L’esigenza di sicurezza non può mai prevalere sul diritto alla salute. Neanche in carcere di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 5 ottobre 2024 Dopo la battaglia persa in Parlamento sulle detenute madri nell’ambito del Ddl sicurezza, Antonio Tajani e il vice ministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, si sono impegnati a portare avanti importanti interventi in ambito penitenziario, incentrati sull’umanità della pena e sull’accesso alle misure alternative. Tuttavia fra questi interventi poco si sente parlare del delicato e carente tema del “diritto alla salute” per detenuti e detenute. Un tema etico e giuridico particolare per molteplici ragioni. In primo luogo perché la popolazione detenuta rappresenta un gruppo ad alta vulnerabilità, il cui livello di salute, ancor prima dell’entrata in carcere, è mediamente inferiore a quello della popolazione generale. In secondo luogo, considerato anche quanto ci viene detto dagli organismi internazionali, il diritto alla salute soprattutto in carcere non si esaurisce nell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate: particolare attenzione deve essere prestata alle componenti ambientali, assicurando ai detenuti/ e condizioni di vita accettabili, che permettano una vita dignitosa e pienamente umana. Pertanto, problemi quali il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle condizioni igieniche, la carenza di attività e di opportunità di lavoro e di studio, la difficoltà a mantenere le reazioni affettive, sono da considerarsi ostacoli determinanti nell’esercizio del diritto alla salute. Recentemente abbiamo dovuto prendere conoscenza del crescente numero di suicidi in carcere. Fatti tragici che ancora maggiormente ci portano ad affrontare i vari aspetti della salute in carcere. Il diritto alla salute rappresenta per i detenuti/e il primo dei diritti che condiziona il soddisfacimento di altri; e all’inverso che il godimento dei più elementari diritti umani condiziona lo stato di salute. La prigione è un luogo di “contraddizione”: contraddizione fra l’affermazione del diritto alla salute dei detenuti e le esigenze di sicurezza; fra le norme secondo cui le istituzioni devono garantire gli standard igienico sanitari previsti dalla normativa vigente e le reali condizioni di vita delle celle sovraffollate; fra il significato della pena basato sulla responsabilità individuale e la concentrazione in carcere di un numero crescente di persone che appartengono agli strati più deprivati della popolazione; fra il diritto alla salute di qualsiasi detenuto e un carcere che produce sofferenza e malattia. Sono queste alcune delle ragioni che chiamano alla responsabilità etica e giuridica nei confronti dei detenuti/ e in quanto gruppo ad alta vulnerabilità bio-psicosociale. Quando parliamo del problema sicurezza e su questo poniamo l’accento, importante è che la contraddizione sia sempre presente alle istituzioni che si occupano della salute. Ma anche le istituzioni che presiedono alla sicurezza devono esserne pienamente consapevoli, in modo da esercitare la loro azione avendo chiaro il limite rappresentato dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute. Dal governo, consapevole di questa contraddizione, dipende la realizzazione o meno del bene salute, facendo sì che questo non sia nei fatti vanificato in nome di una logica preponderante di sicurezza. Pertanto, quando sentiamo parlare uomini politici influenti che intendono favorire l’adozione di nuovi strumenti per migliorare le condizioni dei reclusi, decongestionare gli istituti di pena e arginare la macabra scia dei suicidi, non possiamo non raccomandare di prestare attenzione affinché un settore così delicato come quello del diritto alla salute dei detenuti/ e sia inteso nella sua piena accezione al fine di raggiungere un effettivo riequilibrio dei livelli di salute dentro e fuori le mura, ben oltre la garanzia dell’uguaglianza di accesso alle prestazioni sanitarie. Il fondamento della salute del detenuto è l’essere trattato con dignità e rispetto nella piena osservanza di diritti umani fondamentali. Fra questi il diritto ad essere curato fuori dal carcere quando la detenzione aggravi la sofferenza nell’infermità e allontani la possibilità di una guarigione. È bene ricordare che la riforma della sanità penitenziaria non si esaurisce nel passaggio delle competenze dallo staff penitenziario a quello sanitario. In coerenza con un approccio globale alla salute, le autorità sanitarie avrebbero dovuto prendere pienamente in carico il controllo sulle condizioni igieniche degli istituti, lo stato dei servizi, le condizioni di vita dei detenuti, la sopportabilità del regime carcerario. Di contro, nella materialità della detenzione permangono sostanziali criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa. Daria Bignardi: “I bambini in carcere no” di Ilaria Dioguardi vita.it, 5 ottobre 2024 Da circa 30 anni Daria Bignardi affronta la realtà degli istituti penitenziari. Nel suo ultimo libro “Ogni prigione è un’isola” svela le storie che ha incontrato nel corso degli anni. “Il carcere non porta voti, quindi alla politica non interessa. Quando diventa un tema, come negli ultimi decreti, lo fa per peggiorare le cose: i bambini dietro le sbarre non ci possono stare, è una crudeltà tenerceli, quanto lo è separarli dalle madri”. “Il carcere è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo, dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi”, scrive nel suo ultimo libro “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori) Daria Bignardi, che è entrata 30 anni fa per la prima volta in carcere. Da allora le prigioni non ha mai smesso di frequentarle e nel volume racconta le storie potenti e complesse che ha incontrato durante gli anni. Bignardi, nel suo libro lei scrive: “So come vanno le cose col carcere, il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere degli altri, per così dire”. Sembra sempre più vero, guardando la situazione delle carceri... Il carcere non porta voti, quindi alla politica non interessa. Quando diventa un tema, come negli ultimi decreti, lo fa per peggiorare le cose e riempire ancora di più istituti che già esplodono. Un ex detenuto, nel libro, Pino Cantatore dice: “Io penso che le stesse persone che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere, se fossero state a Bollate non l’avrebbero fatto”. Quello dei disordini sempre più frequenti, delle rivolte, è un tema non di “mele marce” ma di sistema sempre più esplosivo? Non è un tema di “mele marce”. È il sistema carcere che non è sano e genera violenza. Se in un carcere stanno male i detenuti stanno male anche gli agenti. Il numero dei suicidi in carcere è arrivato a 69 dall’inizio dell’anno, secondo il report del Garante nazionale delle persone private della libertà personale. A settembre di un anno fa erano 20 di meno, a settembre 2022 otto di meno... Purtroppo questo è un anno bruttissimo. Proprio ieri a San Vittore ho parlato con un’educatrice che non riesce a riprendersi dopo che ha trovato il corpo di un giovane ospite del suo reparto, una persona arrestata per reati legati alla tossicodipendenza. In carcere tossicodipendenti e malati sono ormai più di un terzo dei reclusi. Molti sono disperati e non ce la fanno. Nel suo libro c’è anche la riflessione sul carcere come struttura pensata per gli uomini ma in cui ci sono pure le donne. Anche questo è un grosso problema... Le donne sono una minoranza, solo il 4%, per cui per loro si pensano molti meno progetti e si stanziano meno risorse. In più le donne soffrono particolarmente: per la separazione dai figli e dalle famiglie e perché spesso non hanno, a differenza degli uomini, qualcuno fuori che si prenda cura di loro. Oltre al genere, un altro problema che emerge nel libro è quello della classe… Il carcere è classista. Le persone benestanti e istruite sono mosche bianche in prigione. Che il carcere sia inutile lo pensano in molti, ad esempio Luigi Pagano e Gherardo Colombo, dei quali parla nel libro. Cosa si potrebbe fare per limitare l’ingresso in carcere? Prima bisognerebbe fare uscire tutti quelli che hanno maturato il diritto per farlo e prevedere pene alternative per i tanti che hanno condanne brevi. Se il Ddl sicurezza dovesse passare in Senato, diventerebbe facoltativo e non più obbligatorio il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli sotto l’anno. Cosa ne pensa? Tutto il male possibile. I bambini dietro le sbarre non ci possono stare, è una crudeltà tenerceli, quanto lo è separarli dalle madri. La vita, la morte, la sofferenza all’interno delle nostre carceri di Vito Piruzza insiemeragusa.it, 5 ottobre 2024 Mi chiedo cosa succederebbe se in una comunità cittadina di 62.000 abitanti, una comunità poco più piccola della nostra Ragusa o della nostra Vittoria avvenissero due suicidi ogni settimana? Immagino che lo shock sarebbe grande, che saremmo sommersi da un profluvio di analisi psicologiche, sociologiche, antropologiche. Ebbene questi sono i numeri dei suicidi tra le persone detenute e il dato non alimenta di fatto nessun dibattito, una media di due suicidi a settimana in una comunità di 61.725 persone. Per dare un dato di raffronto: nel nostro Paese, per fortuna, il tasso di suicidi non è molto elevato, si attesta su 0,7/0,8 casi ogni 10.000 abitanti e invece tra i detenuti nel 2022 l’incidenza è stata per 20 volte superiore: 15,4 suicidi ogni 10.000 detenuti. Se il trend attuale venisse confermato quest’anno rischiamo di superare quel dato che ha costituito finora un record negativo. Le cause ovviamente sono tante: tra le principali sicuramente il sovraffollamento, problema che si trascina da tanto tempo che mediamente è del 30% ma in alcune carceri per motivi contingenti schizza a percentuali assurde, come nel caso di San Vittore in cui il garante dei detenuti ha rilevato a inizio estate un sovraffollamento del 230%; la carenza di personale che continua a persistere e che affligge gli operatori della vigilanza allo stesso modo dei reclusi (anche tra di loro il tasso di suicidi è molto alto perché il malessere nelle carceri non viene fermato dalle sbarre, deborda anche al di là); le strutture spesso vetuste e con standard di vivibilità bassi: ad agosto due parlamentari regionali, dopo avere compiuto un’ispezione presso il carcere dell’Ucciardone (un carcere aperto nel 1842 che anche dall’esterno manifesta tutti i suoi limiti), appurata la sofferenza cui erano soggetti i detenuti a causa del caldo torrido di questa estate, dopo avere proposto inutilmente l’inserimento in finanziaria del relativo stanziamento si sono autotassati e in sinergia con alcune imprese hanno donato ai detenuti 130 ventilatori. Fin qui abbiamo parlato di numeri e fatti, ma quello che a mio avviso costituisce l’elemento più problematico è costituito dalla coltre di indifferenza (che in alcuni casi scade nell’accanimento) che avvolge tutto questo mondo, l’idea che una volta rinchiusi nella discarica sociale che sono le carceri il destino delle persone non ci riguardi più. Quasi che il valore della dignità della persona per coloro che hanno commesso un reato non sia vigente, anzi è molto trendy chiedere maggiore severità nel trattamento carcerario… Si continuano a proclamare i valori della Costituzione (spesso ignorandoli), ma si continua a pensare il carcere esclusivamente come afflittivo, una sorta di vendetta sociale, con buona pace del comma 3 dell’art. 27: “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per non dire poi che per noi cristiani (e quelli che siamo stati educati da piccoli alla precettistica tradizionale dovremmo ricordarcelo bene) la pietà nei confronti del carcerato, oltre ad essere inclusa nel precetto di amore per il prossimo, è codificata nelle 7 opere di carità. Garante dei detenuti, scontro sull’ex funzionario del Dap scelto da Nordio di Giulio Cavalli La Notizia, 5 ottobre 2024 Il Pd all’attacco: “Nomina fuorilegge”. Il ministro Nordio ha trovato il suo uomo per vigilare sui diritti dei detenuti: Riccardo Turrini Vita, fresco di nomina come Garante nazionale. Un curriculum impeccabile, non c’è che dire. Vent’anni di onorato servizio nei meandri del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, culminati con la vicedirezione del Dipartimento per la giustizia minorile. Chi meglio di lui può conoscere le dinamiche carcerarie? Certo, qualche malizioso potrebbe far notare che la legge prevede esplicitamente che il Garante non sia un dipendente pubblico. Ma si sa, le leggi in Italia si prestano alle più svariate interpretazioni. E quella data da Nordio è chiara: l’esperienza vale più della forma. Nuovo garante dei detenuti, la legge è un’opinione: quando l’esperienza batte i requisiti - Il Partito Democratico parla di “palese incompatibilità” e di “nomina fuorilegge”. Magistratura