Minori fra psicofarmaci e aggressioni: dietro le sbarre è un inferno di Fulvio Fulvi Avvenire, 3 ottobre 2024 Il sistema italiano della giustizia minorile fino a qualche anno fa era preso come modello da altri Paesi d’Europa ma adesso mostra delle falle difficili da colmare in tempi brevi: sovraffollamento, disorganizzazione, carenza di personale e di progetti di reinserimento sociale lo hanno reso blindato, violento, solo repressivo, e per niente educativo, come invece dovrebbe essere, secondo la Costituzione e il buon senso. L’ultimo dossier dell’associazione Antigone mette in evidenza, infatti, numeri che fanno preoccupare anche rispetto alla grave crisi dell’apparato carcerario che riguarda gli adulti, dove il disagio cresce ogni giorno di più (73, fino a ieri, i suicidi dietro le sbarre). E non bisogna dimenticare che, ad aggravare un quadro già precario, per i minori sottoposti a provvedimenti restrittivi è stato riscontrato (come sottolinea lo stesso Rapporto) anche un abuso di psicofarmaci, che corrisponde a un aumento dei disturbi dell’umore, dell’ansia e della depressione. E sono sempre più frequenti, nelle celle, gli atti di intolleranza e autolesionismo, le aggressioni, i tentativi di fuga (come accaduto più volte, per esempio, al “Cesare Beccaria” di Milano). Al 15 settembre scorso erano 569 i ragazzi dai 14 ai 25 anni detenuti nei 17 Istituti penali per minori presenti sul territorio nazionale: il numero più alto mai fatto registrare, anche a fronte di una capienza massima regolamentare di 516 posti, che fa alzare il tasso del affollamento medio al 110%. Inoltre, da quando si è insediato l’attuale governo, ovvero nell’ottobre del 2022, c’è stato un incremento delle incarcerazioni di persone minori d’età pari al 50%, conseguenza di norme che hanno spostato il baricentro del sistema sulla criminalizzazione, cioè sulla detenzione, più che su misure alternative e di recupero sociale. E anche gli ingressi complessivi dietro le sbarre di minori (il 61%) e di giovani adulti (39%) hanno avuto lo stesso effetto, essendo cresciuti come mai prima d’ora: alla data presa in esame da Antigone, infatti, sono stati 889. E sono 12 le carceri minorili che ospitano più reclusi di quelli che dovrebbero (e che potrebbero), mentre gli altri cinque sono quasi “off limits”. Per far fronte alle presenze in eccesso si ricorre spesso a lettini da campeggio che vengono aggiunti alle brandine nelle celle, se non, in alcuni casi, anche a materassi sistemati sul pavimento. Una situazione intollerabile. La causa di questo sovraffollamento (fenomeno che sta diventando dunque “endemico” in tutto il sistema carcerario italiano) è da ricondurre ai decreti legge con i quali l’esecutivo ha creato altre fattispecie di reati applicabili ai minori di età. Il “dl” Caivano, per altro, ha reso più facile il trasferimento dei ragazzi che hanno compiuto la maggiore età verso un carcere per adulti “misura troppo spesso applicata per problemi di sovraffollamento o per gestire situazioni problematiche, ma che va a interrompere un percorso educativo magari già da tempo avviato rendendo ben più ardua la reintegrazione sociale del giovane” osserva Antigone nella relazione che accompagna il Report. E se non ci fossero questi trasferimenti, che troppo speso avvengono senza preavviso, il sovraffollamento negli Ipm sarebbe ancora più grave. “I numeri - spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio sulle carceri minorili di Antigone - crescono proprio per effetto del decreto Caivano, approvato per rispondere a una presunta emergenza criminalità minorile che i dati ci dicono non esistere. Nel 2023, infatti, i ragazzi denunciati e/o arrestati sono diminuiti del 4,15% rispetto al medesimo dato raccolto nel 2022, permanendo ad un livello che già in passato era stato registrato, senza che questo avesse portato a stravolgere il sistema della giustizia minorile creando una situazione di malessere generalizzato. Proprio questo malessere è sfociato in numerosi atti di protesta che hanno coinvolto la quasi totalità degli istituti minorili presenti in Italia”. “Queste proteste - aggiunge la dirigente dell’associazione - dovrebbero portare ad ascoltare questi ragazzi, capire cosa hanno da dire, mentre il messaggio implicito che arriva sembra essere quello del “teneteli voi, neutralizzateli”, senza preoccuparsi del loro futuro e del loro recupero sociale”. Non di rado i ragazzi che hanno vissuto la drammatica esperienza in un carcere minorile, raccontano quello che hanno, o non hanno, fatto durante la detenzione. Come Omar, 20 anni, di origini egiziane, che ora è stato trasferito nella Casa di reclusione di Bollate: “Stavo per tutto il giorno sulla branda a guardare il soffitto e, a parte l’ora d’aria, ho infilato centinaia di perline per fare collane, niente di più, se non una noia infinita”. Carceri minorili mai così piene: in due anni più 50%. E i ragazzi sono inascoltati di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2024 È stato presentato stamattina a Roma il dossier dell’associazione Antigone dal titolo “A un anno dal Decreto Caivano”, che fa il punto sulla situazione tragica delle carceri minorili italiane. Un’urgenza che sentivamo con forza, in quanto mai in passato - nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle condizioni di detenzione - avevamo incontrato una situazione paragonabile a quella attuale. Difficile immaginare come potrà finire questa storia: per adesso non si intravede alcuna via di uscita. Nelle carceri minorili si respira una tensione mai vista prima, data dall’affollamento e dal progressivo irrigidimento del sistema. Da tanti istituti penali per minorenni ci segnalano la chiusura di attività, le difficoltà per i volontari, il ritorno a un modello di detenzione fatto solo di cancelli e sbarre, i trasferimenti forzati. Mai i ragazzi in carcere sono stati così numerosi. Mai abbiamo trovato i materassi per terra e le celle sovraffollate. Dall’insediamento dell’attuale governo, nell’ottobre 2022, le presenze nelle carceri minorili sono cresciute quasi del 50%, con una netta impennata dopo l’entrata in vigore del decreto. E sarebbero molte di più se non fosse per la pratica, facilitata dal Decreto Caivano, di trasferire i giovani in carceri per adulti al compimento del diciottesimo anno di età (laddove da legge, avendo commesso il reato da minorenni, potrebbero permanere in un istituto minorile fino ai venticinque anni). Mandare un ragazzo “agli adulti”, come si sente dire, significa scegliere di interrompere una relazione educativa e sostanzialmente rovinargli la vita. Si continua a chiudere in carcere dei minorenni senza alcun progetto educativo, senza alcun piano di accoglienza, senza alcuna possibilità di reintegrazione sociale. Davanti a tutto questo, i ragazzi protestano. In carcere si hanno pochi modi per chiedere di essere ascoltati. Ed essere ascoltati è la cosa più importante per questi giovani. Ma, per tutta risposta, vengono enfatizzati i loro gesti, si parla di loro come di pericolosi criminali che devastano e distruggono, ben oltre quella che emerge dalle nostre rilevazioni come la realtà degli accadimenti. Ci sarebbe invece un gran bisogno di stemperare gli animi. E ci sarebbe bisogno di ascoltare quel che i ragazzi detenuti hanno da dirci e da chiederci. Nessuno lo ha fatto. Nessuno è entrato in carcere per fare con loro un incontro, un’assemblea, per sentire le loro ragioni. È sempre più evidente che si cavalca l’onda delle proteste - che a breve, sotto il nome improprio di rivolte, verranno punite con pene fino a otto anni di carcere anche nella loro forma di resistenza passiva - per giustificare un modello di carcerazione minorile sempre più simile a quello degli adulti: chiuso, sovraffollato, violento. Negli istituti penali per minorenni vanno a finire coloro che la società non sa dove collocare altrove, coloro dei quali non vuole occuparsi. Moltissimi sono minori stranieri non accompagnati. E non raccontiamoci bugie: il mandato affidato alle carceri non è certo quello della reintegrazione sociale. Tutt’altro. Alle carceri si chiede di neutralizzarli: teneteveli voi, noi qui fuori non li vogliamo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Il dopo-Caviano tra i ragazzi: meno delitti ma più prigione di Alessio Scandurra* L’Unità, 3 ottobre 2024 Per la prima volta anche le carceri per ragazzi in crisi per il sovraffollamento. Non bastano i letti, le attività rallentano, sale la tensione e iniziano gli incidenti: un disastro totale, insomma, ma molto utile alla propaganda. Il 15 settembre 2023 veniva pubblicato in Gazzetta ufficiale il cosiddetto Decreto Caivano, un provvedimento d’urgenza adottato dopo gravissimi fatti verificatisi al Parco Verde di Caivano. A fronte di uno dei contesti dal punto di vista sociale più difficili del meridione d’Italia, il Governo Meloni rispondeva con una raffica di misure penali e sanzionatorie destinate come al solito a lasciare immutati i problemi e a crearne semmai di nuovi. Come Antigone da subito denunciammo che il Decreto avrebbe avuto un impatto devastante sul sistema della giustizia minorile, e ad un anno di distanza purtroppo la realtà allarmante che abbiamo davanti non può che darci ragione. A ottobre 2022, momento in cui si insedia l’attuale Governo, le carceri minorili ospitavano 392 persone, numero del tutto in linea con il dato immediatamente precedente la pandemia. Al 15 settembre 2024 erano 569. In ventidue mesi i giovani detenuti sono cresciuti del 48%. Un’impennata senza precedenti e che non trova alcun fondamento in un parallelo aumento della criminalità minorile, che è anzi in calo da diversi anni. E se negli undici mesi che vanno dall’ottobre 2022 al settembre 2023, quando è entrato in vigore il Decreto Caivano, le presenze in IPM sono aumentate di 59 unità, nei successivi undici mesi, da quando dunque il Decreto è in vigore, l’aumento è stato di 129 presenze, ovvero più del doppio. Ne consegue il sovraffollamento degli IPM, fenomeno comune per gli adulti ma del tutto nuovo per i minorili. Dei 17 IPM italiani, ben 12 ospitano più persone di quelle che dovrebbero. Il più sovraffollato è Treviso, con 22 ragazzi per 12 posti regolamentari (affollamento 183,3%). Seguono il Beccaria di Milano (145,9%) e Acireale (129,41%). E di conseguenza in molti IPM diventa impossibile anche solo garantire a tutti un letto, e ci si arrangia con i materassi per terra o le brandine da campeggio. Ma non sono solo i letti che mancano. Non bastano gli spazi per le attività e non basta il personale, di polizia, educativo e sanitario. Tutto diviene di conseguenza più difficile, le attività rallentano, la tensione sale ed iniziano gli incidenti, che a loro volta comportano ulteriori chiusure e nuove tensioni. Non a caso dall’entrata in vigore del decreto si è registrata una serie di proteste e di incidenti senza precedenti, che hanno inondato la stampa nazionale. Dai dati presentati qui, e dai molti altri contenuti presenti nel dossier di Antigone presentato oggi all’Associazione stampa romana, si direbbe che il decreto Caivano, a un anno dalla sua approvazione, si sia rivelato un colossale fallimento. Ma purtroppo le cose non stanno proprio così. Sempre in occasione di questo anniversario il Capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, rivendica come successi alcune delle cose che noi identifichiamo come disastri. Come l’invio agli istituti per adulti di quei maggiorenni che, avendo commesso il reato da minori e non avendo ancora compiuto 25 anni, avrebbero potuto restare nel circuito della giustizia minorile, e che vengono invece mandati negli istituti per adulti come misure sanzionatoria e disciplinare. Vuoti a perdere. Un fallimento per la giustizia minorile? Niente affatto. Dice sempre Sangermano, parlando in questo caso addirittura di minori: “i minori stranieri devono essere salvati, ma devono anche voler essere salvati”. Se l’offerta trattamentale non incrocia i loro bisogni, non li attira e non li coinvolge, sono fatti loro, vuoti a perdere anche in questo caso. Perché questa è la cultura penale e penitenziaria di questo governo, il cui indirizzo politico non a caso anche Sangermano chiama in causa. Giro di vite e pugno di ferro. E pazienza se la ricetta non funziona, se accresce le tensioni e avvelena l’aria di chi in carcere ci vive e ci lavora. Vuol dire che aumenteranno le proteste e gli incidenti dentro, e la recidiva fuori. Che non sono certo cose belle da vedere, ma alla fine dei conti sono anche sono cose utili nella perpetua campagna elettorale che vive il nostro paese. *Associazione Antigone Antigone: “La giustizia minorile rovinata dal decreto Caivano” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2024 Per la prima volta, anche le carceri minorili sono alle prese con il sovraffollamento: un record assoluto. A un anno dall’approvazione del decreto Caivano, l’associazione Antigone lancia l’allarme sullo stato della giustizia minorile in Italia. In un dettagliato dossier presentato ieri presso la sede dell’Associazione Stampa Romana, l’organizzazione denuncia come le nuove norme abbiano stravolto un sistema che per decenni era stato considerato un modello a livello europeo, spostando l’asse da un approccio rieducativo a uno puramente punitivo. “Mai visto nulla di simile”, esordisce il rapporto di Antigone, sottolineando come la situazione negli Istituti Penali per Minorenni sia ormai al collasso. I numeri parlano chiaro: al 15 settembre 2024 erano 569 i ragazzi e le ragazze detenuti negli Ipm, il dato più alto mai registrato. Un’impennata del 48% rispetto ai 392 detenuti dell’ottobre 2022, quando si insediò l’attuale governo. Il sovraffollamento è ormai endemico: 12 Ipm su 17 ospitano più persone di quelle previste, con un tasso di affollamento medio del 110%. In alcuni istituti si è arrivati a sistemare brandine da campeggio e persino materassi per terra. Una situazione che Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, definisce “esplosiva”. Particolarmente allarmante è l’aumento della custodia cautelare: il 65,7% dei ragazzi in Ipm non ha ancora una condanna definitiva. Un dato che per Antigone riflette un uso sempre più disinvolto della carcerazione preventiva, in contrasto con i principi di extrema ratio che dovrebbero guidare le misure restrittive per i minori. Ma non è solo una questione di numeri. Ciò che preoccupa maggiormente Antigone è il cambio di paradigma nella gestione della giustizia minorile. “Si continua a chiudere in carcere dei minorenni senza alcun progetto educativo, senza alcun piano di accoglienza, senza alcuna possibilità di reintegrazione sociale”, denuncia l’associazione. Un approccio che segna una netta rottura con la tradizione italiana in materia, da sempre improntata al recupero e al reinserimento del minore. Il dossier evidenzia anche come il decreto Caivano abbia facilitato il trasferimento dei giovani adulti nelle carceri ordinarie, interrompendo spesso percorsi educativi avviati e rendendo più difficile la reintegrazione. Nel 2024, i trasferimenti a strutture per adulti sono stati il 15,5% delle uscite dagli Ipm, contro il 12,7% del 2023 e il 9,2% del 2022. Un altro aspetto critico riguarda la gestione dei minori stranieri non accompagnati, una fetta consistente della popolazione carceraria minorile. Antigone denuncia come questi ragazzi, particolarmente vulnerabili, siano spesso oggetto di trasferimenti immotivati che spezzano i pochi legami creati sul territorio. Il perché delle rivolte - Il malessere diffuso negli istituti ha portato a numerose proteste e rivolte, che hanno coinvolto quasi tutti gli Ipm nell’ultimo anno. Episodi che secondo Antigone andrebbero letti come un grido d’aiuto, ma che invece vengono affrontati solo in chiave repressiva. Particolarmente emblematica la situazione del “Beccaria” di Milano, un tempo considerato un modello e ora simbolo della crisi del sistema. Tra sovraffollamento, carenza di personale qualificato e presunti episodi di violenza, l’istituto milanese riassume tutte le criticità denunciate da Antigone. Entrando nel merito del “Beccaria”, il rapporto di Antigone spiega che i lavori di ristrutturazione, iniziati nel 2008 e protratti per oltre 15 anni, hanno inevitabilmente contribuito al declino dell’istituto. La lunga durata ha inciso sul regolare funzionamento della struttura. Aggravata anche dall’assenza di una direzione stabile: dal 2014 al 1° dicembre 2023, quando è stato nominato un nuovo direttore incaricato unicamente dell’Ipm, si sono alternati ben otto direttori, molti dei quali già impegnati nella gestione di istituti per adulti. Un altro fattore di crisi potrebbe essere il cambiamento della cultura professionale degli agenti penitenziari. Molti sono giovani, provenienti dal Sud, poco familiari con il contesto milanese e con scarsa esperienza nel settore minorile. A tutto ciò si aggiunge la sensazione di abbandono da parte dell’amministrazione penitenziaria, che rende il loro lavoro ancora più difficile in un ambiente segnato da profonda sofferenza. Le presunte torture avvenute tra il 18 novembre 2022 e il 19 marzo 2024, per cui 13 agenti e altri 8 colleghi sono attualmente imputati, hanno probabilmente minato il rapporto di fiducia tra il personale e la comunità detenuta. Le proteste e le tentate evasioni sono il sintomo di