Carcere, dal Vaticano un appello all’amnistia. E i politici tacciono di Valter Vecellio Il Dubbio, 31 ottobre 2024 La cosa era nota, ora diventa ufficiale. Papa Francesco, il prossimo 26 dicembre aprirà la Porta Santa a Rebibbia. Il giorno dopo l’avvio ufficiale del Giubileo, nel giorno di Santo Stefano, sarà nel carcere romano per aprire anche in quel luogo la Porta santa. Lo ha annunciato monsignor Rino Fisichella che coglie l’occasione per rilanciare un appello ai governanti per forme di “amnistia”; monsignor Fisichella inoltre fa sapere che l’11 settembre scorso è stata firmata una intesa con il ministro di Giustizia Carlo Nordio e il commissario governativo, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, per rendere effettive durante il Giubileo forme di “reinserimento in attività di impegno sociale” dei detenuti. Per quello che riguarda carcere e detenuti, dal Vaticano giunge ancora una volta il giusto e necessario segnale. Ancora una volta viene suggerito cosa fare, come fare, quando fare. Papa Bergoglio nella sua “Spes non confundit” ai governi, aveva proposto che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi. Segnale e suggerimento che sarebbe augurabile, auspicabile, che venissero raccolti dalla classe politica. Da parte laica è solo il Partito Radicale a proporre da sempre, caparbio e pervicace, la necessità, l’urgenza di un provvedimento di amnistia. Gli altri, tutti gli altri, cosa e come rispondono? Collettivamente e individualmente, cosa e come rispondono il presidente del Consiglio e i suoi ministri? Cosa rispondono presidente del Senato e della Camera? E i capigruppo di Senato e Camera e i singoli parlamentari? Elly Schlein, Giuseppe Conte, Matteo Renzi, Carlo Calenda, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli: parlano ogni giorno di tutto e non negano un parere, un’opinione, un commento su qualsivoglia argomento. Solo su questo, uniti e concordi, mantengono un rigoroso silenzio. E forse è giunto il momento che dal Quirinale, noto per il suo discreto operare e la concreta moral suasion, giunga un segnale analogo a quello che ci giunge da oltre Tevere. Sempre più giovani nelle carceri: un detenuto su otto ha meno di 25 anni di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2024 I reparti separati? Non esistono. Poco più di un anno fa, il 30 giugno 2023, i minori di 25 anni reclusi nelle carceri per adulti italiane erano 3.274. Oggi sono 5.067, quasi 1.800 in più: un detenuto su otto appartiene a questa fascia d’età. Il dato, inedito e aggiornato al 2 ottobre, è contenuto nella risposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio a un’interrogazione parlamentare di Devis Dori, avvocato e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, che lo definisce “una vera abnormità”. L’incredibile impennata, nell’ordine del 35% in appena 15 mesi, è il frutto della politica repressiva del governo e in particolare del decreto Caivano, che ha facilitato il trasferimento dei giovani adulti dagli istituti minorili a quelli ordinari. Dalla risposta del ministro, poi, emerge una circostanza altrettanto clamorosa: in quasi tutti i penitenziari del nostro Paese gli under 25 condividono gli spazi con i reclusi più anziani, nonostante la legge imponga di assicurare la separazione. A causa di questa violazione di diritti, denuncia Dori, giovani che potrebbero seguire un “proficuo percorso rieducativo” sono costretti a convivere con detenuti adulti, “alcuni anche delinquenti abituali, frustrando quel percorso”. In questo modo, il carcere rischia di trasformarsi in “scuola del crimine anziché luogo di rieducazione”, dice al fattoquotidiano.it. Nell’interrogazione, presentata il 13 settembre, il deputato di Avs chiedeva di “indicare quanti giovani adulti, cioè detenuti fra i 18 e i 25 anni d’età, si trovino attualmente negli istituti penitenziari minorili (Ipm, ndr) e quanti invece nelle strutture carcerarie per adulti”. Chi delinque da minorenne, infatti, di regola può scontare la pena in Ipm anche dopo la maggior età, fino al compimento dei 25 anni, a meno che non sussistano “particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice”. Il decreto Caivano, varato dal governo a settembre 2023 come reazione allo stupro di due bambine nel comune del Napoletano, ha declinato queste “ragioni” in modo assai estensivo, imponendo ai direttori degli Ipm di chiedere il trasferimento al magistrato di Sorveglianza se un detenuto maggiore di 21 anni, “alternativamente, compromette la sicurezza o turba l’ordine negli istituti, impedisce le attività degli altri detenuti con violenza o minaccia” o ancora “si avvale, nella vita penitenziaria, dello stato di soggezione da lui indotto negli altri detenuti”. Se invece un giovane recluso si rende responsabile “cumulativamente” di più di una di queste condotte, lo spostamento dev’essere richiesto già dopo il compimento dei 18 anni. E il magistrato può negarlo “solo per ragioni di sicurezza, anche del detenuto medesimo”. L’effetto della nuova disciplina è stato di gonfiare il numero di trasferimenti, contribuendo al boom delle presenze di under 25 nei penitenziari per adulti. Anche lì, però, a questa particolare categoria di detenuti dovrebbero essere garantiti spazi separati dai più anziani, come previsto dall’articolo 14 della legge sull’ordinamento penitenziario. Infatti, ricorda Dori nella sua interrogazione, “la convivenza dei giovani adulti con detenuti adulti è valutata negativamente dagli operatori perché compromette il loro percorso rieducativo, anche nell’ottica della riduzione della recidiva, nonostante gli sforzi educativi e formativi messi in atto”. Il parlamentare quindi chiedeva a Nordio di indicare “in quante strutture carcerarie per adulti siano presenti settori dedicati esclusivamente ai giovani adulti”. La risposta del ministro è disarmante: “Allo stato, sezioni specificamente destinate all’allocazione dei giovani adulti sono presenti presso le Case circondariali di Aosta Brissogne, Cuneo e Milano San Vittore”. Cioè tre istituti sui 190 presenti in Italia. Di fatto, riassume Dori, il ministro “ammette di non essere in grado di garantire la separazione” imposta dalla legge, con tutti i rischi che ne conseguono. L’appello quindi è obbligato: “Chiediamo a Nordio di non girare la testa dall’altra parte e di affrontare e risolvere questo problema, anziché investire il suo tempo per riformare le intercettazioni o separare le carriere dei magistrati”. Ddl Nordio in Aula il 26 novembre, il ministro: “Pronti al referendum” di Errico Novi Il Dubbio, 31 ottobre 2024 Separazione delle carriere, l’intesa sull’esame a Montecitorio certifica lo “stato di guerra” governo-toghe. Come si sia potuti passare dal discorso appassionato di Giorgia Meloni - che, all’atto di insediarsi da premier, indicò nell’indignazione per la barbarie di via D’Amelio l’innesco del proprio impegno politico - alla guerra aperta fra il governo e le toghe, non è facilissimo da spiegare. Ma così è. Sembra ormai remotissima l’epoca (anche se si tratta giusto di un anno fa) del decreto 105, con cui l’Esecutivo ha ripristinato l’applicazione delle norme antimafia sulle intercettazioni ai reati non associativi. Quel provvedimento era stato chiesto dal Procuratore nazionale Giovanni Melillo e messo a punto in sintonia con un ex magistrato che presidia uno degli snodi chiave del’intera maggioranza, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Sembra lontano distanze siderali lo scetticismo che la Meloni lasciava trapelare sulla separazione delle carriere non qualche era geologica fa, ma appena nella scorsa primavera, col guardasigilli Carlo Nordio incerto sull’opportunità di promuovere la riforma, il Parlamento nel limbo e Forza Italia a sbattersi perché invece al “divorzio” giudici-pm arrivasse davvero. Non una o due legislature addietro: parliamo di pochi mesi fa. Cosa sia successo nel frattemo, piu che difficile è lungo da riepilogare. Intanto, l’affermazione elettorale riportata alle Europee da FI, che della giustizia e delle carriere separate ha fatto la propria bandiera più sgargiante. Tra una cosa e l’altra, il caso dossieraggi che ha infangato ingiustamente il ministro della Difesa Guido Crosetto, l’indagine che ha incenerito il governatore ligure del centrodestra Giovanni Toti, il riaccendersi della polemica fra Esecutivo e giudici sui migranti (dopo l’anteprima dell’anno scorso con il caso di Iolanda Apostolico). E quindi le voci di complotti e di inchieste pronte a colpire persino la sorella della premier, Arianna Meloni, le prime scintille con l’Anm sulla separazione delle carriere. Fino alla deflagrazione, al doppio stop della magistratura sulle peraltro claudicanti - dal punto di vista tecnico-giuridico - scelte del governo sul “trattenimento” dei richiedenti asilo. Con una ciliegina sulla torta, se così vogliamo definirla: la voce dal sen fuggita del sostituto pg di Cassazine Marco Paternello, che nella mailing list dell’Associazione magistrati arriva a definire Meloni “più pericolosa di Berlusconi perché libera da inchieste giudiziarie”. Serviva altro? Meloni, è guerra ai giudici: “Fate solo volantini di propaganda” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 31 ottobre 2024 La premier contesta le sentenze sui migranti e conferma le parole di Nordio sulla separazione delle carriere: “siamo pronti al referendum”. “Le argomentazioni con cui il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di giustizia europea l’autorizzazione a disapplicare l’ennesima legge italiana da molti è stata vista come un’argomentazione più vicina a un volantino propagandistico che a un atto da tribunale”. La “tocca piano”, come si dice nel linguaggio colloquiale, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, intervistata in serata tv da Bruno Vespa. Sull’onda del successo ottenuto in Liguria, che da molti osservatori è stato visto anche come un rifiuto dell’elettorato di farsi condizionare, nelle proprie scelte, dall’inchiesta che ha condotto alle dimissioni il governatore uscente Giovanni Toti, Meloni ha rivendicato sia l’accordo con l’Albania sui centri per il rimpatrio dei migranti che il Dl sui paesi sicuri, licenziato dall’esecutivo dopo la sentenza del tribunale di Roma che ha fatto rientrare in Italia alcuni cittadini egiziani e bengalesi destinati alle strutture allestite nel paese balcanico. Ma soprattutto, ha tenuto alto il tono della polemica contro i magistrati, riferendosi stavolta in particolar modo al tribunale di Bologna e alle motivazioni con cui ha rinviato il decreto paesi sicuri alla Corte di Giustizia Ue, da una cui sentenza era scaturito il primo provvedimento del tribunale romano. “L’argomento della Germania nazista”, ha osservato la presidente del Consiglio, “è efficace sul piano della propaganda, sul piano giuridico è più debole”. “Pochi giorni fa”, ha proseguito, “il Consiglio d’Europa ha attaccato la polizia italiana, e seguendo questi ragionamenti potrei allora dire che gli immigrati non possono venire in Italia perché l’Italia non è un Paese sicuro. Se noi diciamo che l’Egitto non è un Paese sicuro, parliamo di 140 milioni di persone a cui diciamo che possono venire qui, e chi lo regge l’impatto? Allora penso che qui si stia dicendo che l’Italia non può fermare l’immigrazione illegale e deve accogliere tutti. Si vuole impedire che ci si metta un freno. Addirittura le opposizioni in Europa hanno chiesto