Oltre 62.000 detenuti, mai un numero così alto dal 2013 di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2024 Numeri così elevati solo nel 2013, anno della condanna dell’Italia da parte della Corte dei diritti dell’uomo; 77 i suicidi dall’inizio dell’anno. I detenuti nelle carceri italiane hanno superato quota 62mila. Era dal 2013, cioè dall’anno della sentenza Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati nelle carceri italiane, che non si registravano numero così elevati. Un dato sul quale attira l’attenzione il presidente dell’Associazione Antigone Patrizio Gonnella “Solo nell’ultimo anno sono quasi 3.000 i detenuti in più presenti nelle carceri, laddove i posti disponibili conteggiati dal ministero della Giustizia sono 51.196, mentre a metà ottobre sappiamo che tra questi 4.445 non lo erano realmente. Spazi ridotti nelle carceri italiane - In 23 delle 73 carceri visitate da Antigone - dichiara Gonnella - nell’ultimo anno sono state trovate celle che non rispettavano il parametro minimo dei 3mq. Una condizione riconosciuta dagli stessi Tribunali di sorveglianza italiani che sistematicamente condannano l’Italia”. Secondo i dati di Antigone, nel 2023, su 9.574 istanze per sconti di pena ne avevano decise 8.234 e di queste accolte 4.731 (il 57,5%). “Le politiche governative, a partire dal ddl sicurezza, non fanno altro che spingere il sovraffollamento carcerario. Per questo chiediamo - dice il numero uno dell’Associazione - in prima istanza di bloccarne l’approvazione. Poi di prendere immediati provvedimenti al fine di ridurre il numero di persone detenute e garantire la legalità del sistema penitenziario, dove oggi ci sono 15.000 persone che non hanno un posto regolamentare, e condizioni di lavoro dignitose per gli operatori, su cui si stanno scaricando le conseguenze delle attuali politiche penal-populistiche”. Ed è proprio di oggi la notizia dell’ennesimo detenuto che si è suicidato in cella, il 77esimo dall’inizio dell’anno, a cui vanno aggiunti 7 appartenenti alla polizia penitenziaria. Cinquant’anni, italiano con un fine pena fissato al 2030, si è ucciso impiccandosi nella sua cella della Casa Circondariale di Prato. L’allarme del sindacato della Polizia penitenziaria - A lanciare l’allarme per quella che è una strage senza fine è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Sebbene nell’ultima parte dell’anno pare vi sia stato un leggero rallentamento nelle morti di carcere e per carcere, siamo sempre alle prese con numeri monstre, destinati ad abbattere ogni precedente record”. Il sindacato parla di 15mila detenuti oltre i posti disponibili, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria. “Omicidi, suicidi, violenze di ogni genere, stupri, piazze di spaccio e malaffare. Queste sono oggi le nostre prigioni. A pagarne le spese, oltre ai reclusi, i 36mila donne e uomini della Polizia penitenziaria che scontano le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato. Carichi di lavoro debordanti - dice il Segretario della Uilpa Pp - turni di 8, 16 e persino 24 ore ininterrotte, oltre 3mila aggressioni subite nel solo 2024, mortificati nel morale e colpiti nell’orgoglio anche per una gestione organizzativa e amministrativa che spesso li discrimina e li svilisce, come nei recentissimi casi della missione in Albania o del trasferimento forzoso dai minori agli adulti” Al via un calendario con stretta su intercettazioni, separazione delle carriere e prescrizione di Liana Milella La Repubblica, 29 ottobre 2024 Domani incontro tra il Guardasigilli e le due commissioni Giustizia di Camera e Senato. Forza Italia rilancia le regole sui criteri di priorità dell’azione penale. Separazione delle carriere, stretta sulla durata delle intercettazioni, massimo 45 giorni, e sul sequestro degli smartphone, ritorno all’antica prescrizione berlusconiana, ma anche la nuova idea di Forza Italia di approfittare della legge Cartabia sui criteri di priorità dell’azione penale. Si discuterà di tutto questo - con l’idea di fissare un calendario stringente del lavoro parlamentare dei prossimi mesi - in una riunione che il Guardasigilli Carlo Nordio ha fissato per domani con le due commissioni Giustizia di Camera e Senato. Ci saranno, ovviamente, i tre sottosegretari, il forzista Francesco Paolo Sisto, il meloniano Andrea Delmastro Delle Vedove, il leghista Andrea Ostellari, i presidenti delle due commissioni, Giulia Bongiorno per il Senato e Ciro Maschio per la Camera, nonché i vice, ma anche i capigruppo d’aula e quelli delle due commissioni. Un parterre volutamente allargato per una strategia parlamentare che, come ha chiesto la premier Giorgia Meloni a Nordio, dev’essere molto stringente. Si apre dunque una stagione tra Montecitorio e palazzo Madama in cui la giustizia diventa protagonista di approvazioni rapide, in modo da “passare dalle parole ai fatti”, secondo lo slogan che corre tra palazzo Chigi e via Arenula. Proprio perché - è il ragionamento politico sottostante - molti warning sulla giustizia sono stati lanciati, molti provvedimenti, anche di iniziativa parlamentare, sono stati approvati da un ramo del Parlamento, ma allo stato l’unico disegno di legge davvero dirompente “portato a casa” è quello sull’abuso d’ufficio, neppure quella sul sorteggio temperato dei componenti laici cui dovrà sottostare anche il Parlamento. La separazione delle carriere - E vediamo allora quali sono le misure sulla giustizia che, da domani, sono oggetto di una “procedura di massima accelerazione”. Sulla separazione delle carriere l’intento è già scoperto, dare il via libera entro dicembre alla prima delle quattro letture, poiché si tratta di legge costituzionale, per ottenere quella successiva al Senato prima dell’estate. Ma c’è chi ipotizza anche che, con ritmi davvero rapidi, si potrebbe ottenere sia il voto del Senato che quello ulteriore della Camera, per chiudere in autunno con la quarta votazione. E poi la sfida di un eventuale referendum “costituzionale” senza quorum sollecitato o da cinque Regioni oppure da 500mila elettori, o ancora da un quinto dei componenti di una Camera. Proprio per questo la maggioranza non ha presentato alcun emendamento alla proposta Nordio. Intercettazioni, 45 giorni e smartphone - Ed eccoci all’altro tema caldo, le intercettazioni. Dal Senato sono arrivate alla Camera le due proposte del forzista Pierantonio Zanettin. Quella, già approvata ad aprile, sull’obbligo per il pm che sequestra gli smartphone di ottenere il via libera del gip e consentire all’avvocato il contraddittorio e quella più recente sui soli 45 giorni consentiti al pm per intercettare, salvo poi ottenere proroghe successive di 15 giorni ma dimostrando l’effettiva necessità. A questo punto tocca alla Camera accelerare la discussione in commissione e poi passare all’aula l’ultima palla da mandare in buca. La prescrizione torna al passato - Stesso discorso anche per le nuove regole sulla prescrizione, anche questa, come il bavaglio ai giornalisti, lanciata da Enrico Costa, allora dai banchi di Azione, ma oggi deputato di Forza Italia. La Camera ha licenziato il testo a gennaio in poche ore, ma poi se n’è persa traccia al Senato. Via tutte le regole degli ex Guardasigilli Andrea Orlando e Alfonso Bonafade, via anche l’improcedibilità in Appello di Marta Cartabia (il processo non può durare più di due anni), si torna alla semplice prescrizione reato per reato, il massimo della pena più un quarto, come ha stabilito la legge Cirielli del governo Berlusconi nel 2005. A questa si aggiunge una sospensione in Appello di 24 mesi, e di 12 mesi in Cassazione. Duramente, contro Nordio, avevano protestato i 22 presidenti delle Corti Appello perché i tempi stretti erano incompatibili con le forze in campo, chiedendo una norma transitoria che non è stata concessa. I criteri di priorità dell’azione penale - Dulcis in fundo una stretta sui criteri dell’azione penale, un altro cavallo di battaglia di Forza Italia. Giusto Pierantonio Zanettin, parlando con alcuni colleghi, ha ipotizzato di lanciare una nuova proposta per attuare le previsioni della stessa Cartabia nella sua legge sull’ordinamento giudiziario. Nella separazione delle carriere Nordio non ha previsto il passaggio dall’obbligatorietà alla discrezionalità dell’azione penale, ma un “ritocco” sui criteri che il Parlamento, una volta all’anno, detta alla magistratura, con legge ordinaria, potrebbe già cambiare le regole. Il bavaglio di Costa sulle ordinanze - E infine il “bavaglio” alla stampa. Cioè il divieto di pubblicare integralmente o per stralci le ordinanze di custodia cautelare. La legge sulle intercettazioni di Orlando del 2017 lo consentiva, il bavaglio ideato e proposto da Enrico Costa lo vieta. Le due commissioni parlamentari hanno appena chiesto di ampliare la regola anche a tutti gli atti della fase preliminare, come decreti di sequestro o di perquisizione, nonché di prevedere multe per il giornalista che pubblica (eliminando i 30 giorni di arresto) e per l’azienda editoriale. A questo punto il governo che fa? Il 10 dicembre scade il tempo che la delega gli concede. E la parola definitiva passa a Nordio e alla maggioranza. Che certo non si lasceranno scappare proprio di questi tempi la chance del bavaglio. Carriere e “ascolti”, oggi il doppio vertice voluto da Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 29 ottobre 2024 La prima riunione alle 11 su intercettazioni e altre riforme in campo penale. Alle 15.30 il summit allargato sul “divorzio” giudici-pm. La prima dedicata agli interventi in campo penale, in programma alle 11. La seconda è in agenda per le 15.30 e riguarderà esclusivamente la separazione delle carriere. A voler concordare tempi e iter dei diversi provvedimenti è innanzitutto il guardasigilli Carlo Nordio, che ha convocato a casa propria il doppio summit. Nel caso del divorzio giudici- pm, il ministro punta a verificare le modifiche che i deputati di maggioranza intendono apportare alla riforma. L’obiettivo è concordare i (pochi) ritocchi da inserire nel ddl costituzionale. Con Nordio, ci saranno il suo vice Francesco Paolo Sisto (FI) e i due sottosegretari, Andrea Delmastro (FdI) e Andrea Ostellari (Lega). Quindi i capigruppo di maggioranza di Camera e Senato, i presidenti delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali dei due rami del Parlamento e i capidelegazione del centrodestra nei quattro organismi. La tempistica del doppio summit non ha alcun nesso con l’ennesimo caso dossieraggi, considerato che le convocazioni risalgono a una settimana fa: il Gabinetto del guardasigilli le ha trasmesse il 22 ottobre. Ma certo l’esplosione della vicenda milanese peserà. E spingerà Nordio e gli altri partecipanti a mettere sul tavolo idee. Ma non è il primo tema, quello degli spioni che bucano come se fosse niente il “Ced” del Viminale. Si tratta innanzitutto di darsi tempi certi sui provvedimenti in sospeso. A cominciare dalle due proposte di legge in materia di intercettazioni già approvate in Senato e che attendono solo un via libera - senza modifiche, negli auspici generali della maggioranza - a Montecitorio: il testo che assimila agli “ascolti” il prelievo di dati dagli smartphone dell’indagato (con l’introduzione del nuovo articolo 254- ter nel codice di procedura penale) e la legge che fissa in 45 giorni il limite ordinario per le captazioni giudiziarie. Sul secondo dei due provvedimenti, il centrodestra ha ritrovato convinzione dopo che in estate soprattutto Fratelli d’Italia aveva manifestato qualche perplessità. Già col ddl penale di Nordio, in vigore dallo scorso 25 agosto, sono stati introdotti, nella disciplina delle intercettazioni, le tutele per la privacy del “terzo estraneo” alle indagini e il divieto di ascoltare i colloqui tra difensore e assistito. La materia del giorno, gli “ascolti” appunto, sarebbe dunque sistemata. L’unico step che ancora manca è l’intervento con cui si dovrebbe limitare l’uso del trojan. E sul punto, Nordio, nei mesi scorsi, ha chiesto, a deputati e senatori del centrodestra, di riservare ogni modifica alla propria personale iniziativa. Probabile che oggi ne chiarirà tempi e modi. L’altro enigma da sciogliere, in materia penale, riguarda la prescrizione: nella replica a un’interrogazione in Senato, Ostellari aveva spiegato nelle scorse settimane che, sul ritorno alla disciplina “sostanziale”, era in corso una “valutazione da