Carceri, Forza Italia avanti con prudenza: “Presto l’indagine parlamentare” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 4 ottobre 2024 “Con questa iniziativa, Forza Italia si prende un metro di vantaggio su tutti gli altri nella ricerca di soluzioni reali per il pianeta carcere”. Così Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, spiega al Dubbio la ratio della richiesta alla commissione Giustizia di Montecitorio, da parte dei membri azzurri, di un’indagine conoscitiva sullo stato degli istituti di pena del nostro paese, annunciata ieri mattina in conferenza stampa dal segretario del partito Antonio Tajani assieme a lui e ad altri esponenti di Fi. L’annuncio è arrivato nel quadro di un riassunto degli esiti della campagna estiva di visite ai penitenziari, fatte da numerosi parlamentari, che avevano preannunciato, al termine delle stesse visite, una serie di richieste da sottoporre all’attenzione degli alleati per incidere e invertire una tendenza drammatica al sovraffollamento e all’abbandono, che ha già prodotto dall’inizio dell’anno oltre 70 suicidi in cella. Tra queste, era stata anche citata l’ipotesi di prevedere, per chi avesse un residuo di pena inferiore a un anno e mezzo, di beneficiare di misure alternative alla detenzione carceraria, che potevano includere anche gli arresti domiciliari, stante l’oggettiva difficoltà burocratica e di organico per approntare un numero adeguato di comunità protette o strutture con standard di sicurezza conformi. Nel quartier generale azzurro, invece, anche ieri su questo fronte - a differenza per esempio della cittadinanza - ha prevalso l’attenzione agli equilibri di coalizione e la volontà di non mettersi in rotta di collisione con gli alleati del centrodestra. Per Sisto, in ogni caso, “l’indagine consentirà soprattutto di comprendere quanto è utile andare nel dettaglio, perché poi i macrotemi si possono affrontare con facilità, ma quando si ha l’indagine puntuale e dettagliata dei singoli problemi di ogni struttura, poi si ha un’idea più chiara di quelle che possono essere le soluzioni di carattere generale, altrimenti si corre il rischio che magari una soluzione di carattere generale non risolva i problemi specifici”. Per quanto riguarda la tempistica dell’indagine, difficile che questa possa vedere la luce entro l’anno, anche a causa della sessione di bilancio: Pietro Pittalis, deputato della commissione Giustizia, ha fatto sapere che la richiesta dell’indagine sarà inoltrata in uno dei prossimi uffici di presidenza, in modo da partire con il ciclo di audizioni dopo la pausa natalizia. E la linea di “non belligeranza” sulla politica carceraria con Lega e FdI è stata chiaramente ribadita ieri dallo stesso Tajani, quando è stato interpellato sulla compatibilità delle norme approvate dal governo nel ddl sicurezza (in particolar modo quelle sulle mamme detenute) con la linea garantista di Fi: “Pensiamo”, ha detto Tajani, “che si debbano eliminare le ragioni del malessere quando riguarda la dignità della persona, ma chi ha sbagliato deve pagare”. “Dobbiamo consentire”, ha proseguito, “che, specie per la carcerazione preventiva, non stia in carcere chi non ci deve stare. Il lassismo non ha nulla a che fare con il garantismo”. Poi Sisto ha risposto nel merito sulle mamme detenute, sostenendo che “il provvedimento prevede che decida il giudice caso per caso, e quale garanzia è migliore di un giudice?”. In termini generali, il vicepremier ha ribadito quanto già detto al momento delle visite estive agli istituti: “Abbiamo trovato quello che temevamo: sovraffollamento, con una media del 110%. In alcuni istituti, come a Brescia, si arriva oltre il 260%. Abbiamo constatato che la soluzione migliore è far sì che i detenuti tossicodipendenti possano scontare la pena in comunità di recupero. Bisogna poi incrementare il numero dei giudici di sorveglianza per far uscire il maggior numero possibile detenuti che ne hanno diritto di uscire, senza che rimangano dentro per lungaggini burocratiche. Bisogna poi lavorare sulla carcerazione preventiva, perché le medie ci dicono che il 50% dei detenuti in carcerazione preventiva non dovrebbero esserlo. Infine occorre aumentare l’organico della Polizia Penitenziaria”. C’è stato poi spazio per una replica di Sisto sulla questione della nomina a Garante nazionale dei detenuti di Riccardo Turrini, contestata dall’opposizione ma anche da altre istituzioni, come l’Ucpi, a causa della sua pregressa esperienza nel Dap. “Non è mai accaduto”, ha detto, “che una nomina non portasse con sé qualche polemica. Il ministro Nordio ha inteso nominare Turrini Vita perché ha esperienza, competenza e capacità, e non possiamo che augurargli buon lavoro”. Novità anche sul fronte della separazione delle carriere: il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Nazario Pagano, ha fissato al 23 ottobre il termine per gli emendamenti, e il testo base dovrebbe essere pronto per la fine della prossima settimana. Tajani: “Servono pene alternative, senza cadere nel lassismo” di Mauro Pacetti Il Difforme, 4 ottobre 2024 Il vicepremier forzista Antonio Tajani è intervenuto ieri nel corso dell’incontro riguardante l’iniziativa “Estate in carcere” organizzata nella sede di Forza Italia a Roma. L’evento si è quindi trasformato in un momento fondamentale per discutere della piaga dell’emergenza carceraria, che affligge ormai da anni il nostro Paese. Sovraffollamento e mancanza di operatori e dipendenti sono le due falle maggiori che si registrano nelle carceri italiane, in cui quindi i detenuti sono costretti a vivere in condizioni che spesso non rispettano la loro dignità. Il ministro degli Esteri ha quindi sottolineato la volontà del partito di lavorare affinché la vita nel carcere migliori, senza però che le nuove norme cadano nel “lassismo” perché “siamo sostenitori anche del regime carcerario duro ma, come qualsiasi forma di detenzione, deve consistere solo nella privazione della libertà, non della dignità”. Tajani ha quindi voluto sottolineare la differenza tra “garantismo”, ovvero il concetto a cui si rifà Forza Italia, e “lassismo”, ovvero la volontà di rendere le pene carceraria più blande. Quest’ultima, quindi, non sarebbe una possibilità che è stata presa in considerazione. Nel corso del suo intervento, il vicepremier ha poi affrontato il delicato tema dei suicidi in carcere, sottolineando che “ci sono troppi suicidi tra i detenuti ma anche tra la polizia penitenziaria, che tra tutti i corpi armati e quello che ha la percentuale maggiore di suicidi”. Le soluzioni per evitare che queste tragedie continuino a verificarsi sono però più complesse da perseguire, perché “c’è una mancanza di strutture” ma “per quanto riguarda l’edilizia carceraria c’è bisogno di tempi più lunghi”. Antonio Tajani ha spiegato che Forza Italia e il Partito Radicale si erano preposti l’obiettivo di visitare le carceri in tutte le Regioni d’Italia, per toccare con mano le difficoltà e i bisogni di chi lavora e di chi è detenuto in queste strutture. “Il tema del sovraffollamento è stato riscontrato nella media del 110%, ma ci sono carceri dove si arriva anche al 200% in più, come nel carcere di Brescia” ha sostenuto il ministro, sottolineando quindi la gravità dei dati sulle carceri italiane. Parlando di soluzioni riguardanti questa problematica, il leader di Forza Italia ha sostenuto la necessità di avere “più giudizi di sorveglianza” perché all’interno delle carceri vi sarebbero “tante persone che dovrebbero uscire dal carcere ma rimangono perché ci sono dei ritardi”. Oltre a questa possibilità, però, c’è da considerare anche l’ipotesi delle pene alternative, “per i tossicodipendenti da scontare in comunità di recupero”, insieme alla ricerca di “case di reclusione per i detenuti che non hanno domicilio”. Tajani ha poi ricordato lo spinoso tema della carcerazione preventiva, allo studio del Ministero della Giustizia, su cui è necessario lavorare a fondo perché ad oggi “il 50% di quelli che si trovano in questa condizione poi verranno assolti”. Procedendo su questa strada, quindi, evitando il carcere per coloro a cui effettivamente non è necessario, il sistema penitenziario italiano potrebbe ricominciare a respirare e soprattutto a funzionare non solo come uno strumento punitivo ma anche come un’occasione per la riabilitazione del detenuto. Tajani ha poi aggiunto che Forza Italia ha deciso di chiedere “un’indagine ufficiale da parte della Camera sulla condizione delle carceri italiane”, con la possibilità di presentare a chi se ne occuperà le documentazioni che il partito ha finora raccolto. Una possibilità utile per continuare a lavorare nella direzione giusta, chiedendo rispetto per i detenuti e per chi lavora quotidianamente nelle strutture detentive italiane. Il ministro ha poi deciso di cogliere l’occasione per rispondere alle critiche di chi ritiene che la stretta sui reati voluta dal governo Meloni sia una soluzione deleteria per la situazione delle carceri. “Incrementare il numero dei reati non significa aumentare il numero dei detenuti” ha infatti sostenuto Antonio Tajani, ricordando che Forza Italia e il governo non hanno intenzione di approvare riforme di tipo lassista, ma di concentrare gli sforzi del sistema carcerario solo su chi merita realmente di trovarsi in carcere. “Noi dobbiamo fare in modo che chi è accusato non stia in carcere se non ce ne siano le ragioni” ha infatti evidenziato il vicepremier, sostenendo poi che sia arrivato il momento di “eliminare le ragioni del malessere per quanto riguarda la dignità della persona”, pur continuando a perpetrare sanzioni nei confronti di chi viola la legge. Carceri minorili nel mirino della Lega, il gioco delle designazioni nel Governo di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 ottobre 2024 “Negli Ipm gli agenti indossino le divise”: l’ultima Circolare del Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità. “Inopportuno”: unanime il giudizio sulla scelta del nuovo Garante dei detenuti Turrini. C’è voluto un giorno per trovare le parole giuste per dirlo. Ma ieri, all’indomani della designazione del nuovo presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti da parte del Cdm, su indicazione del ministro Nordio, l’imbarazzo ha lasciato il posto ad un giudizio pressoché unanime di “inopportunità” della scelta. A differenza che con il suo predecessore, il defunto Maurizio D’Ettore che era deputato di Fd’I, le perplessità sul nome di Riccardo Turrini Vita, ex magistrato, attuale vice capo del Dipartimento di giustizia minorile e per vent’anni dirigente del Dap, non riguardano l’orientamento politico della persona ma la confusione intrinseca che porta tra il ruolo di controllato e quello di controllore, per dirla con le parole dell’associazione Antigone. Da Magistratura democratica al Pd, da Avs ai Radicali, dall’Unione delle camere penali all’Associazione Coscioni, le riserve su una nomina che rischia di “minare l’autonomia” dell’autorità di garanzia sono molte. E di peso. Solo l’Anm augura all’ex magistrato buon lavoro per il “delicato compito”, mentre il sottosegretario Sisto (FI) insiste per difenderne “esperienza, competenza e capacità”. Ma per la nomina effettiva di Turrini ci vorrà almeno un mese ancora, essendo necessari i pareri delle commissioni Giustizia di Camera e Senato e, soprattutto, la verifica della compatibilità da parte del Quirinale. Affinché il presidente Mattarella possa firmare il decreto di nomina, infatti, occorre che Turrini - così stabilisce la legge - si dimetta dalla pubblica amministrazione. Cosa che per il momento il diretto interessato non ha neppure annunciato. Mentre invece è arrivato l’annuncio del sottosegretario leghista Ostellari riguardo l’ultima circolare emessa dal Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità - di cui Turrini Vita è ancora vice capo - che impone agli agenti di polizia penitenziaria, in servizio presso gli Ipm italiani, di “smettere gli abiti borghesi e indossare sempre l’uniforme”. Per Ostellari non si tratta di una “deriva autoritaria” ma di una scelta per “tutelare il principio di autorevolezza che deve permeare l’esercizio della pubblica funzione, anche nella percezione degli utenti”. È una campagna, quella di Lega e Fd’I contro il sistema della Giustizia minorile, che ha dato i suoi frutti. Condotta a colpi di decreti, surplus di reati, campagne mediatiche sulle cosiddette “rivolte” e demonizzazione perfino dei minori non accompagnati. E, come rivelato dal dossier di Antigone, in effetti si può dire che il risultato perseguito è stato ottenuto: l’intero sistema, che fino a un anno fa era considerato in tutta Europa il fiore all’occhiello italiano, è ormai “ridotto al collasso” al pari di quello del carcere per adulti, come fa notare la dem Malpezzi, vicepresidente della commissione bicamerale Infanzia. E c’è chi scommette che, dopo aver lasciato a FI la scelta del nuovo Garante dei detenuti, la Lega vorrà avere voce in capitolo nel designare almeno il sostituto di Turrini Vita al Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità. Dal canto suo, FI sembra voler sottolineare sempre più la sua differenza su questi temi con il resto della coalizione di governo: ieri, in una conferenza stampa con il Partito Radicale, a bilancio dell’iniziativa “Estate in carcere”, Tajani ha annunciato di aver “proposto alla commissione Giustizia della Camera di avviare un’indagine conoscitiva sulla situazione nelle carceri in Italia”. Come se su questa emergenza ci fosse ancora qualche mistero da svelare. Un’indagine conoscitiva richiesta per di più dopo aver varato il decreto Carceri e aver partorito un ddl Sicurezza che, come ha detto ieri perfino l’ex capo della polizia Franco Gabrielli, di sicurezza ha molto poco. Per il superamento degli Istituti Penitenziari Minorili di Claudio Marotta huffingtonpost.it, 4 ottobre 2024 Occorre mettere al centro percorsi educativi e alternativi, per costruire comunità, opportunità e speranze per coloro che entrano nel circuito penale. È in queste battaglie che diamo forza e senso alle istituzioni della Repubblica. Il superamento degli istituti penitenziari minorili non è un’utopia: è una necessità impellente per correggere il sistema che il governo Meloni ha ingolfato, usando il diritto penale per fare propaganda sulla pelle di centinaia di minori. Per verificare le condizioni di vita dei giovani detenuti, ho partecipato con una delegazione composta dalle parlamentari Ilaria Cucchi, Francesca Ghirra e dall’assessore capitolino Andrea Catarci alla visita e conferenza stampa tenuta presso l’Istituto penitenziario minorile di Casal del Marmo a Roma. Visita effettuata proprio nel giorno in cui l’Associazione Antigone ha reso noto il report “A un anno dal DL Caivano” che fa emergere una realtà drammatica: uno degli effetti immediati del DL, infatti, è che il sovraffollamento ha contagiato anche le strutture per ragazze e ragazzi. Insieme alle rappresentanze di associazioni del terzo settore che lavorano dentro gli Istituti come Cnca e A buon diritto, abbiamo tenuto una conferenza stampa per dire una cosa semplice: è ora di chiudere le carceri minorili. A un anno dal decreto Caivano - come dice il dossier di Antigone - la situazione non è mai stata così grave. Dai 392 ragazze e ragazzi detenuti in tutta Italia nell’ottobre del 2022, si è passati ai 569 del 15 settembre 2024, con almeno 12 istituti su 17 in netto sovraffollamento. Questo dato, tra l’altro, non coincide con un aumento delle denunce o degli arresti di minorenni in Italia, che sono addirittura in diminuzione. Due elementi sono, invece, centrali per comprendere gli effetti delle misure del Governo. Da un lato, più del 60% dei ragazzi è detenuto senza aver ricevuto una sentenza definitiva, sempre più spesso scontando in cella una misura cautelare, in linea con le prescrizioni del decreto voluto da Meloni. Dall’altro, circa la metà dei reati commessi da chi è entrato in Ipm nel 2024 sono reati contro il patrimonio, ovvero furti e piccole rapine, e riguardano spesso ragazzi stranieri e fasce marginalizzate della popolazione. Leggere questi numeri fa emergere chiaramente, ancora una volta, la natura classista di questo governo capace di mettere in campo solo politiche repressive per rispondere alle emergenze sociali. L’approccio è sempre e prevalentemente punitivo, totalmente inadeguato ad affrontare l’educazione e la presa in carico dei ragazzi da parte dello Stato. Tutto questo, infatti, si somma alla cronica mancanza di personale negli Istituti, che corrisponde ad assenza di servizi e di attività. È questa la radice delle tante proteste che scoppiano dietro le sbarre: un grido che dobbiamo saper ascoltare. La nostra iniziativa si pone in totale controtendenza con il governo Meloni e le sue politiche. Vogliamo la chiusura degli istituti penitenziari minorili per mettere al centro percorsi educativi ed alternativi, per costruire comunità, opportunità e speranze per coloro che entrano nel circuito penale. È in queste battaglie che diamo forza e senso alle istituzioni della Repubblica. Dal decreto Caivano al ddl Sicurezza, Meloni vuole indebolire lo stato di diritto in Italia: una china pericolosa a cui dobbiamo contrapporre non solo alchimie politiche, ma anche la capacità di disegnare una sostanziale alternativa di società. La destra mette in campo un’idea forte che rischia di far breccia nel profondo della società italiana e per fermare questa deriva non basta il grido d’allarme all’unità antifascista o alla difesa irrinunciabile della Costituzione: dobbiamo far valere l’idea di un’altra Italia possibile, l’idea che possa esistere un altro modo di convivere tra gli esseri umani. Sarebbe rilevante se partissimo ripensando proprio i luoghi di privazione della libertà personale. Il Garante dei detenuti? Hanno scelto un carceriere di Angela Stella L’Unità, 4 ottobre 2024 Non si placano le polemiche