una procedura di infrazione che non è contro l’Italia, è contro gli italiani”. Quanto all’accordo con l’Albania, per la premier “i centri funzioneranno” perché “sono la chiave di volta nella gestione dei flussi non solamente italiani, per questo l’intesa riscuote tanta attenzione da parte dell’Ue, l’Europa guarda con interesse all’intesa. Se tu migrante irregolare che paghi gli scafisti perché arrivi in Italia ma vuoi andare in Germania ti ritrovi fuori dai confini europei, questo è il più grande deterrente. E’ fondamentale per smontare questo business, farò di tutto per farlo funzionare: ho tanti nemici ma anche tanti amici, li faremo funzionare”. Poi, una rivelazione: “Mi hanno minacciato di morte, c’è aggressività perché la strategia del governo sta funzionando, gli sbarchi sono diminuiti del 60% e i rimpatri aumentati del 30%. Si vuole impedire che ci si metta un freno, ma ho preso degli impegni con gli italiani e farò tutto quello che posso per seguire le indicazioni che ho avuto dagli elettori”. E sempre in tema giustizia e rapporti tra poteri, Meloni ha avallato le parole con cui il guardasigilli Carlo Nordio ha detto di auspicare un referendum sulla separazione delle carriere, per conferire alla riforma la necessaria investitura popolare. Interpellata da Vespa sulle parole di Nordio, la premier ha infatti risposto che il governo è “sempre pronto per il voto dei cittadini, per tutti i referendum”. Restando in territorio cronaca e inchieste giudiziarie, Meloni ha usato toni durissimi nei confronti di chi si è reso responsabile di violazione delle banche date e della privacy dei cittadini: “La cosa più importante”, ha detto, “riguarda l’infedeltà dei funzionari, l’hackeraggio non è il tema più importante, le nostre banche dati non sono violate da estranei ma da funzionari dello Stato che dovrebbero proteggerle ma usano il loro potere per fare altro con quei dati. Bisogna essere implacabili e non lo dico solo per loro ma anche per chi ha il dovere della vigilanza”. “Sui dossieraggi”, ha aggiunto, “noi abbiamo già varato un decreto legge, adesso c’è un tavolo tecnico che sta lavorando a una nuova iniziativa”. Non è mancata una stilettata a Cgil e Uil, che hanno annunciato lo sciopero generale per il 29 novembre: “C’è un piccolissimo pregiudizio da parte di Cgil e Uil con uno sciopero generale convocato qualche giorno prima di incontrare il governo. I sindacati volevano la diminuzione del precariato ed è diminuito, volevano l’aumento del salario e abbiamo fatto il cuneo, volevano più soldi sulla sanità e lo abbiamo fatto, prendiamo 3,6 miliardi dalle banche. Se nonostante questo confermano uno sciopero non siamo tanto nel merito”. Ma almeno su una cosa, il giudizio della premier collima con quello dei sindacati, e cioè la severa critica nei confronti del presidente di Stellantis John Elkann, che si è rifiutato di andare in Parlamento: “Fermo restando che a John Elkann sfuggono i fondamentali della Repubblica italiana, io sono stata parlamentare per tanti anni e questa mancanza di rispetto me la sarei evitata”. Quando i magistrati ignorano le sentenze sgradite della Corte di giustizia europea di Pierluigi Battista huffingtonpost.it, 31 ottobre 2024 Dare ascolto sempre, e non a seconda delle convenienze. Bisogna dare ascolto alle deliberazioni della Corte di giustizia europea? Sì, a patto che si dia loro ascolto sempre, e non a seconda delle convenienze. L’onorevole Enrico Costa, garantista e impenitente, ha notato che i magistrati italiani procedono a zig zag: si appellano alla Corte di giustizia europea nel caso celebre degli “Stati sicuri”, ma ignorano altre sentenze della stessa Corte in materia di abuso delle intercettazioni e protestano per ogni provvedimento civile che ne limiti l’arbitrarietà, salvaguardando gli intercettati nemmeno inquisiti dal linciaggio mezzo stampa cui sono sottoposti. Chiedo un po’ di pazienza a chi legge per la difficoltà di una prosa molto tecnica, ma questo è il cuore del testo della Corte europea: “La Corte ha preliminarmente ricordato che il principio della riservatezza delle comunicazioni effettuate tramite una rete pubblica di comunicazione e i servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico si traduce nel vietare l’ascolto, la captazione nonché la memorizzazione e altre forme di intercettazione o di sorveglianza delle comunicazioni, e dei relativi dati sul traffico, senza il consenso degli utenti interessati, salvo nelle ipotesi previste all’articolo 15, paragrafo 1, della Direttiva 2002/58. A tale riguardo, le misure legislative che disciplinano l’accesso delle autorità competenti ai dati di cui all’articolo 5, paragrafo 1, della Direttiva 2002/58 non possono limitarsi ad esigere che tale accesso risponda alla finalità perseguita dalle medesime, ma devono altresì prevedere le condizioni sostanziali e procedurali che disciplinano tale trattamento, che devono essere adottate nel rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione e dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta, tra cui in particolare quello ad un equo processo, ai sensi del quale le decisioni giudiziarie devono essere motivate”. Difficile e super tecnico, ma il senso è molto chiaro. Perché i magistrati italiani e la loro associazione sindacale denominata Anm fanno finta di niente? Quelle campagne di denigrazione contro i campioni dell’antimafia di Gian Carlo Caselli La Stampa, 31 ottobre 2024 A volte conviene recuperare storie del passato per illuminare il presente. Prendiamo la storia di Giovanni Falcone: osannato come eroe dopo morto, in vita venne ostacolato in tutti i modi. Fu tacciato di uso abnorme degli strumenti giudiziari per fini politici di parte se non per scopi personali. Il maxiprocesso (che segnerà la fine dell’impunità di Cosa nostra) veniva definito “un contenitore abnorme di per sé e per il modo in cui era stato costruito”. E via salmodiando. Finché nel luglio 1988 Falcone fu costretto a scrivere al Csm una lettera nella quale denunziava “infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza” ai suoi danni. Una campagna che produsse effetti velenosi quando (dovendosi, dopo Nino Caponnetto, nominare un nuovo capo dell’Ufficio istruzione) invece di Falcone, il più bravo dell’antimafia, fu nominato un magistrato digiuno di mafia e forte unicamente di una maggiore anzianità. Borsellino segnalò subito, pubblicamente, che così l’antimafia arretrava di una trentina d’anni, ma in cambio della sua coraggiosa denunzia ricevette un avviso di procedimento disciplinare per non aver usato le vie istituzionali. Ma qualcosa del genere sembra accadere anche oggi. Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato, due campioni dell’antimafia come Falcone, da tempo sono oggetto di campagne violente di denigrazione e delegittimazione. Perché? Nella Commissione parlamentare antimafia vi sono soggetti che vorrebbero far passare le loro tesi, per quanto inconsistenti, senza neppure confrontarsi seriamente (non per finta) con chi la pensa in modo diverso, anche se si tratta di magistrati come Cafiero e Scarpinato, forti di una cultura antimafia e di una conoscenza approfondita del fenomeno, acquisita con anni di duro lavoro. Per cui si può serenamente affermare che la loro preziosa esperienza, trasferita alla Commissione parlamentare, può essere utile a tutti: anche a coloro che rifiutano il confronto perché sono arroccati nelle loro posizioni pregiudiziali, per cui sentono come un pericoloso fastidio il contributo che Cafiero e Scarpinato potrebbero dare. E per non correre rischi lasciando loro troppo spazio, si è pensato - com’è noto - di modificare il regolamento della Commissione prevedendo l’obbligo dei componenti di astenersi dalla trattazione dei temi rispetto ai quali si trovino in una situazione di presunto conflitto di interessi, formula di una ambiguità che neanche Pirandello avrebbe saputo far meglio. A questa situazione incresciosa, a dire davvero poco, hanno cercato di opporsi i familiari delle vittime di mafia, con una lettera pubblica che si conclude con una forte “denunzia della vergogna di uno Stato che ritiene di poter allontanare i suoi più valorosi servitori con la scusa di un conflitto di interessi”, che però evidentemente non è ritenuto così insidioso quando ad averlo siano componenti della Commissione che non si chiamano Cafiero o Scarpinato (e qui la lettera fa riferimento alla presidente Chiara Colosimo). Alla lettera seguirà una iniziativa dei familiari in Senato. Detto senza alcuna enfasi retorica, i familiari delle vittime di mafia sono anch’essi vittime, perché vivono un continuo, immenso dolore che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Chiedono giustizia e non vendetta. Nei loro confronti abbiamo tutti un debito enorme: la loro fermezza è un richiamo a non dimenticare e un punto di riferimento morale. Per tutti questi motivi la Commissione deve ascoltarli. Salvo che voglia in modo assolutamente irrispettoso accodarsi a coloro che sostengono la necessità di una “rieducazione” dei familiari delle vittime, accampando l’ingiustificato e assurdo timore che essi possano sbilanciare, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia. Reato continuato, la Cassazione: quando la pena è “illegale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 ottobre 2024 La Corte di Cassazione ha emesso una significativa sentenza che fa chiarezza sui confini tra pena illegale e pena illegittima, stabilendo importanti principi in materia di esecuzione penale. La decisione, depositata con il numero 38848/ 2024, affronta il delicato tema dei poteri del giudice dell’esecuzione nella correzione delle pene che superano i limiti stabiliti dalla legge. Al centro della vicenda giudiziaria c’è il ricorso presentato da Antonio Iaccarino contro un’ordinanza del Tribunale di Genova del 24 aprile 2024. Il caso nasce da un provvedimento della Corte d’Appello di Genova che, nel luglio 2021, aveva determinato una pena complessiva di 7 anni e 3 mesi di reclusione, oltre a 1.500 euro di multa, per un reato continuato. Secondo il ricorrente, questa pena violava il limite massimo previsto dall’articolo 81 del codice penale, che stabilisce come tetto il triplo della pena prevista per la violazione più grave. Nel caso specifico, la pena base era stata fissata in 1 anno e 10 mesi di reclusione. Applicando il limite del triplo previsto dalla legge, la pena massima avrebbe dovuto essere di 5 anni e 6 mesi, ben al di sotto dei 7 anni e 3 mesi effettivamente comminati. Il Tribunale di Genova, chiamato a pronunciarsi sull’incidente di esecuzione, aveva però respinto la richiesta di rideterminazione della pena, sostenendo che l’errore, contenuto in un provvedimento ormai definitivo, non fosse più correggibile. La Suprema Corte ha invece accolto il ricorso, affermando un principio di grande importanza: quando una pena inflitta a un condannato è ingiusta o illegittima, il giudice che si occupa dell’esecuzione della pena ha il potere e il dovere di intervenire, anche se la sentenza che l’ha stabilita è ormai definitiva. La Corte ha chiarito che esistono due tipi principali di errori che possono rendere una pena ingiusta: la pena illegale e la pena illegittima. La pena illegale è una pena che non è prevista dalla legge: può essere illegale per il tipo di sanzione (ad esempio, una multa al posto della reclusione), per la durata (troppo lunga o troppo