parte del ministero” : oggi si chiariranno gli esiti anche di questa verifica. E ancora, si capirà se Nordio intende proporre al resto dell’Esecutivo il recepimento delle modifiche chieste, dalle due commissioni Giustizia, rispetto alle norme che vietano di pubblicare in forma testuale le ordinanze di custodia cautelare. Si tratta del decreto legislativo che attua la cosiddetta legge Costa. Ma forse il capitolo più interessante si scriverà nel pomeriggio. Con i presidenti delle commissioni Affari costituzionali, il senatore Alberto Balboni (FdI) e il deputato Nazario Pagano (FI). Anche qui, il vertice coinvolgerà i capigruppo di maggioranza nei due organismi. Con i deputati in prima fila: sono loro a dover raggiungere un accordo, a breve, per l’eventuale restyling del ddl costituzionale di Nordio sulla separazione delle carriere. Come anticipato su queste pagine, FI propone di commutare il sorteggio dei laici, nei due futuri Csm, in un’elezione. In più, sempre gli azzurri propongono di separare anche i concorsi, oltre che le carriere, come suggerito dal presidente del Cnf Francesco Greco. Ma la delegazione berlusconiana della Prima commissione di Montecitorio, guidata da Paolo Emilio Russo, ha rinunciato a presentare emendamenti: il termine è scaduto mercoledì scorso. Oggi chiederà a FdI, Lega e Noi Moderati, oltre che al ministro, di trovare un’intesa per introdurre i ritocchi sotto forma di emendamenti del relatore (il deputato di FdI Francesco Michelotti). La “integrazione” della riforma potrebbe prevedere anche la norma sull’avvocato in Costituzione. Mentre fuori imperversa il caos dossieraggi, a via Arenula la maggioranza cerca di chiudere il cerchio sulle riforme. Ed è probabile che le tensioni esterne finiscano per incoraggiare a fare davvero presto. I veri poteri forti dello sputtanamento sono quelli con il bollino di Stato di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 ottobre 2024 Gli spioni privati che alimentano il mercato dei dati sensibili fanno paura. Ma il modo migliore per tutelare la nostra privacy è ribellarsi con forza ad altre intrusioni nelle vite degli altri: quelle che hanno il bollino dello Stato. E se il vero scandalo fosse un altro e non quello che ci stiamo raccontando? Sono giorni, anzi mesi, che notizie come quelle che abbiamo letto sabato scorso, notizie che riguardano usi disinvolti di dati personali, usi spregiudicati di dati sensibili, accessi abusivi nelle vite degli altri, trovano spazio di tanto in tanto sulle pagine dei giornali. L’ultimo caso, quello più da rotocalco, riguarda le accuse che hanno investito due big della finanza, come Matteo Arpe e Leonardo Del Vecchio, indagati insieme a molti altri soggetti, compreso Enrico Pazzali, capo della Fiera di Milano, per accessi abusivi a dati a cui non potevano accedere e per aver cercato di produrre dossier compromettenti sui propri famigliari. Sono giorni, anzi mesi, che piccole e grandi storie di presunti dossieraggi fanno capolino sui giornali. Il caso più famoso, e forse più inquietante, finora, è ancora quello che riguarda l’ex pm Antonio Laudati e il tenente della Gdf Pasquale Striano, entrambi indagati nell’inchiesta della procura di Perugia sui presunti accessi abusivi alle banche dati della Direzione nazionale antimafia. Tra il caso Striano/Laudati e i casi della finanza milanese, poi, ce ne sono stati altri due che hanno animato per qualche istante le cronache dei giornali. Un caso, ancora tutto da capire, è quello di un funzionario di banca di Bitonto, in Puglia, ex dipendente di una filiale territoriale di Intesa Sanpaolo, denunciato per essersi infilato in modo indisturbato in migliaia di conti correnti nel giro di due anni. Un altro caso, anch’esso tutto da mettere a fuoco, è quello che ha visto come protagonista un hacker che ha preso d’assalto i database riservati in uso al ministero della Giustizia. I casi emersi negli ultimi mesi sono molti, e stando alle parole del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo potrebbero non essere gli ultimi. Ma i casi in questione non sono solo la spia di un mercato inquietante in cui i dati personali possono essere messi al servizio del miglior offerente o del miglior richiedente (i dossieraggi sono una cosa diversa, è decisamente più seria, e vale la pena andarci piano e non farsi prendere dal panico). Sono la spia di un’emergenza diversa, per così dire, che ha contribuito a trasformare l’Italia in un colabrodo, in una casa di vetro, in una distopia di cui l’Italia è vittima da anni. Una distopia che nasce da una diffusione incontrollata, e da una legittimazione progressiva, di uno spirito guardonista che nel tempo è diventato parte integrante della costituzione immateriale del nostro paese. Per anni, abbiamo coltivato l’illusione tossica che in nome della trasparenza tutto fosse concesso. Per anni, abbiamo coltivato l’idea che guardare dal buco della serratura fosse l’unico modo per esercitare, dal basso, una forma di democrazia diretta. Per anni, l’esaltazione contestuale di una finta libertà di stampa, intesa nel senso di libera acquisizione di notizie sputtananti, ha portato a sottovalutare il rischio che le notizie venissero acquisite attraverso reati e dinamiche di potere perverse. La cultura anti casta ha in sostanza educato l’indignato collettivo a sviluppare un ragionamento populista che grosso modo funziona così: male non fare, paura non avere. Anni di sputtanamento gratuito mascherato da irreprensibile lotta per la legalità hanno così trasformato una pratica scandalosa, da stato di polizia, in una pratica accettata, sdoganata, sostanzialmente avallata. La diffusione delle pratiche spionistiche, in fondo, è figlia di questa stagione, in cui si considerano i potenti e soprattutto i politici colpevoli fino a prova contraria di aver commesso qualcosa che deve essere solo scoperto. E non ci vuole molto a capire che se lo sputtanamento è diventato così importante nella società moderna ci sarà anche qualcuno che riuscirà a trasformarlo in un business privato, senza bisogno di passare dal pubblico. Arrivati a questo punto del nostro ragionamento si può provare a tornare alla domanda da cui siamo partiti. Ma se il vero scandalo, alla fine, fosse un altro? E se fosse necessario, quando si parla di sputtanamento, osservare non una scena del film ma tutto il girato, come direbbe Meloni? E se fosse necessario capire che il vero problema, quando si parla di manomissione delle vite degli altri, non sono solo i casi in cui le informazioni vengono pescate in modo abusivo da soggetti privati, ma sono soprattutto i casi in cui le informazioni sensibili vengono pescate in modo fraudolento dallo stato, con il finto bollino della legalità e della lotta contro il marcio nella società? Se si considera la difesa della privacy un valore non negoziabile, per così dire, indignarsi per ogni violazione diventa inevitabile. Se si considera invece la difesa della privacy come un valore negoziabile, non prioritario, un valore sacrificabile per esempio sull’altare della lotta contro l’immoralità, si tenderà inevitabilmente a considerare il mezzo, illegale, come necessario per riportare maggiore moralità nel paese. In altre parole, se ci si indigna per gli spioni privati e non ci si indigna per gli spioni di stato si sta creando il terreno fertile per far sì che dell’albero marcio si vedano solo le mele senza andare a fondo. E non lo si fa perché l’indignato collettivo non vuole capire che per contrastare efficacemente il sistema del fango, dello sputtanamento del prossimo, sarebbe necessario rifiutare a monte qualsiasi meccanismo di delegittimazione costruito sull’attacco personale, a cominciare da quello ben più letale che ha il bollino della legalità dello stato. Non capire tutto questo significa pensare che per quanto possa essere inappropriato spiare le vite degli altri la priorità vera di una democrazia resta quella di alimentare una dittatura della trasparenza il cui fine ultimo è fare di tutto per mostrare la moralità dei potenti, anche a costo di violare la loro privacy, anche a costo di entrare nella loro vita. Male non fare dossieraggio non temere, no? L’allentamento di ogni controllo sui controllori, in questi anni, ha reso gli sputtanatori di professione i veri poteri forti della nostra Repubblica. E tutto questo è successo non in modo casuale. È il frutto di anni di sputtanamento trasformato in diritto di cronaca. È il frutto di anni di processo mediatico trasformato in grande lotta contro l’immoralità. È il frutto di anni di disattenzioni sulle intercettazioni irrilevanti, è il frutto di anni di disattenzioni sulle violazioni della privacy a mezzo stampa, è il frutto di anni di disattenzioni sull’utilizzo discrezionale e non controllato di sistemi di accesso alla vita degli altri, come le sos. È il frutto di un paese che ha accettato per troppo tempo di considerare i potenti colpevoli fino a prova contraria di aver commesso qualcosa che deve essere solo scoperto. Il vero scandalo, se ci si riflette un istante, è che alla fine l’indignato collettivo si scandalizza quando deve indicare una mela marcia ma non si scandalizza quando c’è da indicare l’albero putrefatto. E la ragione è semplice: di fronte al colabrodo italiano l’indignato collettivo, in fondo, è lì a pensare che il fine giustifichi il mezzo. Male non fare paura non avere. Gli spioni che alimentano il mercato nero delle informazioni sensibili fanno paura. Ma se si ha davvero a cuore la nostra privacy il modo migliore per ribellarsi alle intrusioni nelle vite degli altri è tenere le antenne dritte quando la macchina dello sputtanamento, nel disinteresse generale, viene attivata con il bollino dello stato. Agenti violenti ma non identificabili, così le denunce vengono archiviate di Rita Rapisardi Il Manifesto, 29 ottobre 2024 “Il codice identificativo è inutile perché l’identificazione di chi ha commesso violazioni è sempre avvenuta”, così parlava Matteo Piantedosi in un’intervista a giugno 2023. Ma forse il Ministro non sa ciò che avviene in molte delle richieste di archiviazione riguardanti le violenze in piazza contro i manifestanti. Facciamo un passo indietro. È il 5 dicembre 2023, il gruppo studentesco di destra decide di fare volantinaggio al Campus Einaudi a Torino, sede delle facoltà giuridiche. Un’azione annunciata, motivo per cui le forze dell’ordine quel giorno si fanno trovare, a loro difesa, numerose fuori dall’università: tre gruppi da trenta poliziotti l’uno, trenta carabinieri, più vari agenti della Digos. Centotrenta persone a fronte di cento studenti che erano accorsi pacificamente. Strada bloccata, impedimento per studenti e docenti di recarsi nelle aule. Tutto fila liscio. Gli studenti di destra abbandonano l’università e la tensione sembra scendere, quando parte una carica forte da parte della polizia. Due docenti, Alessandra Algostino e Alice Cauduro vengono colpite dai manganelli, in testa e sulle spalle, finiscono in ospedale con sette giorni di prognosi. Con loro un’altra manifestante di 26 anni con un braccio rotto che per i medici è guaribile in trenta giorni. Decidono tutte di denunciare lesioni personali e violenza privata. Ora la Procura chiede l’archiviazione: non è possibile identificare gli autori delle violenze. “Mentre mi recavo al campus trovavo uno schieramento di polizia che sbarrava la via, mi sono resa conto che era per un presidio antifascista e mi sono fermata, cercando di fare, insieme alla collega Cauduro, intermediazione con la polizia”, racconta Algostino ricordando gli avvenimenti del 27 ottobre 2023, quando gli agenti entrarono all’università durante una conferenza del Fuan e volarono manganellate all’interno dei locali. “Abbiamo parlato con chi dirigeva la piazza, perché le cose si svolgessero in maniera pacifica. Io e la mia collega ci siamo messe in mezzo tenendoci per mano, forse ingenuamente, per fare in modo che non ci fossero cariche. Gli studenti erano dietro di noi”. Nelle carte invece si suppone che le due docenti guidassero gli studenti. La carica, che nel gergo delle forze dell’ordine è definita azione di alleggerimento, non è stata ordinata da nessuno, come conferma la procura stessa. In quel momento la dirigente di piazza stava accompagnando gli studenti di destra lontano dal Campus. Ma allora di chi è stata l’iniziativa? Della prima fila degli agenti in antisommossa? Anche questo la