per la nomina di Riccardo Turrini Vita a presidente del Collegio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale da parte del Ministro Nordio. Ieri mattina è arrivata subito una nota della Giunta e dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali: “Anche stavolta nel fare presto, le logiche tutte interne alle segrete stanze ministeriali, condizionate da una errata visione prospettica, mal si conciliano con il ‘fare bene’. E la designazione a capo dell’ufficio del Garante nazionale per i diritti dei detenuti, individuato nella persona del dott. Turrini Vita, già magistrato e figura dirigenziale apicale del DAP da oltre vent’anni anni, stride, in maniera troppo evidente, con il ruolo e le funzioni attribuite, per legge, all’autorità di garanzia dei diritti delle persone detenute”. Secondo i penalisti “a fare da pendant” è “la scelta, purtroppo oramai decennale, di individuare il capo del DAP nella magistratura inquirente, meglio ancora se di punta nell’antimafia, dimenticando che l’amministrazione penitenziaria non è uno strumento per attuare scelte politiche repressive quanto, piuttosto, per il governo delle carceri, in piena conformità al modello disegnato dai padri costituenti nell’art. 27, ovvero opportunamente orientato ed organizzato allo scopo della rieducazione e risocializzazione del detenuto”. Critico anche il capogruppo di Avs alla Camera Devis Dori: “È un paradosso, uno degli effetti di questa destra al governo senza regole: il ministro della Giustizia nomina il garante dei detenuti in palese violazione della legge istitutiva che stabilisce chiari criteri. Ci aspettiamo un immediato passo indietro”. Sono tornati ad esprimersi la responsabile nazionale giustizia del Pd, Debora Serracchiani, insieme ai capigruppo delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, Federico Gianassi e Alfredo Bazoli, e della commissione bicamerale Antimafia, Walter Verini: “La legge che istituisce la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è molto chiara. Essa prevede che i membri siano scelti tra persone che non sono dipendenti delle pubbliche amministrazioni e che garantiscano indipendenza e competenza nelle discipline relative ai diritti umani. Non entriamo nel merito del curriculum e delle competenze di Turrini Vita - hanno sottolineato i dem - ma il suo status di dipendente pubblico costituisce una palese violazione, configurando la scelta del ministro Nordio come un’azione contra legem che compromette la terzietà e l’indipendenza richiesta per un incarico così importante e delicato. Per questo faremo una interrogazione”. Perplessità sono state partecipare con la stessa motivazione pure da Magistratura democratica: “A prescindere dalla persona, la cui conoscenza del mondo del carcere è fuori discussione, esiste una delicata questione di rispetto della legge. Turrini Vita, infatti, lavora al Ministero della Giustizia, amministrazione sulla quale come Garante nazionale dovrebbe esercitare il suo ruolo di controllore indipendente. Le norme precisano che i componenti del Collegio dei garanti devono essere “scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni” (art. 7 dl 146 del 2013). Si auspicano chiarimenti”. Sulla nomina è intervenuto anche Marco Perduca, ex senatore e coordinatore per l’Associazione Luca Coscioni delle iniziative per il diritto alla salute nelle carceri, per il quale essa “è del tutto inopportuna perché si tratta di un funzionario dello Stato che per 20 anni ha lavorato per l’amministrazione penale. A parte aver scelto nuovamente un uomo per quella carica, con quale indipendenza o terzietà potrà garantire il pieno rispetto dei diritti umani di chi è ristretto a partire dal diritto alla salute?”. Di parere opposto il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Sono anni che non vedo che una nomina non provochi una qualche reazione, il ministro Nordio ha inteso nominare Turrini Vita e ne ha tutti i requisiti, le competenze e le capacità, non resta che augurargli buon lavoro”. Sempre per rimanere in tema di esecuzione penale ieri Forza Italia insieme al Partito radicale ha organizzato una conferenza stampa per dare conto delle visite negli istituti di pena effettuate durante l’estate. Il sovraffollamento carcerario in diverse carceri “supera la soglia del 260 per cento”, ha detto il segretario nazionale di FI e ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Antonio Tajani che ha aggiunto: “Le nostre iniziative non sono lassiste: chi ha sbagliato deve scontare la pena. Ci sono anche regimi carcerari duri e noi siamo a favore, ma il carcere consiste nella privazione della libertà, non della dignità. L’obiettivo, come dice la Costituzione, è il recupero del detenuto”. Una posizione molto simile a quella degli altri alleati di maggioranza, Fratelli d’italia e Lega, in linea con l’affossamento della pdl Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Per Maurizio Turco, Segretario del Partito di via di Torre Argentina, “occorre intervenire su due fattori: la depressione e lo sdegno”, che “provocano reazioni critiche all’interno degli istituti carcerari”. L’iniziativa comune con Forza Italia ha fatto rinunciare alla battaglia su amnistia e indulto? Comunque la conferenza si è conclusa con un annuncio da parte di Tajani di una indagine conoscitiva sulle carceri: “Noi abbiamo fatto un’iniziativa di partito e ora abbiamo chiesto un’indagine ufficiale da parte della Camera. Possiamo consegnare a chi si occuperà di questa inchiesta tutte le nostre relazioni. Noi abbiamo sollevato il problema, adesso ci sarà un’indagine ufficiale”. Eppure la crisi nei nostri istituti di pena è conclamata dalle relazioni del Dap, da quelle del Garante, dalle risposte alle interrogazioni parlamentari, dai report delle associazioni che si occupano di diritto penitenziario. Alle nostre carceri servono soluzioni immediate di deflazionamento non l’ennesima fotografia dell’esistente che è già abbastanza chiara. Magistratura democratica sulla nomina del Garante dei diritti delle persone private della libertà di Esecutivo di Magistratura democratica magistraturademocratica.it, 4 ottobre 2024 Apprendiamo dalla stampa che il Consiglio dei ministri ha deliberato la nomina del nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà. La scelta è ricaduta sulla persona di Riccardo Turrini Vita, la cui conoscenza del mondo del carcere è fuori discussione. La questione che ci sentiamo di sottolineare con urgenza è un’altra ed è davvero delicata. Riccardo Turrini Vita - la stessa stampa ne dà ampia notizia - magistrato, è nell’amministrazione della giustizia dal 1994 e nell’amministrazione penitenziaria dal 1997. In quest’ultima amministrazione - sulla quale il Garante nazionale dovrebbe esercitare il suo ruolo di controllore indipendente - ha ricoperto ruoli di massimo livello e tuttora riveste la carica di vice-capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. In breve: il controllato passa a fare il controllore di sé stesso. È un principio che mina l’indipendenza di qualsiasi autorità indipendente e di garanzia, tanto più del Garante delle persone private delle libertà, che in Italia opera anche come meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la Tortura. Non a caso, la stessa norma specifica che i componenti del Collegio dei garanti devono essere “scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni” (art. 7 dl 146 del 2013). Auspichiamo che sul punto si forniscano i dovuti i chiarimenti e rimaniamo perplessi davanti a una nomina che, indipendentemente dalle qualità della persona, rischia di minare il principio di autonomia strutturale e funzionale dell’Autorità garante. In un momento storico, peraltro, in cui le annose problematiche del carcere si sono trasformate in dramma e tragedia quotidiani. In Senato si parla delle carceri sovraffollate… in un’aula vuota di Ilaria Dioguardi vita.it, 4 ottobre 2024 Filippo Sensi, senatore del Partito Democratico, ha offerto stamattina uno scatto su X dell’aula del Senato deserta. “Mi ha colpito lo shock dell’immagine, che la dice un po’ lunga, simbolicamente, del disinteresse che mi pare che la maggioranza abbia sul tema del sovraffollamento carcerario”. Sensi, cosa è successo stamattina? Questa mattina c’era il cosiddetto Sindacato ispettivo (gli atti, interrogazioni e interpellanze, attraverso i quali il Parlamento esercita la propria funzione di controllo sull’attività del Governo, ndr). Di solito non prevede il plenum: si propongono delle interrogazioni e il Governo risponde. E non chiede voti. Il voto incide sulla diaria, per cui perderlo incide sui soldi che senatori e deputati guadagnano. Quando non si vota, il parlamentare non è obbligato a essere presente, spesso è presente soltanto chi fa l’interrogazione, chi sta al Governo. Ma le interrogazioni parlamentari per me sono un’occasione di crescita, di interesse, di attenzione. Però magari io sono a Roma, sono comodo. Tra le interrogazioni, ce n’era una sul sovraffollamento carcerario a Brescia, presentata dal senatore Alfredo Bazoli. Perché ha pubblicato quella foto su X? È stato desolante vedere l’aula del Senato vuota con nessun esponente della maggioranza, fatta eccezione degli esponenti del Governo, durante un’interrogazione sul sopraffollamento carcerario. Mi ha colpito la contraddizione tra l’aula vuota del Senato e le carceri piene, fin troppo piene. Quanti eravate in aula? In tutto saremmo stati una dozzina di persone. Eravamo sette-otto senatori del Partito Democratico che accompagnavamo il senatore Bazoli, e altri del Pd che avrebbero fatto un’interrogazione. Non c’era nessuno di Fratelli d’Italia, nessuno di Forza Italia, nessuno della Lega, nessuno di Noi moderati. C’erano, forse, due esponenti delle minoranze linguistiche, che presentavano una loro interrogazione. Nell’aula del Senato c’erano, poi, tre-quattro sottosegretari, la presidente di turno che era Licia Ronzulli. Cosa ha pensato? Mi ha colpito lo shock dell’immagine, che la dice un po’ lunga, simbolicamente, del disinteresse che mi pare che la maggioranza abbia sul tema del sovraffollamento carcerario. Poi, ripeto, è vero che quando c’è Sindacato ispettivo ci sono pochissime persone in aula. Ma a me l’aula vuota colpisce sempre. Io faccio il senatore pro tempore, vengo pagato per fare questo e cerco di farlo stando sul territorio e facendo il mio dovere in aula. Anche il Pd avrebbe potuto fare di più, quando era al Governo, per il problema del sovraffollamento nelle carceri? “Certo che sì. Qualche tempo fa ho recuperato uno storico volume de Il ponte di Piero Calamandrei del 1949, dedicato alla questione delle carceri in Italia e all’abbandono dei detenuti. Mi ha colpito uno degli interventi presenti nel libro, in cui forse lo stesso Calamandrei diceva: “Forse ce la possiamo fare adesso a fare dei provvedimenti sulle carceri, perché in Parlamento ci sono tante persone che hanno assaggiato il carcere”. Parliamo del 1949. Si poteva fare di più, si poteva fare meglio, si può fare di più anche ora…. “Il carcere di Mombello a Brescia è la conferma di quanto sosteniamo: vive una situazione drammatica, ed è impossibile anche solo pensare che in quell’istituto sia possibile una benché minima funzione rieducativa. La condizione di Mombello è insostenibile e l’unica scelta fatta è quella di costruire un nuovo padiglione. Ma non è la soluzione”. Quale via del Governo? La visione panpenalistica, con tanti nuovi reati, non mi pare che vada nella direzione giusta. È stato fatto il decreto Carceri, sono stati inseriti altri 20 nuovi reati. Mi sembra una contraddizione in termini, mi sembra che tradisca un’intenzione non solo di non voler affrontare la questione, ma sembra vicino al caro vecchio “In galera!” della Destra. La denuncia di Roberto Giachetti: “Nelle celle si lava l’insalata nei cessi” di Claudia Arletti La Repubblica, 4 ottobre 2024 Dice che oggi in carcere si sta peggio di dieci anni fa. Accusa il governo di volere le rivolte. Ha denunciato Nordio. Eppure per il deputato e storico attivista la soluzione c’è. Radicale. Roberto Giachetti detto Bobogiac conosce errori e orrori dei penitenziari, ma stavolta ha perso il conto: “Il garante di Udine parla di 67 suicidi, altrove leggo 72 perché includono chi si è lasciato morire di fame. Poi ci sono sette agenti penitenziari. E oggi si è impiccato un uomo a Regina Coeli”. Comunque si facciano i calcoli, il numero dei morti in carcere fino a settembre 2024 ha ampiamente superato quelli dello stesso periodo nel 2023, quando furono 48. “Per forza” dice il parlamentare renziano, accomodato in un divanetto della Camera dove è di casa dal 2001, “tra suicidi, rivolte ed evasioni sta saltando per aria il sistema”. Romano di Monteverde, folgorato sulla via radicale a 16 anni mentre la famiglia lo avrebbe tanto voluto ingegnere, ha sempre piegato a sinistra, ma senza esagerare, dalla Margherita al Pd e ora a Italia Viva, conservandosi pannelliano dentro, garantista sempre, scioperi della fame quanti ne volete (anche della sete, a rischio della vita), e le carceri, certo, missione fra le missioni. Porta così la sua firma - e quella ideale di Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino” - la proposta di legge per alleggerire la pressione nei penitenziari attraverso un meccanismo semplice che avrebbe aumentato i giorni detratti dalla pena per ogni semestre già scontato. C’era fermento, su questa forma di liberazione anticipata speciale, ma dopo averla rimbalzata per mesi tra Aula e commissioni, ecco che a luglio, zac, “la maggioranza l’ha definitivamente affossata”. Però, Giachetti, ora arriva un altro commissario straordinario... “Introdotto giusto a luglio, con un decreto confezionato per evitare di discutere la mia proposta, su cui Forza Italia aveva dato parere favorevole. Il governo ha il tabù delle norme “svuota carceri”, dell’”indulto mascherato” e compagnia. Comunque, parliamone: che cosa potrebbe fare il commissario? Giusto dedicarsi all’edilizia carceraria. Ma per costruire un penitenziario ci vogliono dieci anni. E nel frattempo? Noto un’impostazione fobica nel governo, più ancora che ideologica. Con un disegno preciso: fare esplodere la situazione”. A pensare male ci si prende, però l’accuseranno di complottismo, sa? “Secondo loro farnetico. Ma ascolti: improvvisamente, mesi fa, il governo costituisce un reparto speciale della polizia penitenziaria, il cosiddetto Gio. Poi equipara la resistenza passiva alla rivolta. Nel mezzo, non fa niente, ma proprio niente, per allentare la tensione. L’obiettivo è intervenire con un’azione repressiva, per la quale da tempo si prepara la strada. Tanto parliamo di gente sfigata, a chi importa?”. Ha denunciato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio... “E anche i sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro. Articolo 40 del codice penale, leggo: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. L’evento che non viene impedito sono tutti questi morti. E faccio presente che ogni anno si registrano migliaia di atti di autolesionismo. I suicidi, in un certo senso, sono l’epifenomeno del dramma che si vive in carcere, ciò che emerge”. Lei Nordio non lo sopporta... “Certe uscite me le aspetto da personaggi fascistoidi, non da un ministro come lui. A luglio, il giorno dell’approvazione del decreto, si svolge a Palazzo Chigi un bel vertice sul sovraffollamento, e Nordio annuncia che incontrerà Mattarella. Per fare che? Per raccontargli cosa? Mattarella quello che doveva dire l’ha detto il giorno dell’insediamento e, poi, a luglio, quando ha definito “straziante” la lettera dei detenuti di Brescia e “indecorose e angoscianti” le loro condizioni”. Reazioni del ministro all’esposto? “Nessuna. In compenso sostiene che non c’è relazione tra sovraffollamento e suicidi. In effetti io non posso affermare con assoluta certezza che questa relazione ci sia, benché mi sembri ragionevole supporlo. Ma come fa lui a essere certo del contrario? Poi dice che la mia proposta rappresenta la resa dello Stato. Ma la resa è la sua, e di uno Stato che è fuorilegge: solo nel 2023 oltre quattromila sentenze dei giudici di sorveglianza hanno dato ragione ai ricorsi di detenuti che ritengono di avere vissuto condizioni degradanti”. L’ultimo penitenziario che ha visitato? “Sollicciano. E, poco prima, Regina Coeli. A parte rari casi - come Favignana, che era mezzo sott’acqua ed è stato ricostruito e trasformato in una struttura decente - da San Vittore all’Ucciardone, da Nord a Sud, la maggioranza non può essere paragonata alle porcilaie solo perché queste sono meglio. A Regina Coeli, con l’acqua che fuoriesce dallo sciacquone ci lavano la verdura: visto coi miei occhi”. Il sovraffollamento è il problema principale... “Prenda una cella minuscola, buona per due persone. Ce ne metti quattro o cinque. Tocca usare i letti a castello, anche a tre livelli. Così chi finisce in alto dorme con la faccia al muro e con il respiro che gli torna addosso”. Non è normale, ma allora che si fa? “Si smette di inventare nuovi reati. E si fa uscire subito un po’ di gente. Con un sistema premiale, come avevo pensato io. O concedendo i domiciliari a chi deve scontare meno di un anno. O, ancora, con pene alternative. A qualsiasi proposta fosse arrivata dalla maggioranza avrei detto di sì, ci sto”. Con quale metro misura l’emergenza attuale? “Nel 2013, dopo il ricorso Torreggiani, la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per trattamento degradante. Si parlava di tre persone in celle di 9 metri quadrati, niente acqua calda per lunghi periodi e scarsa ventilazione. Oggi la situazione è simile. Non si tratta solo della mancanza di spazio. Il sovraffollamento è come un virus che paralizza tutto e tutti, gli educatori, i volontari, i giudici di sorveglianza. Ci sono istituti dove la gente è talmente tanta che l’ora di aria, indispensabile per non andare con la testa al manicomio, certe volte non si può fare perché gli agenti in servizio non bastano. E che cosa ci aspettiamo da uno psicologo che dovrebbe seguire dieci detenuti e se ne trova davanti trenta? Quale aiuto potrà dare ai cosiddetti “nuovi giunti”, ovvero la categoria più fragile fra i detenuti?”