breve), o semplicemente perché non esiste nel nostro ordinamento giuridico. La pena illegittima, invece, è prevista dalla legge, ma è stata applicata in modo sbagliato: potrebbe essere il risultato di un errore di calcolo, di una motivazione poco chiara o di un’interpretazione errata della legge. In entrambi i casi, la Corte ha stabilito che il giudice dell’esecuzione può e deve correggere l’errore, anche se la sentenza è ormai definitiva. Questo significa che la giustizia può essere fatta anche dopo la conclusione del processo, garantendo che nessuno subisca una pena ingiusta. La distinzione non è meramente teorica. Mentre la pena illegale può essere sempre corretta dal giudice dell’esecuzione, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, la pena illegittima può essere contestata solo attraverso i normali mezzi di impugnazione entro i termini previsti dalla legge. Nel caso Iaccarino, la Cassazione ha stabilito che il superamento del limite del triplo della pena base nel reato continuato configura un’ipotesi di pena illegale, in quanto viola un limite quantitativo inderogabile stabilito dall’articolo 81 del codice penale. La decisione si basa su un principio costituzionale fondamentale: la legalità della pena, che deve essere rispettata non solo al momento della sua irrogazione ma anche durante tutta la fase esecutiva. Come sottolineato dalla Corte, questo principio si lega strettamente all’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce la finalità rieducativa della pena. Il caso è stato rinviato al Tribunale di Genova per un nuovo giudizio. I giudici di merito dovranno ora riesaminare la questione alla luce dei principi stabiliti dalla Cassazione, procedendo verosimilmente a una rideterminazione della pena entro i limiti legali del triplo della sanzione base. La sentenza fornisce una guida chiara ai giudici dell’esecuzione sui loro poteri di intervento in materia di pene illegali. Conferma inoltre l’orientamento della Suprema Corte verso una sempre maggiore tutela del principio di legalità della pena, anche nella fase esecutiva del processo penale. Affidamento in prova al servizio sociale anche allo straniero privo di permesso di soggiorno di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2024 La pena sostitutiva dell’affidamento in prova al servizio sociale può essere concesso anche allo straniero irregolare sprovvisto di permesso di soggiorno, senza che ciò costituisca condizione limitante al riconoscimento del beneficio penitenziario. Quindi a chi si trovi in condizione di clandestinità nel territorio nazionale di fronte alla giustizia non sopporta limitazioni alla concessione dell’affidamento in prova se la prospettiva è quella rieducativa. Infatti, come afferma la Corte di cassazione penale - con la sua sentenza n. 40131/2024 - il presupposto per la concessione della pena sostitutiva, a una persona condannata a pena che non superi i tre anni di detenzione, non sconta differenze tra cittadini italiani e clandestini extracomunitari. Quindi il criterio per la decisione giudiziale sulla sostituzione della pena detentiva breve è unico per i condannati fino a tre anni di detenzione la prospettiva di un completamento del ravvedimento già avviato e l’esclusione del rischio di recidiva. Neanche la mancata indicazione di un sicuro domicilio o di una concreta attività lavorativa nella domanda per ottenere l’affidamento in prova può valere a far negare la sostituzione della detenzione. Indicazioni che, ad esempio nel caso concreto, erano effettivamente mancanti. Ma come risponde la Suprema Corte ciò che vale è la prospettiva futura di ottenere un lavoro che, nell’immediatezza dell’affidamento in prova al servizio sociale, ben può coincidere con lo svolgimento di un’attività di volontariato. Permesso di soggiorno negato: il Tar bacchetta la questura di Torino di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 31 ottobre 2024 La polizia non ha concesso il rinnovo del permesso di soggiorno a un ragazzo straniero, sostenendo che non aveva voglia di lavorare e di integrarsi. In realtà aveva da tempo un’occupazione regolare e stabile. “Non ha mai lavorato regolarmente, non ha voglia di inserirsi”. Con questa motivazione, e un paio di rilievi burocratici, la questura di Torino ha negato la conversione e il rinnovo del permesso di soggiorno ad un ragazzo straniero. Il giovane immigrato, invece, un’occupazione stabile ce l’aveva da mesi. Per far cancellare il rifiuto, assistito da un avvocato, il lavoratore si è dovuto rivolgere al Tribunale ammnistrativo regionale del Piemonte. I giudici gli hanno dato ragione, evidenziando carenze ed errori nell’operato e nelle valutazioni della polizia, rappresentata in giudizio anche dal ministero dell’Interno. La sentenza, reperibile in rete, lascia l’amaro in bocca. E autorizza a porsi e porre una serie di domande. Possibile che ci sia stata tanta superficialità nella gestione di una pratica di importanza vitale per un ragazzo, messo a rischio di espulsione? Colpa della mole di richieste da trattare e di poco personale addetto? “Solo” sciatteria di chi ha trattato l’istanza? Un caso isolato oppure la conferma, non la prima, di lacune e disservizi denunciati da decine di associazioni? In Italia da minore non accompagnato - La storia la ricostruisce lo stesso Tar, prima sezione, presidente Rosa Perna. Nell’estate 2020, l’anno terribile della pandemia, il ragazzo straniero arriva in Italia non ancora diciottenne, senza genitori e senza altre figure adulte di riferimento. Collocato in una struttura protetta, come previsto dalle norme sulla protezione internazionale, ottiene il permesso di soggiorno per minore età dalla questura di Catania. Compiuti i 18 anni si trasferisce a Torino per cercare un lavoro e un futuro dignitoso. La richiesta di rinnovo e conversione del permesso di soggiorno - Il 18 ottobre 2022 chiede all’ufficio Immigrazione della questura torinese il rinnovo e la conversione del permesso di soggiorno iniziale, per poter restare in Italia in attesa di trovare occupazione. Dopo tre mesi e mezzo gli viene notificata una comunicazione. Se vuole che la richiesta vada avanti, superando gli ostacoli all’accoglimento, deve integrare la documentazione presentata. Documentazione da integrare e inerzia statale - Mancano la relazione dei servizi sociali e il parere della direzione generale dell’Immigrazione e delle politiche del lavoro, sezione del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Il ragazzo consegna la prima attestazione il 25 agosto 2023. Fa domanda per avere il secondo documento, anche se non toccherebbe a lui, come poi rileverà il Tar. Ma non riceve alcun riscontro e quindi non può produrlo, non per sua colpa. Il rigetto della richiesta di permesso: gli errori della polizia - Passano altri mesi, quasi nove. Il 15 maggio 2024 al giovane straniero è notificato il rigetto della richiesta del permesso di soggiorno, un diniego firmato dall’allora questore di Torino. Il responsabile della polizia cittadina gli contesta di aver presentato l’istanza oltre i termini previsti e di non aver mai depositato il parere della direzione generale dell’Immigrazione. Non solo. ll ragazzo - sono le parole usate per giustificare il rifiuto, riportate nella sentenza Tar - “benché in condizioni di maturare un adeguato inserimento socio-lavorativo” non avrebbe “dimostrato alcuna volontà in tale senso” né “mai intrapreso una regolare attività lavorativa”. Non è così. Lo straniero non è più disoccupato. Il Tar evidenzia carenze e lacune - Il Tar a fine estate ha accolto il ricorso del giovane immigrato, ribaltando il tutto. Le valutazioni sono di quelle che spingono a interrogarsi. Nell’operato della polizia torinese i giudici rilevano “una carente istruttoria”. Se “fosse stata svolta un’effettiva attività istruttoria” - altro passaggio testuale della sentenza - “l’amministrazione avrebbe potuto appurare che il ricorrente svolgeva attività lavorativa a decorrere dal 3 ottobre 2023”, con un contratto di lavoro registrato, inizialmente a tempo determinato e poi a tempo determinato. Chi ha trattato la pratica non ha controllato. E nelle comunicazioni intermedie non ha posto la questione all’attenzione dell’interessato. Ignorata la volontà di lavorare e integrarsi - Il lavoro regolare trovato, come provano la Certificazione unica per l’anno 2023 e le buste paga del 2024, consentiva e consente al ragazzo di mantenersi e in modo lecito, dimostrando “la concreta e attuale volontà di integrarsi nella società italiana”. Non il contrario. Quello che avrebbe dovuto fare lo Stato - “L’amministrazione avrebbe dovuto considerare” la stipula del contratto di assunzione, avvenuta prima del rifiuto a convertire e rinnovare il permesso di soggiorno. C’era tutto il tempo. E il ragazzo non ha omesso di consegnare uno dei documenti previsti. Non competeva a lui procurarsi e fornire il parere della direzione dell’Immigrazione del ministero del Lavoro, peraltro richiesto ugualmente e non ottenuto. Questo atto, rimarca sempre il Tar, “deve essere acquisito a cura dell’amministrazione procedente e non deve invece considerarsi un adempimento a carico del richiedente. L’inerzia della direzione generale non può gravare sul ricorrente”. Scadenze, obblighi e situazioni sanabili - Quanto al ritardo nella presentazione della richiesta del nuovo permesso di soggiorno, argomento usato dalla questura per supportare il rigetto della domanda, “i termini non hanno natura perentoria bensì ordinatoria e acceleratoria”, detto in burocratese. Tant’è che non può essere espulso lo straniero che sfora i 60 giorni indicati dalla legislazione in materia. Permesso di soggiorno negato: il ministero dell’Interno dovrà pagare - Il diniego della questura è stato annullato, l’ufficio Immigrazione riesaminerà la richiesta del ragazzo. Il ministero dell’Interno, che potrà impugnare la sentenza davanti al Consiglio di stato, dovrà rifondere al giovane straniero 2.500 euro di spese di lite e il contributo unificato, pesando sull’erario. Non è dato sapere se e quando ci saranno conseguenze per chi ha istruito e gestito il fascicolo, nel modo censurato dal Tar. Tra chi affianca migranti e profughi, nei lunghi e logoranti percorsi a ostacoli delle pratiche, c’è poco stupore. Disservizi, criticità, “atteggiamenti non consoni” - Un anno e mezzo fa 60 associazioni e organizzazioni avevano segnalato con una lettera aperta un pesantissimo elenco di “illegittimità”, disservizi, lacune e ritardi, con carenze gestionali, burocratiche, strutturali, logistiche e pure umane. Nella denuncia di allora si legge, tra l’altro: “Si registrano numerosi atteggiamenti non consoni ad una istituzione che dovrebbe rappresentare la cittadinanza (sia italiana sia straniera). Spesso le persone in attesa vengono maltrattate degli operatori della polizia di corso Verona 4”, la sede dell’ufficio Immigrazione della questura torinese, al centro delle critiche e della richiesta di correttivi. “Poco o nulla è stato fatto in questi mesi” - Rimarca l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, una delle sigle firmatarie della lettera. “Avevamo fatto alcune richieste precise, poco o nulla è cambiato. Anzi, per certi aspetti abbiamo registrato peggioramenti”. Impietosa l’analisi, immutata: “La scarsa considerazione dell’interesse delle persone migranti, nella trattazione delle pratiche, compromette i loro diritti fondamentali