Carceri a un anno da Caivano: a che serve la giustizia minorile? di Ilaria Dioguardi vita.it, 28 ottobre 2024 A distanza di 12 mesi dal decreto-legge del 15 settembre 2023, qual è la situazione? Lo abbiamo chiesto a Christian Serpelloni, co-responsabile del settore penale dell’Unione nazionale camere minorili. “La giustizia minorile, a differenza di quella per adulti, si riferisce a persone in fase di maturazione: una logica basata solo sul controllo e la punizione non può funzionare”. “La maggior parte dei minori che seguo non ha alcuna idea di futuro. Questi ragazzi non hanno una progettualità, vivono il presente come possono e il futuro rimane un concetto astratto”. Serpelloni, a un anno dal Decreto Caivano, cosa vuole dirci della situazione negli Istituti penali minorili - Ipm? Recentemente si sono verificati gravi disordini in vari istituti penali minorili, sia nel Nord che nel Sud Italia. Francamente non so se questo sia un effetto delle recenti modifiche normative introdotte dal cosiddetto “Decreto Caivano”. Sta di fatto, però, che i dati relativi ai minorenni detenuti, riportati dal VII report di Antigone sulla giustizia minorile destano qualche preoccupazione. Attualmente sono circa 500 i minorenni ristretti nelle carceri italiane, un numero mai raggiunto negli ultimi 10 anni, a fronte di un tasso di criminalità minorile più o meno stabile negli anni. Anzi, secondo i dati riportati nel report del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale, sulla “Criminalità minorile e gang giovanili”, aggiornato all’aprile 2024, le segnalazioni a carico di minori tra il 2022 e il 2023 hanno un trend decrescente: si registra una diminuzione del 4,3% a livello nazionale. A suo avviso, quali sono le maggiori criticità e i primi interventi che bisognerebbe fare per migliorare la situazione? Francamente è una domanda alla quale faccio davvero fatica a dare una risposta. Nessuno ha la bacchetta magica, ma in un momento come questo, caratterizzato da una fortissima conflittualità a livello internazionale e da forti tensioni interne, bisognerebbe forse soffermarsi a riflettere maggiormente sui principi, avendo a mente un presupposto che ritengo fondamentale. Quale? La giustizia minorile, a differenza della giustizia per adulti, si riferisce a persone in fase di maturazione. Questo significa che una logica basata solo sul controllo e la punizione non può funzionare. Come ci insegnano le scienze sociali, per abbattere la recidiva in ambito minorile è fondamentale, tra le altre cose, accertare le cause che stanno alla base del reato. Il professor Alfio Maggiolini ci insegna che spesso il reato è un modo disfunzionale per realizzare un bisogno di crescita. Per la sua esperienza, i ragazzi come stanno? Sono sempre più disillusi o riescono ad avere speranza e una prospettiva di futuro? La maggior parte dei minori che seguo non ha alcuna idea di futuro. Questi ragazzi non hanno una progettualità, vivono il presente come possono e il futuro rimane un concetto astratto. Ad un ragazzo ho chiesto: “Come vedi il tuo domani?”. Mi ha risposto: “Avvocato, che domanda mi fa? Ha letto le notizie che girano in rete? Ci sono guerre dappertutto. Meglio divertirsi e non pensare troppo”. In un’intervista che ci rilasciò sei mesi fa insieme ad Ilaria Summa, disse: “Il nostro diritto penale minorile lo paragono sempre ad una fuoriserie… con poca benzina”. Continua a pensarlo? In un recente scambio di messaggi l’avvocata Summa mi ha scritto che la fuoriserie oramai è stata venduta. Sia io che la collega rimaniamo della stessa opinione espressa sei mesi fa. È necessario far comprendere che settori come la giustizia minorile sono strategici per il futuro di un Paese. Risulta fortemente illusorio pensare di risolvere i problemi di devianza e/o criminalità minorile inasprendo il sistema nel suo complesso, anziché immettere le risorse per rendere effettive molte norme che già ci sono e funzionanti, e le strutture necessarie per un reale recupero dei ragazzi e delle ragazze devianti. Sarà comunque interessante attendere le pronunce della Corte Costituzionale. Quali pronunce? Sulle questioni di costituzionalità sollevate dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Trento, il dottor Gallo, in ordine all’art. 27 bis dpr 448/88 (definizione anticipata del procedimento) e dal giudice collegiale dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Bari, in ordine alle limitazioni introdotte dal decreto Caivano per accedere alla messa alla prova. Di recente, è stata emessa una circolare dal Dipartimento di Giustizia minorile che impone agli agenti di Polizia penitenziaria, in servizio presso gli Istituti di pena per minorenni - Ipm, di “smettere gli abiti borghesi e indossare sempre l’uniforme”... Se una divisa potesse risolvere i numerosi problemi che in questo momento attanagliano gli Ipm, ben venga la divisa. Onestamente, però, non penso che questa sia la strada giusta da percorrere. “Non esistono ragazzi cattivi e anche il rap può salvarli” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 ottobre 2024 Don Claudio Burgio conosce come forse nessun altro nel nostro Paese il lato oscuro dell’adolescenza. “Perché guardo i ragazzi da due avamposti speciali”, dice. Cioè da cappellano del Beccaria - il carcere minorile milanese dove arrivò con don Gino Rigoldi 20 anni fa come cappellano volontario - e da fondatore e cuore di Kayròs, comunità di accoglienza e servizi educativi per minori, a Vimodrone. Un figlio unico che vuole diventare prete. Come lo disse ai suoi genitori? “Mi ricordo che eravamo a cena. L’ho presa un po’ alla larga, anche se quella sera capii che loro avevano intuito dove andavo a parare. Ho detto: ho preso una decisione, vorrei entrare in seminario, vorrei un periodo di verifica per capire se è davvero la mia strada. Rimasero un po’ scossi, soprattutto mio padre... Ma siamo sempre stati gente di chiesa, so che erano felici se io ero felice”. Quanti anni aveva? “21. Ricordo anche le facce dei miei amici quando lo dissi a loro”. Che facce? “Diciamo stupefatte, va...”. Quanto durò quel “periodo di verifica?”. “Mi sono dato un anno di tempo per capire meglio e alla fine di quell’anno ho avuto un piccolo ripensamento, mi sono detto: provo un altro anno e vediamo. Come vede sono ancora qui... Ma sa qual è la cosa buffa?”. Quale? “Ho scoperto in seguito che anche mio padre aveva fatto un’esperienza in seminario, dai frati in Sicilia. Poi conobbe mia madre e vinse lei...”. Nel suo caso non c’era un amore che potesse vincere? “Ho avuto qualche fidanzatina, sì. Ma non rapporti seri, cose velocissime. Il batticuore vero l’ho avuto soltanto per Dio”. Don Claudio Burgio racconta di sé e si rende conto di non averlo mai fatto prima. Quando lo cercano per intervistarlo di solito è perché da qualche parte un ragazzo l’ha combinata grossa. Lui, il teorico del “Non esistono ragazzi cattivi”, come si intitolava il suo primo libro, conosce come forse nessun altro nel nostro Paese il lato oscuro dell’adolescenza. “Perché guardo i ragazzi da due avamposti speciali”, dice. Cioè da cappellano del Beccaria - il carcere minorile milanese dove arrivò con don Gino Rigoldi 20 anni fa come cappellano volontario - e da fondatore e cuore di Kayròs, comunità di accoglienza e servizi educativi per minori, a Vimodrone. È appena arrivato in libreria il suo “Il mondo visto da qui. Sottotitolo riflessioni di un prete in carcere al tempo delle baby gang” (Piemme), “un viaggio nel mondo adolescenziale visto dalla prospettiva del Beccaria”, sintetizza lui. Dei ragazzi parleremo più avanti. Ora torniamo a lei. Classe 1969. Nato a... “Nato e cresciuto a Milano, quartiere Giambellino. Famiglia normale e cattolica. Facevo il classico ma non ero quel che si dice uno studioso. Preferivo di gran lunga la musica, che è sempre stato un grande amore, oppure il calcio”. È vero che cantava nel coro delle voci bianche del Duomo? “Sì. Da piccolo facevo parte del coro della Cappella musicale del Duomo e il maestro don Luciano Migliavacca guidò la mia formazione musicale. Molti anni dopo sarei diventato io il direttore della Cappella musicale dove avevo cantato da piccolo. Ero l’allievo che succedeva al maestro. Ho nel cuore un episodio bellissimo da piccolo corista”. Quale episodio? “Al funerale di Montale cantai una sua lirica tratta da “Ossi di seppia” e composta da Migliavacca nella notte. Ero piccolo ma provavo già fascino per quel poeta. Anche se il funerale era cristiano lui di fatto era un ateo, ma aveva un’apertura all’assoluto. Ricordo che di quel fatto parlaste anche voi del Corriere”. Oggi non fa che interagire con ragazzi in difficoltà, ma lei ha mai avuto traumi adolescenziali? “Quand’ero un ragazzino erano gli anni dell’eroina, vedevo i giovani perduti per le strade, i morti per overdose per terra. Ma mi sembrava tutto distante da me; io vivevo un’adolescenza quieta, nella mia comfort zone. Finché i compagni del liceo non mi invitarono a far volontariato nel doposcuola in una comunità di minori alla periferia di Milano”. Fu il suo spartiacque? “Sì, scoprii di aver una predisposizione per comunicare con quei ragazzi e cominciai a farmi domande che poi mi portarono alla scelta vocazionale”. Ingresso in seminario nel 1990, ordinato sacerdote nel 1996. “Fui ordinato dal cardinale Carlo Maria Martini che per me è stata una figura fondamentale. Poi da direttore della Capanna musicale ho preparato diversi canti per il suo funerale...”