendo nuove carceri, sperando sempre che non si arrivi a valutare la possibilità di “esportare” i detenuti, come il governo ha deciso per i migranti irregolari nei Cpr - “lager del nostro tempo”, li definisce Iacopino - che, nella scala dell’esclusione, sono oggi al primo posto, reclusi fino a 18 mesi eseguendo una misura che non necessita neppure dell’avallo di un giudice togato. Francesco Iacopino si è trovato a parlare allo Spazio Coriolano Paparazzo in occasione della mostra “Soglie”, esposizione delle fotografie di Paolo Ranzani, ritrattista basato a Torino che non ha potuto partecipare all’inaugurazione impedito da un fastidioso malanno. Ha però mandato un breve video, spiegando che la mostra, e il volume di immagini e testo intitolato “Soglia”, è il frutto del lavoro svolto al carcere di Saluzzo in occasione di un fortunato laboratorio teatrale tenuto al suo interno nel 2004. La soglia è uno dei tanti confini che talvolta è necessario superare per essere proiettati in una dimensione nuova, piacevole o negativa che sia. Ranzani ha seguito per tre mesi le prove del laboratorio nel quale una decina di detenuti hanno portato in scena versi e testi di autori contemporanei (Jean Genet tra gli altri). Qui Ranzani ha scoperto che in carcere non ci sta soltanto chi ha sbagliato, ma “chi ha sbagliato e non ha i soldi per uscire”. Gli ultimi, i poveracci, quelli che non hanno avuto alta possibilità. Un giovane detenuto gli ha raccontato: “Mio fratello drogato, mio padre in carcere, mia madre prostituta… non è che potevo diventare notaio”. Era indirizzato, Ranzani, al bianco e nero. Poi ha pensato che la soluzione avrebbe aggiunto drammaticità a una realtà che di dramma ne ha già in sovrappiù. Ha pertanto scelto il colore, in verità un colore che non è proprio colore, ma sua proiezione acida e fortemente desaturata, espressione quasi monocromatica della vita che voleva rappresentare. Hanno contribuito alla serata le letture di Aldo Conforto e Anna Maria Corea di alcune pagine tratte dal “Memoriale del carcere” di Saverio Montalto, scrittore calabrese da riscoprire che, nella sua tribolata vita trascorse anche cinque anni nel manicomio criminale di Aversa. La mostra “Soglie” allo Spazio Coriolano Paparazzo sul Corso Mazzini di Catanzaro, ingresso gratuito, prosegue l’opera di esplorazione dell’”Umano” tentata da Francesco Mazza e proposta con nuova lena con un programma di eventi multigenere che si può seguire sulla pagina Facebook francesco.mazza.944. Ferrara. La realtà del carcere, dentro e fuori di Martina Anna Fricchione e Giulia Malaguti* bookblog.salonelibro.it, 7 ottobre 2024 Nella suggestiva atmosfera del cortile del Castello Estense, sulle note della chitarra del cantautore italiano Vasco Brondi, la seconda giornata del Festival di Internazionale volge al termine con l’intervento della scrittrice Daria Bignardi, che presenta la sua ultima pubblicazione “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori, 2024). L’autrice, che dal 1998 frequenta l’ambiente carcerario, pone all’attenzione del pubblico la propria esperienza personale, veicolata tramite sia la lettura di alcuni passi significativi della storia sia il racconto delle origini del romanzo, in cui per la prima volta la vita all’interno delle carceri italiane viene affrontata dal punto di vista di un osservatore esterno. Ma come osservare da fuori ciò che tutti odiano, o al massimo amano solo se riguarda altri? Attraverso un esercizio di empatia che si può praticare solo in una condizione di isolamento, come quella in cui è avvenuta la stesura del romanzo sulla remota isola siciliana di Linosa. Solo in questo modo Bignardi ha potuto immedesimarsi nei carcerati, i cui giorni, ammassati nelle celle ma relegati dal resto del mondo, trascorrono lenti in una dimensione di lontananza tanto fisica quanto spirituale. Questo sicuramente causa la difficoltà dei detenuti nel riconoscersi in un mondo che pare essere andato avanti, lasciando tutti loro isolati in un micromondo che, seppure incastonato nella variegata compagine della società, ne resta di fatto escluso. Quindi, con questo romanzo, l’autrice si propone l’obiettivo di superare le immagini tristi e cupe che esprimono tale isolamento nella solita narrazione della realtà carceraria. Una realtà non diversa da quella al di là delle sbarre, malgrado gli stessi carcerati non ne abbiamo contezza. E questo provoca una continua ed inestinguibile sete di realtà. Dentro e fuori. *Liceo L. Ariosto - Ferrara Prato. L’esempio di “Made in Jail”. Così dal carcere si rinasce di Anna Beltrame La Nazione, 7 ottobre 2024 Si è svolta con successo, al Cinema Terminale, la proiezione del docufilm “Made in Jail” nell’ambito del Festival dell’energia circolare. All’interno del Festival dell’energia circolare a Prato e organizzato dall’associazione Recuperiamoci, si è svolta con successo, al Terminale Cinema, la proiezione del docufilm “Made in Jail”. Il presidente dell’associazione, Paolo Massenzi, da 15 anni si occupa di attività di recupero sociale nelle carceri e nelle realtà più disagiate e ha sposato quindi con favore il progetto che, da Rebibbia, aiuta le persone detenute ed ex detenute a reinserirsi nel tessuto sociale, culturale e lavorativo grazie a corsi di serigrafia tenuti da Silvio Palermo, vero mattatore dell’opera prodotta e scritta da Matteo Morittu, Flavio Crinelli e Gianluca Calabria, presenti alla serata. Il film racconta questo modello di formazione portato avanti con successo da 35 anni, in un contesto difficile ma estremamente sfidante. Per saperne di più: https://numidio.com/madeinjail/il-progetto. Made in Jail nasce nel 1983 dentro le mura del carcere romano di Rebibbia da un gruppo di detenuti che, durante il loro soggiorno all’interno del carcere, decidono di esprimere arte attraverso la serigrafia e la stampa di magliette, con scritte, immagini e disegni. Tutto questo è portato avanti con tanta passione e con tanto impegno. L’obiettivo è quello “di reinserirsi nella società e nel mondo, una volta scontata la pena” dicono gli organizzatori. Cosenza. “Carcere, Costituzione e Territorio”, convegno a Morano Calabro ildispaccio.it, 7 ottobre 2024 Venerdì 11 ottobre, alle ore 18.00, presso la Sala Consiliare sita al primo piano del Chiostro “San Bernardino”, il suggestivo borgo del Pollino ospita un importante convegno dal titolo “Carcere, Costituzione e Territorio”. L’iniziativa, promossa dall’Amministrazione Donadio, in specie dalla Presidenza del Consiglio Comunale, intende approfondire il complesso rapporto tra il sistema penitenziario italiano, i princìpi fondamentali della nostra magna carta e le dinamiche sociali che si sviluppano nei territori. Un’iniziativa di alto profilo, per un tema che richiede grande sensibilità nell’approccio e specifiche competenze giuridiche, politiche e accademiche. Ciò anche alla luce dei recenti interventi normativi e delle varie proposte che animano il dibattito nelle istituzioni. Un’occasione, dunque, di confronto e riflessione sulle sfide che lo Stato, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, è chiamato ad affrontare per sostenere la cultura della legalità e del rispetto dei diritti umani. Si parlerà di problematiche cruciali quali il ruolo e l’impatto del carcere nella società contemporanea, della tutela dei diritti dei detenuti in virtù delle leggi in vigore, le prospettive future per una giustizia che sia equa e rapida. Si misureranno con questi argomenti: il dott. Mario Donadio, sindaco di Morano, l’avv. Francesca Rosito, presidente del Consiglio Comunale di Morano, il dott. Giancarlo Lamensa, vicepresidente della Provincia di Cosenza, il sen. Fausto Orsomarso, componente della Commissione Finanze e Tesoro, il dott. Luigi Bloise, funzionario Giuridico-Pedagogico, l’avv. Maurizio Feraudo, cultore di Diritto Costituzionale UNISA, il dott. Giuseppe Carrà, direttore della Casa Circondariale di Castrovillari, l’on. Sabrina Mannarino, consigliere regionale - avvocato penalista, il sen. Ernesto Rapani, componente della Commissione Giustizia. Pistoia. Mauro Pescio: “Non è la storia di un eroe quella di Lorenzo S.” di Stefano Di Cecio reportpistoia.com, 7 ottobre 2024 Sant’Agostino alle nove di sera è deserta, poche macchine in giro, la “zona industriale” della città si è fermata ed attende il lunedì per ripartire. Quasi in fondo all’area però ieri sera c’erano luci accese, persone giovani e meno giovani che hanno affrontato all’aperto, con coraggio, i primi freddi della stagione. C’era movimento a “La Segheria” degli Omini, una piccola ma al tempo stesso grande luce accesa nel mare magnum del teatro che quest’anno festeggia sei anni di attività. Come loro consuetudine hanno spesso ospiti e ieri sera c’era Mauro Pescio, attore e autore dal 2013 per Radio24, Radio2, Radio3, Audible, Chora e Raiplaysound. Autore anche dei podcast “La piena”, “Genova per tutti”, “La cattura” e “Io ero il milanese”. Quest’ultima opera era l’oggetto della serata nelle forme e nei tempi del teatro. Lo spettacolo è il racconto di un uomo, Lorenzo S., che nella vita ha fatto tante scelte sbagliate, un uomo con cui la sfortuna si è accanita, un uomo che ha toccato il fondo, ma che da quel fondo si è rialzato. Dimostrando così che non devono mai venire meno la fiducia e la speranza e, soprattutto, l’importanza di offrire sempre un’altra possibilità. Il carcere e i suoi annessi e connessi con la società è un argomento di estrema attualità, abbiamo parlato con Pescio partendo dalla sua esperienza lavorativa, passando per il racconto di Lorenzo e altro. Da quando svolgi la tua attività di attore? Le prime cose le ho fatte a 17-18 