e causa una gestione caotica del fenomeno migratorio”. Torino, fiducia nel nuovo questore e nella nuova dirigente - “L’ufficio Immigrazione di Torino - continua il rappresentante dell’Asgi - ha cambiato dirigente, dopo tanti anni e con situazioni negative che si erano incrostate. Di recente è cambiato anche il questore. Speriamo che con questi avvicendamenti si possano avviare momenti di confronto e raggiungere risultati positivi. Peggio non può andare”. Parma. Tragedia in carcere: detenuto di 50 anni trovato morto in cella di Christian Donelli parmatoday.it, 31 ottobre 2024 L’uomo sarebbe deceduto nel corso della notte: è stata disposta l’autopsia. Un detenuto di 50 anni di origine somala è stato trovato morto nelle prime ore della mattinata di mercoledì 30 ottobre all’interno di una cella del carcere di via Burla a Parma. L’uomo sarebbe morto nel sonno, per cause in corso di accertamento. Sarebbe stato il compagno di cella a trovare l’uomo senza vita nel suo letto. Secondo le prime informazioni non si tratterebbe di suicidio. È stata disposta l’autopsia sul cadavere: sarà l’esame automatico a stabilire con certezza le cause della morte. La Procura della Repubblica di Parma ha infatti aperto un fascicolo sull’episodio. Il Garante regionale dei detenuti ha confermato il decesso di stamattina e che il 50enne avrebbe dovuto essere, a breve, inserito in una comunità terapeutica. Prato. L’intervento della Camera penale: “L’onda dei suicidi deve essere arginata” La Nazione, 31 ottobre 2024 “È con sgomento - perché nessun’altra parola è utilizzabile - che apprendiamo dell’ennesimo suicidio nella nostra Casa Circondariale. Quattro persone si sono tolte la vita nel carcere di Prato dall’inizio dell’anno, ma i decessi salgono a cinque se contiamo anche quello di dicembre 2023”. Così la commissione della Camera penale di Prato interviene dopo il suicidio avvenuto alla Dogaia lunedì: un italiano di 50 anni si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella. “L’onda di suicidi sembra ormai impossibile da arginare - proseguono - nonostante le varie iniziative proclamate dall’Unione Camere Penali Italiane alla quale la Camera Penale di Prato non si è mai sottratta. Abbiamo cercato di dare voce a tutti i detenuti della nostra Casa Circondariale, abbiamo fatto flash mob in memoria e abbiamo organizzato una partecipata maratona oratoria sul tema. Non vogliamo però essere più soli in tutto questo, chiediamo la maggior partecipazione possibile al consiglio comunale straordinario che si terrà sul tema carcere il 23 novembre”. La Camera penale è sempre stata attenta alle esigenze dei detenuti e anche in questo caso non intende fare meno. “È nostro compito urlare a gran voce il dolore di chi, ristretto in condizioni spesso inumane, affetto da patologie psichiatriche o semplicemente in un momento di debolezza, sceglie la morte”, concludono dalla commissione Carcere della Camera Penale. La Fp Cgil denuncia invece “l’estrema gravità delle condizioni del carcere pratese, un istituto che da anni vive in una situazione insostenibile sia per i detenuti che, soprattutto, per il personale che vi lavora”, dicono dalla Cgil. “Le segnalazioni inviate a tutte le istituzioni restano inascoltate, e la mancanza di azioni concrete continua a rendere la gestione del carcere una missione impossibile”. “In occasione della visita del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Del Mastro, ci era stato promesso che entro settembre l’istituto avrebbe avuto finalmente un direttore titolare. Ad oggi la promessa non è stata mantenuta”, concludono dal sindacato. Venezia. Suicidi in carcere, undici detenuti pronti a intervenire di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 31 ottobre 2024 Undici detenuti a Santa Maria Maggiore stanno diventando esperti nel riconoscere i campanelli d’allarme del rischio suicidio in carcere. Li sta formando l’Usl 3 a leggere i segnali in bassa frequenza che emanano le persone che meditano di farla finita: solitudine, distacco rispetto alla comunità, il silenzio come prassi e la mancanza di comunicazione a tutti i livelli come scudo. I compagni di cella stanno con loro 24 ore al giorno e hanno un angolo visuale più ampio di qualsiasi operatore. Il protocollo con l’Usl voluto dal nuovo direttore della struttura Enrico Farina, che da ex educatore nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi è arrivato a Venezia con due missioni: evitare il burn out dei dipendenti e dei detenuti e insegnare un nuovo lavoro a chi ha competenze solo in furti, rapine e traffico a di sostanze di piccolo cabotaggio e, una volta scontata la pena “rischia di vedersi arrivare la libertà come un pugno in faccia”, dice. Un bagno freddo di realtà che non ha lavoro per gli incensurati, figurarsi per gli ex ristretti. Le novità sulla condizione carceraria sono venute fuori dalla riunione della commissione Coesione sociale presieduta dal fucsia Paolo Tagliapietra che ha chiamato in audizione il garante dei detenuti Marco Foffano, il responsabile dell’area Coesione sociale Danilo Corrà e il direttore Farina. I numeri: Santa Maria Maggiore è organizzata per ospitare 159 persone e adesso ne ha 266. Sul totale, gli stranieri sono 151 e per la maggior parte non parlano italiano né hanno una infarinatura sul sistema giudiziario e quindi innescano rivolte se non possono parlare con i propri cari o l’avvocato. I tossicodipendenti dichiarati dalla certificazione del Sert fatta prima dell’arresto sono 30, niente rispetto al dato reale delle dipendenze tra coca, eroina, alcool e fentanyl che sta mettendo Mestre a ferro e fuoco. Il carcere è difficile anche per i dipendenti. Sono 300 e per loro i posti nel parcheggio comunale sono 14. Se accade un’emergenza di notte, spiega il direttore, gli addetti arrivano, lasciano l’auto dove possono e prendono la multa. La casa in città storica, ma pure in terraferma, costa troppo rispetto alla qualità dell’abitare. Risultato: in 14 sono tornati a casa appena sono stati assunti 14 nuovi colleghi. “Grazie al Comune, sono stati individuati alcuni alloggi da mettere a disposizione - ringrazia Farina. Chiederei un aiuto anche per il parcheggio”. E un aiuto anche per rafforzare la dotazione di mediatori culturali, visto che Santa Maria Maggiore ne ha uno solo. Non compete al Comune ma le istituzioni locali stanno dando un importante supporto e Venezia è una comunità in dialogo con le realtà penitenziarie attraverso associazioni, istituzioni, realtà imprenditoriali. Ad esempio, a inizio anno, di detenuti che lavoravano per imprese veneziane erano due. Adesso sono 25. Due nei cantieri di piazza San Marco, altri lavorano in ristoranti e alberghi. E due sono diventati esperti archivisti grazie alla formazione dell’Usl. Hanno messo in ordine 200 fascicoli consegnati all’Archivio Storico, adesso stanno riorganizzando le carte dell’ufficio interdistrettuale penale di Venezia. La Soprintendenza ha già espresso interesse per una eventuale collaborazione. Firenze. Inaugurata Casa Mimosa: qui gli ex detenuti iniziano a ricostruirsi una vita di Maurizio Costanzo La Nazione, 31 ottobre 2024 Aperta nel condominio solidale di via Corelli gestito da Fondazione Solidarietà Caritas grazie a fondi della Caritas Italiana. Un appartamento per i detenuti a fine pena che escono dal carcere e hanno bisogno di un posto dove abitare e iniziare a ricostruirsi una vita. È Casa Mimosa, inaugurata ieri nel condominio solidale Corelli gestito da Fondazione Solidarietà Caritas di Firenze. L’appartamento, rimesso a posto grazie ai fondi di Caritas Italiana, può ricevere due ospiti, persone a fine pena che non hanno la possibilità di altro tipo di accoglienza. Gli ex detenuti vivono in autonomia ma fanno riferimento a un educatore e seguono un percorso personalizzato che prevede accoglienza, orientamento ai servizi del territorio, la ricerca di un lavoro e di un alloggio, l’assistenza per i documenti, in collaborazione con avvocati e servizi sociali. All’inaugurazione, ieri sera, erano presenti Vincenzo Lucchetti presidente di Fondazione Solidarietà Caritas di Firenze, l’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli, l’assessore comunale al Sociale Nicola Paulesu. “Casa Mimosa è un servizio di cui c’era bisogno su questo territorio - afferma Vincenzo Lucchetti, presidente di Fondazione Solidarietà Caritas di Firenze -. Per chi esce dal carcere la mancanza di un alloggio, oltre a rappresentare un disagio personale e sociale, diventa anche un ostacolo verso l’autonomia economica, personale e verso il reinserimento sociale. Da qui, uno spazio dignitoso e accogliente, l’ex detenuto può iniziare a intraprendere il suo progetto fuori dal carcere, riallacciare i rapporti familiari e sociali, trovare un lavoro”. “È fondamentale potenziare i progetti di accoglienza per il fine pena, per poter garantire un ponte verso la società e un supporto per il reinserimento nella società dei detenuti - sottolinea l’assessore al Welfare Nicola Paulesu - Questa struttura risponde quindi a un’esigenza fortemente sentita ed attesa. Ringraziamo Fondazione Solidarietà Caritas per il grande lavoro che sta facendo su questa tematica. Ci sono tante realtà che operano fuori e dentro il carcere per migliorare le condizioni dei detenuti e per favorire percorsi di integrazione, accrescimento delle competenze, inclusione sociale. Come amministrazione vogliamo potenziare sempre di più la collaborazione con tutte queste realtà per mettere a sistema le varie esperienze e riuscire a mettere in campo sempre più progetti che vanno nella direzione di fornire nuove opportunità”. “La paura è il sentimento che accomuna tanti ex detenuti - dice l’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli - perché oggettivamente la vita dopo il carcere, senza un adeguato supporto, specialmente per chi è solo, diventa complicata. Una volta fuori incontrano grandi difficoltà nel trovare una casa, un lavoro con il rischio di ricadere nei circuiti della criminalità o di vivere in condizioni di disagio. Casa Mimosa è segno tangibile di prossimità per questi nostri fratelli, una mano tesa per aiutarli a rialzarsi, ad affrontare l’avvenire con speranza e impegno. A Casa Mimosa, in un ambiente sereno e protetto, gli ex detenuti, guidati dagli educatori, possono riprendere un percorso di vita, lasciarsi alle spalle il passato con gli errori commessi, fronteggiare i pregiudizi e reinserirsi nella società”. Siracusa. Un lavoro per 500 detenuti, progetto nelle carceri: incluse Cavadonna, Augusta e Noto siracusaoggi.it, 31 ottobre 2024 Un percorso di inclusione socio-lavorativa per 540 persone. L’obiettivo è arrivare a 180 contrattualizzazioni. Questo in sintesi quanto prevede il progetto “Jail to Job”, promosso dalla cooperativa sociale Rigenerazioni Onlus di Palermo, con il coinvolgimento delle cooperative L’Arcolaio di Siracusa e Lazzarelle di Napoli, con il sostegno della Fondazione San Zeno. Il progetto, della durata di tre anni, propone un modello innovativo di politiche del lavoro per persone che scontano la loro pena negli istituti penitenziari di Cavadonna, Noto, Augusta e poi Ucciardone di Palermo, Pagliarelli Lorusso e Secondigliano. Coinvolti anche i servizi di esecuzione penale esterna di Siracusa, Palermo e Napoli, con il supporto dei Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria di Sicilia e Campania. L’auspicio della coordinatrice del