procura non lo sa, come non sa chi ha preso le redini della gestione dopo che la dirigente si è allontanata. Eppure tra le prove ci sono quattro filmati, diverse ore di registrazione da cui però non si riesce a capire chi sono i dieci poliziotti in prima fila che hanno usato i manganelli. Nei video inoltre manca il frame che immortala la manifestante 26enne colpita al braccio (fratturato, secondo il referto ospedaliero di quella sera). La carica sarebbe giustificata però, dicono le carte, forse da calci sferrati dagli studenti. I calci non si vedono nei filmati, ma secondo le carte, dall’inclinazione dei busti degli studenti. Per le due docenti la violenza, che quindi c’è, “secondo la richiesta di archiviazione è motivata in due modi: “L’uso legittimo delle armi” e “l’adempimento del dovere”. Per la manifestante si tratta al massimo di un eccesso colposo di uso legittimo delle armi. Motivo per cui chiedono l’archiviazione”, spiega Roberto Brizio, avvocato della professoressa Algostino. Ma se le due professoresse non sono state indagate, la manifestante lo è, insieme ad altri 28 studenti antifascisti e un minorenne per resistenza a pubblico ufficiale: avrebbero tirato dei calci mentre subivano la carica della polizia. In sintesi, non è possibile risalire ai responsabili delle violenze di quella sera. E con il ddl sicurezza per queste azioni, docenti e manifestanti pacifici saranno sempre più criminalizzati. La morte di Emanuele e le pistole nelle mani dei bambini (messe dagli adulti) di Maurizio Patriciello Avvenire, 29 ottobre 2024 Avevi 15 anni e non ti abbiamo tutelato. Ti abbiamo confuso le idee. Non ti abbiamo insegnato a distinguere il bene dal male. ?”Manuè… guagliò… ci hai spaccato il cuore”. Dimmi, ma che è successo l’altra notte? Perché avete imboccato quella strada, perché quella sfida, perché quell’odio, perché quelle pistole? Ma chi ve le ha date? Manuè, io non ce la faccio a immaginare i tuoi ultimi minuti di vita. Solo, sei morto desolatamente, disperatamente solo, nel cuore della nostra bella Napoli. Te ne sei andato - ti hanno cacciato - senza un bacio, senza una carezza. Sei stramazzato a terra come il più spietato dei camorristi. Mi piace pensare che siano venuti gli angeli a raccogliere il tuo ultimo rantolo. Hai gridato. Hai invocato. Hai sperato che qualcuno venisse a salvarti. Hai chiamato la tua mamma, vero? Non negare che non ci credo. Sei ritornato il bambino che avresti dovuto - e, forse, voluto - essere, accoccolato al sicuro tra le sue braccia. Perché, Emanuele caro, a 15 anni, eri solo un bambino un po’ cresciuto. Maledetta frenesia di vedervi grandi prima del tempo. Pur senza volerlo, noi - voglio dire, noi mondo degli adulti - vi abbiamo rubato gli anni più belli cui avete diritto, quelli della spensieratezza, della scuola, dei sogni, dei progetti, delle scoperte, delle domande, dei viaggi, del gioco. Il gioco, Emanuè… il gioco. Vi abbiamo catapultati nello spietato agone della vita senza fornirvi gli strumenti per poterla affrontare con serenità. Alpinisti a piedi scalzi. Scultori a mani nude. Ciechi, stiamo diventando ciechi, sordi e presuntuosi. E, adesso, abbiamo la faccia tosta di ergerci a maestri. Non senti? Ognuno dice la sua. Tutti contraddicono tutti. Il guaio è che non abbiamo il coraggio della verità. Arriviamo sempre dopo. Non siamo stati capaci di educarvi ed eccoci pronti a condannarvi. Abbiamo abdicato al dovere di rimanere svegli, in piedi, sulla torre di guardia, a scrutare l’orizzonte per avvertirvi quando il nemico avanzava; e ci lamentiamo perché siete diventati ribelli e violenti. Facciamo fatica a capirvi, come voi fate fatica a capire noi. Parliamo lingue diverse ma tiriamo a campare. Rassegnati, ci siamo appollaiati sulla collina e dall’alto vi guardiamo come si fa con le bestie rare. Ci sfioriamo, ma non ci conosciamo. Quando le cose non vanno, quando vi armate di coltelli e pistole, quando ci impaurite minacciando di scappare via di casa, solo allora, ci accorgiamo dell’abisso che c’è tra voi e noi. Ma chi, chi, Emanuele mio, chi avrebbe dovuto farti vivere l’età che avevi? Come sono patetici i vecchi che, a tutti i costi, vogliono apparire giovani; come sono pericolosi i ragazzini quando digrignano i denti e trovano gusto a imitare gli uomini cattivi. Da quando la notizia della tua orribile morte mi ha raggiunto, non faccio che pensare a te. Ti voglio bene. Ti vedo, mentre, terrorizzato, tenti di scappare, di nasconderti dietro il cassonetto dei rifiuti. Sento il tuo cuore battere all’impazzata. Noto che la paura ti ha stravolto il volto. Il volto delicato e tragico di un bambino che ha capito di essere a un passo dalla fine. A me puoi dirlo: da chi avete appreso questa violenza stupida e assassina? Chi vi ha messo in mano queste armi che vi condannano, e ci condannano, a morte? Dimmi, figlio, chi vi ha fatto da maestro? Tu non sai, ragazzo mio, quanta gioia, per le strade del mondo aspettava solo di essere da te raccolta. Tu non sai quante cose belle, quante emozioni, quanto amore, quanta vita, il buon Dio, aveva preparato per te. La nostra città non può più fare finta di niente. Solo nell’ultimo anno siete stati uccisi tu, Gennaro Raimondino, Giovanbattista Cutolo, Francesco Pio Maimone… Se taceremo ancora, grideranno i fantasmi di Castel Capuano. Quante vite spezzate. Quanta violenza bieca. Quanta illogica ottusità. E adesso, sono certo, si ripeterà anche per te, la solita “liturgia” dei palloncini e delle magliette bianchi; degli striscioni, dei fiori, degli applausi. E diranno che “sei la stella più bella del firmamento”. Magra consolazione. Che ce ne facciamo di un’altra stella? Noi vogliamo Emanuele. La verità è che tu sei stato ucciso. Capisci? Sei stato ucciso. Barbaramente ucciso. Innocentemente ucciso. Stupidamente ucciso. Nel cuore della notte, sei stato ucciso, quando i ragazzini di 15 anni dovrebbero - devono - stare a letto, o, al massimo, fare tardi a una festa solo se accompagnati da un genitore. Tu non stavi al tuo posto perché noi non stavamo ai nostri posti. Perché noi non ti abbiamo tutelato. Perché noi ti abbiamo confuso le idee. Perché noi non ti abbiamo insegnato a distinguere il bene dal male; forse, perché dal male, i primi a esserne ammaliati siamo proprio noi. Le guerre le provocano e le combattono gli adulti. I carichi di droga, a Napoli, li fanno giungere gli adulti. I clan della camorra che negli anni hanno falciato sé stessi e il nostro popolo, sono composti e comandati da adulti. La patologica sete di danaro e di potere affligge e distrugge tanti adulti. Le pistole nelle mani dei bambini le hanno messe gli adulti. Folli! Vi abbiamo contagiati, vi siete ammalati, prima di essere stati vaccinati. E, adesso, cari fratelli e sorelle napoletani, vogliamo fermarci? Vogliamo, davvero, cercare di capire perché questi nostri antichi e moderni quartieri popolari, nonostante gli sforzi di tanta gente di buona volontà, non riescono ancora a decollare? Vogliamo trovare il coraggio di chiamare le cose con il giusto nome? Le varie anime di Napoli vogliono decidersi a fare pace tra loro? Vogliamo spalancare le porte delle mille bellezze nascoste, dei musei, delle chiese, dei monasteri, dei palazzi storici, del teatro San Carlo, della cultura, dell’università, del mondo del lavoro ai ragazzi dei quartieri a rischio? Vogliamo prenderli per mano e accompagnarli in giro per il mondo? Vogliamo metterci insieme - genitori innanzitutto, e preti, e suore, e insegnanti, e amministratori comunali e regionali, e gente dello sport, della musica, dell’arte, della politica - per studiare seriamente la strada da imboccare? Che la tua morte, Emanuele, non sia vana. Che il tuo nome possa fare da sigillo alla lunga e dolorosa lista dei morti ammazzati come animali feroci per le nostre strade. Riposa in pace, bambino. Ritorna, finalmente, alla tua età. Quindici anni. Quindici anni per sempre. ? Prato. Quinto suicidio in meno di un anno nel carcere della Dogaia di Paolo Nencioni Il Tirreno, 29 ottobre 2024 Un detenuto italiano di 57 anni, originario di Pistoia, si è tolto la vita oggi, 28 ottobre, impiccandosi all’interno del carcere della Dogaia. Si tratta del quinto suicidio in meno di un anno nella casa circondariale di Maliseti, uno stillicidio iniziato nel dicembre 2023 e che già nei mesi scorsi aveva attirato l’attenzione della politica. La tragedia si è consumata durante la mattinata: alle 10,51 la centrale del 118 ha inviato in carcere un’ambulanza, che ha trasportato il detenuto all’ospedale, ma ormai non c’era più niente da fare. In carcere da circa un anno - Il detenuto era rinchiuso alla Dogaia da circa un anno e stava scontando una condanna per violenza sessuale nei confronti della compagna, nella sezione riservata ai “sex offenders”. Lo descrivono come una persona tranquilla, almeno fino a oggi, e all’interno del carcere non si sanno spiegare che cosa possa essere scattato nella sua testa per arrivare al gesto estremo. “I numeri dei suicidi sono da record nel 2024” - “Sebbene nell’ultima parte dell’anno pare vi sia stato un leggero rallentamento nelle morti di carcere e per carcere, siamo sempre alle prese con numeri monstre, destinati ad abbattere ogni precedente record - commenta Gennarino De Fazio, segretario nazionale della Uilpa (polizia penitenziaria) - Del resto, la crisi penitenziaria continua a non essere tangibilmente affrontata dal Governo e gli indicatori sono tutti in negativo. 15mila detenuti oltre i posti disponibili, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, omicidi, suicidi, violenze di ogni genere, stupri, piazze di spaccio e malaffare. Queste sono oggi le nostre prigioni. A pagarne le spese, oltre ai reclusi, i 36mila donne e uomini della polizia penitenziaria che scontano le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato. Carichi di lavoro debordanti, turni di 8, 16 e persino 24 ore ininterrotte, oltre 3mila aggressioni subite nel solo 2024, mortificati nel morale e colpiti nell’orgoglio anche per una gestione organizzativa e amministrativa che spesso li discrimina e li svilisce, come nei recentissimi casi della missione in Albania o del trasferimento forzoso dai minori agli adulti”, aggiunge il segretario della Uilpa. “Serve immediatamente un’inversione di tendenza. Va deflazionata la densità detentiva, necessita potenziare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria assicurando al contempo ai suoi appartenenti un trattamento paritario con i restanti operatori del comparto, occorre garantire l’assistenza sanitaria e psichiatrica e, non ultimo, va riorganizzato per intero l’apparato gestionale e amministrativo”. conclude De Fazio. Le reazioni del Pd - “Siamo di fronte all’ennesimo fallimento dello Stato, una tragedia annunciata - commenta Marco Biagioni, segretario provinciale del Pd - Nonostante le continue promesse del governo e le passerelle degli esponenti della destra, a Prato non è arrivato nulla. Cosa deve ancora succedere per dimostrare che siamo di fronte a una vera e propria emergenza?”. “Ancora una volta un suicidio e ancora una volta nel carcere pratese della Dogaia, il quarto da inizio anno - gli fa eco il deputato del Pd Marco Furfaro - mentre il totale di detenuti che si sono tolti la vita nei penitenziari italiani sale a 77, ai quali vanno aggiunti sette agenti di polizia penitenziaria. L’ultima vittima era italiano e stava scontando una pena definitiva che si sarebbe dovuta concludere tra sei anni, nel 2030. Nella casa circondariale di Prato, oltre ai suicidi, si contano ogni anno 200 casi di autolesionismo e ad aggravare la situazione ci sono sovraffollamento e carenza endemica di personale. La crisi penitenziaria continua a non essere affrontata da questo governo e i numeri lo certificano. 