Democratica solleva timidamente una “delicata questione di rispetto della legge”. Come se in Italia il rispetto della legge fosse mai stato un criterio per le nomine di alto livello. L’Unione Camere Penali, con un tocco di ironia involontaria, ricorda che l’ufficio del Garante è ospitato proprio all’interno del Dap. Un dettaglio che rende la nomina ancora più appropriata: almeno il designato non dovrà chiedere indicazioni per trovare l’ufficio. Nel frattempo, le carceri italiane continuano a essere un modello di efficienza. Il sovraffollamento in alcune strutture supera solo del 260% la capienza prevista. I suicidi tra i detenuti sono una costante rassicurante. E gli istituti minorili, grazie al “decreto Caivano”, hanno visto un aumento di presenze del 49%. Numeri che fanno dormire sonni tranquilli. In questo contesto idilliaco, l’indipendenza e la terzietà del Garante sono ovviamente superflue. Perché mai dovremmo volere un occhio esterno e critico quando possiamo avere qualcuno che conosce il sistema dall’interno? Nordio deve aver pensato che distinguere tra il suo ruolo passato e quello futuro non è un problema e che cambiare prospettiva dopo decenni è un gioco da ragazzi. Da guardiano alla ‘difesa’ dei detenuti - Il viceministro Sisto assicura che Turrini Vita ha “tutti i requisiti, le competenze e le capacità” per il ruolo. Non c’è motivo di diffidare del suo giudizio. Ma resta il fatto che la nomina voluta dal ministro riporta in auge una vecchia tradizione italiana: affidare il controllo a chi dovrebbe essere controllato. Una tradizione che in passato e in più di un’occasione non ha certo brillato per risultati. Di certo, il nuovo Garante si troverà ad affrontare sfide non indifferenti. Dovrà vigilare su un sistema carcerario in cui il sovraffollamento è la norma, i suicidi sono quasi all’ordine del giorno e le condizioni di vita dei detenuti sono spesso al limite dell’umano. Resta solo da capire se questa nomina porterà a quel cambiamento radicale di cui il sistema carcerario italiano ha disperatamente bisogno. E se chi di quel sistema ha fatto parte per molti anni si dimostrerà la persona giusta per farlo. Staremo a vedere. “Solo dietro le sbarre ho compreso il valore della libertà” di Massimo Biagini Famiglia Cristiana, 5 ottobre 2024 Pubblichiamo il racconto di Matteo Biagini, il vincitore del premio letterario “Carlo Castelli”, rivolto ai detenuti delle carceri e promosso dalla Federazione nazionale Società San Vincenzo de Paoli. Si intitola “Sì, c’è ancora un domani” ed è una lettera aperta alla propria coscienza. Sì, c’è ancora un domani, di Massimo Biagini Ti scrivo cara coscienza, ti scrivo perché sono certamente convinto che ci sia ancora un domani. C’è sempre un domani, ora lo vedo sfuggente, aleatorio, incorporeo. La mia esperienza nel carcere è stata, nonostante tutto, edificante, istruttiva. Ho varcato il cancello in età matura, ho conosciuto un mondo che mai avrei pensato e nemmeno immaginato che esistesse. Un mondo fatto di regole, di disciplina, di privazioni. Si chiama acquiescenza, il sottostare forzato alla volontà altrui. In questo caso si tratta proprio della volontà di chi è stato legittimato a imporre questa regola. La privazione della libertà è una lezione che in modo brutale ti fa capire quanto essa sia preziosa. Nella società civile non ci si rende conto di quanto sia importante la libertà, è scontata, automatica, un diritto incommutabile, ma non è così. Solo quando la perdi ne apprezzi il vero valore. Ci sarà certamente un domani per tutti. Ci sarà un domani per i criminali veri, quelli che nulla al mondo e nemmeno il carcere più duro ne scalfirà minimamente l’istinto predatorio, quasi animale di cui sono materia viva. Queste persone (per fortuna una piccola minoranza) non vedranno mai la via del reinserimento nella società perché loro la società la rifuggono. Vivono nel loro mondo fatto di devianze, di violenza, di forza fisica che trova ampio spazio grazie anche ad un livello di scolarità quasi nullo che amplifica a dismisura un ego proiettato esclusivamente all’aspetto materiale ed epicureo della vita, senza valori, senza coscienza, senza Dio. Ci sarà un domani anche per loro ma l’esito è già scontato: è l’effetto delle “porte girevoli”. Esci da una parte per poi rientrare da un’altra per ricominciare tutto daccapo e così di seguito, per tutta la vita. Ci sarà un domani, mi auspico, per quel numero impressionante di giovani e meno giovani dì cui ho avuto conoscenza diretta, completamente assuefatti e ingoiati dall’universo mondo delle sostanze stupefacenti. Voglio chiamarle vittime. Vittime nella maggior parte di casi di famiglie disgregate e senza una guida, di ambienti dove il degrado sociale regna sovrano, immersi totalmente in un mondo virtuale che esalta i soldi facili e veloci e ne esaspera rabbia e ribellione, semenzaio preoccupante di bande di giovani che poi scaricano in aggressioni sempre più frequenti il male di vivere che li pervade e trovano nella droga una via di fuga dalla realtà non sapendo che quella via di fuga non porterà mai da nessuna parte. Li ho visti con i miei occhi, giovani con alle spalle decine e decine di denunce per furto, rapina, scippi, con l’unico scopo di trovare il denaro per farsi l’ennesimo buco e fuggire in un altro mondo. Li ho visti come zombie, con la mente obnubilata da pesanti dosi di metadone e psicofarmaci vagare con gli occhi vacui ed un volto senza espressione, li ho visti esplodere di rabbia per un nonnulla, li ho visti sporchi, trasandati persi nel loro mondo al contrario. Mi auguro veramente che ci sia un domani per loro, mi auguro che una mano caritatevole li aiuti ad uscire da quel labirinto infernale. Ci sarà un domani anche per gli ultimi, i dimenticati, i reietti della società. Persone senza famiglia, senza casa, senza futuro che vivono di espedienti. A volte travalicano le regole più per necessità che per altro. È diventato un detto comune ormai, “chi ruba una mela va in galera, chi ruba miliardi…”. Pensavo fosse una leggenda metropolitana, invece no, esiste. Per fortuna ci sono le associazioni di volontariato che svolgono una missione importantissima di assistenza, di sostegno, di vicinanza umana, a loro va il mio eterno grazie. Ci sarà un domani anche per le persone che purtroppo sono incappate in atti che ne hanno determinato l’infausta conseguenza. Persone normali, padri di famiglia, comuni cittadini, che nulla hanno a che vedere con l’istinto malversatore del criminale ma che, purtroppo si sono trovati a commettere atti anche gravi generati in un momento di follia, di rabbia cieca. Liti tra marito e moglie, tra fratelli, addirittura con i genitori. Raptus improvvisi che trovano sfogo dopo mesi e anni di sofferenze nascoste, di incomprensioni, che all’improvviso fanno esplodere tutta l’acrimonia celata con effetti devastanti. Certamente ci sarà un domani anche per loro, ma essi dovranno affrontare una doppia espiazione, la prima riguarda il conto interminabile delle ore dei giorni, dei mesi, degli anni che li separano dalla libertà, la seconda, forse la più dolorosa, è la “ revisione critica” che dovranno intraprendere con la propria coscienza. Un percorso difficile che porterà a meditare, ricordare, rivivere ogni minuto con lapalissiana mestizia il motivo che ha generato quell’evento per poi pensare, analizzandosi nel profondo, che si sarebbe potuto evitare, che sarebbe bastata una parola in meno, che sarebbe bastato abbassare l’asticella che ci sarebbero state mille altre soluzioni, L’uomo per sua stessa natura è un essere imperfetto ed è per questo motivo che chiunque, anche il più specchiato e morigerato potrebbe incappare in un errore fatale. Credo pertanto che ci sia un domani per tutti perché tutti hanno il diritto di avere una seconda possibilità. In quelle mura, dietro quelle sbarre ci sono persone, esseri umani che hanno un cuore, un’anima, esseri pensanti e senzienti. Odio le frasi fatte, le dicerie da cortile: “se stanno in galera è perché se lo meritano e io butterei via la chiave”. Quante volte le abbiamo sentite. Se stanno in galera è perché qualcosa avranno fatto, e ciò è stabilito da qualcuno che “oltre ogni ragionevole dubbio” ne ha decretato il destino, ma questo non deve permettere di relegare queste persone che hanno certamente sbagliato ad essere bollati come scarti della società, a persone da accatastare come animali in celle invivibili, lasciati a galleggiare in uno stagno immobile che divora dignità e sentimenti. Ci sarà, e ci sarà sempre un domani per tutto il personale di sorveglianza che svolge un compito difficilissimo, chiamati giustamente a far rispettare le regole in una realtà dove la macchina della giustizia sforna ogni giorno nuovi “ospiti” e a loro spetta l’ingrato compito di gestire persone dalle più disparate culture, con pochi strumenti e carenza di personale. Ma dall’altra parte delle sbarre ho visto, conosciuto e parlato con uomini che fanno il loro lavoro con dedizione, con impegno e professionalità lasciando ampio spazio anche a doti di innata umanità. Cara coscienza, ho conosciuto un mondo diverso, ho sofferto molto, sono passato tra le forche caudine che hanno demolito la mia dignità di uomo ma ho avuto il tempo di pensare, ho avuto il tempo di riflettere nel profondo e uscirò da qui molto più arricchito, molto più sensibile. Tutto questo mi aiuterà a vedere la società civile da un’altra prospettiva, meno cinica, più umana. Ddl Sicurezza, Governo bocciato dai professori di diritto penale di Angela Stella L’Unità, 5 ottobre 2024 I giuristi: “Opera in funzione essenzialmente simbolico-comunicativa, senza che ciò significhi assicurare strumenti più efficaci nella tutela della sicurezza”. A bocciare il ddl sicurezza, al momento in discussione nella commissione del Senato, ci ha pensato anche l’Associazione italiana dei professori di diritto penale. In un documento diffuso ieri, i giuristi, presieduti da Marco Pelissero, sostengono in premessa che “le norme che intervengono in materia penale sono espressione di un ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica che, assunta ad oggetto diretto della tutela penale, implementa una linea di politica criminale che prosegue quella già tracciata dall’avvio della legislatura”. Poi delineano alcuni punti di particolare criticità. Il primo: “il disegno di legge inasprisce il trattamento sanzionatorio di alcuni reati a tutela delle forze dell’ordine (violenza, resistenza, lesioni personali)” “ribadendo ancora una volta l’illusoria vocazione general-preventiva, secondo la quale all’aumento delle pene edittali corrisponda una maggior efficacia deterrente dei precetti”. Inoltre “desta forti preoccupazioni l’utilizzo dello strumento penale in funzione repressiva in contesti complessi che distolgono l’attenzione rispetto ai fattori economici e sociali che proprio in quei contesti interagiscono. L’introduzione di un nuovo reato, al fine di contrastare il pur deprecabile fenomeno dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui, interviene su situazioni di marginalità sociale che si vorrebbero affrontare inasprendo la disciplina penale vigente che già oggi, peraltro, consente di sanzionare alcune delle condotte toccate dal disegno di legge”. Ugualmente, “l’inasprimento delle pene nel delitto di accattonaggio (reclusione da uno a cinque anni invece della reclusione fino a tre anni), finisce per avere effetti pesanti su contesti sociali connotati da povertà”. Per gli esperti poi l’”ampliamento e inasprimento del controllo penale intervengono anche in relazione alla repressione di forme di manifestazione del dissenso”. Come è noto la trasformazione della condotta di blocco stradale si trasformerebbe da illecito amministrativo a delitto, con un consistente aumento di pena, se il fatto è commesso da più persone riunite; c’è altresì l’introduzione della circostanza aggravante dei delitti di violenza o resistenza a pubblico ufficiale, quando i fatti sono commessi “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”. Per i professori di diritto penale se è vero che “In un contesto democratico, il dissenso può talvolta esprimersi attraverso condotte violente che integrano fattispecie di reato e in quanto tali vanno represse” tuttavia “contrasta con i principi del diritto penale del fatto e di offensività la repressione più severa di reati solo perché alla base hanno una motivazione di contestazione politica”. Quanto alle scelte di incriminazione, “non può che esser espresso un giudizio fortemente critico sulle due nuove fattispecie di rivolta, rispettivamente nel contesto degli istituti penitenziari e dei centri di permanenza e rimpatrio per immigrati irregolari”. Il testo approvato dalla Camera dei Deputati attribuisce poi rilevanza anche alle condotte di resistenza passiva. “Si tratta - si