Un appello trasversale: l’amnistia è, oggi, una necessità volerelaluna.it, 30 ottobre 2024 Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage di vite e diritti nelle carceri italiane. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e di disperazione. Dall’inizio dell’anno ormai ben oltre settanta le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre, quanti non mai dall’inizio del secolo in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Ognuno di loro avrà avuto le proprie personali ragioni per arrivare a quella scelta ultima ed estrema, ma quelle morti ci interrogano sull’ambiente di vita e professionale in cui avvengono e sulle sue croniche carenze. Sono ormai 62.000 i detenuti nelle carceri italiane, circa quattordicimila in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il carcere, i suoi operatori, i detenuti non ce la fanno più. Anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di abbattere la recidiva attraverso il potenziamento della formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo dei detenuti, per potersi avverare hanno bisogno di ridimensionare il numero dei detenuti in modo che gli operatori possano seguirli efficacemente. Per non dire della prevenzione del rischio suicidario e della necessaria assistenza sanitaria. È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione. In ultimo, ricordiamo che - contrariamente a una errata opinione molto diffusa - quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti, Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze. Sottoscrivono: Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Michele Ainis, Mons. Vincenzo Paglia, Gaia Tortora, Giovanni Fiandaca, Gherardo Colombo, Clemente Mastella, Daria Bignardi, Mauro Palma, Francesco Petrelli, Tullio Padovani, Rita Bernardini, Dacia Maraini, Alessandro Bergonzoni, Mattia Feltri, Andrea Pugiotto, Ornella Favero, Franco Corleone, Patrizio Gonnella, Franco Maisto, Luigi Pagano, Grazia Zuffa, Valentina Calderone, Samuele Ciambriello. Per info e contatti: clemenzaperlecarceri@gmail.com Troppi detenuti e troppi suicidi, il Cpt incontra il ministro Nordio di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 ottobre 2024 Il Comitato per la prevenzione della tortura in via Arenula. Finalmente l’esecutivo italiano ha accettato di incontrare il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Ad aprile, dopo la visita del Cpt nel nostro Paese, i final talks richiesti erano stati disertati dai ministri e sottosegretari del governo Meloni. Strasburgo non l’aveva presa bene, e ha elevato la richiesta al livello superiore, tipico delle situazioni problematiche con un determinato Paese. Gli high-level talks, cui avrebbe dovuto partecipare anche il ministro Piantedosi, sono stati invece accettati ieri dal Guardasigilli Carlo Nordio che in via Arenula ha ricevuto il Presidente del Cpt Alan Mitchell. “L’incontro è stata l’occasione per illustrare le iniziative avviate dal governo per affrontare le criticità del sistema carcerario”, ha fatto sapere il ministro. Alle richieste di chiarimento del Consiglio d’Europa riguardo il pericoloso trend con cui il sovraffollamento carcerario, i 77 suicidi dall’inizio dell’anno e la mancanza di un vero piano di reinserimento sociale dei detenuti, stanno avvicinando l’Italia al limite marcato dalla sentenza Torreggiani, Nordio avrebbe risposto - secondo la stessa comunicazione ministeriale - sostenendo che “le misure adottate dal governo sono in linea con gli standard indicati nel 31° Rapporto del Cpt”. Ma quando l’8 gennaio 2013 la seconda sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione e diede ragione ai sette detenuti che avevano fatto ricorso per aver scontato la pena in celle dove ciascuno di loro aveva a disposizione uno spazio minore di 3 metri quadri, nella sentenza i giudici di Strasburgo scrissero: “Il sovraffollamento è una questione di diretta attinenza al mandato del Cpt. Tutti i servizi e le attività in un carcere sono influenzati negativamente se occorre farsi carico di un numero di detenuti maggiore rispetto a quello per il quale l’istituto è stato progettato”. La “sentenza Torreggiani”, che condannò l’Italia a pagare un risarcimento a ciascun ricorrente, fu qualificata come “pilota”, nel senso che da allora in poi viene applicata in automatico a chiunque faccia ricorso per aver subito il sovraffollamento carcerario. Allora, nei penitenziari italiani erano ristrette 65.701 persone in 49.610 posti regolamentari di cui 3.970 non disponibili. Oggi, con 62 mila detenuti in 51.196 posti regolamentari di cui 4.445 non disponibili, non siamo ancora a quei livelli ma il trend è pericolosamente in crescita repentina. “Solo nell’ultimo anno sono quasi 3.000 i detenuti in più presenti nelle carceri”, fa notare l’associazione Antigone. Questo dato, insieme all’alto tasso di suicidi in carcere e ad una cattiva interpretazione della “sicurezza dinamica”, che prevede l’apertura delle celle per gran parte della giornata ma che non è vista di buon occhio dai sindacati della polizia penitenziaria, sono segni che destano forte preoccupazione a Strasburgo. Ma per il Guardasigilli è tutto sotto controllo: con il nuovo Commissario straordinario, Marco Doglio, il governo “ha avviato un piano di razionalizzazione ed ammodernamento del patrimonio edilizio carcerario” “utilizzando fondi inseriti nel Pnrr”; per la prevenzione dei suicidi “abbiamo triplicato - ha spiegato Nordio - le risorse destinate al coinvolgimento di esperti psicologi, passando da 4,5 milioni a 14,5 milioni di euro di investimenti”; la polizia penitenziaria, poi, può ritenersi soddisfatta delle “3.824” assunzioni, e per quanto riguarda i carceri minorili, “possiamo con sollievo affermare che non vi sono stati casi di suicidi”, mentre “nei riguardi dei giovani abbiamo avviato diversi progetti per favorire l’integrazione socio-culturale”. Se poi il 41bis, da regime di interruzione dei collegamenti con l’esterno è diventato “carcere duro”, per Nordio non è un problema: basta dire che “trae origine dalla norma ideata da Giovanni Falcone”. Se la Cedu si accontenterà o meno delle parole del ministro di Giustizia, è tutto da vedere. Carceri, Italia sotto esame del Comitato anti-tortura di Angela Stella L’Unità, 30 ottobre 2024 Il ministro ostenta ottimismo, però è stato l’organismo del Consiglio d’Europa a chiedere un incontro, preoccupato per lo stato delle nostre prigioni. L’ex presidente del Cpt e garante Palma avvisa: “Se la situazione non cambia, il Comitato dovrà ricorrere a strumenti che non si addicono a un Paese di tradizione democratica”. Il giorno dopo la denuncia dell’associazione Antigone per cui “il numero delle persone detenute nelle carceri italiane ha superato le 62.000 unità. Era dal 2013, cioè dall’anno della Sentenza Torreggiani con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati nelle carceri italiane” il Ministro Nordio ieri ha ricevuto a via Arenula il Presidente del Comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa, Alan Mitchell. L’impressione è che per il Ministro vada tutto bene, leggendo la nota diramata da via Arenula. Infatti in merito al sovraffollamento il Guardasigilli, ha ricordato l’avvio “di un piano di razionalizzazione ed ammodernamento del patrimonio edilizio carcerario sotto la guida del nuovo Commissario straordinario, Marco Doglio, finalizzato all’aumento dei posti detentivi anche attraverso la realizzazione di nuovi padiglioni”. Nordio ha poi affrontato con il presidente Mitchell il dramma dei suicidi nelle carceri, sul quale il Ministero sta intervenendo con grande attenzione: “abbiamo triplicato le risorse destinate al coinvolgimento di esperti psicologi, passando da 4,5 milioni a 14,5 milioni di euro di investimenti per la prevenzione dei suicidi; stiamo intervenendo in sinergia con altre amministrazioni come il Ministero del Lavoro e il Ministero della Salute, oltre che attraverso la collaborazione con l’associazionismo e con il mondo cattolico. Nei riguardi dei detenuti minorenni - ha precisato il Ministro possiamo con sollievo affermare che non vi sono stati casi di suicidi negli Ipm”. In realtà l’incontro di ieri, come ci spiegano fonti interne al Cpt, avviene su richiesta proprio del Comitato perché la situazione delle carceri italiane è ritenuta preoccupante dall’organismo internazionale. Il Cpt aveva visitato ad aprile i Centri di permanenza dei rimpatri italiani ma non si era riusciti ad avere un effettivo “final talk” con le autorità italiane né sulla situazione dei migranti né su quella carceraria. Da qui l’iniziativa di ieri anche per discutere di come l’Italia stia operando per dar seguito alle raccomandazioni dell’organismo internazionale che ha rilevato criticità per quanto concerne appunto il sovraffollamento, l’isolamento diurno, i suicidi, la mancanza di un vero approccio alla sorveglianza dinamica, l’applicazione oltre la ratio della legge del 41 bis. Per Mauro Palma, già Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e già presidente anch’egli del CPT, “in un contesto di colloquio che si è svolto serenamente ieri, il Cpt però ha ritenuto di dover precisare che si attende che le autorità italiane si attivino per risolvere quei problemi che da molto tempo vengono segnalati e di dare effettività alle raccomandazioni che continuano a rimanere inevase. Il Cpt è costretto a ripeterle, ma se la situazione dovesse permanere la stessa sarebbe costretto a ricorrere a strumenti che non si addicono a un Paese di tradizione democratica”. A ciò si aggiunge che ancora Riccardo Turrini Vita non occupa ufficialmente la poltrona di garante dei detenuti. Su questo Palma conclude: “c’è urgenza che la struttura torni ad essere pienamente funzionante anche con visite diverse da quelle fatte fino ad ora. Leggo di 58 visite in sei mesi: tuttavia per visitare un carcere e affrontare poi i problemi bisogna trattenersi a lungo e produrre rapporti pubblici su quanto osservato. Turrini Vita ha una lunga esperienza nel far funzionare le cose, anche sul piano internazionale; quindi spero che torni ad essere un luogo pienamente operativo per la tutela dei diritti dei detenuti e per la prevenzione di abusi”. Suicidi in carcere, il 2024 uno degli anni più neri anteprima24.it, 30 ottobre 2024 In Italia, nel 2024, si sono finora suicidati almeno 78 carcerati (di cui uno detenuto in un Cpr), contro i 70 del 2023 e gli 85 del 2022. In Emilia-Romagna si contano sette suicidi, a poca distanza dai nove del 2005. Negli ultimi 22 anni, nella regione, si sono tolte la vita ottanta persone. Numeri che rischiano di sottostimare il fenomeno, per il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali Gianpaolo Catanzariti: “Sui suicidi non esistono dati ufficiali, riteniamo che la stima di 78 sia in difetto rispetto al numero reale. Le morti per altre cause sono 114?. In generale, i numeri sono “la spia di un fallimento del sistema” testimoniato anche da altri fattori come il sovraffollamento e i dati sulla recidiva. “L’emergenza non sono i suicidi, è carcere”, sottolinea Catanzariti, secondo cui “il fallimento del carcere chiama in causa la politica, ma anche la magistratura”. Insomma “nessuno può chiamarsi fuori dall’emergenza” e “il governo non ha affrontato per nulla il tema dell’emergenza carceraria”. Tra le soluzioni suggerite da Catanzariti, “occorre una riforma complessiva del sistema dell’esecuzione della pena, poi l’amnistia ma soprattutto l’indulto”. Del tema si è parlato oggi a Bologna, a un convegno promosso dall’Osservatorio carcere della Camera penale di Bologna. Tra i presenti anche il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, che in vista del Giubileo 2025 e ricordando l’indulto del 2006 ha auspicato di “ritrovare una capacità di decisione che soltanto una convergenza più alta può permettere”. È intervenuta anche la deputata del Pd Debora Serracchiani, che ha puntato il dito contro le politiche del governo parlando di “panpenalismo emozionale: succede qualcosa e si fa un reato”, ha detto, ricordando il caso di Caivano e il ddl sicurezza. Collegato da remoto il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto che ha sottolineato, tra gli altri aspetti, la necessità delle pene alternative “che non facciano del carcere l’unica pena”. Le carceri sono una vera vergogna, ma non chiamatela più emergenza di Alessandra Mussolini Il Riformista, 30 ottobre 2024 La politica ignora il dramma negli istituti penitenziari: spendersi per i detenuti non porta voti. Intanto l’odio serpeggia, il riscatto sociale viene dimenticato e dilaga il desiderio della vendetta. L’errore da non commettere quando si parla della situazione delle carceri italiane è quello di fare ricorso al termine “emergenza”. Perché quando lo si fa, e accade molto spesso, si nega la vera natura del problema. Non occorre compulsare un dizionario per capire che ci si riferisce a un’emergenza quando si ha a che fare con una circostanza imprevista. Ebbene, il sovraffollamento degli istituti di pena e le conseguenti condizioni indegne di detenzione non hanno proprio nulla di imprevisto. L’emergenza, semmai, scatta nell’agenda pubblica quando - in seguito a rivolte e tragici suicidi - proprio non si può fare a meno di affrontare l’argomento. Allora ecco che si sciorinano i noti luoghi comuni e le frasi fatte, che non voglio ripetere. Non perché quei motti e princìpi non siano giusti e capaci di rappresentare il problema, ma perché trovo che ormai sia divenuto addirittura offensivo ripeterli. Se emergenza non è, e non lo è, allora dobbiamo fare i conti con qualcosa che non funziona. E non giova prendersela solo con quei cattivoni dei politici, perché la responsabilità va invece ricercata in modo più ampio e diffuso a livello dell’intera società. Certo, chi ha responsabilità di governo e l’onere di amministrare la cosa pubblica oggi come ieri - avrebbe anche il dovere di adoperarsi in modo concreto ed efficace, ma dobbiamo anche capire quale sia il vero motivo per cui la politica resta invece generalmente inerte, salvo invocare periodicamente la leggendaria emergenza. La settimana scorsa in questa rubrica ho provato a parlare dell’odio. A quel proposito avrei voluto far cenno anche alla situazione delle carceri, ma mi sono resa presto conto che sarebbe stato più opportuno dedicarmi a questo collegamento separatamente. Che c’entra dunque l’odio con le carceri affollate? C’entra, eccome. Perché l’inerzia della politica si fonda su un problema di consenso. Occuparsi delle carceri e delle condizioni dei detenuti, infatti, non fa vincere le elezioni e quindi la gran parte dei politici ritiene che l’argomento non sia centrale. Un grave errore, perché interrompere il circolo vizioso delle recidive è l’unico modo per garantire maggiore sicurezza ai cittadini. E questo sì che farebbe vincere le elezioni. Si pensa però sempre al breve periodo. In termini, ci risiamo, emergenziali. Mettendo toppe, facendo comunicati zeppi di buone intenzioni, per poi rimandare e rimandare ancora. Ma l’odio? Eccolo qui: il dibattito avvelenato da questo sentimento, associato all’insicurezza che i cittadini percepiscono - non solo nelle strade ma anche nelle loro case - genera nei confronti degli autori dei delitti un desiderio che è di pura vendetta e non, come dovrebbe essere, di ferma, severa e civile giustizia. Moltissimi, questo è il punto, non solo vogliono i colpevoli in prigione ma vogliono anche che lì stiano male. Malissimo, il peggio possibile. L’idea che, non so quanto inconsapevolmente, prende corpo è quella che confonde la detenzione con la pena corporale, tale che l’espiazione sia vera e propria sofferenza fisica. La politica (riferiamoci così, in senso generale, a tutti coloro che dovrebbero prendere delle decisioni in merito) è ben consapevole di questo. E anche se non sempre condivide, sceglie di esporsi sul tema il minimo indispensabile. Per questo parlare di carceri come di un’emergenza non è solo un errore, ma anche e soprattutto un atto di viltà. Seconda Chance, Responsabilità sociale e crescita dei brand limprenditore.com, 30 ottobre 2024 Un progetto che punta al reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Un team instancabile, attivo da nord a sud, e in costante contatto con le imprese. Abbiamo intervistato la coordinatrice di Seconda Chance, Flavia Filippi, approfondendo l’impatto che l’impegno sociale delle aziende ha anche sulla loro immagine e competitività. Centinaia di opportunità di lavoro già assicurate a detenuti, affidati ed ex detenuti grazie alla disponibilità di centinaia di imprese, e giornate infinite per Flavia Filippi e la sua rete di referenti regionali e collaboratori dal nord al sud Italia: la giornalista del TgLa7 - che abbiamo intervistato per questo numero - coordina dal 2022 l’associazione no profit del terzo settore Seconda Chance, che porta avanti anche formazione, sport, svago e altro per migliorare la condizione della popolazione carceraria. Con un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che riconosce “la qualità dell’intervento capace di attivare, su diversi distretti del territorio, positivi accordi con il mondo dell’imprenditoria al fine di attuare percorsi di inserimento lavorativo extra-murario a beneficio di persone detenute”, in questi anni Seconda Chance è cresciuta, non senza difficoltà, e punta ad ampliarsi. Molte delle aziende associate a Confindustria si sono messe in gioco, con benefici win win e un impatto significativo anche sulla valorizzazione del brand: in un’era dove la responsabilità sociale è chiave di competitività, il fatto bene in Italia