15mila detenuti oltre i posti disponibili, le migliaia di agenti mancanti alla polizia penitenziaria. Siamo di fronte ad una situazione inaccettabile per un Paese civile. In carcere durante l’esecuzione della pena il detenuto deve conservare i diritti fondamentali perché le carceri non sono il deposito di una parte di umanità da nascondere ma luoghi di rieducazione dove deve essere garantita un’esistenza degna e la possibilità di riappropriarsi della propria vita una volta scontata la pena”. Il direttore mancante - La Funzione pubblica della Cgil ricorda invece che la Dogaia non ha ancora un direttore titolare: “Non possiamo dimenticare che, in occasione della recente visita del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Del Mastro, ci era stato promesso che entro settembre l’istituto avrebbe avuto finalmente un direttore titolare. Ad oggi, però, quella promessa rimane non mantenuta, aggravando ulteriormente le difficoltà operative in una struttura che è, senza dubbio, una delle più complesse della Toscana, spesso ricordata solo per l’assegnazione di detenuti di difficile gestione. Come Fp Cgil, riteniamo inconcepibile pensare di poter gestire un carcere così delicato senza una direzione titolare stabile. Le condizioni di lavoro del personale, già critiche, sono ulteriormente peggiorate dalla carenza di una leadership strutturata, mentre la situazione dei detenuti diventa sempre più insostenibile. È necessario che l’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia intervengano immediatamente con misure concrete e risolutive, per garantire condizioni di lavoro dignitose e sicure per il personale e per salvaguardare i diritti fondamentali dei detenuti”. Reggio Emilia. Pestaggio al detenuto: “Le lamette non possono essere una giustificazione” di Francesco Pioppi Il Resto del carlino, 29 ottobre 2024 Agenti accusati di torture in carcere, sentito un comandante della Polizia penitenziaria. Il legale del Garante nazionale dei detenuti si scaglia contro le tesi difensive. “Quelle lamette non sono mai esistite, ma se anche ci fossero state non è giustificabile la condotta dei poliziotti”. A dirlo è Michele Passione, avvocato del garante nazionale dei detenuti che si è costituito parte civile nel processo che vede imputati dieci agenti della polizia penitenziaria per l’accusa di tortura e lesioni nei confronti di un 40enne detenuto tunisino nel carcere di Reggio nell’aprile 2023. Tutto documentato dalle telecamere di sorveglianza, con un video che venne diffuso dall’Ansa. Ieri mattina, nell’ambito del processo, è stato ascoltato in udienza un comandante della polizia penitenziaria, non imputato, come persona informata sui fatti. In particolare riguardo alle relazioni - contestate come false - compilate da due vice-ispettori che riportarono a verbale la presenza di alcune lamette trovate addosso al detenuto. Un rinvenimento che secondo le tesi difensive, portò all’uso della forza da parte dei secondini. Una bagarre giudiziaria che si protrae da diverse udienze. Il comandante, durante l’audizione, ha spiegato di non essere in servizio all’epoca dei fatti e che ha ‘ereditato’ la documentazione da inviare poi come informativa alla Procura. Gli è stato chiesto conto di dove fossero state portate le lamette e lui ha risposto che, dall’interlocuzione con l’ufficio comando, ha dedotto che sarebbero state smaltite. Uno dei due viceispettori imputati già sentito nelle scorse udienza aveva detto di aver sentito da un collega la presenza delle lamette, mentre l’altro sarebbe dovuto essere ascoltato oggi. Ma la sua testimonianza è stata rinviata all’11 novembre quando verranno anche depositati agli atti i carteggi delle relazioni. Il 25 novembre è in programma la discussione con parola a pm e parti civili con la visione in aula del video. Il 9 dicembre toccherà alle difese per le repliche. La sentenza potrebbe slittare al 2025. La pm titolare del fascicolo d’inchiesta Maria Rita Pantani contesta agli imputati di aver incappucciato con una federa stretta al collo, sgambettato, denudato e picchiato con calci e pugni, anche quando era in terra, e calpestato il detenuto tunisino. Nella seconda fase del pestaggio il detenuto fu portato in cella, nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado nel frattempo si fosse ferito e sanguinasse. Quello che avvenne è documentato dai video delle telecamere interne del carcere, agli atti dell’inchiesta. Udine. “Carcere di Via Spalato: chiudere la sezione del piano terra, subito” Ristretti Orizzonti, 29 ottobre 2024 La nuova battaglia di scopo lanciata nella conferenza stampa il 19 ottobre con la richiesta di risanare una sezione del carcere che non risponde ai criteri minimi di igiene e salubrità sta prendendo consistenza. Andrea Sandra ha inviato una lettera con la descrizione delle condizioni inaccettabili al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e alla Direzione del Distretto della Asl: muffa e umidità sono presenti in un luogo chiuso, scopertura dei fili elettrici, mancanza dei tubi di scarico dei lavandini. La presenza dei detenuti più problematici e dei nuovi giunti rende esplosiva e ingovernabile la situazione. Si tratta di cinquanta prigionieri da liberare. La dr.ssa Santoro ha risposto in maniera interlocutoria, condividendo l’urgenza di un intervento già programmato ma presentando la difficoltà di una collocazione dei detenuti a causa del sovraffollamento imponente e suggerendo una soluzione tampone. Il rischio è che una operazione di maquillage si risolva in un’operazione di facciata con sperpero di denaro, perché il lavoro indispensabile è di eliminare la risalita dell’umidità dal pavimento. Siamo fiduciosi che i tecnici del Provveditorato predisporranno rapidamente un progetto per il rifacimento della sezione in modo che non vi sia una patente contraddizione tra i lavori di ristrutturazione del carcere e un luogo fatiscente. La realtà della prima denuncia è stata confermata dalla visita effettuata venerdì 25 dalla consigliera regionale Celotti e dal consigliere Honsell. Risulta davvero stravagante e inaccettabile che la dr.ssa Panzera non abbia risposto alla sollecitazione del garante e al mio Appello “Non rassegnarsi alla catastrofe”. Non si tratta solo della mancanza di rispetto istituzionale, ma di un fatto politico. L’assessore Riccardi ha compiuto una visita al carcere, ma questo atto di sensibilità compiuto per annunciare l’inizio del lavoro di una psicologa, deve comportare un impegno per la risoluzione di tutti i nodi dell’assistenza sanitaria che è responsabilità del Servizio sanitario pubblico della Regione. Il diritto alla salute è definito dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale e in carcere è essenziale per la vita delle persone private della libertà. È indispensabile il ridisegno del servizio di infermeria con la copertura medica e infermieristica nelle 24 ore e non rinviabile la predisposizione di spazi e strutture per la detenzione terapeutica per i soggetti con gravi patologie, anche per i soggetti con problemi di disturbi del comportamento e di salute mentale in modo che la magistratura di sorveglianza possa concedere misure alternative. La Asl deve compiere una ispezione e deve dichiarare ufficialmente se la struttura è agibile e rispondente alle norme igienico sanitarie di un servizio pubblica. Già 124 donne e uomini hanno sottoscritto l’iniziativa del garante, dando la dimostrazione che esiste una comunità ricca di sensibilità. Io ho deciso di iniziare da domani un digiuno per sollecitare le decisioni opportune in modo che il 7 novembre al Seminario “Udine controcorrente. Una rivoluzione gentile” si possa presentare un orizzonte di cambiamento completo. Collettivamente si è deciso di indire una marcia silenziosa e nonviolenta dal Duomo al carcere il 21 dicembre per festeggiare la conclusione dei lavori del Polo culturale, didattico e di laboratorio e della nuova Biblioteca e per unire tutta la città. Per quella data ci auguriamo che i lavori di ripristino della Sezione del Piano Terreno siano iniziati. La crisi del carcere è pesante. La scommessa è dare un senso e una speranza a un mondo di emarginazione, povertà e disperazione. La società civile deve essere protagonista del reinserimento sociale dei condannati, rifiutando lo stigma senza fine. Cosenza. Migranti e detenuti diventano agricoltori, muratori, artigiani di Domenico Marino Gazzetta del Sud, 29 ottobre 2024 Gli ospiti dei “Kantieri fuori strada” stanno rimettendo a nuovo la loro... casa. A Castrolibero, invece, raccolta e lavorazione multirazziale delle olive per donne e uomini del “Casale del Melograno”. C’è più gusto nel dare che nel ricevere, si sa. Ma le storie scritte in questi giorni dagli amici e dai volontari dell’associazione “Casa nostra”, organizzazione di volontariato costola della Caritas diocesana, regalano comunque emozioni e gioia. Perché restituire è altrettanto bello. Accade a Castrolibero, nel “Casale del melograno” dove volontari e persone in accoglienza hanno dato al via alla raccolta delle olive. “Un momento di condivisione e lavoro che proseguirà con la lavorazione delle olive schiacciate, un processo a cui parteciperanno sia le volontarie che gli ospiti. Il risultato? Olio e prodotti genuini fatti con le nostre mani, frutto della solidarietà e del nostro impegno comune. Unisciti a noi per sostenere il progetto o condividere l’esperienza di volontariato!”, raccontano i responsabili di “Casa nostra”. I quali, tra l’altro, proprio per affiancare le attività del “Casale del melograno” nei giorni scorsi hanno chiesto aiuto poiché hanno bisogno “di un forno da incasso o un forno elettrico da tavolo per la cucina. Con il vostro aiuto potremmo migliorare la qualità dei pasti e rendere questo luogo ancora più accogliente. Se avete un forno che non usate più o conoscete qualcuno disposto a donarlo - è chiarito nell’appello - contattateci! Anche un piccolo gesto può fare una grande differenza nella vita di chi è meno fortunato. Grazie di cuore a chiunque potrà aiutarci!” E quindi i numeri ai quali eventualmente rivolgersi per donare: 0984304342 e 3517569903. Lavori a... casa - Un altro gruppo di ospiti ha invece impugnato cazzuola e secchio, impastando cemento e sistemando impalcature per rimettere a nuovo uno degli appartamenti del centro storico nel quale ormai da mesi hanno trovato quella casa che non avevano da tempo. Attualmente gli ospiti sono quindici, senza fissa dimora e alcuni con provvedimenti di limitazione delle libertà personali che potrebbe portarli in carcere se non ci fossero questi alloggi della Caritas. “È bellissimo vedere che le persone ospitate nel condominio “Kantieri fuori strada” partecipano direttamente ai lavori di manutenzione, come la pittura. Coinvolgerle attivamente - raccontano volontari e responsabili di “Casa nostra” - può dare loro un senso di appartenenza e responsabilità, creando un ambiente più familiare e solidale. Un ambiente ben curato e pulito fa una grande differenza, soprattutto per chi sta cercando stabilità e serenità. Inoltre, partecipare a queste attività contribuisce a creare uno spazio accogliente e dignitoso, che può essere essenziale per chi sta affrontando momenti difficili”. Vibo Valentia. Un ulivo per portare pace e speranza in carcere di Roberta Barbi vaticannews.va, 29 ottobre 2024 Si chiama “Ulivo della Madonna” per le sue olive chiare, la specie secolare ritrovata due anni fa in Calabria dall’Archeoclub di Vibo Valentia e salvata dall’estinzione attraverso la piantumazione nelle parrocchie e ora anche nelle carceri del territorio. Don Michele Fortino: così si getta ponte tra dentro e fuori. L’ulivo, si sa, è simbolo di pace che si fa speranza, ma se si parla dell’”Ulivo della Madonna”, la specie in via d’estinzione ritrovata due anni fa in Calabria dal personale dell’Archeoclub di Vibo Valentia, la simbologia si arricchisce notevolmente. “Questa specie viene riferita alla Vergine perché le sue olive sono bianche e simboleggiano la purezza e il legame con il cielo - spiega ai media vaticani don Michele Fortino, vicario generale dell’arcidiocesi di Cosenza-Bisignano - poi c’è che è una pianta secolare, la cui vita supera quella dell’uomo, perciò è anche un simbolo di saggezza”. Per salvare questa specie di olivo dall’estinzione, dopo il suo ritrovamento è stato messo in piedi un progetto che ne ha previsto, negli ultimi due anni, la ripiantumazione nelle parrocchie calabresi con l’aiuto di detenuti opportunamente formati nelle tecniche del giardinaggio, e ora anche all’interno degli istituti di pena del territorio. Il progetto è partito da Cosenza ed è stato fortemente sostenuto dall’arcidiocesi: “Imparare a prendersi cura di qualcosa, come una pianta, per i detenuti va oltre la formazione professionale - sottolinea ancora don Fortino - è metafora del prendersi cura dell’altro, del prossimo, ma ancora prima del prendersi cura di sé e del proprio futuro, che in carcere va curato e preparato fino a quando inizierà, al termine della