legge ancora nel documento - di una pericolosa estensione del controllo penale che finisce per coprire anche le condotte di resistenza passiva, incriminando così ogni atto di ribellione, non connotato da violenza o minaccia - quali, ad es., il rifiuto del cibo o dell’ora d’aria - ma che impedisca il compimento di atti d’ufficio di gestione dell’ordine e della sicurezza (terminologia amplissima, che può includere qualsiasi ordine impartito ai detenuti)”. Il giudizio negativo “si aggrava quanto più si considera la situazione emergenziale di sovraffollamento nei centri per migranti e nelle carceri che la l. 8 agosto 2024, n. 112 di conversione del d.l. n. 92/2024 su “Misure urgenti in materia penitenziaria” non ha affatto contribuito ad allentare”. Nel complesso, conclude il direttivo “le norme del disegno di legge che intervengono sulle disposizioni penali destano forte preoccupazione, in quanto l’ampliamento del ricorso al diritto penale confligge con i principi di proporzionalità e sussidiarietà ed opera in funzione essenzialmente simbolico-comunicativa, senza che ciò significhi assicurare strumenti dotati di maggior efficacia nella tutela della sicurezza individuale e collettiva”. Consulta, la destra prova a fare da sola: “Martedì tutti in aula” di Andrea Carugati Il Manifesto, 5 ottobre 2024 Corte costituzionale Camere riunite per l’ottavo scrutinio per un giudice costituzionale. I messaggi ai deputati di Fdi, Lega e FI: “Presenza obbligatoria”. Tra i favoriti due nomi vicini a Fdi: Francesco Marini, padre del premierato, e Carlo Deodato, segretario generale di palazzo Chigi. La maggioranza punta a raccattare i 363 voti necessari per l’elezione senza coinvolgere le opposizioni. Un messaggio perentorio apparso ieri sui telefoni dei parlamentari di Fdi smuove la palude che dura ormai da 11 mesi sull’elezione del giudice mancante della Corte costituzionale. Le camere si riuniranno martedì alle 12.30 per l’ottava votazione, dopo sette andate a vuoto da novembre 2023, per rimpiazzare Silvana Sciarra. “Non sono ammesse assenze da parte di alcun deputato (vale anche per ministri, viceministri e sottosegretari)”, si legge nel messaggio partito dai vertici di Fdi. “Eventuali missioni - si precisa - vanno rimandate o annullate” e così anche “eventuali impegni - istituzionali e/o politici - già assunti”. Vista l’aria che tira sui treni, con ritardi record, si raccomanda di “organizzare il viaggio in modo di essere presenti alla Camera con largo anticipo”. Stavolta meloni sembra fare sul serio, dopo 11 mesi di melina: sulla carta il centrodestra potrebbe avere i tre quinti dei componenti di Camera e Senato necessari per eleggere il giudice, dunque 363. Fdi, Lega, Forza Italia e Noi Moderati ne sommano infatti 355, cui potrebbero aggiungersi i sei deputati delle minoranze linguistiche e qualcuno di quelli che hanno appena lasciato Azione e Iv, da Carfagna a Gelmini e Versace e altri dei gruppi misti. Quota 363 dunque è teoricamente raggiungibile, ma molto difficile: c’è sempre una quota fisiologica di assenti e il voto è segreto. I nomi che circolano a Montecitorio sono quelli del costituzionalista Francesco Saverio Marini, consigliere di Meloni e padre della riforma sul premierato, e di Carlo Deodato, segretario generale della presidenza del Consiglio. Nomi di fiducia della premier, e dunque difficilmente in grado di ottenere voti fuori dal perimetro della maggioranza. Nei prossimi giorni potrebbe dunque spuntare qualche altro nome finora coperto e in grado di pescare anche tra le fila delle opposizioni. “L’accordo sul nome c’è per cui c’è bisogno del voto di tutti anche di chi ha il diritto alla missione”, il messaggio arrivato ai parlamentari della Lega. Finora era parso che Meloni volesse attendere dicembre, quando scadono altri tre membri della Consulta, il presidente Augusto Barbera e i vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti. A quel punto il Parlamento potrebbe procedere all’elezione in blocco di 4 giudici, uno per ogni partito di maggioranza, lasciandone uno alle opposizioni. L’accelerazione fa pensare che invece la premier voglia tentare di mettere a segno almeno una nomina prima del 12 novembre, quando la Corte sarà chiamata a esaminare i ricorsi di 4 regioni contro l’autonomia differenziata, a partire da quelli di Toscana e Puglia. Difficile che si tratti di un improvviso soprassalto di responsabilità istituzionale, visto che da mesi il presidente della Repubblica definisce la mancata nomina del giudice mancante “un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento” e non smetta di invitare garbatamente il Parlamento ad adempiere ai suoi doveri. In casa Pd l’accelerazione è arrivata del tutto inaspettata. I dem affermano che da parte della maggioranza non è stato proposto alcun dialogo per un nome condiviso, nonostante la Costituzione abbia previsto un quorum così alto proprio per evitare nomine di parte. Né risultano accordi con altre forze di opposizione. La chiamata via whatsapp è arrivata anche ai parlamentari di Forza Italia. Anche in questo messaggio si lascia intendere che l’accordo in maggioranza +è stato trovato, dunque si chiede una “presenza inderogabile” e il “massimo sostegno per arrivare al quorum prescritto”. La maggioranza accelera sul nuovo giudice della Consulta. Marini e Deodato favoriti di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 5 ottobre 2024 “Evitate missioni e altri impegni di ogni genere. Presenza inderogabile”, è il messaggio recapitato dai leader di governo ai propri parlamentari, annunciando che l’intesa sul nome è stato trovato. Martedì il Parlamento in seduta comune proverà a elegge il nuovo giudice della Corte costituzionale. In pole position due nomi vicini alla premier Giorgia Meloni. Salgono le quotazioni di Francesco Saverio Marini, soprattutto, e di Carlo Deodato. Dopo mesi di stallo, l’accelerata sul nuovo giudice della Corte costituzionale è arrivata ieri: “Colleghi per il voto di martedì evitate missioni e altri impegni di ogni genere”. A colazione squilla il telefono dei parlamentari di maggioranza, dai piani alti arriva l’ordine di scuderia. Lo manda Fratelli d’Italia, ma arriverà anche agli alleati. “I leader della coalizione hanno deciso di esprimere una indicazione che dovrà avere il massimo sostegno per arrivare al quorum prescritto. Seguiranno i dettagli. Nell’attesa va confermata la presenza inderogabile”. Martedì prossimo, alle ore 12,30, è infatti convocato il Parlamento in seduta comune per l’elezione del quinto giudice della Consulta, di indicazione parlamentare. Casella rimasta vacante dopo la fine del mandato di Silvana Sciarra. Sarà l’ottavo scrutinio, per una nomina che si trascina ormai dallo scorso dicembre e sulla quale era intervenuto anche Sergio Mattarella: “Invito con garbo, ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice”, fu il monito del presidente della Repubblica lo scorso luglio. Necessario un quorum di garanzia alto, tre quinti dei parlamentari (per i primi tre scrutini bisognava raggiungere i due terzi). Questa volta potrebbe dunque essere quella buona, la maggioranza a trazione meloniana può farcela (quasi) da sola, dopo i numerosi tentativi andati a vuoto. Rispetto ai precedenti infatti lo scenario in Parlamento è cambiato: dall’inizio della legislatura (nella prima fiducia i sì al governo furono 236 alla Camera e 115 al Senato) la maggioranza si è ingrossata, con quasi una decina di parlamentari in più, grazie agli arrivi di ex calendiani, di ex grillini e non solo. Questo permetterebbe di superare l’impasse dovuta al mancato accordo con le opposizioni, rendendo l’obiettivo alla portata. Per mettersi al riparo da defezioni e brutte sorprese, qualche piccola sponda dovrà essere probabilmente trovata anche tra i parlamentari di minoranza. Si vota a scrutinio segreto e ieri dalla maggioranza emergeva un cauto ottimismo. I due nomi principali che si sono fatti strada nelle ultime ore sono quelli di Francesco Saverio Marini e Carlo Deodato. Il primo, favorito, è il figlio di Annibale Marini, giurista vicino ad Alleanza nazionale e già presidente della Corte costituzionale tra il 2005 e il 2006. Francesco Marini è considerato da molti come il cervello dietro alla riforma più cara a Meloni, il premierato. Il costituzionalista figlio d’arte, consigliere giuridico del governo, ha affiancato la ministra Elisabetta Casellati nei tavoli con gli altri partiti e si è occupato della stesura di alcuni articoli del testo di legge. E’ insomma uno dei principali artefici della “madre di tutte le riforme”. L’altro profilo preso in esame è quello di Carlo Deodato, che a Palazzo Chigi è di casa, essendo dall’ottobre 2022 segretario generale della presidenza del Consiglio. Prima aveva ricoperto lo stesso incarico alla Consob. E’ stato inoltre magistrato ordinario e presidente di sezione del Consiglio di stato. Nelle trattative sarebbero emersi, e poi lasciati cadere per varie ragioni, anche i nomi di Bernadette Nicotra (consigliera togata del Csm), Ginevra Cerina Feroni (attualmente vice dell’autorità Garante della privacy ed editorialista di vari quotidiani, tra cui il Giornale) e infine Massimo Luciani (costituzionalista a cui Marta Cartabia affidò la riforma del Csm), gradito alle opposizioni. Ma la sensazione è che alla fine la scelta ricadrà su uno dei due profili più vicini al governo. Una mossa che potrebbe tornare utile all’esecutivo anche in vista dei prossimi passaggi che a breve coinvolgeranno la Corte. Per esempio quello sull’Autonomia differenziata, dopo che Puglia, Sardegna, Campania e Toscana (guidate dal centrosinistra) hanno impugnato la legge Calderoli. Tutto lascia quindi pensare che martedì arriverà finalmente la fumata bianca. Anche perché, oltre a Mattarella, una forte sollecitazione è arrivata pure da Augusto Barbera, l’attuale presidente della Consulta. Barbera è stato eletto nove anni fa, il suo mandato scade a dicembre, così come per altri due giudici Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Il Parlamento sarà chiamato quindi di nuovo a riunirsi tra pochi mesi, ma è probabile che in questo caso si proceda in maniera più spedita. Con tre nomine in gioco sarà teoricamente più facile trovare un accordo con le opposizioni, in una sorta di spoils system che dovrebbe garantire la rappresentanza di sensibilità diverse. O almeno così si spera. Caso Uss, il Csm assolve i giudici: “Nessuna grave negligenza” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 ottobre 2024 Il ministro Nordio li incriminò per i domiciliari concessi all’imprenditore, poi fuggito. Il contenuto di una motivata decisione giudiziaria, giusta o sbagliata che a posteriori il governo la ritenga, non può dare luogo a responsabilità disciplinare dei giudici che l’hanno adottata, come invece per la prima volta il ministro Carlo Nordio aveva chiesto quando aveva fatto mettere sotto processo disciplinare i tre giudici della Corte d’Appello milanese Monica Fagnoni, Micaela Curami e Stefano Caramellino (assolti venerdì dal Consiglio Superiore della Magistratura) per la loro asserita “grave e inescusabile negligenza” in una ordinanza: quella che il 25 novembre 2022 concesse gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico al 40enne imprenditore russo Artem Uss, fermato il 17 ottobre a Malpensa su richiesta americana di estradizione e nell’attesa trattenuto in carcere 40 giorni prima dei domiciliari, dai quali dopo 4 mesi evase grazie a un commando dell’Est di cui l’inchiesta del pm Giovanni Tarzia ha individuato sei membri (tre hanno patteggiato). Il ministro contestava all’intero collegio (altra prima volta) di aver deciso “senza prendere in considerazione” circostanze che, indicate nel parere contrario del 21 novembre 2022 della procuratrice generale milanese Francesca Nanni, “se opportunamente ponderate, avrebbero potuto portare a una diversa decisione”. Già solo la lettura dell’ordinanza, tuttavia, mostrava come i tre giudici non le avessero ignorate ma bilanciate con altre prodotte dalla difesa, concludendo che il pericolo di fuga di Uss fosse concreto ma arginabile aggiungendo ai domiciliari la (ritenuta) sicurezza del braccialetto elettronico. A chi lo tacciava di utilizzare in via strumentale una contestazione disciplinare per tentare di condizionare l’esercizio della giurisdizione, Nordio aveva assicurato solennemente che si sarebbe comunque attenuto all’istruttoria della Procura generale di Cassazione: poi però quattro mesi fa, di nuovo esercitando una facoltà di legge raramente utilizzata, aveva disposto ugualmente il rinvio a giudizio disciplinare dei tre giudici davanti al Csm benché il pg di Cassazione, Luigi Salvato, avesse invece proposto l’archiviazione: per il pg e la sua sostituta Mariella De Masellis l’ordinanza era stata “sintetica”, ex post magari anche “criticabile” perché “non compiutamente ragionevolmente attenta al complessivo contesto” e “non implausibilmente viziata” nell’apparato motivazionale, ma “resa nel perimetro” di legge e “sufficiente ad escludere” nei tre giudici quella “grave inescusabile negligenza” unica possibile fonte di responsabilità disciplinare in una decisione. Tanto più che - ha ripetuto la pg di Cassazione ieri - nei 4 mesi successivi il ripristino cautelare del carcere non venne chiesto neanche dal Guardasigilli, che pure ne avrebbe avuto il potere a dispetto dell’opposta tesi esposta da Nordio in Parlamento. Vicenza. Lo arrestano con l’accusa di stalking: ritrovato morto in cella a 24 anni di Barbara Todesco Corriere del Veneto, 5 ottobre 2024 Aperta un’inchiesta sulle cause, probabile suicidio. In cella con lui un altro detenuto di Bassano e recluso in carcere con l’accusa di stalking dopo che per giorni aveva perseguitato una ragazzina con cui aveva avuto una breve relazione, inondandola di telefonate piene di insulti e minacce. “Se ti trovo te la faccio pagare” aveva continuato a ripetere per giorni alla sua giovanissima ex, che non aveva mai trovato la forza di denunciare le angherie a cui era sottoposta da quando la loro storia era finita. L’aveva “bombardata” di telefonate per giorni, minacciando lei e la sua famiglia. Fino allo scorso lunedì quando qualcosa è cambiato: l’uomo l’aveva raggiunta e fermata alla stazione dei treni di Bassano arrivando a sputarle in faccia. Solo l’intervento di un passante è riuscito a metterlo in fuga, consentendo alla ragazzina di rifugiarsi a casa. Per il suo persecutore, però, non era ancora abbastanza. E nel giro di pochi minuti ha ricominciato con le telefonate e le minacce tanto da arrivare a convincerla che era arrivato il momento di chiedere aiuto alla polizia. Quando gli agenti del commissariato sono arrivati, hanno trovato il ventiquattrenne che gironzolava attorno alla casa della ragazza in sella alla sua bicicletta. Fermato, dopo un tentativo di fuga, è stato accompagnato al commissariato, dove è dato subito in escandescenze. Per questo era finito dietro le sbarre. Pochi giorni dopo il tragico epilogo per questo ragazzo già con precedenti specifici. Con la morte del ventiquattrenne salgono così a nove i decessi avvenuti in cella della nostra Regione dall’inizio dell’anno. Il detenuto che si è tolto la vita nelle scorse ore al Del Papa, con i suoi 24 anni, è la vittima più giovane. Nei primi nove mesi di questo 2024, stando al triste conto tenuto dall’associazione “Ristretti Orizzonti” sono state 74 le vittime dietro le sbarre. Già 4 in più rispetto all’intero 2023. Quella delle morti in prigione nel corso degli anni è diventata una vera e propria emergenza. Sovraffollamento, carenza di supporto psicologico e in alcuni casi anche medico sono solo due delle principali cause di un fenomeno in continuo aumento. “Da parte mia non posso che esprimere la piena solidarietà ai famigliari dell’ennesima vittima delle nostre prigioni”, ha commentato Leo Angiulli, segretario nazionale dell’Unione Sindacale di Polizia Penitenziaria che ha sottolineato come di frequente, anche quest’anno, gli agenti siani riusciti a sventare molteplici tentativi di suicidio. “Da parte nostra c’è il massimo impegno a garantire l’incolumità dei detenuti - sottolinea - e spesso anche a rischio della nostra stessa salute: accade di frequente, infatti, che per prestare soccorso ad un carcerato che minaccia di compiere un gesto estremo i nostri agenti diventino essi stessi vittime di aggressioni personali”. “Le visite ricevute nei mesi scorsi da Papa Francesco, che nei suoi viaggi in Veneto ha portato la propria vicinanza ai carcerati di Venezia e Verona - continua Angiulli - dovrebbero essere d’esempio anche al mondo della politica, che dovrebbe impegnarsi in prima linea per risolvere il primo problema del nostro sistema penitenziario: quello del sovraffollamento. I nostri penitenziari - conclude - dovrebbero essere palazzi di vetro, solo così forse si potrebbero comprender davvero le difficoltà oggettive che i nostri agenti affrontano ogni giorno”. Asti. “Nel carcere situazione migliore ad altre strutture, ma pesa una mancanza regolare del Serd” di Giulia Marro lavocediasti.it, 5 ottobre 2024 La Consigliera regionale di Avs (Alleanza Verdi Sinistra) Giulia Marro ha recentemente effettuato una visita ispettiva alla casa circondariale di Asti, rivelando una situazione complessivamente migliore rispetto ad altre strutture, ma non priva di criticità. Tra i punti di forza emergono le condizioni di vita dei detenuti e la qualità dell’edificio, mentre le principali problematiche riguardano la carenza di personale del Serd e la scarsa presenza di opportunità lavorative per i detenuti. Quali sono state le sue impressioni principali dopo la visita alla casa circondariale di Asti? È stata la prima casa di reclusione che ho visitato, dopo aver visto diverse case circondariali. Le condizioni di vita dei detenuti e l’edificio sono migliori rispetto ad altre strutture visitate. Attualmente ci sono 143 detenuti più 16 in articolo 21. Quali criticità avete riscontrato? La criticità principale è la mancanza di una presenza regolare del Serd (Servizio per le Dipendenze) a causa di carenza di organico. Inoltre, il SERD non può prendere in carico detenuti senza residenza nella zona dell’istituto, creando problemi soprattutto per i detenuti fuori regione. Un’altra criticità è la scarsa presenza di aziende e cooperative che offrano formazione e lavoro ai detenuti. Ci sono stati miglioramenti nell’area educativa e sanitaria? Nell’area educativa abbiamo riscontrato un numero sufficiente di educatori, con attività positive. Anche l’area sanitaria riesce a rispondere alle esigenze, ma segnalano la problematica del SERD. C’è preoccupazione per l’invecchiamento della popolazione carceraria, che richiederà maggiore assistenza sanitaria in futuro. Qual è la situazione riguardo al personale di polizia penitenziaria? C’è una carenza di 20 agenti e 20 sotto ufficiali. La mancanza di sotto ufficiali preoccupa particolarmente la direzione, in quanto sono essenziali per formare i nuovi agenti. Dovrebbero arrivare nuovi sotto ufficiali, ma al momento sono bloccati in un progetto a Roma. Come si colloca Asti rispetto alle tensioni verificatesi in altre carceri italiane? Asti, essendo una casa di reclusione, non è stata particolarmente toccata dalle tensioni. Non ci sono state segnalate aggressioni, tentativi di suicidio o comportamenti autolesionisti dall’inizio dell’anno. Quali sono le vostre proposte per migliorare la situazione? Come gruppo Alleanza Verde e Sinistra, vogliamo lavorare per migliorare la presenza e il regolamento del Serd nelle carceri. Inoltre, proponiamo di creare una normativa regionale che uniformi l’uso dei farmaci e il trattamento delle problematiche di salute in tutte le carceri del Piemonte, per evitare disparità e tensioni quando i detenuti vengono trasferiti. Pisa. Durante l’emergenza Covid rissa in carcere e rivolta per i colloqui. Assolti otto detenuti di Mario Ferrari La Nazione, 5 ottobre 2024 Uno solo condannato per lesioni. Un agente della penitenziaria finì in ospedale. Inizialmente erano dieci sotto processo. Poi uno degli accusati fece il rito abbreviato in sede di udienza preliminare (assolto). Ieri mattina è terminato, davanti al collegio, il procedimento per la maxi rissa in carcere nei giorni tragici della primissima emergenza Covid. Era la sera del 9 marzo 2020, l’anno terribile. Volanti, gazzelle e mezzi della penitenziaria si riunirono davanti all’entrata della casa circondariale Don Bosco di Pisa. Un via vai di sirene in serata. Agenti e carabinieri furono impegnati nel bloccare la protesta, per fortuna sedata velocemente, che si sarebbe potuta allargare anche all’esterno. La rivolta, in quei giorni, era in corso in molti istituti nazionali, ma a Pisa fu subito stoppata. I detenuti, in lotta per i colloqui sospesi con i familiari e i permessi bloccati per l’emergenza Coronavirus, avevano bruciato anche alcuni suppellettili e della mobilia, in un solo blocco. La penitenziaria aveva evitato che la protesta si allargasse: un agente era rimasto però ferito ed era finito in ospedale. E, dopo un’ora circa, le forze dell’ordine erano rientrate. Al Don Bosco era arrivato anche l’allora questore Paolo Rossi che aveva parlato con il direttore della casa circondariale, all’epoca Francesco Ruello. Nella mattinata seguente, erano stati trasferiti a Pisa alcuni detenuti provenienti dagli istituti in tutta Italia dove c’erano state vere rivolte per le misure stringenti fino al 23 marzo a causa del Coronavirus e per il sovraffollamento: alcuni chiedevano l’amnistia. Nel pomeriggio era stato in visita nel carcere pisano anche il garante in carica 4 anni fa, l’avvocato Alberto Marchesi. I detenuti - difesi dagli avvocati Sara Baldini, Roberto Nocent, Massimo Gaetano Marrara, Laura Filippucci, Massimiliano Calderani, Pierpaolo Santini, Gabriele Terranova, Alessandro Catarsi e Giovanni Merli - sono stati alla fine tutti assolti, uno soltanto è stato condannato per lesioni. Milano. “A San Vittore c’è un sovraffollamento del 200%, del 147% al Beccaria” milanotoday.it, 5 ottobre 2024 Il tesoriere dei Radicali, Filippo Blengino, ha visitato i due istituti penitenziari nella giornata di venerdì 4 ottobre. “Al Beccaria c’è un tasso di sovraffollamento del 147%, un dato record che simboleggia la gravità della situazione in cui versano i nostri istituti. C’è una preoccupante carenza di educatori: solo 9 in servizio su un organico previsto di 21.” Lo ha fatto sapere il tesoriere dei Radicali italiani Filippo Blengino che nella giornata di venerdì 4 ottobre ha visitato il penitenziario minorile milanese. “Il nuovo personale, dopo la sospensione degli agenti indagati per tortura, sta cercando di rilanciare un istituto che è stato colpevolmente abbandonato dallo Stato: mancano le comunità sul territorio e i percorsi alternativi”, ha rimarcato il tesoriere dei Radicali. Blengino è poi andato nel pomeriggio al carcere di San Vittore, dove ha riscontrato una situazione altrettanto drammatica. “È l’istituto penitenziario più affollato d’Italia, con un sovraffollamento che supera il 200%”, ha osservato. “Anche qui c’è una carenza di personale, ma soprattutto un disagio psichiatrico allarmante, e abbiamo visto numerose persone con tagli sulle braccia”, e per l’esponente dei Radicali Italiani questo quadro “è il fallimento dello stato di diritto e di una classe dirigente che ha completamente dimenticato l’emergenza carceri”. Bergamo. La lettera di Mattarella ai detenuti di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 5 ottobre 2024 “Il recupero della dignità dei detenuti, un’opportunità per ricostruire la loro esistenza”. La Garante dei reclusi in via Gleno, Lanfranchi, aveva scritto al Presidente informandolo sulla drammatica situazione del carcere. Il Capo dello Stato: sì alle iniziative per far comprendere agli studenti la dura realtà carceraria. La risposta è partita dal Quirinale, e porta con sé il messaggio di vicinanza del Presidente Sergio Mattarella: “Il Capo dello Stato segue con costante attenzione i temi relativi alla complessità della condizione detentiva, consapevole dell’importanza che nel nostro ordinamento assume il corretto recupero della dignità delle persone recluse, al fine di garantire loro un’opportunità di ricostruzione della propria esistenza, in attuazione della finalità rieducativa prevista dalla Costituzione”. È arrivato sino a Roma, alla Presidenza della Repubblica, l’appello di Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo, per tenere accesa una luce sulla realtà penitenziaria, in via Gleno come ovunque, in un periodo drammatico per chi vive il mondo-carcere. I numeri - La Casa circondariale di Bergamo - secondo dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 23 settembre - conta 575 reclusi per 319 posti disponibili, per un tasso d’affollamento - calcolato sulla base dei dati del ministero della Giustizia - ora al 180,3% contro il 167,4% di un anno fa. È il decimo tasso d’affollamento più alto nel complesso delle carceri italiane. Lanfranchi ha preso carta e penna e s’è rivolta alcune settimane fa direttamente a Sergio Mattarella, raccogliendo quotidianamente le voci e le testimonianze di detenuti, ma anche agenti e operatori del carcere, e condensandole in due pagine. Tra la garante e il presidente, tra l’altro, corre un’antica conoscenza: i due avevano condiviso i banchi della Camera dei deputati (Lanfranchi nel Pci, Mattarella nella Dc) durante la IX Legislatura. Nei giorni scorsi alla garante è giunta la risposta del Quirinale, attraverso una lettera firmata da Stefano Erbani, direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’amministrazione della giustizia, che