. Ancora un funerale... “Beh, ricordo quei canti ma ricordo anche lui come uomo d’ascolto. Gli ho parlato tante volte a tu per tu. Una volta fu un colloquio per me decisivo. Avevo appena aperto Kayròs e un mio superiore non troppo d’accordo mi disse: che vuoi fare adesso? L’assistente sociale? Avevo 30 anni, quella comunità sembrava una mia follia giovanile. Per un diocesano come me sarebbe stato più normale occuparmi di parrocchie, oratori”. Ma lei decise di non arrendersi, giusto? “Decisi di chiedere consiglio e conforto al vescovo che mi aveva ordinato. Ricordo che gli dissi: padre Carlo, sto facendo davvero una follia? Lui mi guardò e rispose: “In te c’è la vocazione nella vocazione per vivere il ministero con i ragazzi compromessi. Sono cose che vengono da Dio, si capirà nel tempo. Tu vai avanti e non preoccuparti, fidati di Dio”. Mi regalò due libri, la dedica dice: “A don Claudio che vede il mondo con gli occhi di Dio”. Per me quello era un certificato di garanzia. Kayròs è ancora qui tra noi”. Ma davvero lei è convinto che non esistano ragazzi cattivi o irrecuperabili? “Per me no, non esistono. Sono convinto che tocchi sempre all’adulto trovare la via. Lui è difficile? Devi cambiare paradigma educativo. L’approccio moraleggiante, e ancora di più quello dell’autorità intesa come potere, oggi sono inapplicabili. Non funzionano”. E che cosa funziona? “L’ascolto. Il dare tempo al tempo perché trovino il loro spazio e la loro strada. Funziona intercettare e coltivare i loro sogni e accettare le loro debolezze. Funziona il concetto di prendersi cura di loro, in senso ampio, e creare condizioni di fiducia. La mia missione non è salvarli né aspettarmi risultati a tutti i costi. La mia missione è accompagnarli per un pezzo di strada della loro vita e offrire loro la possibilità di uscire dalla via sbagliata. Non ho ansia da prestazione”. D’accordo. Ma ci sarà stata una volta che è andata storta. “Altro che una! Ci sono storie che ho vissuto con amarezza perché ci sono ragazzi che hanno fatto scelte davvero sbagliate, magari dopo anni passati con noi”. Ci faccia un esempio... “Per esempio Tarik e Monsef, due ragazzi marocchini che hanno vissuto a Kayròs per cinque anni. A un certo punto sono partiti per la Siria per unirsi all’Isis. Quando la Digos me l’ha detto non volevo crederci. Uno di loro dopo un mesetto mi ha scritto un messaggio: “Grazie di tutto don, che Allah ti guidi sulla sua retta via, ci vediamo in paradiso. Inshallah”. Ha rischiato la vita per scrivermi quel messaggio perché l’Isis vietava di farlo. Questo vorrà pur dire qualcosa... Mi ha fatto molto riflettere. Un terrorista Isis che scrive a un prete cattolico. Ho riflettuto sulla necessità di creare un dialogo interreligioso”. Sa com’è andata a finire per loro? “Tarik è morto in combattimento, Monsef si è costituito alle forze curdo-americane”. In questo suo nuovo libro lei racconta questa e molte altre storie dei “suoi” ragazzi... “Racconto di qualche fallimento ma anche di molte rinascite. Per esempio Daniel che è passato dalle rapine in banca alla laurea e alla professione di educatore. Oppure Lamine, un ragazzo arrivato dal Senegal. Un anno di schiavitù in Libia, piccoli reati di sopravvivenza in Italia e poi arriva davanti a me. Era fisicamente così imponente che ha fatto svenire di botte più di un ragazzo. Però ho capito che ogni volta che perdeva la pazienza succedeva in cucina. E sa perché?”. Posso immaginarlo... “Perché il tema delle litigate era il cibo. Lui aveva patito così tanto la fame che non potevi toccarlo sul cibo. Quando l’ho capito è cambiato tutto. È finita che un giorno, durante un incendio in un palazzo di Vimodrone, si è arrampicato per due piani e ha salvato quattro persone dal fuoco. Oggi si occupa di sicurezza. Non è meravigliosamente paradossale?”. Se dovesse dire qual è la cosa più bella che le capita ogni giorno stando con i ragazzi? “Adoro la loro schiettezza. Secondo me è segno di complicità e fiducia fra noi”. Di cosa parla esattamente? “Per farle capire: viene un prete da noi e si ferma a cena. Ovviamente prima di cenare si fa il segno della croce, io lo seguo. Ma c’è una voce che fa: “don! ma quando mai... tu che ti fai il segno della croce”. Che figuraccia. Oppure una volta sto parlando con uno di loro, lui si ferma e mi fa: “don, mi hai dato del “tossico”, ma ti rendi conto? Non eri tu che dicevi che le persone non si definiscono con il prodotto delle loro azioni?”. Questo per dire che mi sgamano subito con la schiettezza, appunto. E io imparo da loro”. Non sarà eccesso di buonismo, il suo? “Eh no! questo no. Il buonismo è una cattiveria per le vittime e per l’autore. È come dire: siamo buoni con lui che non può cambiare, poverino. E invece il punto è trattare quel lui da persona vera, che possa diventare adulto e capace di rinascita. Io credo molto nella giustizia riparativa. Tanti non avvertono il dolore delle vittime. Quando ci arrivano ecco: quello è il momento della consapevolezza e della rinascita”. Il rap è stato il filo conduttore per la salvezza di tanti dei suoi ospiti a Kairòs, dove avete anche inaugurato un’etichetta discografica... “Vede, magari questi ragazzi non parlano molto ma nelle canzoni, mi creda, dicono tutto. Nei testi c’è la loro vita, la loro sofferenza. Abbiamo incuriosito rapper famosi come Marracash che ci è venuto a trovare e ci ha regalato alcuni dei suoi vestiti di scena... Achille Lauro ha voluto i ragazzi nel video di un suo brano. Tutto questo conta, per loro. Ogni cosa buona va coltivata perché è un passo sulla via della rinascita”. In carcere ma da star di Tiktok: non chiamatele più baby gang di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2024 Sbarre di ferro che diventano cornici di TikTok. Una mano che stringe un cellulare di contrabbando, un Maranza che sfoggia la sua tuta firmata nel corridoio di un carcere italiano, mentre il suo ultimo video raccoglie migliaia di visualizzazioni. Benvenuti nel carcere del 2024, dove le celle si trasformano in set improvvisati e i detenuti, tra minori, giovani e vecchi adulti, si sfidano a colpi di followers. Video che trasformano la detenzione in una farsa social. Scene spesso ricreate, ma non per questo meno pericolose, in una spirale perversa che sta contagiando le carceri della penisola. Le nostre strade sono diventate il palcoscenico di una generazione persa tra like e manette, dove ogni pestaggio è una storia in evidenza, ogni rissa una diretta streaming, ogni goccia di sangue un trend potenziale. Non chiamatele più baby gang - sono content creator della violenza, influencer della brutalità che trasformano il dolore altrui in engagement. Si organizzano su gruppi Telegram criptati, pianificano le aggressioni come fossero video musicali, scelgono le location come set cinematografici. La violenza diventa una coreografia studiata, il sangue un effetto speciale, le grida di dolore una colonna sonora. I loro profili Instagram sono gallerie dell’orrore: pestaggi in loop, umiliazioni trasformate in challenge virali. Quando le manette scattano, il gioco non finisce - si trasforma. Il carcere diventa l’ultimo stage di un reality show perverso, dove ogni storia di violenza è un capitolo di una serie che accumula visualizzazioni. I muri della cella come quinta teatrale per dirette clandestine, mentre fuori i follower crescono e la notorietà esplode. Anche nei corridoi delle carceri minorili, smartphone nascosti catturano la quotidianità della detenzione, tra sfottò agli agenti e atti di bullismo, trasformando tutto in contenuti virali che ispirano altri giovani a emulare le gesta dei loro anti-eroi digitali. La vita dietro le sbarre viene romanzata e nessuno mostra le frequenti crisi di panico notturne, le lacrime nascoste dai filtri Instagram. Gli psicologi del carcere (pochissimi) osservano impotenti mentre i detenuti oscillano tra due mondi: quello reale fatto di privazioni e quello virtuale dove sono star dei social. Famiglie disperate cercano di comprendere come i loro figli siano passati dal condividere video innocenti a documentare pestaggi, come la ricerca di popolarità si sia trasformata in fedina penale. I social media hanno creato una nuova forma di criminalità giovanile, dove