detenzione. Perciò questo progetto fa anche da ponte tra dentro e fuori”. Un messaggio di speranza nel futuro è, quindi, quello che si vuole mandare, che si farà ancora più concreto quando le piante all’interno degli istituti di pena cresceranno e i detenuti, salvatori della specie in via d’estinzione, ne faranno dono al mondo: anche questa metafora del dono di sé alla società al momento del fine pena che, come si sa, è uno dei più delicati. “Quando un detenuto esce ha bisogno di trovare accoglienza, inserimento lavorativo ma ancora prima ha bisogno di fiducia da parte degli altri - racconta il vicario generale - per fortuna cresce il numero dei volontari in carcere e delle associazioni che accompagnano i ristretti in questo percorso, ma ci vuole sostegno anche a livello istituzionale”. Per la piantumazione all’interno degli istituti, i detenuti selezionati hanno dovuto seguire un corso professionale di potatura, innesto e creazione di questa varietà, che in questo modo è stata salvata dalla sparizione, di fatto formandosi per un lavoro che potrebbe avere un seguito una volta usciti dal carcere: uno di quei ponti tra dentro e fuori di cui spesso parla Papa Francesco. “Bisogna creare relazioni - prosegue don Michele Fortino - il carcere non è un mondo a sé, un mondo altro, ma fa parte di questo mondo, bisogna abbattere il pregiudizio”. Un progetto, quindi, a metà strada tra il sociale e lo spirituale, dietro al quale c’è anche un obiettivo pastorale: “I cappellani sono le figure deputate a parlare di fede in carcere con i detenuti, lo fanno da sempre e lo fanno bene - conclude il vicario generale - la loro attenzione all’ascolto dell’uomo che c’è oltre il reato è la priorità e viene offerta a tutti, non solo ai cristiani”. Roma. Giubileo, Papa Francesco aprirà il 26 dicembre la Porta Santa nel carcere di Rebibbia di Salvatore Cernuzio vaticannews.va, 29 ottobre 2024 Francesco stesso aveva annunciato il gesto nella Bolla di indizione “Spes non confundit”. L’arcivescovo Fisichella ha confermato data e luogo oggi, durante la conferenza stampa sugli appuntamenti giubilari, riferendo di un accordo con il ministro di Giustizia italiano Nordio per rendere effettive, durante l’Anno Santo, forme di reinserimento per diversi detenuti attraverso attività sociali. Sarà la quindicesima sua visita in un carcere, questa volta per uno dei momenti più significativi dell’intero pontificato e della storia stessa dei Giubilei: il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel penitenziario romano di Rebibbia. In quel luogo, già visitato nove anni fa per un Giovedì Santo, il Papa vuole recarsi come “pellegrino di speranza” e porsi idealmente accanto ai detenuti di tutte le carceri sparse per il mondo. L’annuncio nella Bolla “Spes non confundit” - Il gesto, segno tangibile dell’annuncio di speranza che il Giubileo porta con sé, lo aveva annunciato Francesco stesso nella Bolla di indizione dell’Anno Santo “Spes non confundit”. Al punto 10, il Papa, chiedendo condizioni dignitose per tutti coloro che sono “privi della libertà” e che “sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”, ha scritto: “Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”. La data e il luogo li ha comunicati questa mattina monsignor Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, durante la conferenza in Sala Stampa vaticana sugli appuntamenti giubilari. La Porta Santa a Bangui e le visite a Rebibbia - Anche questa di Rebibbia è una novità rispetto alla tradizione secolare dei Giubilei che avevano visto sempre il Papa aprire unicamente la Porta Santa della Basilica di San Pietro e delle quattro Basiliche papali. La precedente era stata nel 2015, quando Francesco aveva deciso di avviare il Giubileo straordinario della Misericordia aprendo la Porta Santa della cattedrale di Bangui, nell’ambito del viaggio in Repubblica Centrafricana voluta raggiungere a tutti i costi nonostante moniti e preoccupazioni per le violenze che si consumavano nelle strade della capitale. Ora Rebibbia, carcere che Jorge Mario Bergoglio già nel 2015 aveva visitato recandosi nel “Nuovo Complesso” per lavare i piedi a dodici detenuti di diversa nazionalità. Poi era tornato il 28 marzo di quest’anno andando a celebrare la Messa in Coena Domini nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, lavando i piedi a dodici donne. In generale, il Papa ha visitato 15 penitenziari in questi anni di pontificato: la maggior parte in Italia, alcuni anche durante viaggi all’estero come quello di Palmasola in Bolivia, nove anni fa. Accordo con il Ministero della Giustizia italiano - L’arcivescovo Fisichella ha sottolineato che Papa Francesco ha particolarmente a cuore la situazione di chi sta affrontando la durezza della reclusione e ha chiesto che ci siano segni tangibili di speranza. A questo proposito - ha detto - ci saranno iniziative concrete da realizzare in collaborazione con il governo italiano, forme di amnistia e percorsi di reinserimento lavorativo per aiutare i detenuti a recuperare la fiducia in loro stessi. L’11 settembre, è stata firmata infatti un’intesa con il ministro di Giustizia, Carlo Nordio, e il commissario governativo, Roberto Gualtieri, per rendere effettive, durante l’Anno Giubilare, forme di reinserimento per diversi detenuti attraverso l’impiego in attività di impiego sociale. Messina. Da Icaro a Totò, il teatro nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 ottobre 2024 Dopo “Icaro”, rappresentato al Tindari Festival e a Siracusa come evento speciale di G7 Italia - Expo 24 | Divinazione, la “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” del carcere di Messina, sceglie di cimentarsi nella comicità della grande tradizione italiana. Alla guida di due laboratori di recitazione - uno interno all’Istituto l’altro esterno, destinato ai semiliberi - Eugenio Mastrandrea, oggi popolare Capitano Martini nella 14a stagione della fortunata fiction Don Matteo, ma alle spalle tanta prosa, cinema e tv dopo una rigorosa formazione accademica alla Silvio D’Amico. Tra le materie di studio del laboratorio testi celebri di grandi interpreti - da Totò a Luigi Proietti a Enrico Montesano - entrati a far parte dei classici della scuola comica italiana. Mastrandrea è stato anche Teseo nella versione di Icaro diretta da Mario Incudine andato in scena al Festival di Tindari e nel teatro Massimo di Siracusa. La collaborazione con il teatro -carcere continua ora con i due laboratori di studio sulla comicità che daranno vita a una sorta di “carrellata varietà” che si prevede vada in scena prima di Natale. Nell’occasione, come ogni anno, il pubblico sarà costituito anche da parenti dei detenuti. La Libera Compagnia del Teatro per Sognare è nata all’interno della casa circondariale di Messina in seno al progetto “Il teatro per Sognare” ideato e organizzato nel 2017 da Daniela Ursino che ne cura anche la direzione artistica. La Compagnia si è esibita anche in occasione di molti eventi esterni. Ultimo, prestigioso palcoscenico, quello del Teatro Massimo di Siracusa dove è andata in scena una versione di Icaro di Stefano Pirandello ridotta e adattata da Mario Incudine in occasione del G7 Italia - Expo 24 | Divinazione con il coinvolgimento di attori professionisti (oltre Mastrandrea, Paride Benassai e Lorenza Denaro) la compagnia delle studentesse “Liberi di essere Liberi, la compagnia Il cuore di Argante, il danzatore Daniele Sciarrone, altri allievi di scuole di recitazione e danza per un totale di 50 interpreti in scen. Prodotto da D’aRteventi lo spettacolo è stato organizzato in collaborazione con il Ministero dell’Agricoltura della Sovranità alimentare e della Foreste, con il Ministero della Giustizia e della Città di Siracusa e e con il sostegno dell’Assessorato del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo della regione Siciliana, della Caritas Diocesana di Messina, dell’Università di Messina, della BCC di Pachino. I costumi, infine, sono stati prestati da Inda, Istituto del Dramma antico di Siracusa. “La metafora del volo di Icaro - spiega Daniela Ursino - ha rappresentato la metafora del cammino che quotidianamente portiamo avanti con i nostri ragazzi, mi piace ricordare un passo dello spettacolo attraverso le parole bellissime di Paride Benassai ‘ Icaro ricordati il desiderio del volo deve sorreggerti non trascinarti”. Napoli. Ad Acerra la partita di calcio con i detenuti: in campo legalità e cultura di Giuliana Covella Il Mattino, 29 ottobre 2024 La squadra dall’istituto di Secondigliano per la sfida con il “Team Pino N7 Style”. Dal terreno di gioco di Acerra alle sale di uno dei luoghi più suggestivi del centro storico di Napoli. Quella di sabato scorso è stata una giornata che difficilmente dimenticherà un gruppo di detenuti della casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano. Una giornata vissuta all’insegna dell’inclusione sociale, dello sport e della cultura per alcuni reclusi del reparto Mediterraneo, che in mattinata si sono recati ad Acerra per partecipare a una partita di calcio con il Team Pino N 7 Style e, successivamente, in visita al Museo Donnaregina della diocesi partenopea. Ad accompagnarli il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello e la consigliera regionale Vittoria Lettieri. A dare il calcio di inizio sul campo di Acerra è stato il garante Ciambriello. Un match che ha visto i detenuti uniti dai valori dello sport come lo spirito di squadra e l’integrazione. Così tra calci di rigore, gol e tifo, dopo la partita i detenuti di Secondigliano sono stati ospiti della consigliera Lettieri in una pizzeria locale, “Vincenzo Di Fiore”, insieme ai loro familiari accorsi a sostenerli dagli spalti. Un’esperienza che, secondo Ciambriello, ha rappresentato “un buon connubio, lo sport come luogo di valori positivi, spazio di lealtà e di amicizia, palestra di impegno, la cultura e la bellezza per alimentare valori positivi. Un pranzo consumato fuori dalle mura del carcere come un grande segnale di umanità, semplicità e inclusione”. “Tra il nero e il bianco esiste una zona grigia sulla quale intervenire - ha detto Lettieri - prevenzione, sensibilizzazione e cultura della legalità diventano uno dei compiti principali delle istituzioni. Ho accolto con piacere l’iniziativa del garante per favorire il cosiddetto bacio tra pace e giustizia, per vivere il dettato costituzionale del reinserimento sociale del detenuto”. Presenti anche due familiari di vittime della criminalità: Lucia Di Mauro, vedova di Gaetano Montanino e Carmela Sermino, vedova di Giuseppe Veropalumbo. Quest’ultima ha sottolineato “l’importanza di essere stati con i detenuti, per ricordare anche la memoria di vittime innocenti come Veropalumbo e Montanino. La memoria è importante, affinché la loro morte non sia stata vana. Spero che i detenuti credano che ci sia un’alternativa alla vita fino ad ora condotta. Incontro tanti ragazzi nelle carceri anche grazie al garante Ciambriello. A queste persone bisogna dare una possibilità. Magari conoscendo la storia di Giuseppe e Gaetano possono capire davvero che una strada sbagliata può portare solo alla morte o al carcere”. La giornata è proseguita con una visita al Museo Diocesano di Donnaregina. Un’esperienza unica vissuta dai detenuti che, accolti dalle guide e dallo staff del museo coordinati da Elio De Rosa, hanno avuto l’opportunità di visitare la chiesa di Donnaregina nuova e vecchia oltre ai tesori artistici in mostra. Varese. Allegoria della Libertà. L’opera di Ravo Mattoni nel carcere Miogni di Lorenzo Crespi Il Giorno, 29 ottobre 2024 Lo street artist decorerà la sala colloqui della Casa circondariale di Varese. La direttrice Santandrea: “È di straordinaria bravura e incredibile sensibilità”. Scuole, spazi pubblici e istituzioni: le opere di Andrea Ravo Mattoni, street artist varesino di fama internazionale, sono numerose tra capoluogo e dintorni. Presto se ne aggiungerà un’altra: “L’Allegoria della Libertà” decorerà la sala colloqui del carcere Miogni. L’artista sarà al lavoro il 3 e 4 novembre, l’inaugurazione è martedì 5. Divenuto celebre nel 2016 con la realizzazione a spray delle prime copie di dipinti classici su grandi pareti, Ravo nel 2021 ha scoperto l’intelligenza artificiale generativa, che ha aperto una nuova via nel suo percorso. Una tecnologia che gli permette di trasformare un’immagine esistente, descrivendo ciò che si