anni, adesso ne ho quasi 50. Dopo le scuole superiori mi sono formato a Milano alla scuola Paolo Grassi. Dal 98 attore e dal 2013 ho cominciato a lavorare come autore per il teatro e principalmente per la radio. La scelta di dedicarti a storie come quella di Lorenzo è stata casuale o voluta? Mi ritengo una persona abbastanza impegnata, ma non mi piace presentarmi “troppo impegnato”, ma come uno che fa tante cose differenti. Quando ho avuto la possibilità, soprattutto grazie alla radio, ho fatto molti incontri. Mi piace essere trasversale nelle cose e, in mezzo quelle più o meno leggere, ho inserito anche temi come quello del carcere, della detenzione eccetera. Quando poi ho trovato questa storia ho pensato che fosse molto importante socialmente ma anche una storia molto bella per chiunque. È una storia molto complessa, tra l’altro anche molto attuale, considerando le situazioni delle carceri in Italia, cioè della possibilità, anzi della necessità di trovare forme alternative alla detenzione... Sono d’accordissimo su quello che dici, oggi ci sono 61 mila detenuti circa, quelli con pene definitive sopra i 5 anni sono meno di 10 mila, se tutti gli altri potessero accedere a delle pene alternative le carceri si svuoterebbero in un attimo. C’è un disegno politico che non vuole svuotarle. Come ti sei imbattuto in questa storia? Perché conoscevo, per altri lavori precedenti, la redazione di “Ristretti Orizzonti”. Ero già in contatto con Ornella Favero, direttrice di questa rivista che si fa nel carcere di Padova in via Due palazzi. È stata Ornella a chiamarmi al telefono il giorno in cui Lorenzo è uscito per sempre dal carcere. Mentre lui usciva dal portone lei era fuori ad aspettarlo e ha chiamato me. È un mistero perché abbia chiamato me, è una cosa istintiva, glielo ho chiesto mille volte. Ornella Favero è una donna un po’ più grande di me di età, che ha un ufficio stampa, ha lavorato nell’editoria, conosce tantissima gente, ha una agenda di persone sicuramente anche molto più competenti di me. Ha chiamato comunque me per un suo istinto, e mi ha detto “vieni ne vale la pena” io non ci ho pensato due volte e sono andato. Da lì è nato lo spettacolo che fa riflettere molto… Questa storia l’ho portata tantissimo in carcere, è un progetto che è un podcast, un libro ed uno spettacolo. Il podcast di “Io ero il milanese” ha raggiunto veramente milioni di persone (in onda su Rai Play Sound ndr), questa storia ha avuto un passaparola clamoroso, ha generato veramente molto interesse, se ne è parlato anche al Parlamento Europeo. Nel giro di pochi mesi è diventata una cosa molto importante sia per il tema, sia per come è stata trattato. La presentazione del libro e soprattutto lo spettacolo, li ho portati dentro le carceri girando l’Italia. Praticamente sono stato in almeno una quindicina di carceri differenti ed è stata un’esperienza che non lascia indifferenti, per quanto poi ci si abitua anche a quello. Quali progetti hai per il futuro? Da una parte voglio staccarmi, non voglio diventare il profeta del carcere con il megafono, non voglio perché non è il mio ruolo. Anche come creatore di contenuto penso che replicare un’altra storia non sia altrettanto efficace. Per cui ho altri progetti di podcast, sto scrivendo un libro, sto facendo altre cose con temi diversi. Sicuramente però il mondo del carcere, il mondo detentivo e la sensibilità che vi ho trovato, è qualcosa su cui tornerò a lavorare magari fra un anno o due. Bologna. Dai monasteri alle carceri: le forme della reclusione magazine.unibo.it, 7 ottobre 2024 All’Alma Mater un convegno e una mostra fotografica di Franco Zecchin sul tema della reclusione, ospitati dal Complesso di San Giovanni in Monte, convento e carcere nel corso della sua storia. La reclusione: un tema complesso e attualissimo. Lo affronteranno due iniziative promosse dal DiSCi - Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna presso il Complesso di San Giovanni in Monte, convento e carcere nei secoli passati. Prendendo le mosse dalla storia della sede ospitante, il convegno Le forme della reclusione: monasteri e carceri, che si terrà giovedì 10 e venerdì 11 ottobre, metterà in relazione le spazialità delle istituzioni totali monastiche e di quelle carcerarie. Nella cornice dell’evento sarà inaugurata, giovedì alle ore 12, la mostra fotografica Abitare il silenzio/ Inabiting silence (visitabile fino al 10 novembre): il chiostro e gli scaloni dell’edificio saranno ridisegnati dalle fotografie, in gran parte inedite, di Franco Zecchin. Il complesso cinquecentesco oggi sede del DiSCi, che la leggenda riconduce alle fondazioni del vescovo Petronio, nasce come convento fondato forse già nel secolo X secolo. È stato più volte ricostruito ad opera dei padri Lateranensi fino ad assumere l’attuale configurazione nel 1543, per mano dell’architetto bolognese Antonio Morandi detto il Terribilia. Adibito a tribunale e carcere durante l’occupazione francese, mantiene quest’ultima funzione sino alla sua acquisizione da parte dell’Alma Mater, che con il progetto Acropoli (1990-1996) lo riqualifica e lo rifunzionalizza. Il convegno, organizzato dalle professoresse Laura Pasquini, Francesca Sbardella e Giuseppina Viscardi nell’ambito delle iniziative del centro studi Eidola - Materiality, Cognition and History of Religions, si propone di indagare i percorsi di semantizzazione degli spazi in un’ottica di chiusura e di regolamentazione. Il focus sarà sul tema del “vivere dentro”, con particolare attenzione ai percorsi di costruzione di senso nell’ambito di esperienze spaziali totalitarie, visive e sensoriali. Sia la scelta di vita volontaria sia la reclusione involontaria forzata sollevano infatti questioni legate alla costruzione degli spazi, della norma e dell’obbedienza. La mostra fotografica Abitare il silenzio/ Inabiting silence animerà il complesso con immagini che descrivono quotidianità nascoste e private della vita claustrale carmelitana, offrendo una concreta risemantizzazione degli spazi. Le fotografie avvicineranno lo spettatore alle credenze e alle pratiche monastiche, fatte di gesti, abitudini e oggetti. All’interno di un monastero, l’organizzazione dello spazio si conforma alla devozione e, nel contempo, la costruisce e la orienta. L’essenzialità degli arredi, la natura monocromatica degli ambienti e l’assenza di oggetti personali contrastano con l’abbondanza di rappresentazioni religiosamente connotate: elementi di un contesto circoscritto e autoreferenziale che forgia i corpi delle religiose. La mostra - curata da Laura Pasquini, Francesca Sbardella e dallo stesso Zecchin e frutto di una lunga indagine illustrativa in collaborazione con la professoressa Sbardella, storica delle religioni e antropologa - restituirà alle mura antiche del Complesso di San Giovanni in Monte la percezione dei silenzi immaginati della spiritualità e della regolamentazione, condividendo con chi le frequenta oggi la vitalità di una memoria rappresentata che non è chiusura ma libertà simbolica. Franco Zecchin si è dedicato nel corso di tutta la sua carriera di fotografo a esplorare il rapporto tra territorio e pratiche sociali. Le sue foto fanno parte delle collezioni dell’International Museum of Photography di Rochester, del MOMA di New York e della Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Cremona. Il (primo) caffè letterario, laboratorio di inclusione ?con la coop “Fratelli Tutti” di Paola D’Amico Corriere della Sera, 7 ottobre 2024 Apre in centro storico, nell’ex locanda Torriani, lo gestirà la coop sociale “Fratelli Tutti” di don Roberto Musa, cappellano del carcere, che ha già aperto la panetteria “Dolce e Salato”. Il team composto da ragazzi con disabilità formati ad hoc. Nati alla fine del 1600 in Francia, i caffè letterari erano luoghi di incontro per intellettuali, artisti e scrittori, che si davano appuntamento per scambiarsi opinioni, esperienze e informazioni su tutto ciò che potesse avere un interesse a livello culturale. A partire da Parigi, cominciarono a sorgere caffetterie analoghe anche nel resto dell’Europa e in America. Dalla Francia e dall’Inghilterra, ben presto il caffè letterario raggiunse anche Venezia, per poi diffondersi in tutta la penisola. Le “coffee house” accoglievano poeti, intellettuali e uomini d’affari; in Italia, Casanova e D’annunzio furono tra gli ospiti più celebri dei caffè letterari. Ebbene tra meno di una settimana, lunedì 14 ottobre, anche a Cremona, la città del torrone, aprirà in caffè letterario. Nella ex Locanda Torriani - Nasce nella ex Locanda Torriani e a gestirlo sarà la cooperativa sociale Fratelli Tutti, presieduta da don Roberto Musa, cappellano del carcere “Ca’ del ferro”, già da tempo attiva nel campo dell’offerta di lavoro a persone fragili, come testimonia il successo della panetteria “Dolce e Salato” di via Robolotti, in cui ragazzi con fragilità e detenuti nel loro percorso di giustizia ripartiva realizzano prodotti da forno. L’apertura è pensata innanzitutto per garantire a queste persone, molte delle quali in grado di operare in piena autonomia, un’opportunità di inclusione lavorativa e sociale; gli avventori avranno invece la possibilità di gustare prodotti tipici di qualità, di usufruire delle iniziative organizzate da CrArT (Cremona Arte e Turismo) e di approfondire la propria conoscenza della storia e delle tradizioni cittadine attraverso la lettura dei volumi in esposizione. Il pubblico verrà dunque accolto da una squadra composta da ragazzi con disabilità professionalmente formati. Un progetto volto a promuovere l’aggregazione, sotto il segno del buon cibo, della cultura e della conoscenza della