la violenza è solo il mezzo per ottenere quella dose di attenzione digitale che crea dipendenza quanto una droga. La strada verso la riabilitazione è compromessa dalla continua connessione con quel mondo virtuale che li ha portati in cella e anche dopo l’uscita dal carcere, il richiamo della notorietà è più forte di qualsiasi trattamento rieducativo. I tassi di recidiva raccontano di giovani che tornano a delinquere non per necessità ma per mantenere vivo il proprio personaggio social e continuare a provare l’emozione di essere rivisto e rivedersi, emozioni prive di sentimenti, in un ciclo perverso che si autoalimenta. Nei corridoi delle carceri italiane si consumano scene studiate per infangare i poliziotti e tutto il personale: video costruiti ad arte che denunciano presunte violenze mai avvenute. Le vittime diventano carnefici nella narrazione distorta dei social, mentre gli agenti si trovano sotto processo nell’arena mediatica. Il fenomeno dilaga tra le celle: fake news orchestrate, violenze inventate, accuse infondate - tutto per qualche migliaio di visualizzazioni in più. Le istituzioni brancolano nel buio davanti a questa deriva, incapaci di arginare una marea montante dove la ricerca di notorietà calpesta ogni regola ed etica. Occorrerebbero risposte nuove ad una minaccia inedita e non basta più ripensare soltanto il sistema carcerario (che già sarebbe un agire in penoso ritardo), in quanto è l’intero rapporto tra giovani e social media che va rifondato alle basi, perché questa spirale di sangue e like, di violenza vera e teatrale, sta divorando il futuro di un’intera generazione e con essa sta corrodendo le fondamenta stesse della nostra società. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria La delegittimazione dei magistrati non dipende da chi evoca falsi complotti di Claudio Cerasa Il Dubbio, 28 ottobre 2024 La cronaca recente ci dice che quelli denunciati dal governo somigliano più ad autocomplotti che a complotti reali. È anche vero però che una serie di scelte fatte dalla magistratura consente a quell’accusa di trovare un terreno fertile per attecchire. Molti gli esempi. Superato il traguardo dei primi due anni di vita di questo esecutivo, si può dire senza paura di essere smentiti che l’evocazione del complotto della magistratura è diventato uno dei punti forti della narrazione vittimista del governo Meloni. Diciamo vittimista perché, almeno fino a oggi, i complotti denunciati dal governo somigliano più ad autocomplotti che a complotti reali e la storia di questi mesi, ancor prima di arrivare al duello sulla definizione dei paesi sicuri, è lì che ce lo ricorda. Non è stato un complotto della magistratura il processo ai danni di Daniela Santanchè (il mancato pagamento della liquidazione ad alcuni dipendenti da parte della vecchia società del ministro è un fatto, vedremo in che misura verrà considerato un reato). Non è stato un complotto della magistratura il caso Delmastro (la rivelazione di segreti amministrativi conclamati a Giovanni Donzelli è un fatto, vedremo che in misura verrà considerato un reato). Non è stato un complotto della magistratura il caso dell’indagine ai danni del figlio di Ignazio La Russa (non è l’unico figlio di un importante uomo della politica a essere indagato per violenza sessuale). Non è stato un complotto della magistratura neppure l’indagine ai danni di Matteo Salvini a Palermo (la violazione del diritto del mare da parte dell’ex ministro dell’Interno è un fatto, vedremo in che misura verrà considerato un reato). Non è stato un complotto della magistratura neppure il dossieraggio denunciato dal ministro Crosetto (dossieraggio gravissimo, che nel caso sarebbe il sintomo non di un complotto dei giudici contro il governo ma della presenza di un mercato nero delle informazioni riservate in grado di colpire politici di destra e di sinistra e non solo loro). Non c’è nessun complotto della magistratura neppure contro la sorella di Giorgia Meloni (almeno finora la tanto evocata inchiesta estiva su Arianna che tanto ha scaldato i follower della maggioranza di centrodestra è semplicemente aria fritta). E se si vuole essere sinceri fino in fondo non si può considerare neppure un complotto della magistratura quello che abbiamo visto negli ultimi giorni, attorno al così detto modello Albania. Perché è vero che la magistratura ha utilizzato in modo molto discrezionale i suoi poteri, ma è altrettanto vero che l’obiettivo riguarda il merito di un problema complesso (il perimetro della politica migratorio di un governo) che non può essere ridotto alla volontà della magistratura di sinistra di mettere a testa in giù il governo Meloni (e l’intervento della magistratura sul tema, per quanto sia scomposto e basato su criteri soggettivi, non è anomalo ma è di sua competenza). Il complotto, quando si parla di giustizia, è una cosa seria, e l’Italia nel passato ha avuto a che fare con iniziative giudiziarie disinvolte, e ad personam, portate avanti in modo deciso anche contro presidenti del Consiglio in carica, e quando si evoca il complotto bisognerebbe stare attenti anche a non alimentare la sindrome dell’al lupo al lupo. Non c’è dunque alcun complotto evidente nei confronti del governo, e questo è un fatto, e non è stato un complotto nemmeno il caso Toti, perché per quanto i metodi usati contro l’ex governatore della Liguria siano stati scandalosi, non si può dire che l’obiettivo eventuale delle procure fosse direttamente il governo, non essendo Giovanni Toti un volto immediatamente riconducibile al giro meloniano (e chissà che gli elettori liguri non regalino qualche sorpresa sul tema). Eppure, nonostante la nostra lunga premessa, ci sono buone ragioni che permettono ai politici di poter sostenere in qualsiasi momento dell’anno, a prescindere dai fatti, che vi sia la possibilità che un pezzo di magistratura organizzi un complotto contro il governo. E queste ragioni coincidono con tutta una serie di scelte fatte dalla magistratura che consentono alle accuse di complotto di trovare un terreno fertile per attecchire. I magistrati spesso non se ne accorgono, ma quando scelgono di assecondare, senza muovere un dito, le azioni dell’Anm contro le riforme istituzionali di un determinato governo stanno scegliendo di trasformare un sindacato dei magistrati in un soggetto politico attivo. E quando un sindacato si trasforma in un soggetto politico attivo l’effetto è inevitabile: i politici che portano avanti alcune riforme diventano dei nemici politici e quando un magistrato identifica un nemico nella politica è inevitabile vedere nella magistratura più attiva una politicizzazione che potrebbe avere un suo riflesso anche nell’azione giudiziaria. I magistrati spesso non se ne accorgono, ma quando scelgono di non ribellarsi a un sistema correntizio che premia i magistrati non per quello che fanno, nelle aule di tribunale, ma per quello che dicono, fuori dalle aule, è inevitabile essere portati a considerare un pezzo della magistratura come un soggetto politicamente attivo, pronto cioè a trasferire nell’azione giudiziaria le sue battaglie politiche. I magistrati spesso non se ne accorgono, ma quando scelgono di non ribellarsi a un sistema che permette a un giudice chiamato a intervenire in un certo ambito di dire quello che pensa sulle scelte politiche di un governo è inevitabile poi arrivare a pensare che quel determinato magistrato abbia compiuto una scelta facendosi guidare dalla volontà di condurre una battaglia politica. I magistrati spesso non se ne accorgono, ma quando scelgono di legittimare l’immagine del magistrato che deve ribellarsi al suo essere un semplice burocrate, quando cioè avallano il dovere di un magistrato di interpretare le norme e di essere un soggetto “attivo” della resistenza costituzionale, altro non stanno facendo che caricare il magistrato di un ruolo che non dovrebbe essere suo, ovverosia di garante ultimo della Costituzione, deputato a difendere in ogni luogo e con ogni mezzo la Carta da ogni barbaro che a parere del magistrato potrebbe violarla. E quando un magistrato smette di essere un burocrate, cosa che è, quel magistrato sta difendendo anche la possibilità che la magistratura possa essere debordante e che possa essere non uno degli ingranaggi fondamentali del “check and balance” di uno stato ma un contropotere legittimato a combattere coloro che arbitrariamente considera nemici della Costituzione con tutti i mezzi a disposizione, complotti compresi. Il complotto contro il governo non esiste, nemmeno oggi, nemmeno oggi che vi sono magistrati di sinistra che scrivono provvedimenti il cui effetto è quello di smontare leggi del governo di centrodestra, ma tutto quello che la magistratura non dovrebbe fare per evitare che le accuse di complotto trovino terreno fertile è evidente e fino a che la magistratura non farà