vorrebbe modificare e cosa si vorrebbe ottenere in un prompt, un breve testo. È così che nasce l’opera per il Miogni, finanziata dal Lions club Varese Prealpi. “Prima della fase realizzativa - spiega il funzionario giuridico pedagogico Serena Pirrello - i detenuti avranno modo di incontrare l’artista. Avere la possibilità di interfacciarsi con un artista di fama internazionale e ammirare in momenti emotivamente partecipati un’opera di speranza sarà un valore aggiunto”. Oltre a Pirrello, parteciperanno all’inaugurazione il funzionario pedagogico Domenico Grieco e il comandante di reparto Salvatore Castelli. Sono stati invitati il prefetto, il sindaco, i consiglieri regionali, l’Ufficio di sorveglianza di Varese e altre autorità. “La collaborazione con Andrea Ravo Mattoni - sottolinea la direttrice del carcere Carla Santandrea - è iniziata in occasione della visita al museo di Masnago della sua prima mostra personale, la scorsa primavera, insieme a una rappresentanza di detenuti. Ravo è un artista di straordinaria bravura e di incredibile sensibilità verso temi particolari come quello del carcere. È un onore ospitare la sua opera in un luogo di particolare importanza come la sala colloqui della casa circondariale”. Dietro le sbarre ma sotto i riflettori, a Glocal di Varese documentari e panel sul mondo del carcere malpensanews.it, 29 ottobre 2024 A Glocal 2024 due documentari: il 4 novembre “Credo ancora nelle favole” e il 5 novembre “Io spero Paradiso”. Sabato 9 novembre il Panel “Fuori e dentro le sbarre, la narrazione del carcere” con don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della onlus “La Valle di Ezechiele” e Susanna Ripamonti, direttrice di “Carte Bollate”. La società se ne interessa solo quando accade qualcosa di “eclatante”: evasioni, disordini, tragici suicidi di detenuti. Episodi di cronaca che occupano le homepage e le prime pagine dei giornali per qualche giorno, per poi sfumare dall’occhio dei cronisti. Il mondo del carcere ha però bisogno di uno sguardo attento e consapevole, che sappia tentare di analizzare una realtà variegata e difficile, affogata di luoghi comuni e ricette facili del cittadino comune, ma spesso capace di portare avanti storie di riscatto e lavoro, meritevoli di essere conosciute. Glocal 2024, il Festival del giornalismo che torna a Varese anche in questo autunno, cerca di offrire uno spunto di riflessione su ciò che avviene dietro le sbarre. Lo farà con due documentari, entrambi in corcorso nella rassegna Glocal Doc, e con un panel - utile alla formazione dei giornalisti con l’erogazione di crediti - ma aperto al pubblico. Tre momenti - tutti a libero accesso previa registrazione - che sperano di suscitare per lo meno qualche domanda a chi interverrà. Documentario “Io spero paradiso” - Il primo documentario ha la regia di Daniele Pignatelli sarà proiettato al Cinema MIV - Multisala Impero Varese lunedì 4 novembre alle 10. Questa la trama: Nel carcere di massima sicurezza di Opera (Milano, Italia) 3 detenuti responsabili di omicidi, 2 ergastolani Ciro e Giuseppe, fine pena mai, e Cristiano, fine pena 2031, sono stati scelti fra 1300 detenuti per produrre artigianalmente, con le loro mani un tempo sporche di sangue, ostie che vengono consacrate nelle chiese di tutto il mondo, divenendo così il corpo di Cristo. Il loro sogno è consegnarle di persona nelle mani benedette del Santo Padre Papa Francesco, al quale scrivono una lettera… Una storia vera senza precedenti al mondo. Di questa opera il regista Pignatelli scrive: “È un messaggio di speranza e di riscatto che dimostra che il carcere può essere non solo un luogo di punizione ma anche di riabilitazione. In un momento come questo in cui le carceri sono sovraffollate, aumentano i suicidi in cella e quello che sta succedendo al Beccaria, un vero allarme sociale, vorrei proporre di portare questo film nelle scuole d’Italia nel 2025, anno del Giubileo, per fare delle proiezioni con dibattito con gli studenti su un argomento così importante, alla presenza dei direttori di carcere, magistrati e intellettuali, politici e a volte, anche con uno dei detenuti protagonisti del film”. Documentario “Credo ancora nelle favole” - Il secondo documentario ha la regia di Amedeo Staiano e sarà proiettato al Cinema MIV - Multisala Impero Varese martedì 5 novembre alle 16. Questa la trama: 10 detenuti del carcere di Roma Rebibbia, sezione pena medio-lunga, insieme alle loro famiglie e ai figli, affrontano un percorso terapeutico esperienziale di due anni, un focus sul mondo carcerario e le ricadute che esso ha sul mondo esterno, i pregiudizi, la consapevolezza per i danni provocati, un documentario che mira a sensibilizzare i giovani sul tema. Patrocinio morale del Ministero della Giustizia e partecipazione al Giffoni film festival. Di questa opera il regista Pignatelli scrive: “Il documentario vuole raccontare storie di uomini e dello sforzo quotidiano che ogni giorno aggiunge un pezzettino in più alla loro “rinascita”, ha un focus particolare sulle famiglie dei detenuti che molto spesso scontano una pena anche essi pur essendo “liberi”. L’opera ha uno scopo di sensibilizzazione soprattutto per la categoria giovanissimi 12/18 anni: è infatti prevista una lunga serie di proiezioni per gli Istituti Medie e Superiori e anche negli Istituti Penitenziari” Panel “Fuori e dentro le sbarre, la narrazione del carcere” - Non solo pellicole, però, perché oltre ai due documentari citati, ci si potrà fermare a riflettere sul modo corretto di fare informazione sulla realtà carceraria grazie al panel “Fuori e dentro le sbarre, la narrazione del carcere”, che vedrà confrontarsi don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della onlus “La Valle di Ezechiele” e Susanna Ripamonti, direttrice di “Carte Bollate”, la rivista redatta dai detenuti del carcere di Bollate. Lo scopo è portare l’esperienza di due figure diverse, ma entrambe ricche di esperienze a contatto con i detenuti, per proporre una riflessione sul dovere dell’informazione di raccontare la realtà variegata del mondo carcerario senza facili sensazionalismi e con un’attenzione particolare per i suoi protagonisti e i loro percorsi di riabilitazione. Il panel si terrà sabato 9 novembre alle 14.30 al salone Estense, in via Sacco 5, e prevede l’erogazione di crediti per la formazione continua dei giornalisti. Io Spero Paradiso, i tre detenuti e le ostie per Papa Francesco di Francesca Brunati ansa.it, 29 ottobre 2024 Un film su una storia vera, dal carcere di Opera al Vaticano. Ciro, Giuseppe e Cristian sono in cella nel carcere di massima sicurezza di Opera, in provincia di Milano, con l’accusa di omicidio e una condanna che, per i primi due è ergastolo e per il terzo un fine pena nel 2031. I tre sono stati scelti fra 1300 detenuti per produrre artigianalmente, con le loro mani che si sono macchiate di sangue, ostie poi consacrate nelle chiese di tutto il mondo, divenendo così il corpo di Cristo. Il loro sogno è consegnarle di persona al Santo Padre Papa Francesco, al quale scrivono una lettera, che cambierà la loro vita. È una storia vera, senza precedenti, quella narrata nel film ‘Io spero paradiso’ diretto dal regista Daniele Pignatelli, promosso dalla Fondazione Opera Don Bosco, proiettato nelle scorse settimane al Labour Film Festival, e che sarà di nuovo in scena in prossimo 4 novembre al Cinema MIV di Varese (ore 10) nell’ambito del GLocal Film Festival. Una storia che, oltre a rendere testimonianza della situazione dei penitenziari italiani, mette in luce come il carcere non è più un luogo di punizione ma di rieducazione e di reinserimento sociale. Con ‘Io spero paradiso’ si punta ad oltrepassare le sbarre e si tenta di dipingere quello che dovrebbe essere il percorso di ciascun detenuto e al diritto-dovere di concedere a chi ha sbagliato una nuova chance. Girato nei corridoi della casa di reclusione dove furono rinchiusi, in regime di 41 bis, Totò Riina o Bernardo Provenzano, in Vaticano e in Sicilia, terra di sbarchi e di morti in mare, il film, per altro pluripremiato, vuole documentare come nelle situazioni più estreme sia possibile trovare una via verso il cambiamento fino ad approdare a una crescita interiore e alla riconquista della dignità. Così i tre protagonisti, che hanno imparato a impastare l’amido, pressarlo negli stampi e ritagliare a mano le ostie in un laboratorio di Opera, intraprendono un percorso fatto di piccoli passi, di errori e di riconciliazione, non solo con la società ma anche con il proprio passato. “La particolarità è che, pur partendo da un copione - spiega Daniele Pignatelli - la maggior parte delle cose sono avvenute all’improvviso”, mentre si stava girando, “e questo ci ha obbligati ad una attenzione e concentrazione costante per poter cogliere al volo qualsiasi momento importante: chi mai avrebbe potuto prevedere che dopo solo sei mesi dall’inizio delle riprese i nostri detenuti sarebbero potuti uscire per la prima volta dopo anni per incontrare Papa Francesco? Ecco - aggiunge il regista - questo modo di lavorare, realizzare, scoprire e cambiare continuamente il film ‘facendolo’ ha reso anche noi stessi non solo testimoni ma anche quasi coprotagonisti”. Insomma, il film porta sul set tre detenuti che sono riusciti a realizzare un duplice sogno: da un lato donare le ostie da loro preparate a Papa Francesco ed essere ricordati da lui nelle sue preghiere, dall’altro riuscire a raccogliere i frutti di un percorso di riscatto. Il docufilm “made in Jail” sul reinserimento degli ex detenuti dire.it, 29 ottobre 2024 Ripercorre la storia dell’Associazione che da 35 anni è impegnata nel reinserimento degli ex detenuti, grazie a corsi di serigrafia in carcere. Si è svolto a Roma, nel parco Virgiliano, un incontro per presentare il film “Made in Jail, indossa la libertà”, che ripercorre la storia dell’Associazione “Made in Jail”, da 35 anni impegnata nel reinserimento degli ex detenuti, grazie a corsi di serigrafia in carcere. Presenti all’evento il regista Matteo Morittu, il fondatore dell’associazione, Silvio Palermo, e Arianna Camellini, consigliera del Municipio II. Il film fa parte di una campagna di comunicazione, ideata dalla società Numidio, per sensibilizzare il pubblico, soprattutto i più giovani, sul tema del carcere, del recupero sociale delle persone detenute e delle possibili alternative al carcere. Il film documentario racconta la storia di Made in Jail e di Silvio Palermo, che nei primi anni Ottanta, detenuto per lotta armata nel carcere di Rebibbia a Roma, crea l’Associazione. A Tel Aviv un camion contro la folla - Data la sua precedente esperienza nella stampa serigrafica per l’alta moda, Palermo ha l’idea di veicolare tramite le t-shirt i suoi pensieri e quelli dei suoi compagni in carcere. Le prime magliette sono subito molto creative e provocatorie. Uscito dal carcere, Palermo comincia a insegnare la serigrafia e la tecnica pittorica, prima al carcere minorile di Casal del Marmo, poi nelle altre carceri di Roma e, negli anni successivi, in tutta Italia. “Il docufilm è un deterrente straordinario per i ragazzi, per evitare che comincino a frequentare un circuito di carne trita da cui non esci più. La scelta sbagliata la paghi tutta la vita”, ha detto Palermo. Per il regista Morittu “nel film l’arte è usata come strumento e veicolo per un concreto recupero sociale e reinserimento nella società. Il film è visibile online e ora partirà una campagna divulgativa ed ha avuto l’interessamento di altre associazioni e istituzioni. Tra i vari tipi di pubblico ci teniamo, in particolare, a lavorare con le scuole. Speriamo che da oggi, e per tutto il 2025, il film possa essere uno strumento per questa campagna di educazione sul recupero sociale”. Associazione Maurizio Costanzo, il racconto della figlia Camilla: “Partiamo dalle carceri” di Andrea Conti Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2024 Da un’idea dei tre figli Camilla, Saverio e Gabriele, la volontà di mantenere in vita la carriera del grande giornalista e conduttore, con un’attenzione ai temi del sociale e dei diritti civili. Maurizio Costanzo rivive attraverso le sue battaglie civili e la sua attenzione ai diritti. Nasce così l’Associazione Maurizio Costanzo. Voluto fortemente dai tre figli Camilla, Saverio e Gabriele, insieme ad alcuni degli amici e collaboratori più stretti del celebre giornalista. Sede