città. Banco Alimentare, “colletta” in crisi: 60% di cibo in meno da distribuire alle persone in difficoltà di Mattia Aimola Corriere della Sera, 7 ottobre 2024 Il presidente Collarino: “Colpa di intoppi burocratici. Se va avanti così, la situazione non può che peggiorare. Faccio appello a tutte le forze sociali e politiche perché ci diano una mano per superare questo periodo difficile”. Un intoppo burocratico sta mettendo in ginocchio il Banco Alimentare, l’associazione che da oltre 30 anni distribuisce cibo alle persone in difficoltà in tutta Italia. È Salvatore Collarino, presidente della sezione piemontese, a denunciare una situazione sempre più drammatica, dovuta in particolare ai ritardi di approvvigionamento dei prodotti Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura), finanziata dal Fead (Fondo di aiuti europei agli indigenti), che sono scesi dalle 3.820 tonnellate dei primi 8 mesi del 2023 alle 1.492 tonnellate dello stesso periodo del 2024, un calo del 60%. Di mezzo ci sono i ritardi dei bandi Agea per la consegna delle derrate alimentari. “A giugno - spiega Collarino - avevamo denunciato il drammatico calo delle entrate di derrate alimentari nei magazzini nei primi 4 mesi del 2024 rispetto al 2023: da 2.592 a 1.370 tonnellate, meno 47,1%. Se guardiamo i dati ad agosto, la situazione purtroppo è stabile: gli approvvigionamenti sono passati dalle 6.766 tonnellate del 2023 alle 4.179 tonnellate di quest’anno, con una diminuzione del 38%. Non possiamo parlare di miglioramento, perché per mantenere un livello minimo di distribuzione alle persone indigenti, nel frattempo abbiamo svuotato il nostro magazzino”. Il Banco Alimentare, negli ultimi due anni, ha aiutato circa 110 mila persone in Piemonte e ha distribuito 9 tonnellate di cibo, più della metà arrivato proprio da AGEA. Con i numeri attuali, invece, c’è il rischio di andare ampiamente sotto le soglie degli anni precedenti. Questo spiega la gravità della situazione. “A pagare il conto di questi ritardi - continua Salvatore Collarino - che prescindono dalla nostra volontà e non sono risolvibili a livello locale, sono le persone in difficoltà, che stanno ricevendo buste della spesa molto più leggere. Continuiamo a distribuire poco più di 3 chili di alimenti per persona al mese, la metà rispetto ai 6 chili del 2023, solo perché stiamo dando fondo ai nostri magazzini e abbiamo attivato tutti i canali di approvvigionamento alternativi. Ma, se va avanti così, la situazione non può che peggiorare. Ci aspetta un triste Natale”. Sono i numeri a fotografare un quadro veramente drammatico. Nei primi 8 mesi del 2024, in rapporto allo stesso periodo del 2023, la distribuzione totale da magazzino è diminuita del 32,9%, scendendo da 4.115 a 2.761 tonnellate. I dati della distribuzione sono in netto calo, ma meno drammatici rispetto a quelli delle entrate in magazzino proprio perché vengono utilizzate tutte le scorte disponibili. “Faccio appello a tutte le forze sociali e politiche - conclude Collarino - perché ci diano una mano per affrontare e superare questo periodo difficilissimo. Mai come quest’anno, la Colletta Alimentare, in programma sabato 16 novembre, sarà fondamentale per riempire i nostri magazzini e per sensibilizzare la cittadinanza rispetto alla povertà dilagante”. Facciamo funzionare l’immigrazione di Gaia Vince* La Stampa, 7 ottobre 2024 Lo Stato è un’invenzione. È uno strumento burocratico di governo per un territorio arbitrariamente definito; un artificio reso convincente attraverso una narrazione emotiva. Sebbene molti paesi dispongano di una storia della propria fondazione simbolica “al tempo dei tempi”, in realtà la stragrande maggioranza di essi esiste come entità indipendente solo da pochi decenni. Noi, i cittadini, siamo il risultato di millenni di migrazioni di cacciatori-raccoglitori ancestrali, pastori, agricoltori, mercanti, studenti, imprenditori; di colonizzatori e colonizzati; di genti che hanno invaso e che sono fuggite, che hanno fatto crociate, esplorato, peregrinato, organizzato tratte degli schiavi; di persone sradicate in seguito a guerre o partite per lavoro, per amore o in cerca di fortuna. L’intricata interconnessione della famiglia umana, la nostra somiglianza genetica, indica che in termini di biologia non esistono razze differenti. Ciascuno di noi può vantare ascendenze da tutto il mondo. Tuttavia, la nostra politica è ossessionata dalle distinzioni basate sull’identità nazionale. Molte delle argomentazioni contro l’immigrazione si basano sull’idea che esista un’identità nazionale autentica, pura - il vero italiano -, da cui deriva che alcune persone sarebbero “a casa propria” e altre no. L’etnonazionalismo è particolarmente evidente nei partiti di estrema destra, anche se per rendere il messaggio più accettabile l’”identità razziale” è stata sostituita con l’”identità culturale”. Tuttavia, il cordone che ci lega a una particolare terra - la nostra identità nazionale - non è innato; si basa su migrazioni recenti o antiche o sulla fortuita presenza della madre in un certo luogo al momento della nascita. Le nazioni si costruiscono legando assieme persone disparate e senza rapporti in una sorta di parentela, inventando storie in grado di ispirare un senso di comunità. Tali storie cambiano e si adattano per sostenere questa impressionante prova di cooperazione. Un ruolo importante è svolto dai leader, che sfruttano simili narrazioni per sostenere continuamente il progetto nazionale. È opportuno ricordarsene quando si considera il consenso, poco fondato dal punto di vista storico, che i partiti politici hanno formato intorno all’immigrazione, secondo cui si tratterebbe di un problema da contenere. Con gli indici di natalità in caduta verticale e le economie stagnanti in tutta l’Ue, gli economisti concordano ampiamente sul fatto che una maggiore immigrazione sarà essenziale per mantenere gli attuali standard di vita. Senza la forza lavoro degli immigrati, settori come la sanità, l’edilizia, l’ingegneria, l’agricoltura, l’ospitalità e la logistica finiranno per collassare. Gran parte della transizione ecologica, ad esempio, dipende da settori industriali già alle prese con una carenza di manodopera. L’invecchiamento progressivo della popolazione italiana sta portando a un crescente squilibrio del mercato del lavoro e a un conseguente aumento del carico fiscale, una tendenza destinata a sfociare in una crisi. Con l’indice di natalità più basso d’Europa, entro il 2030 due milioni di persone andranno in pensione senza che un numero corrispondente di nuovi lavoratori possa pagare le loro pensioni. Parallelamente, tuttavia, è chiaro che la migrazione, in particolare dal Sud verso il Nord del mondo, è inevitabile e tenderà ad aumentare man mano che la crisi climatica e la povertà spingeranno le persone ad abbandonare luoghi divenuti invivibili. Un onesto pragmatismo ci impone di gestire questo passaggio a beneficio di tutti, anziché negarlo o fingere di poterlo arrestare. *Ricercatrice onoraria all’University College London, è stata ospite al Pianeta Terra Festival chiusosi ieri a Lucca Non c’è più solo la rabbia, l’odio e il vuoto sfidano la democrazia di Mario Giro* Il Domani, 7 ottobre 2024 Secondo Giovanni Orsina, acuto osservatore di ciò che accade a destra dello schieramento politico, sia in Italia che in Europa, la politica della rabbia - trasformata in ondata di protesta populista - sta scemando, al netto di ciò che accade nell’ex Germania dell’Est. Le emozioni sono volubili e non si può costruire su di esse nulla di duraturo, pena l’evaporazione politica. Stanchezza, rassegnazione e riflusso emotivo, secondo Orsina, segnerebbero l’odierno tempo della cultura politica in Italia e in Europa. Unica eccezione: un’eventuale vittoria di Donald Trump potrebbe sconvolgere il quadro attuale. In effetti di rabbia si discute da tempo come di un volano cruciale: i forgotten, i dimenticati e gli esclusi (in genere di ceto medio) della politica tecnocratica portata avanti dagli ultra-liberisti alleati a sinistre intimidite e prive di impulso sociale si sono ribellati e la loro collera è stata intercettata da movimenti di destra, populisti o sovranisti a seconda del carattere nazionale in cui il fenomeno si è svolto. Ma ora - secondo Orsina - è giunto il tempo del realismo e del pragmatismo che spinge a tornare a più miti consigli e corrisponde alla sfida di Giorgia Meloni. Al di là delle vicende nazionali, si può aggiungere qualcosa a tali ragionamenti. Osserviamo che la forza della rabbia può trasformarsi in qualcosa di molto peggiore: l’odio e il vuoto. Non possiamo non considerare tale pericolo, particolarmente reale a causa delle due grandi guerre in atto: il conflitto in Ucraina e la guerra a Gaza, e ora in Libano. Come ingranaggi perversi le due guerre (come tutte le guerre) riescono a produrre più odio di quanto si possa immaginare. Tale odio rimane, si solidifica e sfigura l’architettura spiritale e umana di intere generazioni, trasformandole in peggio per un tempo molto lungo. Dal momento che tali conflitti sono ancora (un po’) lontani, li “sentiamo” poco ma, come un veleno silenzioso, intossicano la nostra cultura e l’aria che respiriamo, in altre parole il nostro vivere civile. Nessuno sfugge al lento avvelenamento della cultura - sia alta che popolare - e del convivere sociale: cambiano i progetti di vita, i gusti, le priorità, e prospettive. Muta anche il modo di ragionare: si è più rassegnati e schiacciati sul presente, meno preparati a riflettere sul futuro in genere percepito come minaccia e irto di pericoli. All’inizio del 1933, quando Hitler era appena andato al potere, lo scrittore Heinrich Mann pubblicò un libro preveggente intitolato L’odio, in cui raccontava come l’odio e il bellicismo si stavano impadronendo della Germania. È una lezione utile ancora oggi. Scriveva Mann: “Nella mente delle persone civilizzate la guerra (…) è un’ossessione di cui non possono liberarsi nemmeno per sfinimento… quanto minore rispetto nutrono verso di sé, tanto più intenso è l’odio per gli altri: “non possiamo combattere, vogliamo almeno odiare!” (…) l’odio nazionale è il più vuoto, il più incomprensibile di tutti i sentimenti”. Sappiamo com’è andata a finire. Questo clima di odio e guerra fa male soprattutto ai giovani che si trovano in un contesto in cui il futuro scompare, cancellato dalle minacce mentre dovrebbe essere il loro orizzonte naturale. I nostri giovani sono male amati perché portatori di esigenze non più ammesse, in specie proprio quella del futuro. Ma la generazione più adulta non ha risposte o ne ha solo di autoritarie. La “morte del futuro” è una delle caratteristiche della nostra società: come Marc Augé, ci chiediamo “che fine ha fatto il futuro?”