moltiplica il suo valore quando si sposa al fare bene all’Italia, alle persone. Da dove nasce e quali sono gli obiettivi di Seconda Chance? Il mio lavoro è un altro, sono una giornalista del TgLa7 e occupandomi di cronaca giudiziaria ho sempre avuto interesse per il mondo penitenziario. Ho creato il progetto Seconda Chance da sola all’inizio del 2021, procurando decine di offerte di lavoro per detenuti ed ex detenuti e arrivando a firmare protocolli d’intesa con aziende pubbliche e private. Nel 2022 Seconda Chance è diventata un’associazione no profit del Terzo Settore con referenti in ogni regione e collaboratori in varie città. Abbiamo un ruolo di cerniera tra le carceri e le imprese e siamo forti di un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La mission è quella di individuare aziende smart e di convincerle a venire a fare colloqui in carcere con noi. Ci aiuta un po’ il fatto di poter proporre le agevolazioni economiche della legge Smuraglia (193/2000), che offre sgravi fiscali a chi assume, anche part time e a tempo determinato, detenuti in articolo 21, cioè ammessi al lavoro esterno al carcere. Naturalmente si tratta di persone che le direzioni delle carceri considerano meritevoli e pienamente riabilitate, gente selezionata sulla base dei requisiti indicati dagli stessi imprenditori. Nonostante le forze limitate, Seconda Chance è un progetto affermato sull’intero territorio nazionale ed è per molti un importante punto di riferimento: la popolazione carceraria scrive continuamente a info@secondachance.net e interagiscono anche i direttori delle carceri, gli educatori, gli agenti di Polizia Penitenziaria sommersi dalle emergenze. Cerchiamo lavoro per chi è nella condizione giuridica adeguata per uscire dal carcere, ma anche per chi non è autorizzato a uscire. E dunque facciamo conoscere agli imprenditori anche la possibilità di fare impresa dentro: li portiamo negli istituti a visionare i capannoni/locali inutilizzati che le direzioni concedono in comodato d’uso gratuito. I costi del personale sono vantaggiosi. Lavanderie industriali, sartorie, officine, falegnamerie, call center, biscottifici, sono molteplici le attività commerciali che si possono avviare negli istituti sfruttando una manodopera che ha costi vantaggiosi e regalando tante seconde chance ai detenuti non ammessi a lavorare fuori. Quante sono le Pmi che negli anni hanno aderito e da che cosa generalmente sono mosse in prima battuta? Le offerte di lavoro procurate da Seconda Chance sono al momento 370. Hanno aderito al progetto aziende di ogni ordine e grado: dalla Fabbrica di san Pietro in Vaticano a Terna, McDonald’s, Conad Nord Ovest, Joule, Fiege Logistics, la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, l’Istituto Superiore di Sanità, il Gruppo Bosch, Acqua Vera, Acqua san Pellegrino, Gruppo Palombini, Autostrade per l’Italia, Fipe Confcommercio, Arcaplanet, Marchesini Group, Nespresso e tante altre. L’impegno sociale, oltre ad essere una prova tangibile del senso di responsabilità delle imprese, è anche una potente leva di valorizzazione del brand perché porta in evidenza i valori e la mission di un marchio. Il progetto Seconda Chance offre anche questa prospettiva. Venire con noi in carcere a fare colloqui, a conoscere persone che magari nei giorni precedenti si sono fatte portare dalla mamma la camicia stirata proprio per fare il colloquio, è un’opportunità che a mio parere andrebbe colta al volo. Ma certo servono sensibilità particolari. Chi sceglie di aderire non lo fa perché ha carenza di personale, non lo fa per risparmiare, non lo fa per ottenere i riscontri mediatici che comunque arrivano copiosi, non lo fa per sentirsi migliore. Lo fa perché sente dentro di sé lo slancio di tendere la mano a qualcuno che solo afferrandola può salvarsi. Quali sono le competenze più ricercate dalle Pmi rispetto alle figure da inserire? Le realtà che più offrono lavoro ai detenuti sono quelle dell’edilizia e quelle della ristorazione. Abbiamo firmato un protocollo di collaborazione con Ance Toscana, un accordo teso a portare corsi di formazione nelle carceri e a informare le ditte della regione della possibilità di andare a cercare personale negli istituti. Per Piacenti Spa di Prato lavorano detenuti di Gorgona, Pianosa, Prato, Roma. Da Tecnopali Apuana lavorano due detenuti di Massa. Altri due dello stesso carcere lavorano in uno stabilimento balneare della Versilia. Tre detenuti di Sollicciano lavorano nella ditta edile delle sorelle Petrichella e fanno manutenzione negli immobili del Comune di Firenze. Per la ristorazione abbiamo un protocollo d’intesa con Fipe ConfCommercio firmato il 30 gennaio 2024 al ministero della Giustizia. Impiegano i detenuti di Seconda Chance tantissimi bar e ristoranti. Il gruppo Palombini a Roma ha tre detenuti in sala e al banco. La Fabbrica di san Pietro in Vaticano, che ha assunto tre detenuti e ne aspetta altri cinque, li impiega quasi tutti nel punto ristoro sulla terrazza sotto al Cupole: il bar “Cupola”. Abbiamo l’adesione anche di aziende di logistica, di una società di cacciatori di teste quale Hunters Group entusiasta del detenuto di Bollate assunto a gennaio, della catena di gelaterie di Milano Gusto 17, della Fattoria della Piana di Rosarno, del resort/azienda agricola di Racalmuto Terre di Zaccanello. Come si articola la formazione per consentire il matching tra domanda e offerta? La maggior parte delle imprese, ad esempio McDonald’s, sceglie di formare il detenuto in azienda subito dopo l’arrivo. Hanno operato in tal senso anche Joule, che fa logistica per Conad Nord Ovest e ha assunto detenuti di Civitavecchia e di Cagliari, e Fiege Logistics, che ha assunto detenuti di Pavia e di Piacenza per gli stabilimenti di Stradella e Castel san Giovanni. Seconda Chance porta anche formazione. Ad esempio, con Bosch Italia abbiamo organizzato corsi per manutentori di e-bike nelle carceri di Monza, Como, Torino e Ancona. Quale è il maggior valore aggiunto che riscontrano le imprese, e quale quello per le figure inserite? Le opportunità per le Pmi non si fermano al mero inserimento di personale ma hanno a che vedere con il messaggio che le stesse aziende lanciano all’esterno e all’interno con scelte di questo taglio. La maggior parte delle aziende che tengono a trasmettere un vero messaggio di inclusività preparano i loro dipendenti ai nuovi inserimenti e riescono anche a commuovere la new entry il giorno del suo arrivo. Nel ristorante di Roma Le Serre by ViViBistrot ricordo che la brigata di cucina fece una colletta per accogliere l’aiuto-chef Marcello, uscito per lavorare dopo 21 anni di carcere: gli furono donati uno zaino e la tessera della metropolitana. In che modo state provando ad allargare il network e la visibilità del percorso, e con quali prospettive per il futuro? Non potendoci permettere l’acquisto di una pagina di giornale o di uno spazio pubblicitario in tv, ci diamo da fare con i nostri mezzi. Post sui social, convegni e dibattiti, articoli sui media: ne sono usciti oltre 230 da quando esiste Seconda Chance. Ma è scrivendo e telefonando indiscriminatamente alle aziende che riusciamo a conquistare imprenditori smart. Il passaggio successivo è la conversazione di presenza o la videocall. È tutto molto faticoso e infatti la maggior parte degli aspiranti collaboratori di Seconda Chance dopo un po’ mi molla, scompare, si dilegua. Del resto, lo metto subito in chiaro che questo impegno porta risultati solo se gli si dedica tempo ed energie. Seconda Chance opera direttamente sul campo, cerca adesioni attraverso un attivo “porta a porta” nella consapevolezza che solo una sistematica azione artigianale può sconfiggere certi scetticismi. Guardandosi in faccia ci si confronta meglio, con chiarezza e con velocità. Aiuta anche il passaparola, tante aziende contente dei loro acquisti hanno trasmesso il messaggio. Non sono certo pochi i detenuti che dopo alcune proroghe si sono guadagnati il contratto a tempo indeterminato. Uno di loro lavora con soddisfazione reciproca da Terna. “Carriere separate entro il 2025”. Nordio mette il turbo alla riforma di Errico Novi Il Dubbio, 30 ottobre 2024 Nel doppio vertice di ieri a via Arenula, il ministro detta i tempi ai Parlamentari di maggioranza. Intercettazioni, il limite dei 45 giorni escluso per i reati del Codice Rosso. Se si vuol capire la determinazione della maggioranza sulla giustizia basta partire dalla prima notizia trapelata dal vertice di ieri a via Arenula: l’eccezione prevista - o meglio, concordata al summit - per il limite di 45 giorni imposto alle intercettazioni: il tempo massimo concesso ai pm per l’uso dello strumento investigativo (prorogabile solo qualora emergano elementi “specifici e concreti” nella prima fase degli “ascolti”) sarà derogabile non solo per i reati di mafia e terrorismo, ma anche per le violenze in famiglia, e in generale per tutti i casi che rientrano nel “codice rosso”. A un primo sguardo, la logica conseguenza sembrerebbe l’ulteriore passaggio al Senato per la legge sul limite dei 45 giorni, appena sbarcata a Montecitorio dopo il primo sì di Palazzo Madama. E invece no: il correttivo è ritenuto sì necessario, da Carlo Nordio e dai rappresentanti del centrodestra riuniti ieri mattina dal ministro, ma altrettanto importante è arrivare all’approvazione definitiva della proposta di legge, firmata dall’azzurro Pierantonio Zanettin. E quindi, come chiarisce un comunicato diffuso dal guardasigilli, la correzione sui reati da “codice rosso” “verrà anticipata da un ordine del giorno cui verrà data attuazione nel primo provvedimento utile, così da non rallentare l’iter di approvazione del ddl proroga intercettazioni”. Perché il dettaglio è rivelatore? Perché intanto si tratta di un aggiustamento di una certa delicatezza, e non sarebbe dunque stato sorprendente se il centrodestra avesse deciso di “rassegnarsi” a un secondo passaggio a Palazzo Madama, pur di inserire l’eccezione relativa alle violenze di genere. Ma la scelta di evitare frenate sulla legge Zanettin certifica con assoluta chiarezza la determinazione della maggioranza in materia di giustizia anche perché, proprio sui “45 giorni”, l’estate scorsa un primattore, in quest’ambito, dell’alleanza di governo come il sottosegretario di FdI Andrea Delmastro aveva parlato di “limite draconiano”. Perplessità rientrate già da alcune settimane, in nome dell’assioma per cui le riforme in campo penale sono, insieme col ddl costituzionale di Nordio sulle carriere dei magistrati, una priorità assoluta. Più importanti del premierato, più condivise di altri dossier (vogliamo citare l’autonomia?), più centrali di molte altre materie. Non foss’altro perché la dialettica con la magistratura si è fatta, col trascorrere dei mesi, sempre più aspra. E il caso migranti, riaffiorato con lo stop imposto ieri ai trattenimenti in Albania dai giudici di Bologna (e di cui si dà conto in altro servizio, ndr), ne è solo la prova più eclatante. Sempre a proposito della modifica preventivata per i reati da “codice rosso”, va detto che la maggioranza avvalora la tesi sostenuta con forza dalle opposizioni durante l’esame della legge Zanettin a Palazzo Madama. Era stata in particolare la capogruppo del M5S in commissione Giustizia, Anna Lopreiato, a proporre l’eccezione per le violenze di genere, considerato quanto fosse pericoloso restringere i tempi per le intercettazioni in un ambito in cui spesso le vittime finiscono per essere reticenti, ed è perciò necessario attendere a lungo prima che i “radar” degli investigatori possano “captare” elementi penalmente rilevanti. Il clamoroso timing sulle carriere separate - Al vertice hanno partecipato tutte le prime linee del centrodestra sul fronte giustizia: col guardasigilli, che ha tenuto banco (e ha rinunciato a portare in Consiglio dei ministri il ddl con le novità sulla criminalità informatica), c’erano il suo vice Francesco Paolo Sisto (FI), i sottosegretari Ostellari (Lega) e Delmastro (FdI), i capigruppo di Camera e Senato di tutte le forze di maggioranza, i presidenti delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali e i capidelegazione dei vari partiti in questi ultimi quattro organismi. Molti partecipanti, insomma, e inevitabilmente poco tempo per il dibattito: così è stato Nordio a dettare la linea. Che consiste nella richiesta di “unità e compattezza” su tutto: sulle intercettazioni, certo, con modifiche gestite appunto nella forma meno problematica possibile, ma anche e soprattutto sulla separazione delle carriere. È la riforma costituzionale della magistratura il vero nocciolo di tutte le questioni, per via Arenula e per Palazzo Chigi. Se n’è discusso nel “secondo tempo” del vertice, tenuto nel pomeriggio, al quale sono intervenuti i presidenti delle due Prime commissioni, vale a dire Balboni (Senato) e Pagano (Camera) e i capigruppo di maggioranza Urzì (FdI), Russo (FI) e Bordonali (Lega). Anche qui è stato Nordio a essere nettissimo: “La priorità è la tempistica: è importante che la separazione delle carriere ottenga entro fine anno il primo via libera a Montecitorio, in modo da incassare il primo sì di Palazzo Madama per marzo prossimo, e tentare di completare gli altri due passaggi, previsti dall’iter per le leggi costituzionali, entro lo stesso 2025, in modo da celebrare il probabile referendum per la fine del prossimo anno, o al massimo per l’inizio del 2026”. Anche qui il messaggio è ineluttabile: se proprio dovete cambiare qualcosa, nel ddl costituzionale, fatelo solo nel pieno accordo fra tutti i partiti del centrodestra, ed evitate emendamenti “di bandiera”. Eventualità che - nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio presieduta dall’azzurro Nazario Pagano, dov’è in corso la prima lettura sulle “carriere” - è ormai impossibile: il termine per le proposte di modifica dei singoli gruppi è scaduto da una settimana. Ma i partecipanti all’incontro spiegano che non sarà semplice neppure accordarsi per un mini- pacchetto di ritocchi condiviso da tutta la maggioranza e presentato, come consente il regolamento, sotto forma di emendamenti del relatore. Sarebbe l’unica via, ma è così predominante il messaggio di Nordio - “fate presto sulle carriere” , appunto - da scoraggiare la stessa Forza Italia. Erano stati gli azzurri a ipotizzare, nei giorni scorsi, innanzitutto una correzione sul sorteggio per i laici dei due futuri Csm: “C’è il rischio che, con l’estrazione a sorte, vengano nominati professori e avvocati vicini all’opposizione più che alla maggioranza”. Ma l’ipotesi di modifica, a questo punto, sarà probabilmente accantonata, insieme con quella relativa alla separazione dei concorsi, suggerita, durante le audizioni, dal presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco. L’ordine è correre, il più possibile. E la logica sembra legata all’eventualità di una sconfitta al referendum: se si verificasse a ridosso delle prossime elezioni politiche, in programma per metà 2027, rischierebbe di riverberarsi sui rapporti di forza nel futuro Parlamento. Quindi priorità alla giustizia, anche rispetto al premierato, ma senza compromettere il voto per il nuovo Parlamento. Non farebbe una grinza. Se non fosse che una faccenda così epocale qual è il riassetto della magistratura richiederebbe forse un minimo di studio e attenzione in più. Subito le carriere separate: il conto del governo ai giudici di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2024 Nordio vede la maggioranza: corsia preferenziale per la riforma. Il ministro: “È popolare, c’è sfiducia nei magistrati”. Accelerare. A costo di approvare la riforma della separazione delle carriere entro novembre, o al massimo entro la fine dell’anno. È la risposta, o meglio la ritorsione, del governo alla decisione dei giudici del Tribunale di Roma di dichiarare illegittimo il trattenimento di 12 migranti in Albania, a cui il governo ha già risposto approvando un decreto legge. Proprio ieri, tra l’altro, il Tribunale di Bologna ha rinviato alla Corte di Giustizia europea la norma con cui l’esecutivo aveva provato a mettere una toppa alla sentenza. Ma la questione è più ampia e più complessa delle decisioni della magistratura sull’immigrazione: da mesi a Palazzo Chigi aleggia il fantasma di un complotto di una parte della magistratura contro il governo. Così ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dato un ordine preciso incontrando in Via Arenula i presidenti delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato e i rispettivi capigruppo di maggioranza. Durante la riunione, il Guardasigilli ha spiegato che la riforma costituzionale della separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero in discussione alla Camera dovrà avere la precedenza su tutto il resto, a partire dalla riforma del premierato che viene rinviata a data da destinarsi. Nordio ha spiegato che la riforma è “urgente” alla luce delle ultime decisioni dei magistrati, senza entrare nello specifico della sentenza del Tribunale di Roma sul trattenimento dei migranti in Albania. Ma che sia una risposta diretta da parte del governo è apparso chiaro dalle parole del ministro della Giustizia: “La riforma non solo è necessaria ma è anche molto popolare visto il basso grado di fiducia da parte della gente nei confronti della magistratura”, sono state le parole di Nordio secondo due fonti a conoscenza del contenuto della riunione. Dunque il ministro della Giustizia ha anche stabilito un iter chiaro della legge costituzionale: l’obiettivo è quello di approvarlo a breve in commissione Affari costituzionali della Camera e