riferisce il messaggio di Sergio Mattarella. La lettera della garante - “Le condizioni carcerarie - scriveva Valentina Lanfranchi a fine agosto nella missiva indirizzata al Quirinale - sono ovunque drammatiche. Non servono leggi che non affrontano i problemi reali, che non stanziano fondi, che parlano di sovraffollamento, di carenze di personale senza dare risorse concrete, reali, costruttive. Basti pensare, come esempio, che la Casa circondariale di Bergamo ha una capienza di 319 reclusi e ne ospita 578 (il dato era aggiornato al momento in cui è stata inviata la lettera, ndr). Noi, come volontari, educatori, agenti di polizia penitenziaria, facciamo il possibile, con molte iniziative e vicinanza, per supplire a questa situazione. Ma tutto questo non basta. Ogni mattina, quando entro nel carcere di Bergamo, temo di sentirmi dire che ci sia stato un suicidio (quest’anno finora non se ne sono verificati in via Gleno, ndr) o un’aggressione. Dobbiamo sperare di avere risposte costruttive. In attesa di tutto questo, cerchiamo almeno di far sentire la nostra vicinanza ai “cittadini” di questo “quartiere” della città dimenticato e abbandonato”. La garante ha inoltre illustrato a Mattarella alcune iniziative che fanno da “ponte” tra il territorio e la casa circondariale, dal lungo impegno di Carcere e Territorio - di cui Lanfranchi è presidente onoraria - all’esperienza del Consiglio comunale dei ragazzi di Gorle che ha incontrato più volte i reclusi. La risposta del Colle - Già a gennaio 2023 Lanfranchi aveva inviato una lettera a Carlo Nordio, allora da pochissimi mesi ministro della Giustizia, senza però ricevere risposte. La replica di Mattarella non s’è invece fatta attendere, e a circa un mese di distanza il Quirinale ha fatto avere un messaggio in cui si esprime la posizione del Capo dello Stato. Uno sguardo appunto di “costante attenzione ai temi relativi alla complessità della condizione detentiva” e alle criticità segnalate dalla garante, cui va “il sentito apprezzamento del Presidente della Repubblica per il costante impegno profuso in progetti finalizzati al recupero della legalità e al rispetto delle regole per una convivenza civile”. Quanto ai progetti legati al carcere, “in particolare - si legge nella parte finale della risposta - le iniziative che consentono agli studenti di apprendere le difficoltà delle condizioni carcerarie rappresentano una concreta occasione formativa e di riflessione” Genova. Il progetto musicale “Parole Liberate Volume 2” nato nelle carceri italiane genova24.it, 5 ottobre 2024 In occasione del Goa-Boa Festival 2024 giovedì 10 ottobre alle ore 21 alla Sala Mercato saranno in concerto Pivio, i Nuovo Normale e Marco Machera, autori di tre brani contenuti nell’album “Parole Liberate Volume 2”, realizzato con la partecipazione di Viadellironia, Andrea Chimenti & Giorgio Baldi, Bandabardò, Magicaboola Brass Band & Fabrizio Pocci, Max Bianchi, The Mastelottos, Morgan, Synaesthesia, Flavio Giurato - Featuring Nicola Distaso, Tony Levin, Pase & Alessandra Donati. Nel progetto realizzato con il sostegno della SIAE Società Italiana degli Autori ed Editori nomi molto noti ed emergenti hanno trovato un denominatore comune nell’impegno per la sensibilizzazione del pubblico sulle condizioni di vita nelle carceri italiane. Come afferma l’articolo 27 della Costituzione italiana, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dunque il carcere non è una discarica sociale. L’iniziativa è partita da un bando voluto dall’associazione Parole Liberate - Oltre il Muro del Carcere ed emanato dal Ministero della Giustizia, che ha proposto a detenute e detenuti delle carceri italiane di scrivere un testo destinato a diventare canzone grazie al contributo di importanti artisti della scena musicale italiana e internazionale. In questa edizione, che segue al successo ottenuto nel 2022, sono stati selezionati testi arrivati dalle carceri di Sollicciano (Firenze), Arezzo, Pisa, Perugia, Teramo, Reggio Emilia, Parma e Bari. Interverrà anche Paolo Archetti Maestri degli Yo Yo Mundi, già coinvolti nell’album “Parole Liberate Volume 1”, che regalerà al pubblico un inedito tratto dal suo primo disco da solista. Pivio, autore con Aldo De Scalzi di tante colonne sonore di successo (tra gli ultimi lavori del duo “Diabolik” dei Manetti Bros e “L’ultima volta che siamo stati bambini” di Claudio Bisio), torna ad esibirsi dal vivo dopo quattro anni d’assenza dal palco. Per l’occasione eseguirà per la prima volta dal vivo la canzone “Poesia Iran 2022”, scritta per “Parole Liberate”, insieme a sei brani tratti dagli abum “Cryptomnesia” (2020) e “Pycnoleptic” (2023). A questi si aggiungeranno tre inediti assoluti tratti dal suo prossimo disco “Misophonia”, che unito ai due precedenti va a completare una trilogia musicale dedicata alle percezioni sensoriali e al nostro difficile presente. Sul palco Pivio (voce, synt, percussioni), Adriano Arena (chitarra elettrica), Massimo Trigona (basso elettrico), Lorenzo Ottonello (batteria) e l’ensemble Progetto Ianua (Alessandro Alexovits al I° violino, Roberta Tumminello al II° violino, Ilaria Bruzzone alla viola, Arianna Menesini al cello). La scuola di cittadinanza per un milione di studenti: “Insieme per capire” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 5 ottobre 2024 Al via dall’8 ottobre l’iniziativa di Fondazione Corriere della Sera e Esselunga. Il presidente de Bortoli: “Ogni testimonianza educa al bisogno di diventare cittadini responsabili e attivi”. Testimoni in prima persona. Nell’impegno per fermare la violenza e ogni forma di odio, a cominciare da quello fatto di parole. Testimoni dell’orrore di ogni guerra ma anche delle esperienze di chi invece si sforza ogni giorno di costruire una cultura di pace, partendo da noi stessi. Testimoni come Liliana Segre, Fabio Fazio e Gino Cecchettin, e poi scienziati, scrittori, giornalisti, storici, psicologi. È la nuova edizione, promossa come sempre da Fondazione Corriere della Sera in collaborazione con Esselunga, del ciclo di incontri “Insieme per capire” che riparte l’8 ottobre e che dal 2018 a oggi ha coinvolto complessivamente un milione di interlocutori - in presenza e online - tra studenti e insegnanti. Una “scuola di cittadinanza”, la definisce il presidente della Fondazione Ferruccio de Bortoli. E sottolinea: “Sono molto più che semplici lezioni integrative di un corso di educazione civica, peraltro spesso residuale nei programmi scolastici. Sono eventi di testimonianza. Ovvero occasioni per gli studenti di vivere nelle parole di esperti e personaggi dell’attualità l’esigenza vitale di rispettare i diritti e di essere solidali, dunque cittadini responsabili e attivi”. L’iniziativa è rivolta a studenti delle superiori - sempre in orario scolastico - e si propone di approfondire temi legati alla cultura, alla convivenza civile, alla storia e all’attualità. Inizialmente si svolgeva in cinema e teatri di diverse città, poi con la pandemia sono partite le dirette streaming e quella che allora fu una scelta per necessità si è trasformata in opportunità di partecipazione da ogni parte d’Italia. Il programma (integrale con le modalità di prenotazione su fondazionecorriere.it, cliccando sul menù “Iniziative”) prevede quest’anno dodici appuntamenti tra ottobre e maggio: l’apertura tra una settimana esatta, martedì 8 ottobre, dedicata al tema “Le parole sono pietre” con un video-intervento della senatrice a vita Liliana Segre e una testimonianza di Giuseppe Antonelli - storico della lingua italiana all’Università di Pavia - sul significato e sugli effetti della “lingua dell’odio”, oggi più che mai di attualità. L’incontro successivo (25 ottobre) è uno spaccato proposto dalle giornaliste del Corriere Viviana Mazza e Marilisa Palumbo sull’”America al voto” e sulle incognite che riguarderanno comunque tutto il mondo a seconda della prossima vittoria (al 15 novembre manca poco) di Donald Trump o di Kamala Harris. Quindi un altro argomento oggi sempre più complesso, quello del rapporto tra “Informazione e cittadinanza” in calendario il 6 novembre per provare a costruire una mappa di orientamento in un mondo che - almeno in apparenza - di notizie e informazioni ci inonda senza sosta: salvo che è sempre più difficile capire cosa in quel mare è vero e cosa no. E a parlarne saranno Fabio Fazio con lo stesso de Bortoli, il quale tornando sulle peculiarità del ciclo nel suo complesso insiste: “Se da una parte sappiamo che esiste il programma scuola-lavoro come alternanza questa invece vuole essere una vicinanza. Tra scuola e società. E qui non è la società che va a scuola, ma la scuola che entra nella società: non quel modello di istruzione che mira a comprime concetti dentro una persona, ma al contrario l’idea etimologica di educazione che si propone di aiutare ogni persona a tirar fuori quel che ha dentro”. Gli incontri successivi: 14 novembre, “Il principio di uguaglianza nella Costituzione italiana” con Daria de Pretis, vicepresidente emerita della Corte costituzionale; 19 novembre, “Inside out. Riconoscere e comprendere le proprie emozioni” con lo psicoterapeuta Alberto Pellai e la psicopedagogista Barbara Tamborini; 28 novembre, sul tema dei “Confini” e dei paletti che mettiamo tra noi e gli altri, cin l’antropologo culturale Marco Aime; 21 gennaio 2025, a ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz, “Se questo è un uomo” con lo storico Marcello Pezzetti; 7 febbraio sul disagio giovanile, con il docente di psicologia Matteo Lancini; 12 marzo sul “Raccontare le guerre” con l’inviato del Corriere Lorenzo Cremonesi; infine il 3 aprile l’incontro con Gino Cecchettin, il padre di Giulia uccisa l’11 novembre 2023. Gli incontri “Insieme per capire” si inseriscono nel programma “Amici di scuola e dello sport” promosso da Esselunga, a partire dalle scuole per l’infanzia. Anche le idee ripugnanti hanno diritto di parola di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 5 ottobre 2024 Le opinioni che si vogliono esprimere, sia pure le più estreme, non giustificano il divieto. La Costituzione prevede solo la comunicazione alle autorità: non serve autorizzazione. Pone seri problemi il divieto posto dal questore di Roma alla manifestazione pro-Palestina programmata nell’imminenza del primo anniversario della strage compiuta da Hamas un anno fa. Problematico è sempre il divieto di una manifestazione garantita da una libertà costituzionale. La Costituzione stabilisce che “i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi”. Per le sole riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, “che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. E “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”. Non c’è dunque alcuna autorizzazione da chiedere, ma solo un dovere di preavvisare l’autorità, che organizzerà i necessari servizi di ordine pubblico e potrà vietare la manifestazione e il corteo negli stretti limiti ammessi dalla Costituzione. La ragione della manifestazione pubblica, le opinioni che vi si vogliono esprimere e lo stesso modo più o meno polemico ed estremo che si vuole adottare non legittimano un divieto da parte dell’autorità pubblica. La libertà di espressione, come quelle di riunione e di manifestazione, come ricorda la Corte europea dei diritti umani, “vale non soltanto per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o sono considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano lo Stato o una qualunque parte della popolazione. È questa un’esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non esiste società democratica”. Essa spetta anche agli eventuali contromanifestanti. La condizione è che il comportamento degli uni e degli altri sia “pacifico”, cioè non violento e non ponga a rischio la sicurezza o la incolumità pubblica. Ed è questa la questione su cui interviene l’autorità pubblica, con una previsione, che può indurla a vietare la manifestazione preannunciata. Valutazione delicata e difficile. Da un lato c’è una libertà fondamentale, il cui esercizio è pilastro della democrazia. Dall’altro ci sono le ragioni di sicurezza o incolumità pubblica. Come sempre quando si tratta di diritti o libertà fondamentali, questi vanno definiti estensivamente, mentre le eccezioni e i limiti vanno interpretati restrittivamente. Nel caso specifico il Tribunale amministrativo di Roma a cui si sono rivolti gli organizzatori chiedendo un provvedimento urgente di sospensione del divieto del questore, ha respinto la richiesta ritenendo che la valutazione fatta dall’autorità non sia “manifestamente irragionevole” e ha rinviato al 29 ottobre la discussione del ricorso nel merito. Intanto il divieto del questore resta operativo (e il controllo giudiziario sul suo fondamento sostanzialmente inefficace). Nel valutare il divieto va osservato che esso richiama il rischio di