. Sulle nostre società occidentali si è abbattuto un presentismo immobile e soffocante, che annulla l’orizzonte storico e i punti di riferimento consueti. Ciò che rimane è una vita da consumare, come scrive Monsignor Vincenzo Paglia nella sua ultima fatica Destinati alla vita: affannarsi ad appagare le emozioni mentre il futuro evapora in una cultura anestetizzata e anestetizzante. Già questo vuoto ci deve preoccupare: la stagione della rabbia si affloscia in un restringimento dell’io personale alla ricerca di confort, solo, isolato per scelta, che non vuole essere disturbato. Si comprende la reazione: se il mondo è così minaccioso, perché affrontarlo? Meglio non arrischiarsi ad accogliere o a sfidarlo: più comodo e rassicurante rintanarsi. È la strategia assunta con il Covid: chiusi in casa, cercando di uscire il meno possibile, ricevendo ciò di cui si ha bisogno al massimo sull’uscio, piazzati davanti ai monitor (sia per le serie tv che per le videocall), lontani dall’incontro reale. Ci si può abituare a tale strategia dell’isolamento dove la politica appare come uno strumento lontano, valido per altri. L’astensionismo elettorale nasce anche da qui. Così dalla collera si passa al vuoto sonnambulismo. Ma per altri versi l’odio può invece restare attivo, con le guerre ad alimentarne le assurde ragioni. Dominique Moisi ne descrive la micidiale evoluzione nel suo Il trionfo delle emozioni: alla paura, speranza e umiliazione che hanno definito il vecchio ordine emozionale globale, si aggiungono oggi odio, collera e rabbia estrema che sfigurano i popoli. Si tratta di un “nuovo ordine emotivo mondiale” di fronte al quale l’autore franco-americano si chiede: “Al di là della rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti, assisteremo forse all’emergere di un nuovo ordine tripolare tra Sud globale, Oriente globale e Occidente globale?”. Questi tre universi si starebbero allontanando a causa della diversa psicologia con cui guardano al mondo, anche se restano uniti dall’interdipendenza economica o tecnologica. Non va confusa la globalizzazione con l’interdipendenza: se anche il mondo si separa o si frammenta, nondimeno rimane interconnesso, anzi tali connessioni sono diventate le vie di trasmissione della collera, del risentimento e della frustrazione con cui i tre universi comunicano tra loro. Tale contesto è favorevole per le destre estreme, quelle che non cercano - come auspicherebbe Orsina - il pragmatismo della convivenza ragionevole ma puntano tutto su una politica dirompente che faccia saltare gli equilibri democratici. È questa la sfida della democrazia e dell’Europa, legate assieme da una medesima lotta e da un medesimo destino. *Politologo Un passo dopo l’altro verso la guerra totale di Domenico Quirico La Stampa, 7 ottobre 2024 La guerra globale si sta avvicinando, a piccoli passi, quasi con perfida cautela, un po’ come la luce, all’alba, aumenta quasi palpando la sua preda, il mondo. Stiamo immobili come ipnotizzati, perché il pericolo esercita sempre un singolare potere ipnotico sulle vittime. Oppure chiediamo aiuto a una sorda volontà di rimuovere la paura, di viverci dentro senza pensarci, di vivere come se fosse un incubo che non ci riguarda. E invece siamo già al punto in cui tutto diventa avvertimento, tutto: i conflitti già in corso, le sfide ontologiche per un pezzo di terra, la diplomazia smantellata, le ciarle dei politici e gli utili rigonfi degli affaristi della morte di massa, i penosi ditirambi per gli immancabili destini dei filosofi da televisione. Se si riuscisse a comprenderlo tutto questo diventerebbe segno e immagine. Soprattutto: a Est e a Ovest, a Sud e a Nord c’è troppa animosità, troppa sete di vendetta, galleggiano passioni dissennate spesse come un gas nervino nell’atmosfera. Poi un giorno le cose giungono a conclusione e danno la sentenza. E scopriremo che attorno a noi il mondo aveva già l’aria devastata, come alla fine della guerra l’esercito in ritirata lascia dietro di sé un paesaggio ferito e agonizzante. Settanta anni dopo - sembra incredibile! - siamo ancora appiccicati alla teoria del domino. Nel 1954 il presidente americano Eisenhower la riassumeva così: se l’Indocina cade nelle mani dei comunisti cadranno inevitabilmente il Giappone, le Filippine, perfino l’Australia. Perché nel domino vince chi mette per primo sulla tavola tutte le sue pedine. Quella teoria era così sgangherata che Filippine, Giappone e Australia restarono al loro posto, gli americani persero una guerra e il Vietnam oggi è in migliori rapporti con Washington che con la Cina che allora lo aiutò a resistere e poi lo aggredì. Abbiamo applicato la stessa logica alla Russia putiniana: l’Ucraina è solo la prima pedina del suo domino, dopo verranno la Polonia, i Baltici, la Germania, l’Europa! E quindi: nessun negoziato, diplomatici e pacifisti in cantina, armiamoci, guerra totale, il cannone in Borsa galoppa! La teoria del domino è il breviario purtroppo permanente degli interessati guerrafondai, secondo cui gli avversari del “mondo libero” vogliono inevitabilmente la conquista del pianeta, sono sempre in combutta tra loro e agevolano l’uno le prepotenze dell’altro. Con speculare imitazione dall’altra parte si sragiona: l’America e la Nato fanno cadere una dopo l’altra le pedine della nostra sicurezza, i Balcani, l’Afghanistan, l’Ucraina, Taiwan... avanzano, ci soffocano, vogliono distruggerci, attacchiamo per primi. Che la Guerra Grande sia inevitabile lo prova il fatto che la forza è ormai, per democrazie e tirannidi, l’unica unità di misura delle relazioni internazionali. Essere più forti dell’altro, del nemico di oggi e di quello che certo lo sarà domani, dimostrarsi più scaltri, non commettere errori, diventare padroni della situazione. Perché tutti sono sicuri di vincere. Putin è sicuro di vincere, Zelensky è sicuro di vincere, Netanyahu è sicuro di vincere, Khamenei è sicuro di vincere, Xi Jinping è sicuro di vincere. Perfino Sinwar è sicuro di vincere. Eppure bastava guardarsi attorno per evitare questi errori. Ci sono momenti in cui il cuore e la mente dell’uomo hanno la loro notte. Ecco, ci siamo. Nel terzo millennio masse umane ricevono per telefonino (la modernità!) l’ordine di spostarsi da dove vivono da sempre, prender con sé poche cose e accamparsi in una zona “sicura”: sgomberate, qui dobbiamo bombardare, ripulire, bonificare! E loro, palestinesi, libanesi, non certo quelli animati dal furore hamikaze di Hamas o di Hezbollah, quelli restano, prendono i figli, un valigia, un materasso, un po’ di cibo e a piedi, in auto, con il carretto tirato dall’asino paziente, obbediscono: se ne vanno, migrano come armenti. Dettagli direte, questi esodi, rispetto al numero dei morti: già, ma ci sono dettagli che sono importanti, fanno quasi da adesivo, fissano la materia, quella sì essenziale, della colpa. Guardate gli occhi di questi popoli in fuga quando la macchina fotografica li eternizza, quando un microfono li interroga. Non riesci a staccare da te quello sguardo, ti avvolge, ti insegue come un raggio implacabile. Ha la forza di un contatto fisico. Dovremmo impazzire di indignazione; dopo un po’ restiamo indifferenti. I fatti, i fatti! Messi insieme lanciano accuse urlando a squarciagola: Putin sgranocchia centimetro dopo centimetro il Donbass con la feroce pazienza del pitone che inghiotte la preda. Israele, invece di chiedersi perché collezionare le figurine dei diabolici capi e sottocapi di Hamas e di Hezbollah eliminati non lo abbia portato a niente, sta per aprire il fronte più grande, la punizione dell’Iran, per far sbocciare la democrazia a Qom a cannonate e disegnare un Nuovo Ordine del Vicino Oriente con a rimorchio putridi regimi, l’Egitto di Al Sisi, l’Arabia Saudita del principe assassino, gli emirucci petroliferi: la “mappa della maledizione” con ayatollah e affini cancellata dalla “mappa della benedizione” che dall’India al Mediterraneo, a furia di bombe sacrosante, farà sgorgare il latte e il miele... Ecco qua l’ennesimo aspirante a ridisegnare il mondo, Beniamino Netanyahu, un altro colpito dalla “hybris” che come ammonisce il poeta dà come frutto spighe di rovina e raccoglie messe di pianto. Quando la vittima si fa carnefice: una riflessione psicologica sulle due guerre di Luciano Casolari* Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2024 Una constatazione frequente in psicologica è il passaggio fra il ruolo di vittima e quello di carnefice. Bambini abusati sessualmente divengono troppo spesso adulti che abusano; persone che hanno