una ferita che fatica a rimarginarsi. Nonostante i buoni propositi di rilancio del modello educativo, la risposta agli eventi critici è stata una progressiva chiusura: rispetto al passato, i giovani trascorrono sempre più ore in cella. Ciò ha minato la vocazione educativa dell’istituto. Nonostante i recenti investimenti in personale, il quadro complessivo rimane critico. Sul contesto milanese pesano anche dinamiche strutturali che riguardano l’intero sistema, tra cui il cambiamento dell’utenza. Infatti i minori stranieri non accompagnati al “Beccaria”, rappresentano la metà della popolazione carceraria. Sebbene questa categoria sia spesso additata come principale responsabile della crisi, in realtà ne rappresenta la parte più vulnerabile. Un modello criminalizzante - Antigone nel suo dossier esprime forte preoccupazione anche per l’aumento dell’utilizzo di psicofarmaci negli Ipm, visto come un sintomo del crescente disagio giovanile ma anche come una risposta sbagliata a problemi complessi. Infatti, un dato allarmante emerso da un’inchiesta di “Altreconomia”, ha evidenziato un significativo incremento della spesa per antipsicotici negli istituti penali minorili nel periodo post- pandemico. Tale aumento, del 30% in media tra il 2021 e il 2022, contrasta con un incremento più contenuto dell’ 1% negli istituti per adulti, segnalando una situazione di particolare fragilità tra i minorenni. Ciò che più colpisce nel dossier di Antigone è il contrasto tra l’approccio repressivo adottato e i dati sulla criminalità minorile, che non mostrano alcun aumento significativo. Nel 2023, infatti, i minori denunciati o arrestati sono diminuiti del 4,15% rispetto all’anno precedente. Come sempre, siamo alle leggi emergenziali, senza una vera emergenza. Il risultato è provocare una reale emergenza che, fino a un anno fa, non ha mai coinvolto le nostre carceri minorili. Carceri minorili al collasso. A un anno dal decreto Caivano il sistema è allo stremo di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 ottobre 2024 Dossier dell’Associazione Antigone Ingressi cresciuti del 16,4%, sovraffollamento al 110%. Ma i reati sono in calo. Un disastro: a un anno dal Decreto Caivano (15 settembre 2023), provvedimento bandiera della premier Meloni che, per combattere le cosiddette baby gang e il fenomeno dell’abbandono scolastico messi a fuoco allora dalla cronaca nel famigerato comune dell’hinterland napoletano, s’inventò un po’ di carcere in più per il piccolo spaccio e altre misure repressive per i giovani cresciuti all’ombra della camorra, il bilancio degli Istituti penali per minorenni è drammatico. “Non avevamo mai visto nulla di simile. Nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle carceri italiane, è la prima volta che troviamo un sistema minorile così carico di problemi e denso di nubi”, scrive l’associazione Antigone nell’ultimo dossier dedicato all’emergenza Ipm pubblicato ieri. Rispetto agli ingressi di un anno fa, il numero di ragazzi e ragazze entrati nei cosiddetti carceri minorili è aumentato del 16,4%. A fine settembre 2024 erano 569 stipati nei 17 Ipm italiani mentre “a ottobre 2022, momento in cui si insedia l’attuale governo, le carceri minorili ospitavano 392 persone”. Il numero delle presenze dunque è aumentato del 48% in 22 mesi. È un’impennata vertiginosa, nel grafico che mostra le presenze negli Ipm dal 1998 ad oggi. E infatti, spiega Antigone, “numeri così alti non si erano mai registrati prima”. E così è stato avvelenato anche un sistema, quello della giustizia minorile, che per anni l’Europa ha invidiato all’Italia. Il sovraffollamento sta rendendo invivibili anche le carceri minorili: 569 presenze in 516 posti disponili vuol dire una media del 110%, con punte a Treviso (183,3%), al Beccaria di Milano (145,9%) e all’Ipm di Acireale (129,41%). Eppure, la criminalità minorile diminuisce, non aumenta: “Contrariamente all’idea diffusa delle cosiddette baby gang come un’invasione di minori devianti e criminali, soprattutto a causa della presenza di ragazzi stranieri descritti come privi di controllo, i dati mostrano una realtà diversa”, si legge sul dossier. Nel 2023, infatti, i ragazzi tra i 14 e i 17 anni denunciati e/o arrestati sono diminuiti del 4,15% rispetto al 2022. In particolare il numero di minori stranieri denunciati è sceso addirittura del 5,93%. I minorenni reclusi negli Ipm sono il 61% dei presenti. Ed è in crescita la carcerazione preventiva: il 65,7% non ha ancora una condanna definitiva. Per quanto riguarda la tipologia di reati, si evidenzia il calo del -16% delle risse e delle percosse; in aumento invece rapine (7,69%), lesioni dolose (1,96%) e violenze sessuali (8,25%). Ma i giovani presentano “sempre più problemi di dipendenza e di uso di sostanze stupefacenti, a prescindere dalla nazionalità e dalla condizione economica”. La categoria di reati più frequente è quella contro il patrimonio, che “rappresentano il 52,2% del totale dei reati a carico di tutti coloro che sono entrati in Ipm nel 2024, il 61,9% se si guarda ai soli stranieri”. Le violazioni della legge sugli stupefacenti “rappresentano il 10,1% del totale dei reati a carico di chi è entrato in Ipm nel 2024, ed il 13,2% se si guarda ai soli italiani”. In generale, gli stranieri presenti nei carceri minorili a settembre 2024 sono il 46,7% , una percentuale in calo rispetto al 51,2% registrato a metà gennaio. Ma il sovraffollamento ha poi un’altra conseguenza: riferisce Antigone che il “decreto Caivano ha reso più facile il trasferimento dei ragazzi che hanno compiuto la maggiore età a un carcere per adulti, misura troppo spesso applicata per problemi di sovraffollamento o per gestire situazioni problematiche, ma che va a interrompere un percorso educativo e rende ben più difficile la reintegrazione sociale del giovane”. Emblematica è la storia di M., ragazzo nato in Egitto nel 2008 che si trovava in Italia come migrante non accompagnato ed era nell’istituto di Milano in attesa di giudizio. Improvvisamente è stato trasferito “per motivi di sovraffollamento” all’Ipm di Airola (Bn) senza avvisare né la tutrice, né il legale, né gli assistenti sociali. “Il minore ha forti fragilità psicofisiche e stava già soffrendo moltissimo la condizione di detenzione”, ha riferito la tutrice volontaria che ha denunciato il fatto. Non stupisce dunque, come rivela un’inchiesta di Altreconomia, se “nella fase post pandemica negli Ipm si sia registrato un significativo aumento della spesa - e dunque della somministrazione - di psicofarmaci, in particolare di antipsicotici”. Perché in Italia ci sono così tanti detenuti minorenni? E perché sono aumentati negli ultimi mesi? di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 3 ottobre 2024 Quest’anno si è raggiunto un numero record di ragazzi in Istituto: secondo un dettagliato report di Antigone, si tratta in gran parte di un effetto del decreto Caivano, approvato un anno fa. Il decreto Caivano nasce sull’onda emotiva degli stupri di due ragazzine nel Parco Verde. L’obiettivo dichiarato dal governo era quello di combattere le baby gang e l’abbandono scolastico. A un anno di distanza, si possono vederne gli effetti, in un dossier realizzato da Antigone, l’associazione che si occupa di carceri. La prima conseguenza è quella di un aumento netto dei detenuti minori, in linea con quanto sta avvenendo nelle carceri per adulti. Al 15 settembre del 2024 erano 569 i ragazzi detenuti nei 17 istituti penali per minorenni (Ipm), il numero più alto mai fatto registrare. In 22 mesi - dall’insediamento dell’attuale governo - sono cresciuti del 48 per cento. Da qui possiamo partire per provare a fare qualche obiezione e a rispondere, attraverso i dati. D’accordo, sono di più i detenuti minori, ma è perché evidentemente c’è stato un aumento della criminalità? No. Nel 2023, c’è stato un calo del 4,15 per cento del numero di segnalazioni di minori denunciati o arrestati rispetto all’anno precedente. Questo può essere considerato un caso di scuola su come le variazioni di livello della popolazione carceraria dipendano dai crimini commessi ma anche e soprattutto dalle norme e dalle pene previste. Però sono aumentati gli stranieri delinquenti? No, la diminuzione dei reati è del 2,19 per cento per gli italiani e del 5,93 per gli stranieri. Tra loro c’è stato un cambio significativo nelle nazionalità: prima la maggioranza arrivava dall’Est, ora dal Nord Africa. E come si spiega che ce ne siano tanti in carcere? C’erano 266 stranieri minori al 15 settembre, in calo rispetto a gennaio (46, per cento contro il 51,2). Quasi metà. Commettono reati generalmente meno gravi di quelli imputati agli italiani. Il maggior tasso di carcerazione si spiega con la marginalità sociale e con la mancanza di alternative. Come accade per gli adulti, che non possono andare in detenzione domiciliare perché spesso non hanno una casa dove il giudice possa mandarli per evitare il carcere. Negli istituti minorili si sta meglio che in quelli degli adulti? Forse, ma di certo il sovraffollamento è comparabile. Sono oltre la capienza massima 12 istituti su 17. A Treviso hanno messo materassi e brandine per terra. A Roma manca la luce negli spazi comuni da tre settimane. Mancano anche i frigoriferi. Per conservare il cibo, i ragazzi lo mettono nei lavandini pieni di acqua. Sono molte le giovani donne detenute? No, sono in percentuale simile alle adulte, appena il 4,6 per cento del totale. Negli Ipm ci sono solo minorenni? No, i minori sono il 61 per cento. Per legge ci possono rimanere anche i ragazzi tra 18 e 25 anni che hanno commesso il reato da minorenni. Ma cosa c’entra il decreto Caivano? Ha avuto diversi effetti. Per esempio ha reso più facile trasferire i maggiorenni che avevano commesso il reato da minorenni in carceri per adulti. Interrompendo così ogni attività di recupero. Nel 2022 le persone spostate in altri istituti erano state 55, quest’anno 123. Sono pochi i ragazzi in custodia cautelare? No, sono la maggioranza. A metà settembre, i detenuti con condanna definitiva erano solo il 34,3 per cento. I maggiori ingressi di quest’anno sono praticamente tutti di persone in custodia cautelare. E questo è un altro effetto diretto del decreto Caivano, che prevede un limite di pena più basso per entrare in cella e che introduce i reati di scippo, resistenza a pubblico ufficiale e altri reati lievi tra quelli per i quali si può disporre la carcerazione. Per quanto riguarda in particolare la normativa sulle droghe, si sono alzate le pene per i comportamenti di lieve entità. Ci sono comunque molte attività di trattamento per i ragazzi? In alcuni casi sì. In altri, si preferisce affidarli agli psicofarmaci. Già tra il 2021 e il 2022 la spesa per psicofarmaci a persona negli Ipm era aumentata del 30 per cento. Al Beccaria, dal 2020 al 2022 è aumentata del 219 per cento. I minori in istituto stanno comunque vicino a casa? No, sono in aumento i casi di trasferimento in istituti anche molto lontani. Per eventi critici, come rivolte, ma anche per fare spazio in caso di sovraffollamento. Minorenni sradicati, spesso stranieri e con pochissimi contatti, si trovano a centinaia di chilometri, da soli. Le continue rivolte segnalano un aumento dei violenti? No, segnalano un aumento del malessere e dei disagi per le condizioni di abbandono. In istituti come il Beccaria, dove ci sono state molte rivolte e anche i casi dei 13 agenti arrestati per violenze, dal 2014 ci sono stati ben 8 direttori, spesso assegnati contemporaneamente ad altri istituti. In definitiva, come spiega la coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti, tutti i numeri crescono proprio per effetto del Decreto Caivano, “approvato per rispondere a una presunta emergenza criminalità minorile che i dati ci dicono non esistere”. Un anno fa, Marietti scriveva: “La filosofia di questo decreto va contro il buon senso, contro le norme internazionali e contro quarant’anni di storia di giustizia minorile. Alla guerra ai poveri ci avevano già abituati in passato. Serviva la guerra ai poveri minorenni per aggiungere un nuovo vergognoso tassello”. Donne in carcere. In maternità o con figli: è tutto più difficile di Ilaria Beretta Avvenire, 3 ottobre 2024 Nelle strutture si contano 11 donne incinte e 23 mamme con bimbi. I numeri rischiano di aumentare. Da quattro anni a San Vittore non c’è un ginecologo. I concorsi pubblici si aprono e si chiudono senza che nessuno faccia domanda per lavorarci e così le 81 donne che attualmente sono detenute nella sezione femminile del penitenziario milanese ne devono fare a meno e si accontentano del supporto del medico di base del reparto che, in mancanza, ne fa le veci. Tra loro ci sono anche donne in gravidanza - al 30 giugno, in tutta Italia, erano 11 - oppure che hanno partorito da poco e che, con i loro bambini, abitano nell’istituto a custodia attenuata per madri (Icam) detenute con figli minori di sei anni. In Italia ne esistono quattro. Nella struttura protetta milanese la capienza è diminuita molto dopo il Covid e pure oggi non è al completo: vi abitano sei donne con sette bambini. In totale, in Italia - secondo quanto rilevato dai dati del Ministero dello scorso giugno - le detenute madri con figli sono 23 ma le associazioni avvertono che le presenze potrebbero aumentare con l’approvazione del cosiddetto Ddl sicurezza, che rende facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli al di sotto di un anno. Per incontrare il medico specialista, dall’Icam di San Vittore - una sorta di grande appartamento con agenti in borghese e spazi in comune, che non assomiglia a un carcere - le pazienti devono raggiungere e varcare il portone del penitenziario centrale: l’operazione deve essere organizzata con anticipo sia per la distanza che intercorre tra le due strutture sia perché gli agenti penitenziari che devono scortarle sono sotto organico. Qualche volta, per semplificare le cose, sono i medici di San Vittore o sanitari volontari ad andare in struttura ma all’Icam manca uno spazio per le visite e lo specialista non può contare su molta privacy né sul supporto di un infermiere. L’accesso a metà alla sanità delle detenute negli Icam - che nel carcere tradizionale è invece tutto sommato semplice - è uno dei motivi che spinge alcune tra quelle che ne hanno la possibilità, a mandare i figli a casa con il padre (una scelta più semplice soprattutto per le donne rom, i cui nuclei familiari sono organizzati intorno ai parenti dell’uomo) e tornano in una cella tradizionale, pur di accedere liberamente alle cure. Questo è un aspetto fondamentale per i reclusi malati o in una condizione di fragilità ma anche per tutti gli altri che - dice chi lavora nell’ambiente - tendono a somatizzare molto la condizione di grave disagio psicologico legato alla reclusione. Nonostante la presenza femminile nelle carceri italiane sia assolutamente minoritaria (tra il 4 e il 5% della popolazione ristretta) la mancanza di una sanità specializzata al femminile si fa sentire. A marzo 2024 una ragazza incinta ristretta nel carcere di Sollicciano a Firenze ha perso il bambino a causa di complicazioni legate alla gravidanza; la stessa cosa era accaduto a luglio 2022 proprio nell’istituto milanese di San Vittore e nel marzo 2019 a Pozzuoli; mentre nel reparto femminile di Rebibbia, nell’agosto 2021, una donna ha partorito improvvisamente nella propria cella con il solo aiuto della compagna di stanza. L’istituto di pena è dotato di un reparto nido che attualmente ospita 3 madri con figli ed è dotato di uno spazio per le famiglie. Anche qui, però, non mancano le criticità legate a un corretto sviluppo per i bambini reclusi, aggravate da difficoltà logistiche: le famiglie dall’esterno non possono portare quadernoni, colori, matite ai piccoli e - dice l’ultimo rapporto dei detenuti del Lazio - nemmeno troppe fotografie di figli che magari sono all’esterno: ogni donna può averne solo dieci e per riceverne di nuove, deve rinunciare e mandarne fuori altre. Una balena spiaggiata, ecco che cos’è oggi il carcere Avvenire, 3 ottobre 2024 Pubblichiamo la testimonianza di L.L.F., detenuta in un carcere del Nord Italia. Ha iniziato a raccontarsi qualche anno fa, nell’ambito di un laboratorio di scrittura. “In questo periodo si parla tanto di carcere ma nessuno di quelli che ne discutono sa in realtà il carcere che cos’è: né i garanti dei detenuti, né i volontari né il personale o la penitenziaria che dentro le mura ci vivono. I garanti lavorano su dati e testimonianze ma fra le mura di certo non hanno mai passato le notti, i natali, i ferragosti, e guardato negli angoli oscuri, perché in carcere come non si è liberi di uscire non si è liberi di entrare e andare dove si vuole, sono altri che ti ci portano e mostrano ciò che si vuole mostrare; i volontari non vedono i reparti, le celle, le docce, stanno negli spazi ufficiali. Gli agenti penitenziari sono l’altro lato della barricata, per loro i detenuti sono solo lavoro o, se stressati da anni di reparto, solo “scarti umani” che li inchiodano a un lavoro che non sopportano e che spesso hanno scelto solo per avere uno stipendio fisso e scappare dalla disoccupazione del nostro Meridione. Quando giungi in carcere dalla vita civile hai l’impressione di trovarti all’inferno e più passano i giorni e più quell’impressione diventa realtà, non parlo di