intervento di gruppi anche violenti, ma aggiunge che la manifestazione esprime una volontà celebrativa della strage del 7 ottobre. Una celebrazione ripugnante, ma che da sola non legittima il divieto del questore, poiché non spetta all’autorità pubblica sindacare e quindi censurare idee che non approva. Potranno darsi espressioni di odio antiebraico o di apologia dei delitti commessi in quella occasione: si tratta di reati che si devono perseguire nei confronti di chi li commette, ma la previsione che vengano compiuti non consente di per sé il divieto di una occasione collettiva di manifestazione. Il divieto è invece legittimo o addirittura doveroso da parte della autorità pubblica se (e solo se) vi sono “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Questi motivi spesso e anche nel caso specifico dipendono dalla previsione, derivante da esperienze del passato, di violenze commesse da gruppi c.d. antagonisti, che infiltrano le manifestazioni, subìti dagli organizzatori e dai partecipanti. Ma in questo modo le autorità di governo, almeno implicitamente, dichiarano di non essere in grado di fronteggiare il disordine e la violenza di quei gruppetti. Allo stesso tempo, se è il caso, esse approfittano del motivo (o pretesto) loro offerto da quei violenti per vietare una manifestazione del tutto lecita, ma che dispiace alle autorità di governo per ciò che vuole esprimere. E certo il divieto non esclude che si verifichino comunque scontri con la polizia, violenze, danneggiamenti. Quel divieto dovrebbe essere sentito da tutti come un fatto inquietante, suscettibile di rappresentare un precedente reiterabile in altre occasioni. Fatto salvo il rifiuto della violenza, la libertà di manifestare idee non riguarda solo chi vuole avvalersene, ma anche chi ha diritto di sentire le ragioni dei manifestanti, conoscerne il contenuto e essere informato su posizioni che, condivise o meno, sono comunque esistenti nella società e utili al dibattito pubblico. Tanto più quando, come in questo caso, sono in discussione gravissime questioni politiche e umanitarie. Migranti. Il degrado dei Cpr: un ragazzo è stato lasciato all’aperto col catetere di Marika Ikonomu Il Domani, 5 ottobre 2024 Un 22enne rientrato dall’ospedale è stato abbandonato in condizioni drammatiche. Il caso, segnalato ai pm e al garante, è arrivato alla Camera dei deputati. Era sera tardi quando l’avvocato Arturo Covella ha ricevuto la telefonata da un suo assistito rinchiuso nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, per raccontare quello che stava vedendo attraverso le sbarre della finestra della sua cella. Era il 28 settembre, un ragazzo di 22 anni di origine marocchina, appena rientrato dall’ospedale, era stato lasciato in mezzo al campo da calcio del centro, a dormire con un catetere su un materasso buttato per terra. Aveva chiesto di essere portato in un luogo riparato, dove poter mangiare e lavarsi. Si lamentava per il dolore, piangeva e i gestori del centro lo hanno lasciato all’aperto, sostenendo di non riuscire a trovargli un posto. Il clima in quei giorni era freddo e pioveva, non gli hanno fornito coperte e si è scaldato con quello che è riuscito a trovare, maglioni e asciugamani. “Praticamente gli hanno detto “muori qua”“, hanno raccontato i detenuti al telefono. “Ma i posti ci sono”, dice Covella, che ha assistito molte persone trattenute, “avrebbero potuto sistemarlo in infermeria o in luoghi che la notte non vengono utilizzati, come la sala per i colloqui con gli avvocati”. Covella è poi riuscito a visitare il ragazzo, che lo ha nominato suo difensore. “Abbiamo parlato poco perché non parla italiano e il gestore si è rifiutato di fornire un mediatore”, racconta. L’uomo non aveva più il catetere, ma aveva la pancia gonfia, perché non riusciva a urinare, e tagli evidenti sulle braccia. Nel momento in cui è entrato nel Cpr stava bene, hanno raccontato i trattenuti, e la sua condizione è peggiorata durante la detenzione. Il primo ingresso in ospedale è stato a causa di una caduta, spiega Covella, era riuscito ad andare sul tetto del modulo per protestare contro le condizioni del centro, e - la dinamica non è stata chiarita - è caduto. “Mi hanno ricontattato di nuovo i suoi compagni di modulo la sera di mercoledì”, continua l’avvocato, “la situazione era drammatica”. Ma per giorni nessuno è intervenuto e continua a essere considerato idoneo al trattenimento, anche se in base al regolamento devono essere individuate “eventuali condizioni di inidoneità alla permanenza”. Oltre alle segnalazioni dell’avvocato in procura e al Garante per i diritti dei detenuti, il caso è arrivato in parlamento. La deputata del Pd Rachele Scarpa il 4 ottobre ha depositato un’interrogazione per “denunciare una preoccupante ed emblematica situazione di negligenza sanitaria”. Il trattenuto “non sta ricevendo dal personale sanitario dell’ente gestore alcuna forma di assistenza”, si legge nel comunicato, “né tantomeno un’opportuna rivalutazione dell’idoneità al trattenimento”. E, aggiunge, il contesto del Cpr non garantisce un’adeguata mediazione culturale né “condizioni igienico-sanitarie idonee”, con il rischio di infezioni. Le sue condizioni rimangono critiche e, alla richiesta di Covella di avere la documentazione medica, l’ente gestore, Officine Sociali, si è opposto. “Si stanno violando tutti i diritti e le normative internazionali”, dice l’avvocato. La storia di questo ragazzo non è però un’eccezione, ma la regola nel Cpr di Palazzo San Gervasio e non solo, scrive Scarpa: le condizioni “sono degradanti, pericolose, inaccettabili”. “Una persona si è tagliata, una è salita sul tetto, il cibo puzzava”, ha denunciato un trattenuto. Nella stessa struttura, due mesi fa, è morto un ragazzo di 22 anni, Oussama Darkaoui. La procura sta indagando e l’inchiesta si aggiunge a un altro procedimento, a carico di una trentina di persone - tra cui un ispettore di polizia, medici e personale dell’ex gestore Engel - per frode nelle pubbliche forniture, abusi e maltrattamenti. Migranti. Centri di detenzione in Albania: tra ritardi e ambiguità giuridiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 ottobre 2024 Il centro di detenzione per migranti italiano, esternalizzato in Albania, avrebbe dovuto essere attivato lo scorso 20 maggio ma, a causa di continui rinvii, l’apertura è stata posticipata a giugno, luglio, agosto e ora è prevista per metà ottobre. I lavori al centro di Gjader - una spianata recintata da un muro e dotata di container sovrapposti - sono ancora in corso, mentre quello a Shengjin sarebbe pronto. Nonostante ciò, il progetto, dal costo di oltre 800 milioni di euro, incontra non solo ostacoli logistici, ma soprattutto giuridici. Tra profili di illegittimità e irragionevolezza, e a fronte dei continui ritardi nei lavori, in molti dubitano dell’effettiva attuazione del Protocollo Italia- Albania, firmato un anno fa. A sostegno di queste preoccupazioni, un sopralluogo giuridico condotto in Albania dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) ha confermato la possibile illegittimità di una detenzione generalizzata dei migranti sul territorio albanese. La questione di legittimità costituzionale dal lato albanese A Tirana, il principale tentativo di bloccare l’accordo è naufragato già a marzo, quando la Corte costituzionale albanese ne ha confermato la legittimità. A dicembre 2023, un gruppo di trenta parlamentari, supportato dall’Ombudsman, aveva infatti sospeso l’approvazione della legge di ratifica, sollevando dubbi sulla compatibilità del trattato con la Costituzione albanese. Le preoccupazioni principali riguardavano la possibile violazione dei diritti fondamentali e, soprattutto, la lesione dell’integrità territoriale dello Stato. Secondo gli oppositori, concedere a un Paese straniero, come l’Italia, la possibilità di esercitare giurisdizione su porzioni del territorio albanese avrebbe contravvenuto alla Costituzione, che richiede una procedura di approvazione speciale per questo tipo di decisioni. La Corte ha respinto queste obiezioni, affermando che la giurisdizione albanese continuerà a valere nei centri, coesistendo con quella italiana in materia di asilo. Pertanto, il Protocollo non comporterebbe una cessione di territorio, né in senso materiale né in senso giuridico. Tuttavia, la Corte ha chiarito che lo Stato albanese rimarrà responsabile per il rispetto di tutte le norme superiori al Protocollo, come la Costituzione e la Carta dei Diritti dell’Uomo. Ciò significa che la giurisdizione italiana all’interno dei centri potrebbe subire delle limitazioni qualora fossero in gioco i diritti fondamentali delle persone. Questa questione potrebbe diventare cruciale in vista dell’apertura delle strutture. L’accordo tra Italia e Albania prevede che i migranti soccorsi in mare dalle autorità italiane possano essere trasferiti in Albania per l’espletamento delle procedure di accoglienza e identificazione. A tal fine, sono stati individuati due siti: il porto di Shengjin e un’area nel comune di Gjader. All’interno di questi centri, costruiti su territorio albanese, le autorità italiane saranno competenti per l’ordine e la sicurezza, mentre quelle albanesi si occuperanno della vigilanza perimetrale e dei trasferimenti tra i due siti. Shengjin, una rinomata località turistica con hotel di lusso e spiagge attrezzate, ospiterà un centro di prima accoglienza all’interno del porto. Qui i migranti saranno identificati, sottoposti a screening sanitario e avranno la possibilità di presentare domanda d’asilo. Dopo il primo screening a Shengjin, i migranti dovrebbero essere trasferiti a Gjader, un piccolo paese nell’entroterra albanese, precedentemente sede di una base militare dismessa. Situato in una zona montuosa e scarsamente popolata, Gjader soffre di carenze infrastrutturali, come frequenti interruzioni dell’erogazione elettrica e l’assenza di un adeguato servizio di raccolta rifiuti. In quest’area sono in costruzione tre diversi centri di accoglienza per migranti: un centro di prima accoglienza da 880 posti per i richiedenti asilo, un centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) da 144 posti e un centro penitenziario da 20 posti destinato ai detenuti stranieri. Il centro di prima accoglienza, in particolare, è destinato ad ospitare i migranti sottoposti alla procedura di frontiera per un massimo di 28 giorni. Come ben sottolinea sempre l’Asgi attraverso il suo resoconto, le autorità competenti per l’esecuzione del Protocollo saranno quelle già operanti a Roma: Prefettura, Questura, Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Lazio. Le nuove disposizioni stabiliscono che le domande di protezione internazionale dovranno essere presentate alla Questura di Roma, dove un ufficio dedicato ne curerà l’istruttoria. Le decisioni verranno prese dalla Commissione territoriale della Capitale, presso la quale il ministero dell’Interno potrà istituire fino a cinque sezioni aggiuntive (art. 3 comma 1 L. 14/ 2024). Tuttavia, tali uffici, già sovraccarichi e con problematiche organizzative - basti pensare alle lunghe code davanti alla Questura per richiedere asilo - si troveranno a gestire un ulteriore aumento di lavoro, senza risorse adeguate. Il processo di richiesta di asilo, che comprende la presentazione della domanda in Questura, l’audizione davanti alla Commissione territoriale, la notifica dell’esito e l’eventuale ricorso in caso di diniego, dovrà essere completato in 28 giorni secondo la procedura di frontiera (art. 6- bis, comma 1, d. lgs 142/ 2015). In aggiunta, sia nei centri di Shengjin che di Gjadër verranno istituiti vari nuclei di supporto: uno per il coordinamento e raccordo sotto la Questura di Roma, uno di polizia giudiziaria, uno di polizia penitenziaria e un ufficio sanitario speciale per la sorveglianza sanitaria internazionale e la profilassi. Quest’ultimo dovrà operare in condizioni che rendono estremamente difficoltosa la gestione di emergenze sanitarie, dato l’assenza di strutture idonee e personale qualificato. Di fatto, gli ospedali albanesi saranno chiamati a gestire sia l’organizzazione logistica che il personale medico necessario. Rimangono irrisolte molte questioni, in particolare quella riguardante i rimpatri forzati. Nonostante un rapporto dell’Ahc (Albanian Helsinki Committee) menzioni dieci accordi di riammissione con Paesi terzi, nessuno ha ancora risposto alle richieste di collaborazione. Anche la tutela del diritto di difesa risulta incerta: la possibilità di udienze e collegamenti da remoto non garantisce piena efficacia, soprattutto considerando la posizione isolata di Gjadër, difficilmente raggiungibile e priva di strutture di supporto adeguate. Il rimborso di 500 euro per gli avvocati, previsto in caso di malfunzionamento del collegamento, copre a malapena le spese del viaggio, che