subito una violenza fisica frequentemente si trasformano in violenti. Il trauma è stato definito come un evento psicologico di minaccia e sopraffazione di tale entità da superare le capacità di adattamento emotivo. Viene compromessa la continuità mentale, determinando una lacerazione della sfera psicologica. Secondo la teoria del trauma il soggetto, di fronte a un evento psicologicamente intollerabile, attua una scissione (divisione) del proprio “io psichico” con una parte che, pericolosamente, tende ad identificarsi con l’aggressore. Quindi spesso nello stesso soggetto convivranno negli anni successivi due parti: una che si vive nel ruolo di vittima e una in quello del carnefice. Il passaggio della vittima a svolgere, nel corso della vita, il ruolo del carnefice incarna una possibilità legata a questo vissuto interiore. Per coloro che conoscono la storia di quella che un tempo era la vittima appare strano che possa assumere il ruolo del carnefice anche perché “dovrebbe sapere quello che si prova”. Colui che è stato vittima e ora diviene carnefice stranamente non avverte sensi di colpa, in quanto in lui permane una componente che avendo subito abusi o violenze si sente esentata e “in credito col mondo”. Mi venivano in mente questi pensieri sulla teoria del trauma mentre ascoltavo le notizie sulle due guerre che stanno pericolosamente mettendo in crisi il nostro mondo. È chiaro che gli israeliani che hanno subito la Shoah ora sembrano non capire la situazione terribile dei palestinesi. I palestinesi e i loro alleati dal canto loro sembrano assolutamente avulsi dai sensi di colpa per atti terroristici. Lo stesso, in modi diversi, avviene fra ucraini e russi per cui le vittime del nemico appaiono come mostri che finalmente sono stati eliminati e non come esseri umani. La vittima che diviene carnefice senza provare sensi di colpa e pietà è veramente un meccanismo perverso della psicologia umana. Forse è stata una modalità di vivere le emozioni delle guerre, utile nell’evoluzione, ma ora che desidereremmo un mondo pacifico diviene un meccanismo perverso che porta a proseguire le faide e le battaglie a tempo indefinito. Fino all’annientamento dell’avversario… pare l’unico fine che va di pari passo con quello che il nemico proverà verso gli avversari. Mantenere la capacità umana di percepire la sofferenza nei nostri amici, ma anche nei nemici, di capire, anche se non si è d’accordo, le loro ragioni è sempre più arduo. Anche alcuni giornali italiani, scandalosamente, attuano due pesi e due misure rispetto alle vittime dell’uno o dell’altro contendente. Con questo scritto vorrei indurre una riflessione sulla necessità di rimanere capaci di comprendere la sofferenza di tutti: anche dei nemici. *Medico psicoanalista Medio Oriente. 7.10.2023: Hamas scatena l’inferno di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 7 ottobre 2024 Dopo ottant’anni tornano i pogrom contro gli ebrei. 7 ottobre 2023, giorno di shabat, 6.29 del mattino, le sirene urlano nel sud di Israele, stanno avvertendo i residenti del lancio di alcuni missili dalla Striscia di Gaza. Un’abitudine nelle zone frontaliere, tanto la gran parte della popolazione non sembra granché preoccupata, molti si preparano a celebrare Simhat Torah, una festa ebraica. Nessuno immagina quel che sta per accadere. Dieci minuti dopo i primi allarmi circa tremila combattenti delle brigate al Qassam, l’ala militare di Hamas, varcano il confine a bordo di pick up, motociclette, buldozer, deltaplani, parapendii a motore, alcuni procedono a piedi, tutti sono armati fino ai denti come un enorme squadrone della morte. È ufficialmente iniziata l’operazione “diluvio di al Aqsa”, il più sanguinoso attacco avvenuto sul territorio israeliano dalla creazione dello Stato ebraico. Il peggior incubo di Israele, la sua paura più ancestrale si è materializzata. Ci sono voluti due anni di pianificazione certosina per stabilire ogni passaggio, il momento in cui sfondare i varchi e disattivare i sistemi di sorveglianza, la definizione dei bersagli, il coordinamento dei blitz, ma è l’effetto sorpresa la natura inconcepibile dell’operazione che rende l’attacco devastante: in poche ore vengono trucidate 1139 persone, la maggior parte sono dei civili. È un pogrom, lo è letteralmente con buona pace di chi storce il naso davanti a questa parola di cui pensavamo esserci liberati, perché i terroristi invocando il loro dio gridano “morte agli ebrei!” e li cercano strada per strada, casa per casa e poi li ammazzano con ogni mezzo necessario, con esplosivi, armi da fuoco, mannaie, coltelli e poi infieriscono sui cadaveri che vengono mutilati, e straziati, riportati a Gaza come trofei in un tripudio isterico e nichilista. Morte agli ebrei dicono quella mattina i loro assassini. Le postazioni dell’Idf a protezione dei varchi vengono sopraffatte con facilità irrisoria, distrutte le torri di guardia, eliminati gli scarni contingenti di soldati. L’unico carro armato che sta operando nella zona viene fatto saltare in aria da un drone. Israele è nuda, esposta alla determinazione omicida del suo storico nemico. Quella mattina nelle aree meridionali la presenza delle forze di sicurezza nel sud è ridotta, la maggior parte sta infatti operando in Cisgiordania perché, secondo l’intelligence di Tel Aviv, è lì che si concentrano i pericoli e le tensioni maggiori e di recente non ci sono state segnalazioni di attività sospette nella Striscia. Il primo obiettivo colpito dai combattenti islamisti si trova a cinque chilometri dalla frontiera, nel deserto del Negev dove sta terminando il festival Tribe of Nova, una serata di musica elettronica a cui hanno partecipato circa 3500 tra ragazzi e ragazze rimasti a ballare fino all’alba. Il rimbombo delle casse che trasmettono gli ultimi scampoli di musica all’improvviso si intreccia e poi viene sovrastato dalle esplosioni dei kalashnikov in un contrasto straniante e mortifero: centinaia di miliziani raggiungono l’area del rave party a bordo di alcuni furgoni e iniziano subito a sparare raffiche contro la folla, inizialmente alla cieca, per abbattere più persone possibili, i ragazzi scappano in preda al panico, provano a nascondersi ma la zona è pianeggiante e la vegetazione scarsa, vengono cercati uccisi con sistematica ferocia come in un videogame sparatutto. Praticamente un Bataclan nel deserto. Hanno anche bloccato le strade attorno, limitando le vie di fuga e mitragliando le automobili che tentano di trovare un varco. Trecentotrenta le vittime tra i partecipanti al festival, quasi tutti giovanissimi. Secondo le ricostruzioni delle autorità israeliane, in quelle ore concitate e sanguinose sette località passano sotto il controllo di Hamas, tra cui Nahal Oz, Kfar Aza, Magen, Bèeri e Sufa. Anche il valico di frontiera di Erez dopo l’uccisione di alcuni soldati e il rapimento di altri, finisce nelle mani dei terroristi, il che consente agli aggressori di entrare comodamente sul territorio israeliano dopo aver attraversato un tunnel di quattro chilometri. Gli squadroni delle brigate al Qassam si dirigono verso i kibutz che lambiscono la frontiera con la Striscia. Il primo a essere attaccato è a Kfar Aza dove gli abitanti e le poche guardie della sicurezza provano a difendersi. Invano. La furia degli assalitori, equipaggiati e feroci come corpi di élite, non risparmia nessuno, donne, persone anziane, bambini: oltre duecento le vittime accertate. I più fortunati, che abitano nei vialetti più distanti dalle entrate sentono gli spari e riescono a rifugiarsi nelle stanze blindate presenti in ogni abitazione, diverse case sono date alle fiamme, il sangue macchia ogni cosa, l’asfalto delle strade, le pareti. Stessa identica scena nel Kibbutz di Bèeri dove le vittime sono “soltanto” 110 per l’arrivo sul posto di un contingente militare israeliano che trasforma l’assalto in una battaglia vera e propria disputata a colpi di artiglieria e di armi d’assalto. Per scacciare i terroristi l’Idf decide di bombardare il Kibbutz uccidendo anche alcuni dei residenti. Poi altre dimostrazioni di forza come gli attacchi agli avamposti militari di Bahat, Nahal Oz e Rèim e l’irruzione in un commissariato di polizia di Sderot dove sono uccisi trenta agenti. Oltre duecentocinquanta il numero delle persone rapite e portate a Gaza city. Sono i video di propaganda filmati dagli smartphone e dalle Go pro degli stessi miliziani a immortalare la mattanza. Li diffondono in tempo reale, sui social network; parallelamente alle richieste di aiuto ricevute su WhatsApp dalle famiglie degli abitanti dei kibbutz intrappolati nei rifugi delle loro case, trasmesse anche in diretta dalla televisione nazionale. Catturati e mostrati con l’obiettivo di terrorizzare la popolazione israeliana, i video sono anche un singolare strumento di tortura psicologica, poiché è attraverso le immagini che le famiglie provano a identificare i propri cari di cui non hanno più notizie, cercando di indovinare il loro destino aspettando un segno di vita Alle 11.35 il primo ministro Netanyahu parla alla nazione dal quartier generale delle forze armate di Tel Aviv: “Siamo in guerra e vinceremo, i nostri nemici pagheranno un prezzo senza precedenti “. Non una parola sulle vittime o sugli ostaggi finiti in mano ad Hamas. Non una parola sugli errori, clamorosi, del governo e dei servizi di sicurezza, incapaci di prevenire o semplicemente di fermare le milizie palestinesi. Solamente la cieca vendetta, lo spirito scomposto della rappresaglia che porterà l’apocalisse nelle strade di Gaza con quasi 40mila vittime in dodici mesi di bombardamenti e segnando la sorte di duecento ostaggi. Medio Oriente. “Hamas