. Per curiosità, come nasce questo suo interesse per il sistema carcerario? “È nella tradizione dei radicali. Avrò presentato in questi anni quaranta o cinquanta interrogazioni. Mi scrivono in tanti, di continuo”. Reclusi? “Parenti, soprattutto”. Quest’estate Forza Italia ha fatto il giro degli istituti, gliene dà atto? “Facile andare sui giornali così. Appena si parla di amnistia o indulto, Forza Italia torna indietro. Come sullo ius scholae. Questo modo di fare politica serve solo a illudere la gente”. Scusi la domanda, ma un anno fa ha detto pubblicamente di avere un tumore. Come sta? “Sono guarito e sto bene, grazie”. Basta digiuni, però, non è più il tempo... “Eh, non so. Se pratichi la non violenza, certe volte non ci sono alternative”. Malasanità in carcere: perché la medicina dietro le sbarre deve rinascere di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2024 Apri il cancello, chiudi il cancello. Questo gesto apparentemente semplice nasconde un abisso di responsabilità e paradossi, in primo luogo per la polizia penitenziaria che nel carcere è presenza costante e doverosa in nome e per conto dello Stato e delle sue leggi. Perché dietro le sbarre si consuma una tragedia silenziosa: il collasso della sanità carceraria, che trasforma ogni disturbo in una potenziale condanna a morte. Otalgie, dermatiti, prostatiti: patologie comuni che, in carcere, diventano calvari senza fine. La situazione peggiora drammaticamente quando si tratta di malattie psichiatriche. Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) e la cronica carenza di posti nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), i detenuti con problemi mentali si ritrovano in celle ordinarie, senza il supporto di infermieri e medici specializzati in psichiatria. La rivoluzione promessa con la medicina penitenziaria si è trasformata in un incubo, il passaggio al Servizio Sanitario Nazionale ha aperto il vaso di Pandora: medici inesperti catapultati in un mondo alieno, direzioni carcerarie in perenne conflitto con le Asl e una drammatica assenza di specialisti. Il risultato? Mesi di attesa per una visita oculistica, andrologica, ortopedica trasformano ogni giorno di detenzione in una tortura fisica e psicologica che si riversa anche nel rapporto con l’agente di prossimità, dal quale si pretende una risposta che lo stesso non può dare. In questo circolo vizioso, gli agenti di polizia penitenziaria si ritrovano a svolgere ruoli per cui non sono né preparati né autorizzati: infermieri improvvisati, psicologi d’emergenza, mediatori in un sistema sanitario in frantumi. La beffa più crudele? Se un detenuto muore, il dito viene puntato contro di loro: “Ritardo nei soccorsi”, si sente dire, ignorando l’inefficienza cronica del sistema, la “colpa dell’apparato”. Le testimonianze degli agenti dipingono un quadro agghiacciante: detenuti che aggrediscono per ottenere una visita dentistica, altri che implorano un controllo cardiologico come se fosse l’ultimo desiderio di un condannato. C’è chi, disperato per una visita negata, si infligge lesioni su tutto il corpo. E gli agenti? Spettatori impotenti di questo teatro dell’assurdo, a contatto con persone portatrici di malattie infettive. La burocrazia, un mostro che divora le vite, complica ulteriormente la situazione. Informazioni vitali si perdono in un labirinto di scartoffie e rimpalli di responsabilità. Le diagnosi arrivano in ritardo, le terapie vengono interrotte, le vite spezzate. Persino una banale distorsione alla caviglia può trasformarsi in un’odissea al pronto soccorso, mettendo in moto una macchina sanitaria e di sicurezza sproporzionata, sottraendo risorse a chi ne ha veramente bisogno. Le visite esterne sono un altro capitolo della tragedia: la metà salta per mancanza di personale di scorta, mentre le evasioni dagli ospedali diventano un appuntamento ricorrente, aggiungendo beffa al danno. Come diceva Foucault, “bisogna avere il coraggio di dire ma anche di ascoltare”. E cosa ci dicono gli agenti, se solo ci fermiamo ad ascoltarli? Che sono intrappolati in questo inferno tanto quanto i detenuti, vittime e testimoni di un sistema che tradisce la sua stessa ragion d’essere. Il carcere non può e non deve essere un lasciapassare per l’obitorio. La medicina dietro le sbarre deve rinascere, non per buonismo, ma come dovere costituzionale e umano. Gli agenti non possono essere complici di questa vergogna, né capri espiatori di un fallimento sistemico. Il problema della malasanità in carcere, benché di evidente drammaticità, apparirebbe quasi irrilevante rispetto alle altre più macroscopiche pecche del sistema e i primi che sembrano ignorarne le conseguenze, oppure che si sentono schiacciati dalla capillare diffusione delle disfunzioni sul territorio sono proprio coloro che nell’amministrazione penitenziaria centrale se ne dovrebbero occupare. Più in generale, i luoghi comuni spopolano: “hai sbagliato e sei finito in carcere? Che cosa ti aspettavi? Anche questa è parte della pena da scontare!”. Ma non è né deve essere così, il diritto alla salute è sempre lo stesso, in carcere e fuori. Nuove e migliori carceri, più personale, meno promiscuità e maggiore ricorso alle pene alternative alla detenzione, certo, ma la priorità deve essere anche quella di riformare radicalmente un sistema che amplifica ogni patologia, trasformando disturbi gestibili in bombe a orologeria. Perché dietro ogni sbarra, ogni chiave girata, c’è una vita umana e un poliziotto che non può essere il parafulmine dell’improvvisazione e dell’inefficienza. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria Nordio, l’ex toga nemica delle toghe. Nel mirino sempre magistrati e giornalisti di Liana Milella La Repubblica, 4 ottobre 2024 Bavaglio alla stampa, abuso d’ufficio soppresso, legge Severino in bilico, stretta sulle intercettazioni, sempre a favore dei colletti bianchi. E poi separazione delle carriere e sorteggio al Csm. È un piacione, ed è galante con le signore. Sarà per questo che c’è chi lo definisce “uno dei ministri più attivi”. Difficile da sostenere, visto che a suo nome in due anni di governo c’è una sola legge in vigore dal 25 agosto, quella sull’abuso d’ufficio, i cui segnali nefasti si cominciano già a vedere. Toccherà alla Consulta metterci mano. Attivo lo è sicuramente sul fronte delle polemiche, e delle incongruenze. Lui che ha vestito la toga è, sempre e comunque, contro i suoi colleghi. Tranne quelli di Magistratura indipendente, la sua corrente preferita, tant’è che ci ha riempito il ministero, e si prende pure gli applausi a scena aperta quando va a un convegno di Mi e promette che riconoscerà alle toghe l’indennità di malattia, da sempre un cavallo di battaglia per questo gruppo. Avendo un posto libero tra le mani, quello di Garante dei detenuti, ci ha messo uno che era proprio di Mi. Anche se subito sono partite le contestazioni sulla sua incompatibilità - lo denunciano nell’ordine Antigone, il Pd, le Camere penali, Magistratura democratica mentre tra i giuristi serpeggiano i dubbi - visto che da anni è un dipendente del Dap, cioè la struttura di cui dovrebbe controllare i comportamenti. Ma è davvero un ministro “attivo”, efficiente, pronto a essere là dove la necessità lo richiede, sopra le parti, com’è necessario che sia un Guardasigilli rispettoso della Costituzione? Vediamo un po’, alla luce della catastrofe che si sta abbattendo e rischia di colpire ancora più duramente la magistratura italiana, e quindi i cittadini italiani, nell’arco di poco tempo. Facendosi bello del suo inglese fluently corre a Londra all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, ma non risulta che corra altrettanto velocemente nelle carceri dove non solo ci sono finora 72 suicidi di detenuti e 7 di agenti penitenziari, ma anche tragiche condizioni di vita. Lui non lo fa, e mediaticamente non c’è neppure notizia che lo faccia, con la necessaria frequenza, il suo capo delle galere Giovanni Russo in carica dal gennaio 2023. E sia. Non manca intervista in cui non affermi che non si può sollevare una questione di costituzionalità sul soppresso abuso d’ufficio. Perché, a suo dire, il reato non c’è più e quindi non può essere rimesso in pista. Da Perugia, con il timbro del tribunale di Firenze, è già partito un ricorso. Altri se ne annunciano. Sarà la Corte a decidere se quel vuoto di tutela è costituzionale oppure no, a meno che non venga riempita di giudici filo Meloni. Altrimenti vorrebbe dire che le decisioni di un governo e di un Parlamento sono del tutto insindacabili. E si può cancellare d’emblée l’intero codice. Non basta. Perché anche la stretta sul traffico d’influenze è già stata contestata dalla procura di Foggia. Ma andiamo avanti. L’unica legge di Nordio, gli otto articoli della sua creatura sull’abuso d’ufficio che per fortuna ha impiegato più di un anno per essere approvata, contengono un’altra norma scriteriata, l’obbligo per il pubblico ministero di interrogare il suo potenziale arrestato. E già questo sta creando problemi perché in un’inchiesta su un gruppo di spacciatori far conoscere le carte significa di fatto intorbidire gli alibi e scatenare intimidazioni. In più di un’audizione il pericolo era stato paventato. Qui la contraddizione è più manifesta. Perché lui, con il collega ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, firma pure il disegno di legge sulla sicurezza in cui proliferano una ventina di reati improbabili, tant’è che l’ex presidente delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, sull’ultimo inserto “PQM”, di cui è direttore e che esce sul Riformista, sabato 28 settembre titola il suo editoriale “L’inganno securitario”, con il sottotitolo “Sicurezza-za-za!”, e irride a una legge “inutile e pericolosa”, “ una lenzuolata social di reati e aggravanti à go-go”. Un’uscita che previene la mossa dell’Unione delle Camere Penali che annunciano lo stato di agitazione e attaccano duramente un testo “di matrice securitaria, sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritario, caratterizzato da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi e ai danni dei soggetti più deboli”. Dentro c’è anche la norma che mette in carcere i figli con le detenute madri. E Nordio, il garantista Nordio, firma proprio questa legge che avrà un unico effetto, riempire le galere mentre lui non riesce neppure a ridurre gli oltre 60mila detenuti che già sono costretti a viverci. In compenso si preoccupa di un’altra legge che da sempre disturba gli amministratori locali, la Severino, che li costringe a dimettersi se vengono condannati in primo grado. Ed ecco il solerte ministro pronto a ripetere, ancora il 2 ottobre, che “va modificata perché confligge con il principio di presunzione di innocenza” in quanto “il fatto che una persona venga estromessa dalla vita politica per una condanna che non è nemmeno definitiva mi ha lasciato sempre molto perplesso”. E qui sta la sorpresa. Quali sono le persone che Nordio non vuole mandare in cella? I colletti bianchi o i poveracci? Sicuramente la prima categoria. Un obiettivo che non è solo suo, ma anche dei “garantisti” di Forza Italia. E anche di Fratelli d’Italia che prima di mandare Meloni a palazzo Chigi erano per il “tutti in galera”. Ma ora non lo sono più. Come dimostra l’annuncio della stretta sulle intercettazioni che diventeranno possibili solo fino a 45 giorni, a meno che non si tratti di reati gravissimi, e poi l’impossibilità di intercettare il difensore con il suo cliente, e ancora quella di tagliare gli ascolti con il Trojan, come ha suggerito il neo forzista Enrico Costa. E proprio grazie a Costa, che l’ha proposto a dicembre scorso, sta per scattare il bavaglio sulla stampa che dovrebbe essere indigesto per un Guardasigilli ex editorialista di un quotidiano. Vietato pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare. Nonostante, ancora durante le audizioni alla Camera del 2 ottobre, la Fnsi, l’Ordine dei giornalisti, l’Anm, Ossigeno, l’avvocata Caterina Malavenda, nonché M5S con dozzine di quesiti, e quattro colleghi che da anni fanno cronaca giudiziaria (Lirio Abbate, Paolo Biondani, Luigi Ferrarella, Mario Lillo) abbiamo chiarito che la direttiva sulla presunzione d’innocenza del 2016 non chiede affatto una norma che, come dice il presidente dell’Ordine Carlo Bartoli “è liberticida e ci avvicina alla Turchia”. Un intervento “per smantellare i contro poteri che garantiscono la democrazia” per la segretaria della Fnsi Alessandra Costante. Un provvedimento “che si fa mentre l’Europa non ce lo chiede, mentre non si fa quello che l’Europa ci chiede, come le norma contro le querele temerarie” ripete ancora una volta il presidente della Fnsi Vittorio Di Trapani. A chiedere il bavaglio resta solo il presidente dell’Unione delle Camere penali Francesco Petrelli che vorrebbe pure “sanzioni disciplinari, amministrative, reputazionali, condanne per danno civile”. Ci manca solo il taglio della testa. Ma l’avvocata Malavenda gli ricorda che “la presunzione d’innocenza è tutelata meglio dalla pubblicazione integrale dell’ordinanza”. E Nordio? È per il bavaglio. Dev’essere per questo che Silvio Berlusconi, tra i suoi ultimi atti politici, ha dato il via libera alla sua nomina. Sta realizzando quello che lui non era riuscito a portare a casa. Restringere al massimo le intercettazioni, mettere sotto schiaffo la magistratura con la separazione delle carriere, con il sorteggio per il Csm, con la sistematica delegittimazione dei magistrati che sul campo cercano di fare il loro lavoro. Il caso Toti ne è una prova. Carlo Nordio è un ministro “attivo”? Sicuramente sì. Lo è nell’attaccare gli ex colleghi che non lo hanno mai né amato, né considerato uno di loro. Bastava farsi un giro, all’epoca, quando in tutta Italia fiorivano le inchieste su Tangentopoli. Ciliegina sulla torta è quel ripetere che sul caso Palamara “è stato messo un coperchio frettoloso”. Un’implicita e dura critica a Sergio Mattarella che di quel Csm era il presidente e aveva in David Ermini un vice che non faceva un solo passo senza il suo consenso. Cosa avrebbe voluto Nordio, forse la decapitazione dei magistrati che parlavano con Palamara? Compresi quelli che poi lui si è portato al ministero? È uno spettacolo triste vedere un ex magistrato che evidentemente dentro di sé conserva un’acredine repressa verso chi faceva il suo lavoro, al punto da delegittimarli con le leggi che fa e le cose che dice. Separazione delle carriere, avanti tutta alla Camera di Liana Milella La Repubblica, 4 ottobre 2024 Forza Italia brucia i tempi, il 23 ottobre già al via gli emendamenti. Detto fatto. Forza Italia accelera al massimo sulla separazione delle carriere, l’obiettivo di una vita che Silvio Berlusconi da premier non è mai riuscito a portare a casa. E invece ecco adesso che il governo di Meloni punta a farcela. Anche se, con una netta inversione di rotta, mette in secondo piano il premierato, costretto a una battuta d’arresto anche per via delle incertezze sulla legge elettorale. Fatto sta che Nazario Pagano, il presidente forzista della commissione Affari costituzionali della Camera, apre l’ufficio di presidenza con un altolà. Si voti subito, già la prossima settimana, il testo base della separazione delle carriere, con un timing assai stretto, andare alla presentazione e al voto degli emendamenti per il 23 ottobre. Ovviamente con l’obiettivo di approvare addirittura prima di Natale, incuneandosi nella sessione di bilancio, la riforma costituzionale più indigesta per la magistratura. Un’accelerazione che la scorsa settimana aveva imposto ai suoi, in modo assai brusco, il capogruppo forzista al Senato Maurizio Gasparri. Al contempo ecco partire dalla Camera una sorta di cadeau per gli avvocati - lo stesso Pagano esercita proprio questa professione a Pescara - che a Reggio Calabria nel fine settimana tengono il congresso straordinario dell’Unione delle camere penali dove proprio Pagano terrà una relazione sul nuovo equilibrio tra magistratura e costituzione. Ci saranno il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli (anche lui avvocato) e il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Da lui potrebbero partire i fulmini contro la separazione che prima o poi si concretizzeranno in uno sciopero. Viene data per certa la presenza del Guardasigilli Carlo Nordio. E non manca la voce della politica con la new entry in Forza Italia Enrico Costa e il capogruppo in commissione Giustizia della Camera Tommaso Calderone. A fronte delle opposizioni, Pd, M5S, Avs, che hanno dovuto constatare l’accelerazione di Pagano e prendere atto del suo annuncio - “Abbiamo chiuso le audizioni, adesso dobbiamo passare al testo base e agli emendamenti” ha detto durante l’ufficio di presidenza fissando anche le prossime date - bisogna registrare proprio la soddisfazione di Costa che ci tiene a ricordare adesso “come la mia sia stata la prima proposta di legge sulla separazione delle carriere in questa legislatura”. Peraltro proprio l’ex di Azione aveva contestato duramente la scelta di Nordio di presentare un suo disegno di legge costituzionale a fronte dei quattro ddl già presenti alla Camera e che per giunta erano arrivati al testo base un anno fa, cioè lo stesso punto che si registra adesso. Già allora Costa parlava di “un’inutile perdita di tempo”. Per fortuna - guardandola dal fronte della magistratura - si sono persi dei mesi in vista di una riforma che, subito dopo l’approvazione a palazzo Chigi, a fine maggio, il presidente dell’Anm Santalucia aveva giudicato “inutile e dannosa”. A mostrare entusiasmo adesso è soprattutto il forzista Pietro Pittalis, vice