delinquenti abituali morti di fame che qui trovano vitto e alloggio che non hanno fuori, e non pagheranno, perché nullatenenti, il mantenimento perché, quasi nessuno lo sa, ma per stare in carcere si paga: 120 euro al mese che ti vengono sottratti dallo stipendio, se lavori, o ti arrivano da pagare fuori. La giustizia nel nostro Paese è una balena spiaggiata e morente e il carcere ne è la dimostrazione, un sistema punitivo e inutile perché non possiamo pensare di rieducare le persone tenendole chiuse quasi 24 ore su 24 in celle fatiscenti e sovraffollate (io stessa per mesi sono stata in una cella con la muffa alle pareti e dove ci pioveva dentro). Gli psicofarmaci sono la cosa più consumata in galera, molte li usano per passare la carcerazione incoscienti e dormendo, molte sono costrette ad usarli perché il carcere non è solo privazione della libertà (che paradossalmente è la cosa che ti pesa di meno), ma è trovarsi costrette a condividere giorno e notte la cella, spesso piccolissima, con 2 - 3 - 4 - 5 altre persone con cui non hai niente in comune e a volte sono disturbate psichicamente al punto da non poterci dormire la notte, spesso dentro per aggressioni e omicidi, e non sai cosa potrebbero farti mentre dormi; o sono psichicamente non violente ma non si lavano, pisciano nel letto e hanno altre orride abitudini, per non parlare di quelle che rubano oggetti o vestiti, ti diluiscono i detersivi con l’acqua o si fregano la tua spesa. In carcere urla, litigi, crisi sono all’ordine del giorno. Il carcere è un mondo dove la normalità sparisce; per questo è così destabilizzante per chi ha sempre condotto una vita regolare: l’urbanità non c’è, la civiltà neanche, l’ignoranza e la convinzione che l’unica cosa che conta è la forza e i soldi radono al suolo qualsiasi comunicazione; è un luogo dove tutti fumano come turchi e venderebbero la propria madre per una sigaretta, quando ormai fuori è out da decenni; dove ottieni di più se fai peggio, dove sei costretto a fare la doccia in ciabatte per non beccarti malattie in docce che condividi con 30, 40, 50 persone; dove non vedi per anni una pianta ma solo cemento; dove mangi con piatti di plastica le stesse identiche cose di un vitto monotono, non potendo più mangiare una serie di cibi e bevande che ricordi e vedi solo in TV. Il carcere è alienante, dopo un po’ che ci sei dentro cominci a perdere pezzi di te stessa, dopo aver perso il nome di battesimo all’entrata, qui ci sono solo cognomi. Per prima se ne va la memoria, che risente del clima di insicurezza, precarietà, del rumore e dello stress continuo senza pause; poi cominci a perdere ogni interesse per il mondo esterno, a ciò che accade in quel fuori che non ti appartiene più; se hai qualcuno all’esterno ti struggi nella nostalgia e nella preoccupazione dei tuoi cari, ma pian piano l’esterno si perde e ti sembra di esser nato e cresciuto qui dentro, all’inferno, e che la vita al di fuori sia stata solo un sogno, un sogno perduto che non potrai più coltivare, e tutto ciò che eri, i tuoi interessi e le tue passioni, te stesso, non sia più importante perché è finito qui dentro, in questa cloaca da cui, forse, un giorno potrai uscire, ma che non uscirà più da dentro te stesso e allora è più facile mettersi un sacchetto di plastica in testa, aprire il gas del fornelletto da campeggio della cella e dormire per sempre: ecco che cosa è passato nella testa almeno una volta di chi è stato scagliato nella gehenna. Vi è da stupirsi che ogni giorno qualcuno cerchi di evadere con la morte al proprio assassinio? Riccardo Turrini Vita sarà il nuovo Garante nazionale dei detenuti di Franco Insardà Il Dubbio, 3 ottobre 2024 Via libera del Consiglio dei ministri al nome proposto dal guardasigilli Carlo Nordio dopo la prematura scomparsa di Maurizio D’Ettore. Individuare una figura di altissimo profilo, che non sia riconducibile a un partito e che possa aspirare al gradimento di Sergio Mattarella. Queste le caratteristiche che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ricercava per ricoprire il ruolo del presidente del collegio che costituisce l’Autorità garante delle persone private della libertà personale. E così oggi il Consiglio dei ministri ha accolto la proposta del guardasigilli e deliberato la nomina del consigliere Riccardo Turrini Vita, al posto di Maurizio D’Ettore, morto lo scorso 22 agosto. Il ministro Nordio, in una nota, ha sottolineato come il nuovo Garante sia “una persona di elevata cultura, grande esperienza e particolare sensibilità per il mondo carcerario”. Riccardo Turrini Vita, infatti, vanta un curriculum di tutto rispetto. È stato magistrato di Corte d’appello e dirigente generale dell’amministrazione della giustizia. Ha avuto incarichi di docenza alle università di Roma Tor Vergata e della Sapienza. Dal primo luglio 1994 presta servizio al ministero della Giustizia. È nell’amministrazione penitenziaria dal 1997, dal 2002 al 2010 è stato direttore generale dell’esecuzione penale esterna, ed è fino a oggi direttore generale del personale e della formazione dell’amministrazione penitenziaria. È stato rappresentante del governo italiano nel Consiglio D’Europa, all’Assemblea plenaria del comitato direttivo per i problemi penali e penitenziari e consulente giuridico presso l’Onu, Alto commissariato dei diritti umani. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, nell’annunciare che è stato avviato l’iter per la procedura di nomina a presidente del Garante nazionale dei detenuti, ne ha sottolineato “il profilo di elevatissima professionalità rispetto alla funzione da ricoprire”. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, si è detto sicuro che “se ne gioveranno i detenuti e tutto il personale impegnato, a vario titolo, nell’esecuzione penale”. Congratulazioni e auguri di buon lavoro anche da parte del Consiglio Nazionale Forense. “Il Cnf - ha dichiarato il presidente Francesco Greco - rinnova la propria disponibilità a collaborare con il Garante dottor Turrini Vita per promuovere iniziative congiunte volte a rafforzare la tutela dei diritti umani e della dignità delle persone detenute. Siamo certi che, con la sua comprovata esperienza e competenza, saprà affrontare le sfide che lo attendono in questo delicato incarico”. Per il capo del Dap Giovanni Russo, “nessuno meglio di chi lavora nell’Amministrazione penitenziaria può descrivere le doti umane, la professionalità e lo spessore culturale di Riccardo Turrini Vita”. Ma proprio sul fatto che si tratti di un dirigente del ministero della Giustizia si appuntano le critiche di Debora Serracchiani responsabile Giustizia, Alfredo Bazoli e Federico Gianassi, capigruppo commissioni Giustizia di Senato e Camera, e Walter Verini, capogruppo in Antimafia del Pd: “La caratteristica fondamentale di un Garante dei detenuti deve essere quella di una netta indipendenza dalla struttura di controllo, senza ambiguità e confusione di ruoli”. In una nota l’Anm, nell’augurare buon lavoro a Turrini Vita, ha sottolineato che “avrà un incarico delicato, data la situazione profondamente complessa del sistema penitenziario nel nostro Paese”. Un lavoro molto complicato sul quale il mondo dell’associazionismo, che lavora nelle carceri, attende di verificare prima di esprimere giudizi. Turrini Vita nuovo Garante dei detenuti, protesta il Pd di Angela Stella L’Unità, 3 ottobre 2024 In magistratura dall’87 ma da molti anni al Dap (dove anche il capo è una toga). Critiche da Pd e Antigone: “Confusione di ruoli”. “Ho proposto al Presidente del Consiglio la nomina del consigliere Riccardo Turrini Vita come Garante nazionale dei detenuti, in sostituzione del compianto Maurizio D’Ettore. La proposta è stata accolta e deliberata oggi in Consiglio dei ministri. Questa alta carica è ora ricoperta da una persona di elevata cultura, grande esperienza e particolare sensibilità per il mondo carcerario”: così ieri il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha reso nota la novità, attesa da tempo, considerata anche la drammaticità che stanno vivendo i nostri istituti di pena. Peccato che contemporaneamente sia al vertice del Dap che a quello del Garante avremo un magistrato. Scopriamo chi è Turrini Vita: classe 1961, è entrato in magistratura nel 1987, è stato magistrato di Corte d’appello e dirigente generale dell’Amministrazione della giustizia. Ha iniziato la carriera come giudice del Tribunale di Pordenone e successivamente al Tribunale di Roma, nelle sezioni civili. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 giugno 2002 è stato nominato direttore generale dell’esecuzione penale esterna, con incarichi rinnovati nel 2004 e nel 2006. Nel 2010 è stato nominato direttore generale del personale e della formazione. È stato rappresentante del Governo italiano nel Consiglio D’Europa, all’Assemblea plenaria del comitato direttivo per i problemi penali e penitenziari e consulente giuridico presso l’Onu, Alto Commissariato dei diritti umani. Quale membro del comitato sulle misure alternative in Europa, ha elaborato la proposta di raccomandazione sulle misure alternative, accolta dal Consiglio dei Ministri presso il consiglio e divenuta Raccomandazione il 29 novembre 2000. Tra le sue pubblicazioni, i volumi ‘Civiltà della pena’ edito nel 2006, e ‘Le trasformazioni del probation in Europa’ scritto insieme a Michele Ciarpi e pubblicato nel 2015. Turrini Vita era finito nel giugno 2020 nel mirino della stampa della destra e di certi sindacati di polizia penitenziaria per aver firmato insieme all’allora capo del Dap Bernardo Petralia una circolare in cui si allegava una bozza di protocollo per gestire l’emergenza pandemica e dove si leggeva che per evitare ulteriori contagi da Covid occorreva “favorire l’applicazione di misure alternative alla detenzione per tutte le persone che presentano gravi patologie che possono essere significativamente complicate dal Covid 19”. Sempre ad ottobre dello stesso anno Turrini Vita, tramite una circolare, aveva ordinato alle direzioni delle carceri di rispettare le sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione su 41 bis. Nel dettaglio, la circolare chiedeva “ai direttori degli istituti di Sassari, Cuneo, L’Aquila, Novara, Parma, Spoleto, Terni, Tolmezzo, Viterbo, Milano Opera, Roma Rebibbia e ai provveditori relativi di conformare l’azione amministrativa ai princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi (sentenza Corte costituzionale del 26 settembre 2018 n. 186), di eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità (sentenza Corte costituzionale del 5 maggio 2020 n. 97), di eliminazione delle limitazioni alla permanenza all’aria aperta ad una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato da diverse sentenze della Cassazione”. Fu clamorosamente revocata dopo appena due giorni dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia e dal vice- capo Roberto Tartaglia e finì al centro di una interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti. “Riccardo Turrini Vita lo definirei un uomo d’altri tempi per la sua gentilezza, per il suo garbo e per il suo modo di parlare - ci dice Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Detto questo, voglio essere ottimista e fargli fiducia anche se non mi spiego il motivo per cui, anche per una funzione così delicata che richiede a mio avviso conoscenza diretta sul campo, si debba ricorrere ad ex magistrati come avviene all’interno del DAP per le cariche apicali. Del resto, Turrini Vita è distaccato al DAP da tempo immemorabile”. Polemiche dal Pd, secondo cui “ancora una volta” il governo “non ha sentito il bisogno di coinvolgere il Parlamento - come avevamo chiesto - su criteri e direttrici alla base della nomina. Per questo chiediamo che al più presto il nuovo Garante venga in audizione alle Commissione Giustizia di Senato e Camera - passaggio obbligato prima del perfezionamento del DPR- per illustrare le idee e le linee guida che informeranno il suo mandato ed ascoltare i gruppi parlamentari. Oltre a questo, pur non essendo in discussione la persona del Dott. Turrini Vita né il suo curriculum, desta perplessità il fatto che si tratti di un alto dirigente dello Stato e del Dicastero della Giustizia, mentre la caratteristica fondamentale di un Garante dei detenuti deve essere quella di una netta indipendenza dalla struttura di controllo, senza ambiguità e confusione di ruoli. C’è chi ipotizza incompatibilità o addirittura qualche dubbio di legittimità della nomina stessa. Ci auguriamo che Ministro e Governo abbiano fatto tutte le verifiche”, hanno dichiarato i parlamentari dem Serracchiani, Bazoli, Gianassi e Verini. Critiche anche da Antigone. “È singolare che un massimo dirigente dell’amministrazione della giustizia penitenziaria minorile - spiega il presidente Patrizio Gonnella - tutto a un tratto diventi il garante dell’utenza soggetta a controllo. Come può controllare il sistema minorile se fino a oggi era (e sembra che tuttora sia) il vice capo del minorile? Non è un giudizio sulla persona ma sulla funzione”. Carcere e Garante, l’inopportunità delle scelte camerepenali.it, 3 ottobre 2024 Il documento della Giunta e dell’Osservatorio carcere UCPI. La designazione a capo dell’ufficio del Garante nazionale per i diritti dei detenuti del dott. Turrini Vita, già magistrato e figura dirigenziale apicale del DAP da oltre vent’anni anni, stride, in maniera troppo evidente, con il ruolo e le funzioni attribuite, per legge, all’autorità di garanzia dei diritti delle persone detenute. Auspicavamo una celere ricomposizione dell’ufficio del “Garante Nazionale dei diritti delle Persone private della Libertà personale” dopo la scomparsa improvvisa dell’on. Maurizio d’Ettore, consapevoli della necessità di avere, da subito, la ricostituzione di un organismo importante in un momento così difficile, se non drammatico, in cui si trovano le carceri italiane. Anche stavolta, però, nel “fare presto”, le logiche tutte interne alle segrete stanze ministeriali, condizionate da una errata visione prospettica, mal si conciliano con il “fare bene”. E la designazione a capo dell’ufficio del Garante nazionale per i diritti dei detenuti, individuato nella persona del dott. Turrini Vita, già magistrato e figura dirigenziale apicale del DAP da oltre vent’anni anni, stride, in maniera troppo evidente, con il ruolo e le funzioni attribuite, per legge, all’autorità di garanzia dei diritti delle persone detenute. Sapevamo bene, come più volte denunciato, che sull’ufficio del garante dei detenuti grava un vizio d’origine determinato dalla incongrua scelta di prevederne l’indicazione e la nomina in capo al Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della giustizia, scelta voluta dall’allora guardasigilli Andrea Orlando, a scapito di quella più naturale di elezione della figura di garanzia, indipendente e terza rispetto all’amministrazione penitenziaria, attraverso il coinvolgimento di una maggioranza parlamentare qualificata. Un vizio d’origine che ha permeato, pur con le doverose differenziazioni e sensibilità, tale organismo che viene, addirittura, ospitato all’interno degli uffici del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria oltre che strutturato con personale di quel dipartimento. Quasi a fare da pendant con la scelta, purtroppo oramai decennale, di individuare il capo del DAP nella magistratura inquirente, meglio ancora se di punta nell’antimafia, dimenticando che l’amministrazione penitenziaria non è uno strumento per attuare scelte politiche repressive quanto, piuttosto, per il governo delle carceri, in piena conformità al modello disegnato dai padri costituenti nell’art. 27, ovvero opportunamente orientato ed organizzato allo scopo della rieducazione e risocializzazione del detenuto. Nel caso specifico, siamo in presenza di un dirigente apicale, ancora oggi, del DAP che, a partire da domani, dovrà guidare l’ufficio del garante, indipendente da ogni potere, in una attività di monitoraggio, ispezione e controllo di tutti i luoghi di privazione della libertà per “individuare eventuali criticità”, “risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette”, redigere “un rapporto contenente osservazioni ed eventuali raccomandazioni” alle autorità competenti, per come si legge sul sito istituzionale nella mission del garante. In specie, avremo colui che ha diretto per molti anni l’esecuzione penale esterna, che ha guidato e curato la formazione del personale penitenziario, che ha retto la vice dirigenza del DAP e, per alcune settimane, il DAP stesso, che ha diretto l’esecuzione minorile e che, da domani, dovrà relazionare al DAP per segnalare quello che, diciamolo senza infingimenti, da decenni nell’amministrazione concreta del carcere non va grazie anche alle inefficienze e/o inerzie dello stesso dipartimento. Un’inopportunità che inevitabilmente getta ombre sul futuro del garante dei detenuti anche alla luce di alcune sue dichiarazioni rese in occasione del convegno organizzato da UCPI il 3 e 4 dicembre 2021 a Roma, sulla necessità di riprendere il lavoro degli Stati Generali per una riforma quanto mai necessaria. Difatti, durante la sessione dedicata al DAP, l’allora Direttore Generale della formazione del personale, ha rivendicato il suo essere “molto parsimonioso nel riconoscere diritti in generale ai detenuti …perché quando una