e Netanyahu hanno entrambi calpestato e buttato a mare i diritti umani” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 ottobre 2024 Colloquio con Silvana Arbia, magistrata ed ex “Prosecutor” del Tribunale Internazionale per il Ruanda che denuncia gli attacchi sistematici (e reciproci) contro i civili. Il primo anniversario delle stragi del 7 ottobre 2023, che hanno provocato l’intervento di Israele sulla Striscia di Gaza, fa emergere un dato: le popolazioni civili sono sempre le più esposte in determinati scenari e quelle che pagano il prezzo più alto. Il diritto, negli ultimi decenni, è stato sacrificato in nome dei conflitti armati. Di questo è convinta anche Silvana Arbia, magistrata con una lunga carriera a livello internazionale. Ha ricoperto negli anni scorsi il delicato incarico di Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. “Il 7 ottobre 2023 - dice Arbia - si è consumata una strage che ha scosso profondamente le coscienze di tutti e di cui Hamas è responsabile. Ma non segna l’inizio di un conflitto di particolare tragicità, poiché tra Israele e la Palestina, i conflitti ripetuti e drammatici sono cominciati più di settanta anni fa, dal tempo dell’esodo forzato dei palestinesi nel 1948, che aveva causato un drammatico sconvolgimento, Nakba in arabo che vuol dire catastrofe, all’interno della popolazione araba palestinese, durante la guerra arabo- israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele, con un esodo involontario di centinaia di migliaia di palestinesi, ai quali venne poi negato ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre, sia durante sia al termine del conflitto. Il 7 ottobre 2023, alla luce di quanto accaduto e di quanto accade, segna l’inizio della fase finale di un confronto dall’esito nefasto per entrambe le parti, e segna anche la negazione e il disprezzo per il diritto internazionale e per il diritto internazionale umanitario che vincola le parti in conflitto. Vi sono, in effetti, oltre ai trattati internazionali, delle norme internazionali di natura consuetudinaria inderogabili, tra cui il divieto dell’uso della forza per la soluzione di controversie fra Stati, la protezione dei civili e anche dei non combattenti nel corso delle operazioni militari, i principi di distinzione, di precauzione e di proporzione da seguire in azioni armate di difesa. Senza tralasciare l’obbligo di prevenire e o punire il genocidio e gran parte del diritto internazionale umanitario”. Nonostante l’evoluzione positiva del diritto internazionale, l’umanità si ritrova a dover fare i conti con immani tragedie. “Negli ultimi decenni - commenta Arbia - a fronte di un’evoluzione notevole del diritto internazionale applicabile ai conflitti armati internazionali e non internazionali, con particolare riguardo agli obblighi di protezione dei civili e dei non combattenti, nonostante l’esistenza e il funzionamento di giurisdizioni internazionali, atte a garantire il rispetto del diritto internazionale da parte degli Stati, come la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, e a punire gli individui responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani come la Corte penale internazionale, assistiamo non solo ad un cinico ritorno all’uso della forza e ad una irresponsabile crescita delle spese per gli armamenti più letali e non regolamentate, ma notiamo una sempre maggiore inosservanza di ordinanze e sentenze delle giurisdizioni internazionali che ne risultano svuotate di autorità. Se il diritto è disprezzato e la giustizia derisa, non rimane per le vittime di atrocità indescrivibili nei conflitti armati alcuna via per invocare ed ottenere giustizia”. Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, nei mesi scorsi ha chiesto l’emissione di un mandato di arresto per il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant. Analoga iniziativa per alcuni leader di Hamas, compreso Yahya Sinwar. La giustizia internazionale farà il suo corso. Anche Silvana Arbia è convinta di questo: “Le procedure iniziate avanti la Cpi continuano, non possono espletare effetti immediati perché sono procedure rigorose e la raccolta delle prove in una situazione come quella del conflitto Israele-Gaza e altri territori occupati è estremamente difficile. Inoltre, la Corte penale internazionale applica gli standard più elevati di garanzia della difesa, di protezione dei testimoni e di partecipazione delle vittime”. La risposta di Israele sulla Striscia di Gaza, dopo gli eccidi di un anno fa, ha indotto più di qualcuno a parlare di genocidio. Lo stesso è stato detto in merito agli eccidi di cittadini israeliani. Ma attenzione. Spesso la parola genocidio viene usata con un fine politico. “Lasciamo da parte - conclude Silvana Arbia - la diffusione dell’uso inappropriato, superficiale e o strumentale della parola genocidio, teniamoci alla sua definizione giuridica, contenuta nella Convenzione internazionale sulla prevenzione e la repressione del genocidio, che è un crimine internazionale e come tale deve essere definito nei suoi elementi costitutivi. Occorre provare che gli atti criminali sono commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte uno dei quattro gruppi protetti, razziale, religioso, nazionale, etnico, in quanto tale. La certezza sulla qualificazione come genocidio dei fatti di Gaza può essere data dalla pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel merito, oggi pendente, essendo questa Corte stata investita dal Sud Africa per far dichiarare la violazione della suddetta Convenzione da parte di Israele, e per ottenere misure interinali che sono state disposte a partire dall’ordinanza del 26 gennaio dell’anno in corso, seguita da altra ordinanza del 28 marzo, con imposizione di ulteriori misure adeguate all’aggravarsi della situazione. La Corte aveva ordinato a Israele di porre in essere, senza ritardo, tutte le misure necessarie per prevenire e punire il genocidio dei palestinesi a Gaza, ritenendo sussistente la parvenza che tale crimine fosse stato commesso o si stesse commettendo”. Medio Oriente. Così Netanyahu ha isolato Israele, forse per sempre di Thomas L. Friedman* Il Dubbio, 7 ottobre 2024 Non c’è altra domanda che il governo israeliano abbia posto al mondo più spesso da quando Hamas ha invaso Israele il 7 ottobre. Cosa farebbe il vostro Paese se i terroristi attraversassero il confine occidentale e uccidessero, mutilassero, rapissero o abusassero sessualmente di centinaia di israeliani che incontravano e il giorno dopo i loro alleati di Hezbollah lanciassero razzi oltre il confine settentrionale, allontanando migliaia di civili, il tutto acclamato dall’Iran? È una domanda forte e pertinente, che i critici di Israele spesso eludono. Ma non sono gli unici a evitarlo. Questo governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, vuole che tu, io, ogni israeliano e tutti gli amici di Israele (e persino i nemici) crediamo che ci sia sempre stata una sola risposta giusta a questa domanda: invadere Gaza, dare la caccia a ogni leader e combattente di Hamas, ucciderli tutti fino all’ultimo e non farsi scoraggiare dalle vittime civili, poi colpire Hezbollah in Libano. Ho sostenuto fin dal primo giorno che si trattava di una trappola, una trappola in cui mi dispiace dire che l’amministrazione Biden non è stata abbastanza ferma nell’impedire a Israele di cadere e non è stata abbastanza ferma nell’insistere su una strada migliore, una strada non imboccata. Questo non è il momento di tirare pugni. Lo stato ebraico di Israele è oggi in grave pericolo. E il pericolo proviene sia dall’Iran che dall’attuale coalizione di governo israeliana. Vedete, non mi sono mai fatto illusioni sulle ragioni macro per cui è accaduta questa guerra. È lo sviluppo di una grande strategia iraniana per distruggere lentamente lo stato ebraico, indebolire gli alleati arabi dell’America e minare l’influenza degli Stati Uniti nella regione, mentre scoraggia Israele dall’attaccare le strutture nucleari dell’Iran, usando i proxy iraniani per dissanguare Israele. Questa è la storia macro. L’innesco e l’obiettivo immediato della guerra sono stati l’interesse di Hamas e dell’Iran di affossare l’iniziativa diplomatica del team di Biden volta a unire Israele, l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Arabia Saudita in un cerchio di pace. Il problema per gli israeliani e il popolo ebraico è che, mentre il governo Netanyahu aveva ragione nel diagnosticare che si trattava di una guerra di annientamento, si è rifiutato di condurre la guerra nell’unico modo che poteva sperare di portare al successo, perché quella strategia andava contro gli interessi politici del primo ministro e gli interessi ideologici messianici della sua coalizione. Israele affronta una minaccia esistenziale dall’esterno, e il suo primo ministro e i suoi alleati hanno dato priorità ai propri interessi politici e ideologici. Per contrastare questa rete di minacce iraniana, Israele aveva bisogno di quattro cose: molto tempo, perché questa cerchia di fuoco non poteva essere estinta dall’oggi al domani; molte risorse, in particolare dagli Stati Uniti e da altri alleati occidentali; molti alleati arabi ed europei, perché Israele non può combattere da solo una guerra di logoramento; e, forse la cosa più importante di tutte, molta legittimità. Netanyahu, invece, ha isolato Israele portandola verso una strada che conduce alla rovina. *Articolo pubblicato sul New York Times Medio Oriente. La verità è che Israele lotta per la sopravvivenza di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 ottobre 2024 Ieri lo Stato ebraico era circondato da un mondo arabo che non