arrivare in aula entro il mese di novembre. Oggi, durante la conferenza dei capigruppo, quindi la maggioranza di destra chiederà che la separazione delle carriere venga messa all’ordine del giorno dell’aula il mese prossimo. Difficile che ci si riesca, ma al massimo il governo vuole dare il primo via libera entro fine anno. Durante la riunione, Nordio ha anche aggiunto che il via libera definitivo alla riforma costituzionale dovrà essere approvato in via definitiva entro un anno: difficile, se non impossibile, visto che per la Costituzione il Parlamento dovrà approvare la norma in due letture per ogni Camera a distanza non inferiore a tre mesi tra l’una e l’altra. Tempi così stretti però danno l’idea di un’intenzione del governo: accelerare sulla separazione delle carriere. Per questo Nordio ha aggiunto che il testo non è blindato, ma gli emendamenti dovranno essere concordati tra le forze di maggioranza. Non ci saranno dunque grosse modifiche. Soprattutto non sul sorteggio dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura a cui Meloni tiene molto come risposta ai giudici che, a suo dire, avrebbero proprio quella norma nel mirino perché scardinerebbe il sistema delle correnti. In un altro vertice si è parlato anche della riforma delle intercettazioni approvata dal Senato, che limita a 45 giorni il termine per gli ascolti. Non ci saranno modifiche nel secondo passaggio alla Camera anche se la Lega spingeva per inserire una deroga per i reati da “codice rosso” contro le donne: questo avverrà con un emendamento in un altro provvedimento. Oggi invece il Parlamento in seduta comune si riunirà nuovamente per eleggere il giudice della Corte costituzionale. Dopo il passaggio a vuoto su Francesco Saverio Marini, anche la nona votazione non dovrebbe portare all’elezione del giudice costituzionale. Tant’è che gli esponenti di governo non erano stati allertati per essere presenti in aula. Nelle ultime ore ci sarebbero stati dei contatti tra i vertici di Pd e FdI. Decisione comune: evitare blitz e muro contro muro. Ma anche oggi la scheda sarà bianca. Dossier, Cdm a vuoto. Nordio commissariato per evitare altre gaffe di Luciana Cimino Il Manifesto, 30 ottobre 2024 Meloni prova a blindare i provvedimenti sulla cybersicurezza. Ma la procura di Roma indaga su un altro caso di spionaggio. Una fitta giornata di appuntamenti per non concludere niente. Il governo Meloni, in imbarazzo per la vicenda dei dossieraggi, ieri ha tentato di dare un’immagine di operatività sul tema della giustizia convocando due vertici di maggioranza con il guardasigilli e un consiglio dei ministri che però non son serviti a recuperare terreno sulla permeabilità dei servizi di sicurezza. Anzi, contrariamente a quanto comunicato in precedenza, il tema non è stato proprio affrontato in nessun luogo istituzionale, venendo sbianchettato addirittura dall’ordine del giorno del Cdm un attimo prima che cominciasse la riunione. “Impegni concomitanti di Nordio e poi il timing dei lavori parlamentari non corretto”, si giustificano fonti di Palazzo Chigi, precisando anche che il decreto legge sulla criminalità informatica, che sarebbe dovuto essere discusso ieri, non avrebbe contenuto in ogni caso provvedimenti sulla cybersicurezza. Il Cdm alla fine ha discusso dello stato di emergenza per il maltempo in Emilia Romagna e “ha approvato in via definitiva i primi tre testi unici sul fisco: giustizia tributaria, tributi erariali minori e sanzioni tributarie amministrative e penali”, come annunciato dal viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, mentre Nordio scompariva dai radar dopo una intensa mattinata. Il ministro della giustizia ieri ha convocato due summit di maggioranza (presenti il viceministro Francesco Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, i presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato e tutti i capigruppo di maggioranza delle rispettive commissioni) in via Arenula. Il primo sugli interventi in campo penale, il secondo sulla separazione delle carriere. “Appuntamenti già programmati per darci tempi certi sui provvedimenti in sospeso”, spiegano fonti del ministero a chi si aspettava un punto sulla vicenda milanese che invece ufficialmente non c’è stato. Anche perché sul tavolo già c’era la necessità di recuperare un’altra gaffe del governo: il limite a 45 giorni per l’utilizzo delle intercettazioni anche per i casi di violenza, che aveva sollevato perplessità non solo nelle opposizioni ma anche in Forza Italia. Il disegno di legge sulle intercettazioni non sarà modificato per non bloccare il percorso parlamentare ma è stato deciso di inserire un timido ordine del giorno per escludere dalla normativa i reati di Codice rosso, così come già avviene per i reati di mafia e terrorismo. Nel pomeriggio, poi, una riunione analoga ma sul ddl che prevede la separazione delle carriere. Qui l’urgenza era provare a trovare una sintesi tra i vari emendamenti dei partiti che compongono la maggioranza e un’intesa per introdurre i ritocchi necessari. Forza Italia ha rinunciato a presentare altri emendamenti. La Lega, invece, ne ha approfittato per inserirne nel ddl due sulla “prevalenza delle norme italiane rispetto a quelle europee”, un tentativo in extremis dalla dubbia riuscita. Anche in questo caso l’obiettivo è recuperare l’autogol dell’esecutivo di destra sulla deportazione dei migranti in Albania. “È vero che è estraneo ai contenuti del ddl - ha ammesso l’estensore, il capogruppo della Lega in Commissione Affari costituzionali, Igor Iezzi - ma è difficile trovare un ddl che faccia da treno adatto”. Due riunioni che devono essere state particolarmente interlocutorie se Nordio è stato costretto a dare forfait al Consiglio dei Ministri. Le raffazzonate giustificazioni degli uffici stampa non sono state però sufficienti a coprire le difficoltà del governo sui dossieraggi e sui sistemi di protezione dei dati. Così penetrabile che non hanno fatto in tempo neanche a ragionare sui casi di Perugia e Milano che già si trovano davanti a un nuovo fronte: anche la procura di Roma sta indagando su un gruppo, denominato Squadra Fiore (composto anche da ex appartenenti alle forze dell’ordine) che avrebbe avuto accesso a dei sistemi informatici per raccogliere illecitamente dati. Eppure di tutto questo ieri se n’è parlato solo durante l’incontro del Nucleo per la Cybersicurezza (Ncs), presieduto dal prefetto Bruno Frattasi mentre il cdm evitava il discorso. Del resto Meloni non può permettersi di sconfessare un testo entrato in vigore solo pochi mesi fa, anche perché non ci sono risorse da poter aggiungere, ma ha intenzione di valutare “percorsi di tipo amministrativo e organizzativo” per rendere più efficaci i controlli. Non è nelle condizioni di fornire altre cartucce a chi accusa il governo di incompetenza. Anche in questa chiave si può leggere l’avvicendamento a via Arenula: al posto di Daniele Piccin a occuparsi della comunicazione di Nordio arriva la firma di Libero, Francesco Specchia. Già candidato a diversi ruoli dalla maggioranza, Specchia approda al ministero della Giustizia con un ruolo diverso rispetto ad altri uffici stampa: sarà lo spokesperson del ministro. Una elegante definizione statunitense per indicare una figura ancora più potente del portavoce, inesistente in Italia, cioè colui che dichiarerà al posto del titolare di Via Arenula. Facile intuire il tentativo di blindare il guardasigilli per evitargli altre gaffe e, di conseguenza, altre dimissioni che Nuovo Testo unico sulla dirigenza del Csm, accordo tra correnti: asse Area-Mi, due le proposte di Simona Musco Il Dubbio, 30 ottobre 2024 Votate in V Commissione le proposte per la nuova Circolare sulle nomine. Accordo tra Unicost, Md e gli indipendenti Mirenda e Fontana. La V Commissione del Consiglio superiore della magistratura ha sciolto le riserve sulle proposte da sottoporre al plenum per il nuovo Testo unico sulla dirigenza, dal quale dipenderà il futuro delle carriere dei magistrati. L’intento dichiarato è quello di individuare un antidoto alle degenerazioni che hanno portato allo scandalo dell’Hotel Champagne e di definire in maniera chiara, una volta per tutte, i limiti della discrezionalità del plenum, oggetto di un continuo botta e risposta con la giustizia amministrativa. I due testi arrivano dopo un serrato confronto e la richiesta aperta del vicepresidente Fabio Pinelli di una sintesi tra le proposte in gioco, che inizialmente prevedevano, da un lato, un ritocco al testo attualmente vigente e dall’altro una “rivoluzione”, con l’introduzione dei punteggi. La sintesi, alla fine, non c’è stata, almeno non al punto da ridurre ad una le proposte. Ma il lavoro di confronto ha portato ad un riposizionamento delle correnti, con, da un lato, la proposta appoggiata da Area e Magistratura indipendente e, dall’altro, quella sponsorizzata da Magistratura democratica, Unicost e le toghe indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda. Una sorta di prequel della campagna elettorale in vista del rinnovo dei vertici dell’Anm, secondo alcuni, che di fatto potrebbe ridisegnare gli equilibri all’interno del Csm. La riforma si muove sulle direttive impartite dalla legge Cartabia, in base alla quale il CSM, nel valutare e comparare i profili dei candidati, dovrà prendere “specificamente in esame” i parametri del merito, delle attitudini e dell’anzianità, distinguendo tra le varie tipologie di uffici giudiziari (semidirettivi e direttivi, di primo e secondo grado, di merito e legittimità). La proposta 1 (relatori proponenti Maurizio Carbone, Ernesto Carbone ed Eligio Paolini) non prevede i punteggi e tra i tre parametri attribuisce un ruolo residuale a quello dell’anzianità. Per quanto riguarda il merito, la valutazione si basa sul percorso professionale e sulle precedenti valutazioni di professionalità, con particolare attenzione a eventi oggettivi emersi in procedimenti disciplinari e penali. Le attitudini vengono valutate considerando principalmente l’esperienza nel lavoro giudiziario e le competenze dirigenziali, da valutare in caso di mancanza di criticità significative. Viene superata la distinzione tra indicatori generali e specifici, mentre gli indicatori sussidiari si applicano solo in assenza di indicatori principali, includendo esperienze diverse nel lavoro giudiziario e in altri ambiti. La procedura di selezione prevede un approccio automatizzato finalizzato a limitare la discrezionalità dell’organo di governo. Si valorizza in primo luogo l’esperienza giurisdizionale, seguita da eventuali esperienze dirigenziali. La proposta 2 (relatori proponenti Domenica Miele e Michele Forziati), invece, prevede punteggi fissi e variabili per elementi come esperienza gestionale, organizzativa e di specializzazione. Ulteriori punti possono essere assegnati per incarichi formativi o accademici, aggiornamento professionale e permanenza prolungata in un ruolo direttivo o semidirettivo. A livello di merito, è prevista un’analisi complessiva del lavoro, includendo capacità, diligenza, e applicazione ai progetti organizzativi. Sono assegnati punteggi fissi per valutazioni positive e deduzioni per quelle negative. Per quanto riguarda il parametro delle attitudini, vengono approfondite le abilità organizzative e direttive, con rilevanza per esperienze precedenti in incarichi direttivi. Si considerano competenze organizzative, direzione e specializzazione, attribuendo punteggi variabili per ogni esperienza positiva, con maggiorazioni per risultati eccezionali e rilevanza del lavoro svolto. Include anche un’analisi delle capacità relazionali e di coordinamento. Per quanto attiene l’anzianità, invece, viene valutata solo in caso di parità nei punteggi tra candidati, pesando il numero di anni di servizio. La comparazione tra i candidati avviene con l’utilizzo di un sistema di punteggi distinti che tengono conto dell’incarico da assegnare, tipo di esperienza acquisita, competenze attuali e indicatori oggettivi dell’idoneità. Il sistema premia la permanenza e i risultati ottenuti in incarichi di rilevante responsabilità, con particolare attenzione a esperienze fuori ruolo che rispettino i criteri di coerenza e durata stabiliti. “Premetto che non mi appassiona tanto il tema delle nomine - commenta Giovanni Zaccaro, segretario di Area - e spero che il CSM, soprattutto in questo periodo, si dedichi soprattutto alla tutela della autonomia ed indipendenza della giurisdizione e dei singoli magistrati. Addirittura auspico uffici con una direzione collegiale e non affidata ad “un capo”. Se così fosse si sdrammatizzerebbe pure il tema delle scelte dei dirigenti. Penso che sia comunque importante dare prevedibilità e leggibilità alle nomine, valorizzare l’esperienza sul campo e stabilire a priori regole chiare e rigide. Non mi convince molto, però, l’idea dei punteggi che da soli non risolvono i problemi: se esiste un punteggio minimo ed uno massimo, è sempre possibile l’arbitrio”. Sull’altro versante, la proposta 1, commentano i consiglieri di Unicost in una nota, “mantiene, a nostro avviso, un’eccessiva discrezionalità nella valutazione dei candidati” e rischierebbe di rendere “più netta la distinzione tra una magistratura “direttiva” ed una impegnata esclusivamente nel lavoro giudiziario quotidiano”. La proposta 2 “anticipa, invece, fortemente l’esercizio della discrezionalità del CSM al momento dell’individuazione delle “regole del gioco”, introducendo un sistema di punteggi che consentirà una comparazione trasparente e verificabile dei profili dei candidati valorizzando in primis l’esperienza giudiziaria e l’intero percorso professionale”. Un tema, quello delle nomine, che “impatta relativamente poco sull’organizzazione degli uffici e sul servizio che si rende ai cittadini, ma molto sulle carriere dei singoli magistrati: le pur legittime aspirazioni dei singoli devono essere calate in un contesto di regole certe, comprensibili e verificabili. Confidiamo che la proposta - che allo stato può contare sul sostegno di noi consiglieri di Unità per la Costituzione e dei consiglieri Mimma Miele, Roberto Fontana e Andrea Mirenda - contribuisca ad arginare il carrierismo interno - conclude Unicost -. Siamo inoltre convinti che si tratti di una risposta seria a quanti sostengono l’incapacità di una seria autoriforma e la conseguente necessità di rimedi radicali quali il sorteggio dei consiglieri o la rotazione dei dirigenti”. Miele evidenzia l’esigenza “di chiarezza e leggibilità all’esterno delle decisioni consiliari” che “non significa abdicare alla discrezionalità consiliare, ma portarla su un piano alto, anticipando il momento decisionale della scelta a monte quindi sul criterio, sul parametro da valorizzare, e non a valle, calibrato sul singolo candidato. Discrezionalità consiliare che va gelosamente salvaguardata, ma che deve ritornare ad essere, appunto, discrezionalità, scelta sui valori, e non sulle persone”. Secondo l’opinione del consigliere Mirenda, “gli articoli 12 (criteri di valutazione delle esperienze dirigenziali) e 13 (esperienze organizzative e di collaborazione nella gestione degli uffici) della proposta 1, nella loro indifferente ed equivalente enucleazione dei criteri di valutazione dell’attitudine, finiscono per riprodurre la distorsione del Testo unico vigente, consentendo, ancora una volta, la politica delle mani libere, non casualmente perseguita dalle due correnti dominanti in Consiglio”. Intercettazioni, il limite dei 45 giorni non si applicherà al Codice rosso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2024 È questa l’intesa raggiunta nel corso del vertice di maggioranza che si è tenuto questa mattina presso il Ministero della Giustizia. La norma relativa all’applicazione del termine dei 45 giorni come limite alle intercettazioni non si applicherà ai reati di Codice Rosso, così come già avviene per i reati di mafia e terrorismo. È questa l’intesa raggiunta nel corso di un incontro dedicato alla modifica della disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazioni che si è tenuto in via Arenula alla presenza del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, del Viceministro, Francesco Paolo Sisto, dei Sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari. Hanno partecipato al vertice i Presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato oltre ai capigruppo di maggioranza delle rispettive commissioni. In base all’intesa raggiunta, la proposta di modifica verrà anticipata da un ordine del giorno cui verrà data attuazione nel primo provvedimento utile, così da non rallentare l’iter di approvazione del DDL proroga intercettazioni. Veneto. Baldin (M5S): “Approvata mozione per tutelare le figlie e i figli delle donne detenute” consiglioveneto.it, 30 ottobre 2024 “Sorpresa a Palazzo. Mentre a Roma la maggioranza di destra approva, nel disegno di legge 1660, l’inasprimento delle condizioni delle detenute madri, rendendo facoltativo anziché obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della loro pena in carcere se il minore è neonato, il Consiglio regionale del Veneto ha oggi votato all’unanimità la mozione, da me promossa, che impegna la Giunta di palazzo Balbi ad attivarsi con il governo affinché vengano modificate tali norme per le madri di bambini e bambine con meno di sei anni di età, sostituendo la contenzione in carcere con quella in case famiglia protette”. Così la capogruppo del Movimento 5 Stelle in Consiglio Veneto Erika Baldin che aggiunge: “Un vero cortocircuito per il quale ringrazio tutti i gruppi politici in aula che, senza distinzione di colori, hanno compreso