presidente della commissione Giustizia della Camera, che vede già “un’approvazione spedita”, e “col grande supporto di Forza Italia”, per “garantire alla magistratura giudicante e a quella requirente l’indipendenza, la credibilità e l’autorevolezza indispensabili per svolgere le loro funzioni al servizio dei cittadini e del Paese”. Ovviamente questo è da vedere, perché all’opposto tutti i giudici sono in subbuglio e vedono questa riforma costituzionale solo in chiave punitiva. Anm verso il rinnovo. E tra le correnti è già scontro totale di Simona Musco e Valentina Stella Il Dubbio, 4 ottobre 2024 La campagna elettorale per i vertici del “sindacato” delle toghe si intensifica, con tensioni tra i gruppi, accuse di collateralismo e compromessi. Pinelli prova a sminare il conflitto almeno al Csm. Sembra essere già entrata nel vivo la campagna elettorale per il rinnovo dei vertici dell’Anm. Le elezioni del “parlamentino” sono previste a fine gennaio: seguirà la scelta di presidente, segretario e vicepresidente. Secondo alcune indiscrezioni, i giochi sarebbero ormai chiusi: il segretario di “Magistratura indipendente” Claudio Galoppi dovrebbe essere il nuovo presidente del “sindacato”, in virtù di un accordo con le correnti progressiste di “AreaDg” e “Magistratura democratica”, con “Unicost” fuori dalla partita e la carica di segretario assegnata al gruppo guidato da Giovanni Zaccaro. Un’ipotesi smentita, però, da fonti della sinistra giudiziaria, secondo le quali invece l’atteggiamento di Galoppi, giudicato troppo indulgente nei confronti dell’Esecutivo, rischierebbe di trasformarsi in un boomerang. Una lettura che si può riassumere così: la magistratura si sente sotto attacco da parte del governo e della maggioranza, tra le riforme approvate, come il ddl penale Nordio, e quelle in cantiere, come la separazione delle carriere e gli interventi sulle intercettazioni. Senza dimenticare le accuse di presunti complotti ai danni di politici sgraditi. Così, secondo questa interpretazione, chi andrà a votare a gennaio potrebbe cercare figure in grado di non scendere a compromessi con il legislatore: circostanza che penalizzerebbe Galoppi. Le correnti, dunque, a distanza di sicurezza sembrano avere già affilato le armi. I pretesti sono i più vari: dalla nuova circolare sulle nomine fino alla paternità della lotta sindacale per garantire il diritto alla malattia anche per i magistrati, la battaglia si gioca a colpi di comunicati. E allora basta buttare un occhio alle dichiarazioni degli ultimi giorni per comprendere che la partita si preannuncia già molto tesa. Il primo spunto polemico viene dalla “riforma” interna al Csm sulla circolare che disciplina gli incarichi direttivi e semidirettivi. Un’occasione, secondo molti, per guarire le ferite inflitte alla credibilità della magistratura dalle degenerazioni correntizie, figlie del “caso Palamara”, per restaurare l’immagine delle toghe e assicurare alle procure una guida a prova di ricorso al Tar. Un’utopia, forse. O almeno così sembrano dire le stesse toghe. Le proposte in campo, come anticipato dal Dubbio, sono due: una più radicale, che propone un sistema a punteggi quasi logaritmico, che dunque limita all’osso la discrezionalità, e una proposta più soft, che propone correttivi al sistema attuale, con una distinzione tra indicatori specifici e generali il cui rapporto verrebbe meglio specificato. E mentre Area, Md e Unicost sembrano già schierate in maniera netta per la proposta “rivoluzionaria”, Mi prende le distanze. Criticando anche la scelta di portare all’esterno le proposte, che restituisce una prima geografia del futuro voto, con 13 sì quasi certi per la proposta radicale. Se per Unicost si tratta di “un’occasione storica”, manifestando la propria preferenza per “l’esercizio anticipato della discrezionalità al momento della individuazione dei criteri di scelta”, per Mi si tratta di un “grande bluff”, tanto da definire le dichiarazioni degli ultimi giorni - ovvero quelle di Unicost, la prima corrente ad esporsi - “proclami propagandistici”. Per la presidente Loredana Micciché e il segretario Galoppi, con l’introduzione di punteggi fissi per ogni parametro “un qualsiasi algoritmo potrebbe sostituirsi alla scelta del Csm per designare anche il primo presidente della Corte di Cassazione”, un’eventualità non consentita dalla Costituzione. E gli escamotage per aggirare anche questa regola, aggiungono, non mancherebbero. “È evidente che la graduazione dei punteggi variabili in aggiunta a quelli fissi, attribuiti con il meccanismo “fino a”, permetterà di alterare la graduatoria in favore del prescelto”. Motivo per cui, “sotto le spoglie di un epocale rinnovamento” si nasconderebbe “una discrezionalità senza regole, con il ritorno ad un passato già negativamente sperimentato”. Il j’accuse di Mi non ha lasciato indifferente il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, che ha scritto una lettera ai consiglieri esprimendo preoccupazione per la diffusione delle due proposte. Meglio confrontarsi “in Consiglio”, ha sottolineato, onde evitare quello che ai suoi occhi appare “un concreto rischio di una impropria interferenza sulle scelte che ciascuno di noi è chiamato ad operare”, tale da “condizionare l’attività del Consiglio e le specifiche determinazioni dei singoli Consiglieri” e compromettere “l’immagine di autorevolezza dell’azione consiliare, personalizzando tesi ed opinioni, nutrendo inevitabili protagonismi, alimentando polemiche di parte in una poco commendevole ricerca del consenso”. L’atmosfera, dunque, è tesa. E forse lo scopo reale della lettera di Pinelli è proprio quello di calmare gli animi, per evitare che i lavori del Consiglio vengano “piegati” a logiche di propaganda. Ma un dibattito esterno, per l’indipendente Andrea Mirenda - spettatore delle diatribe tra correnti -, è inevitabile. “I due progetti a confronto” sono stati “giustamente portati all’esterno in assenza di divieti (e ci mancherebbe altro) - ha evidenziato in una mail ai colleghi -. Io appoggerò la scelta per il “sistema dei punteggi”, nell’auspicio (prudentissimo) che ciò possa contrastare, almeno in parte, il Far West del mai cessato nominificio”, come dimostra, ha sottolineato, la recente stangata del Tar alla nomina del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma. “Basteranno i punteggi ad eliminare la lottizzazione correntizia che premia puntualmente il sodale di turno? - si è chiesto - Temo davvero di no. Il correntismo è capace di farsi un baffo di qualsiasi regola, presente e futura, comunque essa sia formulata”. E “senza sorteggio e senza rotazione, possiamo stare tranquilli che non ci sarà alcun Sol dell’Avvenire, alcuna rinascita, alcun vero rinnovamento”. L’altra querelle interna alle correnti è nata sabato scorso, durante un convegno organizzato da Mi sull’AI, quando il ministro Nordio ha annunciato che la disposizione in materia di congedo straordinario per malattia dei magistrati entrerà nella prossima Legge di Bilancio. Il guardasigilli ha ringraziato il segretario Galoppi per avergli sottoposto la questione e ha rivendicato la sua iscrizione ad Mi dal 1976. “Una storica battaglia di Magistratura indipendente”, ha scritto poi il gruppo su Facebook. Ne è nato un acceso ping pong, attraverso note ufficiali, tra Mi e Unicost. Quest’ultima ha rivendicato il fatto che il raggiungimento dell’obiettivo appartenga invece “all’Anm tutta” e ha stigmatizzato una presunta trattativa separata tra i vertici di Mi con via Arenula che avrebbe come contropartita un “impegno ad una maggiore accondiscendenza rispetto alle riforme costituzionali in cantiere” da parte di Mi per inseguire “presunti ritorni elettorali”. Accusa “diffamatoria”, è stata la reazione della corrente conservatrice. Insomma, il clima è infuocato. E la strada fino alle urne ancora lunga. Manes: “Con le vittime di reato in Costituzione si precipita nel diritto penale ossessivo” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 ottobre 2024 Proseguite ieri in Commissione Affari costituzionali del Senato le audizioni in merito al disegno di legge costituzionale che vorrebbe inserire nell’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo, anche la tutela per “le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Tra i giuristi ascoltati diversi si sono mostrati perplessi: tra loro il professor avvocato Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna, con cui approfondiamo il tema in questa intervista. Che ne pensa del ddl costituzionale in discussione? Devo confessare le mie perplessità, perché mi pare una modifica da un lato superflua, dall’altro portatrice di possibili effetti distorsivi sulle dinamiche del processo penale: il rischio, in altri termini, è di inserire nella Costituzione una norma declamatoria, o simbolica, che però potrebbe generare degli slittamenti rischiosi per l’architettura del processo, dove la vittima, già ora, ha guadagnato un posto sempre più protagonistico, dentro e fuori dalle aule giudiziarie. Andiamo con ordine: perché la ritiene superflua o declamatoria? Tutto il sistema della giustizia penale è pensato per offrire tutela alla vittima del reato, ove questa venga riconosciuta tale all’esito del processo. Riconoscere espressamente questo compito di tutela nella Costituzione mi pare che non aggiungerebbe, dunque, nulla di nuovo. Anzitutto, nel “blocco di costituzionalità” entrano atti normativi (o para-normaitvi) sovranazionali che vincolano già lo Stato alla tutela della vittima, come convenzioni internazionali, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le più recenti Direttive dell’Ue, che hanno riconosciuto con sempre maggior impegno e precisione diritti e facoltà della vittima. In che termini? Dal diritto ad ottenere informazioni “fin dal primo contatto con un’autorità competente”, al diritto di ottenere assistenza medica; dal diritto all’interpretazione e alla traduzione, al diritto all’assistenza e al patrocinio gratuito; sino al diritto di essere sentita, al diritto di interpello - o di appello in caso di decisione di non esercitare l’azione penale e così via. Del resto, mi pare che la gran parte delle carte costituzionali di Paesi a noi vicini (come Francia, Germania, Austria, Belgio) ed anche costituzioni recenti (come la costituzione spagnola) o testi di rango costituzionali (come lo Human Rights Act in Inghilterra) non presentino una espressa menzione al principio di tutela della vittima, perché questo è implicito nel sistema. L’espressa menzione della tutela della vittima nella Carta fondamentale avrebbe dunque una funzione per lo più “espressiva”: ed un utilizzo simbolico- espressivo, della Costituzione, finisce per svilirla, per trivializzarla, come fosse un testo suscettibile di modifiche di “pronto consumo”, con il rischio di una “volgarizzazione” della legge fondamentale, o come si è detto, di una sua “macdonalizzazione”. Quali i pericoli per il giusto processo? Temo che non si possano escludere possibili effetti distorsivi, perché il principio inserito - oltre ad enfatizzare un ruolo già pienamente riconosciuto alla vittima - potrebbe poi generare ulteriori concretizzazioni, o ulteriori “corollari”, tutti nella direzione di una accentuazione della presenza della vittima e di una sua crescente “protagonizzazione”, sin dagli inizi del processo, e quindi anche prima di un compiuto accertamento dei fatti e delle responsabilità. La presenza della vittima, nel corso del processo, è sempre un fattore emotigeno, ed è per questo che l’evoluzione del processo penale ha ritenuto di limitarne il ruolo, per neutralizzare le spinte emotive che questo necessariamente implica e che - del tutto comprensibilmente - reca con sé. Ognuno sa che, nella realtà dei processi, la vittima non chiede solo giustizia, ma chiede condanna; le parti civili non si attendono solo una risposta in termini di verità o di giustizia, ma si attendono una risposta in termini di condanna, dove venga riconosciuta la “loro” verità. Ce lo ricordano, dolorosamente, le reazioni delle parti civili di fronte a sentenze di assoluzione, le aggressioni ai giudici che hanno avuto il coraggio di assolvere o magari anche solo di riconoscere una circostanza attenuante o di irrogare una pena che non soddisfa le aspettative delle vittime. In tutti questi casi la risposta viene vissuta come un episodio di “denegata giustizia”. Ennio Amodio al Dubbio ha detto: “Sarebbe una legge-manifesto finalizzata solamente a ridimensionare il garantismo espresso dalla norma costituzionale sul giusto processo”. Lei è d’accordo? Sono d’accordo e mi pare che questa autorevole opinione trovi una ampia condivisione nella comunità degli studiosi più sensibili ai principi del processo penale liberale. Senza contare che questo principio, come accennavo, potrebbe generare altri “corollari”, con una china sempre più scivolosa: dal principio costituzionale di tutela delle vittime è infatti facile immaginare che possa farsi discendere non solo un obbligo di tutela delle vittime in capo allo Stato, ma un vero e proprio obbligo di protezione “penale”, che legittimerebbe o persino imporrebbe un utilizzo ancor più compulsivo del diritto penale al cospetto di ogni “nuova” vittima. E non si può escludere che, su questa scia, si giunga poi a riconoscere a chi rivendichi lo status di vittima, sin dagli esordi del procedimento, un vero e proprio diritto non solo alla verità o ad ottenere giustizia, ma ad ottenere la punizione del colpevole. Un autentico “right to punishment” che, a quel punto, dovrà essere garantito da un ordinamento penale - e da un giudice che non opererà più con la doverosa distanza di chi guarda la scena dall’alto, da una posizione di imparzialità rispetto alle parti, ma che guarderà la scena con gli “occhi della vittima”: conducendo ad un sistema di giustizia, in altri termini, che rischia di identificare l’unico esito accettabile del processo nella condanna e l’unica risposta accettabile al delitto nella pena. Ma non è la condanna l’unico esito del processo, né la pena l’unica risposta al delitto. Ci sono state diverse polemiche perché nel processo a carico di Filippo Turetta non sono state ammesse diverse parti civili, fatta eccezione per il padre e la sorella della vittima. A prescindere dal singolo caso, lei ritiene che le parti civili siano compatibili con un rito accusatorio? La proliferazione delle parti civili non giova al processo accusatorio e spesso rappresenta un peso molto gravoso per lo svolgimento del processo e la sua ragionevole durata; tanto più quando chiedono di essere riconosciute come parti civili soggetti che possono lamentare un danno solo indiretto rispetto alla concreta vicenda che il processo deve accertare. Credo che sia da ripensare profondamente il rapporto tra azione civile e processo penale, perché spesso la prospettiva civilistica segue scopi e criteri che finiscono per confliggere con quella penale, come ha evidenziato la recente, apprezzabilissima decisione delle Sezioni Unite sulla questione del criterio decisorio da seguire in caso di decisione sull’impugnazione agli effetti civili in caso di reato prescritto. Dietro tutto questo possiamo dire che c’è una ascesa del paradigma vittimario? Mi pare difficile disconoscere questo trend, già ampiamente dispiegato, e non è una tendenza positiva: la vittima deve restare al centro della domanda di giustizia, ma una giustizia che mette al centro la vittima rischia di vedere profondamente alterati i propri equilibri. Via D’Amelio, alla sbarra per i depistaggi c’è lo Stato di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 ottobre 2024 Il gip di Caltanissetta: palazzo Chigi e Viminale responsabili civili per la strage del 1992. Se i quattro poliziotti verranno condannati, a pagare saranno le istituzioni. Il teorema è lo stesso della cosiddetta trattativa stato-mafia: istituzioni e cosa nostra a braccetto per depistare, insabbiare, coprire la verità sugli anni delle stragi e degli omicidi dei corleonesi, stagione terminata con una valanga di arresti e diversi secoli di condanne. Una storia cominciata a Palermo, sconfessata dalla Cassazione del 2023 e che ora riemerge a Caltanissetta, con l’inchiesta a carico di quattro poliziotti (Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco) che avrebbero depistato le indagini sull’omicidio del giudice Paolo Borsellino, avvenuto il 19 luglio del 1992, e per aver mentito al processo su Vincenzo Scarantino, pentito che poi non si è rivelato davvero tale. IERI, nell’ennesima puntata di un’udienza preliminare che avanti ormai da mesi e mesi, il gip David Salvucci ha accolto la più pesante delle richieste avanzate dalle parti civili: la presidenza del consiglio e il ministero degli Interni saranno responsabili civili del processo. In altre parole, se gli imputati dovessero essere condannati, saranno palazzo Chigi e il Viminale a rispondere in solido per i risarcimenti. Si tratta di una mossa tutt’altro che banale, perché mette di fatto lo stato a sedere sul banco degli imputati: non solo agenti infedeli, ma anche istituzioni che li avrebbero coperti o che, quantomeno, non avrebbero vigilato abbastanza. L’ammissione della presidenza del consiglio, peraltro, apre una sottopartita che tira in ballo i servizi segreti, a partire dal loro (improprio) coinvolgimento nella prima indagine su via D’Amelio, quella condotta a Caltanissetta dal pm Giovanni Tinebra. Il Sisde, secondo quanto disse l’allora alto dirigente Bruno Contrada, diede solo “un contributo informativo” all’indagine ma, in ogni caso, si trattò di un qualcosa al di fuori della legge, perché le procure non possono delegare alcunché ai servizi. La questione non è nuova e venne già affrontata anche nel recente processo, sempre per depistaggio, contro tre investigatori (Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo); vicenda che si è conclusa in Appello con due prescrizione