di tutto per allontanare da sé l’immagine di un corpo dello stato fazioso, ideologico, politicizzato, continuerà a fare di tutto per delegittimare sé stessa con più forza di quanto possa farlo un qualsiasi governo poco amico della magistratura. Cantone: “Giustizia, non c’è bisogno di continue riforme” di Claudio Mazzone Corriere del Mezzogiorno, 28 ottobre 2024 Il procuratore di Perugia: “Il ruolo della magistratura non può essere simpatico”. E sui dossier: “Non c’è controllo sui dati e questo genera un pericolo per tutti. Dati sensibili sono risorsa economica per chi li ruba”. “Gli effetti delle riforme che riguardano la giustizia, poi finiscono per riverberarsi sui cittadini, per cui è evidente che parlando di democrazia e potere non si possa non parlare di giustizia”. Il Procuratore della Repubblica a Perugia, Raffaele Cantone, intervistato dal vicedirettore Corriere della Sera, Venanzio Postiglione durante uno dei talk di CasaCorriere a Napoli, è diretto nel rispondere alla domanda sulla riforma della Giustizia. “Questo - ha detto il magistrato- è un momento particolare, perché un momento nel quale ci sono tantissime riforme in corso, forse anche troppe. Io concordo con quello che ha detto il presidente della Cassazione, forse su questi temi ci sarebbe stato bisogno di un fermo biologico, non di continue riforme, per esempio, come quella che riguarda il processo penale. Ce ne sono tante poi che riguardano i temi ordinamentari, la separazione delle carriere. Tutta una serie di riforme che rischiano di cambiare completamente il pianeta giustizia, io credo in negativo, ma ovviamente è tutto un tema su cui sarebbe necessario anche una riflessione un po’ più attenta”. Poi aggiunge: “Io ricordo - ha evidenziato l’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione - di aver fatto due audizioni, alla Camera e al Senato, sul disegno di legge Nordio in materia di abuso d’ufficio. Due audizioni, così come tantissime altre, la mia sarà stata la meno rilevante. Di tutte le questioni che sono state sollevate, nessuna è stata tenuta in conto”. Sullo scontro tra magistratura e politica il Procuratore della Repubblica di Perugia ha spiegato che quello che si vive in questi giorni “è un refrain, perché qualcuno pensa che la magistratura debba svolgere una collaborazione dell’esecutivo ma in realtà la sua è una funzione di controllo e questo rende più difficili i rapporti. In una democrazia matura il ruolo della magistratura non può essere simpatico. Certo il pericolo che si possano alterare i rapporti tra i poteri c’è”. Ma c’è anche una caduta della credibilità della magistratura sottolineata da Cantone. “Ero appena entrato in magistratura quando hanno ucciso Falcone e Borsellino- ha detto - e oggi la magistratura, a differenza di allora, non gode della stessa credibilità. C’è sempre meno fiducia nei magistrati, ormai è la regola che chiunque perde una causa non pensa di aver torto ma invece si convince che ci sia qualcosa contro di lui e fa ricorso”. C’è anche la vicenda dossier al centro del dialogo tra Cantone e Postiglione. “Non c’è controllo sui dati e questo genera un pericolo per tutti. Su questo siamo in grande ritardo. Abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo troppo velocemente - ha detto il magistrato -. Ci siamo affidati alla tecnologia ma non ci siamo preoccupati degli effetti negativi. Le vicende che stanno emergendo mostrano come i dati sensibili rappresentano una risorsa economica allettante per chi prova a rubarli e oggi non siamo più in grado di invertire la rotta”. Da napoletano, Cantone chiude parlando della sua città, ora in fase di crescita. “Ricordo Napoli durante la crisi rifiuti - ha raccontato - e poi vedo oggi la città piena di turisti, quindi c’è stato un miglioramento ma questo non può essere una patina dietro la quale nascondere i problemi. Napoli è stata la prima città in cui un minorenne è stato condannato per associazione mafiosa, ci si spara tra ragazzi in strada. Oggi la città sta vivendo un momento di furore ma non ci possiamo fermare a questo perché ci sono problemi che non vanno nascosti”. Perché la politica non è più libera di Flavia Perina La Stampa, 28 ottobre 2024 La parola dossieraggio costella la storia della Prima Repubblica e tutt’ora sappiamo poco su come e quanto ne abbia determinato le vicende. Ma quelli erano dossier costruiti e gestiti da uomini dello Stato con la giustificazione (o l’alibi) della Guerra Fredda. Il dossieraggio dei tempi nuovi, il dossieraggio della Equalize, dei bancari in apparenza innocui, degli hacker capaci di bucare il ministero della Giustizia o la Tim, non può nemmeno ammantarsi di quel sottile velo di ipocrisia. Sono traffici di informazioni gestiti da privati per soddisfare interessi di cui abbiamo appena percepito le dimensioni e l’appetito: l’ultima inchiesta ruota intorno a ottocentomila rapporti tratti dalle banche dati delle forze dell’ordine, compresi documenti di interesse per la sicurezza nazionale, compresi leak sulle massime cariche dello Stato. Dobbiamo per forza immaginare che questa enorme massa di accessi illegali abbia avuto committenti o sia stata comunque giudicata commerciabile perché utilizzabile a fini di ricatto. Dobbiamo per forza presumere che a questi traffici silenti fossero legati i ripetuti allarmi di Giorgia Meloni e Guido Crosetto su attività di intelligence illegali. Dobbiamo per forza rivedere la versione che attribuiva questi allarmi a un’ossessione complottista. E dobbiamo per forza chiederci: come è possibile fare politica, governare ma anche fare opposizione, nell’era dei dossieraggi 2.0? È una domanda che è stata a lungo elusa. Mentre il mercato delle spiate si sviluppava, cresceva, arruolava ex-poliziotti di prestigio, manovalanza con accesso agli schedari di ogni istituzione della sicurezza, l’attenzione della politica è rimasta fissa (stavolta sì, in modo ossessivo) sulle intercettazioni giudiziarie, la branca più sorvegliata e di sicuro più attentamente regolata delle “intromissioni” nelle nostre esistenze. Lì agisce un potere dello Stato. Lì ci sono regole, autorizzazioni da dare e avere, persone che ne rispondono, e tuttavia almeno da un paio di decenni è solo di questo che si parla, solo su questo si legifera e si agisce. Il resto, la vasta attività di intelligence privata e senza controllo, o è sfuggita ai radar oppure, ed è l’ipotesi più grave, è stata protetta perché giudicata una risorsa in casi di necessità. I nomi coinvolti nell’affaire milanese e la loro vasta cerchia di relazioni ci dicono che questa seconda possibilità è concreta. Fornivano un servizio aberrante ma di qualità e interessante per molti. Non solo informazioni vere e segrete ma anche dossier falsi, false chat screditanti, false disavventure giudiziarie all’estero, secondo lo stile più classico di “quelli di prima” che con gli stessi sistemi depistarono gli eventi più tragici della notte della Repubblica. Ma è proprio il paragone con i vecchi tempi, e la consapevolezza del costo che ha avuto per la nostra vita democratica, a obbligare le classi dirigenti e i partiti a una riflessione. Mezzo secolo dopo gli archivi illegali del Sifar di Francesco De Lorenzo o dell’Ufficio I di Umberto D’Amato, vent’anni dopo i veleni di Pio Pompa, un anno dopo il caso di Pasquale Striano e a pochi giorni da questo nuovo ed enorme affaire Equalize, denunciare genericamente i dossieraggi (magari pensando che prima o poi torneranno utili) non basta più. Bisogna configurare ogni raccolta dati illegale e ogni costruzione privata di dossier, a qualsiasi titolo eseguita, come un reato di prima classe, un atto potenzialmente eversivo, un modus operandi in conflitto con l’essenza stessa della democrazia oltreché dannoso per singoli che ne sono colpiti, ben oltre le blande e confuse norme dell’attuale codice penale. Serve, insomma, un collettivo sussulto civico oltre le parti, che troppo spesso hanno agito a corrente alternata sul tema, scandalizzandosi quando colpiva gli amici e minimizzando quando colpiva “gli altri”. Fare politica liberamente, decidere, nominare, criticare o difendere una scelta, sotto la potenziale spada di Damocle dei dossier 2. 