come disporre in maniera autonoma rispetto all’esecutivo nazionale in questa materia sia un fattore di civiltà giuridica, e soprattutto di umanità. Nella mozione, sottoscritta anche da altre ed altri esponenti delle minoranze (Veneto che Vogliamo, PD, Europa Verde, portavoce delle opposizioni), chiedo inoltre che venga redatto ogni anno un rapporto specifico riguardo la detenzione femminile in Italia, con particolare riferimento alle minorenni e alle madri, oltre a finanziare il reclutamento di ulteriori assistenti sociali con programmi tesi a evitare la recidiva. Avevo depositato la mozione lo scorso marzo, quasi due mesi prima della visita del Papa al carcere femminile della Giudecca: una struttura che io stessa ho visitato ricavandone l’impressione di un luogo dove le donne ristrette apprendono un mestiere e lavorano, retribuite. Già questo le aiuta a reinserirsi nella società, senza più il rischio di delinquere. Invece, le norme sopravvenute in Parlamento vanno nella direzione opposta: comprendo la necessità di frenare il dilagare delle borseggiatrici, ma ciò non può accadere a scapito delle bambine e dei bambini, i cui diritti devono essere sempre e comunque tutelati. Soprattutto quello a non vivere i propri primi anni dentro una prigione”. Genova. Detenuto muore nel carcere genovese di Marassi, indaga la Procura Il Secolo XIX, 30 ottobre 2024 Quando gli agenti lo hanno trovato hanno chiamato i soccorsi: sul posto è intervenuto il personale del 118, che però non ha potuto fare altro che constatare il decesso. La Procura del capoluogo ligure indaga sulla morte di un detenuto di 56 anni trovato ieri nel suo letto in una cella del carcere di Marassi: l’uomo non aveva segni apparenti di violenza sul corpo e non soffriva di patologie pregresse. Ad accorgersi del decesso sono stati gli agenti della polizia Penitenziaria, che lo hanno trovato nel letto ieri mattina, sotto le coperte. Nessuno dei compagni di cella, secondo i primi riscontri, si sarebbe accorto di nulla. La Procura ha però deciso di aprire un fascicolo e di fare eseguire l’autopsia per capire che cosa sia successo. L’uomo potrebbe essere stato colto da malore, oppure potrebbe avere assunto sostanze oppure ancora, ma questa sembra una ipotesi più remota, potrebbe essere stato aggredito e poi morto per eventuali lesioni interne. Quando gli agenti lo hanno trovato hanno chiamato i soccorsi: sul posto è intervenuto il personale del 118 con l’automedica, oltre al personale sanitario interno al carcere, che però non ha potuto fare altro che constatare il decesso. Verona. Una morte accidentale? La polizia e quelle ombre sull’uccisione di Moussa Diarra di Sara Tanveer Il Domani, 30 ottobre 2024 Dall’autopsia al coltello. In tanti esprimono dubbi su quanto ucciso alla stazione di Verona dove lo scorso 20 ottobre è stato ucciso il ragazzo maliano di 26 anni. E una domanda su tutte resta sospesa: quel colpo sparato da un agente della Polfer era necessario? Per la destra l’agente avrebbe sparato per “legittima difesa”. Le ombre sulle dinamiche che hanno portato all’uccisione di Moussa Diarra, il 26enne maliano ucciso da un agente della Polfer davanti alla stazione di Verona il 20 ottobre, sono molte. Almeno secondo chi in queste settimane ha continuato a porre domande. E che sabato è sceso in piazza nella città veneta dietro lo slogan “Verità e giustizia per Moussa Diarra”. Durante l’autopsia, svoltasi lo scorso giovedì, non sono stati rinvenuti segni di colluttazione. Un dato che, unito al fatto che il proiettile che lo ha ucciso non è stato sparato a distanza ravvicinata, quindi non durante un corpo a corpo, solleva qualche perplessità sulla ricostruzione dell’accaduto in cui, da subito, si è parlato di “legittima difesa” e di un ragazzo in preda a un raptus di violenza incontrollabile verso le autorità e l’ambiente circostante. Il biologo molecolare e criminologo forense, Abdou M. Diouf, ha molti dubbi sulla versione rilasciata dalle autorità veronesi. Non ha ancora visto il famoso coltello con cui Diarra avrebbe minacciato gli agenti né i video delle telecamere della stazione: “Se sei sicuro del tuo operato, perché fare mistero di questi video?”. Nessun elemento probatorio in grado di attestare la legittimità dell’operato del poliziotto è stato reso pubblico. Inoltre ci si chiede perché a Diarra non sia stato fatto un Tso e non sia stata chiamata un’ambulanza data la fragilità psicologica in cui si trovava, e perché, nelle due ore precedenti alla sua uccisione, non vi sia stato un intervento massiccio delle forze dell’ordine nonostante abbia iniziato a sfogare la sua rabbia verso la biglietteria e la tabaccheria già dalle prime ore dell’alba. E tutto ruota intorno a una domanda, forse la più importante: quel colpo di pistola era veramente necessario? Diarra è stato trattato come una persona qualunque o ci sono stati (evidenti) pregiudizi razziali che hanno portato l’agente a comportarsi in questa maniera? Le risposte verranno alla luce solo nei prossimi mesi di indagini, ma, dopo il report diffuso dalla Commissione antirazzismo del Consiglio d’Europa (Ecri) che ha parlato apertamente di “profilazione razziale” delle forze dell’ordine italiane, e dopo che, già a settembre, un documento delle Nazioni unite aveva denunciato lo stesso problema, lo scenario è sicuramente inquietante. Il comitato “Verità e giustizia per Moussa Diarra” sta provando a smascherare le crepe di un sistema che - più che proteggere - segrega e stigmatizza. L’uccisione del ragazzo maliano, denunciano, evidenzia un razzismo istituzionale radicato, che tratta la vulnerabilità come una colpa e il colore della pelle come una minaccia. Le domande sul caso restano urgenti e provocatorie: l’Italia saprà finalmente riconoscere e scardinare i pregiudizi che alimentano discriminazione e violenza o continuerà a chiudere gli occhi davanti a queste violazioni dei diritti umani sulla pelle delle persone nere? Di certo la frase con cui il vicepremier Matteo Salvini ha commentato la notizia della morte di Diarra (“Non ci mancherà”) conferma che il problema è molto più ampio e coinvolge, oltre alle forze dell’ordine, anche chi ricopre altri ruoli istituzionali. D’altronde le sue parole confermano un passaggio del dossier dell’Ecri in cui si sottolinea come “le narrazioni politiche convenzionali promuovono una cultura di esclusione più che di integrazione e inclusione dei migranti” e che “un certo numero di dichiarazioni e commenti considerati offensivi e carichi di odio proviene da politici e funzionari pubblici di alto profilo, soprattutto durante i periodi elettorali, sia online che offline”. Non a caso i rappresentanti istituzionali del centrodestra non si sono trattenuti e sono corsi subito a esprimere la propria vicinanza all’agente, sotto indagine per eccesso di legittima difesa, senza aspettare nemmeno una ricostruzione accurata dei fatti. “A noi Moussa mancherà” e “basta razzismo istituzionale” è stata la risposta della piazza veronese di sabato. Durante la manifestazione molti partecipanti africani e afrodiscendenti hanno indossato cartelli con un semplice bersaglio, indicando senza l’uso di parole come si sentono percepiti dalle istituzioni italiane. Youssef Moukrim, attivista antirazzista e consulente legale dello Sportello per i diritti, non ha dubbi: “Questa non è una morte casuale, si inserisce in uno schema discriminatorio molto più ampio. Dopo pochissimo tempo dall’accaduto si dava già per certo che Moussa fosse un delinquente, assolvendo quindi l’operato dell’agente”. Verona. Le parole dell’odio che alimentano il razzismo di stato di Abdulkadir Monaco, Abdullahi Omar e Marie Moïse Il Domani, 30 ottobre 2024 Moussa Diarra “non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere”. Le parole di Matteo Salvini, di fronte all’uccisione di Moussa Diarra per mano armata di un poliziotto a Verona fanno da cornice perfetta al manifesto del razzismo istituzionale made in Italy. Moussa Diarra era in condizioni di alterazione psico-fisica e avrebbe dovuto ricevere assistenza medica, non essere ucciso. Invece Salvini ha costruito il “mostro” per difendere una presunta operazione di “sicurezza” che ha esposto la vita di Diarra a una morte brutale e prematura. Se la risposta istituzionale alla sofferenza fisica e mentale è un incentivo a premere il grilletto, chi ha bisogno di mettersi al sicuro in questo Paese? Moussa Diarra era passato dalle carceri libiche, di cui l’Italia sovvenziona l’esistenza, ha dovuto affrontare la clandestinità dopo aver perso la protezione umanitaria per effetto dei decreti Salvini; costretto a vivere in un fatiscente stabile occupato, è rimasto senza dimora. L’amministrazione comunale ha ignorato le sollecitazioni degli attivisti del Paratod@s, che da mesi chiedevano una sistemazione per chi si è ritrovato in strada. Infine, i ritardi della questura di Verona nell’emissione del permesso di soggiorno lo hanno vincolato troppo a lungo al lavoro nero e sottopagato. Le parole di Salvini non richiedono commento. Lo stato di sofferenza in cui Diarra verteva è il risultato di un preciso disegno politico. Ciò che invece ancora manca è un vocabolario essenziale, un glossario antirazzista di base, che permetta di inquadrare queste dichiarazioni per il ruolo che effettivamente giocano. La premessa a questo glossario sta nella definizione stessa del fenomeno: il razzismo è anche un regime discorsivo, un sistema basato sul potere delle parole di dare forma alla realtà. Basta chiamare una persona con l’appellativo di migrante, maliano, ragazzo, per negarle ogni tratto di “umanità” e ridurla alla concezione di un corpo senza storia, legami o vita interiore. Si incunea così nella mente l’immagine di una figura minacciosa, un problema di cui disfarsi. Solo i corpi bianchi, per logica implicita, possono meritare l’appellativo di esseri umani: gli altri sono inconsciamente registrati come forme mai evolute dal cosiddetto regno animale o stato di natura. La prima voce del glossario è dunque quella di suprematismo bianco. La pretesa di supremazia non è prerogativa degli ideologi della razza, ma la premessa fondativa dello stato di diritto che rivendica l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, perché nega a una parte di questi la possibilità di essere riconosciuti come tali. Moussa Diarra, è solo l’ultimo emblema di questo paradosso. Il secondo lemma di questo vocabolario essenziale consente di inquadrare le dichiarazioni di Salvini e l’atto omicida del poliziotto di Verona per quello che sono: crimini e discorsi d’odio. Come osserva la giurista Ndack Mbaye, la matrice d’odio che definisce questo tipo di azioni non ha niente a che vedere con la sfera emotiva che muove i perpetratori. Nessuno d’altronde potrebbe dimostrare che sentimenti abbiano provato il ministro e il poliziotto mettendo fine e poi ingiuriando Diarra. Parlare di crimini e discorsi d’odio serve invece a rivelare il processo di selezione della “vittima”, sulla base della sua assegnazione a uno specifico gruppo sociale, per istigare all’odio contro il gruppo in quanto tale. A poche ore dalle dichiarazioni di Salvini è stato diffuso il rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, sulla profilazione razziale operata dalle forze dell’ordine italiane. La polizia discrimina e spara (vittimizzazione primaria), ma chi ne denuncia l’illegittimo operato si vede negata la dignità di testimone attendibile della propria stessa esperienza, attivando un secondo ciclo di violenza. La vittimizzazione secondaria lascia aperta la strada a nuovi abusi razzisti. Si parla di vittimizzazione e non di vittima: chi vive violenza strutturale non è mai una figura passiva, né ha bisogno di un salvatore per liberarsi dal destino imposto. Diarra non è una vittima di quanto ha sofferto, ma proprio perché ha reagito, coi mezzi che aveva a disposizione, la sua immagine è manipolata come una minaccia. Le vittime degne di essere compiante sono solo quelle che soccombono inerti. Inquietante è il silenzio connivente a sinistra. Tutti pronti a invocare la cittadinanza quando una persona razzializzata vince una medaglia olimpica per l’Italia, tutti muti quando le stesse sono discriminate da politiche escludenti, di cui gli autori non stanno solo a destra. Il razzismo di sinistra è il quarto lemma di questo glossario. Definisce la storia politica di chi esalta le migrazioni come opportunità di nuova forza lavoro, monopolizza il mercato culturale dell’inclusione offrendo visibilità in cambio di lavoro non retribuito, ma non si sente chiamato in causa quando si tratta di prendere posto in piazza. L’unica risposta significativa è giunta dalle comunità razzializzate che unite alle reti sui territori hanno prontamente avviato una contro-narrazione. La partecipazione collettiva nelle strade di Verona ha trasformato le parole di questo glossario in un corpo unico arrabbiato, ferito e in lutto, privato di una parte di sé. Ci mancherai per sempre, Moussa Diarra. Non si può rimanere in silenzio di fronte all’esecuzione di un giovane che aveva ancora tanto da vivere e sogni da realizzare. Torino. Due rinvii a giudizio per la morte di Moussa Balde nel Cpr di Alice Dominese Il Domani, 30 ottobre 2024 Il gip del tribunale di Torino ha accettato la richiesta di rinvio a giudizio per la direttrice delegata della società che gestiva il Cpr e per il medico della struttura al momento della morte di Moussa Balde. L’ispettore capo della Polizia indagato ha patteggiato un anno di reclusione. La direttrice delegata di Gepsa, la società che gestiva il Cpr di Torino e il medico della struttura andranno a processo per la morte di Moussa Balde nel maggio del 2021. Il gip del tribunale di Torino ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio della procura per i due, mentre un ispettore capo della polizia indagato per dei falsi relativi alla compilazione di una serie di relazioni di servizio ha patteggiato un anno di reclusione. Moussa Balde era un ragazzo migrante di 23 anni che, dopo essere stato vittima di un pestaggio a Ventimiglia da parte di persone italiane, era finito al Cpr di Torino perché trovato senza documenti. Qui - secondo le carte - una visita aveva solo segnalato lesioni sul corpo senza fare cenni al pestaggio e senza chiedere accertamenti ulteriori, anche sulla sua situazione di evidente fragilità psicologica. Dopo un secondo pestaggio all’interno della struttura, Balde era stato chiuso per 10 giorni in isolamento in una stanza della struttura che veniva chiamata “ospedaletto”, ufficialmente per una psoriasi. A causa dell’isolamento, prolungato e non monitorato, il 22 maggio Balde si era tolto la vita. Ora il processo stabilirà le responsabilità del personale del Cpr nella morte del ragazzo, la cui famiglia si è costituita parte civile ed è seguita dall’avvocato Gianluca Vitale. Dopo la morte di Balde e prima della chiusura temporanea del Cpr, tra l’altro, altre tre persone avrebbero tentato il suicidio al suo interno. Intanto il centro di Torino è in procinto di riaprire dopo una ristrutturazione per volere del governo Meloni. Torino. “Il Cpr non solo non deve riaprire, ma deve essere chiuso definitivamente” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2024 L’appello di associazioni, enti del terzo settore, sindacati e professionisti. “Noi siamo umani”. Questa scritta, trovata su un muro del Cpr di Torino, rappresenta un grido silenzioso che ancora riecheggia tra le pareti della struttura di corso Brunelleschi, chiusa dal marzo 2023. Elena Ferro, segretaria della Camera del lavoro di Torino, lo definisce come “il buco nero della democrazia”, dove i segni delle rivolte - dalle scarpe abbandonate ai biglietti sparsi - testimoniano una storia di disperazione e resistenza. Ora rischia di riaprire. La chiusura del Centro, ricordiamo, è avvenuta in seguito a una serie di eventi drammatici, culminati nel suicidio del ventitreenne Moussa Balde. Il giovane, vittima di un’aggressione a Ventimiglia, era stato trasferito a Torino e confinato nella sezione “ospedaletto”, caratterizzata da tavoli e sedie fissati al pavimento, e si trovava di fatto in isolamento, in condizioni che rendevano impossibile la sopravvivenza. Mentre si prospetta una possibile riapertura, si sta consolidando un ampio fronte di opposizione che include il Gruppo Abele, la Cgil e numerose altre realtà. Associazioni, enti del terzo settore, sindacati e professionisti si uniscono in un appello unanime: il Cpr non solo non deve riaprire, ma deve essere chiuso definitivamente. Le motivazioni vanno oltre la semplice opposizione ideologica. Contrariamente a quanto previsto dal Regolamento ministeriale del 2014, le valutazioni di idoneità al trattenimento vengono effettuate da medici interni anziché da personale Asl esterno. Il supporto psichiatrico, completamente assente per quasi un anno, rimane tuttora inadeguato. Il caso di Moussa Balde ha drammaticamente evidenziato l’assenza di verifiche sulla compatibilità psichica dei trattenuti. I Cpr, erroneamente chiamati da alcuni “centri di accoglienza”, si rivelano luoghi dove la dignità umana viene sistematicamente calpestata e le condizioni risultano persino peggiori delle carcerarie, con una drammatica assenza di regole e garanzie fondamentali. Si registrano casi di trattenimento di presunti minori, in aperta violazione della normativa vigente. L’isolamento, non previsto dalla legge, viene utilizzato arbitrariamente, senza obbligo di motivazione né possibilità di ricorso. Inquietante è stata la scoperta di celle di sicurezza non ufficiali nel seminterrato, venute alla