situazione giuridica è avvolta dall’esercizio di un potere autoritativo, nel nostro ordinamento si parla di interessi legittimi” (https://www.radioradicale.it/scheda/654093/riforma-penitenziaria-dove-eravamo-rimasti-lurgenza-di-un-intervento-1deg-giornata). A questo punto, speriamo solo che non si arrivi alla riqualificazione del “garante dei diritti” nel “garante degli interessi legittimi” dei detenuti. La Giunta UCPI L’Osservatorio carcere UCPI Carcere, la grande fuga: perché in Italia le evasioni sono così facili di Lucio Luca La Repubblica, 3 ottobre 2024 Dalle classiche lenzuola fino ai manici di scopa. Spesso approfittando di rivolte e disordini. Soltanto gli istituti macedoni e pochi altri sono più colabrodo dei nostri. Le ragioni? “Troppi i detenuti e troppo pochi gli agenti di Polizia penitenziaria”. Alle otto della sera, dopo la cena in mensa, il detenuto Antonio Liuzzi chiede una sigaretta all’agente di custodia di turno e va in cortile a fumare. Liuzzi è di Grottaglie, provincia di Taranto, ha 43 anni gran parte dei quali vissuti dietro le sbarre, adesso sta scontando una pena per furto e rapina, suo “mestiere” da sempre. Antonio si guarda intorno, non scorge anima viva. Ha già provato a fuggire almeno tre volte e questo potrebbe essere il momento giusto. Scavalca il muro di cinta e non fa più ritorno nella struttura. Ad Avellino scatta l’allarme: gli agenti lo cercano per tutta la notte, lui si nasconde nel bosco che circonda il carcere. Alle prime luci dell’alba si dirige verso la stazione dei pullman: vuole prenderne uno diretto verso la Puglia, magari per fare una “sorpresa” ad amici e parenti. Ma non sa che quella domenica, il 9 settembre scorso, il personale dei trasporti ha proclamato uno sciopero generale in tutta Italia. Aspetta un paio d’ore, impreca per l’assenza di mezzi, non può immaginare che proprio quel giorno viaggiare sarebbe stato impossibile. La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo recita il proverbio. E così, quando arriva una volante della polizia, Antonio accenna una nuova fuga ma per lui non c’è più nulla da fare: tornerà in cella, in attesa di un nuovo processo che allungherà inevitabilmente la sua detenzione. L’articolo 385 del Codice penale è piuttosto chiaro: “Chiunque evade è punito con la reclusione da uno a tre anni”. Un’estate bollente - È solo uno degli ultimi casi di un’estate caldissima anche sul fronte dell’emergenza carceraria. Rivolte, aggressioni, suicidi. Ed evasioni “facili” dai penitenziari in sofferenza, con agenti di custodia sotto organico costretti a turni massacranti di lavoro, sistemi di sicurezza colabrodo e condizioni di vita oltre i limiti della decenza. Tanto per dire, quella stessa domenica altri tre giovanissimi rinchiusi nel carcere minorile Beccaria di Milano erano riusciti a far perdere le proprie tracce: due fratelli di 16 e 17 anni, nati a Como da genitori maghrebini, e un altro diciassettenne immediatamente ripreso ma capace di far perdere nuovamente le proprie tracce soltanto poche ore dopo, mentre erano in corso le ricerche degli altri due. “Spesso mettere in carcere i minori non è la soluzione migliore per risolvere i loro problemi”, spiega don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria. “Sono ragazzi molto irrequieti e sui grandi numeri diventa difficile contenere aggressività e voglia di evadere”. L’istituto milanese, del resto, non è nuovo a casi del genere. Qualche giorno prima di Natale, nel 2022, ci fu una maxi fuga di detenuti - scapparono in sette, che poi vennero ripresi nel giro di qualche giorno - e un’inchiesta in corso ha quasi azzerato gli agenti penitenziari in servizio accusati di violenze e soprusi nei confronti dei giovani “ospiti”. Un altro segnale del disagio sempre più crescente che si vive dietro le sbarre. Venti volte più che in Europa - Gennarino De Fazio, segretario generale di Uilpa Polizia Penitenziaria, tiene ormai un diario quasi quotidiano di quello che succede nelle carceri italiane. Non ci sono dati ufficiali, ma basta scorrere le cronache dei giornali per capire che evadere non è poi così impossibile negli ultimi tempi. Certo, non siamo ai livelli della Macedonia dove, secondo l’Osservatorio europeo Space, il tasso di fuga è di ben 690,6 detenuti ogni 10 mila, ma con 22,8 siamo ben messi nelle classifiche continentali: la media Ue è 2,2. “Mentre la politica è impegnata a occuparsi del caso Sangiuliano invece che di San Vittore, nei penitenziari avviene di tutto”, spiega il sindacalista. “E a pagarne le spese, oltre ai reclusi, sono 36 mila donne e uomini della polizia penitenziaria, stremati nelle forze e mortificati nell’orgoglio, che scontano le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato. Quello stesso Stato che, per mano dei governi, li ha abbandonati”. De Fazio snocciola i numeri dello sfascio: “L’organico del personale dovrebbe essere di 43 mila unità. Allo stato, ne mancano almeno settemila. Ma, attenzione, quei 43 mila sono previsti per una popolazione carceraria di 51 mila detenuti. Peccato che oggi dietro le sbarre ci siano almeno 62 mila persone, anche per effetto del cosiddetto Decreto Caivano che ha abbassato da nove a sei anni il limite per la custodia cautelare facendo lievitare il numero dei reclusi del venti o trenta per cento. Con tutto ciò che ne consegue”. Uno a cento - E allora non può stupire che la sera nella quale Antonio Liuzzi è riuscito a scavalcare indisturbato il muro di cinta, nel carcere di Avellino ci fossero in servizio appena sette agenti per più di seicento detenuti: “La normativa ne prevede uno per ogni 2,5. In questo caso il rapporto era quasi di uno a cento. Ma cos’altro deve accadere per prendere provvedimenti seri?” conclude De Fazio. Anche perché, nel tempo, i compiti degli agenti penitenziari si sono moltiplicati: controllare i detenuti è solo uno dei tanti perché vengono impiegati anche nei tribunali di sorveglianza, nei nuclei investigativi speciali e persino per incombenze amministrative, come curare pratiche contabili che dovrebbero spettare a impiegati civili: “Che, però, non ci sono” spiegano i sindacati “e dunque tocca occuparsi anche di questo durante le ore di straordinario”. Con questi chiari di luna, dunque, fuggire dal carcere non è più un’impresa da Alcatraz. In uno studio di qualche tempo fa, il direttore generale della Formazione del personale del Dap, Pietro Buffa, aveva elencato una serie di strumenti generalmente usati per evadere: dalle classiche lenzuola ai manici da scopa per realizzare funi e scalette fino ai coprimaterassi in tela, i teli da bagno o le corde sottratte dal campo sportivo interno. “I ganci” spiega Buffa “vengono realizzati con materiali di fortuna, come parti dei telai o dei fermi delle finestre della cella, le sponde laterali anticaduta dei letti, il mancorrente di un carrello portavivande o parti degli sgabelli che arredano le celle. Alcuni detenuti hanno utilizzato anche delle pertiche, rubando pali di legno in uso nella serra interna o tubi in ferro lasciati incustoditi all’interno della cinta”. Come l’albanese Roland Dedja, pericolosissimo criminale accusato di sequestro di persona e traffico di stupefacenti, che un anno fa a Teramo si è calato con una corda dopo aver tranciato le grate. Da allora è latitante: coinvolto - ma poi assolto - anche in un caso di omicidio, è riuscito probabilmente a tornare nel suo Paese. I complici che lo avrebbero aiutato a fuggire sono stati arrestati nel marzo scorso, di lui invece si sono perse le tracce. Il re delle evasioni - È vero che gran parte delle evasioni si risolve in pochi giorni - spesso sono gli stessi familiari a convincere i fuggiaschi a tornare in carcere per evitare guai più grossi - ma di casi come quello dell’albanese ce ne sono diversi. Diceva un “maestro” del genere come Renato Vallanzasca che “per evadere ci vogliono almeno cinque minuti. Ma serve soprattutto organizzazione, amici fuori che ti sostengono, complici, armi, strutture, soldi, corruzione, un ambaradan che non metti in piedi in cinque minuti. E dove non basta il fegato, ci vuole anche il culo”. Vero, ma viste le condizioni delle carceri attuali, probabilmente oggi basta anche meno. Ddl sicurezza, quel vento autoritario che spazza via le nostre libertà di Michele Ainis La Repubblica, 3 ottobre 2024 Riconoscere il pericolo, denunziarlo, contrastarlo, non è una battaglia di partito. È un obbligo costituzionale. Ogni giorno ha la sua pena, recita il Vangelo di Matteo. Ma il governo Meloni l’ha trasformata in pena detentiva. Con il ddl sicurezza, approvato dalla Camera procedendo con gli scarponi chiodati. E però non solo. Tanto che si moltiplicano gli allarmi su questa stretta illiberale, da Amnesty International all’Osce, fino al Rapporto della Commissione europea sullo Stato di diritto. E soprattutto si moltiplicano i divieti, le punizioni, gli altolà. Specie a danno dei diseredati, o di chi canta fuori dal coro. E in nome d’un pensiero ottenebrante come un anestetico. D’altronde l’elenco dei nuovi provvedimenti è di per sé una pena. Carcere (fino a 7 anni) per chi occupa le case sfitte degli enti. Castighi a chi chiede l’elemosina. La norma anti-Gandhi, com’è stata definita: ossia ancora la galera, senza l’alternativa della pena pecuniaria, per chiunque interrompa la circolazione stradale con una manifestazione. Ne faranno le spese gli eco-attivisti di Ultima generazione, ma potenzialmente anche i lavoratori e gli studenti. Un esempio per tutti: gli operai della Whirlpool di Napoli, che a suo tempo imbastirono dieci blocchi stradali per salvare il proprio posto di lavoro. E ancora: no alla cannabis light, benché tutti gli esperti del globo terracqueo ne attestino l’assenza d’effetti psicotropi, benché questo settore conti 15 mila occupati in tutta Italia, benché le aziende agricole confidassero nell’assoluta liceità dei loro investimenti. Invece sì alla reclusione per le mamme con figli neonati, cancellando una norma di civiltà giuridica ospitata perfino dal codice Rocco, il codice fascista. No alla “propaganda gender” nelle scuole, in virtù d’una risoluzione approvata in commissione Cultura della Camera. Sì all’inasprimento delle pene per resistenza alle forze di polizia, oltre che per una lenzuolata d’altri reati. E ovviamente l’invenzione di nuovi delitti, come quello che prevede 7 anni di prigione per i detenuti che rifiutano d’eseguire - in modo non violento - un ordine delle guardie carcerarie. Anche se protestano per rappresentare al direttore una condizione di disagio, un bisogno, una lesione dei propri diritti. Nel frattempo le carceri italiane esplodono, con 10 mila detenuti in più dei posti letto, e un’altalena di suicidi che s’impenna giorno dopo giorno. Ma per chi ci governa non è questa l’emergenza, proprio no. Del resto il nuovo esecutivo debuttò, nel 2022, vietando per decreto i rave, che radunano giovani da tutta l’Europa. E ha proseguito prendendo di mira gli immigrati, con il decreto Cutro e varie altre misure. Fra queste, una stretta sui minori stranieri non accompagnati, comprimendone diritti e garanzie. O il divieto - in sé paradossale - di vendere un cellulare ai cittadini extra Ue privi del permesso di soggiorno. Senza dire della faccia cattiva verso i giornalisti, con la minaccia di multe salatissime (e naturalmente la galera) per la diffamazione a mezzo stampa. O dell’intolleranza verso ogni manifestazione di dissenso, d’opposizione al verbo conclamato. C’è insomma in circolo un vento autoritario, che sta spazzando via le nostre libertà. Riconoscerne il pericolo, denunziarlo, contrastarlo, non è una battaglia di partito, quale che sia il partito. È un obbligo costituzionale. Giacché persiste un nucleo antico nella Carta del 1947. Quest’ultima v’aggiunse i diritti sociali - sanità, istruzione, lavoro, previdenza. Ma l’ossatura era stata scolpita già un secolo prima, nello Statuto Albertino del 1848, con le sue garanzie liberali contro il morbo dell’autoritarismo. Che a sua volta rappresenta una caricatura dell’autorità costituita, un’applicazione perversa e parossistica dell’esigenza di proteggere la sicurezza collettiva. Non a caso quel termine, con tutta la sua carica polemica, si diffuse in Europa durante la metà dell’Ottocento, subito dopo il ‘48 e i suoi entusiasmi presto disillusi. Adesso ci risiamo. Il Ddl Sicurezza è autoritario e liberticida: una legge che puzza di fascismo di Luigi de Magistris* Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2024 La Camera dei Deputati ha approvato a maggioranza il disegno di legge 1660 del governo delle destre sulla sicurezza pubblica. Ora il provvedimento passa al Senato per la scontata approvazione. Si tratta di legge che trasuda l’identità del governo Meloni e della sua maggioranza. Un provvedimento autoritario, liberticida, classista, a tutela dei colletti bianchi e dei padroni e dell’ordine costituito, impregnato di radici fasciste. Ancor più inaccettabile e incostituzionale se pensiamo che, contestualmente, stesso governo e stessa maggioranza costruiscono normativamente la progressiva impunità del potere e della classe dominante di cui si fanno garanti e portavoce. Basti pensare alla cancellazione dell’abuso d’ufficio, il potere impunito nei suoi abusi di potere. Gli orrori giuridici della nuova legge sono tanti che possiamo solo limitarci ad elencarli sommariamente. Viene punita con una pena fino a 8 anni la rivolta passiva nelle carceri, la resistenza non violenta di fronte alle condizioni in alcuni casi disumane di taluni istituti penitenziari. Così come viene punita fino a sei anni la resistenza passiva degli immigrati nelle strutture di trattamento ed accoglienza dei migranti: che già non dovrebbero essere custoditi nei centri di detenzione amministrativa come se fossero incarcerati. Devono stare rinchiusi senza aver commesso un crimine e stare zitti e buoni nemmeno potendo fare sciopero della fame e della sete. Viene previsto il carcere per blocchi stradali, ferroviari, marittimi e picchetti davanti alle fabbriche in modo da criminalizzare il dissenso e reprimere le forme di protesta, anche pacifiche, contro il sistema: dai cambiamenti climatici alle indegne condizioni di sicurezza in alcuni luoghi di lavoro, dalla guerra alla lotta alla mafia e alla corruzione. Pena fino a sette anni per chi, in condizioni di necessità, occupa una casa senza titolo, magari abbandonata, anche senza usare violenza. Anche chi non lascia una casa dopo una causa di sfratto. Si aumentano in maniera considerevole le pene per danneggiamento in caso di manifestazioni. Si prevedono casi di Daspo, con divieto di partecipare a manifestazioni di natura pure politica e sindacale, nei confronti anche di chi è stato solamente denunciato e che non ha nessuna condanna. Si punisce l’accattonaggio per strada sino a sei anni di carcere: le sbarre per il povero che disturba la quiete delle persone. Poi una evidente disuguaglianza di postura penale per gli atti di violenza commessi ai danni o da appartenenti alle forze di polizia. Si aumentano a dismisura le pene per i casi di resistenza nei confronti del personale di polizia, mentre si rafforzano attenuanti e casi di esclusione della pena quando l’abuso proviene da chi appartiene alle forze dell’ordine. Le pene sono ancora ulteriormente aumentate se i fatti di resistenza avvengono nel corso di manifestazioni per la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture strategiche: l’obiettivo è incarcerare per lungo tempo chi partecipa a lotte tipo no tav e no ponte. Si prevede il carcere, come regola, per le donne incinte e con neonati, invece che gli arresti domiciliari o altre misure alternative. Si introducono norme tese ad equiparare come concorso nei reati di terrorismo anche la detenzione di materiale di propaganda, quindi anche solo scritti, testi, parole, pur se custoditi in casa. Per finire, solo per ragioni di spazio, al divieto di possedere cellulari da parte degli immigrati privi di permesso di soggiorno. La colpa d’autore che introdussero il nazismo e il fascismo è il filo nero conduttore di una legge che puzza di fascismo e di bramosia di olio di ricino. Con il contorno politicamente nauseante che si definiscono anche garantisti: questi sono solo per l’impunità per il potere, ma butterebbero le chiavi delle carceri per criminali di necessità, immigrati, rom, dissenzienti, contestatori, gandhiani, palestinesi (nel Novecento gli ebrei), giovani, normali cittadini che protestano che li fanno passare per sovversivi e socialmente pericolosi. Per mettere ancora di più contro gli uni contro gli altri, pezzi di Stato che debbono ubbidire e il dissenso sociale tanto da spingerlo sempre di più verso l’estremismo. La notte è lunga, la guerra permanente e la crisi del liberismo lasciano ipotizzare tempi bui. A chi non si piega all’abuso dei poteri non resta che l’uso di tutte le norme previste dalla Costituzione e così abbatteremo il sistema che diviene giorno dopo giorno sempre più un mostro. *Giurista e politico, già sindaco di Napoli Calvario di un sindaco: “Era solo un teorema, mi hanno distrutto” di Annalisa Costanzo Il Dubbio, 3 ottobre 2024 Sebastiano Giorgi, ex primo cittadino di San Luca, dal carcere per mafia all’assoluzione dopo 11 anni. In un’aula di tribunale, il silenzio viene interrotto da poche righe di una sentenza che, sebbene favorevole, lasciano una scia di amarezza e dolore. “Non è giusta quella formula. Sono innocente e quel reato non sussiste”. Un’assoluzione che non restituisce a Sebastiano Giorgi la serenità perduta. Le parole che dopo dieci anni di calvario sigillano la vicenda giudiziaria dell’ex sindaco di San Luca sono fredde: “Non è più previsto dalla legge come reato”. Dieci anni di vita sospesa, di dignità calpestata, di sofferenza er un uomo che si è dichiarato innocente sin dal primo giorno. La sua colpa? Essere stato sindaco dal 2008 al 2013 di San Luca, un paese immerso nella bellezza dell’Aspromonte e da sempre segnato da una storia complessa e tormentata, dove la ‘ndrangheta, con le sue faide sanguinose, ha gettato un’ombra lunga sull’intera comunità. “Ero il sindaco del periodo dopo la strage di Duisburg. Tutte le attenzioni degli inquirenti, magistratura e media erano concentrate su di noi - spiega Giorgi. Io volevo solo riscattare la mia comunità, portare un vento di cambiamento in un territorio trafitto da aspetti negativi”. Giorgi oggi è un uomo segnato da un’esperienza che lo ha profondamente cambiato. Un calvario, il suo, iniziato nel dicembre 2013 con l’arresto nell’ambito dell’operazione “Inganno” della Dda di Reggio. Un’inchiesta che portò alla detenzione di diverse persone sospettate di legami con la ‘ndrangheta, tra le quali Giorgi e il consigliere comunale Francesco Murdaca. “Un solo capo d’accusa mi veniva contestato, l’associazione mafiosa con persone che non conoscevo”. Le accuse erano gravissime: aver agevolato le cosche negli appalti pubblici e negli affari del Comune. “Mi contestavano degli appalti per interesse della mafia, ma appena eletto avevo firmato con la Prefettura una convenzione affinché alla stazione unica appaltante andassero i lavori da 80mila euro e non solo quelli superiori a 150mila. Se avessi voluto favorire gli interessi della mafia, avrei agito in quel modo?”