0 è impossibile per tutti. Tutti dovrebbero prenderne atto e agire finalmente di conseguenza. Lo scontro pm-politica da Cossiga a Salvini (passando per il Cav). Un romanzo giudiziario che dura da trent’anni di Paolo Delgado Il Dubbio, 28 ottobre 2024 Per raccontare anche solo per sommi capi l’interminabile storia del conflitto tra politica e magistratura, sempre latente e spesso palese, ci vorrebbe una serie tv ma di quelle infinite, capaci di inventarsi qualche trovata nuova ogni volta che la trama langue. Stagioni diversi, star diverse e cangianti su entrambi i fronti, sceneggiature spesso capaci di inventare scene madri che racchiudono e sintetizzano l’intera stagione, pardon fase storica. Per esempio la minaccia del presidente Cossiga di far entrare i Carabinieri a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, per arrestare l’intero organo di autogoverno della magistratura, nel novembre 1991. Per avvalorare la minaccia Cossiga, un politico che aveva senso della teatralità in abbondanza, mobilitò effettivamente l’Arma e fece disporre i gipponi nei pressi del palazzo. Lo scontro tra il capo dello Stato e le toghe andava avanti già da anni. C’erano stati tempi nei quali l’inchino del terzo potere di fronte ai politici era stato perenne e puntuale ma erano già lontani. Con la lotta al terrorismo era cambiato tutto. I giudici avevano preso in mano la situazione, e a emergenza finita non avevano alcuna intenzione di tornare alla situazione e anzi erano loro a esorbitare e invadere l’area di competenza della politica. Nel 1985 avevano censurato gli attacchi del premier Bettino Craxi contro i magistrati di Roma e Milano per l’omicidio del giornalista Walter Tobagi. Per Cossiga, appena eletto primo cittadino, esprimersi sul premier spettava al Parlamento, non al Csm. I membri laici del Consiglio si schierarono con Cossiga quelli togati, per protesta si dimisero, salvo poi ritirare le dimissioni su pressione dello stesso presidente della Repubblica. Il braccio di ferro proseguì ed esplose di nuovo nel 1991, quando il Csm mise all’odg una discussione senza consultare il presidente del medesimo Consiglio, appunto il capo dello Stato. Cossiga dichiarò illegittima la convocazione e vietò la riunione. Il Csm decise di confermare odg e sessione plenaria. Cossiga minacciò di fare arrestare tutti e la spuntò. Fu l’ultima vittoria della politica sulla magistratura. La successiva scena madre arrivò quasi un anno e mezzo dopo. Pochi mesi sul calendario, un’eternità in politica. C’era stata e ancora c’era tangentopoli. C’era stato pochi giorni prima il referendum sulla legge elettorale ed era una lapide per i partiti della prima Repubblica. Stava nascendo il governo Ciampi Il 26 aprile 1993, quando la Camera votò l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi e la respinse le inchieste di tangentopoli avevano già demolito la prima repubblica, distrutto i partiti che avevano governato per decenni, messo in ginocchio l’intera politica. Il voto contro l’autorizzazione a procedere non fu l’ultima resistenza della politica ma l’epitaffio. Il gelo che calò nell’aula, lo smarrimento palese, la reazione popolare rivelarono quanto la politica fosse ormai al tappeto. Del resto a decidere quella votazione furono probabilmente i deputati leghisti, con l’obiettivo in buona parte centrato di far saltare il nascente governo Ciampi. Non ce la fecero ma il Pds ritirò i propri ministri e le manovre effettivamente in corso per rendere stabile quello che doveva essere quasi un governo ponte in vista delle nuove elezioni, effettivamente in corso, naufragarono quel giorno, probabilmente cambiando il corso della storia italiana. La storia correva in quegli anni. Appena quattordici mesi dopo il trauma del voto su Craxi al governo c’era Silvio Berlusconi, l’unico tra i tanti clienti e amici di Bettino nei giorni del potere a essere andato a trovare la sera della traumatica votazione. Tentò subito di passare all’offensiva. In luglio il suo governo varò un decreto che limitava drasticamente l’uso della custodia cautelare, l’arma adoperata dal pool di Milano che gestiva l’inchiesta Mani pulite per strappare confessioni e denunce. I magistrati del pool convocarono una conferenza stampa. Quanto a teatralità Antonio Di Pietro, il magistrato di punta del pool, valeva Cossiga. Dissero di non essere più in grado di fare il loro lavoro. Si dimisero. Si abbracciarono commossi. I partiti alleati di Berlusconi, Lega e An, erano i meno garantisti che il mercato passasse. Avevano portato cappi nelle aule parlamentari, inneggiato a Di Pietro invocando la forca. Non ressero al colpo e costrinsero Berlusconi a una retromarcia che rese di colpo il suo governo fragilissimo. Il colpo di grazia arrivò il 22 novembre dello stesso anno, quando l’ancora per poco premier, a Napoli per una conferenza internazionale sulla criminalità, si ritrovo spiattellata sul Corriere della Sera la notizia di un avviso di garanzia, del quale non sapeva nulla, a suo carico. Un mese dopo non era già più presidente del Consiglio. Negli anni del governo Prodi, dopo la vittoria del centrosinistra nelle elezioni del 1996, ci fu l’unico tentativo reale di riformare la Costituzione come si dovrebbe sempre fare: senza imposizioni ma col dialogo e la mediazione tra tutte le forze politiche. La commissione bicamerale presieduta dal segretario del Pds Massimo D’Alema andò a un passo dal farcela. L’accordo alla fine e con immense difficoltà era stato trovato su tutto. L’operazione fallì quando la destra insistette per riformare l’intera Carta, dunque anche le sue parti sulla magistratura. I togati non erano d’accordo. Il Pds, nonostante le insofferenze per l’invadenza delle toghe fosse diffusa anche lì, non se la sentirono di mollare i magistrati. La bicamerale morì lì e la riforma bipartisan della Costituzione pure. Non ci ha provato più nessuno. Nel 2001 Berlusconi tornò al governo. L’anno successivo Francesco Saverio Borrelli, procuratore di Milano ed ex capo del pool Mani Pulite, inaugurando l’anno giudiziario fu durissimo: ‘Resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave’. Resistere contro le riforme che prometteva il governo Berlusconi ‘punitive per la magistratura’. Resistere contro i continui rinvii dei processi contro il leader di Fi, ‘un oltraggio alla giustizia’. In realtà a resistere, resistere, resistere era piuttosto Berlusconi. Un gioco a rimpiattino proseguito per due decenni, con una pioggia di accuse e imputazioni da un lato, manovre dilatorie e leggi cucite a misura dei suoi guai giudiziari dall’altro: lodo Schifani, legge Cirami, legge ex Cirielli, legge Gasparri, lodo Alfano. Per citare tutti i provvedimenti approvati per fare scudo al Cavaliere ci vorrebbe un’enciclopedia. Per arrivare a una condanna contro Berlusconi ci vollero quasi vent’anni da quell’avviso di garanzia del 1994. Arrivò nel 2013 e costò a Silvio la cacciata dal Senato, oltre che una condanna scontata prestando lavori socialmente utili. Nel marzo di quell’anno l’imputato Silvio accusò una malattia agli occhi come legittimo impedimento per non presenziare a un’udienza, costringendo così a rinviarla per l’ennesima volta. I magistrati disposero la visita fiscale. Decine di parlamentari azzurri tentarono di occupare l’aula in cui si svolgeva l’udienza. Cacciati dall’aula occuparono la scalinata del palazzo di Giustizia intonando l’Inno di Mameli. La serie infinita non è aliena a momenti comici o grotteschi. Lo scontro tra politica e magistratura è proseguito con i governi Conte 1, con il fronteggiamento tra Salvini e le procure sul blocco delle navi Ong che ha portato al processo in corso contro l’ex ministro degli Interni, e Draghi, con l’insurrezione dei giudici contro la riforma Cartabia di cui si è fatto portavoce l’attuale procuratore di Napoli Gratteri. Con Meloni le scintille ci sono state subito. Ora è incendio e non si spegnerà facilmente. Chi abbia vinto sinora tra le due squadre in campo tra trenta e passa anni è impossibile dirlo, essendoci ovviamente state fasi alterne nessuna delle quali risolutiva. Quel che si può dire è che se uno scontro tra istituzioni e tra poteri dello Stato prosegue per tre decenni senza che si riesca a risolverlo fissando punti fermi e delineando paletti a circoscrivere nettamente le aree di competenza a perdere è un sistema. Quello di cui fanno parte sia i giudici che i politici. Luciano Violante: “Sta finendo l’era dell’egemonia della magistratura” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 28 ottobre 2024 “Bisogna battersi seriamente per difendere l’indipendenza delle toghe, ma ciascun magistrato deve comprendere che si tratta di una responsabilità”. L’ex presidente della Camera Luciano Violante interviene sul rapporto tra politica e magistratura e spiega che “il magistrato, vista la quantità di poteri discrezionali che esercita nei confronti della reputazione, della libertà e dei beni delle persone, non è un cittadino come gli altri” e che è in corso “un riequilibrio” tra poteri dello Stato. Presidente Violante, crede che quello in atto tra governo e pm sia l’ennesimo capitolo della guerra trentennale tra politica e magistratura? A partire dalla seconda metà degli anni Settanta abbiamo avuto una fase di forte espansione del potere giudiziario rispetto al potere politico soprattutto per la lotta contro il terrorismo. Oggi c’è un governo che non sempre in modo corretto sta cercando di costruire un riequilibrio attraverso processi di riduzione dei poteri