luce solo grazie a un’ispezione casuale del Garante nazionale. La comunicazione con l’esterno, diritto fondamentale sancito dal Testo Unico sull’Immigrazione, viene severamente limitata. I trattenuti vengono privati dei telefoni cellulari, perdendo così anche l’accesso a internet. Le chiamate sono consentite solo in uscita, a pagamento e con linea fissa, rendendo praticamente impossibile mantenere contatti con i familiari. Da oltre i collo-qui con i familiari sono sospesi e non c’è alcun sistema di video-conferenza alternativo. Le condizioni strutturali completano un quadro già critico: celle sovraffollate, servizi igieni-ci privi di privacy e non separati dai luoghi di pernottamento, spazi di isolamento con accesso limitato alla luce solare. L’assenza di mediatori culturali per le diverse lingue e nazionalità presenti nel centro aggrava ulteriormente la situazione. Udine. Marcia silenziosa e digiuno per le condizioni dei detenuti di Anna Dazzan udinetoday.it, 30 ottobre 2024 Ancora un’azione civica per chiedere la risoluzione dei problemi igienico sanitari della prima sezione del carcere di Udine. Giovedì 7 novembre un seminario. A Udine c’è una voce che, da mesi, si alza costante per la risoluzione di una problematica lontana dagli occhi dei più, quella delle condizioni igienico sanitarie della prima sezione del carcere di Udine che soffre anche dell’ormai drammatico sovraffollamento. A portare avanti con costanza la richiesta di provvedere alla questione i due uomini che si sono avvicendati nel ruolo di garante dei detenuti di Udine, l’avvocato penalista Andrea Sandra, che ha raccolto il testimone da Franco Corleone. Quest’ultimo sempre in prima linea, non solo a parole, ma anche a fatti, ha rinnovato un’azione che già in passato lo aveva visto protagonista: il digiuno. È lui a firmare e inviare una lettera, l’ennesima, alle istituzioni e alla cittadinanza: “Andrea Sandra ha inviato una lettera con la descrizione delle condizioni inaccettabili al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) e alla Direzione del Distretto della Asl: muffa e umidità sono presenti in un luogo chiuso, scopertura dei fili elettrici, mancanza dei tubi di scarico dei lavandini. La presenza dei detenuti più problematici e dei nuovi giunti rende esplosiva e ingovernabile la situazione. Si tratta di cinquanta prigionieri da liberare”, esordisce Corleone. Una prima risposta parla di un intervento “già programmato”. Ma c’è un ma. Rimane il nodo della collocazione dei detenuti a causa del sovraffollamento ormai noto. “Il rischio è che una operazione di maquillage si risolva in un’operazione di facciata con sperpero di denaro, perché il lavoro indispensabile è di eliminare la risalita dell’umidità dal pavimento. Siamo fiduciosi che i tecnici del Provveditorato predisporranno rapidamente un progetto per il rifacimento della sezione in modo che non vi sia una patente contraddizione tra i lavori di ristrutturazione del carcere e un luogo fatiscente”, continua l’ex garante di Udine. “Il diritto alla salute è definito dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale e in carcere è essenziale per la vita delle persone private della libertà. È indispensabile il ridisegno del servizio di infermeria con la copertura medica e infermieristica nelle 24 ore e non rinviabile la predisposizione di spazi e strutture per la detenzione terapeutica per i soggetti con gravi patologie, anche per i soggetti con problemi di disturbi del comportamento e di salute mentale in modo che la magistratura di sorveglianza possa concedere misure alternative. La Asl deve compiere una ispezione e deve dichiarare ufficialmente se la struttura è agibile e rispondente alle norme igienico sanitarie di un servizio pubblica”, prosegue. L’iniziativa popolare - “Già 124 donne e uomini hanno sottoscritto l’iniziativa del garante, dando la dimostrazione che esiste una comunità ricca di sensibilità. Io ho deciso di iniziare da domani un digiuno per sollecitare le decisioni opportune in modo che il 7 novembre al Seminario “Udine controcorrente. Una rivoluzione gentile” si possa presentare un orizzonte di cambiamento completo. Collettivamente si è deciso di indire una marcia silenziosa e nonviolenta dal Duomo al carcere il 21 dicembre per festeggiare la conclusione dei lavori del Polo culturale, didattico e di laboratorio e della nuova Biblioteca e per unire tutta la città. Per quella data ci auguriamo che i lavori di ripristino della Sezione del Piano Terreno siano iniziati. La crisi del carcere è pesante. La scommessa è dare un senso e una speranza a un mondo di emarginazione, povertà e disperazione. La società civile deve essere protagonista del reinserimento sociale dei condannati, rifiutando lo stigma senza fine”. Reggio Calabria. Firmato protocollo per favorire l’inserimento socio-lavorativo dei detenuti di Claudio Labate lacnews24.it, 30 ottobre 2024 Un protocollo di intesa per favorire l’inserimento socio-lavorativo delle persone soggette a restrizioni della libertà personale nel territorio della città metropolitana di Reggio Calabria, simbolo di attenzione e civiltà rieducativa, frutto di un enorme sinergia istituzionale tra tanti soggetti che ognuno per la propria parte porterà il proprio mattoncino per la realizzazione degli obiettivi che si prefissa il documento. Oggi pomeriggio nel Salone degli Stemmi del Palazzo del Governo sono state diverse le firme apposte in calce al Protocollo che prevede quindi il coinvolgimento, oltre della Prefettura, dell’Assessorato Regionale politiche per il lavoro, del Tribunale di Sorveglianza, delle Direzioni degli Istituti penitenziari di Reggio Calabria, delle Case Circondariali di Palmi e Locri, dell’Istituto a Custodia Attenuata di Laureana di Borrello, dell’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna, di Confindustria, dell’Ance, del Fai, dei Garanti, regionale e comunale, dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, dell’Ordine dei Consulenti del lavoro, dell’Arpal - Azienda Calabria lavoro, del Centro per l’impiego di Reggio Calabria, dell’Ente Scuola Edile Formazione e Sicurezza cittadino. Obiettivo del Protocollo è quello di assicurare alle persone soggette a restrizioni della libertà personale una formazione specifica che consenta di operare nei cantieri edili, favorendone il reinserimento sociale attraverso l’avviamento professionale - in particolare - nel settore edilizio. “Come avete visto - ha detto il prefetto Clara Vaccaro - il protocollo è stato firmato da un numero considerevole di istituzioni, tutte intorno all’idea che educare è meglio che punire e quindi il protocollo tende una mano a coloro che avendo scontato la loro pena o essendo in procinto di terminare la pena in carcere, possono trovare al di fuori non soltanto una speranza ma una certezza”. Quindi, ha proseguito il Prefetto, si apriranno dei percorsi di formazione con tirocini, ma il tutto è abbinato anche ad un incontro tra domanda e offerta di lavoro attraverso l’Ance quindi il settore dell’edilizia che è quello che in questo momento nella regione sta chiedendo molta manodopera. “Quindi - ancora Vaccaro - cerchiamo di formare quelle persone che saranno in grado di volerlo fare, e avranno la volontà di sostenere un corso di formazione di tirocinio, per poi farli incrociare con le offerte di lavoro nelle varie aziende che operano nel settore dell’edilizia. Il direttore degli Istituti Penitenziari (San Pietro e Arghillà) “G. Panzera” di Reggio Calabria, Rosario Tortorella, ha ringraziato per l’attenzione il prefetto evidenziando il fatto che si vada al di fuori delle carceri per proporre all’interno del carcere dei percorsi che siano di formazione e ricordando che saranno proprio le Direzioni degli Istituti penitenziari e l’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna, dunque, individueranno le persone potenzialmente interessate e ritenute idonee, che saranno autorizzate dalla Magistratura di Sorveglianza a partecipare ai corsi di formazione professionale e di addestramento svolti dall’Ente Scuola Edile Formazione e Sicurezza, ed ai tirocini formativi e di orientamento organizzati dal Centro per l’impiego e da Arpal. Particolarmente soddisfatto anche l’assessore regionale al Lavoro Giovanni Calabrese: “Vogliamo cercare di dare con questo protocollo e con l’impegno che stiamo assumendo in Prefettura, una speranza e un futuro a chi ha avuto problemi con la giustizia e oggi è in una situazione di misura alternativa alla detenzione, per avere la possibilità, attraverso il Centro per l’impiego, attraverso l’Arpal e attraverso i vari rappresentanti presenti oggi al tavolo insieme al Prefetto di Reggio Calabria, di essere formati e avere uno sbocco lavorativo. Un’attenzione che rivolgiamo in generale a tutti i calabresi attraverso il dipartimento lavoro e il mio assessorato con tantissime risorse che abbiamo messo a disposizione attraverso il piano per il lavoro, e in particolar modo oggi lo facciamo appunto nei confronti di chi ha avuto una posizione particolare di evidente disagio”. A favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, e l’effettivo inserimento lavorativo, contribuirà inoltre l’impegno di Confindustria, Ance, Fai ed Ordine dei Consulenti del lavoro. Michele Laganà, presidente di Ance Reggio Calabria, parla di una giornata proficua: “Abbiamo finalmente messo a terra un protocollo che tenderà a unire domanda e offerta, rivolgendo la propria attenzione al mondo del lavoro rispetto a profili diciamo di fragilità. Nel caso di specie c’è la disponibilità del comparto di costruttori di Confindustria ad assorbire forza lavoro che vengono da un processo diciamo di rilancio, di riqualificazione di manodopera potenzialmente attinta da un’esperienza carceraria. Quindi agitiamo la nostra responsabilità sociale, ci mettiamo a disposizione di uno strumento che può dare delle risposte al comparto dei costruttori, ma soprattutto può dare una risposta alla comunità in senso allargato”. L’intesa mira quindi ad offrire una efficace occasione di riscatto a coloro i quali hanno portato avanti con successo il percorso di rieducazione, ed a costruire un positivo modello di sana reintegrazione nel tessuto della società civile. “I soggetti coinvolti sono tanti perché ciascuno ha un compito ben specifico in questo protocollo - ha infine chiarito il prefetto Vaccaro -. Noi abbiamo fatto un coordinamento, una cabina di regia, seguiremo l’andamento di questo protocollo anche per verificarne, essendo una sperimentazione importante ed innovativa, eventualmente degli aggiustamenti da fare. Lo riteniamo veramente un percorso virtuoso che ha richiesto una gestazione di diversi mesi proprio per la complessità, ma alla fine è stata una soddisfazione enorme vederci tutti oggi intorno al tavolo a firmare questo documento”. Mantova. “Il Comune aiuti i detenuti a trovare lavoro” Gloria De Vincenzi Gazzetta di Mantova, 30 ottobre 2024 Richiesta di Verdi Sinistra dopo la visita ai detenuti. L’assessora: “Via Roma si impegnerà a sensibilizzare privati ed enti. Sinistra Italiana e Alleanza Verdi-Sinistra erano oggi, martedì 29 ottobre, in visita al carcere di Mantova e la delegazione provinciale è uscita dalla struttura di via Poma con una richiesta precisa, rivolta al Comune: un aiuto per favorire il reinserimento lavorativo. Oggi i detenuti in permesso di lavoro sono quindici ma potrebbero essere molti di più e alleggerire in parte la pressione di un sovraffollamento che a Mantova è del 150%: 97 posti e 150 persone nelle celle anguste di un edificio vetusto. “Mantova è un esempio virtuoso per le numerose attività ricreative, sportive, di alfabetizzazione e di formazione che la direzione offre ai detenuti ma è carente il rapporto con il mondo del lavoro: chiediamo un protocollo d’intesa con il Comune perché si faccia parte attiva per far conoscere questa opportunità alle aziende del territorio”. A formularla è stata la segretaria provinciale di Sinistra Italiana Angelica Paroli, nella delegazione con l’assessora Alessandra Riccadonna che condivide la necessità di sanare questa carenza. “La difficoltà a trovare lavoro esterno è una criticità che abbiamo rilevato - ha confermato l’assessora - il Comune potrà impegnarsi a sensibilizzare privati ed enti”. Il gruppo richiede urgenti misure strutturali per sanare le carenze già note (come il fatto che nelle celle non c’è acqua calda) e si fa portavoce delle carenze di personale, un deficit di 10-12 persone, costretto a saltare i turni di riposo. Nella delegazione anche il consigliere comunale Nesti Ballciti, Daniela Mantovanelli e Fausto Banzi della segreteria e la garante dei diritti dei detenuti Graziella Bonomi che commenta: “Ringrazio per l’invito, sono a disposizione di tutte le forze politiche che vorranno fare altrettanto. Per combattere sovraffollamento e rischio suicidi serve l’impegno di tutti”. Rovigo. Il Sottosegretario Ostellari: “Il carcere minorile apre a marzo” di Marco Randolo polesine24.it, 30 ottobre 2024 Più detenuti? “Esplosione di fatti di sangue. E sono arrivati in Italia molti ragazzi senza famiglia”. Sono 540 i minorenni detenuti in Italia: quasi 150 in più rispetto a cinque anni fa. Anche per questo, il dipartimento per la giustizia minorile si sta adoperando per aprire nuovi istituti penali per minorenni. Compreso quello di Rovigo. La questione è sul tavolo del Provveditore alle opere pubbliche del Veneto, Tommaso Colabufo. “Da quanto mi risulta - rivela Andrea Ostellari, sottosegretario al Ministero della giustizia - l’inaugurazione si farà nei prossimi mesi, spero già a marzo”. La nuova struttura - spiega ancora Ostellari - “sarà un istituto all’avanguardia, sia per la sicurezza che per il trattamento e la rieducazione dei giovani utenti. Con spazi adeguati per la formazione e l’avviamento al lavoro. Stimiamo che, a pieno regime, l’istituto potrà accogliere 32 detenuti”. Ostellari, ma come mai le carceri minorili sono così sovraffollate? “Perché in Italia è mancata un’adeguata programmazione. Durante gli anni del Covid, per esempio, chi ci ha preceduto ha valutato di chiudere l’istituto di Lecce, a causa del calo di reati inevitabilmente collegato alle restrizioni. E pure il penitenziario dell’Aquila è stato dismesso. Quando le restrizioni sono state tolte, poi, i reati sono quasi raddoppiati, mentre nelle strutture i posti sono diminuiti, anche perché sono mancati investimenti e lavori di ristrutturazione, a Milano, Airola e pure a Treviso”. Con la conclusione che oggi ci sono 150 detenuti minorenni in più rispetto a cinque anni fa. Giusto? “Nel 2019 i detenuti minori erano poco meno di 400, poi c’è stata la pandemia. Oggi sono 540, in calo rispetto ai mesi estivi, ma con titoli di reato più grave. E questo avviene tanto al Nord, quanto nel Sud del Paese”. E’ vero che ad aver messo in crisi il sistema carcerario minorile è stato il decreto Caivano? “C’è chi legge i giornali e chi fa polemica. Io guardo la realtà: le cronache di queste settimane raccontano di un’esplosione di fatti di sangue. E chi uccide e stupra finisce in carcere, anche se minore, anche senza il decreto Caivano. Ma c’è di più”. Che cosa? “Negli scorsi anni in Italia sono arrivati centinaia di ragazzini senza famiglia e senza legami. Molti di questi inevitabilmente sono stati assoldati dalle organizzazioni criminali. Altri sono diventati baby pusher. E questa presenza crescente di minori stranieri non accompagnati, che esiste anche in altri Paesi europei, pesa sul sistema giustizia e sull’intera comunità. Basta guardare a cosa succede in Francia, Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi, dove intere città sono sotto ricatto da parte di baby gang”. Come se ne esce? “Serve uno sforzo corale, da parte di tutte le istituzioni, in favore dei giovani. La giustizia, purtroppo, arriva quando il reato è già stato compiuto. Servono interventi educativi a monte, con più scuola, più sport, più comunità. E meno cellulari. Una volta c’erano i patronati, oggi i giovani passano le giornate in casa o sulle strade. Senza opportunità aggregative sane. In questo senso le amministrazioni locali dovrebbero fare uno sforzo. Le faccio un esempio...” Prego... “I detenuti minori, in gran parte, quando iniziano il loro percorso detentivo non lamentano la mancanza dei genitori o degli amici. Ma chiedono solo di poter tornare a utilizzare il telefonino, per non perdere i follower che hanno sui social network”. Trieste. Una finestra sul carcere. Problematiche e criticità del sistema penitenziario italiano di Elisa Sossi triesteallnews.it, 30 ottobre 2024 Le problematiche delle carceri sembrano rimanere dietro le sbarre, senza possibilità di cambiamento o ascolto. Sovraffollamento, carenza di personale penitenziario, salute mentale e tossicodipendenze. L’Associazione ANDE di Trieste (Associazione Nazionale Donne Elettrici) ha voluto dare spazio a tale tematica nella giornata di ieri, lunedì 28 ottobre 2024, nella Sala Regus di Trieste (Riva Gulli, 12), occasione durante la quale sono stati discussi numerosi aspetti che, nella vita di un carcerato, meriterebbero più considerazione e maggiore attenzione. “L’argomento del carcere è solitamente lasciato da parte, un tema di cui proprio non ci si cura. Sembra che esistano due comunità, quelle dei liberi e dei non liberi, divise da un muro sia fisico che metaforico - afferma l’avvocata Soraia Pedone - L’obiettivo ultimo non è la pena ma la riabilitazione. Per questo, vogliamo togliere quel muro e costruire un ponte, aprire una finestra sul carcere”. Dati alla mano, a giugno del 2024 nei penitenziari italiani