e un’assoluzione piena. Tra le altre decisioni prese ieri, il giudice Salvucci ha escluso dalle parti civili per difetto di requisiti Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso, e i familiari degli agenti della scorta morti durante l’attentato. La prossima udienza, durante la quale tornerà a prendere la parola il pm Bonaccorso, è stata fissata per il 7 novembre. A oltre trent’anni dall’omicidio di Paolo Borsellino - che seguì di un paio di mesi quello di Giovanni Falcone - i contorni della vicenda continuano ad essere poco chiari, così come nessuna indagine è mai riuscita ad arrivare a un punto. Almeno in tribunale, perché fuori, soprattutto in libreria, queste storie hanno sempre avuto, per così dire, una certa fortuna. La procura di Caltanissetta ha raccolto da quella di Palermo il testimone della grande teoria del complotto a base di indicibili accordi, inaudite commistioni e verità che non si possono rivelare. Una tendenza che non si esprime solo in questo eterno ritorno ai depistaggi dell’affaire Borsellino, ma anche nell’indagine sul presunto insabbiamento del fascicolo mafia-appalti. Qui tra gli indagati c’è un nome eccellente come quello di Giuseppe Pignatone, entrato in gioco con molto clamore quest’estate, anche se il reato che è stato ipotizzato (favoreggiamento) è ormai da tempo prescritto. L’obiettivo di quest’altra inchiesta è sempre fare luce su via D’Amelio: secondo gli investigatori, infatti, il vero movente della strage in cui perse la vita Borsellino è da ricercare proprio nel suo interessamento a mafia-appalti. Anche qui parliamo di una teoria con una sua lunga storia alle spalle e ancora alla ricerca delle prove necessarie a dimostrarla. L’Avvocatura dello Stato blocca il risarcimento a Stefano Binda per ingiusta detenzione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 ottobre 2024 Accusato di aver ucciso l’ex compagna di liceo Lidia Macchi, è stato assolto definitivamente. È rimasto in carcere per tre anni, 6 mesi e 40 giorni?. È infinita la vicenda giudiziaria di Stefano Binda, di Brebbia (Varese), arrestato nel 2016 con l’accusa di aver assassinato 30 anni l’ex compagna di liceo Lidia Macchi e poi assolto definitivamente per non aver commesso il fatto, ma detenuto in carcere da innocente per tre anni 6 mesi e 40 giorni. L’Avvocatura dello Stato ha impugnato la decisione della Cassazione bloccando il risarcimento che gli era stato riconosciuto. Dopo la piena assoluzione Binda ha chiesto di essere risarcito per l’ingiusta detenzione subita. Ottenendo un primo riconoscimento, pari a 303mila euro, dalla Corte d’Appello di Milano. Sentenza impugnata davanti alla Cassazione dalla Procura generale di Milano. Lo scorso 23 settembre la massima Corte ha riconosciuto a Binda un risarcimento pari a 212mila euro attribuendogli una “colpa lieve” nella sua condotta processuale. La Procura generale di Milano, nella sua impugnazione, aveva sempre sostenuto che “con i suoi silenzi” Binda avrebbe “contribuito all’errore sulla sua carcerazione” e che “la condotta mendace” negli interrogatori fu una “condotta fortemente equivoca”. E sosteneva, dunque, che non avesse diritto ad indennizzi. Binda, in realtà, aveva subito parlato per quasi 8 ore davanti al pm dichiarandosi innocente e fornendo anche un alibi (poi confermato in dibattimento): mentre Lidia Macchi veniva massacrata con 27 coltellate lui si trovava a Pragelato (Torino) insieme ad altri ragazzi in una vacanza organizzata da Comunione e liberazione. Con la recente sentenza della Cassazione la vicenda pareva conclusa. L’Avvocatura dello Stato, però, ha impugnato la decisione della massima Corte, bloccando il risarcimento riconosciuto. Al momento non si sa se anche la Procura generale di Milano intenda impugnare il provvedimento della Cassazione. Certo è che gli avvocati difensori di Binda, Patrizia Esposito e Sergio Martelli, depositeranno a loro volta un ricorso contestando il punto relativo alla “lieve colpa” che per i difensori è totalmente inesistente. Intercettazioni, i “paletti temporali” per l’utilizzabilità in procedimenti diversi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2024 Le S.U. della Cassazione, sentenza n. 36764 depositata oggi, hanno chiarito che la disciplina dell’art. 270, co. 1, Cpp. opera ove il procedimento nel quale sono state fatte le intercettazioni è stato iscritto dopo il 31 agosto 2020. La Corte chiarisce anche il regime di pubblicità delle pronunce con riguardo all’oscuramento dei dati sensibili. Arrivano i chiarimenti delle Sezioni unite sulla utilizzabilità delle intercettazioni in “procedimenti diversi” fissando un rigido spartiacque temporale fra nuova e vecchia disciplina. Con la sentenza n. 36764 depositata oggi, la Suprema corte afferma che non può essere condiviso l’orientamento secondo cui la norma transitoria - art. 9 legge 216 del 2017 (come modificata nel 2020 nella parte in cui fa riferimento “ai procedimenti penali iscritti dopo il 31 agosto 2020”) - dovrebbe essere interpretata nel senso di ritenere che, ai fini dell’applicazione del nuovo art. 270 cod. proc. pen., deve aversi riguardo alla data di iscrizione del procedimento “diverso”. I giudici chiariscono che è invece condivisibile l’orientamento secondo cui, in ragione della norma transitoria, il nuovo art. 270 cod. proc. pen. trova applicazione solo nel caso in cui il procedimento originario sia iscritto dopo il 31 agosto 2020. Hanno così affermato il seguente principio di diritto: “La disciplina del regime di utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi, di cui all’art. 270, comma 1, cod. proc. pen. - nel testo introdotto dal Dl 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 2020, n. 7 ed anteriore al decreto legge 10 agosto 2023, n. 105, convertito con modificazioni dalla legge 8 ottobre 2023, n. 137 - opera ove il procedimento nel quale sono state compiute le intercettazioni sia stato iscritto successivamente al 31 agosto 2020”. È stato dunque accolto il ricorso di tre avvocati contro l’ordinanza del Tribunale di Napoli che aveva disposto la misura interdittiva del divieto di esercitare la professione forense per la durata di un anno, in quanto “gravemente indiziati” del delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la fede pubblica e falso ideologico in atto pubblico. I ricorrenti si sarebbero associati al fine di presentare, sulla base di false procure, ricorsi per decreti ingiuntivi - per ottenere i contratti di attivazione delle utenze da parte di compagnie assicurative - in diversi uffici del Giudice di Pace, i quali, indotti in errore, avrebbero in numerosi casi emesso decreti ingiuntivi con distrazione delle spese a loro favore. I “gravi indizi” sarebbero stati desunti dal contenuto di “numerose conversazioni telefoniche intercettate”, disposte ed eseguite nel corso di un altro procedimento penale poi acquisite e utilizzate ai sensi dell’art. 270 cod. proc. pen. Per la Suprema corte, dunque, sono fondati i motivi di ricorso relativi alla inutilizzabilità delle intercettazioni, in quanto “le conversazioni utilizzate nel presente procedimento, iscritto - quanto al delitto associativo - il 28 marzo 2022, sono state disposte nel 2019 nell’ambito di un procedimento originario iscritto nel 2018”. Ragion per cui, taglia corto la decisione, “si tratta di conversazioni inutilizzabili”. Le S.U. hanno invece respinto la richiesta di oscuramento dei dati sensibili. L’istanza, argomenta la Corte, è articolata sulla base dell’unico argomento secondo il quale la diffusione della decisione produrrebbe “un effetto pregiudizievole in ambito lavorativo, nella vita sociale e in ambito familiare”, tenuto conto, peraltro, della sommarietà della fase cautelare. Per i giudici, però, si tratta di una motivazione “obiettivamente generica”. Il pregiudizio prospettato, in particolare, discenderebbe, dalla diffusione della notizia della “mera esistenza di un procedimento penale ancora nella fase delle indagini preliminari e di una prospettazione d’accusa ancora fluida, in divenire”. Ma se così fosse, prosegue la decisione, si vanificherebbe “l’esigenza di bilanciamento” col principio della “pubblicità della sentenza” dal momento che “la semplice esistenza di un procedimento penale dovrebbe sostanzialmente di per sé comportare “sempre” la deroga alla regola generale della diffusione del contenuto integrale di un provvedimento giudiziario”. Mentre invece essa dipende da un “giudizio di relazione tra due poli” che il giudice è tenuto a compiere in concreto, di volta in volta, in ragione dei motivi per cui la vicenda riveste “particolare delicatezza” e, in particolare, di quelle per cui, se l’oscuramento non fosse disposto, si produrrebbero conseguenze negative “sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato, come ad esempio, in ambito familiare o lavorativo”. Un onere di specificazione del motivo, dunque, che giustifica l’oscuramento dei dati solo “in quanto prevalente rispetto alla regola generale della diffusione integrale del provvedimento”. Roma. “Tra cavi volanti e puzza di fumo, Regina Coeli è diventata una baraccopoli” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 ottobre 2024 “L’ottava sezione del carcere è diventata una baraccopoli!”. In un’atmosfera di crescente preoccupazione per quanto riguarda l’insostenibile penitenziario nel cuore di Roma, il sindacalista Gennarino De Fazio della Uil-Pa Polizia Penitenziaria ha lanciato un grido d’allarme sulle condizioni di Regina Coeli dopo i recenti disordini. Le sue parole dipingono un quadro di degrado e pericolo che sconvolge la coscienza e mette in discussione i fondamenti stessi del sistema penitenziario italiano. La sua denuncia è un pugno allo stomaco: 115 detenuti ammassati su quattro piani privi di elettricità, con cavi elettrici volanti che serpeggiano lungo le scale in un disperato tentativo di portare un po’ di luce. Ambienti carbonizzati, inferriate divelte, intonaci che si sbriciolano sotto il peso dell’incuria. E nell’aria quell’acre odore di bruciato che si insinua nei polmoni, testimone silenzioso di una violenza ancora palpabile. Questa denuncia ha rivelato una realtà che va ben oltre il concetto di “emergenza”. Siamo di fronte a una vera e propria crisi umanitaria, consumata nel cuore della capitale italiana. “Non ci vuole un luminare per comprendere che sono come minimo palesemente insalubri e pericolosi”, tuona il Segretario Generale. La sua dichiarazione non lascia spazio a interpretazioni: quei luoghi non sono adatti né ai detenuti né agli agenti di polizia penitenziaria costretti a lavorarvi. L’appello di De Fazio alle autorità competenti è un grido disperato per un intervento immediato. La minaccia di ricorrere all’autorità giudiziaria non è un bluff, ma la risposta estrema a una situazione che non può più essere ignorata. “Non è accettabile mantenere persone, lavoratori e reclusi, in quelle condizioni”, afferma con forza, ricordandoci che dietro le sbarre ci sono esseri umani, con diritti inalienabili che uno Stato di diritto ha il dovere di proteggere. Il contrasto tra la realtà di Regina Coeli e i progetti del Ministro della Giustizia Carlo Nordio non potrebbe essere più stridente. Mentre il Ministro si prepara a visitare l’Albania per discutere sulla creazione del centro di detenzione, De Fazio suggerisce sarcasticamente che sarebbe “più proficuo e meno dispendioso” se il Ministro visitasse il carcere a pochi passi dal suo ufficio. Un carcere che, con il doppio dei detenuti rispetto alla capienza e la metà del personale necessario, è diventato “l’emblema e la capitale della disfunzionalità del sistema penitenziario italiano”. A conferma della gravità della situazione, i Garanti regionale e comunale dei detenuti, Stefano Anastasia e Valentina Calderone, martedì scorso hanno effettuato una visita nell’ottava sezione di Regina Coeli. Il loro resoconto è altrettanto inquietante: l’odore di fumo persiste, un piccolo focolaio è ancora attivo, l’impianto elettrico è fuori uso e persino uno dei cortili per il passeggio è a rischio per la possibile caduta di tegole dal tetto. Nonostante l’intervento dell’ufficio tecnico del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per valutare i danni e l’agibilità della struttura, al momento della visita dei Garanti la Direzione non aveva ancora ricevuto indicazioni operative. Questa mancanza di comunicazione e di azione immediata è sintomatica di un sistema in crisi, incapace di rispondere tempestivamente anche alle emergenze più gravi. I Garanti hanno sollecitato urgenti indicazioni operative, ricordando che esiste già un incarico affidato per il rifacimento dell’intera sezione. Ma nel frattempo, detenuti e agenti continuano a vivere e lavorare in condizioni che sfidano ogni norma di sicurezza e dignità umana. La situazione di Regina Coeli è un microcosmo delle sfide che affliggono l’intero sistema penitenziario italiano. Con 1161 detenuti a fronte di 626 posti regolamentari, il carcere romano ha un tasso di affollamento del 185%, una bomba a orologeria di tensioni e disagio pronta a esplodere in qualsiasi momento. Questa testimonianza da Regina Coeli non è solo la cronaca di un disastro annunciato, ma un monito per l’intera società. Le condizioni in cui versano i nostri istituti penitenziari sono lo specchio dei valori che, come Paese, scegliamo di abbracciare o ignorare. La riabilitazione, il rispetto dei diritti umani, l’insostenibile sovraffollamento, la sicurezza stessa degli operatori penitenziari: tutto è messo in discussione quando permettiamo che esistano “prigioni nella prigione” come Regina Coeli. L’urgenza di un intervento non è più procrastinabile. Le parole di De Fazio e dei Garanti dovrebbero trasformarsi in azioni concrete, in un piano di riforma che oltre a tamponare immediatamente le emergenze, ripensi radicalmente il concetto di detenzione e reinserimento sociale. Solo così potremo dire di aver onorato non solo i nostri obblighi costituzionali, ma anche quel senso di umanità che dovrebbe guidare ogni società civile. La storia di Regina Coeli è la storia di un fallimento sistemico, ma può anche diventare il punto di partenza per un cambiamento radicale. Ma la volontà politica, per ora, non c’è. Il decreto carceri non solo non produce alcun effetto nell’immediato, quando proprio per la natura emergenziale dei decreti occorrerebbero soluzioni anche di immediata attuazione, ma nemmeno a lungo termine. Firenze. Dentro Sollicciano piove a dirotto. Nei corridoi e in cella di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 ottobre 2024 Una storica volontaria: “Abbiamo messo gli impermeabili, mai vista una cosa così”. Acqua nei corridoi e nelle celle. A Sollicciano gli agenti costretti a indossare gli impermeabili. Dentro la sezione penale di Sollicciano si sente lo scroscio d’acqua che si riversa a terra. Inarrestabile, sembra quasi una cascata. Altro che infiltrazione, dicono quelli che l’hanno visto da vicino, sembra piuttosto un buco nel muro, perché la potenza della pioggia è la stessa che c’è fuori dal carcere. Quindi, di fatto, piove in carcere. Piove come se il carcere fosse all’aperto, in alcuni punti. E il pavimento, nel corridoio della sezione penale, è allagato. E alcune celle, pure, hanno l’acqua sul pavimento con i detenuti costretti a stare con le scarpe. “Non avevo mai visto una cosa del genere in tanti anni che vengo qui a fare volontariato” racconta una storica operatrice del penitenziario fiorentino, ieri pomeriggio, dopo essere uscita da Sollicciano. Per terra ci sono circa due centimetri d’acqua: “Non basta saltellare qua e là per evitare le pozzanghere, stavolta è diverso, devi passare per forza in mezzo al lago del corridoio, mi si sono bagnate le scarpe”. E poi, quando arrivi in quel punto dove c’è lo scroscio dell’acqua, i passanti devono coprirsi. “Mi sono messa il cappuccio dell’impermeabile per bagnarmi il meno possibile”. E così non fanno soltanto i volontari, ma anche gli agenti penitenziari che lavorano coi giubbotti e coi cappucci, che scansano l’acqua ma di acqua, in alcuni corridoi, ce n’è troppa. E anche loro si bagnano le scarpe. E si bagnano anche i reclusi, quelli che passano per andare a scuola o per presentarsi a un colloquio. Qualche goccia d’acqua arriva anche nella stanza dei colloqui con gli avvocati. “La situazione è davvero imbarazzante” dice la volontaria che preferisce restare anonima. Poi aggiunge: “Per non parlare dell’umidità, sono uscita da Sollicciano che avevo il raffreddore”. E quindi non è facile, vivere e lavorare in queste condizioni, come sottolinea Eleuterio Grieco, segretario regionale della Uil Pa: “Era tutto prevedibile, è arrivata la grande pioggia e Sollicciano si è puntualmente allagato, così viene meno il valore di ogni persona che vive e lavora qui dentro, ormai non è più un contesto da Paese civile”. Vanno meglio le cose al giudiziario, dove le infiltrazioni ci sono ma dove, a differenza di qualche mese fa, non ci sono allagamenti e non si è fatto ricorso ai secchi. E insomma, Sollicciano è ancora fatiscente con la struttura che fa acqua da tutte le parti: letteralmente. Sono stati promessi sette milioni per la ristrutturazione, due anni fa. Ma gran parte di questi lavori sono ancora bloccati. “A rimetterci sono i detenuti - commenta amaramente don Vincenzo Russo, già cappellano di Sollicciano e responsabile pastorale carcere per la diocesi - Non si capisce lo stallo che c’è nel carcere, dove prosegue la diatriba tra Dap e direzione ma dove i lavori, di fatto, non sono mai terminati. Cosa dobbiamo aspettare ancora?”