nascondeva l’intenzione di “buttarlo a mare”. Oggi lo è da una marea ancora più numerosa di islamisti che nutre lo stesso sogno. Tra una parte molto cospicua, certamente maggioritaria, dell’opinione pubblica occidentale e una porzione altrettanto rilevante di quella israeliana, ma anche ebraica in generale, sussistono un fraintendimento e una reciproca incomprensione che hanno già provocato enormi disastri e rischiano di fare di molto peggio nel prossimo futuro. Quando guardano a Israele e alla sua politica nei confronti dei palestinesi quasi tutti, anche tra quelli che riconoscono in pieno il diritto di Israele a esistere, vedono solo un Paese molto forte che schiaccia e opprime un popolo con l’obiettivo di occupare definitivamente la sua terra e per questo nega a quel popolo il diritto di avere un proprio Stato. Negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi, sulla base di quella cultura ormai diffusa che identifica l’Occidente solo con le sue peraltro gravi colpe, il quadro è diventato molto più orrendo. Israele è vista come un catalogo completo di tutti gli orrori dell’Occidente nella Storia. È l’America bianca che annienta i nativi americani per prendere le loro terre. È l’Europa coloniale che vessa e opprime gli altri popoli del mondo per sacchggiarne le ricchezze. È il Sudafrica dell’apartheid. E perché il catalogo sia completo è anche la Germania di Hitler che organizza lo sterminio proprio degli ebrei. Ma anche chi non arriva a queste aberrazioni e le riconosce come tali è comunque convinto di trovarsi di fronte a un popolo che esercita la propria soverchiante forza per schiacciarne un altro. In parte c’è davvero una componente di Israele, come delle organizzazioni palestinesi, che non ha mai accettato come definitiva la spartizione della Regione nel 1948 e mira all’annessione più o meno conclamata della Giudea e della Samaria, le regioni della West Bank nelle quali dovrebbe nascere lo Stato palestinese. Ma è una componente che sarebbe rimasta minoritaria se non fossero intervenuti altri lementi, e tornerebbe a esserlo senza quegli elementi. Cioè se gli israeliani non si sentissero continuamente e perennemente minacciati. Quello che per l’opinione pubblica occidentale è solo brutale esercizio di dominio per molti, se non per tutti, israeliani e anche ebrei della diaspora, è invece difesa dalla minaccia di sterminio. Che questa sensazione di minaccia sia fondata o meno è poco importante, dal momento che la sua sola presenza, a torto o a ragione, è determinante. Non si tratta di una minaccia non immediata ma temuta in prospettiva. Israele era circondata ieri da un mondo arabo che non nascondeva l’intenzione di “buttarla a mare” in nome del nazionalismo panarabo. Oggi lo è da una marea ancora più numerosa e temibile di islamici che nutrono lo stesso sogno. Quando l’occidente parla di Stato palestinese immagina una nazione finalmente pacifica. Moltissimi israeliani vedono invece una testa di ponte che rappresenterebbe subito la stessa minaccia che è stata Gaza dal 2005 in poi però moltiplicata all’ennesima potenza. Quando Hamas dice di non voler riconoscere Israele ma di essere disposta a stipulare una lunghissima tregua, molti in occidente interpretano la posizione come una accettazione di fatto dell’esistenza dello Stato ebraico. Altrettanti, in quello Stato e nel mondo ebraico, ci vedono invece un’esplicita dichiarazione di intenti feroci: “Siamo pronti ad accettare una tregua fino a che non avremo la forza per schiacciare Israele”. O più precisamente per schiacciare gli ebrei perché se l’occidente non dà alcuna importanza al profluvio di articoli e vignette apertamente antisemiti nei media palestinesi, in Israele il particolare non è affatto considerato innocuo. L’opinione pubblica occidentale è convinta che Israele non possa considerare a rischio la propria sopravvivenza per tre motivi: lo scarso interesse di fatto e nonostante gli strepiti dei regimi arabi per la causa palestinese, il sostegno degli USA e dell’Europa, la schiacciante superiorità militare. Ma i regimi non sono le popolazioni, di umori opposti, e non è detto che restino al potere per sempre. Del sostegno degli alleati, gli israeliani si fidano certo ma nella consapevolezza che le cose possono cambiare. Resta la forza militare e solo quella. A monte di questa incomprensione c’è probabilmente una mancata comprensione di cosa la Shoah e il suo ricordo significhino, a distanza di meno di un secolo, per moltissimi ebrei, israeliani e non: quanto concreta sia sempre considerata la minaccia di genocidio, quanta diffidenza sia ancora nutrita nei confronti di chi, allora, non mosse un dito e non aprì un porto per salvare i destinati allo sterminio. L’incomprensione è reciproca. Che nelle posizioni critiche contro Israele ci sia una robusta e crescente componente antisemita è certa. Ma considerare ogni critica rivolta a Israele frutto di un antisemitismo latente mai davvero morto in occidente significa chiudersi a ogni possibilità di dialogo e comunicazione. Questa reciproca incomprensione ha creato una situazione che è terribile da più punti di vista. Ha nutrito un nuovo antisemitismo, che è reale e si allarga mascherato da “antisionismo”. Ha spinto Israele a confidare solo nella propria forza, diventata sempre più nel corso del tempo semplice e feroce brutalità. Una spirale che negli ultimi mesi ha toccato il suo punto più basso. Per ora. Medio Oriente. Il conflitto lungo un secolo. Quella tra Israele e Palestina è una guerra permanente di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 ottobre 2024 La guerra tra israeliani e palestinesi non dura da 75 anni, come molti hanno scritto in questi mesi. Prosegue da 122 anni, sanguinosa e costellata da occasioni perdute. Se si dovesse indicare una data d’inizio del conflitto sarebbe il primo maggio 1921, con l’esplosione dei “moti di Jaffa”, anche se in realtà già da due anni l’arrivo degli immigranti ebrei e il moltiplicarsi degli insediamenti sionisti avevano innecato, proteste, attacchi armati, scontri a fuoco. I moti di Jaffa, che insanguinarono la città per una settimana, furono il primo episodio di sollevazione violenta della popolazione contro l’Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina. Le aggressioni e le risposte armate si ripeterono, su scala più vasta, nella settimana tra il 23 e il 29 agosto 1929. La potenza mandataria britannica, disponeva appena di una cinquantina di agenti: per alcuni giorni perse completamente il controllo della situazione. Pogrom e attacchi contro gli insediamenti ebraici si verificarono ovunque, gli ebrei si difesero da soli, alla fine della settimana si contavano centinaia di morti e feriti su una popolazione complessiva che tra arabi ed ebrei arrivava appena a un milione di abitanti. Leader dei palestinesi era nel 1929 il Muftì di Gerusalemme Amin al-Husayni. Alla testa del Supremo Comitato Arabo, da lui stesso fondato, avrebbe poi guidato la Grande Rivolta Araba del 1936-39. Sotto il mandato britannico la popolazione ebraica era passata dalle 57mila persone del 1919 alle 320mila del 1935. L’acquisto di terre da parte dell’Yishuv aveva reso la presenza degli ebrei anche economicamente influente. Dopo mesi di violenze, in settembre, gli inglesi nominarono una commissione diretta da Lord Peel con il compito di analizzare le cause della rivolta e cercare una soluzione. Ai lavori della commissione corrispose una tregua sino all’ottobre dell’anno successivo, quando la Commisione concluse che non c’era alternativa a una spartizione. Agli ebrei sarebbe toccato comunque meno di un quinto della regione. Gli arabi respinsero la proposta, la rivolta riprese più violenta e sanguinosa di prima e proseguì per altri due anni, fino allo scoppio della guerra mondiale. Nella Grande Rivolta si intrecciarono in realtà tre conflitti diversi: la rivolta contro gli insediamenti ebraici diventò subito anche ribellione araba contro il mandato britannico e tra i palestinesi si scatenò una vera guerra tra la fazione degli Husayni e quella, altrettanto potente, dei Nashashibi. Fu insieme una guerra tra ebrei e palestinesi, una guerra araba contro il Regno Unito e una guerra civile tra palestinesi. Anche gli ebrei si divisero, una fazione radicale lasciò l’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebrea, per dar vitra a un gruppo terrorista più radicale e feroce, l’Irgun. Le ostilità ripresero dopo la guerra mondiale, prima e dopo la nascita dello Stato di Israele. Al momento del voto dell’Onu che sanciva la spartizione della Palestina, il 29 novembre 1947, la popolazione ebraica era arrivata a circa 600mila abitanti a fronte di un milione di musulmani e 150mila arabi cristiani. La spartizione assegnava al futuro Stato di Israele il 55% della Palestina, ma con all’interno il vasto deserto del Negev. Di fatto fra le tre regioni fertili a Israele era assegnata la Galilea, a quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese la Giudea e la Samaria. Gli arabi non accettarono la spartizione. La guerriglia comincò immediatamente dopo il voto dell’Onu per trasformarsi in vera e propria guerra dopo la nascita dello Stato ebraico, il 14 maggio 1948: 14 Stati arabi, molti dei quali si limitarono però a inviare in Palestina piccoli contingenti attaccarono il nuovo Stato appena nato. La guerra si concluse nella primavera del 1949 con la piena vittoria di Israele che occupò il 75% della Palestina ma perse il controllo su Gerusalemme est, inclusa la Città Vecchia con il Muro Occidentale. Per vent’anni agli ebrei fu proibito l’accesso al Muro. Le sinagoghe della Città Vecchia vennero distrutte o