giurisdizionali e di mortificazione della reputazione dei magistrati. Il riequilibrio può piacere o meno, ovviamente, ma non va fatto pensando di poter prevalere attraverso un abuso degli strumenti a propria disposizione. Eppure l’attuale governo ha attaccato frontalmente i giudici e le loro decisioni sul “caso Albania”, anche ricordando una certa “militanza” delle toghe. Che ne pensa? Qualche magistrato ha sbagliato gravemente con dichiarazioni incompatibili con il suo ruolo. Il magistrato, vista la quantità di poteri discrezionali che esercita nei confronti della reputazione, della libertà e dei beni delle persone, non è un cittadino come gli altri. Deve contenersi ed essere sobrio nelle sue manifestazioni. Non può apparire né come parte né come controparte. Così si riduce la propria credibilità e di danneggia tutta l’istituzione. Dall’altro lato la magistratura si tiene stretta la sua indipendenza dalla politica, nell’ottica della separazione dei poteri propria dello stato di diritto... L’indipendenza da ogni altro potere è un diritto dei cittadini e necessità di un esercizio responsabile dei comportamenti privati e di quelli pubblici. Nel mondo politico si manifestano a volte posizioni che o per ignoranza o per convincimento pronunciano dichiarazioni provocatorie. Sono piccole trappole alle quali bisogna sfuggire con intelligenza senza diventare controparte. Molti vedono in Tangentopoli l’inizio della fine del primato della politica, in favore di un sempre più accresciuto potere della magistratura. È così? La questione va molto più indietro, la riporterei ai tempi del terrorismo. In quegli anni la magistratura è emersa come unico soggetto che combatteva e spesso moriva per difendere le istituzioni della Repubblica. E questo ha dato alla magistratura un rilievo importante, basti pensare anche a tutti quei magistrati, magari meno noti, uccisi dalla mafia o dai terroristi. Poi abbiamo avuto il ‘92 e Tangentopoli ma la storia della “supplenza” comincia molto prima, quando si diceva che la magistratura interveniva laddove non lo faceva la politica. Non crede tuttavia che con Tangentopoli si assistette a un “cambio di passo” nello squilibrio di poteri tra legislativo ed esecutivo, da un lato, e giudiziario dall’altro? A me capitò di scrivere un articolo sull’Unità nel 1993 in cui sostenni che nessun paese può resistere a lungo dall’ingessatura che viene dallo strapotere giudiziario nella società, perché prima o poi arriverà un soggetto regolatore che metterà le cose a posto. Ecco, penso che ora siamo in questa fase. Questo è il corso della storia che stiamo vivendo. Ma ho l’impressione che non tutti i magistrati abbiano colto il senso della storia. Siamo nel primo quarto del nuovo secolo, non più nell’ultimo quarto del secolo precedente. Fino alla volontà da parte della maggioranza di mettere mano alla Costituzione e realizzare, ad esempio, la separazione delle carriere... Bisogna battersi seriamente per difendere l’indipendenza della magistratura; ma ciascun magistrato deve comprendere che si tratta di una responsabilità, non di un beneficio. La separazione tra pm e giudici è inutile perché c’è già ed è dannosa perché maschera un intento che può diventare in qualche caso prevaricatorio. Secondo la maggioranza la magistratura ha “troppo potere”. Condivide? A me sembra che abbia un eccesso di esposizione mediatica. Per il resto, i magistrati applicano le leggi che fa il Parlamento. Leggo che negli ultimi mesi sono state create 49 nuove figure di reato. Il che vuol dire 49 nuove possibilità di poter intervenire nella vita delle persone. Queste leggi danno alla magistratura un potere di intervento molto alto ma sono decisioni del Parlamento. Ogni volta che si approva una legge si attribuisce un potere in più al magistrato. Non ha senso approvare tante leggi, spesso confuse, e poi dire che i magistrati hanno troppo potere. Altro capitolo è quello della disapplicazione in via di fatto di alcune leggi penali. È una questione che merita uno specifico approfondimento. Crede che da questo punto di vista il “colore” politico del governo in questione faccia o abbia fatto la differenza in questi decenni? Chiunque eserciti un potere di governo, di qualunque colore politico esso sia, non vede con particolare simpatia l’intervento giudiziario. Ricordo per esempio una critica di una persona che stimo come Romano Prodi nei confronti dei tribunali amministrativi. Il punto è che politica e magistratura sono due sovranità confinanti, nel senso che la politica è sovrana nei confronti dell’intero paese mentre il giudice è sovrano nei confronti del soggetto che ha di fronte in quel momento, ma sono comunque due sovranità. E, di conseguenza, nel momento in cui una arretra l’altra avanza. Pensa anche lei, come diversi esponenti di governo, che la magistratura stia mettendo degli ostacoli alla maggioranza proprio per evitare che la politica riconquisti il suo “primato”? Se ci fosse sarebbe uno scontro puramente ideologico. Chi governa sa che in uno Stato di diritto come il nostro il potere del governo non è illimitato. Quel che si può dire è che nella cultura di sinistra, anche se non in tutta, c’è l’idea che il potere politico debba fare i conti anche con gli altri poteri mentre in quella di destra è più presente l’idea dell’intangibilità del potere politico in quanto tale. Tant’è che il governo si è spinto ad approvare un decreto con la famosa lista dei “paesi sicuri”. Funzionerà? L’hanno fatto, ora vedremo se funzionerà. Credo che occorra aspettare quattro o cinque mesi per vedere se funziona e soltanto dopo saremo in grado di esprimere valutazioni o giudizi. Bisogna anche vedere cosa succederà a livello europeo. Sta di fatto che sull’immigrazione nessuno ha trovato una soluzione, che di certo non può essere quella di rimpallarsi a vicenda il problema come per anni è stato fatto e come molto spesso viene fatto tuttora. Edmondo Bruti Liberati: “La leggenda delle toghe rosse ormai è ridicola: i magistrati applicano le leggi” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 ottobre 2024 “I giuristi hanno criticato in modo severo la politica securitaria del Governo. Lo condivido, e se fossi ancora magistrato applicherei quelle norme”. Lo scontro tra magistratura e politica si fa sempre più acceso: ne parliamo con l’ex Procuratore della Repubblica, Edmondo Bruti Liberati. Caso Albania: i giudici stanno esercitando un ruolo di ingerenza nelle politiche governative? La gestione dei flussi migratori verso l’Europa è un problema complesso. È allo studio un nuovo regolamento dell’Ue che però è previsto entri in vigore solo nel 2026; l’Italia potrebbe adoperarsi per anticipare i tempi. I magistrati non intervengono sulle scelte politiche, ma si pronunciano su singoli casi (che sono anche singole persone, non dimentichiamolo) applicando e interpretando le norme vigenti italiane e la giurisprudenza europea. La maggioranza dice: “le toghe rosse non ci fermeranno”. Ma esistono davvero queste toghe rosse? Ogni decisione della magistratura può essere criticata ma con argomenti e non con invettive. La storia delle toghe rosse è francamente ridicola. A voler seguire questa linea si dovrebbe parlare anche di toghe nero-verdi- azzurre in caso di decisioni non sgradite a questo governo. I magistrati, come tutti i cittadini hanno le loro idee politiche, verosimilmente alle ultime elezioni, come la popolazione generale, si saranno nel voto divisi più o meno a metà tra le forze della attuale maggioranza e quelle dell’opposizione. Poi nell’esercizio delle loro funzioni applicano la legge. Ritiene che sia sufficiente come garanzia di imparzialità per un magistrato che critica le scelte dell’esecutivo la circostanza che poi assuma un dovere di indipendenza da sé stesso e renda conto mediante la motivazione del provvedimento giurisdizionale dell’effettiva assunzione di quel dovere? I magistrati, come tutti i tecnici del diritto, possono proporre analisi giuridiche sulle scelte dell’esecutivo che si traducono in proposte e poi in leggi; le valutazioni debbono essere argomentate, chiare e misurate nei toni anche quando decisamente critiche. In questi giorni professori penalisti e avvocatura hanno espresso valutazioni molto severe sulla politica securitaria di questo governo. Le condivido totalmente, ma se fossi ancora magistrato applicherei queste norme, con l’unico limite dell’eventuale eccezione di costituzionalità, ove fosse il caso. Il presidente del Senato La Russa in una intervista a Repubblica non esclude una modifica del Titolo IV della Costituzione sostenendo “a chi spetta definire esattamente i ruoli della politica e della giustizia?”