. Reggio Emilia. Pestaggio in carcere, il processo è alle battute finali di Andrea Bassi reggionline.com, 4 ottobre 2024 È stato rimandato l’ultimo degli interrogatori di garanzia calendarizzati. Questa mattina si è svolta una delle udienze fissate per sottoporre a interrogatorio gli imputati. Inizialmente attesa per l’inizio dell’autunno, slitta ulteriormente la data della sentenza del processo che vede imputati dieci agenti della Polizia penitenziaria per l’accusa di tortura e lesioni ai danni di un detenuto. È la conseguenza di rinvii legati a finalità difensive. Alla volta prossima è stato ad esempio rimandato l’ultimo degli interrogatori di garanzia che erano stati calendarizzati. Si svolgerà nell’udienza del 28 ottobre. Per l’occasione sarà convocato il comandante della penitenziaria di Reggio, chiamato a chiarire alcuni dettagli su un documento finito agli atti soltanto in queste ultime ore, illustrato davanti al giudice dal difensore di uno degli imputati. Sul fronte delle parti civili, il legale del 44enne pestato, ha consegnato un esposto sollevato dalla parte offesa presso il Tribunale di Parma, riguardante il presunto ritardo, di qualche giorno, con cui fu visitato dal medico legale incaricato dalla procura che aveva ricevuto la segnalazione del violento episodio. Percosse e umiliazioni che risalgono al 3 aprile 2023 avvenute all’interno del carcere di Reggio. Nelle immagini della videosorveglianza si vede l’uomo mezzo nudo, calpestato e colpito al volto mentre è a terra, e una federa utilizzata per incappucciarlo. Le accuse, a vario titolo, di tortura, lesioni e falso riguardano dieci imputati. Il numero potrebbe però aumentare. La Pm Maria Rita Pantani è infatti intenzionata a chiedere il rinvio a giudizio per almeno tre indagati le cui posizioni erano state stralciate. Si tratta sempre di agenti della penitenziaria, con un ruolo più marginale nella vicenda in quanto non avrebbero preso parte in modo attivo al pestaggio. Anche se inquadrati quasi come “spettatori”, secondo l’accusa è tangibile il loro contributo nella vicenda, tale da configurarsi il concorso morale nel reato di tortura e lesioni. Come confermato dalle motivazioni depositate dal Tribunale del Riesame di Bologna, che ha riconosciuto l’intento unitario degli indagati, seppur rigettando la richiesta del pubblico ministero che ravvisava la necessità per tutti della misura cautelare detentiva in carcere. Cagliari. Uta e Quartucciu: si conclude Lav(or)ando, il progetto per il recupero di 24 detenuti L’Unione Sarda, 4 ottobre 2024 Sono stati impiegati nelle lavanderie industriali degli istituti di pena di Uta e Quartucciu. Si avvia alla conclusione il progetto quadriennale Lav(or)ando, sostenuto dalla Fondazione con il Sud e realizzato dalla cooperativa cagliaritana Elan per il recupero sociale di 24 detenuti impiegati nelle lavanderie industriali degli istituti di pena di Uta e Quartucciu. Il prossimo 10 ottobre è prevista la visita, nella prima mattinata a Uta e successivamente a Quartucciu, dell’assessora regionale al Lavoro Desirè Manca, che ha espresso il desiderio di conoscere da vicino la realtà di formazione e reinserimento lavorativo che Elan ha portato avanti in questi quattro anni di progetto. Nel frattempo, nelle scorse settimane, in occasione del G7 del Lavoro e dell’Occupazione che si svolgeva a Cagliari, alla presenza dei dirigenti dei due istituti Marco Porcu e Giuseppina Pani, delle rappresentanti della cooperativa Elan Anna Tedde ed Elenia Carrus, si è svolta la visita del presidente nazionale della Fondazione con il Sud, una tra le più importanti fondazioni italiane impegnate nel sostegno a progetti con i detenuti, Stefano Consiglio che ha espresso sincero apprezzamento per il lavoro svolto. La mattinata è stata l’occasione per fare il punto sullo stato dei lavori del progetto Lav(or)ando, ma anche per conoscere personalmente le persone detenute che hanno potuto accedere ai percorsi di formazione, crescita ed emancipazione professionale e al lavoro in lavanderia. Tanti i temi affrontati durante la visita, dalla modalità di gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro alla valutazione dei bisogni; dalle attività trattamentali e attività lavorative alla condivisione delle modalità di orientamento, selezione, tirocinio lavorativo, assunzione, partecipazione ai gruppi di osservazione e trattamento per le proposte di ammissione al lavoro esterno, ammissione ai benefici penitenziari e alle misure alternative; il lavoro all’esterno e le modalità di inserimento lavorativo (compresa la messa alla prova adulti e minori). Roma. Un’assemblea capitolina a Rebibbia per ridare voce ai reclusi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 ottobre 2024 In un’iniziativa volta a riaccendere l’attenzione sulle condizioni delle carceri, l’Assemblea capitolina ha annunciato l’intenzione di tenere una seduta straordinaria all’interno del penitenziario di Rebibbia. L’evento, che si svolgerà nell’ambito delle celebrazioni giubilari, rappresenta un segnale forte e chiaro della volontà delle istituzioni romane di affrontare in modo diretto e trasparente le problematiche legate al sistema penitenziario. Alla riunione parteciperanno la presidente dell’Assemblea capitolina Svetlana Celli, la consigliera Cristina Michetelli, la Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Valentina Calderone e gli uffici comunali. La presidente dell’Assemblea capitolina ha sottolineato come questa iniziativa rappresenti un chiaro segnale di attenzione verso una realtà spesso ai margini del dibattito pubblico. “Portare l’Assemblea all’interno del carcere è un gesto simbolico ma anche concreto - ha affermato Celli - Vogliamo dimostrare che le istituzioni sono vicine a chi sconta una pena e che sono disposte a lavorare per migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari” . La consigliera Cristina Michetelli, invece, ha posto l’accento sul tema del reinserimento sociale. “La seduta a Rebibbia sarà un’occasione per riflettere sulle misure da adottare per favorire il reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale ha dichiarato Michetelli. È fondamentale offrire a queste persone gli strumenti necessari per ricostruire la propria vita e diventare cittadini attivi”. La seduta straordinaria dell’Assemblea capitolina promette di fare luce sulle criticità del sistema penitenziario romano. Al centro del dibattito ci saranno le condizioni di vita all’interno delle carceri, segnate da sovraffollamento e carenze assistenziali. L’iniziativa di tenere una seduta dell’Assemblea capitolina all’interno di un carcere rappresenta un’opportunità unica per la città di Roma. Da un lato, permetterà di far emergere le criticità del sistema penitenziario e individuare soluzioni concrete per il suo miglioramento. Dall’altro, potrà contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema spesso trascurato e a promuovere una cultura della riabilitazione e del reinserimento sociale. Nelle prossime settimane, la Conferenza dei Capigruppo stabilirà la data esatta della seduta straordinaria. Napoli. “Parole in libertà”: continua il progetto per i detenuti di Poggioreale e Secondigliano napoliclick.it, 4 ottobre 2024 È stato rinnovato il Protocollo d’intesa del progetto “Carcere, Parole in Libertà” finanziato dalla Fondazione Banco di Napoli, dal lunedì alla domenica il quotidiano “Il Mattino” invierà copie del giornale agli Istituti di Poggioreale e Secondigliano. I volontari continueranno ad incontrare una volta a settimana i detenuti per discutere e redigere insieme un articolo da pubblicare. Il Garante campano Samuele Ciambriello: “Continua la nostra avventura, di noi pellegrini dell’utopia, con il progetto “Carcere, Parole in libertà” all’interno delle case circondariali di Poggioreale e Secondigliano. I nostri diversamente liberi, che hanno partecipato attivamente al progetto, sono diventati nel corso di questi due anni giornalisti sportivi, di cronaca, opinionisti. Attraverso la lettura del giornale e la discussione sono andati oltre le mura e si sono interessati e posti domande su quello che succedeva dall’altra parte del mondo e non solo. Ringrazio pubblicamente i volontari che ogni settimana, ormai già da due anni, per due ore hanno trasformato grazie a questa esperienza uno spazio comune in una redazione.” La conferenza stampa si terrà l’8 ottobre alle ore 11.00 presso la sala “Multimediale” del Consiglio regionale (primo piano, isola F13). Saranno presenti il Presidente del consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, e i firmatari del protocollo d’intesa il garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, il presidente della Fondazione Polis Don Tonino Palmese, il presidente della Fondazione Banco di Napoli, Orazio Abbamonte, il direttore responsabile del “Il Mattino”, Roberto Napoletano, la direttrice del carcere di Secondigliano Giulia Russo e il direttore del carcere di Poggioreale Carlo Berdini. San Gimignano (Si). La seconda vita degli ergastolani con il rugby redattoresociale.it, 4 ottobre 2024 Nel carcere di San Gimignano il progetto “Rugby oltre le sbarre” che permette ai detenuti di allenarsi nel campo sportivo. Il sostegno della Regione Toscana: “Un’opportunità di salute e nuove motivazioni”. Tra loro c’è Adrian, romeno di 57 anni, che ha militato nella nazionale di rugby della Romania under 22, giocando come mediano di mischia. Un’esperienza importante, che avrebbe potuto proiettarlo nel professionismo. Poi però, con il collasso della dittatura di Ceau?escu nel 1989, è stato costretto a fuggire in Italia, dove il destino lo ha portato a intraprendere strade sbagliate. È diventato autista di un boss mafioso ed è stato arrestato. Ha scontato oltre quindici anni di carcere e oggi, dopo tutti questi anni in cella, può tornare a coltivare la sua passione per il rugby nel carcere di San Gimignano, dove si trova attualmente detenuto. Tutto questo è possibile grazie al progetto “Rugby oltre le sbarre”, promosso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dalla Federazione Italiana Rugby, dal Comitato Regionale Toscano rugby, un progetto grazie al quale i detenuti del carcere senese, diversi dei quali ergastolani, hanno la possibilità di allenarsi e di conoscere il mondo del rugby, nonostante la misura restrittiva cui sono sottoposti. Si allenano nel campo sportivo del carcere. Possono pure prendere parte a corsi per ottenere la qualifica di arbitro. Centrali nel progetto i valori educativi del rugby: il rispetto delle regole, dell’avversario, dell’arbitro, il sostegno del compagno. “L’obiettivo primario del progetto è proprio questo - racconta uno degli allenatori, Leonardo Panci Contri - ovvero quello di abbassare la recidiva di queste persone che, grazie ai valori etici del rugby, possono diventare uomini diversi”. Tra i detenuti rugbisti c’è anche un ragazzo italiano che ha militato nel campionato di serie B, con qualche presenza anche in serie A. Arrestato nel carcere di Sulmona, è stato trasferito a San Gimignano, anche in virtù della sua passione per il rugby. Sostenitore del progetto è la Regione Toscana, come ha sottolineato l’assessora alle politiche sociali Serena Spinelli: “Sappiamo quanto lo sport sia un fattore di benessere e di crescita personale e collettiva. Per i detenuti far parte di una squadra di rugby, gli allenamenti, la condivisione delle regole e dell’impegno in campo, è una opportunità preziosa di salute e di nuove motivazioni, favorendo quindi la prospettiva di reinserimento sociale e la finalità rieducativa della detenzione, che deve essere sempre il primo obiettivo. Iniziative come questa sono un esempio di come la comunità possa portare un po’ di luce tra i tanti problemi, anche i più drammatici, che affliggono il sistema penitenziario del nostro Paese. Voglio ringraziare per questo tutti i soggetti coinvolti nel progetto, il Comune, la direzione e il personale della casa di reclusione, il Comitato toscano amatori rugby, le squadre old e in particolare i volontari e le volontarie, i tutor e gli allenatori che lo stanno facendo crescere e lo porteranno avanti anche nel carcere di San Gimignano”. Il progetto è sostenuto anche dal comune di San Gimignano, come ha detto il sindaco Andrea Marrucci: “Allenamento, condivisione e soprattutto ‘il terzo tempo’ nel rispetto del più profondo valore del rugby. Crediamo fortemente in questo progetto che potrà far vivere ai detenuti momenti formativi all’insegna dello sport di squadra. I veri valori del rugby saranno fondamentali per il percorso di recupero sociale dei detenuti. Per questo la nostra Amministrazione, sempre attenta a ciò che accade nella Casa di Reclusione di Ranza, sostiene e condivide le finalità di questo progetto”. Cremona. “11 giorni tra le mura del carcere”. Il regista Zambelli presenta il docufilm in città laprovinciacr.it, 4 ottobre 2024 Stasera, 4 ottobre 2024, alle ore 21, presso La Gare des Gars’ - Officina sociale, in Via Dante, 90 (Cremona), con ingresso libero, sarà proiettato il mediometraggio 11 giorni tra le mura del carcere, diretto da Nicola Zambelli. Il breve film (35 minuti) è una miniserie documentaristica sul carcere Nerio Fischione di Brescia, già Canton Mombello, il penitenziario più affollato d’Italia. Il regista bresciano sarà presente alla proiezione e sarà affiancato da diverse voci cremonesi, allo scopo di approfondire alcuni aspetti giuridici, sociali e politici del carcere. Carmine Caletti dialogherà con l’autore riguardo agli aspetti puramente filmici del lavoro e modererà la serata, a cui interverranno: Paolo Carletti, assessore del Comune di Cremona; Andrea Daconto, avvocato; Andrea Franzini, educatore di prossimità; Vittoria Loffi, segretaria dell’Associazione Radicale Fabiano Antoniani di Cremona; Enrico Platé, operatore sociale. Il film è anche stato pubblicato su Instagram in puntate da un minuto ciascuna: è la formula originale di un documentario che offre uno sguardo profondo e autentico sulla quotidianità di chi vive dietro le sbarre. Giorni che, nel mondo quotidiano, scorrono inverosimilmente simili ognuno all’altro, veloci e semplici: lo spettatore viene coinvolto nella vita e nelle riflessioni di un gruppo di detenuti della casa circondariale. Il lavoro è l’esito di un percorso di giustizia riparativa, in cui i detenuti hanno raccontato le loro storie alla cinepresa di Zambelli. La serata è organizzata dalla Camera Penale di Cremona e Crema e da La Gare des Gars’ - Officina sociale della Cooperativa Cosper, all’interno del ciclo di incontri La Trama dei Diritti, è promosso dal Csv Lombardia Sud e gode del patrocinio del Comune di Cremona. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (Art. 27 della Costituzione). Nel solo anno 2024, a oggi, ben 73 persone detenute hanno deciso di togliersi la vita nelle case circondariali. Una vera e propria morte di pena, che in realtà assomiglia a una vera e propria pena di morte - seppur indirettamente comminata - che ogni società che si definisca civile deve contrastare con ogni mezzo, e velocemente. Non c’è più tempo. Messina. “Questione Carcere”, se ne discute oggi alla libreria Feltrinelli letteraemme.it, 4 ottobre 2024 L’incontro promosso dai comitati “DonneVitaLibertà” e “La società della ragione”. A intervenire: Franco Corleone, Angela Sciavicco, Alberto Randazzo e Letizia Valentina Lo Giudice. Un dibattito sulla “questione carcere”, previsto oggi pomeriggio, alle ore 17,30, presso la libreria Feltrinelli. A organizzarlo sono il comitato DonneVitaLibertà e la Società della Ragione, che “all’interno della accesa discussione parlamentare, mediatica e civile provocata dal DdL sicurezza da poco varato in un ramo del Parlamento, intendono promuovere una più ampia discussione sulla configurazione della Pena e del Carcere che promana dall’inasprimento delle pene e dalla configurazione di nuovi reati, messi in atto dal DdL”. “L’incontro, mosso anche dalla prospettiva critica e oppositiva al decreto sicurezza appena votato - spiega una nota - vuole mettere in discussione la concezione punitiva e regressiva che sta emergendo dietro una narrazione repressiva che vuole farsi egemone, in deroga alle indicazioni valoriali della nostra Costituzione. Il dibattito sarà introdotto da interventi brevi e qualificati, volendo poi lasciare spazio al pubblico convenuto”. A intervenire Franco Corleone, in locandina indicato come Responsabile scientifico della Società della Ragione, “ma il cui nutrito curriculum ci ricorda le sue numerose e pregevoli attività: la sua presenza nelle aule parlamentari come Deputato dell’VIII e IX legislatura e come Senatore nella X. E ancora come deputato nella XII legislatura, durante la quale per cinque anni è stato Sottosegretario al Ministero della Giustizia”. Fra i relatori anche Angela Sciavicco, direttrice della Casa Circondariale di Gazzi Messina. “Della dottoressa Sciavicco - si legge - sono note la sensibilità istituzionale e civile; il rigoroso rispetto per i principi costituzionali; le molte iniziative formative e emancipative promosse all’interno della Casa Circondariale a favore della popolazione carceraria”. E ancora, Alberto Randazzo, docente dell’Università degli Studi di Messina, “che ha al suo attivo numerosi lavori testimoni del suo impegno scientifico e sociale e in cui mostra competenza e sensibilità all’argomento”, e Letizia Valentina Lo Giudice, giurista, “attiva professionalmente non soltanto nella nostra giurisdizione. L’avvocata Lo Giudice è impegnata, con mansioni di responsabilità e prestigio, all’interno della nota Società della Ragione, che delle Carceri, in una ottica emancipativa, ha fatto il suo luogo di impegno e di lotta”. A introdurre gli ospiti sarà la professoressa Lucia Tarro Celi. Modererà l’incontro la prof Giusi Furnari Luvarà, ambedue da sempre impegnate socialmente, culturalmente, politicamente. Modena. Una speciale sfilata in carcere: “Con la moda nessuno è ai margini” di Stefano Marchetti Il Resto del Carlino, 4 ottobre 2024 Negli spazi del Sant’Anna l’inaugurazione della sartoria “Manigolde Circondariale” dell’associazione Mani Tese. La speranza è appesa al filo, ma anche all’ago, ai tessuti colorati, alle macchine per cucire che li trasformano in