progetto, Nadia Lodato, è che “la collaborazione con partner di consolidata esperienza sul campo, come L’Arcolaio e Lazzarelle, possa stimolare altre realtà del privato sociale ad agire in ambienti complessi come il carcere, favorendo benessere individuale e collettivo e sostenendo processi di Giustizia di Comunità”. Imma Carpiniello della Cooperativa Lazzarelle mette in evidenza l’aspetto legato ai percorsi di inclusione per le donne detenute, “che possano riacquisire dignità e autonomia. Sono spesso le persone più vulnerabili del sistema penitenziario e sociale e con queste attività possono scoprire e sviluppare le proprie potenzialità”. “Crediamo nel valore della responsabilità sociale condivisa- aggiunge Adriana Anzelmo de L’Arcolaio - Da oltre vent’anni promuoviamo l’inserimento socio-lavorativo per chi è in esecuzione penale, riconoscendo come il lavoro contribuisca alla riabilitazione e alla riduzione della recidiva.” “Il lavoro diventa un modo per immaginarsi di nuovo. Per sentirsi capaci, riconosciuti, apprezzati come persone, prima che come lavoratori. L’opportunità concreta di tessere una nuova storia “, riporta Rita Ruffoli, direttrice di Fondazione San Zeno. Roma. La vita dopo il carcere: “Se non hai una possibilità quando esci torni a delinquere” romatoday.it, 31 ottobre 2024 Abbiamo incontrato Mirko durante il suo turno di lavoro a “Vale la pena”, pub fondato dalla Onlus “Semi di libertà”. “Mai mi sono occupato di cibo, oggi amo mettere creatività nei taglieri che faccio ai clienti”. Con queste parole si può riassumere Mirko, 45 anni, in semi libertà e ad un mese dalla fine della sua condanna che sta scontando nel carcere romano di Rebibbia. Un passato travagliato il suo, diversi reati, più volte dentro. E poi fuori. “Arrivato a questa età mi sono stufato d fare questa vita - racconta Mirko -, grazie a questa possibilità una volta fuori posso lavorare, guadagnare, pagare le tasse. Come tutti i cittadini”. La possibilità a cui si riferisce Mirko è il lavoro nel pub “Vale la pena”, con contratto a tempo indeterminato, che la onlus “Semi di libertà”, guidata da Paolo Strano, gli ha offerto dopo un anno di tirocinio all’interno del birrificio. Un’iniziativa, quella di Strano, nata con l’obbiettivo di contrastare la recidiva, ovvero il ritorno a compiere reati da chi, dopo una pena, esce dall’istituto penitenziario. E come si può fare? Dando ai detenuti una prospettiva per il futuro. “Vale la pena” ha così sviluppato un birrificio che produce una decina di varietà di birre artigianali che ormai da qualche anno si possono trovare nei locali e nei punti vendita. Un esempio dei tanti prodotti presenti nell’economia carceraria che prova, in un modo o nell’altro, a raccontare un pezzo della nostra società. Uomini e donne che provano ad uscire dal proprio passato per tornare ad essere “persone come gli altri”. “Quando sei liberante, ovvero quando esci dal carcere, vivi sentimenti contrastanti, felicità e paura, cadere nella trappola di tornare a commettere reati è un attimo, basta l’incontro con la persona sbagliata - continua Mirko -. Ai detenuti va dato un lavoro prima di questo momento. Bisogna metterli nella condizione di affrontare la vita fuori, anche perché usciamo con un debito nei confronti dello Stato legato al nostro mantenimento”. La “diaria” che spetta a chi sconta una pena definitiva. “Il mio stipendio, ad esempio, non viene versato a me ma al carcere di Rebibbia - spiega - una volta decurtata la parte relativa al mantenimento me lo versano”. Che prospettive per il futuro? “Continuare a lavorare qui e magari un giorno aprire un pub tutto mio, chi lo sa - conclude Mirko, al momento in regine di semi libertà con l’obbligo di tornare a Rebibbia entro le 23:30 -. Certo è bello rientrare la sera contento di aver fatto qualcosa di buono, senza svegliarsi nel cuore della notte con la paura che ti vengono ad arrestare”, dice sorridendo. Latina. La Caritas promuove un corso per il Volontariato penitenziario acistampa.com, 31 ottobre 2024 “Una forma di volontariato in un ambiente davvero particolare”. Così il sito della Diocesi di Latina promuove il volontariato penitenziario presso il carcere di Latina promesso dalla Caritas della stessa diocesi. Coloro che volessero impegnarsi in questo servizio hanno la possibilità di partecipare al corso di formazione. Il corso è basato su cinque incontri (uno a settimana) che si terranno, presso la curia vescovile di Latina, dal 4 novembre e fino al 2 dicembre, tutti nella mattinata (ore 10-11.30). “Un orario scelto non a caso perché sarà quello che l’Amministrazione penitenziaria permette per svolgere il servizio”, spiegano sempre sul sito della diocesi. Gli incontri saranno tenuti da esperti del settore, della Caritas e dal personale del Carcere di Latina, presso cui sarà svolto il servizio. In questa stessa struttura, la Caritas diocesana da anni opera con lo Sportello di Aiuto per i detenuti. Dallo scorso anno, tra l’altro l’impegno diocesano in carcere viene svolto attraverso l’Associazione Matteo 25,36, l’organizzazione di volontariato costituita in funzione delle attività della Caritas diocesana pontina nell’ambito della giustizia. “Il successo del percorso riabilitativo di un detenuto è la conseguenza di una serie di azioni che coinvolgono, oltre la struttura detentiva, i servizi per l’impiego, le istituzioni scolastiche, le imprese del territorio, il Terzo Settore, nonché l’intera comunità locale”, ha spiegato Pietro Gava, uno dei referenti per il volontariato penitenziario di Caritas diocesana e della associazione, sempre sul sito della diocesi. La scheda di iscrizione al corso è scaricabile dal sito web www.caritaslatina.it e deve essere inviata a volontariatopenitenziario@caritaslatina.it entro il 30 ottobre o consegnata presso la Segreteria della Curia di Latina dal lunedì al venerdì (orari 9-13; 15.30-19). Lecco. In carcere presentato il libro “All’inferno e ritorno”, di Matteo Zilocchi leccoonline.com, 31 ottobre 2024 Location particolare per la presentazione del libro “All’inferno e ritorno” (Edizioni San Paolo) dello scrittore Matteo Zilocchi, un’opera che esplora il percorso di redenzione e rinascita attraverso la storia vera di un uomo che ha vissuto l’esperienza della detenzione nelle tre carceri milanesi. L’autore è intervenuto infatti presso la Casa Circondariale di Lecco. All’evento, che ha visto la partecipazione di un gruppo di detenuti e cittadini lecchesi, hanno preso parte anche la la Direttrice del carcere di Lecco, Luisa Mattina, il Direttore del carcere di Bollate, Giorgio Leggieri, la psicologa e membro del Tavolo Lecchese per la giustizia ristorativa, Bruna Dighera, e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Lecco, Lucio Farina. Il libro racconta con sensibilità e profondità il tema della detenzione e del percorso di riabilitazione attraverso una storia personale di caduta e risalita, di errori e redenzione, di dolore e speranza. La Direttrice nel suo intervento ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa, evidenziando come la presentazione del libro all’interno dell’istituto rappresenti un momento significativo di riflessione sul tema della detenzione e della riabilitazione. Ha ricordato che la storia narrata sottolinea come il carcere non debba essere solo luogo di pena, ma anche di opportunità di cambiamento e di crescita personale. Ha inoltre rimarcato come eventi di questa natura siano fondamentali per l’istituto, poiché rappresentano un ponte tra il carcere e la città di Lecco, un’occasione preziosa per aprire le porte alla comunità e favorire il dialogo e la comprensione reciproca. La Direttrice ha concluso evidenziando come queste iniziative culturali permettano di mostrare alla cittadinanza il lavoro quotidiano di riabilitazione e il valore sociale dell’operato dell’istituto. L’autore del libro, Matteo Zilocchi, ha spiegato: “Ho scritto questo libro per dare voce a una storia di rinascita, per raccontare il viaggio di un uomo che ha trovato la forza di rialzarsi dopo essere caduto nell’inferno della ‘ndrangheta. Queste pagine narrano un percorso di resilienza e di speranza, dimostrando che è possibile trovare una via d’uscita anche dalle situazioni più difficili. Il protagonista ha avuto il coraggio di guardare in faccia i propri errori e di intraprendere un difficile percorso di cambiamento anche grazie al percorso svolto in carcere. La sua storia non è solo un racconto di redenzione, ma è anche un messaggio potente che ci ricorda che, se un detenuto intraprende un percorso virtuoso, merita una seconda possibilità nella società.” L’evento si inserisce nel programma di iniziative della Casa Circondariale di Lecco volte a creare momenti di incontro e dialogo con il territorio, con l’obiettivo di rafforzare il legame tra l’istituto penitenziario e la comunità locale, nella convinzione che il percorso di reinserimento sociale dei detenuti passi anche attraverso momenti di apertura, riflessione e confronto. Cagliari. “Transistor Nuove Generazioni”, appuntamento con il teatro all’Ipm di Quartucciu insidertrend.it, 31 ottobre 2024 Si tratta della VIII edizione di Castigo, festival del Cada Die Teatro dedicato ai giovani e ai nuovi linguaggi per la direzione artistica di Mauro Mou, che quest’anno avrà luogo dall’1 al 3 novembre presso La Vetreria di Pirri e il carcere minorile di Cagliari. Di nuovo sugli scudi Transistor: nuove generazioni, il festival del Cada Die Teatro dedicato ai giovani e ai nuovi linguaggi, con la consueta direzione artistica di Mauro Mou, che giunge alla sua VIII edizione, concentrata fra venerdì 1 e domenica 3 novembre. Tre giorni di spettacoli, incontri, laboratori e concerti uniti dal filo conduttore del disagio giovanile, passando attraverso l’esperienza dei presidi culturali nelle carceri minorili, come spazi di educazione, creatività e inclusione #Castigo, il sottotitolo di quest’anno di Transistor, che si arricchisce nell’edizione 2024 della preziosa collaborazione dell’associazione CCO (Crisi Come Opportunità), per valorizzare al meglio il primo anno e mezzo di lavoro all’interno dell’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu. CCO si occupa di laboratori di formazione e sensibilizzazione di giovani e comunità locali attraverso l’uso dell’arte, in tutte le sue forme: teatro, rap, sceneggiatura, fotografia e cinema. Da più di dieci anni realizza documentari, pubblicazioni, video testimonianze, spettacoli teatrali, campagne di sensibilizzazione e progetti formativi, lavorando nelle periferie, nelle carceri minorili e nelle scuole su tematiche legate alla cittadinanza attiva, questione di genere e lotta alle mafie. Dal 2013 sviluppa il progetto nazionale presidio culturale permanente negli Istituti Penitenziari per Minori, oggi attivo in sette IPM sul territorio nazionale, con laboratori di teatro e musica rap continuativi, ogni settimana, per dodici mesi all’anno. “La collaborazione fra CCO e Cada Die - afferma al riguardo Mauro Mou, direttore artistico dell’evento - ha dato vita all’apertura del progetto di presidio culturale permanente dedicato agli ospiti della struttura carceraria di Quartucciu. Con il teatro, la musica rap e le percussioni da più di un anno cerchiamo di costruire insieme ai ragazzi uno spazio speciale e un tempo esclusivo, dove raccontare storie, condividere sogni e speranze per il futuro. A ospitare le attività e i momenti di