.. Penso e spero che le espressioni del Presidente del Senato, che è avvocato, operatore del diritto, siano andate oltre il suo pensiero: altrimenti si dovrebbe ritenere che sia messo in discussione il principio della indipendenza della magistratura, fondamento di ogni ordinamento liberaldemocratico. Il vice presidente del Csm, Fabio Pinelli, ha detto: “Il compito di un buon magistrato è far rispettare la legge, non definire un’etica pubblica”. In questi anni la magistratura ha esondato dalla sua funzione? La proposizione di principio è pienamente condivisibile. In un mio libro da poco uscito “Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia” (Raffaello Cortina editore) a pag 144 scrivo: “Il pm ha l’obbligo di accertare fatti di reato specifici e responsabilità individuali, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali. Il pm ha l’obbligo di accertare fatti previsti dalla legge come reato e non di intervenire su fatti di malcostume o irregolarità amministrative. “Reati penali” è una ridondanza entrata nell’uso giornalistico, perché il reato è già di per sé penale, ma è forse utile a sottolineare specificità e limiti dell’intervento della giustizia penale. Non spetta né ai giudici né al pm il ruolo di custodi della virtù pubblica, come ammoniva Alessandro Pizzorno nel 1998 in un volumetto dal titolo “Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”. Aggiungo ora che dove posizionare l’asticella dell’etica pubblica spetta alla politica e in molti Paesi esiste e opera l’istituto delle dimissioni quando emergano fatti non commendevoli indipendentemente dalla rilevanza penale. Da noi non è così e quando, come capita, la politica rimette la decisione su dimissioni da ruoli pubblici a scadenze del processo penale (rinvio a giudizio, condanna di primo grado, condanna definitiva) è paradossalmente proprio la politica ad attribuire alla magistratura penale il “controllo della virtù”. Si rivendica da parte delle toghe anche il loro ruolo di difensori del mandato costituzionale di effettiva garanzia dei diritti delle persone. La magistratura ha dovuto supplire alle carenze della politica? Il discorso sulla “supplenza della magistratura” sarebbe molto complesso e andrebbe rapportato anche al tema delle “non scelte” della politica rispetto a temi delicati, “non scelte” che affidano un ruolo improprio alla magistratura, che poi è “costretta” ad intervenire su singoli casi. Gli esempi non mancano e talora la Corte Costituzionale ha rivolto invano moniti al legislatore perché intervenisse. Questo attuale scontro tra magistratura e politica rappresenta la fase finale di quello iniziato con Tangentopoli, guardando anche a tutte le riforme percepite contro la magistratura e messe in cantiere da questo governo? Da Mani pulite sono passati più di trent’anni e su quella vicenda, nei lati positivi e nelle criticità, vi sono state analisi approfondite. In questi decenni si sono succeduti diverse maggioranze e diversi governi e le “toghe politicizzate” hanno di volta in volta adottato anche provvedimenti sgraditi al governo di turno. Le iniziative giudiziarie hanno avuto esiti diversi e possono essere analizzate e criticate; ma sarebbe meglio finirla con la giaculatoria della “magistratura politicizzata” o, peggio, delle “toghe rosse”. Oggi ci si confronta con proposte di legge di riforma costituzionale: non sono solo magistrati, ma anche molti autorevoli giuristi a esprimere preoccupazione per la proposta di riforma costituzionale del governo che non è solo separazione delle carriere, ma riscrittura di tutto il sistema costituzionale di garanzia della indipendenza della magistratura, quello preclude all’esecutivo di ordinare al Pm prima e poi ai giudici di adeguarsi “al mandato ricevuto dai cittadini”. Fino a ieri si paventava il rischio che, nonostante tutte le rassicurazioni dei proponenti, si potesse in futuro mettere a rischio l’indipendenza dei Pm; le vicende di questi giorni ci mostrano che potrebbe essere in pericolo anche l’indipendenza dei giudici. L’indipendenza della magistratura, principio fondamentale delle democrazie liberali, è sempre a rischio come avvenuto in paesi “sovranisti” pur membri dell’Unione europea. Siamo per fortuna molto lontani dall’Ungheria, ma sarebbe meglio essere prudenti prima di sconvolgere delicati equilibri costituzionali. Il contributo unificato non pagato fa estinguere il processo, giuristi contro la Manovra di Mauro Di Gregorio quifinanza.it, 28 ottobre 2024 Un articolo della Manovra 2025 stabilisce che chi non paga, in tutto o in parte, il contributo unificato perde il diritto ad agire in giudizio. La Manovra 2025 manda su tutte le furie giudici e avvocati, che attaccano l’articolo 105. Il passaggio impone l’estinzione del processo “per omesso o parziale pagamento del contributo unificato”. La ratio della norma è quella di combattere l’evasione contributiva. Se la norma dovesse passare, alla prima udienza il giudice dovrà verificare se il pagamento sia stato effettuato correttamente. In caso di irregolarità, il giudice rinvierà l’udienza a data “immediatamente successiva” e la parte interessata avrà un termine di trenta giorni per effettuare il pagamento o l’integrazione della parte mancante. Se anche nella seconda udienza il giudice dovesse verificare che il contributo unificato non è stato pagato per intero, allora dichiarerà l’estinzione del giudizio. La norma andrà a modificare il codice di procedura civile introducendo la nuova causa di estinzione del processo “per omesso o parziale pagamento del contributo unificato” che va da un minimo di 43 a un massimo di 3.372 euro, a seconda del valore della causa e del grado di giudizio. Chi non paga, dunque, perderà il diritto di agire in giudizio civile, tributario o amministrativo. Per utilizzare il gergo sportivo, chi non paga perderà la causa “a tavolino”. Nella relazione tecnica si legge che la misura “è suscettibile di generare un gettito in entrata per le casse erariali, che, in quanto di difficile quantificazione, tuttavia, non è stato prudenzialmente ascritto sui saldi di finanza pubblica”. Immediate le reazioni di giudici e avvocati. Per L’Organismo congressuale forense “lo stop ai processi è incostituzionale” e si deve quindi subito “stralciare la misura”. Una simile norma, si legge in una nota, di fatto attribuirebbe al giudice “poteri di amministrazione finanziaria”. “Ogni tentativo di subordinare il baluardo costituzionale della tutela dei diritti ad imposizioni o a prestazioni patrimoniali è stato, nel tempo, bocciato dalla Corte costituzionale”, sottolinea l’organismo che rappresenta gli avvocati. L’Ocf promette che “adotterà ogni iniziativa volta a evitare l’approvazione della norma, come ipotizzata, e di qualsiasi altro provvedimento che pieghi l’operato del giudice a ragioni fiscali”. L’Unione nazionale delle Camere civili definisce la norma “inaccettabile”. “L’articolo 24 della Costituzione - si puntualizza - garantisce il diritto di agire in giudizio e non lo subordina ad alcun adempimento di carattere fiscale. La norma proposta viola invece tale diritto e non ha dunque alcuna ragionevolezza: la giustizia ai cittadini deve essere garantita, e non venduta. La tutela dei diritti e la giustizia rientrano tra i compiti istituzionali dello Stato, che non può subordinarne l’adempimento a versamenti fiscali, sicuramente dovuti, ma che trovano già nell’ordinamento tributario i propri rimedi e le proprie sanzioni”. Proteste contro la Manovra arrivano anche dai giudici di sinistra della corrente Area. “Non sarà un processo per poveri”, accusano le toghe progressiste che parlano di “una disposizione ingiusta che finisce con il calpestare i diritti di tanti cittadini, specie quelli delle fasce più deboli, privandoli della possibilità di vedere tutelate in giudizio le loro ragioni”. Il governo Meloni viene accusato di avere introdotto “una sanzione che punisce con l’estinzione del processo non una condotta processuale delle parti (come, invece, è previsto per le altre ipotesi di estinzione), ma l’inadempimento di un’obbligazione tributaria, per la quale l’ordinamento già conosce altri strumenti di tutela”. Il tutto, viene aggiunto, violando l’articolo 24 della Costituzione ma anche “gli articoli 6 e 13 Cedu e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che assicurano il diritto a un ricorso effettivo”. Il caso di Verona tra migranti, polizia e codice penale di Francesco Da Riva Grechi L’Identità, 28 ottobre 2024 Su questa testata si è potuto leggere della brutta vicenda della notte tra sabato 19 e domenica 20 alla stazione ferroviaria di Verona quando un agente della Polfer è stato costretto alla reazione contro un immigrato, a cui era stata respinta la richiesta di asilo, descritto come fuori di sé, che ripetutamente durante la notte aveva provocato e cercato di colpire con un coltello passanti ed agenti delle forze dell’ordine. Il ragazzo, Moussa Diarra, proveniente dal Mali, 26enne, è stato ucciso per legittima difesa. La procura ha aperto