erano recluse circa 61.468 persone, a fronte di un numero di posti disponibili pari a 47.067. Ciò equivale a un indice di sovraffollamento del 130%. Il quadro, ad oggi, non è migliorato, con un costante aumento dei detenuti. “La logica del sistema penitenziario prevede misure alternative alla pena come una naturale valvola di sicurezza, che possano consentire al sistema di autogovernarsi. Questa linea rimane disattesa”, spiega il dott. Enrico Sbriglia, garante regionale dei Diritti per la persona in Fvg. Una delle cause del sovraffollamento carcerario si identifica nella mancanza di posti letto, i quali secondo il sistema penitenziario dovrebbero essere di 51.196 unità, dato non sufficiente per l’attuale numero di reclusi sul territorio nazionale. Un dato, quello inerente ai posti letto disponibili, in realtà inferiore rispetto alle stime presentate poiché non debitamente aggiornato, a parere del dott. Sbriglia. La regione del Friuli Venezia Giulia conta cinque istituti penitenziari, a Trieste, Gorizia, Udine, Tolmezzo e Pordenone. La capienza regolamentare - ossia il rapporto tra spazio e detenuti stabilito per norma - indica che non si potrebbero contenere più di 484 soggetti in tutto il territorio regionale. Invece, il dato attuale equivale a 692, ulteriormente falsato se si considerano le celle inagibili per svariati motivi. Successivamente, il dott. Graziano Puja, Direttore della Casa Circondariale di Trieste, ha approfondito una delle conseguenze del sovraffollamento. “Le condizioni ambientali, specialmente d’estate, tolgono lucidità e possono portare a rivolte e scontri, come quelli avvenuti a Trieste a luglio scorso. Ci sono celle con otto detenuti e un bagno solo, a cui si è aggiunto il recente problema delle cimici dei letti. Una sommatoria di criticità che ha generato - e sta generando - una situazione esplosiva”. Ulteriore tema di cruciale importanza nell’ambiente carcerario è quello della salute mentale e delle tossicodipendenze, tra le problematiche “più maltrattate e sottovalutate”, come riportato dal dott. Sbriglia. “L’assistenza sanitaria psichiatrica e mentale dev’essere fornita dagli specialisti. La situazione si è ulteriormente aggravata quando il trattamento della salute in carcere è stato trasferito dallo Stato alle regioni, e da queste ultime alle aziende sanitarie. Con la chiusura, poi, degli ospedali psichiatrici giudiziari, le persone sono state trasferite nelle REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) le quali ad oggi presentano lunghe liste d’attesa e la conseguente permanenza dei soggetti nelle carceri, certamente non luoghi di cura - commenta Sbriglia - A ciò, va sommato il recente periodo delle immigrazioni sullo sfondo delle guerre. L’Italia si è quindi ritrovata con molte più persone con altrettanti problemi psichiatrici, aggiunte a quelle preesistenti”. Infine, per quanto riguarda l’uso di farmaci legali (stabilizzanti dell’umore o antidepressivi), esso intacca il 20% dei detenuti complessivi in Italia - oltre 15 mila unità - mentre il 40% del totale, non affetto da disagi mentali, fa regolare utilizzo di ipnotici o sedativi. Numeri estremamente alti che, se sommati alla situazione di carenza di personale e difficoltà nella gestione del controllo e della supervisione, rende il tutto maggiormente complesso anche a discapito degli stessi operatori penitenziari. L’Associazione ANDE è una realtà politica apartitica che promuove la partecipazione attiva delle donne nel contesto politico, impegnata nel dare luce alle priorità dei valori etici nella politica, allo sviluppo e al progresso della società secondo i principi della Costituzione garante della libertà e della dignità della persona umana. Napoli. “Rigiocare il Futuro”, nuovo progetto di Seconda Chance e Sport Senza Frontiere La Repubblica, 30 ottobre 2024 Il completamento delle nuove strutture sportive nel carcere di Secondigliano consentirà l’avvio di un percorso formativo della durata di 24 mesi. “Rigiocare il Futuro, lo sport per ripartire”: questo è il nome dato al progetto ideato dalle associazioni Seconda Chance e Sport Senza Frontiere e supportato dalla Fondazione Entain. L’iniziativa punta a realizzare all’interno dell’istituto penitenziario di Secondigliano una grande cittadella dello sport, un polo sportivo d’eccellenza che offra ai detenuti nuove opportunità di crescita e reinserimento lavorativo. Il progetto è sviluppato secondo due direttrici: essere un esempio concreto di investimento in infrastrutture sociali in un luogo pubblico (interamente sostenuto da risorse private) e puntare sulla forza del partenariato (tra pubblico, privato e terzo settore) per lo sviluppo dei servizi che quelle infrastrutture permetteranno di erogare. Il progetto si sviluppa in due fasi: la prima prevede la creazione e la dotazione all’Istituto penitenziario delle infrastrutture per la pratica sportiva. La seconda l’avvio di corsi professionalizzanti che consentiranno un reinserimento nel mondo del lavoro. La riqualificazione, all’interno del perimetro del centro penitenziario di un’area non agibile, consentirà la realizzazione ex novo di due campi da padel, che potranno essere utilizzati anche per altri sport, mentre la ristrutturazione dell’attuale campo da calcio, consentirà ai detenuti di utilizzare l’intera area anche con l’ausilio di nuovo materiale tecnico per gli allenamenti. Il completamento delle nuove strutture sportive consentirà l’avvio di un percorso formativo della durata di 24 mesi che, grazie alla presenza diretta di formatori, tecnici ed istruttori sportivi certificati all’interno della rete di Sport Senza Frontiere, lavorerà sullo sviluppo delle competenze sportive e trasversali dei detenuti, che potranno anche ottenere l’abilitazione per diventare arbitri. Eurobet, società del gruppo Entain, è a supporto di questo progetto. “L’iniziativa si inserisce in una progettualità che negli anni ci ha visto protagonisti nello sviluppo e nel finanziamento di vari progetti in Italia. La collaborazione con tante associazioni, tante aziende private e pubbliche e il tema dell’infrastruttura fanno parte di un processo più che un progetto - ha sottolineato Andrea Faelli amministratore delegato di Eurobet - e insieme al tema dello sport, a noi molto caro, fanno sì che questa idea di creare nuovi spazi per lo sport nel carcere di Secondigliano, rendano ancora più evidente l’impegno nel sociale che il gruppo Entain”. “Oltre a ringraziare Seconda Chance e Sport Senza Frontiere, ci tengo a sottolineare che si tratta di un progetto a lunga scadenza. Non è solo la ricostruzione dei campi, ma anche cercare di creare delle opportunità per i detenuti, per avere una seconda chance sia attraverso lo sport sia con l’acquisizione di una serie di competenze che potranno essergli utili nel momento in cui usciranno dal carcere”. L’amministratore delegato di Eurobet è anche intervenuto sull’immagine negativa che hanno le società che offrono gioco: “È un tema annoso e fastidioso. Si tratta di aziende concessionarie dello Stato, inserite nel tessuto produttivo italiano, che danno opportunità di lavoro. Qualsiasi ambito industriale ha delle parti più a rischio, ma nel nostro caso stiamo parlando di percentuali piccole”. Andrea Faelli ha parlato anche dell’atteso riordino del gioco “fisico”, vale a dire quello praticato nel sale scommesse, bingo e slot, che ha tra i temi in discussione quello delle distanze dai luoghi cosiddetti sensibili. “Stiamo parlando di un settore industriale che ha almeno vent’anni di storia. Mi piacerebbe che si tenesse in conto quella che è la situazione che il mercato ha determinato sul territorio nazionale nel corso di questi venti anni e che si facesse lo sforzo di guardare al futuro. Servirebbe una regolamentazione che guardi in avanti, non solo al domani - ha concluso Faelli parlando del riordino del gioco fisico - ed avere un po’ di coraggio nell’affrontare un tema che è importante sia per noi aziende sia per i cittadini”. Sull’iniziativa “Rigiocare il Futuro, lo sport per ripartire” è intervenuto anche Giuliano Guinci, responsabile Relazioni istituzionali e sostenibilità di Eurobet. “Abbiamo incontrato l’associazione Seconda Chance che ci ha proposto di lavorare in un contesto per noi un po’ diverso, unendo quelli che sono i nostri valori, cioè l’attenzione al sociale e il mondo dello sport. Da lì è nato questo progetto che prevede la riqualificazione di una serie di strutture sportive all’interno del carcere di Secondigliano. Ma il progetto prevede anche l’avvio di un percorso della durata di due anni non solo di formazione, volta all’utilizzo di quei campi nel miglior modo possibile, ma anche per avere la possibilità, per i detenuti, di reinserirsi nel mondo del lavoro utilizzando la forza dello sport. La forza del messaggio deriva proprio dal partenariato, dallo stare insieme che, secondo me, è una delle cose più forti che questo progetto ha al suo interno”. Guinci ha anche parlato del “Salone della CSR e dell’innovazione sociale”, appuntamento culturale che da 12 anni promuove occasioni di confronto e aggiornamento tra le imprese e gli altri attori sociali: “Questi momenti sono molto importanti perché si approcciano tematiche molto delicate, si ha a che fare con le fragilità, con sensibilità diverse. Bisogna avere anche la propensione a imparare e ad ascoltare. Il Salone della CSR è stato in tal senso un momento importante. Si è parlato di innovazione sociale, del passaggio a progetti sempre più complessi”. “Aver intrapreso un percorso sulle infrastrutture e sul partenariato è un cammino lungo, che probabilmente ci impegnerà per l’intero 2025. Siamo in fase di scouting sul territorio - ha concluso Guinci - stiamo incontrando tante realtà che ci stanno proponendo nuove iniziative che ci prepariamo a sostenere”. Dal mito alla realtà: contro “Gomorra” serve una task-force dell’educazione civile di Alessandro Barbano Il Dubbio, 30 ottobre 2024 Si ammazzano come killer spietati per quella che gli stessi inquirenti chiamano una supremazia simbolica. Sono figli di camorra o piuttosto di Gomorra? Al punto in cui siamo arrivati, l’interrogativo è tutt’altro che peregrino. C’è qualcosa di sottovalutato nella guerra dei quindicenni napoletani. Non sono apprendisti di un’organizzazione criminale verticistica e innervata nel territorio. Sembrano piuttosto emuli di una pedagogia noir, transitata dalla realtà alla cronaca, dalla cronaca al mito, e dal mito di nuovo alla realtà. Non gettano la loro vita per il pizzo dei commercianti o per il controllo delle piazze di spaccio, ma per il fascino del comando e di una sfida alla morte. Sembrano l’esito di una circolarità maligna, che dovrebbe interrogarci sull’adeguatezza dei mezzi con cui si fronteggia, o piuttosto si concima inconsapevolmente, un fenomeno così grave e a suo modo unico nel Paese. Non si tratta di colpevolizzare, o peggio, di censurare Saviano, la sua letteratura seriale o piuttosto il cinema. Ma abbiamo il dovere di chiederci se quel racconto, in assenza di contrappesi, sia diventato un circuito di idealizzazione del male e di identificazione per ragazzi senza famiglia e senza riferimenti civili. Chi sono i padri, gli zii e i fratelli maggiori degli adolescenti armati che si contendono la notte di nessuno a Napoli? Sono genitori emigrati all’estero, detenuti, tossicodipendenti, atomi di una diaspora sociale o di una crisi criminale e familiare che li condanna alla fuga o alla marginalità, ai fallimenti personali, alla guerra tra poveri per occupare un alloggio popolare. In questo deserto di codici elementari di socialità, prima ancora che di valori, il romanzo criminale della tv e del cinema potrebbe aver ricucito al rovescio l’io disgregato di almeno due generazioni. Anche perché nella sua proiezione sui social network Gomorra si fa gomorrismo, accentua l’ammiccamento ai suoi eroi negativi, esalta l’alone di invincibilità che li circonda come una nube di illusioni, di fronte alla quale la solitudine di un genitore o di un insegnante, quando pure ci sono, scopre la sua frustrante impotenza. Bisogna oggi chiedersi se la lotta alla baby criminalità di Napoli non debba essere anche sfida a un mito noir, interiorizzato passivamente, che si fa, a modo suo, identità collettiva. Ma come si sfida un mito? Basterà la rituale riposta repressiva dello Stato, la militarizzazione della città, il controllo capillare dei suoi bassi, il giustapporsi di burocrazia e tecnologia della sorveglianza, che continuano a crescere senza sosta sotto i tanti acronimi dell’infrastruttura poliziesca? Basterà la retorica di una legalità autoreferenziale, che parla solo ai già buoni, e suscita diffidenza e irrisione tra i cattivi, i veri destinatari delle pedagogie di contrasto al crimine? Temiamo che non bastino, anzi che siano parte di un problema sociale così incistato da apparire una piaga cronica irrisolvibile. C’è di questi tempi, a Napoli, chi intravede con irenica fiducia un cambio di paradigma delle politiche pubbliche. Ma una svolta reale, su questo campo di gioco, vorrebbe dire mettere in piedi una task force dell’educazione civile, che intervenisse trasversalmente su tutti i processi di formazione della gioventù, dalla famiglia alla scuola, dalle piazze di aggregazione reale e virtuale ai servizi sociali, con una capacità di mappare selettivamente il disagio e il rischio e di disarmarli con un’offerta di cultura, di modelli alternativi, di occasioni concrete. Ma per costruire un’infrastruttura così articolata, così pervasiva e al tempo stesso sapientemente selettiva e rispettosa delle libertà individuali, occorrerebbe dismettere l’elefantiaco apparato repressivo, tagliando una buona volta i suoi costi parassitari per investire in strategie educative e formative mirate. Non solo vuol dire avere meno scorte, meno intercettazioni, meno manette e più maestri, più educatori, più psicologi. Ma imprimere al magistero formativo una concretezza non puramente declamatoria. Un esempio per spiegarlo: per combattere la dispersione scolastica, non servono corsi pomeridiani di teatro a cui partecipino solo coloro che la scuola la frequentano già, ma una mappatura esatta del fenomeno e un intervento quasi sartoriale sugli studenti, sulle famiglie e sui contesti sociali coinvolti. Quando finalmente si prenderà atto che la politica di contrasto al crimine fin qui perseguita è servita più a foraggiare chi ci lavora dentro che a sostenere e a proteggere le società meridionali, allora si potrà iniziare a costruire una politica capace di mettere al centro lo sviluppo affettivo e l’educazione alla vita di comunità dei giovani. Solo a quel punto non avremo più motivo di temere Gomorra. Droghe. L’erba è il diavolo: tutti all’inferno o in galera di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 30 ottobre 2024 Abbiamo ampiamente scritto su questa rubrica del coacervo panpenalistico del Disegno di legge Sicurezza ma vale la pena approfondire i contenuti dell’articolo 18, che inserisce nella legge 242/16 il divieto di produzione e vendita delle infiorescenze di canapa a basso contenuto di Thc, la cosiddetta cannabis light. Dopo l’approvazione alla Camera il testo è all’esame del Senato, dove sono in corso le audizioni nelle commissioni congiunte Affari costituzionale e giustizia, e presto inizierà il confronto sugli emendamenti. Le associazioni del settore si sono date appuntamento martedì scorso, su invito della senatore Licheri (M5S), ed erano presenti le principali associazioni di produttori, da Canapa Sativa Italia a Imprenditori Canapa Italia oltre a Sardinia Cannabis, Resilienza Italia Onlus e Federcanapa, e infine alcune associazioni di categoria come Cia, Cna, Copagri e Confagricoltura. La Coldiretti, la cui contiguità con il governo potrebbe essere d’aiuto, era assente ma ha lanciato un appello per il ritiro della norma. Il bando dei fiori di canapa rivela un approccio ideologico e irrazionale al diritto che finisce per diventare paradossale. Si introduce l’assurdo giuridico di colpire con sanzioni draconiane previste per le sostanze psicotrope anche chi produce o usa infiorescenze senza effetti psicoattivi. In barba ai principi di proporzionalità, ragionevolezza e offensività propri della nostra cultura giuridica. Per farlo si rimanda alle disposizioni del Testo unico sulle droghe, creando un loop normativo e giurisprudenziale. L’articolo 26 del Testo unico, in accordo con le Convenzioni Onu sugli stupefacenti, esclude esplicitamente dal divieto di coltivazione la canapa industriale per gli usi “consentiti dalla normativa dell’Unione europea”. L’Ue, a sua volta, consente l’uso di tutte le parti delle piante coltivate dai semi presenti nel suo catalogo. “Nessuno Stato membro può impedire la libera circolazione di prodotti legalmente prodotti in un altro Stato membro” ha ribadito Lorenza Romanese, direttrice dell’European Industrial Hemp Association, evidenziando come il divieto di produzione in Italia non potrà impedire l’importazione dagli altri paesi dell’Ue. La giurisprudenza afferma poi che le previsioni del Testo unico non sono applicabili nel caso che i derivati della cannabis siano “in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”. La soglia drogante è ormai unanimemente fissata allo 0,5%, ovvero quasi tre volte la quantità di Thc massima prevista dalla legge 242/16 (0,2%). La furia iconoclasta della destra è completata dal decreto Schillaci bis, che ha inserito le preparazioni per uso orale di Cbd nella tabella dei medicinali stupefacenti: sospeso per due volte dal Tar del Lazio, andrà al giudizio di merito a