spettacolo del festival saranno proprio l’IPM di Quartucciu e gli spazi della Vetreria di Pirri. Transistor è dedicato quest’anno al tema del disagio minorile, con l’intento di stimolare consapevolezza e speranza nel recupero e nel reinserimento sociale di adolescenti e giovani che hanno commesso dei reati. Fin dalla prima edizione obiettivo del festival è stato quello di sensibilizzare la coscienza comune a riflettere su questioni profonde che riguardano i giovani, attraverso l’arte e in particolare il teatro e la musica, perché crediamo che siano un potente strumento di trasformazione sociale, capace di offrire opportunità di cambiamento, di crescita personale e comunitaria. Questo è stato un anno molto importante che ha aperto lo sguardo su un mondo apparentemente lontano ma in realtà vicinissimo, dove la sofferenza, la difficoltà a immaginarsi un futuro e a costruire percorsi alternativi sono temi più che mai emergenziali. Il Festival vedrà i ragazzi come veri protagonisti nei momenti di spettacolo, incontro e formazione. Come nelle precedenti edizioni sarà importante la collaborazione con scuole, enti locali, organizzazioni non profit e associazioni culturali, per costruire insieme un percorso di ricerca e supporto delle fragilità emergenti e crescenti nel mondo dei giovani”. Il festival Transistor Nuove generazioni nasce nel 2016, cercando ogni anno di sviluppare un tema legato all’adolescenza, ai valori della cultura, dell’arte, della condivisione, al rispetto dei luoghi, dell’ambiente. È stato concepito come un’opera di narrazione trasversale, e attraverso punti di vista diversi, anche i più lontani tra loro, costruisce una rete segnata dalla dimensione della scoperta. Nelle precedenti edizioni sono stati affrontati temi come la salute mentale, il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali, stimolando il coinvolgimento, il dibattito e la riflessione di tutti i partecipanti. “Non si può tornare indietro e cambiare l’inizio ma si può iniziare da dove ci si trova e cambiare il finale”, recita l’adagio, significativo, che caratterizza Transistor 2024. Prima giornata venerdì 1 novembre. si inizierà con un evento inside presso l’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu alle ore 15:30, dove verrà rappresentato Cronaca di una detenzione scenica, con i ragazzi astretti nell’IPM e i Cuori di Panna Smontata, gruppo della Scuola di arti sceniche La Vetreria del Cada Die Teatro. Si tratta del frutto di un laboratorio teatrale che ha preso vita tra le mura del carcere minorile di Quartucciu e la Scuola arti sceniche La Vetreria di Pirri a Cagliari, sviluppatosi come un dialogo continuo tra dentro e fuori che ha coinvolto giovani detenuti e ragazzi che non appartengono al contesto carcerario, incontrandosi e confrontandosi all’interno dello spazio scenico del teatro, della musica, della scrittura e dell’arte, condividendo un percorso comune. Ad avviso di Mauro Mou “Cronaca di una detenzione scenica rompe le barriere e supera i preconcetti, portando il pubblico a vedere i giovani detenuti non solo come ‘colpevoli’, ma come ragazzi con storie, sogni e desideri. Le parole e i corpi si fanno veicolo di emozioni, di dialoghi e narrazioni intense che sfidano l’idea di reclusione, per restituire l’umanità e la dignità a chi, in quel momento, vive una condizione di marginalità. È una cronaca che si muove sul filo delle emozioni, in cui l’arte del teatro diventa strumento di dialogo, di ascolto e di incontro, abbattendo muri e creando nuovi ponti tra chi è dentro e chi è fuori”. Sabato 2 è la giornata clou del festival, quella aperta agli eventi pubblici. Al Centro d’Arte e Cultura La Vetreria, alle ore 10:30, viene riproposto in versione outside Cronaca di una detenzione scenica con solo i Cuori di Panna Smontata. A seguire si terrà un breve incontro con la compagnia teatrale Puntozero, dell’IPM Cesare Beccaria di Milano. Alle ore 11:30 sarà il momento della conferenza “Sprigioniamo l’utopia oltre il castigo: proposte educative e di comunità nel sistema penitenziario minorile, un momento di confronto e riflessione per provare a immaginare un carcere che non sia un luogo di privazione ma uno spazio di crescita e di rinascita. Un luogo dove i giovani, che hanno commesso errori, trovino non solo la possibilità di riflettere sulle loro azioni ma anche le risorse per rimettersi in cammino con una nuova consapevolezza. “Un luogo senza giudizio - sottolinea ancora Mou - dove ogni ragazzo, indipendentemente dal reato commesso, venga visto non come un ‘colpevole’ irrecuperabile, ma come un giovane con potenzialità da riscoprire, con l’idea che si può cambiare, migliorare e tornare a essere una parte positiva della società”. Si parlerà di tutto questo con Maria Gabriella Serra, Funzionario della professionalità pedagogica del Centro Giustizia Minorile per la Sardegna; Barbara Cadeddu, esperta di sviluppo urbano e innovazione sociale, con l’intervento È possibile superare la visione custodialista alla base del modello carcerario dominante? Riflessioni, spunti e utopie realizzabili attraverso i progetti sull’Istituto Minorile di Quartucciu; Gianni Loy, Garante dei diritti dei detenuti della Città Metropolitana di Cagliari, che si soffermerà sulle Problematiche generali dei detenuti; Elena Argiolas, dell’Associazione Antigone, che rifletterà sui Dati generali sugli IPM in Sardegna e in Italia, con un focus sulla situazione attuale del trattamento dei detenuti minori; Annina Sardara, esperta in programmi di giustizia riparativa e formatore; Ugo Bressanello, della Fondazione Domus de Luna, che affronterà il tema Cosa succede dopo il carcere. Dalle ore 10:00 sarà visitabile Sprigioniamo l’utopia, installazione/laboratorio a cura di Francesca Pani, realizzata grazie alla collaborazione di Barbara Cadeddu e degli studenti del Liceo Scientifico Pacinotti di Cagliari. Attraverso un laboratorio di architettura (e di umanità), un modo per riflettere sulle strutture detentive come luoghi fisici e non solo. Le note di presentazione recitano Il carcere è una città invisibile nascosta dietro spesse mura; dentro o fuori dalla città, possibilmente lontano dagli occhi di tutti. Ma è sufficiente entrare una sola volta per vedere i muri che la circondano iniziare a sgretolarsi. L’umanità che si trova al suo interno è così spiazzante e allo stesso tempo così normale che dopo averla conosciuta non è più possibile fare a meno di vederla. I muri del carcere, fatti di mattoni, cemento, ma anche di paura, pregiudizio e indifferenza, iniziano a farsi trasparenti, leggeri. Terminata la sessione mattutina del festival si riprenderà poi alle ore 18:00 con “Portami là fuori”, laboratorio di teatro e rap negli istituti penali per minorenni. Una prova pratica a cura di CCO con i suoi formatori che lavorano in sette istituti penali per i minorenni sul territorio nazionale, la compagnia teatrale Puntozero (IPM Beccaria di Milano) e i cantanti e musicisti che saranno protagonisti del concerto successivo che chiuderà la serata. Prima, alle ore 20:00, incursioni dei clown poliziotti, una manganellata di risate con Pasquale Imperiale e Vincenzo De Rosa (Teatro del Sottosuolo), e alle 20.30 gran finale dove a farla da padrona sarà soprattutto la musica rap: nel concerto outside Castigo Showcase sul palco nella Corte della Vetreria di Pirri saliranno Verena, Dinastia, Dr. Drer & CRC posse, Zù Luciano, Willy Valanga, 1989, Kento, Lucariello. Domenica 3 novembre l’ottava edizione di Transistor Nuove Generazioni si chiuderà con un altro appuntamento inside nell’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu, alle ore 10:30, per gli ospiti della struttura carceraria gli stessi cantanti e musicisti della sera precedente si esibiranno nel concerto Castigo Showcase. Il festival Transistor è realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura, della Regione Sardegna (Assessorato alla Cultura), del Comune di Cagliari, della Municipalità di Pirri e la collaborazione della Fondazione Domus de Luna e della Fondazione Alta Mane Italia. Aiutare i giovani ad immaginare un futuro diverso da quello a cui pensano di essere destinati: questo lo scopo di CCO (Crisi Come Opportunità), una realtà associativa che da oltre dieci anni realizza documentari, pubblicazioni, video testimonianze, spettacoli teatrali, campagne di sensibilizzazione e progetti formativi lavorando nelle periferie, nelle carceri minorili e nelle scuole del Paese, trattando tematiche legate alla cittadinanza attiva, alla questione di genere e alla lotta alle mafie. Capofila del progetto Presidio culturale permanente negli istituti penali per minorenni, nato da un’idea di Luca Caiazzo, in arte Lucariello e socio dell’associazione, CCO organizza per i minori di istituti e comunità, incontri bisettimanali con artisti e formatori qualificati, guidando i ragazzi nella scrittura e nella registrazione di musica rap, ma anche nella messa in scena di spettacoli teatrali e cortometraggi d’autore. Un presidio concepito allo scopo di proteggere e supportare giovani in momentanea difficoltà; culturale perché sfrutta le enormi potenzialità dell’arte, della musica, del teatro e della cultura per concentrare le energie dei giovani nella costruzione di un significato concreto di realizzazione; permanente, non momentaneo o sporadico, perché solo il lavoro costante e tangibile può allontanare dal senso di abbandono. Un nuovo vangelo secondo Matteo? di Glauco Giostra volerelaluna.it, 31 ottobre 2024 Dal Santo Padre ci giungono sempre parole e opere di fraterna misericordia verso gli ultimi. Ha più volte accoratamente esortato ad essere vicini ai detenuti; ad aprire finestre di speranza; con infinita umiltà ha anche affermato “anche io avrei potuto essere tra gli “scartati” di oggi. Perciò nel mio cuore rimane sempre quella domanda: perché loro e non io?”