danneggiate. Sulla West Bank avrebbe comunque dovuto nascere lo Stato palestinese. Invece fu annessa dalla Giordania. Per i palestinesi la guerra del 1948 è la Nakba, il disastro. Circa 700mila abitanti delle terre ora israeliane diventarono profughi, abbandonarono le loro case rifugiandosi nei campi profughi della Cisgiordania, della Gaza allora egiziana ma anche di Siria e Libano. Sulla cacciata dei palestinesi le due parti hanno ingaggiato per decenni una guerra di propaganda. Gli israeliani sostenevano che fossero stati gli stessi leader palestinesi a chiedere agli abitanti dei villaggi di lasciare le loro case dove sarebbero rientrati presto, dopo la sconfitta dei sionisti. Episodi del genere ci furono certamente ma l’intenzione documentata di Ben Gurion, il premier israeliano e fondatore dello Stato, era liberare la futura nazione ebraica da quanti più arabi possibile: le distruzioni di centinaia di villaggi servivano a questo e raggiunsero l’obiettivo. I massacri di civili cominciarono allora. Il 9 aprile 1948 militanti dell’Irgun, organizzazione diretta dal futuro premier Menahem Begin, e attaccarono il villaggio di Deir Yassin e ne massacrarono gli abitanti. Quattro giorni dopo un gruppo palestinese fermò un convoglio medico che portava rifornimenti all’ospedale di Hadassah, nella Gerusalemme assediata dalle truppe arabe sterminando medici, infermieri, malati e militari dell’Haganah di scorta. Dopo la Nakba, per una ventina d’anni il conflitto fu tutto tra Israele e Paesi arabi, con il problema dei profughi agitato principalmente come arma propagandistica e senza alcuna rilevante presenza palestinese. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nata nel 1964, era solo un docile strumento nelle mani del dinamico raìs egiziano Nasser, al potere dal 1956. al-Fath, fondata nel 1959 da Yasser Arafat e un’altra ventina di giovani militanti, era invece autonoma ma il suo obiettivo principale spingere i Paesi arabi a muovere contro Israele, per liberare l’intera Palestina. La guerra del 6 giorni, nel giugno 1967, mise fine a questa illusione. Israele dilagò conquistando Gerusalemme, la West Bank, Gaza, le alture del Golan siriane, l’intero deserto del Sinai. Dopo la sconfitta tutte le organizzazioni palestinesi entrarono nell’Olp conquistandone la direzione. Arafat ne divenne il leader, Fath era l’organizzazione maggioritaria, seguita dal Fronte popolare per la Liberazione della Palestina, di estrema sinistra, il cui leader militare, Wadi Haddad, fu l’inventore della strategia basata su grandi e spettacolari dirottamenti aerei e attentati nel mondo per impedire che sulla sorte dei palestinesi calasse il silenzio. Le organizzazioni più radicali dell’Olp, in parallelo con l’offensiva dei dirottamenti, cercarono nell’estate 1970 di rovesciare il sovrano di Giordania Husayn. La repressione, che in due mesi costò decine di migliaia di morti, è passata alla storia come il Settembre Nero. Cacciati dalla Giordania i palestinesi si rifugiarono soprattutto nel Libano, dove in pochi anni arrivarono a costituire una sorta di vero Stato nello Stato. La campagna di attentati degli anni seguenti, condotta da Fath sotto le mentite spoglie della sigla “Settembre Nero”, dai terroristi di Haddad ma anche da una quantità di gruppi minori, proseguì per tutti gli anni ‘70. Mirava a costringere le potenze occidentali a occuparsi della questione palestinese e soprattutto voleva impedire ai Paesi arabi di riconoscere Israele in cambio della restituzione dei territori occupati, come suggeriva la Risoluzione 242 dell’Onu approvata anche da Israele. Documenti scoperti pochi anni fa dimostrano che fosse questo anche l’obiettivo della premier Golda Meir. L’Egitto, dopo aver restaurato l’onore militare perso nel 1967 con la guerra del Kippur del 1973, vinta da Israele ma con difficoltà molto maggiori di 6 anni prima, firmò comunque l’accordo di pace con Israele nel 1979. La campagna terrorista dei palestinesi impedì davvero di dimenticare la questione palestinese ma incise a fondo anche negli equilibri politici di Israele. Il Likud, guidato dall’ex leader dell’Irgun Begin, era stato sino a quel momento un insignificante partitino di estrema destra: nel 1976 vinse le elezioni e Begin diventò premier. In Libano la presenza di uno Stato palestinese di fatto indipendente portò però al tracollo un equilibrio già fragilissimo: nel 1975 scoppiò una delle più lunghe e feroci guerre civili della storia, con infinte fazioni in campo tra le quali i cristiano maroniti della Falange, alleati di Israele, le milizie sciite e druse, i palestinesi. Nell’estate 1982 Israele entrò in Libano con l’intenzione di cacciare i palestinesi e insediare al potere il capo della Falange, Bashir Gemayel. L’assedio di Beirut fu lungo e sanguinoso, la guerra del generale Sharon alienò a Israele le simpatie di buona parte del mondo, Italia inclusa. Il 19 agosto Arafat accettò di lasciare Beirut con tutti i miliziani palestinesi. Il 14 settembre Gemayel, appena eletto presidente, fu ucciso in un attentato organizzato dalla Siria con l’appoggio dei palestinesi. Il giorno dopo, violando ogni accordo assunto, le truppe del generale Sharon entrarono a Beirut ovest, circondarono i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, e permisero alle truppe falangiste assetate di vendetta di massacrarne per due giorni gli abitanti. Lo sdegno fu unanime nel mondo e anche in Israele. Sharon fu costretto alle dimissioni ma solo per essere nominato più volte ministro senza portafoglio nei governi del Likud, di cui diventò leader al posto di Netanyahu nel 1999. Dopo la cacciata dal Libano l’Olp, con quartier generale spostato a Tunisi, era in ginocchio. Israele poteva quasi considerare vinta la lunga guerra con i palestinesi. La rivolta degli abitanti della West Bank e di Gaza, a partire dal dicembre 1987, colse di sorpresa tutti: non la aveva prevista la dirigenza palestinese, che sui Territori Occupati non aveva mai puntato, sbalordì Israele, convinta che i Territori fossero un’area pacificata e sotto pieno controllo, dove le israeliane andavano tranquillamente da anni a fare la spesa. La rivolta degli Shebab, senza altre armi che non le pietre, piegò per la prima volta Israele.Nel 1993 Arafat accettò di riconoscere Israele, passaggio essenziale per ogni accordo di pace. La Cisgiordania e Gaza ottennerol’istituzione di una Autorità nazionale palestinese con capitale a Ramallah, alla quale era delegato parzialmente il governo della West Bank e di Gaza. Arafat e il premier israeliano Rabin si strinsero la mano di fronte agli occhi di un Bill Clinton soddisfattissimo. Avrebbe dovuto essere il primo passo concreto verso la creazione dello Stato palestinese e la pace: fu l’ennesima occasione perduta. Rabin fu ucciso da un estremista di destra. Le organizzazioni islamiste Hamas e Jihad islamica, con roccaforte a Gaza e contrarie all’accordo, iniziarono una campagana di attentati suicidi in Israele e Arafat non fu in grado o non volle tenerle sotto controllo. Lo Stato israeliano non fermò gli insediamenti in Cisgiordania, nonostante si fosse impegnato a farlo. Oslo diventò sempre più impopolare sia tra gli israeliani che tra i palestinesi. Per evitare un fallimento ormai annunciato il presidente Clnton nel 2000, ultimo anno del suo mandato, organizzò a Camp David un vertice e convinse il premier israeliano Ehud Barak ad accettare la nascita di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme est. Arafat rifiutò l’intesa senza avanzare controproposte. Analisti e commentatori si divisero e ancora di dividono sulle rispettive responsabilità: i punti chiave di disaccordo furono probabilmente il rifiuto israeliano di accettare una piena “legge del ritorno” dei profughi palestinesi in terra israeliana, perché ciò avrebbe sbilanciato l’equilibrio demografico a favore della componente arabo- israeliana, e soprattutto l’intenzione di mantenere il controllo pieno sulla Città Vecchia di Gerusalemme. Arafat non volle essere il leader che aveva rinunciato alla Città Sacra. Col senno di poi quasi nessuno oggi nega che non accettare quell’accordo fu da parte del leader palestinese un errore esiziale. Pochi mesi dopo il fallimento di Oslo Sharon fece la sua famosa e tragica “passeggiata” sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme, di fronte alla moschea di al-Aqsa, circondato da truppe armate. La provocazione innescò la seconda Intifada, detta “delle bombe”: cinque anni di attentati suicidi che insanguinarono tutta Israele, ai quali l’esercito israeliano rispose con repressioni durissime. Gli israeliani uccisi, quasi tutti civili, furono oltre mille. I palestinesi circa 5mila. Eppure l’ultima occasione vera per la pace si aprì proprio alla fine di quella seconda Intifada, quando proprio Sharon, premier dal 2001, decise di accelerare il processo per la creazione dello Stato palestinese. Ordinò il ritiro completo del’esercito e lo sgombro di tutte le colonie a Gaza. Lasciò il Likud per fondare un suo partito, Kadima la cui vittoria nelle nuove elezioni sembrava certa. Arafat era morto l’anno prima. L’accordo con la nuova leadership moderata di Abu Mazen sarebbe a quel punto stato a portata di mano. Invece, due mesi dopo aver fondato Kadima, Sharon fu colpito da un ictus e non sarebbe più uscito dal coma. Pochi giorni dopo, nelle prime e per ora ultime elezioni nei territori palestinesi, Hamas sconfisse al-Fath. Nel giro di due anni avrebbe sconfitto in una sorta di guerra civile l’Anp assumendo il totale controllo di Gaza. Con Israele in mano al leader di estrema destra Bibi Netanyahu e Hamas egemone a Gaza di pace non si è più parlato.