dicembre. Assoggettando un preparato non stupefacente alle tabelle dei farmaci psicotropi, in contrasto con le indicazioni dell’Oms e la giurisprudenza europea, si vuole regalare il mercato all’industria farmaceutica. Invece che regolamentare i prodotti che possono essere venduti come integratori o come farmaci, a secondo della percentuale di principio attivo e garantendo la sicurezza dei consumatori. Torna così la pianta del demonio. Anche se è la stessa pianta cara all’autarchia del ventennio, che intorno ad essa era stata costruita la narrazione del regime. La stessa canapa coltivata per millenni in Italia, capace di disegnare il territorio ed essere illustrata sin dalla pittura rinascimentale. L’obiettivo, perseguito ossessivamente dal sottosegretario Mantovano e dal suo Dipartimento antidroga, è impedire alla filiera italiana di usare la parte più preziosa della pianta, il fiore, indispensabile per la produzione farmaceutica, cosmetica e alimentare. Si mette così scientemente in crisi la redditività di tremila aziende che nella piena legalità oggi occupano 30mila lavoratori, perlopiù giovani. Migranti. Decreto Paesi sicuri: la norma finisce davanti ai giudici dell’Ue di Angela Stella L’Unità, 30 ottobre 2024 I giudici italiani rinviano il decreto alla Cgue per chiedere se, in caso di contrasto, il diritto comunitario prevalga su quello interno: dobbiamo disapplicarlo o no? A Roma l’assemblea dell’Arci contro il protocollo con l’Albania. Il Tribunale di Bologna ha rinviato alla Corte di Giustizia europea il decreto del governo sui Paesi sicuri, per chiedere quale sia il parametro su cui individuare i cosiddetti Paesi sicuri e se il principio del primato europeo imponga di ritenere che in caso di contrasto fra le normative prevalga quella comunitaria. Il rinvio è arrivato nell’ambito di un ricorso promosso da un richiedente asilo del Bangladesh contro la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione. In pratica si mette subito in dubbio la valenza del “Decreto-Legge 23 ottobre 2024, n. 158: Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale” varato tre giorni dopo la decisione del Tribunale civile di Roma di non convalidare il fermo di dodici migranti portati dal Governo italiano in Albania. Quella decisione fu la risposta politica ad una decisione della magistratura non condivisa. Ora è sempre un giudice a mettere tutto in discussione perché evidenzia un contrasto tra la normativa europea e quella italiana. Al termine del rinvio pregiudiziale il giudice si chiede in pratica se è possibile disapplicare la norma appena varata, anche se di rango primario quale una legge ordinaria, in base alla Direttiva 2013/32/UE, e se il diritto sovranazionale prevalga su quello italiano. La vicenda riguarda un richiedente asilo, cittadino del Bangladesh, che il 18 ottobre scorso ha impugnato un provvedimento emesso dalla commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. La sua richiesta era stata dichiarata infondata in ragione della sua provenienza da un Paese sicuro e della mancata indicazione di gravi motivi per ritenere quel Paese insicuro. Come si legge nel provvedimento “rientra nella logica del rinvio pregiudiziale che la Corte di Giustizia sia invocata quando occorra dissipare gravissime divergenze interpretative del diritto europeo, manifestatesi nel caso di specie in modo obiettivo e virulento in seguito ad alcuni provvedimenti giurisdizionali sino alla decretazione d’urgenza di cui al D.L. n. 158/2024”. Per i giudici “in presenza di un gravissimo contrasto interpretativo del diritto dell’Unione, qual è quello che attualmente attraversa l’ordinamento istituzionale italiano, il rinvio alla Corte è opportuno al fine di conseguire un chiarimento sui principi del diritto europeo che governano la materia”. Inoltre va osservato che in base alla “ scheda paese datata 3 maggio 2024, che era stata richiamata al momento della designazione del Bangladesh del maggio 2024”, “e che, a quanto risulta, non è stata aggiornata ai fini della sua ulteriore designazione del 23 ottobre 2024 (nonostante la gravissima crisi politica che da allora ha attraversato il paese)”, si dovrebbe “escludere la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro se nello stesso vi sono fenomeni endemici di persecuzione rivolta verso minoranze, anche piccole, della popolazione, in specie se le stesse non siano immediatamente identificabili”. Rispetto alla designazione dei Paesi sicuri “il Potere esecutivo ha difatti inteso sottolineare la menzionata natura “politica” della designazione, con l’effetto che a suo avviso tale scelta sarebbe sottratta al sindacato giurisdizionale”. Ma per il collegio bolognese “Il diritto dell’Unione risulta dotato senz’altro di efficacia diretta sicché il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare la norma europea e di non applicare quella nazionale” e quindi rispettare la Direttiva 2013/32/UE in materia di condizioni per la designazione di un paese terzo come paese sicuro. Nel suo rinvio alla Corte di Giustizia europea sul decreto ‘paesi sicuri’ il tribunale di Bologna, entra anche nel merito sulla definizione di ‘Paesi sicuri’, contestando il principio per cui potrebbe definirsi sicuro un Paese in cui la generalità, o maggioranza, della popolazione viva in condizioni di sicurezza, visto che il sistema di protezione internazionale si rivolge in particolare alle minoranze. Portando anche il paradosso che la Germania nazista fosse stata estremamente sicura: “la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile. Lo stesso può dirsi dell’Italia sotto il regime fascista”. Inevitabili le polemiche politiche. “La tripartizione dei poteri è alla base della democrazia. Al potere giudiziario non spetta cercare di cambiare le leggi e fare il braccio di ferro con il potere esecutivo e legislativo, perché la democrazia è il potere nelle mani del popolo” ha commentato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Gli ha fatto eco Rampelli di Fdi: “Ormai è di solare evidenza: una certa magistratura accelera procedure e procedimenti ogni qual volta intenda minare l’operato politico di un governo legittimamente nella carica”. Per il deputato di +Europa Riccardo Magi “Il decreto sui Paesi sicuri è l’ennesima prova che il governo avanza a tentoni sulla questione migranti, sul diritto all’asilo e sul diritto europeo in generale”. “Era inevitabile, dopo il pasticcio del governo, che il problema venisse spostato alla Corte europea” ha detto pure il capogruppo di Alleanza verdi e sinistra nella commissione Affari costituzionali della Camera, Filiberto Zaratti. Intanto ieri mattina associazioni, politici e artisti si sono riuniti all’ex Mattatoio Testaccio, a Roma, “per provare a mettere un punto all’appello sottoscritto da moltissime organizzazioni, personalità della cultura, della politica per fermare il protocollo Albania”. “Il Paese ha bisogno di una risposta concreta”, ha spiegato nel suo intervento d’apertura il presidente nazionale dell’Arci, Walter Massa. Migranti. I giudici di Bologna rinviano alla Corte Ue il decreto sui migranti di Elena Tebano Corriere della Sera, 30 ottobre 2024 “Con questi criteri la Germania nazista sarebbe stata definita Paese sicuro”. Con un atto depositato ieri, il tribunale di Bologna chiede alla Corte di giustizia Ue quali norme vadano rispettate e critica la definizione di “Paesi sicuri” (necessaria per attuare l’accordo con l’Albania). Il Tribunale di Bologna ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea di stabilire se deve essere disapplicato il decreto legge del 21 ottobre con cui il governo Meloni ha definito la lista dei Paesi che ritiene “sicuri” per rimpatriarvi i migranti espulsi dall’Italia. Secondo i giudici bolognesi infatti i criteri usati dal governo nella designazione di Paese “sicuro” contrastano con il diritto europeo. Il decreto serviva a rendere operativo l’accordo con l’Albania sulle procedure accelerate per il rimpatrio dei migranti irregolari, su cui si incentrano le politiche per l’immigrazione volute dalla premier Giorgia Meloni, risolvendo alcuni problemi giuridici posti dalla precedente lista dei Paesi sicuri fatta dal governo italiano. Cosa dice il decreto del governo Meloni - Il Consiglio dei ministri infatti ha approvato il decreto in tutta fretta dopo che il 18 ottobre il Tribunale di Roma non ha convalidato il fermo per i primi 12 migranti sbarcati in Albania, che quindi erano stati riportati in Italia. Definendo sicuri 19 Paesi, il decreto mira a rendere possibile il trasferimento in Albania dei migranti che provengono da quei Paesi (se le loro richieste di asilo vengono respinte) in attesa che siano completate le procedure accelerate di espulsione previste dall’accordo con Tirana. Da dove nascono i dubbi del tribunale - Il modo in cui il governo ha scelto di definire sicuri i 19 Paesi in questione però contrasta con le normative europee attualmente in vigore (anche se lo rimarranno solo fino al 2026) e il Tribunale di Bologna si è rivolto ai giudici della Ue chiedendogli di esplicitare quali regole debbano prevalere: se quelle italiane o quelle europee. Secondo il diritto dell’Unione europea le norme nazionali sull’immigrazione devono sempre rispondere al diritto della Ue e quindi il conflitto con il decreto del governo Meloni (che era stato oggetto di una intensa interlocuzione tra gli uffici giuridici di Palazzo Chigi e quelli della presidenza della Repubblica) era inevitabile. Il rinvio del Tribunale di Bologna alla Corte di Giustizia Ue lo rende solo palese. Il concetto di sicurezza “parziale” - Il rinvio riguarda il caso di un cittadino del Bangladesh, uno dei 19 Paesi sicuri secondo il decreto del governo Meloni. Il Tribunale di Roma il 18 ottobre aveva spiegato che il Bangladesh e altri Paesi non potevano essere ritenuti sicuri sulla base “dei principi, vincolanti per i giudici nazionali e per l’amministrazione, enunciati dalla recente pronuncia della Corte europea” del 4 ottobre. Sentenza che aveva bocciato la definizione di “Paesi d’origine sicuri” utilizzata dall’Italia perché basata su un concetto di sicurezza “parziale”. Ovvero sull’idea che Paesi come Bangladesh, Egitto o Tunisia sono sicuri per la maggioranza della popolazione, mentre sono pericolosi solo per minoranze vulnerabili come gli oppositori politici o la comunità Lgbtqi+. Per la Corte Ue del Lussemburgo, però, non è ammissibile escludere categorie di persone da questa definizione: un Paese o è sicuro per tutti o non lo è per nessuno. Al contrario il governo, come ha spiegato Gianluca Mercuri, sostiene che la sentenza della Corte di giustizia Ue non può essere considerata vincolante, perché sarebbe (secondo le parole del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano) “estremamente complessa, difficilmente trasferibile a ciò che accade in via ordinaria nei flussi migratori” e perché il Parlamento europeo ha già approvato un nuovo Regolamento che entrerà in vigore nel 2026 e modifica il concetto di Paese sicuro introducendo il concetto di “sicurezza parziale”. Poco importa al governo se - come ha scritto la nostra corrispondente da Bruxelles Francesca Basso - “finché il nuovo Patto non entra in vigore resta valida la direttiva del 2013” a cui si rifà la sentenza del 4 ottobre della Corte europea. Il tribunale di Bologna fa riferimento a questo conflitto e nel chiedere alla Corte di giustizia Ue di pronunciarsi non solo condivide la valutazione del Tribunale di Roma ma sostiene che il decreto debba essere disapplicato perché non può esistere una sicurezza solo parziale. Il paradosso: “La Germania nazista era un Paese sicuro?” - “Il sistema della protezione internazionale è, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori” scrivono i giudici di Bologna. “Salvo casi eccezionali (lo sono stati, forse, i casi limite della Romania durante il regime di Ceausescu o della Cambogia di Pol Pot), la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile. Lo stesso può dirsi dell’Italia sotto il regime fascista. Se si dovesse ritenere sicuro un Paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i Paesi del mondo, e sarebbe, dunque, una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica” concludono i giudici. I magistrati ricordano inoltre che già “il Conseil d’État francese ha ritenuto illegittime le designazioni del Senegal e del Ghana, perché vi è persecuzione delle persone lgbtqia+” e che anche “la Corte Suprema inglese ha dichiarato illegittima la designazione della Giamaica in ragione della persecuzione delle persone lgbtqia+”. Per questo chiedono alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di chiarire “se la presenza di forme persecutorie o di esposizione a danno grave concernenti un unico gruppo sociale di difficile identificazione - quali ad esempio le persone lgbtiqa+, le minoranze etniche o religiose, le donne esposte a violenza di genere o a tratta ecc... - escluda detta designazione” (come Paese sicuro) e se “il dovere per il giudice di disapplicare l’atto di designazione permanga anche nel caso in cui detta designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria”. Migranti. Decreto Paesi sicuri: perché è un autogol quel richiamo dei giudici a Hitler di Francesca Sforza La Stampa, 30 ottobre 2024 Il Bangladesh può definirsi un Paese sicuro? Secondo il governo italiano sì, tanto che lo ha inserito nella lista aggiornata del Decreto seguito al pasticcio dell’hub albanese. Secondo un cittadino bengalese no, tanto che ha presentato ricorso al tribunale di Bologna facendo presente che nel suo caso il rimpatrio tutto potrebbe essere tranne che il ritorno in un posto sicuro. Effettivamente, in Bangladesh, alcune categorie di cittadini sono più a rischio di altre: gli omosessuali per esempio, che se individuati rischiano la reclusione a vita. Legittimo dunque che il tribunale di Bologna, facendo seguito al ricorso, si rivolga alla Corte europea del Lussemburgo per avere delucidazioni: il Bangladesh è o no un paese sicuro? Come collocare giuridicamente il fatto che possa essere “parzialmente” sicuro, o comunque non sicuro per tutti allo stesso modo? Meno sensato però affiancare alla domanda una valutazione che non solo appare clamorosamente fuori luogo, ma, cosa forse più grave, sembra anche una risposta. “Salvo casi eccezionali - scrivono i giudici di Bologna - la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile”. Non sappiamo se era possibile formulare in una sola frase un così consistente numero di errori concettuali, ma proviamo comunque a sintetizzarli: intanto “la condizione di sicurezza invidiabile” applicata alla Germania nazista rinnega la quotidianità cupa e violenta di quegli anni (un solo libro, a caso: “Ognuno muore solo” di Hans Fallada). A seguire, l’allusione secondo cui il regime nazista appartiene a un orizzonte di senso paragonabile al governo italiano, cosa che davvero tracima dalle coordinate del dibattito pubblico in un paese democratico come il nostro, con tutte le sue imperfezioni. Infine, la drammatica e un po’ ingenua caduta nel cosiddetto “algoritmo Hitler”, ovvero lo sbocco più vieto e infantile verso cui condurre un ragionamento o, come in questo caso, un giudizio. Gli esperti delle conversazioni sui social network hanno dedicato al tema pagine infinite: ogni volta che in una conversazione entrano le parole “Hitler” o “nazista”, la ragionevolezza lascia il posto agli insulti e alle risse, e ogni tentativo di leggere i fatti e la realtà si trasforma in presa di posizione e rinuncia definitiva al dialogo. In genere per arrivare al “momento Hitler” ci si mette un po’, argomentativamente parlando, ma in questo caso no: lo si è messo nero su bianco con la sicumera di chi si si sente dalla parte del giusto. Una mossa che certo non aiuta la dialettica tra governo e magistratura, e che è molto poco in linea con quella de-escalation chiesta proprio pochi giorni fa dal presidente Mattarella Migranti. Meloni: decidiamo noi, non i giudici. Quell’ordinanza “una provocazione” di Federico Capurso La Stampa, 30 ottobre 2024 Il governo ha dato mandato all’Avvocatura di Stato di difendere il provvedimento contestato davanti alla giustizia europea. La premier si aspettava l’iniziativa della magistratura, ma è stata sorpresa dal riferimento al Terzo Reich e all’Italia fascista. Giorgia Meloni lo aveva messo in conto. Un minuto dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto con la nuova lista dei Paesi sicuri, una settimana fa, si diceva già certa - parlando con chi le era vicino - che qualche magistrato avrebbe sollevato delle obiezioni. Ieri, infatti, dopo essere stata informata della decisione del Tribunale di Bologna di chiedere un “rinvio pregiudiziale” alla Corte di giustizia europea su quel decreto, non ha nemmeno portato il tema in discussione in Consiglio dei ministri. La linea era già definita. Sul fronte comunicativo si mettono nel mirino le “toghe rosse che remano contro il governo e il Paese”. E dietro le quinte si prepara la vera battaglia, che verrà combattuta nelle aule dei tribunali. A Palazzo Chigi si ripete in queste ore che “non sono i giudici a poter decidere quali sono i Paesi sicuri. Quello è un compito che spetta al governo”. Poco importa che non sia questo l’intento del Tribunale di Bologna, che chiede invece alla Corte Ue se i criteri con cui sono stati definiti dal governo i “Paesi sicuri” non siano in contrasto con la sentenza della Corte europea del 4 ottobre scorso e se, nel caso, sia possibile per i tribunali nazionali disapplicare quella legge. Questioni tecniche, da affrontare da un punto di