. I primi giorni in prigione furono un’esperienza “devastante, vissuta in condizioni disumane”, dice. “In carcere fino al 22 dicembre non avevo nulla, nemmeno uno spazzolino. Sono stati i detenuti a darmi uno spazzolino nuovo, regalarmi qualche ricambio e da loro ho avuto il primo piatto di pasta caldo”, racconta Giorgi, con la voce intrisa di dolore. “Sono stato trattato come un criminale, preso all’alba, portato in carcere. Potevano indagare su di me, ne avevano tutto il diritto, ma non avrebbero dovuto sbattermi in carcere da innocente”, ripete come un mantra, sperando che quelle parole possano alleviare l’amarezza. Fin da subito la battaglia legale portata avanti dall’avvocato Rosario Scarfò è concentrata sul tentativo di dimostrare la totale estraneità di Giorgi alla ‘ndrangheta. “Pensavo fosse facile, perché ero innocente, e invece…”. Il percorso si è dimostrato lungo e tortuoso. “Avevo un solo capo d’accusa: l’associazione mafiosa, credevo che spiegando tutto al giudice, dimostrando la mia innocenza, spiegando nel dettaglio la faccenda degli appalti, mi avrebbero fatto tornare a casa, invece mi hanno riportato in carcere”, ricorda amaramente Giorgi. Da quello di Roma a quello di Frosinone. A febbraio 2014, su richiesta del suo avvocato, Giorgi è stato sentito per la prima volta dal gip che aveva firmato l’ordinanza di custodia cautelare per un nuovo interrogatorio. “Giorgi era stato interrogato per rogatoria e - spiega Scarfò - in sede di indagini difensive erano emersi nuovi atti non valutati dal gip”. Nonostante i tentativi di ottenere una revisione della misura cautelare, Giorgi è rimasto dietro le sbarre. Una luce si era intravista con il Tribunale della Libertà, che aveva riqualificato l’imputazione provvisoria: la partecipazione all’associazione mafiosa, il reato contestato a Giorgi, si è trasformato in concorso esterno. Ma solo nel luglio del 2014, dopo sette mesi di detenzione, Giorgi è stato finalmente liberato. Da uomo libero ha affrontato il processo. “Scegliamo la definizione del processo allo stato degli atti non per lo sconto di un terzo di pena ma - spiega Scarfò - perché eravamo sicuri che già gli atti dimostrassero la totale estraneità di Giorgi. E soprattutto, con l’abbreviato avremmo messo in tempi ristretti la parola fine all’incubo che stava vivendo Sebastiano”. Nel gennaio del 2015 la sentenza di primo grado: il gup di Reggio Calabria condannò Giorgi a sei anni di reclusione e Francesco Murdaca, il suo consigliere comunale, a cinque anni. La difesa fece ricorso in appello e nel 2016 arrivò la sentenza: Giorgi venne condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, Murdaca a 1 anno e 10 giorni con pena sospesa. “Qui avvenne un’anomalia”, dice Giorgi. La Corte d’Appello, infatti, nella sentenza introdusse un nuovo elemento: il reato di abuso d’ufficio aggravato dal concorso esterno in associazione mafiosa. “Un reato che non era mai stato contestato, di cui non c’è traccia nell’ordinanza o nelle carte”. La Cassazione, a novembre del 2017, ha annullato la sentenza rimandando il caso in Corte d’Appello per un nuovo esame. Gli ermellini, nelle motivazioni, evidenziarono gravi lacune motivazionali, in particolare, per giustificare la diversa qualificazione giuridica attribuita ai fatti contestati. Per i giudici, “la Corte avrebbe omesso di specificare le norme la cui violazione viene addebitata ai due imputati, di precisare il ruolo dagli stessi effettivamente ricoperto nell’assegnazione e gestione degli apparati oggetto di contestazione, di individuare l’azione o l’omissione attraverso cui il pubblico ufficiale ha realizzato la condotta di abuso”. Le settimane, intanto, si trasformano in anni, cambiano i governi e anche le normative. “Abbiamo fatto più volte richiesta di fissazione dell’udienza. Avevamo fretta, perché eravamo certi dell’innocenza di Giorgi - precisa l’avvocato - e per concludere il tutto. Non volevo rischiare che intervenisse la prescrizione, perché volevo l’assoluzione piena, come merita un innocente”. Ma ha dovuto attendere sette lunghi “ed estenuanti” anni per un nuovo processo. Il 17 settembre la sentenza con contestuale deposito delle motivazioni: data l’entrata in vigore ad agosto 2024 della legge Nordio che ha abolito l’abuso di ufficio, “non resta che prendere atto dell’intervenuta abolitio criminis e pronunciare, in riforma della sentenza impugnata, l’assoluzione degli imputati perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Ma Giorgi non riesce a trovare pace. “Avrebbero dovuto assolvermi con la formula più giusta e corretta: perché il fatto non sussiste afferma con rabbia. Sono stato arrestato e massacrato solo per fare strada a qualche carriera. Ma le carriere non si fanno sulle spalle degli innocenti e di una comunità, quella di San Luca, da sempre svenduta per fare crescere una falsa lotta alla ‘ ndrangheta. Non hanno distrutto una carriera, hanno distrutto la vita e la serenità di persone per bene”. Perché la vita dopo il carcere “non è stata facile. Per due anni - spiega - non sono riuscito a trovare lavoro”. In dieci anni, Giorgi ha avuto la vicinanza della famiglia, degli amici e del suo avvocato. “In Rosario Scarfò - dice Giorgi con la voce rotta dalla commozione - ho trovato conforto. Veniva in carcere e mi ascoltava per ore, ogni settimana mi chiamava solo per chiedermi come stavo. Ha fatto tanto per me, si è speso con tutto se stesso”. Oggi la vicenda giudiziaria di Giorgi è un caso emblematico. Quello di un uomo innocente, l’ennesimo, che dall’oggi al domani è costretto a ricostruire la propria intera esistenza dopo esser stato sputato fuori dall’abisso di una ingiusta detenzione. Friuli Venezia Giulia. La salute in carcere va garantita: per lo Snami la Regione è inadempiente rainews.it, 3 ottobre 2024 Il Garante dei diritti della persona Sbriglia: “Situazione deficitaria e disuguale in tutto il Paese. La questione è in testa alle mie priorità”. Confortante prendere atto delle intenzioni di un rinnovato e più forte impegno della Regione sulle cose che si devono fare - afferma il neo insediato garante regionale dei diritti della persona Enrico Sbriglia all’indomani della visita in carcere a Udine dell’assessore regionale alla salute Riccardo Riccardi che ha assicurato tutti gli sforzi possibili per garantire la prevenzione e la salute dei detenuti. Sbriglia pone la sanità penitenziaria in cima alle sue priorità e annuncia di voler incontrare i direttori e gli operatori penitenziari, oltre che i responsabili dei servizi sanitari nelle carceri e i sindacati della sanità e del mondo penitenziario per fare il punto nave e trovare soluzioni alle tante criticità. A cominciare dal fatto che il diritto alla salute nelle carceri dovrebbe essere garantito in maniera uguale ma in regione come nel resto d’Italia non lo è affatto, rileva Sbriglia. Realtà confermata anche dal delegato nazionale per il Fvg del sindacato della Polizia penitenziaria Massimo Russo che segnala ad esempio un medico convenzionato h24 solo nel carcere di Tolmezzo e medici a singhiozzo e mai di notte più qualche professionista al bisogno negli altri penitenziari. Si deve uscire dal carcere per le visite specialistiche e spesso chiamare l’ambulanza anche solo per un mal di testa mentre la nuova psicologa appena arrivata a Udine era attesa da anni osserva ancora Russo. Criticità legate alla carenza di medici - aveva ribadito proprio da Udine Riccardi. Al suo appello ai professionisti a fare un ulteriore sforzo per rendersi disponibili a offrire il loro servizio per una causa di elevato valore sociale risponde intanto il presidente regionale del sindacato autonomo dei medici Snami Stefano Vignando: manca ancora -sostiene - un accordo collettivo per un servizio di assistenza sanitaria penitenziaria che non appare garantito come prevede la normativa vigente declinata da una delibera regionale di ben otto anni fa di fronte alla quale Regione e aziende sanitarie - per Vignando - risultano dunque inadempienti. Risale a otto anni fa, la delibera 820 della allora giunta regionale che prevede l’istituzione del servizio di sanità penitenziaria da parte dell’azienda sanitaria sul cui territorio è presente un carcere. Dispone che l’attività sanitaria venga garantita h 24 all’interno del penitenziario dai medici di medicina generale, convenzionati e infermieri. A supporto poi gli specialisti e altri professionisti come gli psicologi. Una delibera rimasta sulla carta -rileva il presidente regionale del sindacato autonomo dei medici Snami Stefano Vignando secondo il quale pare non ci sia un servizio di assistenza penitenziaria organico nonostante sia previsto dalla legge, da quando è passato di competenza dal Ministero di Giustizia a quello della Salute e poi alle Regioni e aziende sanitarie. Per Vignando Regione e aziende sanitarie sono dunque inadempienti. A prevederlo è anche l’accordo collettivo nazionale dei medici di famiglia del 2022 pure rimasto disatteso rileva il referente Snami per il quale se oggi le aziende sanitarie faticano a trovare medici disponibili per le carceri è anche a causa della mancanza di accordi sindacali collettivi. I pochi disponibili ci vanno a singhiozzo sono sotto stress e sottopagati - osserva ancora Vignando. Il diritto alla salute deve essere garantito in maniera uguale in ogni Istituto penitenziario ma da ormai quasi un ventennio in regione come nel resto d’Italia non lo è affatto - afferma intanto da Trieste il neo insediato garante regionale dei diritti della persona Enrico Sbriglia, confermando uno stato di cose deficitario che non risponde alle aspettative. Per Sbriglia una situazione che è conseguenza di scelte nazionali del passato. Il garante assicura che la questione è in testa alle sue priorità. Annuncia di voler incontrare i direttori e gli operatori penitenziari, che sono -dice- altre “vittime” collaterali, oltre che i responsabili dei servizi sanitari nelle carceri e i sindacati della sanità e del mondo penitenziario per fare il punto nave e trovare soluzioni possibili. Quanto alla visita dell’assessore alla salute Riccardi ieri al carcere di Udine confortante per il garante prendere atto delle intenzioni di un rinnovato e più forte impegno della Regione in materia sanitaria. Roma. “A Casal del Marmo spirale verso il basso. Giusto protestare pacificamente” lacapitale.it, 3 ottobre 2024 I Garanti di Roma e Lazio, Calderone e Anastasìa denunciano il fallimento delle scelte legislative del governo e le condizioni nel carcere minorile romano. È “una picchiata libera verso il basso” se si analizzano le condizioni e “quello che troviamo lì dentro e a quello che lì dentro succede”. Lo spiega Valentina Calderone, garante dei detenuti di Roma dal 2023, parlando dell’istituto penitenziario minorile di Casal del Marmo, nella presentazione del dossier di Antigone sugli Istituti penitenziari per minorenni (Ipm). “Il carcere è sempre un ottimo modo di guardare le dinamiche della società - ricorda Calderone. E provando ad allargare lo sguardo rispetto sui tanti minori stranieri non accompagnati oggi all’interno dei nostri penitenziari, noi possiamo sicuramente dire che i cambiamenti che ci sono stati in questi anni rispetto alle leggi sulle migrazioni, alle possibilità di avere dei documenti, alle possibilità di essere regolari sul nostro territorio è un tema importante”. Il modo in cui l’accoglienza per i minori è stata impoverita nel corso degli ultimi anni conduce all’idea secondo la garante “che di questi ragazzi, non c’è intenzione di occuparcene, non sappiamo che fare, non riusciamo a trattenerli nel sistema di protezione che dovrebbe esserci quando un minore straniero entra in Italia”. A Casal del Marmo su 60 ragazzi e ragazze, capita che una decina sia dentro per spaccio di lieve entità. Questa è una delle eredità del decreto Caivano. Numerose sono state le proteste nell’istituto penitenziario minorile romano, quasi una al mese nell’ultimo anno. La storia del ragazzo di 16 anni a Casal del Marmo: “Disperato per sua madre” - Dopo le ultime proteste, lo scorso settembre, Valentina Calderone è andata in visita al minorile romano, imbattendosi in una storia emblematica: “C’era un ragazzino di 16 anni, dal Magreb, ed erano 3 giorni che cercava di suicidarsi (tanto che aveva una sorveglianza psichiatrica). Era senza papà e aveva saputo che la madre nel suo paese di origine non aveva di che sostentarsi: il fratello maggiorenne, che era in Italia, era stato rimpatriato nel suo paese e lì era richiuso in carcere”. Il giovane 16enne era disperato: la sua preoccupazione era proprio di non sapere chi si sarebbe occupato adesso della madre. Ma per quale motivo era detenuto? “Sono andata a chiedere il motivo - racconta Calderone - 20 euro in tasca 0,6g di hashish e 0,4g di marijuana: un grammo e 20 euro in tasca. Questo è il motivo, perché un ragazzino di 16 anni sta in questo momento in un carcere minorile, nel nostro Paese”. A Casal del Marmo “si è innescata una spirale micidiale”. Per mancanza di personale nei mesi scorsi spesso i giovani non venivano portati a scuola perché lì non c’era persone di sorveglianza, e rimangono all’interno delle stanze: “Diventano così nervosi, cresce l’aggressività, scoppiano risse tra loro e problemi con il personale - continua la garante Calderone - . Seguono divieti d’incontro e provvedimenti disciplinari”. Per i divieti d’incontro, se ad esempio dieci ragazzi frequentano un laboratorio, alcuni di loro non si possono incontrare, ci sono attività che non vengono fatte per niente o vengono fatte per uno o due persone: “Un continuo crescere di rabbia, frustrazione e aggressività interna, in una spirale che nessuno ora sta riuscendo a disinnescare”. Cosa che forse dovrebbe essere la prima cosa da fare è “capire come garantire delle attività che siano sensate, non consentire che questi ragazzi siano costantemente in balia delle disponibilità o meno dei turni della polizia penitenziaria”. Se gli istituti minorili diventano un luogo del contenimento e nient’altro “non possiamo puntare il dito, non possiamo dire “sono più rabbiosi sono più violenti” e - precisa la garante capitolina dei detenuti - non pensare alle responsabilità di chi dovrebbe occuparsene”. Ora, a Casal del Marmo, ci sono in tutto 60 ragazzi “ma siamo entrati ad inizio agosto ed erano come ora 60, a fine agosto erano 70. È possibile - conclude Calderone- che la forbice delle presenze si ampli anche nel giro di 20 giorni in maniera totalmente incontrollata”. Il Garante dei detenuti del Lazio, Anastasìa: “In carcere si ha quel che si dà” - Insieme a Valentina Calderone ad agosto a Casal del Marmo è andato in visita Stefano Anastasìa, il garante dei detenuti della Regine Lazio. Le proteste, tra piccole e grandi, negli istituti penali italiani per minori sono una o due alla settimana: l’estate è passata così: “Bisogna dire che di fronte all’assenza di prospettive, di offerte educative, di fiducia perché quello che noi vediamo nelle carceri è che nelle relazioni interpersonali si ha quello che si dà, se quel che si dà è la cella chiusa, quello che si ha in cambio è il casino” Concorda con Calderone, Stefano Anastasìa sull’impoverimento della rete di accoglienza e non cita solamente “decreto Caivano” (contro il disagio giovanile, povertà educativa, criminalità minorile) e ddl Sicurezza (“una enorme macchina di propaganda che ha costruito una conflittualità sociale che va repressa