borse, tovagliette, giacche, portaoggetti e tutto quanto la fantasia può suggerire... “Quando sono entrata qui in carcere, io non sapevo neppure cosa fosse una macchina per cucire - racconta una detenuta -. E poi mi hanno accolto in questo laboratorio, in questa sartoria. Ho scoperto un mondo creativo che mi aiuta a spendere bene il mio tempo e anche a non pensare a dove mi trovo”. Hanno steso il red carpet, il tappeto rosso, ieri pomeriggio nella sezione femminile del carcere di Sant’Anna: una passerella del tutto speciale per l’inaugurazione ufficiale del progetto “Manigolde Circondariale”, la sartoria che l’associazione ManiTese di Finale Emilia ha creato proprio all’interno della casa circondariale di Modena. Indossatrici per un giorno, alcune detenute hanno sfilato con gli abiti che loro stesse hanno realizzato nel laboratorio: hanno affrontato la passerella con disinvoltura, anche intonando qualche canzone come “Il mio canto libero” di Mogol - Battisti, un testo che parla da solo, “In un mondo che prigioniero è, respiriamo liberi io e te”... E ad applaudirle non c’erano soltanto le massime autorità - fra cui il prefetto Francesca Triolo e colei che l’ha preceduta nell’incarico, Alessandra Camporota, oggi assessore comunale alla sicurezza - ma anche le compagne di cella, felici per un momento (forse inatteso) di festa. “Già da qualche anno a Finale abbiamo avviato la nostra sartoria sociale Manigolde che inserisce donne con fragilità - spiega Gaia Barbieri, coordinatrice del progetto carcere -. La nostra filosofia è sempre la stessa: nessuno deve essere lasciato da parte, e non esiste lo scarto. Anche le nostre creazioni sono sempre realizzate con tessuti e materiali di recupero e di riuso”. “Incontrare queste persone e il loro entusiasmo è stato fondamentale per noi”, sorride Nicoletta Saporito, responsabile dell’area educativa trattamentale del carcere. Grazie al bando sostenuto dal Comune di Modena (finanziato attraverso la Cassa Ammende), tre detenute hanno potuto essere inserite con tirocini formativi nella sartoria: sono impegnate tutti i giorni per 20 ore settimanali, con la presenza di un educatore e di otto volontarie che a turno insegnano l’arte del cucito e del ricamo. Lungo il percorso, Manitese ha trovato vari sostenitori: Owenscorp e Bonaveri che hanno donato tessuti, il Soroptimist che ha offerto una macchina professionale, il Lions che ha appoggiato il progetto, Luca Grillenzoni, creatore di moda, che ci affianca con le sue idee, Paolo Cigarini del gruppo Carcere città che ci dona la sua esperienza”. “Il lavoro consente a chi è recluso in carcere di non sentirsi abbandonato”, osserva Orazio Sorrentini, direttore della casa circondariale. E in parallelo alla sartoria, in una saletta della sezione femminile è stato rimesso in funzione un piccolo (e prezioso) salone di acconciatura, dedicato alle detenute. Esisteva già ma era in disuso, e grazie alla Fondazione Cattolica (con il segretario Adriano Tomba) si sono avviati i contatti con sostenitori e sponsor per riattivarlo: la Arredi Excell ha donato e installato nuove attrezzature, mentre la Davines, nota azienda di cosmetici, l’ha fornito di shampoo, balsami, tinte e prodotti di qualità. “Ogni giovedì mattina io sono qui per qualche ora per tagli, tinte e messinpiega”, dice la volontaria Cinzia Gallerani, titolare di un rinomato salone a Finale, che ieri ha anche curato le acconciature per la sfilata. “Anche questo è uno spazio importantissimo - annota Gaia Barbieri - perché non possiamo dimenticare che la bellezza è anche cura e ascolto”. Milano. Teatro-carcere, Ivana Trettel porta in scena la (felice) civiltà della Grande Madre di Luisa Brambilla iodonna.it, 4 ottobre 2024 Lo spettacolo della compagnia Opera Liquida va in scena dal 4 ottobre a Milano. In “Extravagare. Rituale di Reincanto” Ivana Trettel guida detenuti ed ex detenuti di Opera nella celebrazione della pacifica civiltà della Grande madre. La Compagnia Opera Liquida è formata da attori reclusi ed ex reclusi del carcere di Opera, Ivana Trettel è regista, drammaturga e guida del progetto organizzativo. L’abbiamo incontrata alla vigilia del ritorno sul palcoscenico di Extravagare. Rituale di reincanto. Lo spettacolo va in scena il 4 ottobre al teatro dell’Istituto penale per minori Cesare Beccaria. Viene riproposto il 15 ottobre al Pacta Teatro e il 25 ottobre al Teatro del carcere di Opera. Le rappresentazioni hanno la regia di Ivana Trettel e sono parte di un programma più vasto che prevede la messa in scena di Antigone della Compagnia Punto Zero il 24 al carcere di Opera e di un seminario e una masterclass ad accesso gratuito rivolti a operatori e studenti universitari. Perché Opera Liquida? “Il nome si rifà al concetto di “società liquida” coniato dal filosofo e sociologo Zygmut Bauman che identificava nella fluidità del vivere sociale un elemento negativo. Quando abbiamo iniziato con questo progetto, nel 2009, invece, abbiamo volto in positivo questo concetto. Essere liquidi all’interno di un carcere è un vantaggio perché i fluidi non conoscono sbarre, serrature. Dentro un’istituzione totale ho pensato che non potesse essere che buono ciò che va oltre le barriere, le sbarre. Ora la nostra compagnia è formata da detenuti ed ex detenuti del carcere di Opera. Ci sono persone fuori da otto anni che lavorano con noi a questo spettacolo. Il primo laboratorio drammaturgico è stato nel 2009, I luoghi dell’altro. Era ambientato su un altro pianeta e ragionava sul senso della vita in stato vegetativo, senza mai citare la vicenda all’ordine del giorno di Eluana Englaro. I detenuti riflettevano sul coma emotivo, uno stato di sospensione dell’esistenza con cui definivano la loro esperienza in carcere. Il carcere si è molto evoluto da allora”. Dalle carceri italiane si parla per l’emergenza dei suicidi, tra i detenuti e il personale, l’inadeguatezza delle strutture edilizie, le violenze, il sovraffollamento… Non teme che l’attività teatrale finisca a essere la foglia di fico delle tante mancanze nei confronti dei reclusi? “Questo è un momento drammatico di sovraffollamento e di mancanza di personale. È una situazione delicata. Quando dico che nel 2008 era molto diverso, non mi dimentico affatto di tutte le terribili criticità, da quelle strutturali all’emergenza dei suicidi. Ogni carcere è un territorio differente, ci sono le carceri circondariali, ci sono gli istituti di reclusione e poi ci sono le diverse tipologie di carcere (a custodia attenuata, di massima sicurezza, psichiatrico giudiziario, per dire). Sostengo che è molto cambiato perché nel 2009 le attività proposte ai detenuti erano veramente pochissime. Oggi, al carcere di Opera, c’è la formazione professionale. Per esempio nell’ambito di quello che fa la Opera Liquida c’è il reparto delle professioni del teatro; quindi, il coinvolgimento dei reclusi non è solo come attori, ma anche come costumisti, tecnici audio, luci e scenografie. Portiamo avanti questa attività dal 2018, grazie al progetto per Aspera ad Astra (una rete di 16 realtà sostenute da Acri che nasce sul modello di Armando Punzo e della sua compagnia della Fortezza di Volterra). La nostra attività, al carcere di Opera, è in un palinsesto che comprende la scuola, dall’alfabetizzazione ai corsi della università Bocconi. E altre opportunità professionalizzanti, come il laboratorio dei violini, che forma i liutai. Credo che una persona detenuta che si chiarisca un po’ le idee e voglia fare percorsi di crescita personale possa avere ottime opportunità in questa struttura. Certo, non è un campus. Ma il rischio che il teatro o le attività espressive si limitino a essere uno specchietto per allodole, perché mediaticamente molto spendibili, esiste laddove manca tutto il resto. O dove la proposta teatrale è gestita come un momento ricreativo, di distensione. Poi c’è il problema enorme, del dopo, e del reinserimento della persona formata, motivata, nella società”. Quanto tempo è occorso per realizzare Extravagare. Rituale di reincanto? “Di solito il tempo per portare al debutto uno spettacolo è un anno e mezzo. Extravagare. Rituale di reincanto (che ha debuttato nel 2023, a novembre) ha richiesto più mesi di lavorazione, perché ha mosso i primi passi durante la pandemia. In quel clima sospeso, di distanziamenti estremi, che ben ricordiamo”. Da cosa nasce Extravagare. Rituale di reincanto? “Tra gli spunti che hanno fatto germinare l’idea un’intervista dell’antropologo statunitense Arjun Appadurai che sottolineava come il Covid ci avesse rivestiti di una imprevista enorme responsabilità nei confronti del prossimo. Il nostro comportamento, noi stessi potevamo essere veicolo di malattia e morte per l’altro. Dopo che il nostro unico compito sociale da decenni sembrava essere dei consumatori. E di come antropologicamente non fossimo pronti per questo sovrappiù di responsabilità. E ancora, c’era il nostro essere attoniti davanti agli eventi, divisi tra chi negava tutto e chi era terrorizzato da tutto. Abbiamo cercato altri testi, abbiamo approfondito il tema dei riti - di quei gesti che ci legano gli uni agli altri in prossimità- e della loro scomparsa, a quel punto quasi totale dal nostro orizzonte. Finché con il coautore dei testi Alex Sanchez ci siamo imbattuti negli studi sulla società della Grande dea madre”. Che cosa è la società della Grande Madre? “Ci siamo rifatti agli studi di Marija Gimbutas, un’archeologa e linguista del Novecento che rivoluzionò gli studi sull’età preistorica. Postulò l’esistenza di una civiltà matrifocale, fino all’età del Bronzo (tra il 3500 e il 1100 A.C.) che ruotava con sfumature diverse nei luoghi differenti attorno alla figura della Grade Dea Madre e ai culti della fertilità. Una società pacifica e felice, di cui trovò testimonianze in piccoli manufatti sparsi per l’Europa e attorno al Mediterraneo e che nella sua ricostruzione fu sopraffatta dalla cultura patriarcale dei Kurgan. Ancora restano tracce quasi cancellate, nella nostra cultura. Come il caduceo dei farmacisti, il simbolo del bastone che porta arrotolato il serpente: quel serpente lì è un simbolo della Dea Serpente cretese. Ed egualmente il toro, la cui testa ricorda il profilo dell’utero femminile ed è simbolo di fertilità, anziché di forza maschile. Questo è presente in scena nell’installazione ispirata all’opera Grande oggetto pneumatico, realizzata negli anni ‘50 dal Gruppo T, il cui fondatore è stato l’artista cinetico Giovanni Anceschi, che ha collaborato con noi. Lo spettacolo firmato da me e da Alex Sanchez è l’esplorazione di questa civiltà, società non belligerante, in perfetta parità tra i generi e dedita alla ricerca di cultura e bellezza. Per ribaltare con forza l’idea di un male insito nella natura umana”. Premio letterario Castelli. A Verona il riconoscimento ai detenuti di tutta Italia di Vincenzo Varagona Avvenire, 4 ottobre 2024 Un volume raccoglie i racconti dei finalisti, che saranno premiati il 4 pomeriggio nella casa circondariale di Montorio. L’evento invita a riflettere sul valore della speranza e del riscatto possibile. Illuminare le periferie, da una parte, ma anche riportare il pianeta carcere dalla periferia al centro del dibattito sociale. È il senso del Premio letterario Castelli, che Verona si prepara ad accogliere, venerdì 4 e sabato 5 ottobre, nella sua 17* edizione. L’evento, organizzato dalla Federazione nazionale italiana Società di San Vincenzo De Paoli Odv, Settore Carcere e devianza, è rivolto a tutti i detenuti degli istituti penitenziari italiani, compresi i minorili, e ruota intorno al tema “Perché? - Ti scrivo perché ho scoperto che c’è ancora un domani”, che invita a riflettere sul valore della speranza e sul riscatto possibile. “Nel cuore di ogni persona si nasconde una storia, un intreccio di esperienze e sentimenti che, nella scrittura, trova il suo più profondo strumento di espressione”, afferma la presidente della Federazione nazionale, Paola Da Ros, introducendo il volume che raccoglie i racconti dei finalisti, che saranno premiati il 4 pomeriggio nella casa circondariale di Montorio (Verona). La precedente edizione, celebrata nel carcere di Torino, è stata vinta - ad esempio - da una detenuta nel carcere di Palermo, condannata all’ergastolo per avere ucciso il figlio. Ha sempre negato responsabilità, ha chiesto la revisione del processo. Tanti drammi simili si ritrovano nei quasi 170 componimenti valutati dalla giuria presieduta da Maria Grazia Failla e di cui fa parte anche l’Ucsi. Papa Francesco, durante una recente visita al carcere di Verona, ha incontrato i volontari vincenziani e ha inviato una lettera di ringraziamento, il 4 giugno scorso, con la quale invita a “continuare con gioia e generosità questo prezioso servizio. Non stancatevi di essere testimoni di fede, speranza e carità”. Il Premio, dedicato a un volontario vincenziano scomparso, Carlo Castelli, promotore della legge Gozzini, offre ai detenuti l’opportunità di raccontarsi, riflettere e sperare attraverso la scrittura, ma non solo: oltre ai premi in denaro per i primi tre classificati, una seconda somma è destinata a progetti di reinserimento sociale. Il primo premio finanzierà un’iniziativa in un carcere per adulti, il secondo in un istituto minorile e il terzo nel settore Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna). “Il concorso, precisa Da Ros, diventa un mezzo per costruire un futuro condiviso, sottolineando l’importanza del sostegno reciproco, anche in contesti difficili come il carcere”. Anche per questo ha ottenuto il patrocinio di Camera, Senato e Ministero della Giustizia ed è insignito della medaglia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Dopo la cerimonia in carcere, il 5 ottobre, alle 10, al Teatro Nuovo di San Michele, l’incontro “Dialogo in punta di cuore: nuove speranze dopo il reato”, per riflettere sul valore della giustizia riparativa e sui percorsi rieducativi. L’antologia con i testi verrà distribuita ai partecipanti dei due eventi e verrà allegata, per la prima volta, alla rivista della Federazione nazionale, “Le Conferenze di Ozanam”, che raggiunge oltre 13.600 tra soci e volontari in tutta Italia. La destra cattiva di Luigi Manconi La Repubblica, 4 ottobre 2024 Dal sottosegretario Andrea Delmastro al ddl sicurezza, ecco perché alcune azioni del governo si possono definire malvagie. È troppo scandaloso ritenere che la destra - meglio: una parte di essa - sia davvero cattiva? Scritto così, senza virgolette: cattiva, nel senso comune del termine, come indicato dai dizionari più autorevoli. Disposta al male, malvagia, moralmente riprovevole. Facciamo un passo indietro. Oltre quarant’anni fa, insieme a molti simili e affini, cominciammo a smantellare un paradigma che ci aveva imprigionato per almeno tre lustri. Ovvero, l’equivalenza tra avversario politico e nemico. Insieme a quel pregiudizio ne criticammo radicalmente un altro, che del primo era l’essenziale fondamento ideologico: la superiorità morale della nostra parte su quella avversa. Si è trattato di un processo che ha portato al superamento di una concezione bellica e antidemocratica della competizione tra i gruppi sociali e le formazioni politiche. È un dato ormai acquisito per la gran parte degli attori del conflitto. L’idea, cioè, che il confronto, anche quando asperrimo, è tra avversari e non tra nemici assoluti; e che i metodi di lotta devono rientrare tutti nel quadro della legalità; e che le ragioni della mia azione pubblica e della mia aspettativa di vittoria sono affidate alla razionalità delle argomentazioni e dell’offerta politica e non a un giudizio moralistico sulla minorità etica dell’avversario. Tutto ciò acclarato e accettato, persiste tuttavia un dubbio: e se una parte della destra fosse davvero più cattiva? La brutale evidenza dei fatti propone alcuni esempi. Nel giugno del 2020, il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro Delle Vedove chiedeva al ministro della Giustizia di “conferire un encomio solenne” a quei poliziotti penitenziari “che in operazione di particolare rischio hanno dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa”. Si tratta di quegli stessi agenti che, il 6 aprile di quell’anno, avevano consumato l’azione di repressione contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una “orribile mattanza” secondo il gip Sergio Enea, per la quale quasi un centinaio di poliziotti si trovano a processo con l’accusa di maltrattamenti e torture. Innocenti fino a sentenza definitiva, per carità, ma da qui all’encomio solenne ce ne corre. Lo stesso Delmastro, ora sottosegretario alla Giustizia, ad agosto dichiarava: “Non mi inchino alla Mecca dei detenuti” e così, nel carcere di Taranto, faceva visita solo agli agenti. Si noti quanto sprezzo emerga da quel “alla Mecca dei detenuti” e quanta voluta ignoranza per quell’articolo del regolamento penitenziario che prevede la possibilità, per coloro che sono autorizzati (tra questi il parlamentare Delmastro), di verificare “le condizioni di vita dei detenuti”. Si dirà: ma questa non è altro che una scelta politica, condivisibile o meno. Eppure, negli atti e nelle parole di Delmastro, emerge qualcosa di più. Ovvero una nota di scherno che umilia i detenuti e li colloca in una posizione gerarchicamente inferiore. Ciò non corrisponde a un criterio politico, bensì a un sentimento morale, che finisce per “disumanizzare” quanti, per una ragione o per l’altra, si trovano in uno stato di minorità. Un altro esempio. Le politiche migratorie rappresentano un discrimine profondo che divide sinistra e destra. Gran parte della politica di quest’ultima in materia è, oltre che irrazionale e autolesionistica, schiettamente reazionaria. Ma è perfettamente coerente con i presupposti ideologici e culturali di quello schieramento. E tuttavia, tra le più recenti misure, c’è anche il divieto per il migrante privo di permesso di soggiorno di acquistare