richiede un’ora d’auto dall’aeroporto di Tirana e ulteriori 30 minuti per raggiungere Gjadër. Questi fattori sollevano dubbi sulla reale applicabilità del diritto di difesa, sancito dall’ordinamento italiano, e sulla possibilità di esercitare diritti fondamentali previsti dalle direttive europee, come il diritto di consultare un avvocato in tutte le fasi della procedura (Direttiva 2013/ 32/ UE, art. 12 par. 1 c). Non è ancora chiaro, inoltre, come verrà garantita l’identificazione delle vulnerabilità dei migranti, né chi sarà responsabile dell’accertamento dell’età per i minori stranieri non accompagnati o del riconoscimento delle vittime di tortura e tratta. Le procedure di frontiera, che verranno applicate nei centri albanesi, non dovrebbero essere adottate per minori o richiedenti asilo con esigenze particolari, ma il bando di gara per la gestione dei centri prevede comunque la presenza di donne e minori, implicando una violazione già preannunciata. In sintesi, il Protocollo e centri annessi rischiano di risultare non solo inadeguati ma anche potenzialmente illegittimi, con scarse garanzie per i migranti vulnerabili, i cui diritti sembrano essere messi in secondo piano rispetto agli obiettivi politici. Migranti in Albania, la Corte di giustizia europea censura i piani dell’Italia di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2024 Cosa dice la sentenza Ue e perché è un problema per il governo. Una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea rischia di mandare all’aria il piano dell’Italia, quello che intende portare in Albania i migranti intercettati nel Mediterraneo per sottoporli alle cosiddette procedure accelerate in frontiera per l’esame delle domande d’asilo. In base alla legge con cui il Parlamento ha ratificato il protocollo siglato con Tirana, nei centri albanesi sotto giurisdizione italiana saranno condotti solo cittadini provenienti da Paesi d’origine designati come sicuri. Ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, la normativa europea prevede che gli Stati membri possano stilare una lista di tali Paesi, quella che l’Italia ha aggiornato lo scorso 7 maggio con un decreto interministeriale. E proprio qui sta il problema. Perché la maggior parte dei Paesi che il governo italiano considera “sicuri” vedono l’esclusione di determinate aree o categorie di persone per le quali, mette nero su bianco il ministero degli Esteri, quei Paesi tanto sicuri non sono. Oggi la Corte Ue dice che non si può fare, che un Paese è sicuro per tutti o non lo è per nessuno. Chiarendo come debba essere interpretato l’articolo 37 della direttiva europea 2013/32 che regola la materia, e censurando di fatto la possibilità di trattenere, ai fini delle procedure accelerate, chi proviene da Paesi parzialmente sicuri, in Italia come in Albania. Dopo una serie di ritardi che hanno rinviato l’apertura dei due centri in Albania, prevista inizialmente per il maggio scorso, il governo ha assicurato che l’inaugurazione avverrà entro ottobre. Il centro di Gjader, che inizialmente potrà ospitare circa 800 persone, sarà dedicato alla cosiddetta procedura accelerata per l’esame delle domande d’asilo. Il trattenimento nel centro, dice la legge, deve essere convalidato entro 48 ore da un giudice, come già avviene in Italia con tanto di polemiche per le mancate convalide dei magistrati di Catania. Alle procedure, che rispetto a quelle ordinarie prevedono tempi ridotti e minori garanzie per il richiedente, potranno accedere solo uomini adulti originari dai Paesi “sicuri”. Oltre ad Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia, e Tunisia, il governo Meloni ha inserito quest’anno anche Bangladesh, Sri Lanka, Camerun ed Egitto, da cui provengono molti migranti che attraversano il Mediterraneo, ma anche Colombia e Perù. Secondo la direttiva europea 32/2013, “un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Tuttavia, come avviene anche in altri Stati Ue, il governo italiano ha designato come sicuri anche Paesi per i quali ha escluso alcune aree o categorie di persone. Le ragioni sono contenute nelle “schede paese” allegate al decreto interministeriale che designa i Paesi sicuri. Per la Tunisia, i cui cittadini sono al terzo posto per numero di sbarchi nel 2024, alla voce “eventuali eccezioni per parti del territorio o per categorie di persone” si legge: “Comunità LGBTQI+”. Perché, spiega la scheda preparata dalla Farnesina, “l’art. 230 del Codice penale sanziona rapporti omossessuali consensuali con tre anni di reclusione”. Sempre leggendo le schede dei Paesi da cui parte chi prende la rotta del Mediterraneo centrale, e quindi le persone che l’Italia vorrebbe portare nei centri in Albania, in quella dell’Egitto si scopre che il Paese non può considerarsi sicuro per “per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera e) del Decreto Legislativo 19 novembre 2007, n. 251?. Il Bangladesh: “Comunità LGBTQI+, vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, persone accusate di crimini di natura politica e ai condannati a morte. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”. Insomma, ad esclusione dei siriani, il cui Paese già non rientra nella lista del governo, tre dei quattro principali Paesi di origine dei migranti che attraversano il mare sono considerati “sicuri” in modo parziale. La prassi di escludere aree o categorie era contemplata dalla direttiva europea 85 del 2005, che però è stata abrogata dalla direttiva 32 del 2013, quella che attualmente regola la materia. Pronunciandosi sul ricorso di un cittadino moldavo che aveva chiesto protezione internazionale in Repubblica Ceca, la Corte di giustizia Ue ha chiarito come la direttiva va interpretata. Le autorità ceche avevano respinto la richiesta del cittadino moldavo tenendo conto, in particolare, del fatto che la Moldavia, ad eccezione della Transnistria, era stata designata paese di origine sicuro. I giudici di Lussemburgo hanno dichiarato che il diritto dell’Unione impedisce che uno Stato membro designi un Paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. Contro ogni ulteriore dubbio, la Corte cita il legislatore europeo che, abrogando la precedente direttiva, si pronunciò espressamente contro designazioni parziali e proprio per evitare l’abuso dell’esame accelerato delle domande d’asilo. “Interpretare l’articolo 37 della direttiva 2013/32 nel senso che consente ai paesi terzi di essere designati come paesi di origine sicuri, ad eccezione di alcune parti del loro territorio, avrebbe l’effetto di ampliare l’ambito di applicazione di questo particolare esame. Una siffatta interpretazione, non trovando alcun sostegno nella formulazione di questo articolo 37 né, più in generale, in questa direttiva, misconoscerebbe l’interpretazione restrittiva a cui devono essere sottoposte le disposizioni aventi carattere derogatorio”. Dunque, “è necessario che le condizioni materiali di tale designazione (dei Paesi di origine sicuri, ndr) siano soddisfatte per l’intero territorio del paese terzo interessato”. Lo stesso deve dirsi per l’esclusione di categorie di persone, contemplata nel 2005 e abrogata nel 2013 dallo stesso articolo 37 che, spiega oggi la Corte, non ammette interpretazioni estensive. Non solo. La Corte ha stabilito che il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di un atto amministrativo in materia di protezione internazionale, com’è il trattenimento ai fini delle procedure accelerate in frontiera, ha l’obbligo di rilevare d’ufficio una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di Paesi di origine sicuri. Una formula che legittima una volta per tutte il lavoro svolto anche dai giudici del Tribunale di Catania, vessati dal governo e dalla maggioranza per non aver convalidato il trattenimento per le procedure accelerate nel centro ragusano di Pozzallo. Non a caso, tra le ordinanze più recenti di Catania ce n’è una che solleva proprio la questione della designazione dei Paesi sicuri in merito al caso di un cittadino egiziano, e richiama due rinvii pregiudiziali pendenti presso la Corte di giustizia: quello del Tribunale di Firenze e quello del Tribunale di Brno (Repubblica ceca) sul quale i giudici europei si sono appena espressi. Insomma, i magistrati competenti, che nel caso dei trattenimenti in Albania saranno quelli del Tribunale di Roma, dovranno applicare la direttiva europea nel modo in cui la Corte ha stabilito. La Questura chiede la convalida del trattenimento di un cittadino tunisino per l’esame accelerato della sua domanda? Secondo i giudici europei, il giudice italiano non potrà che negarla, perché la Tunisia non può essere considerata Paese sicuro visto che non lo è per una parte dei suoi cittadini. Così per gli egiziani come per altri. Se l’Italia deciderà di portarli nei centri che sta ultimando in Albania, con tutta probabilità sarà costretta a imbarcarli nuovamente e portarli in Italia dove le loro domande verranno esaminate con procedura ordinaria e senza poterli trattenere. Certo, il governo obietterà che la nuova normativa del Patto migrazione e asilo approvata quest’anno dal Parlamento Ue contempla nuovamente la possibilità della designazione parziale, ma la formula è diversa e, secondo la Corte Ue, imporrà agli Stati membri una revisione delle designazioni. In ogni caso se ne riparlerà quando la riforma sarà operativa, nel giugno 2026. Fino ad allora, vale quanto detto oggi dai giudici Ue. Migranti. Piantedosi denunciato alla Cpi, ma rischiano anche Salvini e Minniti Vitalba Azzollini* Il Domani, 5 ottobre 2024 La Ong “Mediterranea” ha denunciato il Ministro dell’Interno alla Corte Penale Internazionale per un post su X in cui vantava la collaborazione con i Paesi di origine e transito dei migranti, che ha consentito di riportarne 16.220 in Libia. Si tratterebbe, in realtà, di respingimenti collettivi in Libia operati da milizie facenti capo ad autorità del paese nordafricano. Nel 2022, un’altra denuncia aveva coinvolto anche Salvini e Minniti. A volte, esponenti del governo cadono vittima della loro stessa propaganda. È quanto sta accadendo al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che qualche giorno fa, con un post su X, ha vantato il fatto che “16.220 i migranti diretti verso le coste europee” sono stati “intercettati in mare e riportati in sicurezza in Libia da gennaio a oggi” grazie alla “collaborazione dell’Italia con i paesi di origine e transito dei migranti (…)”. A seguito di questa dichiarazione - che ammetterebbe respingimenti collettivi in Libia, operati da milizie facenti capo ad autorità del paese nordafricano - la ong Mediterranea Saving Humans ha denunciato Piantedosi alla Corte penale internazionale (Cpi). “Essendo la Libia “posto non sicuro”“ - ha affermato la Ong in un comunicato - la “collaborazione ad attività di deportazione in quel paese” viola la convenzione di Ginevra sui profughi e rifugiati e quella di Amburgo sul soccorso in mare, e in particolare il principio che vieta di respingere persone in luoghi in cui esse rischiano maltrattamenti e lesioni dei diritti umani. Non è la prima denuncia di cui è destinatario Piantedosi, già coinvolto da una precedente insieme a Matteo Salvini e Marco Minniti, tra gli altri. La violazione di norme fondamentali del diritto internazionale, che si sostanzia nella grave privazione della libertà personale di migranti e rifugiati, bloccati in mare e poi rinchiusi in campi di detenzione libici, è qualificabile come crimine contro l’umanità, quindi tale da ricadere sotto la giurisdizione della Cpi. La Libia non è uno stato parte dello Statuto di Roma, istitutivo della Cpi, e pertanto sarebbe sottratta alla giurisdizione della Corte. Ma con la risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, adottata poco dopo lo scoppio della “rivoluzione” contro Gheddafi e il suo regime, l’Onu ha investito la Cpi della situazione in Libia. La risoluzione copre i crimini commessi dal 15 febbraio 2011 in poi. Già in passato, organizzazioni internazionali - come European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e Adala for All, StraLi, UpRights - avevano denunciato alla Cpi le operazioni, pur qualificate come atti di “soccorso in mare”, con le quali dal 2011 i migranti vengono intercettati nel Mediterraneo centrale, riportati in Libia e sottoposti a detenzione sistematica, tortura, omicidio, violenza sessuale, riduzione in schiavitù e altri atti disumani. In particolare, in una denuncia del 2022, relativa a fatti avvenuti tra il 2018 e il 2021, lo Ecchr parla di un piano comune tra attori libici e “funzionari di alto livello degli Stati membri e delle agenzie dell’Ue” per fermare i migranti in fuga con l’obiettivo di contenerli in territorio libico. Piano realizzato, da un lato, mediante il Memorandum d’Intesa con la Libia, firmato dall’Italia nel 2017 e successivamente rinnovato, e