vista giurisprudenziale. E in questo senso infatti, fuor di propaganda, si è mosso il governo. Dopo un coordinamento tra la presidenza del Consiglio, il Viminale, la Farnesina e il ministero della Giustizia, è stato dato mandato all’Avvocatura dello Stato di preparare le controdeduzioni da presentare alla Corte di giustizia europea. La risposta della Corte, però, non arriverà a breve. Potrebbero volerci anche dei mesi. Nel frattempo, il governo conta di poter proseguire con le procedure di rimpatrio accelerato, pur sapendo che altri Tribunali potrebbero seguire l’esempio di Bologna. È lo stesso atteggiamento avuto finora con il ricorso in Cassazione presentato dal governo contro la decisione del Tribunale di Roma di invalidare i trattenimenti dei richiedenti asilo nei centri per i rimpatri accelerati in Albania e di riportarli in Italia. Quel che Meloni non si aspettava, invece, era di trovare nelle motivazioni del rinvio alla Corte Ue del Tribunale di Bologna un riferimento alla “Germania nazista” e l’”Italia fascista”, messi sullo stesso piano dei Paesi sicuri decisi dal governo: sicuri per chi ci abitava, fatta eccezione per le minoranze, dai rom agli omosessuali, fino agli oppositori politici. In questo passaggio delle 25 pagine di ordinanza, per i fedelissimi di Meloni, c’è “la prova che certi giudici cercano strumentalmente lo scontro con il governo”. La considerano una provocazione: “Un paragone volutamente esagerato - dicono dal quartier generale di Fratelli d’Italia -, inutile ai fini giurisprudenziali, inserito sapendo che avrebbe provocato una reazione da parte del governo e della maggioranza”. Infatti reagiscono e lo fanno con tono sdegnato di fronte ai microfoni, ma è, tutto sommato, quasi un regalo. Nel centrodestra considerano ormai inevitabile lo scontro con la magistratura. E sottolineano più volte come questo clima di tensione sia salito, dal loro punto di vista “in modo tutt’altro che casuale”, proprio nel momento in cui entra nel vivo la riforma costituzionale con cui il governo vuole separare la carriera dei pubblici ministeri da quella dei giudici, intervenendo anche sull’assetto del Consiglio superiore della magistratura. “Ci attaccano sui migranti per indebolirci e far arenare la riforma”, ripetono come un mantra da giorni gli uomini di maggioranza e ancor di più ieri, dopo il vertice politico tra capigruppo e sottosegretari della Giustizia nel quale è stata confermata la volontà di accelerare per arrivare a una prima approvazione alla Camera entro la fine dell’anno”. E così, quel passaggio dell’ordinanza del Tribunale di Bologna diventa per il governo il pretesto perfetto per puntare il dito contro la magistratura politicizzata, le toghe rosse, i giudici nemici del Paese. L’equivoco della “pace giusta” di Valentina Pazé Il Manifesto, 30 ottobre 2024 È accettabile posticipare l’obiettivo, nell’attesa che si creino (sul campo di battaglia) le condizioni per propiziare il risultato? La pace va perseguita attraverso il diritto. Una pace giusta. Tutti la vogliono, tutti la cercano, tutti la invocano. Lo ha fatto, da ultimo, il segretario generale dell’Onu al summit dei Brics, auspicando una soluzione negoziata della guerra in Ucraina. La reclama da mesi Zelensky, in chiave diversa, per opporsi a ogni e qualsiasi trattativa che ponga fine alla guerra. L’ha chiamata in causa anche Carola Rackete per giustificare il proprio voto al Parlamento europeo a favore dell’uso delle armi occidentali per colpire in profondità il territorio russo. Netanyahu, invece, nel suo intervento all’Onu di un mese fa, si è limitato a dichiarare - con l’improntitudine che lo contraddistingue - che “Israele vuole la pace”. Per poi, un attimo dopo, autorizzare l’omicidio “mirato” di Nasrallah, prontamente definito da Biden “una misura di giustizia”. Una pace che non si riduca a una temporanea cessazione delle ostilità, e che non si limiti a riconoscere ex post il diritto del più forte, è - dovrebbe essere - nell’auspicio di tutte le persone ragionevoli. Non la pace dei cimiteri, su cui ironizzava Kant, nell’incipit della Pace perpetua (così simile a ciò che sta realizzando Netanyahu a Gaza). Non la “pace dei ricchi” di cui parlava David Grossman prima del 7 ottobre, per riferirsi agli “accordi di Abramo” con cui Israele e le petro-monarchie del Golfo avrebbero dovuto assicurare stabilità alla regione, normalizzando l’occupazione e l’apartheid in Palestina. Una pace coloniale, imposta dai forti sui deboli, alle loro condizioni. Palesemente “ingiusta” e, proprio per questo, illusoria, precaria, inaccettabile. Dovremmo allora unirci al coro di chi, oggi, smarcandosi dalla richiesta di un cessate il fuoco subito, pretende una pace giusta? E ritenere magari accettabile posticipare nel tempo il raggiungimento dell’obiettivo, nell’attesa che si creino (sul campo di battaglia) le condizioni per propiziare il risultato? Il problema, in questo tipo di ragionamento, è che ciascuno coltiva una propria idea di giustizia, che in genere non ha niente a che vedere con quella del nemico, che a sua volta accetterà di deporre le armi solo quando riterrà soddisfatte le proprie legittime aspirazioni. Là dove ciascuno invoca la pace, a patto che sia “giusta”, si continua a combattere a oltranza. Fiat iustitia, pereat mundus, d’altronde, è il motto dei fanatici, non dei pacifisti. Quelli disposti a tutto, anche a rischiare l’olocausto nucleare, pur di far vincere la propria causa. Meno pretenzioso dell’ideale della pace giusta è quello della pace-attraverso-il-diritto. Un ideale che risale a Kant e che è stato ripreso e rivisitato, nel corso del Novecento, da teorici del pacifismo giuridico come Kelsen, Bobbio, Ferrajoli. Anche sul modo di definire il diritto, i suoi contenuti, gli strumenti per garantirne l’effettività, non tutti sono d’accordo (basti pensare alle opposte posizioni assunte da Bobbio e Ferrajoli sulla guerra del Golfo del 1991). Ma la nozione di diritto ha il vantaggio di essere meno semanticamente indeterminata di quella di giustizia, pur continuando ad intrattenere con essa un legame profondo. Perché, a meno di giocare irresponsabilmente con le parole, l’idea di diritto, nella modernità, è inscindibile da quella di una legge uguale per tutti, applicata da un giudice terzo rispetto alle parti belligeranti, ricorrendo a strumenti alternativi alla violenza bruta e indiscriminata in cui consiste, per definizione, la guerra. Non è difficile accorgersi che la profonda crisi in cui si dibatte, oggi, l’Onu, dipende in gran parte dalla contraddizione originaria inscritta nella sua Carta istitutiva. Che, dopo aver solennemente proclamato, all’articolo 2, il principio della “sovrana eguaglianza” fra tutti gli Stati, lo smentisce riconoscendo ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza il potere di veto. Anche istituzioni create successivamente, come la Corte penale internazionale, soffrono di una grave deficit di credibilità se - come oggi accade - i potenti del mondo rifiutano di riconoscerne l’autorità, le boicottano e le strumentalizzano ai propri fini. Eguaglianza, reciprocità, simmetria sono alla base del progetto di costruzione della convivenza pacifica tra i popoli attraverso il diritto. Mi assoggetto a un tribunale internazionale, a patto che la sua giurisdizione sia riconosciuta da tutti. Mi impegno a rispettare le decisioni comuni, purché abbia la possibilità di contribuire democraticamente alla loro formazione. Accetto di disarmarmi, se anche gli altri lo fanno. Rinuncio ad arricchire l’uranio per sviluppare la Bomba, se anche le potenze nucleari si impegnano a ridurre e, in prospettiva, a svuotare i propri arsenali. È, in fondo, la logica hobbesiana dell’uscita dallo stato di natura, concepibile solo in condizioni di reciprocità. Se continueremo bellamente a ignorarla, il nobile binomio di pace e giustizia resterà senza senso. Egitto. Nessun imputato alla sbarra per la morte di Giulio Regeni di Bartolo Conratter Il Riformista, 30 ottobre 2024 In Egitto, considerato Paese sicuro da un decreto legge, la sentenza sarà eseguibile? I media ci informano costantemente sullo svolgimento del processo a carico dei presunti assassini del ricercatore italiano Giulio Regeni. Al di là della profonda commozione che la vicenda suscita, resta il timore che la sentenza - specialmente in caso di condanna - sia inutiliter data. Occorre infatti ricordare che tutto nasce dalla mancata assistenza dello Stato egiziano all’Autorità giudiziaria italiana. A rendere praticabile l’attuale dibattimento è stata la Corte Costituzionale, con una pronuncia additiva (del 26 ottobre 2023 n. 192) che ha ampliato la perseguibilità in assenza. Il Gip del Tribunale romano - dopo essersi reso conto che il giudizio non si sarebbe veicolato negli ordinari binari - ha sottoposto alla Corte Costituzionale l’articolo del codice di procedura penale (CPP) che impone la conoscenza per l’imputato dell’instaurazione di un processo che lo riguarda, tipizzando la possibilità di procedere ugualmente in sua assenza. La Consulta ha esteso la processabilità in assenza, riconoscendo l’incidenza della violazione di diritti fondamentali della persona, calpestati dalle reiterate torture a cui la vittima è stata sottoposta. Per la Corte, in favore dei quattro funzionari egiziani imputati, si sono determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale. Nella specie, le autorità egiziane hanno negato il rilascio degli indirizzi dei funzionari dove notificare gli atti propulsivi del processo penale in Italia. Da qui la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del CPP, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura quando - a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato - sia impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, “fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa”. Argomentando nel solco della Consulta, si finisce per far gravare su un imputato una responsabilità da addossare a uno Stato. Con una valutazione non togata è facile affermare che gli imputati siano stati ben contenti di questa anomala impunità fornita, ma sul piano probatorio il giudice - in assenza di precisi riscontri - non può escludere che l’autorità straniera non li abbia per nulla interpellati. Inoltre da un lato si deroga alle forme ordinarie e rituali; dall’altro non si nega il diritto a un “nuovo processo”, prestando così il fianco a una stigmatizzabile precarietà del ragionamento svolto che - nella plausibilità del rinnovo - sottende in tesi che quello celebrato non sia un processo regolare. Nella drammatica realtà della vicenda è peraltro difficile ipotizzare che un imputato assente - mosso da ravvedimento operoso - possa liberamente decidere di partecipare a un nuovo processo, osteggiato dallo Stato di appartenenza. Con retorica necessaria, la Corte afferma che “il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità” della vittima. Ma in una società civile, ad elevato grado di sensibilità giuridica, l’accertamento giudiziale deve rispettare in maniera sacra le forme per non danneggiare la dignità di qualsivoglia soggetto processuale. Il contraddittorio è davvero il cardine della ricerca dialettica della verità processuale, condotta dal giudice con la collaborazione delle parti, con l’obiettivo di pronunciare una decisione che sia il più possibile “giusta”. Fatte queste premesse, se la collaborazione non vi è stata ab origine è diffi cile ritenere che si avrà sulla base di un’eventuale condanna, inscritta in un processo così eccezionalmente legittimato. Cortocircuito finale. L’applicazione di un decreto interministeriale che definiva l’Egitto non completamente sicuro per alcune categorie di persone (dissidenti e simili) innesca una polemica politico-giudiziaria; il governo corre ai ripari e dichiara per decreto legge l’Egitto sicuro tout court (D.L. 158/2024). In contemporanea, davanti alla Corte di Assise di Roma, si sta svolgendo un dibattimento che ha come presupposto fattuale l’utilizzo ordinario della tortura da parte dello Stato egiziano. Medio Oriente. Israele mette l’Unrwa fuorilegge: sconcerto anche tra gli alleati di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 ottobre 2024 Il provvedimento approvato dalla Knesset passa anche con il voto dell’opposizione. L’Onu grida allo scandalo e avverte: per i civili della Striscia di Gaza è una tragedia. Il destino dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi creata nel 1949, sembra segnato. Il Parlamento d’Israele ha approvato due proposte di legge, che, di fatto, impediscono ogni attività dell’Unrwa sul territorio israeliano e interrompono i legami diplomatici con Tel Aviv. La Knesset si è espressa con una maggioranza schiacciante - 92 voti a favore e 10 contrari - nel mettere al bando l’agenzia accusata di aver fornito, con alcuni suoi dipendenti, un supporto nelle stragi del 7 ottobre 2023. Israele ha ripetutamente affermato che una parte del personale dell’agenzia Onu - circa il 10% - ha legami con Hamas. Accuse sempre respinte e rispedite al mittente. Le norme approvate dal Parlamento chiuderanno la missione dell’Unrwa a Gerusalemme Est. Qui venivano svolte diverse attività (sanitarie, legate all’istruzione e ai servizi civili) con il coinvolgimento di centinaia di migliaia di palestinesi. Stop anche alle attività sulla Striscia di Gaza e in Cisgiordania, dove l’agenzia operava in stretto contatto con le autorità israeliane nel fornire aiuti umanitari e altri servizi a sostegno della popolazione palestinese. Poco dopo l’approvazione delle due leggi da parte della Knesset le reazioni, da tutto il mondo, sono state pressoché immediate. Il capo dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, ha rilevato che il voto del Parlamento israeliano “contraddice i principi della Carta Onu, viola gli obblighi di Israele ai sensi del diritto internazionale e crea un pericoloso precedente”. “Questa - ha affermato Lazzarini - è l’ultima campagna in corso per screditare l’Unrwa e delegittimare il suo ruolo nel fornire assistenza e servizi per lo sviluppo umano ai rifugiati palestinesi”. Secondo Lazzarini i due disegni di legge approvati, che entreranno in vigore entro novanta giorni, “non faranno altro che aggravare le sofferenze dei palestinesi, soprattutto a Gaza, dove la popolazione sta vivendo da più di un anno un vero e proprio inferno. Questi disegni di legge non sono altro che una punizione collettiva” . Nonostante le leggi approvate, Philippe Lazzarini ha evidenziato che il blocco delle attività dell’Unrwa “non toglierà ai palestinesi il loro status di rifugiati”. “Questo status - ha aggiunto è protetto da un’altra risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite fino a quando non si troverà una soluzione equa e duratura alla situazione dei palestinesi. Se non riusciremo a respingere queste proposte di legge, indeboliremo il nostro meccanismo multilaterale comune, istituito dopo la Seconda guerra mondiale”. Le parole molto dure espresse da Lazzarini sono un chiaro indicatore delle distanze sempre più marcate tra Israele e la comunità internazionale, nello specifico le Nazioni Unite. Da New York è intervenuto il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, il quale non ha nascosto la propria preoccupazione per una serie di azioni che mandano in frantumi la collaborazione, su più livelli, tra gli Stati e l’Onu. In merito alle leggi della Knesset, approvate lunedì, Guterres ha detto che produrranno “conseguenze devastanti” per la popolazione palestinese. “Porterò - ha aggiunto il Segretario generale - la questione all’attenzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la terremo strettamente informata sull’evolversi della situazione”. L’intera popolazione della Striscia di Gaza dipende dall’assistenza umanitaria fornita dall’Unrwa. È, come è stata definita da Guterres, la “spina dorsale” degli sforzi di soccorso delle Nazioni Unite nelle zone devastate dalla guerra. Oltre a fornire cibo e altri beni di prima necessità, l’agenzia Onu è impegnata nella campagna di vaccinazione contro la poliomielite. Da Washington parla il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, che ha chiesto a Israele di rivedere subito le proprie scelte. Miller ha sottolineato il “ruolo insostituibile” dell’agenzia delle Nazioni Unite sulla Striscia di Gaza e nei Territori palestinesi. “Non c’è nessuno - ha commentato il portavoce del Dipartimento di Stato americano - che possa sostituire in questo momento, nel mezzo della crisi, l’Unrwa. Se l’Unrwa se ne va, vedrete civili, compresi bambini, neonati, non essere in grado di avere accesso al cibo, all’acqua e alle medicine di cui hanno bisogno per vivere. Lo troviamo inaccettabile. Continuiamo a sollecitare il governo di Israele a sospendere l’attuazione delle leggi approvate”. Gli Stati Uniti potrebbero indurre Israele a rivedere le decisioni prese riducendo il loro sostegno militare. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani teme che la decisione della Knesset possa indebolire il ruolo delle Nazioni Unite: “Ci dispiace che sia stata fatta questa scelta, anche se comprendiamo alcune delle ragioni che provocano la reazione di Israele: c’erano troppi militanti di Hamas che hanno partecipato alla strage del 7 ottobre del 2023 tra coloro che rappresentavano l’Unrwa. Mi auguro che questo non accada mai più e sono convinto che non accadrà. Noi, come governo italiano, sosteniamo l’iniziativa dell’Unrwa non in territorio palestinese. In territorio palestinese lavoriamo molto bene con il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite”.