dell’Associazione il Teatro Parioli Costanzo, dove è stato fedelmente ricostruito lo studio di Costanzo. Le principali attività dell’Associazione includono l’organizzazione e promozione di iniziative sociali con progetti che favoriscono l’inclusione, il rispetto dei diritti umani e la solidarietà. Si parte dal Premio Teatrale Maurizio Costanzo, che offre ai detenuti la possibilità di esprimersi attraverso l’arte e la creatività teatrale. A firmare l’accordo che sancisce l’avvio del progetto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, al fianco del capo del Dap Giovanni Russo. Un modo per favorire il reinserimento sociale dei carcerati. Nelle 191 carceri italiane esistono 150 laboratori teatrali e 120 compagnie. Il testo presentato deve essere un’opera originale, mai rappresentata in precedenza al di fuori del contesto carcerario. I lavori saranno valutati da una giuria presieduta da Pino Strabioli e composta da esperti del settore teatrale, giornalistico e culturale quali la scrittrice, giornalista e sceneggiatrice Camilla Costanzo, l’attore e regista Valerio Mastandrea, la presidente dell’Associazione “Voglia di Teatro” (fondata da Costanzo) Brunilde Di Giovanni e il giornalista-editorialista del Corriere della Sera Paolo Conti. La compagnia vincitrice avrà l’opportunità di rappresentare il proprio testo il 20 maggio 2025 al Teatro Parioli Costanzo a Roma. Abbiamo incontrato Camilla Costanzo. Come nasce questa idea e se ricordi esattamente quando? La volontà nasce quasi da subito quando mi sono ritrovata e fare il trasloco dell’ufficio di papà. Lui ama moltissimo gli oggetti ed era pieno pieno di cose e copioni risalenti addirittura anche agli Anni 80. C’erano oggetti di 40 anni fa. Ci siamo resi conto che era un patrimonio importante e con i miei fratelli ci siamo resi conto che non era affatto giusto mettere tutto in cantina. Quindi cosa è successo? Abbiamo donato tantissime cose, le altre invece le abbiamo organizzate per l’Associazione. Papà non avrebbe mai voluto diversamente. Il suo patrimonio non è nostro ma di tutto il Paese. Quindi della sede dell’Associazione il Teatro Parioli Costanzo, abbiamo ricostruito lo studio con i suoi oggetti personali, cimeli, stampe, grafiche, premi, foto e tartarughe. Perché iniziare proprio dal progetto delle carceri? Avevo pensato al progetto, quasi da subito. Papà teneva moltissimo al tema delle carceri e anche agli anziani. Avevo pure un progetto per costruire delle balere a Roma. Ho solo interpretato il sentimento di papà. Tornerete anche sugli anziani? Il progetto delle balere non è accantonato. Ci concentreremo anche su quello e potremmo espanderlo, pensando ad un’area teatrale per gli anziani. Costanzo era un appassionato di musica, ci sarà anche spazio per l’arte? Al momento no, forse perché mastichiamo di meno la materia. Sappiamo che papà è stato un bravissimo paroliere… Abbiamo ritrovato un bellissimo libro di sue poesie, inedito. Mi piacerebbe poter mettere in musica proprio quelle parole. Ad un anno di distanza cosa ti manca di tuo padre? L’attenzione alle cose, il fatto di sentirci quotidianamente quando succedeva qualcosa nel mondo e nel giornalismo. Per lui il lavoro era molto importante e stare in ufficio era fondamentale. E poi da quando era nonno era molto più affettuoso. Costanzo ha tracciato uno spartiacque nel mondo del giornalismo italiano, ti sei mai chiesta come ci fosse riuscito? La disciplina, la passione sconfinata per quello che faceva… Il suo lavoro ha tolto sicuramente il tempo a noi figli. Lui stesso ci diceva che aveva un solo rimpianto, appunto quello di non aver potuto condividere più tempo con noi. Ma noi puntualmente gli spiegavamo che da lui abbiamo imparato tantissimo e che non avrebbe dovuto avere alcun rimpianto perché ha fatto quello che ha potuto. Quali insegnamenti hai assorbito da lui? La puntualità, la disciplina e la passione che era il motore della sua vita. Una dedizione monacale per il lavoro. “Cosa c’è dietro l’angolo”, per citare una domanda celebre di tuo papà… Domanda difficile. Per me oggi nuova vita senza papà, ma con papà perché in realtà lui c’è sempre. Il nostro desiderio è continuare a farlo vivere e certamente lui avrebbe voluto. Se avesse potuto farlo, ce lo avrebbe sicuramente chiesto. Terzo Settore. I trent’anni del Forum, Pallucchi: “Le buone pratiche ora diventino politica” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 29 ottobre 2024 Il 29 ottobre 1994 per la prima volta l’associazionismo scese in piazza. Pallucchi: “Molti progressi. Ma ora le buone pratiche devono diventare politica”. Vanessa Pallucchi scorre le immagini di quel 29 ottobre 1994. “Il debutto del sociale che finalmente rappresentava se stesso - dice - come una realtà d’insieme”. E oggi è lei a essere portavoce nazionale dell’organismo chiamato Forum del terzo settore, le cui fondamenta vennero gettate con il corteo di allora. Se prima era un mondo sociale che andava in ordine sparso adesso l’Italia può dire, altro esempio, di avere appena finito di ospitare - e proprio nell’Umbria in cui Vanessa Pallucchi è nata - il primo G7 al mondo sul tema della disabilità. “Ulteriore conferma che come Paese siamo avanti anche facendo qualche confronto: gli Stati Uniti avevano inviato come delegata una donna non vedente, che però ha parlato quasi esclusivamente di sicurezza militare. A livello globale c’è ancora molto lavoro da fare”. In avanti o indietro? “Per certi versi sicuramente in avanti. Sul sociale l’Italia è meglio di tanti altri posti, in Francia e in buona parte d’Europa ci sono ancora le classi differenziali. Mentre qui abbiamo per esempio una riforma del Terzo settore che significa comunque il suo riconoscimento pieno”. E dove siamo peggiorati? “Basta guardare i numeri. In Europa trent’anni fa c’erano 20 milioni di disoccupati e 50 milioni di poveri, oggi i disoccupati sono scesi a 13 milioni eppure i poveri sono raddoppiati: 96 milioni secondo l’ultimo rapporto Caritas. Quindi la domanda è: come abbiamo fatto a crearli?”. E in Italia? “Se ripartiamo dal corteo di trent’anni fa direi che è stato l’inizio di due fenomeni incrociati. Da una parte l’emersione di un pezzo di società che rivendicava la solidarietà non come una benevola concessione ma come un diritto. E dall’altra, ripeto, la nascita di quella che penso sia giusto definire consapevolezza politica, la coscienza di essere una forza che se rappresentata in modo unitario poteva realizzare un impatto - per usare un termine divenuto oggi normale, e non era scontato - più efficace e presente”. Appunto: oggi cosa vede? “Vedo che esiste il Forum e che la riforma del Terzo settore è stata un importante atto politico. E dico che al di là delle fatiche, delle difficoltà anche burocratiche legate alla sua messa in pratica, è necessario continuare a impegnarsi tutti al massimo affinché la riforma sia fatta funzionare”. La sfida più importante? “La sfida del Terzo settore italiano coincide con la valorizzazione della sua stessa forza principale che è duplice, cioè la quantità - perché le realtà del non profit in Italia sono un numero enorme - e la varietà abbinata alla diffusione sul territorio: il punto sta proprio nel pensarci come un insieme, perché essere molti e diversi è una forza solo se si è uniti. Sennò è il contrario”. Le altre sfide? “In trent’anni la società è diventata più complessa e richiede risposte più complesse. Per questo è diventato necessario insistere sull’importanza dell’amministrazione condivisa, non come opzione ma come necessità. La popolazione è invecchiata eppure le politiche pubbliche sono diminuite e la sanità tagliata, la gente lavora ma ha stipendi con cui non vive, la questione ambientale e climatica è diventata più centrale oggi che non trent’anni fa, ma anche più connessa alla necessità di interventi sociali che rendano la transizione sostenibile per tutti. Insomma la cornice della solidarietà, che resta la parola chiave di tutto, si è allargata. Oggi c’è il tema di assicurare i cittadini contro le catastrofi ambientali, a cui trent’anni fa non avremmo pensato. Eppure se c’è stata una politica sbagliata le cui conseguenze ricadono sulle persone chi è che deve farsene carico?”. L’eredità di quella manifestazione, oltre al Forum? “Quel corteo e il suo titolo erano stati in qualche modo profetici. Da un lato perché i rischi allora paventati sono diventati fenomeni sociali. Dall’altro perché il concetto per cui la solidarietà non è un lusso ma un diritto-dovere coincide con quel che oggi dicono anche gli economisti”. Come alle ultime Giornate di Bertinoro... “Appunto. Le buone pratiche non bastano più, devono diventare sistema. Cioè politica. Quella vera”. Migranti. Il decreto contro le Ong è incostituzionale? Altra grana per il governo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 ottobre 2024 Nuove difficoltà potrebbero insorgere per il governo. Dopo la bocciatura del piano di “delocalizzazione” in Albania da parte del tribunale di Roma, la Consulta dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del decreto Piantedosi contro le Ong, sollevato il 10 ottobre scorso dal tribunale di Brindisi. Come sottolineato dagli avvocati Francesca Cancellaro e Dario Belluccio, la Corte è chiamata a valutare se sia costituzionalmente ammissibile punire chi salva vite in mare e delegare respingimenti a soggetti come la Guardia costiera libica, mettendo a rischio migliaia di persone in fuga da guerre e persecuzioni. Entriamo nel merito del provvedimento emesso dal Tribunale di Brindisi il 10 ottobre 2024, che solleva importanti questioni di legittimità costituzionale riguardo alla normativa sul soccorso in mare dei migranti. Il giudice Roberta Marra ha messo in dubbio la costituzionalità dell’articolo 1, comma 2- sexies del decreto legge 130/ 2020, convertito nella legge 173/ 2020 e successivamente modificato dal decreto legge 1/ 2023, convertito con modificazioni dalla legge 15/ 2023. Questa norma prevede sanzioni per le navi di soccorso che non si attengono alle indicazioni delle autorità competenti durante le operazioni di salvataggio. La controversia nasce da un’opposizione presentata da Leonardo Borromeo, comandante della nave Ocean Viking, insieme a Karsten Hoyland, legale rappresentante della società Hoyland Offshore AS (proprietaria e armatrice della nave), e François Thomas, rappresentante di SOS Mediterranee France. L’opposizione è stata presentata contro un provvedimento di fermo amministrativo emesso il 9 febbraio 2024 dalla Capitaneria di Porto di Brindisi. I fatti risalgono al 6 febbraio 2024, quando la Ocean Viking effettuò quattro operazioni di salvataggio nel Mar Mediterraneo. Durante la quarta operazione, avvenuta in acque internazionali nella zona Sar libica, la nave dovette fronteggiare un motoscafo che compiva manovre aggressive. Nonostante avesse avvertito le autorità competenti, la Ocean Viking procedette con il salvataggio. All’arrivo nel porto di Brindisi, le autorità italiane applicarono la sanzione pecuniaria e il fermo amministrativo, sostenendo che la nave non avesse rispettato le indicazioni della Guardia Costiera Libica. Il Tribunale ha sollevato serie perplessità sulla norma in questione, individuando tre principali criticità. In primo luogo, la norma prevede in modo automatico una sanzione accessoria particolarmente severa: il fermo amministrativo della nave per venti giorni. Questa misura, secondo il giudice Marra, non tiene conto delle circostanze specifiche di ogni caso, violando così i principi di ragionevolezza e proporzionalità garantiti dalla Costituzione. In secondo luogo, la norma risulta eccessivamente vaga nella descrizione delle condotte sanzionabili. Infatti, si fa riferimento generico alle ‘ indicazioni’ delle autorità, senza specificare quali siano i criteri da seguire. Questa indeterminatezza contrasta con il principio di legalità, che impone che le leggi siano chiare e precise, come previsto dall’articolo 25 della Costituzione. Infine, il Tribunale ha espresso preoccupazione riguardo alla compatibilità della norma con gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani. In particolare, la norma potrebbe entrare in conflitto con il divieto di respingimento verso Paesi non sicuri, come la Libia. Il giudice ha citato a sostegno di questa tesi numerosi strumenti giuridici internazionali, tra cui la Convenzione di Ginevra, la Convenzione