altri patti di cooperazione; dall’altro lato, attraverso “la fornitura di materiali, capacity building e supporto operativo, compresa la localizzazione di migranti e rifugiati in situazioni di pericolo in mare, ottenuta attraverso le attività di sorveglianza”. In altre parole, la denuncia si appunta sulla gestione dei flussi migratori affidata alla cosiddetta guardia costiera libica con l’assegnazione di finanziamenti, motovedette, attrezzature e altro, nonché con la partecipazione diretta di Stati membri a singole operazioni. Con riferimento all’Italia, sono indicati come “penalmente responsabili” ex ministri dell’Interno, Marco Minniti e Matteo Salvini, e un ex capo di gabinetto, Matteo Piantedosi. Secondo la denuncia, appare difficile sostenere che, al momento della conclusione degli accordi con la Libia, i soggetti coinvolti ignorassero il sistema di abusi cui i migranti sono sottoposti e, quindi, il fatto che il supporto finanziario, tecnico e tecnologico fornito alla Libia potesse agevolare la commissione di tali abusi. Le condizioni del trattenimento nei campi libici - tra sovraffollamento, cibo e acqua insufficienti, scarsissima igiene, oltre alla lesione di diritti - sono da tempo segnalate da organizzazioni internazionali (da ultimo, Amnesty International, “The State of the World”, 2024; Human Rights Council, “Report of the Independent Fact-Finding Mission on Libya”, 2023). Se è legittimo contenere i flussi migratori in entrata, di certo non lo sarebbe agevolare la commissione di crimini contro i migranti senza apparentemente sporcarsi le mani. Con le denunce alla Cpi - le quali paiono supportate anche da un recente report della Corte dei Conti Ue - il velo di ipocrisia potrebbe cadere. E con esso il vanto per la riduzione degli sbarchi realizzata grazie a certi accordi con paesi africani. *Giurista Nel mondo ferito dalle guerre ha ancora senso immaginare modi per costruire la pace di Mario Giro* Il Domani, 5 ottobre 2024 A Parigi più di 300 leader religiosi del mondo intero, assieme a Macron. Si parla di pace, ma anche dei problemi della vita del mondo e dei popoli. La guerra è un ingranaggio che manipola i leader e li condiziona. Immaginare la pace: questo il titolo dell’evento interreligioso che si è tenuto a Parigi dal 22 al 24 settembre, la 38ª edizione di un cammino intrapreso ad Assisi nel 1986 su impulso di san Giovanni Paolo II e proseguito dalla Comunità di Sant’Egidio ogni anno di città in città. Centinaia di rappresentanti di religioni e culture hanno dialogato e si sono incontrati per parlare di pace, per immaginare la pace. Si tratta di uno sforzo ancora rilevante in un mondo in cui le guerre sono in aumento? Questa è la domanda che si sono posti in molti: alcuni pensano che la soluzione delle controversie implichi necessariamente il conflitto; altri sottolineano il fallimento di numerosi negoziati e, in definitiva, della politica; altri ancora ritengono che si tratti di un impegno ingenuo di fronte a tanta violenza. Mai come ora dal 1945 le guerre sono state così numerose: 59, secondo gli istituti internazionali sui conflitti. Dentro tali cifre c’è un po’ di tutto: guerre tra stati; guerre civili; guerre interne con milizie; guerre per il controllo di un paese o causate dal suo disfacimento; guerre di religione o di etnia; guerre ideologiche; guerre umanitarie, guerre per le risorse e così via. In un’epoca di così tanti conflitti ha ancora senso parlare di pace? Chi lavora per la pace sa che si tratta di uno sforzo paziente e continuo, sia come diplomazia istituzionale che come mediazione non istituzionale svolta dalla società civile o dalle chiese. Nessuno ha l’esclusiva della pace e del dialogo: si tratta di una cultura trasversale che può vedere la luce in ogni civiltà e a ogni latitudine. La guerra non è selettiva e può divenire la realtà quotidiana di chiunque, anche di chi non se l’aspetta come gli europei che la credevano impossibile. Nessuno ne è immune. Lavorare per la pace può diventare una domanda permanente nella vita di credenti e laici preoccupati dal caos globale, un quesito rivolto anche alla cultura e alla politica per non lasciarsi trascinare dall’ingranaggio della contrapposizione e della logica del nemico. Ciò vale ancor di più per tempi bui come i nostri, nei quali pare che la guerra sia sdoganata come strumento per risolvere le controversie internazionali (o interne), cioè esattamente l’opposto di quanto è scritto nella costituitone italiana. Radunarsi dai quattro angoli del mondo per parlare di pace resta dunque molto utile: rafforza chi non cede al “pensiero unico bellicista” e va in cerca di soluzioni possibili e ragionevoli. Inoltre dimostra che la pace può essere un dono condiviso da tutti, non importa a quale religione o universo appartengano. Quando convocò le religioni mondiali ad Assisi nel 1986, l’idea del papa Giovanni Paolo II era di riappropriarsi del dossier della pace e proporre il modello cristiano delle transizioni pacifiche, come in effetti accadde nelle Filippine o in Cile ad esempio. La Santa Sede di papa Wojtyla si volle attiva sul terreno della mediazione ad esempio nel caso della trattativa per la contesa sul Canale di Beagle tra Argentina e Cile in cui il Vaticano arbitrò. Due secoli dopo la Rivoluzione francese il papa voleva affermare la possibilità di una rivoluzione pacifica, senza spargimenti di sangue, capovolgendo il modello. Desiderava anche strappare dalle mani della politica dell’Urss il concetto di pace, ampiamente sfruttato da Mosca durante la Guerra fredda. Ad Assisi disse: “La pace è nostra!”. Con quel gesto confermò l’autorità nella chiesa cattolica: con i papi del XX secolo la chiesa di Roma era diventata il garante della pace globale, come si vide con la contrarietà espressa nei confronti degli sforzi bellici anche in polemica con gli episcopati nazionali. I vescovi francesi, ad esempio, durante la Prima guerra mondiale si misero contro Benedetto XV che a Parigi la stampa etichettava come “Pilato XV”. Nel 1986 ad Assisi la pace fu definita “un cantiere sempre aperto che cerca i suoi artigiani”. La dimensione religiosa della pace si fuse con quella culturale e politica: la guerra divenne il nemico principale, cioè un ingranaggio che si impossessa della volontà dei leader e li manipola. Questi ultimi pensano di poter terminare i conflitti quando vogliono ma la storia delle guerre - anche recenti - dimostra che ciò è falso. Sant’Egidio ha voluto seguire tale cammino lavorando a numerose transizioni pacifiche e a mediazioni in conflitti violenti, ad iniziare dal Mozambico nel 1992. Gli incontri di dialogo interreligioso sono degli annual meeting che permettono di fare il punto e di approfondire tale visione. Tutti possono lasciarsi invadere dalle passioni, anche le religioni e i loro fedeli, così come possono lasciarsi influenzare dagli etnicismi, dai nazionalismi, dai bellicismi, dai fondamentalismi, dallo spirito di vendetta. Essere cristiani non garantisce l’immunità contro l’ebbrezza delle passioni. Lo spirito di Assisi è anche l’autodifesa delle religioni stesse contro tali tentazioni: supportarsi vicendevolmente per non cedere. A Parigi i leader religiosi, assieme ai laici e a politici, hanno parlato di tutto ciò che concerne la vita del mondo attuale: dalle guerre alla difesa dell’ambiente; dalla povertà all’intelligenza artificiale e così via. Al centro di tutto, la pace da immaginare che oggi sembra così sfuggente. Fin dalla sua nascita Sant’Egidio ha coltivato una speranza realistica e tenace: la pace è sempre possibile, ma occorre trovare i mezzi per realizzarla con pazienza, ricostruendo le fratture, creando un quadro di garanzie per il futuro, dimostrando che non c’è niente di peggio della guerra, dando uno sbocco al desiderio di pace dei popoli che spesso cadono ostaggi della cultura o propaganda bellica. Parlare di pace serve a rafforzare una cultura del dialogo con le altre religioni. Davanti alle terribili guerre in Ucraina, a Gaza o in Sudan, esiste la responsabilità di trovare le parole del futuro. Non si tratta solo di avere una posizione morale o di “testimonianza” sul valore della pace, ma di adoperarsi attivamente nelle situazioni di conflitto. Più che di pacifismo bisognerebbe parlare di pacificazione, dal momento che i conflitti esisteranno sempre ma si può evitare che diventino violenti. Occorre dar prova di fermezza davanti alle posizioni isteriche o ideologiche: parlare di pace è sempre utile, soprattutto quando c’è la guerra. È ciò che fecero i testimoni che continuarono a sperare anche nella notte buia della seconda guerra mondiale e della Shoà. Mai più la guerra! Fu il sogno di quella generazione che deve passare a quelle successive. *Politologo Medio Oriente. La scrittura, l’arma più resistente di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 5 ottobre 2024 Più forte di ogni violenza, di ogni arma è, anche adesso, la parola, la parola scritta e “resistente” - e non solo perché aspetto “della Resistenza” come Italo Calvino definiva la letteratura palestinese - che riannoda l’intera storia dell’oppressione. Il 5 settembre scorso il Consiglio di sicurezza Onu ha dato la parola a Yuli Novak esponente di B’Tselem, la storica organizzazione pacifista israeliana. Nel suo appassionato intervento ha tra l’altro dichiarato: “…Per comprendere la condotta criminale del governo israeliano negli ultimi undici mesi, bisogna capire l’obiettivo generale del regime. Sin dalla fondazione di Israele, la sua logica fondamentale è stata quella di promuovere la supremazia ebraica su tutto il territorio sotto il suo controllo. Questo è stato sancito come principio costituzionale sei anni fa. Le linee guida dell’attuale governo (Legge Fondamentale 2018) affermano che: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile a tutte le parti della Terra di Israele”“. E ha poi proseguito: “Nell’attacco criminale guidato da Hamas il 7 ottobre, sono stati uccisi 1200 israeliani e 250 sono stati presi in ostaggio. Da quel giorno, io e tutti gli israeliani che conosco viviamo in una profonda paura. Il governo sta sfruttando cinicamente il nostro trauma collettivo per portare avanti con violenza il suo progetto di consolidare il controllo israeliano su tutta la terra. Per farlo, sta conducendo una guerra contro l’intero popolo palestinese, commettendo crimini di guerra quasi quotidianamente. A Gaza - ha continuato -, questo ha assunto la forma di espulsioni, fame, uccisioni e distruzioni su una scala senza precedenti. Questo va oltre la vendetta: Israele sta sfruttando l’opportunità di promuovere un programma ideologico: rendere Gaza inabitabile… In Cisgiordania e, compresa Gerusalemme Est, il governo sfrutta le circostanze per creare cambiamenti irreversibili”, con centinaia di vittime e le aggressioni dei coloni “che attaccano i palestinesi e compiono pogrom in pieno giorno, con il sostegno del governo. Cacciate finora 19 comunità dalle loro case…”. Se la situazione è questa, ora anche in Libano, se la riduzione del mondo ai rapporti di forza dice che quel che ha cittadinanza e valore non è il vivente ma quello che alla morte più si approssima, vale a dire la guerra, quale resistenza da parte dei palestinesi - perché dalla loro sicurezza dipende quella degli israeliani - si può opporre a una violenza che moltiplicherà le sue trame nella memoria e negli occhi dei bambini inconsapevoli di fronte alle rovine e ai corpi dilaniati? Più forte di ogni violenza, di ogni arma è, anche adesso, la parola, la parola scritta e “resistente” - e non solo perché aspetto “della Resistenza” come Italo Calvino definiva la letteratura palestinese - che riannoda l’intera storia dell’oppressione che i palestinesi, il popolo dei campi profughi a casa loro, subisce da più di 70 anni. Alla quale si è opposta con rigore anche una scrittura letteraria, poco conosciuta, con straordinari protagonisti come il poeta Mahmud Darwish e lo scrittore Gassan Kanafani, ma che in questi ultimi anni, con molti nuovi giovani autori - tanti uccisi sotto le bombe a Gaza come lo scrittore Refaat Alareer e la poetessa Hiba Abu Nada - , si è rinnovata e arricchita nella forma e nei contenuti, così da assumere l’intero carico della condizione umana universale, degli ultimi, dei deboli e dello stesso nemico, trasfigurandola in nuove modalità, misura e creatività. Conoscerla, diffonderla, viverla vuol dire testimoniare questa, forse, unica resistenza rimasta: l’amore non sradicabile per una terra che invece genera odio e distruzione - “la terra più amata” appunto, (come l’antologia della Manifestolibri). Nel dettato dei versi di Mahmud Darwish: “Abbiamo un paese che è di parole/ E tu parla, ch’io possa fondare la mia strada su pietra di pietra./ Abbiamo un paese che è di parole,/ e tu parla, così da conoscere dove abbia termine il viaggio”.