. Non molto tempo fa ha pranzato nel carcere di Verona con decine di detenuti e ha annunciato: “per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta santa in carcere” in occasione del prossimo Giubileo. In tono non meno accorato, poi, Papa Bergoglio ha raccomandato l’accoglienza nei confronti dei migranti, che “sono volti e non numeri”, sono “persone che non si possono semplicemente classificare, ma che occorrerebbe abbracciare”. Parole ed opere molto belle e appassionate, ma - non suoni irriverente osservarlo - decisamente datate. Il sottosegretario alla Giustizia on. Del Mastro delle Vedove al termine di una visita a un penitenziario ha proclamato stentoreamente e sdegnosamente di essersi rifiutato di incontrare i reclusi, perché lui non si inchina “alla Mecca dei detenuti”. Il ministro Salvini ha affermato che bisogna riportare indietro gli immigrati “scaricarli sulle spiagge, con una bella pacca sulla spalla, un sacchetto di noccioline e un gelato”. Si tratta di prese di posizione molto importanti non solo per il ruolo istituzionale dei protagonisti, ma per la loro proclamata fede religiosa. L’on. Del Mastro delle Vedove è stato tra i principali promotori del Gruppo interparlamentare per la difesa del Cristianesimo nel mondo. Il ministro Salvini ha svolto l’ultima campagna elettorale con un crocifisso sempre a portata di mano e di esibizione, talvolta devotamente baciandolo durante pubblici comizi. Immagino che il Santo Padre sia ancora legato alla autorevole, ma datata testimonianza apostolica, secondo cui il Signore rivolto ai giusti avrebbe spiegato loro “ero forestiero e mi avete ospitato … ero carcerato e siete venuti a trovarmi”; sappiate che “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi, rivolto agli altri: “Via, lontano da me, maledetti, (…) ero straniero e non mi avete accolto; (ero) malato e in carcere e non mi avete visitato” (Vangelo secondo Matteo, 35,44). Oggi domina, però, un altro verbo. Si impone forse un doveroso aggiornamento. In sintesi: quanto ai migranti, “siamo stufi che in Italia entrino cani e porci” e quanto ai condannati per gravi reati, bisogna “gettare le chiavi” e lasciarli “marcire in galera” (Vangelo secondo Matteo, 2024). Migranti. “Paesi sicuri”, decreto sparito. E il Governo aggira le Camere di Kaspar Hauser Il Manifesto, 31 ottobre 2024 Il Governo ha deciso ieri di non far convertire dal Parlamento il Decreto Paesi sicuri, ma di trasformarlo in un emendamento al Decreto flussi il cui iter è più avanzato. L’annuncio è stato dato alle due riunioni delle conferenze dei capogruppo di Camera e Senato, dopo che nei giorni scorsi il decreto era stato presentato prima a Montecitorio per la sua conversione, e poi ritirato e ripresentato a palazzo Madama. Sarebbe sbagliato commentare in tono irridente la decisione di ieri del governo - che ha suscitato l’indignazione delle opposizioni - perché quella in gioco non è inettitudine, bensì spregiudicatezza. Il nostro giornale ha raccontato ieri come il governo ha presentato il 23 ottobre il decreto Paesi sicuri alla Camera, solo perché in quei giorni non erano previste sedute del Senato, necessarie per la trasmissione del provvedimento; poi, con disinvoltura, lunedì sera il testo era stato ritirato da Montecitorio e ripresentato a palazzo Madama nella seduta di martedì. Era stato infatti promesso ai senatori della maggioranza di permettere l’esame da parte loro in prima lettura. Improvvisamente ieri il ministro Luca Ciriani ha annunciato che il governo chiede che il decreto non venga esaminato e convertito nemmeno dal Senato, perché sarà trasformato in un emendamento al decreto flussi, che la commissione Affari costituzionali della Camera sta già esaminando (martedì sera sono giunti 300 emendamenti) e che sarà convertito prima. Immediata la reazione delle opposizioni, con i capigruppo di Pd e Avs, Francesco Boccia e Peppe De Cristofaro, che hanno parlato di “umiliazione del parlamento”, mentre per Dario Parrini, Pd, si è trattato di una “violenza procedurale”. Infatti con questo trucco a cui l’esecutivo è già ricorso, ha evidenziato Parrini, al parlamento non vengono concessi i 60 giorni di tempo per convertire il decreto previsti dalla Costituzione. Dunque, già esiste ormai di fatto un monocameralismo alternato per l’esame dei decreti; in più alcuni di questi hanno un esame accelerato e privo di controllo parlamentare. Questo secondo aspetto è quello che spinge a parlare di spregiudicatezza istituzionale del governo. Quando l’esecutivo presenta un provvedimento in parlamento, la commissione di merito svolge delle audizioni che possono mettere in evidenza criticità; ed è questa fase imbarazzante che il governo ha deciso di evitare per il decreto Paesi sicuri, per il quale i giuristi chiamati in audizione avrebbero potuto sottolineato l’incongruenza con le norme e la giurisprudenza Europea, e quindi la sua sostanziale inutilità e inapplicabilità. La trasformazione in emendamento evita anche il vaglio da parte del Servizio studi di Montecitorio o di palazzo Madama, che per gli atti del governo prepara un dossier di lettura in cui si segnalano eventuali punti dubbi (con eleganza i funzionari esortano “si valuti l’opportunità di modificare…”). I dossier e le audizioni sono strumenti utili ai parlamentari per il controllo dei provvedimenti del governo, che con questo escamotage impedire l’attività di controllo del parlamento, dopo che quella legislativa gli è stata sottratta da tempo. Ci sono poi i precedenti di altri decreti di dubbia legittimità, che ci fanno cogliere la disinvoltura istituzionale, specie dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. Nel decreto Cutro, l’articolo che impedisce alle navi delle Ong di salvare i naufraghi, è stato riformulato cinque volte con altrettanti emendamenti del governo in Senato, per la difficoltà a giungere a un testo promulgabile dal Quirinale; il decreto rave party è stato riscritto tre volte, e altrettante il decreto Caivano. Trasformato in emendamento, il decreto Paesi sicuri potrà essere scritto e riscritto senza tante disinibizioni dai due ministeri, lasciando il parlamento davanti a un prendere o lasciare. Migranti. Paesi sicuri, il blitz del governo. E la Lega vuole la riforma anti-Ue di Federico Capurso La Stampa, 31 ottobre 2024 La norma diventa un emendamento al decreto Flussi. Le opposizioni insorgono: “Così il governo umilia le Camere”. Mentre Giorgia Meloni difende a spada tratta il protocollo con l’Albania, scommettendo sul suo funzionamento, il suo governo e le truppe parlamentari sono in grande agitazione. Il decreto approvato una settimana fa, con cui veniva data forza di legge alla lista dei Paesi sicuri, è stato trasformato ieri in un emendamento al decreto Flussi, ora in discussione alla Camera. Un blitz che taglia i tempi dell’approvazione e scatena la protesta delle opposizioni, già in agitazione per l’iniziativa annunciata dalla Lega, che vorrebbe “mettere ordine alla gerarchia delle leggi” e limitare, così, le fonti di diritto europee. L’emendamento - L’emendamento sui Paesi sicuri, già depositato, è fondamentale per il governo. Il centrodestra vuole dare a quella lista la forza di una legge per evitare che dai tribunali arrivino nuove sentenze con cui si annullano le procedure di rimpatrio accelerato dei migranti. E con questa trasformazione in emendamento il governo taglia soprattutto i tempi, perché non poteva permettersi di inserire un altro decreto all’interno del calendario dei lavori d’Aula, già sufficientemente congestionato. “La decisione non vuole assolutamente ledere le prerogative parlamentari”, prova a tranquillizzare il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani. Per Ciriani, “essendo i due provvedimenti strettamente connessi tra di loro riteniamo opportuno che vengano esaminati insieme”. Le polemiche - Per le opposizioni, però, “così si umiliano le Camere”, come sostiene la presidente dei deputati del Pd, Chiara Braga. E le fa eco il capogruppo Dem in Senato, Francesco Boccia, che ritiene le spiegazioni di Ciriani “una presa in giro: in questo modo la destra e il governo mettono la museruola al Parlamento, dopo aver provato a metterla anche ai giudici”. Lo scontro si trasferisce in Aula, dove Boccia attacca il presidente della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni, di Fratelli d’Italia, accusandolo di “confondere la lealtà con la fedeltà. La fedeltà è dei cani”, punge il capogruppo del Pd. Balboni insorge: “Non sono un cane, ma un senatore che merita rispetto. Io la fedeltà la riservo alla Repubblica” e conferma che darà spazio alle audizioni nella sua commissione, ma sul testo dell’emendamento, non del decreto. L’affondo della Lega - Il clima all’interno del Parlamento era teso fin dalla mattina. Già nelle prime ore Matteo Salvini aveva iniziato ad alzare il tiro contro “i giudici con la bandiera rossa”, i magistrati che “fanno politica in tribunale”, il tribunale di Bologna che prende “una decisione anti-italiana”. Quando poi il senatore della Lega Claudio Borghi ha proposto di rivedere la gerarchia delle leggi, il centrosinistra ha iniziato a suonare l’allarme. Il partito di Salvini vorrebbe evitare che si ripetano episodi come quello della recente sentenza della Corte di giustizia europea sui Paesi sicuri, attraverso la quale i giudici italiani hanno potuto disapplicare una legge nazionale e annullare il rimpatrio di alcuni migranti, prima a Roma, poi a Bologna (dove si è chiesto di nuovo alla Corte Ue di intervenire). Ma quello del Carroccio è un tentativo “pericoloso” - sottolineano nel centrosinistra - perché “mina l’indipendenza dei poteri”. Borghi vorrebbe comunque partire con delle audizioni di giuristi e costituzionalisti in commissione Affari europei. “Ne ho parlato nel partito, Matteo Salvini è informato, tutti condividono l’iniziativa - assicura il senatore leghista -. E la convocazione dei giuristi non sarebbe certo fine a sé stessa, l’obiettivo è quello di fare chiarezza con un intervento legislativo”. L’idea, per ora, è di andare verso un “modello tedesco rafforzato”, inserendo una clausola che permette di sancire la superiorità della Costituzione su alcune fonti del diritto europeo. Prima ancora delle opposizioni, però, sono gli alleati quelli meno entusiasti. Per Forza Italia, secca: “Tanto vale chiedere l’uscita dall’Europa”. E anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, di Fratelli d’Italia, fatica a nascondere le sue perplessità: “Non dobbiamo finire come i Galli di Asterix, impegnati a difendersi da un assedio - dice a La Stampa -. È nello spazio europeo che si afferma il diritto giurisprudenziale italiano. Siamo uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea”. Migranti. Un Paese che perseguita alcuni dei sui cittadini non può essere sicuro di Gianfranco Schiavone L’Unità, 31 ottobre 2024 Confido che la Cgue faccia chiarezza sulla corretta applicazione del diritto europeo in una materia che ha subito pesanti interferenze politiche per obiettivi che nulla hanno a che fare con il diritto di asilo. L’ordinanza del Tribunale di Bologna (R.G. 14572-1/2024) del 25.10.24 sui paesi di origine sicuri è di grande rilevanza in quanto affronta questioni cruciali della normativa europea su questa tematica. Si tratta di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., ovvero un procedimento con il quale il Tribunale chiede quale sia la corretta interpretazione delle norme dell’Unione che vanno applicate, attuata nell’ambito di una decisione di merito sul rigetto della domanda di asilo di un cittadino del Bangladesh. Le questioni sono ben due: con il primo rinvio il Tribunale interpella la CGUE per sapere se “in caso di contrasto fra le disposizioni della Direttiva 2013/32/UE in materia di presupposti dell’atto di designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro e le disposizioni nazionali, sussista sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare queste ultime, in particolare se tale dovere per il giudice di disapplicare l’atto di designazione permanga anche nel caso in cui detta designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria”. Il riferimento è chiaramente alla decisione del governo italiano di prevedere, con il dl 24.10.24 n.158 non ancora convertito in legge, che l’indicazione del governo su quali siano i paesi di origine sicuri abbia forza di legge. Anche richiamando alcune importanti decisioni della stessa CGUE, il Tribunale di Bologna sostiene però, ritengo con piena ragione, che in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le normative Ue hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli stati membri, di rendere inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante contenuta nella legislazione nazionale di un dato paese. Ad avviso del Tribunale “il pericolo di trasferimenti coatti da un paese all’altro, che siano eventualmente valutati ex post in contrasto con il diritto europeo, non può essere prevenuto con