Solas, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il giudice Marra ritiene che queste problematiche possano violare gli articoli 3, 11, 25, 27 e 117 della Costituzione italiana. L’ordinanza fa riferimento anche a precedenti giurisprudenziali, come la sentenza della Cassazione n. 4557/ 2024, che ha escluso la sicurezza dell’approdo dei migranti in Libia, e a rapporti di organizzazioni internazionali come l’Onu e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) che denunciano le condizioni critiche dei migranti in Libia. La decisione di sollevare la questione di legittimità costituzionale sospende il procedimento in corso e rimette alla Corte costituzionale il compito di valutare se la norma sia compatibile con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Non resta che attendere la decisione della Consulta. Migranti. Blitz della Lega per disconoscere le regole Ue e far tacere i giudici sull’Albania di Vitalba Azzollini* Il Domani, 29 ottobre 2024 La Lega ha presentato emendamenti al ddl sulla separazione delle carriere in base ai quali la legge italiana prevarrebbe su quella europea. Questo intervento normativo è in contrasto con l’ordinamento dell’Ue, al punto da configurarsi come il tentativo di far uscire surrettiziamente l’Italia dall’Unione. Le norme di rango superiore alla legge nazionale, e i giudici che le applicano, intralciano l’attuazione delle politiche del governo? Basta aggirare le une e gli altri, e il gioco è fatto. Ed è proprio il “gioco” della Lega, che per superare tali ostacoli ha presentato in Commissione Affari costituzionali alcuni emendamenti al disegno di legge sulla separazione delle carriere. I fatti - L’intervento normativo scaturisce dalla mancata convalida del trattenimento dei migranti nei centri albanesi. Il tribunale di Roma, attenendosi a una sentenza vincolante della Corte di giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre scorso, non ha confermato il fermo. I loro paesi di provenienza (Egitto e Bangladesh) non sono “sicuri”, secondo quanto affermato dalla Corte, e ciò ha fatto venire meno il presupposto della procedura accelerata di esame delle domande di asilo, l’unica che si applica in Albania. Pertanto, i migranti sono stati trasferiti in Italia. Il governo ha, quindi, aggiornato e inserito in un decreto-legge la lista dei paesi sicuri, prima contenuta in un decreto interministeriale. Secondo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con il nuovo decreto, che è una fonte primaria, l’unica strada consentita ai giudici che lo reputassero in contrasto con la normativa Ue sarebbe quella di impugnarlo dinanzi alla Corte costituzionale. Così non è, e l’abbiamo spiegato nei giorni scorsi: il decreto-legge potrebbe essere disapplicato proprio come il precedente decreto interministeriale. Gli emendamenti - Come riporta il quotidiano Il Dubbio, il primo di tali emendamenti prevede che all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, sia soppresso il passaggio che condiziona la potestà legislativa di Stato e Regioni ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Tale potestà sarebbe così subordinata al solo “rispetto della Costituzione”. Un altro emendamento aggiunge un comma all’articolo 11 della Carta: “La Costituzione non costituisce, in ogni sua previsione, fonte subordinata ai Trattati e agli altri atti dell’Unione europea”. Un terzo emendamento interviene su una legge costituzionale (n. 87/1953) e prevede che, qualora il giudice ravvisi un contrasto tra una norma nazionale e una norma europea direttamente applicabile, “è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale”. Queste proposte non sono una novità. Nella scorsa legislatura furono presentati due disegni di legge (n. 291 e n. 298), a prima firma di Giorgia Meloni, che intendevano raggiungere i medesimi risultati. Gli effetti - L’appartenenza dell’Italia all’Ue e la sua adesione a organizzazioni e convenzioni internazionali comportano necessarie limitazioni di sovranità. Con l’eliminazione dall’articolo 117 del riferimento a qualunque vincolo per il legislatore nazionale che non sia la Costituzione, l’Italia sarebbe affrancata dall’osservanza dei principi posti dalla disciplina Ue, ad esempio in tema di di politiche di bilancio o di libertà di circolazione. Si rammenti, inoltre, che il richiamo dell’articolo 117 agli obblighi internazionali ha consentito alla Consulta di incorporare nell’ordinamento nazionale norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Con il secondo emendamento si vorrebbe vanificare il principio di prevalenza del diritto Ue su quello nazionale, per cui il giudice non potrebbe più disapplicare una disposizione interna in contrasto con una dell’Ue. Quanto all’emendamento che obbliga il giudice a rivolgersi alla Consulta, esso dimostra che è privo di fondamento quanto aveva affermato Nordio, e cioè che in presenza di una fonte primaria, qual è il decreto-legge paesi sicuri, il giudice è obbligato a ricorrere esclusivamente alla Corte costituzionale qualora ravvisi un contrasto con la disciplina Ue. Se fosse stato vero ciò che ha sostenuto dal ministro, l’emendamento non sarebbe servito. Quindi, con tale emendamento la maggioranza di governo smentisce se stessa. Che cosa accadrà - Le norme proposte dalla Lega contrastano con l’ordinamento dell’Ue e, pertanto, qualora fossero approvate, non solo i giudici potrebbero disapplicarle, ma Bruxelles avvierebbe anche una procedura di infrazione. È probabile che quegli emendamenti siano bocciati, anche perché non coerenti con il ddl in cui sono inseriti. Al di là dell’usuale spreco di soldi pubblici usati per scrivere norme che sono solo propaganda, nell’iniziativa della Lega c’è qualcosa di peggio: il tentativo di un partito al governo di far uscire surrettiziamente l’Italia dall’Ue, mediante il disconoscimento dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione. Chissà quanti lo hanno davvero compreso. *Giurista Medio Oriente. Il Parlamento di Israele mette al bando l’agenzia Onu per la Palestina di Lucia Capuzzi Avvenire, 29 ottobre 2024 La Knesset non ha ascoltato l’appello degli Usa e della Ue a fare un passo indietro sull’ente che porta aiuti ai rifugiati. Ora sono a rischio gli approvvigionamenti per la popolazione. Non è stato sufficiente l’appello in extremis del dipartimento di Stato, arrivato quando i parlamentari discutevano alla prima sessione invernale della Knesset, le cosiddette “leggi-anti-Unrwa”. Né il richiamo dell’Alto commissario Ue, Josep Borrell. Né la lettera di Canada, Australia, Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud e Regno Unito in cui chiedevano un passo indietro in nome degli “aiuti umanitari essenziali e salvavita” garantiti dall’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. In tarda serata, l’Assemblea ha approvato con 92 voti favorevoli e dieci contrari la prima misura del pacchetto che paralizza, di fatto, le attività dell’istituzione in Israele. Tecnicamente non le viene impedito di lavorare in Cisgiordania, sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) o a Gaza, governata da Hamas o di quel che ne resta. Ma difficilmente l’Unrwa potrebbe raggiungere tali zone senza appoggiarsi nello Stato ebraico. Da qui le preoccupazioni, della comunità internazionale per i 2,5 milioni di palestinesi dei Territori che dipendono dall’Agenzia per i servizi di base. Oltre il 40 per cento degli assistiti da quest’ultima: gli altri sono i palestinesi sfollati in Libano, Giordania e Siria. La decisione era attesa. I rapporti tra Tel Aviv e Unrwa sono sempre stati complicati. La rottura, però, si è consumata il 7 ottobre. Il governo israeliano ha accusato con veemenza l’istituzione di complicità nel massacro di Hamas poiché nove dei suoi dipendenti - su 13mila - erano affiliati al gruppo armato. Secondo fonti ben informate, la situazione è, poi, sfuggita di mano. Il premier, Benjamin Netanyahu e la destra tradizionale non avrebbero voluto arrivare a un divieto legale per evitare ulteriori frizioni con gli Stati occidentali, Washington in primis. Dopo un anno di critiche virulente, sarebbe stato difficile per il prendere posizione contro il provvedimento, che è andato avanti, cavalcato dalle frange più radicali. Meno di tre settimane fa, le autorità hanno espropriato la sede dell’istituzione a Gerusalemme Est, su ordine del ministro per l’Edilizia, Yitzchak Goldknopf. Già a giugno, le autorità annunciato la fine imminente dei servizi dell’Agenzia e avevano garantito un piano alternativo. Il quale, però, non è ancora stato presentato. Nel frattempo, lo stop è arrivato comunque. Nella notte era previsto un secondo voto - dall’esito probabilmente analogo - per revocare l’immunità diplomatico e le esenzioni fiscali al personale dell’Unrwa. “Scandaloso che un Paese membro delle Nazioni Unite cerchi di smantellare un’Agenzia Onu fondamentale per l’assistenza a Gaza”, ha tuonato la portavoce, Juliette Touma. La questione è quanto mai scottante nelle ultime settimane per la catastrofica situazione del nord di Gaza dove è in corso la terza offensiva israeliana. Almeno centomila persone, secondo le autorità locali, sono intrappolate nei campi profughi di Jabalia, Beit Lanoun e Beit Lahiya senza aiuti dato che alle organizzazioni umanitarie non viene consentito l’accesso. Questione su cui anche ieri il dipartimento di Stato Usa ha espresso “preoccupazione”. Altre cinquantamila sono fuggite ma hanno rifiutato di attraversare il corridoio di Netzarim - che divide in due l’enclave - e si sono concentrate alla periferia di Gaza City. Di fronte al dramma della Striscia - denunciato con forza dalle organizzazioni umanitarie - gli Usa stanno cercando di aumentare la pressione su Israele. “La guerra a Gaza deve finire”, è stata la prima dichiarazione del presidente Usa Joe Biden subito dopo aver depositato la propria scheda nell’urna in Delware. Invece si continua a combattere nella Striscia e in Libano, dove un bombardamento su Tiro ha ucciso sette persone. E gli analisti, ritengono improbabile un’interruzione delle ostilità prima delle elezioni di martedì prossimo. I familiari dei 101 ostaggi ancora prigionieri nell’enclave non sono, però, disposti ad arrendersi. Con gli occhi rivolti a Doha, dove domenica e ieri sono ripresi i colloqui dopo oltre due mesi di stallo, hanno portato il loro grido dentro la Knesset. “Non c’è niente di più urgente del ritorno dei sequestrati”, ha urlato Einav Zangauker, madre di Matan, uno dei 101 sequestrati ancora nell’enclave, chiamata a parlare con un gruppo di parenti di fronte a varie commissioni parlamentari. Lo hanno fatto senza reticenze, abbinando alle parole i fatti. Al termine degli interventi, hanno bloccato uno dei corridoi principali in modo da impedire il passaggio a legislatori e personale. Altri si sono legati con delle fascette alle sedie del bar dell’Assemblea. Fuori, accampate ai piedi della salita di accesso all’edificio, trentatrè persone continuano lo sciopero della fame a oltranza dal 21 settembre. Le parole del premier, Benjamin Netanyahu, però, non sono state incoraggianti. Nel discorso ai deputati, ha ribadito che Israele sta lavorando a un’intesa per il rilascio di “alcuni” rapiti, in cambio di vari giorni di cessate il fuoco. Un’implicita conferma che la strada scelta, al momento, è quella del “piccolo accordo”, sintetizzata dalla nuova proposta egiziana: due giorni di tregua in cambio della liberazione di quattro ostaggi e un “certo numero” di detenuti palestinesi. Su questa soluzione si dovrebbe lavorare nei prossimi giorni, secondo quanto confermato dal capo del Mossad, David Barnea che ieri è tornato in Israele dopo la due giorni di incontri con l’omologo della Cia, William Burns e il premier del Qatar, Mohammed bin Abd al-Rahman bin al-Thani. In ogni caso, si tratterebbe di un primo passo per la negoziazione di un’intesa più ampia. Obiettivo quest’ultimo a cui Hamas non rinuncia. Secondo quanto riferito da fonti interne al sito saudita al-Sharq, il gruppo armato sarebbe disposto ad accettare l’opzione del Cairo ma solo in chiave preliminare. La richiesta cruciale resta la fine della guerra e il completo ritiro dalla Striscia. Netanyahu, al contrario, ha sempre parlato di cessazione temporanea delle ostilità poiché il fine dell’offensiva resta la non precisata “vittoria totale” a cui sempre meno israeliani sono disposti a credere.