ovunque essa si manifesti”), ma anche il decreto Cutro (che ha ristretto le ipotesi di divieto di espulsione e di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale): “In quell’incremento dei minori stranieri non accompagnati nelle carceri minorili, c’è lo smantellamento della rete di accoglienza. La conseguenza la vediamo negli istituti”. Nella narrazione dominante del governo, secondo Anastasìa “c’è una rappresentazione di una guerra tra guardie e ladri, in cui i ladri sono inevitabilmente ladri e non possono far altro che i ladri senza prospettive reali di educazione”. Nel report di Antigone sugli Ipm, “c’è l’esito di un’idea della devianza come un fatto ontologico di persone che sono segnate da questa macchia e che devono essere rimesse in riga con ordine disciplina - spiega Anastasìa -, questo è quello che si dice da due anni e i risultati sono quelli che vediamo da due anni. Continuo ad accumulare autodenunce ma l’ho detto e lo ridico: i detenuti fanno bene a protestare in maniera non violenta”. Il Garante dei detenuti regionale è convinto infine che questa situazione non può essere gestita così: “Alla fine, gli scoppierà in mano. Gli istituti penali per minori e per adulti non si possono riempire l’infinito. Il governo e le amministrazioni dovranno prima o poi prendere coscienza che così non possono andare avanti”. Reggio Emilia. Torture in carcere, il pm: “Altri agenti collaborarono, processate anche loro” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 3 ottobre 2024 Agli attuali dieci imputati nel presunto caso di tortura a un detenuto del carcere della Pulce potrebbero aggiungersene altri. Per alcune posizioni stralciate a seguito di un ricorso al Riesame, ora la Procura sarebbe intenzionata a chiedere il rinvio a giudizio. Il caso riguarda la condotta tenuta dagli agenti della Polizia penitenziaria verso un detenuto tunisino 44enne, fatti avvenuti il 3 aprile 2023 e per i quali si contestano i reati di tortura, lesioni e falso. Il Riesame di Bologna ha depositato le motivazioni che stanno dietro al rigetto della misura cautelare in carcere chiesta dal pm Maria Rita Pantani per cinque di loro, impugnando la decisione del gip Luca Ramponi. Diversi gli aspetti analizzati dai giudici bolognesi, che riconoscono però la possibile sussistenza del concorso morale. Si analizza innanzitutto la gravità indiziaria per le accuse di tortura e lesioni: “Non sono in discussione né la ricostruzione dei fatti sotto il profilo oggettivo, né la loro valutazione come riconducibili alle fattispecie delittuose contestate come operate dal gip nell’ordinanza impugnata”. Il pm Maria Rita Pantani aveva sollevato la questione del contributo da loro fornito ai fatti e alla sua configurabilità come concorso quantomeno morale per tortura e lesioni. Per tre di loro, un viceispettore e due sovrintendenti, “emerge come ognuno, pur essendo stato inquadrato per sette minuti, poco prima del momento in cui il detenuto viene incappucciato e fino a quando viene messo nel reparto di isolamento, sia rimasto passivo a osservare”. Un agente “è filmato mentre aveva sollevato di peso il detenuto incappucciato e nudo dalla cintola in giù insieme ad altri sei colleghi e lo aveva condotto in isolamento”. Un assistente capo “viene inquadrato mentre apre il cancello del corridoio che conduce al reparto isolamento per far passare il detenuto... e con un piede blocca presumibilmente quello del detenuto sdraiato a terra e poi tira fuori dalla cella un altro collega agente che aveva percosso il tunisino”. Secondo il Riesame, per il viceispettore e i due sovrintendenti, il loro grado superiore e il loro mancato intervento, “sono circostanze tali da avere rafforzato nei coindagati quel senso di sicurezza già ingenerato dalla natura di gruppo dell’azione criminosa, indicato dalla giurisprudenza quale elemento la cui determinazione nei correi integra il concorso morale”. Viene ritenuto infondato l’appello del pm sulle esigenze cautelari in carcere: “Va escluso l’inquinamento probatorio alla luce della prova indiziaria data dalle telecamere”, mentre sul rischio di reiterazione “è lo stesso pm a dire che questi indagati hanno assunto un ruolo di minor rilievo rispetto a quelli già raggiunti da misure di natura obbligatoria o interdittiva, ritenute già sufficienti dal gip e non impugnate dalla Procura sotto quest’aspetto, non avendo preso parte sul piano materiale a quelle condotte di particolare violenza”. Pordenone. Papa Francesco scrive ai detenuti: “Figli amati da Dio illuminati da Cristo” di Loris Del Frate Il Gazzettino, 3 ottobre 2024 Il messaggio è arrivato da Santa Marta, la residenza del pontefice ed era indirizzato ai “cari fratelli della casa circondariale”. “Figli amati da Dio, chiamati a vivere questo particolare momento della vita illuminati dalla vicinanza di Cristo e consolati dalla fraternità e dell’amicizia. Liberatevi dalle catene del male”. È uno dei passaggi della lettera che papa Francesco ha inviato ai detenuti del carcere di Pordenone. Il messaggio è arrivato da Santa Marta, la residenza del pontefice ed era indirizzato ai “cari fratelli della casa circondariale”. Papa Francesco ha così accolto la richiesta di Sandro Sandrin editore pordenonese che da diciotto anni consecutivi organizza l’evento “Ascoltare, Leggere, Crescere”, un festival con targa decisamente religiosa che arriva dopo Pordenonelegge. E il messaggio di papa Francesco non poteva mancare visto che ieri tra le mura del carcere don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria di Milano ha dialogato con don Piergiorgio Rigolo, cappellano della casa circondariale di Pordenone. Indicativo il titolo del libro sul quale hanno colloquiato: “Non vi guardo perché rischio di fidarmi”. Un appuntamento che il pontefice, sempre molto attento al sociale e agli appuntamenti rivolti a chi soffre, non solo ha seguito, ma ha “benedetto” approfittando per un messaggio accorato ai detenuti rinchiusi tra le anguste mura del Castello. “Con piacere - scrive papa Francesco - ho accolto la richiesta di inviarvi un mio messaggio. Ringrazio gli organizzatori dell’evento “Ascoltare, Leggere, Crescere” per l’attenzione che hanno manifestato verso di voi. Il tempo che vi vede privi della libertà può essere colmato dalla speranza di un futuro migliore che quotidianamente dovete costruire”. Parole scritte con il cuore, come il resto della lettera. “Pertanto - ha aggiunto il pontefice - ispirati dal titolo dell’incontro che celebrate, superate lo sconforto con la fiducia, disponendovi ad ascoltare la voce dello Spirito Santo sicuri che pure il cuore di chi ha sbagliato sa farsi conquistare dall’amore che salva. Imparate a “leggere” con umiltà la vostra storia esistenziale, riconoscendo le ferite personali e quelle provocate agli altri: è la forza misericordiosa di Dio che può sanarle. Perdonate per accogliere la gioia di essere perdonati. Incoraggiati da chi vi vuole bene potrete così “crescere” e fortificarvi per ricominciare a camminare da uomini liberi e non con le catene del male”. Nella sua lettera ha ricostruito i passaggi salienti con le parole del titolo dell’evento pordenonese. Il Papa ha inviato la sua benedizione oltre che ai detenuti, anche agli organizzatori e a quanti operano nella casa circondariale. La lettera l’hanno voluta tutti i detenuti nelle loro celle. Milano. I ragazzi degli oratori nel carcere minorile. Per prepararsi al Giubileo di Lorenzo Rosoli Avvenire, 3 ottobre 2024 Dal carcere minorile “Beccaria” di Milano alle basiliche di Roma. Per “vivere insieme un percorso di conversione”. Nella compagnia del beato Carlo Acutis. Perché “tutto cambia quando incontri veramente Gesù e ti lasci trasformare da lui”. Ecco - nelle parole di don Stefano Guidi, responsabile del Servizio per l’Oratorio e lo Sport - il percorso verso e dentro l’Anno Santo 2025 che l’arcidiocesi di Milano propone al “popolo” degli oratori. Percorso che si apre nel segno della festa. E chiama i ragazzi a vivere “l’anno del Giubileo” come “pellegrini di speranza”, scrive l’arcivescovo Mario Delpini nel messaggio per la “Festa di apertura” celebrata domenica 29 settembre in ogni oratorio. Visitare i carcerati. Che c’entra il “Beccaria” con tutto questo? Fra le opere di misericordia corporale che la tradizione cattolica attinge dal Vangelo, c’è la visita ai carcerati. Ebbene: “I ragazzi dei nostri oratori sono invitati dall’arcivescovo a visitare, assieme a lui, dal novembre prossimo, luoghi connessi alla pratica delle sette opere di misericordia corporale per diventare “pellegrini di speranza”, come suggerisce il tema del Giubileo del 2025 - spiega don Guidi -. Luoghi come il Beccaria e altri, in fase di definizione”. Così si rinnova e rilancia l’iniziativa intitolata “L’arcivescovo ti invita”, svoltasi per la prima volta nello scorso anno pastorale 2023-2024, e che aveva toccato luoghi simbolo di Milano come il Memoriale della Shoah e il Giardino dei Giusti. Pellegrini con Carlo. Altra proposta da segnare in agenda: “I pellegrinaggi giubilari a Roma, a fine aprile per gli adolescenti e tra fine luglio e inizio agosto per i giovani”, riprende don Guidi. Inoltre: “In vista della canonizzazione di Carlo Acutis - la cui data non è ancora nota - gli oratori sono invitati a celebrare il giovane beato milanese nel giorno della sua memoria liturgica, sabato 12 ottobre, o il giorno prima - quando il vicario generale, il vescovo ausiliare Franco Agnesi, presiederà una Messa a Milano in Santa Maria Segreta, la parrocchia di Carlo. Il 12 ottobre, poi, prenderà il via una “staffetta di preghiera” con la reliquia di Carlo che toccherà i nostri oratori”. Così “Tutto cambia”. Queste iniziative sono inserite nell’itinerario del nuovo anno oratoriano 2024-2025 dedicato al tema “Tutto cambia” e proiettato verso l’Anno Santo. “L’arcivescovo ci invita a cogliere il messaggio spirituale e quello morale del Giubileo - ricorda il direttore della Fondazione oratori milanesi -. Sul piano spirituale: si tratta di riconoscere nei simboli e nei gesti del Giubileo - il passaggio della porta, la celebrazione della penitenza, il pellegrinaggio - le vie per incontrare Gesù e lasciarci convertire da lui. Sul piano morale, si tratta di portare questa conversione in ogni dimensione della vita e della realtà assumendo in prima persona criteri come la giustizia, la fraternità, il perdono, l’impegno per la pace - che l’arcivescovo non perde occasione di sottolineare, assieme all’invito a vivere durante il Giubileo un “tempo sabbatico” per rimettere al centro la preghiera e la qualità delle relazioni. Anche in oratorio”. Con la proposta pastorale “Tutto cambia” la diocesi mira a portare queste dimensioni nella vita dei ragazzi “perché diventino sempre più consapevoli della speranza evangelica loro affidata. L’oratorio non è la tana dove trovare rifugio da un mondo che cambia e spaventa, ma è la comunità nella quale i ragazzi sono introdotti alle grandi responsabilità della vita praticando le piccole responsabilità di tutti i giorni, per imparare ad essere operatori di pace, custodi del creato, solidali con chi è nel bisogno, secondo quella pedagogia del “gesto minimo” cara al nostro arcivescovo”. Ritorno all’oratorio. La proposta diocesana si colloca “dentro uno scenario di emergenza educativa - riprende don Guidi - che vede crescere l’alleanza fra agenzie educative, a partire dall’oratorio. Dalla propensione all’isolamento al senso di inadeguatezza verso la realtà, il tempo di pandemia sta manifestando nei nostri ragazzi tutti i suoi effetti. Questa generazione di adolescenti appare meno trasgressiva e aggressiva rispetto al passato, pur se a volte incapace di gestire quegli elementi di violenza insiti nella nostra umanità. Nel contempo appaiono più desiderosi di trovare luoghi ed esperienze che li aiutino tirare fuori il meglio di sé. Da due o tre anni assistiamo così a un ritorno degli adolescenti ai nostri oratori, come dicono le adesioni all’oratorio estivo o alle attività delle società sportive. In tutta la Lombardia l’oratorio estivo 2024 ha coinvolto 50mila animatori, tutti adolescenti, e almeno 300mila partecipanti fra la prima elementare e la terza media - annota don Guidi, che è anche coordinatore Odielle (Oratori diocesi lombarde) -. In oratorio i ragazzi trovano risposta al bisogno di esperienze significative e ricche di senso, e di luoghi dove sperimentare le proprie qualità migliori dentro un ambito di comunità, di informalità, di collaborazione concreta, di contesto non giudicante. E di amicizia vera”. Franca Leosini: “La banalità del bene annoia. L’uomo è naturalmente violento” di Michela Tamburrino La Stampa, 3 ottobre 2024 La conduttrice cult di “Storie maledette”: “Non sono sedotta dai delitti. Parlarne è giusto, ma non si deve mai presentarli come gesti eroici”. Con il male lei ha una lunga consuetudine. Oltretutto di successo. Non si parlasse di Franca Leosini suonerebbe sinistro. Eppure la signora dabbene non si è mai risolta a fare della sua vita una sequela di tè con le amiche, anzi, forte dei suoi brillanti studi giuridici, nel male si è tuffata senza remore, ha scavato a mani nude nei meandri di anime attraversate dall’orrore, il male lo ha stretto tra le mani ogni qualvolta ci si è trovata faccia a faccia: ha studiato la vita di assassini conclamati, ha guardato negli occhi l’improvvisa negatività e l’ha raccontata. La sua “Storie maledette” è una trasmissione cult che vanta molti tentativi di imitazione andati a male. Qui invece si tratta di un male da telespettatore appassionato. Monsters, serie televisiva siglata Netflix, crea ascolti record e polemiche. Rispolvera la vecchia storia vera di due fratelli, Lyle ed Erik Menendez che hanno ucciso i genitori e che per questo sono ancora in regime carcerario. Leosini, il male affascina molto e l’interesse che scatenano queste fiction lo dimostra. Lei che ne dice? “Innanzitutto chi dice che io ne sia rimasta affascinata sostiene il falso. Certamente sul pubblico il male con le sue punte di atrocità, desta interesse. Il bene è banale, si dà per scontato proprio perché fortunatamente è usuale. Al tempo stesso il male è molto più diffuso di quanto non si possa immaginare o di quanto non si sappia”. Lei non sarà assuefatta al male dopo averne maneggiato così tanto? “Assuefatta mai. Certo l’ho toccato da vicino. Sessantatré storie maledette per sessantatré tragedie. Bisogna stare bene attenti quando si parla di male e di malvagità. Non è detto che chi commette un gesto estremo sia una persona negativa nella sua vita. Nessuno di noi è esente dalla possibilità di cadere nel precipizio”. Per questo lei non ha mai voluto trattare di serial killer, preferendo coloro che, per un accidente della vita, da persone tranquille che erano d’improvviso di sono trasformate in feroci assassini? “Certo, il serial killer risponde a logiche diverse che non mi interessano. Io entravo nell’anima della persona, normale fino al momento di non ritorno. Che potrei essere io, che potrebbe essere lei”. Il male è anche la guerra, la violenza, la sopraffazione. “È molto presente nella nostra realtà, questo purtroppo è un periodo drammatico”. Ma veramente lei non è mai rimasta affascinata da una delle persone che ha intervistato? “Mai. Non mi lascio sedurre. Ho dominato la negatività con grande consapevolezza. Me ne sono avvicinata con strumenti adatti. I casi che ho affrontato li ho studiati fin nelle pieghe più riposte. Quando incontravo queste persone sapevo di loro tutto il possibile, avevo studiato le carte. In questo modo il male perde ogni sua attrattiva. Ammesso ne abbia”. È difficile riconoscerlo? “Molto difficile, tanto da circolare indisturbato tra le persone”. In alcuni casi questi protagonisti ricevevano centinaia di lettere dalle ammiratrici che si dicevano pronte a sposarli e ad amarli. È persino accaduto che qualcuna ci sia riuscita... “La gente è attratta da ciò che ritiene speciale, non usuale. La banalità del bene è sempre stata meno fascinosa. Il male incuriosisce in quanto nascosto, attira perché più raro e difficilmente esibito, non è abitudinario. Chi scrive a queste persone vuole entrare in una storia da romanzo, farne parte, uscire dalla routine con qualcosa di eclatante. Il male ha tante sfaccettature. Il male peggiore è volere il male degli altri”. Volendone dare una definizione? “Tutto quello che suscita violenza è male, le tensioni che danneggiano il singolo e la società è male. Poi ci sono le valutazioni soggettive. Io posso ritenere male quello che per taluni è normalità”. I social hanno delle responsabilità? “I social hanno grandi responsabilità ogni qualvolta diffondono con superficialità notizie non verificate, colpevoli di farsi suggeritori di violenza”. Quanto pesa il dato emulativo? “Molto ma non occuparsi di un fatto di cronaca è impossibile. Come si fa a non commentare una tragedia? Il quesito non è stato mai risolto. La cronaca ha i suoi doveri e i suoi diritti. L’importante è non presentare mai questi fatti come gesti eroici perché appunto sono maledetti. E mai pensare di poterlo estirpare, il male, ha radici troppo profonde ed è parte dell’uomo”. Esiste il male perché esiste il bene? “Il bene ha senso in modo assoluto non è l’interfaccia del male”. Migranti. Il Governo ridisegna i flussi e ostacola chi salva in mare di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 