il giudizio di convalida” ed è per questa ragione che ha ritenuto di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte europea. L’altro rinvio alla CGUE riguarda l’annosa questione della nozione stessa di paese di origine sicuro. Come ho già richiamato su queste pagine il 23.10.24 la nozione di “Paese di origine sicuro” è disciplinata dalla Direttiva 2013/32/ UE ed in particolare dal suo allegato n.1 in base al quale si può considerare di origine sicura un paese in cui, “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Per effettuare tale valutazione si deve tenere conto dell’insieme delle normative del Paese in questione e la loro effettiva applicazione, del rispetto del divieto di non-respingimento, dell’esistenza di un sistema giudiziario indipendente e della connessa possibilità per la persona di accedere a forme di ricorso effettivo, nonché del “rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura”. Alla luce di tali criteri di valutazione, il Tribunale bolognese chiede alla CGUE se “il parametro sulla cui base debbono essere individuate le condizioni di sicurezza che sottendono alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro debba essere inderogabilmente individuato nella carenza di persecuzioni dirette in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli appartenenti a specifici gruppi sociali e di rischi reali di danno grave” nei confronti degli stessi gruppi e “in particolare se la presenza di forme persecutorie o di esposizione a danno grave concernenti un unico gruppo sociale di difficile identificazione - quali ad esempio le persone Lgbtqia+, le minoranze etniche o religiose, le donne esposte a violenza di genere o a tratta ecc... - escluda detta designazione”. Il ragionamento condotto dalla sezione specializzata in materia di asilo del Tribunale di Bologna mi sembra estremamente limpido e stringente. Il Tribunale osserva, a ragione, che “il sistema della protezione internazionale è, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori, statuali o meno. Salvo casi eccezionali (lo sono stati, forse, i casi limite della Romania durante il regime di Ceausescu o della Cambogia di Pol Pot), la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte” (…). Sempre il Tribunale evidenzia che “se si dovesse ritenere sicuro un paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i paesi del mondo, e sarebbe, dunque, una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica”. Ad avviso del Tribunale emiliano, dunque, l’obbligo, contenuto nel diritto unionale, di escludere dalla nozione di paese di origine sicuro un paese se in esso si verificano generalmente e costantemente persecuzioni va inteso nel senso di “escludere la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro se nello stesso vi sono fenomeni endemici di persecuzione rivolta verso minoranze, anche piccole, della popolazione, in specie se le stesse non siano immediatamente identificabili”. Su un percorso interpretativo del tutto opposto si è mosso il governo italiano, impugnando presso la Corte di Cassazione (Cont. 34729/24) la nota ordinanza della sezione specializzata in materia di asilo del Tribunale di Roma del 18.10.24 (RG 44260/2024), con la quale non ha convalidato il trattenimento dei richiedenti provenienti da paesi ritenuti sicuri dal governo italiano (Bangladesh ed Egitto) nei centri previsti dal protocollo tra Italia ed Albania. Nel ricorso, il governo ritiene che il Tribunale di Roma abbia affermato un principio di diritto errato e che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre 2024 escluda dalla nozione di paese di origine sicuri solo quei paesi “che presentino eccezioni per alcune parti del proprio territorio” e che un Paese possa essere considerato di origine sicuro anche se vi sono invece persecuzioni e danni gravi verso determinate categorie di persone e il richiedente asilo non invochi gravi motivi per cui ritiene che in ragione della sua specifica condizione soggettiva, il paese non sia sicuro. Secondo il Tribunale di Bologna, invece, “la contrazione dei tempi della procedura di prima istanza può trovare giustificazione soltanto quando il paese di origine non presenti alcuna forma di persecuzione diretta contro gruppi sociali minoritari, sicché appare coerente che in tal caso la persona invochi da subito la propria specifica “situazione particolare” in ragione della quale il proprio paese non sia sicuro per lei”. Confido che la Corte di Giustizia dell’Ue, investita dal rinvio pregiudiziale del Tribunale di Bologna, faccia dunque chiarezza sulla corretta applicazione del vigente diritto dell’Unione in una materia che può presentare indubbiamente profili di non limpida chiarezza, ma che è stata oggetto di assai pesanti interferenze politiche finalizzate a traghettare indebitamente la nozione di “paese di origine sicura” dall’ambito giuridico normativo a quello di “atto politico” utilizzabile discrezionalmente dal potere esecutivo per finalità di politica internazionale del tutto estranee al diritto d’asilo. Ritengo che l’interpretazione del diritto Ue che viene prospettata dal Tribunale di Bologna sia pienamente corretta; un paese di origine di uno straniero che chiede asilo alla Repubblica italiana può presuntivamente essere considerato sicuro (legittimando dunque l’applicazione di misure di forte contrazione dei diritti del richiedente in sede procedurale) solo se, come dispone il citato allegato alla direttiva 2013/32/UE, si può ragionevolmente concludere che il Paese in oggetto abbia un ordinamento di base democratico che sia rispettato nella sostanza. È contraddittorio ed incoerente ritenere che un dato Paese possa perseguitare sistematicamente ed impunemente intere categorie di persone e gruppi sociali, preservando nonostante ciò la natura di stato di diritto. Quando ciò avviene, il rischio di esposizione a persecuzioni e violenze non è circoscrivibile ai gruppi sociali “target”, ma investe potenzialmente la popolazione in generale, e il Paese non può certo essere considerato di per sé sicuro. La violenza e il giudizio della storia di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 31 ottobre 2024 È lecito fare il male per vincere il male? E può essere questo il modo di operare di un Paese democratico? Spetta alla politica assumersi la responsabilità di decidere, anche nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte. Quanto accade in Medio Oriente tra Israele e i suoi vicini - certo non da oggi, ma oggi con particolare evidenza - ripropone un tema cruciale: il rapporto tra democrazia e violenza. Lo fa interrogando sempre più spesso la coscienza di molti con una domanda: può un Paese democratico, com’è senza dubbio Israele, e sia pure nel corso di una guerra, usare la violenza in modi che spesso appaiono smisurati e perciò crudeli? Un regime democratico non dovrebbe porsi dei limiti per non correre il rischio di contraddire i suoi stessi principi? La domanda è più che legittima. E tuttavia, se la storia conta qualcosa, ebbene allora la storia della democrazia - cioè la democrazia reale, non quella che a noi piace immaginare - mostra che essa ha spesso e volentieri (per non dire quasi sempre) praticato la violenza sia all’interno sia all’esterno dei confini. Rispetto ad essa non ha mai eretto un rifiuto di principio o di fatto. Tralascio di riandare troppo indietro nel tempo. Di ricordare ad esempio come la democrazia è nata e si è affermata: la sua frequente decisione di sterminare i propri nemici, la sua propensione a “negare la libertà ai nemici della libertà”, di alzare ghigliottine e tribunali popolari, di mettere “il terrore all’ordine del giorno”. Sempre, ovviamente, allo scopo di rispondere a coloro che si opponevano alla sua affermazione o molto più spesso alle conseguenze che i suoi sostenitori volevano trarne. Anche dopo avere vinto le guerre, la democrazia non sembra essersi dimostrata troppo propensa storicamente ad andarci leggera con i vinti. Terminata la guerra civile americana, ad esempio, i bianchi degli Stati del Sud pagarono la sconfitta con anni di una durissima, oppressiva discriminazione. Siamo figli o eredi di una storia siffatta, forse dovremmo ricordarcelo più spesso. Anche la democrazia europea occidentale, con i suoi diritti e le sue ottime costituzioni, non è nata da un referendum popolare o da un’assemblea di illuminati legislatori. È nata, se vogliamo stare ai fatti, dalla vittoria riportata dai “buoni” contro i “cattivi” in una guerra terribile in cui il maggior numero dei morti non si è verificato tra i soldati ma tra i civili. Sì, tra i civili: precisamente come oggi sta accadendo a Gaza e dintorni, se è permesso ricordarlo. Gli Alleati ebbero la meglio sulla Germania nazista bombardando tutto quello che potevano bombardare, polverizzando scuole e ospedali senza preoccuparsi in alcun modo di chi ci stava dentro. Gli ordigni al fosforo piovuti su Amburgo o Dresda ammazzarono nel modo più atroce donne, vecchi e bambini, non schiere di Waffen SS pronte al combattimento. E si trattò, come sappiamo, solo di una blanda anticipazione di quello che sarebbe accaduto a Hiroshima e Nagasaki. È ben noto anche il trattamento che l’Armata Rossa riservò alla popolazione femminile tedesca: per settimane e settimane una serie ininterrotta di crimini di guerra. Eppure non ricordo che in tutti questi decenni ci sia stato mai nessuno nel grande campo della democrazia europea, nessun intellettuale importante, nessun partito, nessun esponente religioso, che su quanto accaduto allora, sull’atto di nascita di una storia che fino a prova contraria è la nostra storia, abbia avuto qualcosa da ridire, si sia almeno posto una domanda. La terribile domanda: è lecito fare il male per vincere il male? Davvero un singolare contrasto con la situazione odierna, quando invece a proposito del conflitto in Medio Oriente tanti sembrano conoscere la risposta giusta e non esitano a gridarla ai quattro venti. Il fatto è che in tutto questo tempo il nostro giudizio sulle cose aspre e dure del mondo, sui conflitti che coinvolgono i popoli e gli Stati, tale giudizio, dicevo, da storico e politico che era in precedenza ha preso sempre di più un carattere diverso. Sempre di più si è tramutato in giudizio etico-giuridico. Convincendoci di conseguenza che sia solo il diritto - incarnato nelle leggi, nei trattati e nelle organizzazioni internazionali con i relativi tribunali - a poter definire che cosa è giusto e che cosa non lo è. Ma l’etica non può essere ridotta al diritto puro e semplice e ai suoi enunciati. Le contese umane, lo scontro dei valori, le emozioni degli individui e dei popoli - tutto ciò che muove la politica e di cui allo stesso tempo la violenza si alimenta - non sopportano oltre una certa misura di essere racchiuse nella definizione formale e astratta delle fattispecie giuridiche. Rimane sempre uno spazio diverso e irriducibile dove a decidere è chiamato il nostro convincimento circa quello che in una determinata situazione l’insieme delle circostanze impone che “si debba” fare. La massima espressione della politica sta per l’appunto nell’assumersi questa responsabilità di decidere e nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte: ad esempio in quella di ricorrere alla violenza, magari la più feroce e distruttiva. Affidando il giudizio ultimo su una tale decisione e sulle sue conseguenze non a un tribunale, ma solo alla storia.