una carta sim: ancora un surplus di accanimento, un incrudelire, un eccesso di protervia che rimandano allo stato psicologico proprio di chi manifesta una predisposizione all’abuso. Siamo in presenza, cioè, di un atto di mera malvagità. Si pensi a chi, sbarcato in Italia e spossessato di tutto, si vede interdetto persino l’elementare diritto di comunicare con i propri cari a migliaia di chilometri di distanza. Oltretutto, come ben si capisce, il solo effetto certo sarà l’estensione del mercato illegale delle schede telefoniche. Ancora un esempio: nel disegno di legge in materia di sicurezza è presente una norma diretta a punire anche “le condotte di resistenza passiva” adottate da chi è detenuto in un carcere o trattenuto in un centro per il rimpatrio. Ma questo significa soffocare “l’unica forma di rivendicazione di diritti minimi e dignità” (Guido Camera). Non solo: il metodo di azione nonviolenta rappresenta un passaggio essenziale nella presa di coscienza di chi, proprio affrancandosi dall’esercizio della violenza, intraprende un processo di integrazione in un sistema di relazioni sociali non criminali. D’altra parte, già oggi l’ordinamento penitenziario contempla l’uso della forza e misure eccezionali per reprimere le rivolte. Di conseguenza, quella norma totalmente superflua, rivela “le cattive intenzioni”, un sovrappiù di accanimento nel mortificare la persona e una finalità esclusivamente simbolica. Pertanto, al di là del giudizio politico sui programmi della destra, si palesa una dismisura di improntitudine che si traduce in ostentazione di soperchieria. Per capirci, non sostengo in alcun modo che Andrea Delmastro Delle Vedove sia malvagio (non lo conosco affatto), bensì, che dice cose malvagie e compie azioni malvagie. “Fermiamo il Ddl Sicurezza”. Il patto dei Movimenti contro le norme anti-protesta di Paolo Coccorese Corriere di Torino, 4 ottobre 2024 No Tav, attivisti per la casa e per i diritti degli stranieri, ambientalisti insieme contro il disegno di legge del governo. Sul palco e nella platea del circolo Arci Kontiki si mischiano le anime dei movimenti. Ci sono i Fridays for Future padroni di casa, a braccetto con i “cugini” di Extinction Rebellion, i militanti antifascisti in ateneo, i No Tav, chi lotta contro gli sfratti e chi per i diritti dei migranti e dei carcerati. “Uniamoci. Mettiamo insieme tutti quelli che sono contro questo ddl sicurezza. Senza divisioni, anche perché, tra i banchi dell’opposizione a Roma, non tutti si opporranno alla sua approvazione”, spiega Carlo, portavoce dei “ragazzi di Greta”, lanciando uno sguardo di intesa con i due consiglieri comunali di Avs arrivati in via Cigliano per prendere parte a una delle prime iniziative contro il disegno di legge del governo Meloni. È da tempo che, lontano dai partiti, si lavora per unire le realtà che fanno politica con presidi, cortei e azioni di protesta. Ma dopo gli avvicinamenti coincisi con le mobilitazioni per fermare la guerra di Gaza, adesso ad accelerare questo processo è, paradossalmente, la proposta di norme nate per mettere un freno a certe forme di dissenso. “Il ddl restringe lo spazio democratico. È l’ultimo atto di una serie di iniziative legislative che, dal decreto Pisanu al pacchetto Minniti, vuole eliminare il conflitto sociale”, denuncia Alessandra Algostino, giurista dell’università di Torino, da anni in prima fila nelle proteste, tanto da subire le manganellate quando ha cercato il dialogo tra collettivi e agenti durante un corteo. Il disegno di legge, in estrema sintesi, introduce venti nuovi reati, rendendo più severe le sanzioni. I blocchi stradali diventano reati con pene fino a due anni di reclusione, si mettono nel mirino le proteste pacifiche, in particolare quelle contro le grandi opere e si calca la mano contro chi protesta in carcere o nelle strutture di accoglienza (non solo i Cpr). “Tutti i movimenti devono porsi un problema di alfabetizzazione giuridica dei per valutare costi e benefici delle azioni. Per questo, si organizzino degli incontri per spiegare i rischi di alcune azioni, considerato che negli interstizi delle norme rimane la possibilità di sfuggire alle pene”, propone Claudio Novaro, “avvocato dei movimenti”. Da cosa partire lo dicono i Fridays for Future: “Davanti a questa deriva antidemocratica introdotta dal ddl sicurezza, tutti i movimenti non violenti devono porre ancora più attenzione nel denunciare gli abusi delle forze dell’ordine, anche dal punto di vista mediatico. Per esempio, diventa necessario filmare ogni momento delle proteste”. Migranti. Maysoon Majidi resta in carcere. Tocca al Riesame di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 4 ottobre 2024 Maysoon Majidi resta in cella. Il tribunale di Crotone ha rigettato ieri, per la quinta volta, l’istanza di concedere gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico alla 28enne attivista, regista e reporter curda. Majidi è detenuta nel carcere di Reggio Calabria con l’accusa di essere una scafista. L’arresto risale a 10 mesi fa, quando sbarcò insieme ad altre 77 persone migranti sulla costa crotonese. La richiesta di attenuazione della misura cautelare è stata avanzata nell’udienza dello scorso primo ottobre dalla sua difesa. Pare ci sia nervosismo in procura, a Crotone. E forse qualche ragionevole dubbio comincerebbe ad erodere persino le granitiche convinzioni della magistratura inquirente, secondo la quale i giornali starebbero parlando troppo di questa vicenda, quindi la ragazza deve restare in carcere. È quanto si ricava dalle motivazioni con le quali la pubblico ministero Maria Rosaria Multari si è opposto alla concessione dei domiciliari. “Alla luce dell’inquinamento probatorio - scrive la pm - che emerge dagli atti acquisiti e da articoli e video postati sul caso, si esprime parere contrario”. La pm ha esibito in tribunale articoli pubblicati dai quotidiani, sostenendo che “in questo procedimento tutta la macchina delle autorità giudiziarie italiane è stata accusata di falso” e chiedendosi come mai gli stessi testi irreperibili per le autorità giudiziarie italiane, abbiano parlato con Le Iene e con la difesa. Eppure è facile ipotizzare che i testi si siano sottratti al dovere morale di dire la verità e scagionare Maysoon anche in un’aula di giustizia perché temono di essere a loro volta arrestati con l’accusa di scafismo, in applicazione del decreto Cutro. Durante l’ultima udienza, l’osservatore di Frontex, la cui audizione è avvenuta a porte chiuse per motivi di sicurezza, avrebbe affermato di non ricordare che i fatti si siano svolti come ricostruito nelle indagini. I tecnici sentiti in aula hanno dichiarato che il telefono della ragazza non è mai stato utilizzato durante il viaggio. Inoltre la chat usata come blocco appunti da Maysoon conferma che i suoi compagni del partito Komala, attivo nel Kurdistan iracheno, hanno raccolto soldi per consentirle di affrontare la traversata. Il prossimo 17 ottobre, sulla richiesta di revoca della custodia cautelare, si pronuncerà il tribunale del Riesame di Catanzaro. Il 22, a Crotone, nuova udienza del processo. La rete Free Maysoon si organizza per essere davanti ai palazzi di giustizia, con la speranza e la fiducia che giustizia sia fatta. Chiudere le frontiere in nome della sicurezza, pericolosa illusione di Innocenzo Cipolletta Il Domani, 4 ottobre 2024 Che la sicurezza dei cittadini giochi un ruolo rilevante per il loro benessere e che possa determinare il consenso politico è ben risaputo. Che una maggiore sicurezza passi essenzialmente per il controllo delle frontiere è invece molto discutibile. Di che parliamo quando parliamo di sicurezza? A stare a molti osservatori e a gran parte dei politici, sicurezza significherebbe essenzialmente controllo dei confini e respingimento dei migranti, che scappino da guerre e persecuzioni o che fuggano la miseria, o più semplicemente che abbiano voglia di vivere altrove. È così che sono state valutate le ultime prese di posizione del cancelliere tedesco Olaf Scholz, che ha chiuso i confini in Germania, del primo ministro inglese Keir Strarmer che minaccia di espellere i clandestini dal Regno Unito e loda le soluzioni albanesi della presidente Meloni, nonché le dichiarazioni di Kamala Harris, candidata alla presidenza degli Usa, che assicura di voler difendere le frontiere dai clandestini e afferma di essere pronta a sparare contro chi dovesse entrare di nascosto a casa sua. Un interessante articolo di Giuseppe Sarcina sul Corriere della sera del 21 settembre sottolinea come tutte queste prese di posizione provengano da personalità della sinistra e invita quindi anche la sinistra italiana a occuparsi di sicurezza e a non lasciare alla destra questo argomento. Che la sicurezza dei cittadini giochi un ruolo rilevante per il loro benessere e che possa determinare spostamenti anche importanti di voti e di consenso politico è ben risaputo. Che una maggiore sicurezza passi essenzialmente per il controllo delle frontiere è invece molto discutibile. Certo, dopo anni di campagna da parte di chi afferma che la sicurezza è peggiorata a causa degli immigrati clandestini (o anche regolari, posto che questa propaganda non fa distinzione), v’è nella popolazione un sentimento diffuso di insicurezza di fronte a essi. Ed è anche vero che lo straniero finisce sempre per incutere un senso di insicurezza, per la difficoltà a interpretare i suoi comportamenti e per la diversità culturale che può portare a incomprensioni e a forme di intolleranza. Sicché l’idea che chiudere le frontiere ed essere più sicuri sia la stessa cosa tende ad affermarsi. Ma in realtà anche chiudendo tutte le frontiere e non facendo entrare più nessuno straniero (o cacciando via tutti gli stranieri) la nostra sicurezza non migliorerebbe di una virgola, come i molti reati e i molti crimini e drammi umani che caratterizzano la nostra società stanno purtroppo a dimostrare. Senza per questo pensare che oggi siamo molto meno sicuri di ieri, dato che le generazioni passate hanno avuto livelli di sicurezza sicuramente peggiori rispetto a quelli delle generazioni attuali, pur se lo abbiamo dimenticato. Ma, se dobbiamo parlare di sicurezza, ed è bene che se ne parli, allora bisogna parlare di altro. In primo luogo, di controllo del territorio, che è stato abbandonato, al punto che neppure più il controllo del traffico automobilistico nelle grandi città si giova della presenza di agenti metropolitani capaci di intervenire nei punti più congestionati. È necessario che agenti di polizia locale e nazionale siano presenti nei quartieri e nei villaggi in modo da trasmettere un senso di controllo e garantire interventi rapidi. Si ha invece la sensazione che i pur numerosi vigili urbani e agenti di polizia presenti nelle statistiche del pubblico impiego siano assenti dalle strade e allocati a funzioni diverse da quelle di tutelare i cittadini. Ristabilire una polizia di quartiere e far circolare a piedi e/o in auto gli agenti che assicurano l’ordine pubblico rappresenterebbe un contributo rilevante alla sicurezza dei cittadini e alla loro percezione. È poi necessario che chi delinque abitualmente sia messo nelle condizioni di non ripetere i suoi delitti. Osta a questo obiettivo l’affollamento delle carceri, dove i detenuti sono già in numero esorbitante, sicché chi commette reati relativamente minori (furti, aggressioni o altro) viene spesso rimesso in libertà e continua a commettere i suoi reati per assenza di pena, con ciò generando un diffuso senso di insicurezza e malessere presso i cittadini che non si sentono tutelati. Per un paese che è afflitto da questa carenza di luoghi di detenzione, v’è da domandarsi perché non si provvede rapidamente a costruirne di nuovi e più civili. Non può essere un problema di risorse finanziarie o di iniziativa politica: per un paese che sta costruendo diversi centri di detenzione in Albania per rinchiudervi non già persone che hanno commesso delitti in Italia, ma persone che hanno affrontato drammi e pericoli per arrivare ai nostri confini senza avere i permessi per entrare, non possono esserci scuse a giustificare la carenza e l’inadeguatezza di luoghi di detenzione. Una maggiore certezza della pena ridurrebbe i crimini e genererebbe maggiore sicurezza. Ma la maggiore sicurezza si ottiene soprattutto con una popolazione più istruita, più tutelata socialmente ed economicamente, più integrata. Questo significa investire nell’istruzione, assistere i poveri in modo che abbiano un lavoro e un reddito, concedere i permessi di soggiorno al maggior numero delle persone straniere che già sono sul nostro territorio per regolarizzarle, sottraendole così alla clandestinità che favorisce le azioni criminali e integrandoli culturalmente e socialmente, attribuire la cittadinanza italiana a quanti sono ormai da tempo nel nostro paese e hanno stabilità e capacità di inserimento nella nostra società. Chiudere le frontiere e respingere i disperati che si presentano ogni giorno o, peggio, lasciarli morire nel tentativo di raggiungere i nostri paesi non dà sicurezza ai cittadini italiani, ma fa crescere la massa dei disperati pronti a tutto pur di sopravvivere, e, con ciò, crescerà l’insicurezza nostra e loro. È ora di fare una vera politica per la sicurezza, non solo chiacchiere da bar. Afghanistan. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione, un fallimento che non ci riguarda? di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 4 ottobre 2024 Un piccolo gruppo di donne coraggiose ha fatto sentire la propria voce in Afghanistan in occasione dell’8 marzo contro il governo dei Talebani che sta sistematicamente rimuovendo tutti i diritti e le libertà fondamentali per donne e ragazze. Il “Movimento di rivolta delle donne afghane” ha pubblicato un video in cui si vede un gruppo di manifestanti esporre dei cartelli per nascondere i propri volti e cantare contro “l’apartheid di genere” e “L’Afghanistan è un inferno per le donne”. Come è possibile che così tante proteste di massa abbiano generato conseguenze opposte agli obiettivi che perseguivano? L’interrogativo è il cardine di un libro, Noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione (Einaudi), che racconta quanto (non) è successo dal 2010 al 2020: dall’inizio delle “primavere arabe” in Tunisia alle ultime manifestazioni a Hong Kong, quando il movimento pacifico “sii acqua” occupò due università barricandosi dentro il recinto degli atenei e si predispose all’assalto vittorioso delle forze dell’ordine di Pechino. Noi sappiamo che potremmo andare oltre. Oltre il 2020, tempo di pausa pandemica, fino ad abbracciare i cortei delle donne a Kabul contro il ritorno dei talebani (Ferragosto 2021) e quelli dei giovani iraniani contro il regime integralista islamico, in nome di Mahsa Jina Amini (autunno 2022). L’autore - Vincent Bevins, giornalista e scrittore, inviato per molte testate tra cui Washington Post e Financial Times - attraversa tanti dei sommovimenti che anche noi ricordiamo bene: sono appena dietro l’angolo della nostra memoria. E si chiede, giustamente, perché. Perché quell’enorme desiderio di cambiare il mondo - o meglio: di rinnovare “le strutture che tengono in piedi il nostro sistema globale” - si sia infranto contro una sequenza di muri che, rispetto al 1989, non sono crollati. O, seppur diroccati in una primissima fase euforica, sono stati poi riedificati, magari più alti e invalicabili, come torri medievali in un deserto di rassegnazione e distrazione. È stato tutto inutile se non controproducente? La speranza dichiarata di Bevins è che “un’energia simile” torni a liberarsi di nuovo e che, memori di un decennio così doloroso e inconcludente, “i rivoluzionari” abbiano imparato come si fa. Le proteste senza leader, “orizzontali”, “spontanee”, “autoconvocate” via web, non sembrano arrivare dritte - e neppure un po’ storte - alla meta. Prefigurano una società nuova, altra, ma non riescono a determinarne il successo. È un passaggio critico, che interroga le democrazie liberali perché, da Hong Kong a Teheran, quelle ragazze e quei ragazzi - esprimendo l’aspirazione combattente a una civiltà che sia aperta al cambiamento - riverberano e fortificano uno spirito a noi vicino. Se ciò che definiamo Occidente non vuole andare a spegnersi, lentamente e poi magari di colpo, la percezione di questi “irregolari” deve restare accesa e attiva. Soltanto la vitalità delle periferie, fisiche e/o ideali, salverà da un letargo opaco quanti si considerano “centro”. La compiacenza ci sotterrerà. Nel frattempo, chi resiste a ogni spostamento interno - i regimi - sembra avere la meglio: basta “individualizzare” il fronte delle contestazioni, secondo la vecchia formula divide et impera, per sopravvivere e rilanciare i dadi. Dopo quattro anni di interviste in dieci Paesi attraversati da tentate rivoluzioni, l’autore di Noi bruciamo confessa un classico malessere da mattina post sbornia. L’ansia di “fare qualcosa” ha stroncato troppe vite, gettandole ai lati della Storia? Restano trincee da presidiare. Le donne afghane, a cui è stata vietata persino la risonanza della propria voce, hanno organizzato - più o meno da sole - un summit clandestino a Tirana per costituire un board dell’opposizione. Molte erano esuli, ex deputate e attiviste, costrette alla fuga nei giorni del ritiro alleato. Ma alcune provenivano da città e province afghane: un viaggio di andata (e ritorno), tra minacce e rischi di respingimento, pur di esercitare una chiamata collettiva alla speranza. “Altrimenti - ha spiegato una di loro a The Guardian, chiedendo di non essere registrata per non violare la legge sul silenzio femminile e doverne poi pagare il prezzo a casa - avranno vinto i talebani”. Noi bruciamo, con loro. Noi vinciamo, o perdiamo, insieme. E dunque, per esempio: riconosciamo che l’apartheid di genere, diffuso in Afghanistan e in Iran, è un crimine contro l’umanità.