3 ottobre 2024 Via al Decreto flussi: modifiche sul rilascio di visti e richieste di asilo, 10mila badanti in più, lotta allo sfruttamento dei braccianti. E altre indicazioni per gli aerei delle Ong. L’intento è quello “di semplificare il più possibile, di abbattere i tempi e di dare delle regole certe, aggirabili con maggiore difficoltà”. Così, nella sala stampa di Palazzo Chigi, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano sintetizza gli obiettivi che il governo intende raggiungere attraverso il nuovo decreto legge in materia di flussi di lavoratori stranieri, caporalato, identificazione dei migranti e attività di salvataggio delle organizzazioni non governative. “La filosofia di questo provvedimento - aggiunge il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, “è quella di favorire l’immigrazione regolare e di contrastare quella irregolare”. Ieri mattina dunque, dopo le limature dei giorni scorsi, e dopo un’ora e mezza di confronto, il testo è stato approvato dal Consiglio dei ministri. È il frutto del “lavoro congiunto fra i vari ministeri interessati”, tiene a precisare il sottosegretario Mantovano, in risposta ai retroscena di alcuni quotidiani che hanno tratteggiato un quadro di contrasti nell’esecutivo: “Dopo i titoli sullo scontro tra i ministri Nordio e Piantedosi, a cui io non ho assistito pur partecipando dall’inizio alla fine” allo scorso Cdm, argomenta Mantovano, “per evitare di vedere titoli “scontro bis” per la loro assenza qui in conferenza stampa, sottolineo che il ministro Nordio è a Londra per colloqui con il suo omologo britannico e il ministro Piantedosi ha partecipato a parte del Consiglio dei ministri, collegato dal G7 dei ministri dell’Interno”. Ricostruzioni e punzecchiature a parte, nel provvedimento (che, come tutti i decreti legge, entrerà in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale ed entro 60 giorni dovrà essere convertito in legge dalle Camere, pena la decadenza) è composto da 18 articoli e dà l’impressione di un provvedimento “bifronte”: se da un lato contiene norme per migliorare il funzionamento dei flussi e tutelare i braccianti sfruttati, dall’altro vara l’ennesimo giro di vite sull’attività delle Ong in mare e sui ricorsi dei richiedenti asilo. Ecco le misure nel dettaglio. Più click day, ma “niente sanatoria” - Il decreto non modifica le quote di ingressi autorizzate nel triennio (452mila) e non ci sarà alcuna “sanatoria” per i lavoratori stranieri sommersi già presenti in Italia, assicura il sottosegretario. Ma si innovano le procedure per richiedere manodopera straniera. “È difficile passare da un’automobile scassata a una Maserati, occorrono passaggi intermedi - ragiona Mantovano -. Il nostro obiettivo è abolire i click day, ma ci arriveremo attraverso una transizione, con più click days per tipologie. E anche la programmazione regionale, anziché nazionale, sarà un passo successivo”. Per ora, viene incrementato l’uso delle tecnologie per i procedimenti amministrativi, con parametri biometrici per l’identificazione, la sottoscrizione elettronica e la trasmissione telematica dei documenti (superando l’obbligo per il datore di lavoro e il neo-assunto di presentarsi allo Sportello unico per la sottoscrizione del contratto). Ogni imprenditore avrà un tetto di domande in proporzione all’azienda (3, se le presenta da solo). E, per evitare chiamate fantasma e truffe legate ai click day, se non sottoscrive i contratti, potrà essere sanzionato. Per sveltire le procedure, si prorogano i 1.120 contratti dei lavoratori interinali del Viminale e verranno assunti 500 assistenti amministrativi. Paracadute per stagionali con contratto scaduto e più visti per badanti - Due novità riguardano i punti all’origine del confronto fra ministri nel precedente Cdm. Il lavoratore straniero che resta senza contratto (perché l’impiego è terminato o per altre cause) non deve più rientrare in patria e poi tornare, ma può restare in Italia con “un tempo cuscinetto di 60 giorni senza la necessità di un nuovo permesso per trovare un altro lavoro”. Alla fine dell’impiego stagionale, se avrà ancora impieghi, il lavoratore potrà convertire il titolo di soggiorno in un permesso al di fuori del decreto flussi. Sono previsti click day separati, a seconda della tipologia di lavoratori. E per il 2025 sono previsti 10mila permessi extra quote per l’assistenza sociosanitaria e familiare, a causa della forte richiesta nel Paese. Permessi per le vittime dei caporali - La ministra del Lavoro, Marina Calderone, ha annunciato uno “speciale permesso di soggiorno della durata iniziale di 6 mesi, rinnovabile per un ulteriore anno e prorogabile ulteriormente” per le vittime di caporalato che denunciano, in “collegamento con ciò che è stato già fatto contro questi reati”. Un altro giro di vite sulle Ong - Con modifiche al decreto Lamorgese del 2020 (già ritoccato dal dl Ong del 2023) si irrigidiscono le sanzioni in materia di soccorso navale ai migranti, da un lato ridefinendo “i requisiti che le operazioni di salvataggio devono rispettare ai fini della loro liceità” affinché “non pongano a repentaglio l’incolumità dei migranti”. Si modifica poi “il regime impugnatorio del fermo del natante” (è di questi mesi il contenzioso legale fra alcune Ong e l’esecutivo, che così forse spera di rendere più arduo il compito dei legali degli enti umanitari) e si abbreviano i termini per il ricorso al prefetto, che comunque ha facoltà di sospendere il fermo. Ancora, si sancisce l’obbligo per gli aerei delle Ong che avvistano migranti in difficoltà (Sea Watch ne ha due in volo) “di informare immediatamente di ogni situazione di emergenza l’Enac e il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo”. Se il pilota non si attiene alle disposizioni, l’Enac può comminare sanzioni pecuniarie (fino a 10mila euro) e anche il fermo del velivolo, come per le navi. La stretta su migranti e asilo - Entro metà ottobre, annuncia Mantovano, dovrebbe entrare in funzione il primo dei due centri per migranti in Albania. Intanto, il decreto consente agli agenti di Ps la “visione del telefono cellulare” o di altri dispostivi elettronici dei migranti che non esibiscono documenti validi._I poliziotti non avranno comunque “accesso alla corrispondenza e a qualsiasi altra forma di comunicazione” e il controllo del cellulare avverrà davanti a “un mediatore culturale”, con un verbale e il vaglio successivo, entro 48 ore, di un magistrato. Ancora, per i richiedenti asilo, si dimezza (da 14 a 7 giorni) il tempo per fare ricorso contro il rigetto della domanda. E si prevede il trattenimento del richiedente se non identificabile o se “non presta idonea garanzia finanziaria” (proseguendo nel solco giuridico in parte già bocciato da diversi tribunali italiani, da Catania, a Firenze e Palermo). I dubbi di opposizioni ed enti - Le opposizioni criticano l’approccio del governo: “Invece di cambiare la legge Bossi-Fini, si criminalizzano le Ong”, incalza il dem Pierfrancesco Majorino. “Il decreto è solo acqua fresca”, gli fa eco Riccardo Magi di + Europa. Per la Cisl il dl “deve rispondere alle richieste del mondo del lavoro”, per la Uil “va bene, ma non basta”, mentre la Cgil stigmatizza “il carattere restrittivo e punitivo delle politiche del governo, dal decreto Cutro a oggi”. E per la Campagna “Ero straniero” “si tratta di palliativi, che lasciano in piedi un sistema che continuerà a creare irregolarità”. Migranti. Nel decreto flussi stretta sulle ong e più respingimenti di Marina Della Croce Il Manifesto, 3 ottobre 2024 Potranno essere accompagnati alla frontiera anche i migranti salvati in mare. La stretta su migranti e ong è confermata e comprende, tra le altre cose, l’introduzione di una nuova ipotesi di respingimento per quanti vengono salvati in mare, regole più stringenti per navi e aerei umanitari e la possibilità di ispezionare i cellulari dei richiedenti asilo per arrivare alla loro identificazione. Ma anche un allargamento dei casi in cui è previsto il ritiro della domanda di protezione internazionale. Per quanto riguarda invece i lavoratori stranieri che entrano in Italia, oltre a maggiori controlli sui datori di lavoro è stata introdotta la possibilità per un lavoratore stagionale a cui è scaduto il contratto di non essere espulso immediatamente, come avviene oggi, ma di avere un permesso temporaneo della durata di 60 giorni per cercare un nuovo impiego. E garantiti 10 mila ingressi in più per colf e badanti rispetto a quanto previsto dalle quote del decreto flussi. Dopo lo slittamento della scorsa settimana il consiglio dei ministri ha approvato ieri il decreto flussi. Il decreto è l’occasione per un nuovo giro di vite nei confronti delle navi umanitarie e di quanti arrivano in Italia. Sulle prime si interviene con una modifica al decreto Lamorgese del 2020 poi modificato di nuovo nel 2023 per conferire, è scritto, “maggior rigore alla disciplina del soccorso in mare”. La formula prescelta prevede che le navi umanitarie nello svolgere opera di soccorso, “non pongano a repentaglio l’incolumità dei migranti” non più solo a bordo, come previsto fino a oggi. Formula strettamente generica, che potrebbe comprendere anche il solo avvicinarsi da parte della ong a un’imbarcazione in difficoltà. Vengono inoltre ridotti - da 60 a 10 giorni - i tempi in cui è possibile fare ricorso al fermo amministrativo della nave umanitaria. Nuove e più stringenti norme, anche se altrettanto generiche, sono state inserite anche per gli aerei delle ong che pattugliano il Mediterraneo. Il decreto inserisce infatti l’obbligo per il pilota che avvista un’imbarcazione in difficoltà di avvisare l’ente dei servizi di traffico aereo e il centro di coordinamento dei soccorsi competenti e di attenersi alle istruzioni che ricevono. Pratica che gli aerei già svolgono oggi. Misure più severe anche per quanto riguarda i respingimenti. Il decreto ne introduce una nuova ipotesi con accompagnamento alla frontiera deciso dal questore anche dei cittadini stranieri rintracciati in seguito a operazioni di ricerca e soccorso mare, e non più soltanto per chi viene fermato nel momento in cui entra nel territorio nazionale. Previsto l’obbligo di fornire le impronte digitali per chi chiede un visto nazionale (finora sono richieste solo per i visti Schengen) e ampliate le ipotesi in cui la domanda di protezione internazionale può considerarsi ritirata implicitamente, senza un’esplicita rinuncia da parte del cittadino straniero. Infine sarà possibile il ritiro della protezione speciale per lo straniero per il quale esistono fondati motivi di pericolosità per lo Stato. Stagionali. “Non si tratta di una sanatoria”, ha detto Mantovano spiegando che l’obiettivo del decreto “è di abolire i click day, ma poiché oggi è impossibile, ci arriveremo attraverso una transizione con più con più click day per tipologie”. Oltre a un permesso temporaneo delle durata di due mesi (il ministero del Lavoro ne aveva chiesti 9, ma ha prevalso la linea dura della Lega) previsto per dare modo agli stagionali con contratto scaduto di trovare un nuovo impiego, è stato inserito un permesso di soggiorno della durata di sei mesi rinnovabile per le vittime di sfruttamento e di caporalato del caporalato che collaborazione con la giustizia. Infine viene aggiunto uno stock di circa 10 mila permessi “al di fuori del meccanismo delle quote per lavoratori da impiegare nel settore dell’assistenza sociosanitaria e familiare” da reclutare attraverso le Agenzie per il lavoro. Migranti. Il trauma del “presunto scafista”, quando la salvezza finisce dietro le sbarre di Stefania Pagliazzo* Il Manifesto, 3 ottobre 2024 Maysoon, Marjan, Samir e gli altri “capitani” Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione avvengono sempre allo stesso modo. Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali. Si sa che attraversare il mare su un gommone fatiscente o un’imbarcazione di fortuna è cosa assai pericolosa. E lo sanno tutte le persone che ogni giorno lo solcano rischiando la vita per mano di trafficanti senza scrupoli. Quello che non sanno è un altro modo in cui quel mare che li separa dalla salvezza può essere estremamente pericoloso. C’è un rischio che non può essere contemplato da chi parte: essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, “presunto scafista”. Abbiamo conosciuto le storie di Maysoon e Marjan, le due attiviste iraniane sbarcate e arrestate in Calabria che, invece di ottenere la sicurezza e la protezione che meritavano, hanno ricevuto la grave accusa di essere delle trafficanti di esseri umani. Non abbiamo conosciuto le storie di centinaia di altri uomini e donne incarcerate con procedimenti in corso o con condanne definitive con la stessa accusa e lo stesso copione. Per ogni arrivo qualcuno deve essere accusato di aver favorito illegalmente l’ingresso di disperati e disperate, come lui o lei, sulle coste italiane. Chi frequenta gli sbarchi sa che le modalità di identificazione dei “capitani” avvengono sempre allo stesso modo. Procedure veloci e standardizzate effettuate dalle forze dell’ordine, con poco ausilio di adeguata mediazione linguistica e nessuna presenza di figure legali, prevedono che gli stessi compagni di viaggio divengano “testimoni accusatori” di chi avrebbe in qualche modo aiutato a compiere la traversata, complice dei veri trafficanti, il designato “presunto scafista”. Samir, giovane ragazzo egiziano arrestato pochi mesi fa, ha manifestato inizialmente un quadro clinico stabile, sembrava avere retto a più di due mesi di detenzione in Libia e alle torture subite; sulle sue gambe e sulla sua schiena ne porta i segni. Esiti da colpi di bastone e bruciature marchiano la sua pelle. Poco alla volta, giorno dopo giorno, mentre Samir prendeva coscienza della sua grave posizione giuridica, ha iniziato a manifestare sintomi dissociativi e dispercezioni, sente delle voci nella testa e vede di fronte a sé figure minacciose che lo vogliono uccidere. Samir ha cominciato a vivere nel terrore. Una veloce e inesorabile regressione clinica, il suo corpo e la sua postura si modificano, non riesce più a deambulare da solo e soprattutto non riesce a spiegarsi perché si trova in carcere, pensa a un maleficio. Samir non contiene più gli sfinteri e verbalizza di sentire vergogna nei confronti di alcuni compagni di cella che lo scherniscono. Il quadro clinico non rientra, a oggi peggiora. Molte delle persone ascoltate in carcere accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina inizialmente sembrano avere una buona tenuta fisica e psicologica. Ciò che mantiene integre le funzioni psicologiche è l’esperienza sana di avercela fatta, di essere sopravvissuti, di sentirsi in sicurezza, e la speranza di portare a termine il proprio progetto migratorio: contribuire a sostenere economicamente la famiglia e la comunità di origine. Quando si ritrovano in carcere con accuse che sentono false, sperimentano il vissuto di essere costrette a interrompere definitivamente le loro aspettative di vita. Le loro condizioni psicofisiche peggiorano drasticamente: l’arresto, la detenzione ingiusta, le lunghe pene, vengono vissute come ritraumatizzanti o come traumatizzazione secondaria e comportano l’insorgenza a scoppio ritardato di un Ptsd (disturbo post traumatico da stress) che sino ad allora era sotto controllo o addirittura non ancora insorto. L’esperienza della reclusione è una delle più penose che l’essere umano possa sperimentare. Una tra le più traumatiche a livello psicologico e fisico che si possano subire, a maggior ragione quando non ci si sente responsabili dei reati di cui si è accusati. La storia di Samir rimane reclusa dentro quattro mura insieme a quella di altre centinaia di persone che attualmente vivono la sua situazione. Li dovevamo solo proteggere per loro diritto. E invece sono stati torturati anche in Italia. *Psicologa e psicoterapeuta penitenziaria, membro del Consiglio direttivo di Mediterranea Saving Humans L’Occidente usa il doppio standard con Russia e Israele. Ma il diritto internazionale non può essere selettivo di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2024 Nell’attuale panorama geopolitico, il concetto di “doppio standard” sembra essersi consolidato nella gestione dei conflitti internazionali, con conseguenze profonde sul rispetto del diritto internazionale e della sovranità degli Stati. Un esempio eclatante è rappresentato dal confronto tra la reazione dell’Occidente all’invasione russa dell’Ucraina e quella all’invasione israeliana del Libano e dei territori palestinesi. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la comunità internazionale, specialmente l’Occidente, ha reagito con forza, condannando l’azione come una violazione della sovranità ucraina e rispondendo con pesanti sanzioni economiche contro Mosca, oltre che con un massiccio invio di armamenti a sostegno di Kiev. L’invasione russa è stata riconosciuta unanimemente per ciò che è: un’aggressione a uno Stato sovrano. Con l’invasione del Libano da parte di Israele, invece, la narrazione dominante è cambiata. L’invasione militare è raccontata come “incursione”, “operazione di comando” o “ingresso temporaneo”. Le reazioni internazionali sono meno severe: l’Occidente continua a mantenere rapporti commerciali con Israele e persino a fornirgli armi, nonostante le azioni militari comportino gravi crimini di guerra e contro l’umanità, come documentato da numerose organizzazioni internazionali. Questo trattamento differenziato solleva interrogativi fondamentali sul rispetto del diritto internazionale. Il principio della tutela della sovranità territoriale non dovrebbe forse valere per tutti gli Stati, senza eccezioni? Il Libano, riconosciuto come Stato sovrano a livello internazionale, merita lo stesso livello di protezione che l’Occidente riserva all’Ucraina. Allo stesso modo, le norme del diritto umanitario internazionale, che vietano esplicitamente gli attacchi contro la popolazione civile, dovrebbero essere applicate con pari rigore sia nei confronti della Russia che di Israele. I bombardamenti israeliani indiscriminati hanno causato migliaia di morti, incluse donne e bambini, e reso Gaza, e ora il Libano, teatri di distruzione. Tali atti sono stati condannati come crimini di guerra dalle Nazioni Unite, tuttavia, la risposta internazionale è rimasta debole, alimentando la percezione che Israele possa agire al di sopra del diritto internazionale, protetto dalla sua alleanza con Stati potenti. Il nostro Paese, come membro della comunità internazionale e dell’Unione Europea, ha il dovere di agire. Non sono sufficienti appelli generici alla pace: servono misure concrete. È fondamentale sospendere la vendita di armi a Israele, come strumento per esercitare pressione affinché cessi le operazioni che violano i diritti umani. Inoltre, l’Italia dovrebbe applicare sanzioni contro il governo di Netanyahu, che ha perseguito una politica sempre più aggressiva, e spingere per la sospensione dell’accordo di associazione tra l’Unione Europea e Israele. Solo attraverso azioni decise e coerenti con i principi del diritto internazionale potremo sperare di frenare la spirale di violenza che sta travolgendo il Medio Oriente. Se queste misure fossero state adottate in tempo, probabilmente non ci troveremmo di fronte alla catastrofe attuale. Il diritto internazionale non può essere selettivo: la sua applicazione universale è l’unico modo per garantire una pace duratura e una giustizia equa per tutte le popolazioni coinvolte. *Avvocata e deputata Intervista a Wafa Mustafa: “Siriani svenduti, anche l’Italia aiuta il tiranno Assad” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 3 ottobre 2024 “Ristabilire i legami diplomatici con un dittatore che uccide, tortura e terrorizza il suo popolo è un tradimento della lotta della Siria per la libertà. L’Europa parla di diritti umani ma pensa solo ai propri interessi: è il retaggio coloniale”, dice l’attivista e giornalista siriana, che sabato sarà ospite del festival di Internazionale. Wafa Mustafa è una giornalista e attivista siriana che si occupa dell’impatto della detenzione su ragazze, donne e famiglie. Attività che in certe parti del mondo, come il mattatoio siriano, può costare la libertà e la vita. Dopo la sparizione forzata di suo padre da parte del regime di Damasco, Wafa Mustafa ha esercitato numerose pressioni sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché venissero resi noti i nomi e i luoghi di tutti i prigionieri delle autorità siriane. Wafa Mustafa sarà ospite di Internazionale a Ferrara - il festival di giornalismo organizzato dall’omonima rivista e giunto alla sua XVIII edizione, in programma nella città estense da venerdì 4 a domenica 6 ottobre - nella giornata di sabato 5 ottobre (ore 14, Cinema Apollo) quando prenderà parte all’incontro Giustizia per raccontare la lotta del territorio siriano alla repressione da parte del regime di Assad in seguito alla rivoluzione del 2011. Ricorda, in un dettagliato report, Amnesty International: “Il governo siriano ha continuato a sottoporre decine di migliaia di persone, inclusi giornalisti, difensori dei diritti umani, avvocati e attivisti politici, a sparizione forzata, molti anche da più di 10 anni. Secondo la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, le autorità del governo siriano hanno continuato a torturare e altrimenti maltrattare i detenuti attraverso varie tecniche come “scosse elettriche, bruciature di parti del corpo e l’essere infilati dentro a uno pneumatico d’auto (dulab) e sospesi da terra per uno o entrambi gli arti per periodi prolungati (shabeh), pratica cui spesso si accompagnavano dure percosse inflitte con vari strumenti, come bastoni e cavi”. Wafa Musafa aiuta tutti noi a non dimenticare. E a non essere complici, silenziandola, di una delle più immani atrocità che marchiano a sangue la storia del Medio Oriente. Siria martoriata. Siria dimenticata. Un Paese in macerie, un popolo stremato. Cosa è oggi la Siria? La Siria oggi è una terra schiacciata sotto il peso di una dittatura brutale che ha messo a tacere il suo popolo con bombe, armi chimiche e prigioni progettate per la tortura. Ma è anche un simbolo dell’ipocrisia e del tradimento dell’Occidente. Non è solo un Paese in macerie, è una nazione abbandonata alla dittatura e alla devastazione mentre il mondo guarda dall’altra parte. Il regime di Assad continua il suo regno di terrore, ma chi gli ha dato il potere? Chi ha permesso che ciò accadesse? I governi occidentali che sostengono di essere a favore dei diritti umani e della democrazia sono stati i primi a lavarsi le mani della Siria, lasciando che il suo popolo venisse massacrato. Non si tratta solo della distruzione della Siria, ma dei sistemi di potere globali che permettono ai dittatori di prosperare mentre schiacciano le rivolte popolari. La Siria è la storia di interessi coloniali travestiti da diplomazia, un campo di battaglia dove le potenze occidentali giocano a fare politica con le nostre vite, sostenendo di essere spettatori. La perdita di memoria non riguarda solo i media. La comunità internazionale non è da meno. La Lega Araba ha riabbracciato il “macellaio di Damasco”, Bashar al-Assad. L’Italia sta riaprendo la sua ambasciata... Questa perdita di memoria non è accidentale, ma deliberata. I governi occidentali, insieme ai loro alleati arabi, si stanno cinicamente riavvicinando ad Assad perché ciò fa comodo ai loro interessi geopolitici. Non lasciamoci ingannare: la nomina di un nuovo ambasciatore da parte dell’Italia non è una questione di diplomazia, ma di convenienza politica. La Lega Araba e i Paesi come l’Italia stanno dando manforte a un dittatore che ha usato armi chimiche sul suo stesso popolo, ha torturato a morte decine di migliaia di persone e ha bombardato intere città fino a sottometterle. È uno schiaffo alle famiglie delle persone scomparse e uccise. Questi governi non stanno solo dimenticando: stanno scegliendo di premiare un criminale di guerra. È un rafforzamento dell’autoritarismo, che dimostra come i leader arabi si preoccupino più di sostenere i loro compagni tiranni che di proteggere il loro popolo. L’Europa e l’Occidente sono complici anche di questo. I loro appelli alla “stabilità” sono un sostegno poco velato a regimi brutali che mantengono lo status quo, proteggono gli interessi corporativi e controllano la migrazione ad ogni costo. La cosiddetta comunità internazionale ha svenduto i siriani per convenienza politica, permettendo all’impunità di Assad di prosperare. Una delle pagine più tragiche di una tragedia senza fine è rappresentata dalle decine di migliaia di persone torturate e fatte sparire nelle prigioni del regime... Gli scomparsi sono la ferita aperta della Siria. Ogni famiglia siriana ha provato il terrore di sentir bussare alla porta nel cuore della notte, di veder scomparire un proprio caro nelle camere di tortura di Assad, per non fare più ritorno. Queste sparizioni e questi campi di tortura sono gli strumenti stessi di un regime che è stato sostenuto dall’indifferenza e dalla complicità internazionale. Le prigioni di Assad sono uno strumento coloniale moderno, dove i corpi vengono spezzati e le voci messe a tacere per mantenere il controllo. L’Occidente finge di preoccuparsi dei diritti umani, ma perché ora stringe la mano allo stesso regime che un tempo condannava? È semplice: queste vite non sono importanti per loro. Per l’Europa e l’Occidente, i siriani, come tanti altri popoli colonizzati in precedenza, sono sacrificabili, semplici collaterali in un gioco di potere globale. Non si tratta solo delle persone scomparse, ma di un ordine mondiale che permette ai tiranni di operare nella più completa impunità, finché serve ai loro interessi. Il mio stesso padre è scomparso per mano del regime e l’agonia di non conoscere la sua sorte è insopportabile. Questa è una tattica deliberata del regime: spezzarci, riempirci di paura. Il mondo parla di riconciliazione, ma come può esserci pace quando centinaia di migliaia di siriani stanno ancora marcendo nelle prigioni, sottoposti a torture che sfidano la comprensione? Questa non è solo una pagina tragica: è il cuore del governo di Assad: il potere viene mantenuto attraverso il terrore, la crudeltà e la scomparsa. Alcuni hanno definito il lungo e sanguinoso conflitto in Siria come una guerra per procura. Lei, che l’ha vissuta e raccontata in prima persona, come la definirebbe? Non è facile per me etichettare la situazione in Siria con un solo termine. Chiamarla “guerra per procura” mi sembra troppo semplicistico, troppo comodo, un termine creato per ridurre una realtà profondamente complessa e brutale a qualcosa di tecnico. È vero che potenze straniere come l’Iran, la Russia e gli Stati Uniti hanno fatto i loro giochi sanguinosi in Siria, ma in fondo si tratta di una guerra di sopravvivenza contro un dittatore che non si fermerà davanti a nulla per mantenere la sua presa sul potere. Questa guerra ha molti strati. È una rivoluzione schiacciata sotto il peso di una brutale repressione, una lotta per la libertà e la dignità che si scontra con una violenza inimmaginabile. È una guerra che è stata dirottata e manipolata da interessi globali, sì, ma nel suo cuore rimane una lotta di liberazione del popolo. Il problema di definirla solo una “guerra per procura” è che priva i siriani della loro capacità di agire, trasformandoli in pedine di un gioco geopolitico. I siriani non sono solo vittime di interferenze esterne; sono vittime della tirannia di Assad e di un ordine mondiale che privilegia il potere sulle vite umane. È più di una cosa: è una tragedia dalle mille sfaccettature, guidata dalla brutalità di un dittatore e sostenuta dalla complicità globale. Il Medio Oriente è in fiamme. Gaza, Libano. E la gente continua a morire anche in Siria. La pace è un’illusione? La pace rimarrà un’illusione finché l’Occidente continuerà a sfruttare il Medio Oriente come terreno di gioco per le sue ambizioni coloniali, a usare dittatori e criminali di guerra per controllare le nostre stesse vite ed esistenze e finché le voci degli oppressi saranno messe a tacere in favore della “stabilità”. Gaza, Libano e Siria non dovevano essere divisi. L’Accordo Sykes-Picot ha spartito la regione per interessi coloniali, gettando i semi per i conflitti di oggi. Queste guerre sono l’eredità dell’imperialismo occidentale, che continua a destabilizzare e sfruttare il Medio Oriente. L’Europa e gli Stati Uniti sostengono i regimi, alimentano le guerre e vendono armi predicando la pace. Siamo chiari: l’Occidente non vuole la pace, vuole il controllo. La pace richiede liberazione e giustizia, e queste richiedono lo smantellamento delle strutture di potere che tengono oppresse le persone, dal colonialismo dei coloni israeliani alla dittatura di Assad. L’Occidente è complice della violenza, finanziando regimi che massacrano le persone e mantenendo il proprio dominio economico e militare. Finché le potenze coloniali continueranno a intromettersi, la pace rimarrà fuori portata. Cosa chiederebbe oggi all’Europa? E all’Italia? L’Italia e l’UE devono smettere di legittimare il brutale regime di Assad. Ristabilire i legami diplomatici con un dittatore responsabile di torture di massa, uccisioni e dello sfollamento di milioni di persone è un tradimento della lotta della Siria per la libertà. La decisione dell’Italia di inviare un ambasciatore in Siria non è solo politica, ma è la continuazione della mentalità coloniale dell’Europa, che privilegia gli interessi geopolitici rispetto alle vite umane. Si preoccupano di più di proteggere i propri confini piuttosto che salvare vite umane, di proteggere le proprie ricchezze piuttosto che difendere la giustizia. Invece di favorire la riabilitazione di Assad, l’Italia e l’UE dovrebbero concentrarsi sulla protezione dei rifugiati siriani e sulla responsabilità del regime per i suoi crimini di guerra. L’Europa deve smantellare il suo retaggio coloniale, che ancora plasma la sua politica estera, e stare dalla parte del popolo siriano, non degli oppressori. Egitto. Fine della condanna, ma Alaa Abdel Fattah resta in carcere di Francesco De Lellis Il Manifesto, 3 ottobre 2024 “La custodia cautelare non conta”: le autorità egiziane violano la loro stessa legge e aumentano la pena dell’attivista di due anni. La madre Laila Soueif inizia lo sciopero della fame, le sorelle si rivolgono a Londra. Alaa Abdel Fattah resterà in carcere. Pur avendo concluso i cinque anni di condanna che scontava dal 29 settembre del 2019, domenica scorsa allo scadere della pena non è stato rilasciato. Sentori di questo esito si erano avuti già nei giorni precedenti dal suo avvocato, Khaled Ali, il quale ha spiegato che - contrariamente a quanto previsto dalla legge egiziana - i due anni di custodia cautelare in attesa di processo non sarebbero stati considerati nel computo, facendo così slittare al gennaio 2027 il compimento dei cinque anni (considerati a partire dal momento del verdetto finale). È “una grave ingiustizia, persino più grave della terribile ingiustizia di averlo incarcerato”, ha detto la madre di Alaa, Laila Soueif, matematica e attivista. “Ancora una volta, le autorità egiziane hanno violato le loro stesse leggi per perseguitare mio figlio. A questo punto lo considero un sequestro, oltre che una detenzione illegittima”. Alaa ha scontato una condanna per “adesione a gruppo terroristico” e “diffusione di notizie false che minacciano la sicurezza dello stato”. Ma tutto il processo si basa su un semplice post sui social riguardante la morte per tortura di un detenuto. La sua, come per altri prigionieri politici, rischia di diventare una condanna con “fine pena mai”. Non è inusuale che allo scadere dei termini di una sentenza le autorità giudiziarie tirino fuori dal cappello un nuovo procedimento, prolungando così arbitrariamente la detenzione. Alaa Abdel Fattah, programmatore, blogger e attivista, è una delle icone della rivolta di massa che nel 2011 ha rovesciato Mubarak e del movimento rivoluzionario egiziano. E per questo ha passato la maggior parte degli ultimi tredici anni (l’età di suo figlio Khaled) in carcere. Arrestato già nel 2011 e poi nel 2014, Alaa era stato (si fa per dire) rilasciato nel 2019 con una sorta di libertà vigilata che gli imponeva di trascorrere 12 ore al giorno - dalle 18 alle 6 del mattino - in una stazione di polizia. Nel settembre di quell’anno però, in concomitanza con un’inedita ondata di proteste, è stato nuovamente incarcerato, con un nuovo processo a carico. “Sono in carcere perché chi è al potere vuole fare di noi un esempio. E allora cerchiamo di essere un esempio, ma alle nostre condizioni”, scriveva Alaa nel 2017. Prima con la scrittura, le lettere, il contrabbando di libri in carcere, poi con il suo stesso corpo, Alaa ha dimostrato di non poter essere schiacciato. Nel 2022 ha iniziato uno sciopero della fame durato sette mesi, che si è intensificato il 6 novembre di quell’anno quando proprio in Egitto, a Sharm el-Sheikh, si inaugurava la Cop27 sul clima, catalizzando l’attenzione del vertice sulla situazione dei diritti umani nel paese. Allora, a un passo dalla morte, Alaa è stato soccorso dai suoi compagni di cella e poi, privo di coscienza, alimentato in modo coatto. La famiglia ne chiede l’immediato rilascio, anche in ragione della sua cittadinanza britannica, ed elenca tutta una serie di misure che il governo inglese potrebbe immediatamente mettere in campo per fare pressioni sull’Egitto, ad esempio condizionando il finanziamento da 400 milioni di dollari che il Cairo riceverà dal Regno unito, o aggiornando i consigli di viaggio per i turisti. Nonostante i buoni rapporti tra i due Paesi, finora non è mai stato concesso alle autorità consolari britanniche di visitare Alaa in carcere. Ieri le sue sorelle, Mona e Sanaa Seif (attiviste passate dalle carceri egiziane) avrebbero dovuto essere ricevute dal laburista David Lammy, attuale segretario agli esteri, che nei suoi anni all’opposizione si è speso molto per il caso di Alaa, ma da quando è al governo sembra aver relegato in secondo piano la questione. Al momento in cui scriviamo non si hanno notizie dell’esito dell’incontro. “L’incolumità e il rispetto dei suoi diritti sono una responsabilità congiunta di entrambi gli Stati”, ha scritto la madre. 59 organizzazioni egiziane e internazionali hanno firmato a settembre un appello per la sua liberazione. E ora Laila Soueif, 68 anni, ha annunciato di aver intrapreso uno sciopero della fame a oltranza, fino alla liberazione di Alaa, per “denunciare il crimine commesso contro di lui e la complicità del governo britannico”.