un fascicolo a carico del poliziotto, agente della Polfer, per eccesso colposo. In realtà, le scriminanti invocabili sono due: legittima difesa ed uso legittimo delle armi. Questa seconda è meno nota ma in realtà è la più significativa in casi come questo o come quello di pochi mesi fa a Milano, sempre in stazione, dove un agente è stato brutalmente colpito con un coltello in un’azione che ricorda quella di Verona, senza fare in tempo a estrarre l’arma. L’agente è stato salvato in extremis dai colleghi e dai soccorritori ma ha rischiato di morire per quella coltellata. L’uso legittimo delle armi è previsto dall’art. 53 del codice penale dove si prescrive che: “non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti. Si tratta di una norma tradizionale dei codici penali europei, specificazione della più conosciuta clausola generale dell’”adempimento del dovere” di cui all’art. 51 c.p. e che si spiega con il bilanciamento che il legislatore ha compiuto tra l’esigenza di punire chi usa le armi contro qualcuno e quella di non punire le forze di polizia che devono intervenire per tutelare l’incolumità e la sicurezza collettiva e individuale. Diverso il caso della norma sulla legittima difesa, anch’essa contenuta nel codice penale e precisamente all’art. 52 c.p. e oggetto di un intervento legislativo nel 2019 per rafforzare le possibilità dei cittadini di difendere la propria o la altrui incolumità o la proprietà. Appunto perché si applica a tutti, si parla della legittima difesa più facilmente che degli altri istituti, investendo molto di più la sensibilità dei cittadini e degli elettori sempre alle prese con la sensazione di doversi difendere da soli o, addirittura, da soli, di farsi giustizia. Si tratta di un conflitto che riesplode ogni volta che la cronaca offre episodi di eccessi, soprattutto a danni di stranieri o di soggetti disarmati, come anche nel caso inverso di uccisioni di gioiellieri, baristi, tassisti o commercianti che svolgendo un’attività di pubblico esercizio più sono esposti ai rischi di incontri con criminali violenti o in stato di ebbrezza. In questi casi, come anche in quello di Verona, dal quale si è avviata queste breve nota, la procura della Repubblica apre sempre un fascicolo per “eccesso colposo”, fattispecie prevista dall’art. 55 del codice penale, anch’esso oggetto di revisione nel 2019, per punire a titolo di delitto colposo colui che ha colposamente ecceduto i limiti che la legge poneva per rendere legittima la sua azione offensiva. Il boss Corona torna libero, destra furiosa. Ma senza aggravante era una scelta obbligata di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 ottobre 2024 I difensori: “I giudici non hanno responsabilità e strumentalizzare questa vicenda, accusando chi non può rilasciare interviste, non è giusto”. La scarcerazione questa settimana del boss Giuseppe Corona per decorrenza dei termini di custodia cautelare ha scatenato, come era facilmente prevedibile, una accesa polemica politica. Corona, condannato in primo grado a 19 anni, ridotti a 15 anni e 2 mesi in appello, è considerato il “re delle scommesse” all’Ippodromo di Palermo. Secondo gli inquirenti il suo “core business” erano gli investimenti per le famiglie di Porta Nuova e di Resuttana, tra centri scommesse, Compro oro e vendita di preziosi al monte dei pegni. Accusato di riciclaggio e intestazione fittizia con l’aggravante mafiosa, Corona dal 2018 era detenuto al carcere milanese di Opera e sottoposto al regime del 41 bis. Lo scorso marzo, scaduti i termini massimi di custodia cautelare, i magistrati avevano accolto la richiesta di scarcerazione presentata dai suoi difensori, gli avvocati Giovanni La Bua e Antonio Turrisi. “La scarcerazione di Corona è una notizia che ci preoccupa profondamente. Auspichiamo che l’Anm, tra le sue tante dichiarazioni, trovi anche il tempo per fermarsi a riflettere ed evitare scandali del genere”, hanno dichiarato i deputati della Lega in Commissione giustizia Ingrid Bisa, Davide Bellomo, Simonetta Matone, Jacopo Morrone e Valeria Sudano. Concetto ribadito dal senatore Gianluca Cantalamessa, capogruppo in Commissione antimafia e responsabile dell’omonimo dipartimento della Lega: “L’Anm, vista la frequenza dei suoi interventi, potrebbe aprire una discussione in merito alla scandalosa scarcerazione di Corona”. “Faremo un’interrogazione al ministero della Giustizia per porre all’attenzione questa vicenda”, ha dichiarato invece il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino, capogruppo della Commissione giustizia a Palazzo Madama. “L’impegno contro la mafia deve riguardare tutti. Nessuno può esimersi dall’avvertire la tensione morale dell’impegno antimafia e tutti gli operatori della giustizia devono fare senza indugio il proprio dovere”, ha ricordato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, secondo cui “la scarcerazione del reggente del mandamento di San Lorenzo mette a repentaglio i risultati faticosamente raggiunti dallo Stato nella dura lotta contro la serpe mafiosa: è necessario approfondire cosa sta accadendo per capire come sia potuto succedere e perché episodi del genere non si verifichino mai più”. “Desta preoccupazione e sgomento la scarcerazione per decorrenza dei termini di diversi mafiosi a Palermo, alcuni dei quali sottoposti al 41bis e legati alla figura di Matteo Messina Denaro. Questa è una decisione che mette a repentaglio il brillante lavoro fatto in questi anni dagli inquirenti e dalle Forze dell’ordine nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata, personaggi che hanno seminato paura e distruzione, liberi di tornare in quelle terre dove hanno rubato speranza e futuro”, ha scritto infine su X Chiara Colosimo, meloniana presidente della Commissione antimafia. Polemiche ritenute del tutto infondate per i difensori di Corona. “I giudici non hanno nessuna responsabilità e strumentalizzare questa vicenda, accusando chi non può rilasciare interviste, non è giusto”, hanno dichiarato, spiegando che la loro decisione era una ovvia conseguenza della riduzione di pena determinata dal venir meno dell’aggravante che ha ridotto i termini massimi di custodia. Una decisione dunque obbligata in quanto la riduzione della pena, determinata dal venir meno della circostanza aggravante del reimpiego economico dei proventi dell’attività mafiosa, aveva fatto scendere la durata massima dei termini di custodia cautelare da 9 a 6 anni. Se non ci fosse stata tale riduzione, Corona sarebbe rimasto in carcere fino al 2027 e quindi, verosimilmente, fino alla sentenza definitiva della Cassazione che ora attenderà da libero. Parafrasando un vecchio spot di una casa di diamanti, la custodia cautelare non è “per sempre”. Arresto in flagranza, sì all’avviso il giorno dopo sulla Pec del difensore senza utenza mobile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2024 La mancata pubblicazione dell’utenza sull’elenco professionale giustifica che la comunicazione immediata sia inviata tramite posta elettronica certificata. Ciò in quanto non viola il diritto di difesa. L’avviso al difensore dell’avvenuto arresto in flagranza che venga comunicato il giorno sulla Pec all’avvocato, non è causa di nullità della misura applicata, se per scelta dello stesso professionista non è pubblicata la sua utenza mobile sull’elenco dell’Ordine professionale. In tal caso, nessuna violazione del diritto di difesa è invocabile in quanto si tratta di circostanza derivante da scelta dell’avvocato e che non impedisce la partecipazione del difensore - in contraddittorio - all’udienza di convalida, vera sede dell’esercizio del diritto difensivo. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 39138/2024 - ha accolto il ricorso del pubblico ministero contro l’ordinanza che non aveva convalidato l’arresto in flagranza per violazione del dovere della polizia giudiziaria di immediato avviso al difensore nominato all’atto dell’arresto. La norma che il Gip riteneva violata con superamento del termne di comunicazione immediata e compressione del diritto di difesa è il comma 2 dell’articolo 386 del Codce di procedura penale che letteralmente recita: dell’avvenuto arresto o fermo gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria informano immediatamente il difensore di fiducia eventualmente nominato ovvero quello di ufficio designato dal pubblico ministero. Nel caso concreto l’invio a mezzo Pec entro il giorno successivo all’arresto in flagranza è stato giudicato legittimo al fine della tempestiva comunicazione da effettuare al difensore e di garanzia dei diritti della persona arrestata. La Cassazione ha però annullato l’ordinanza senza rinvio in quanto la fase sub iudice di legittimità era già conclusa senza possibilità che il principio affermato con la sentenza potesse dispiegare effetti giuridici nel caso concreto. Torino. “Il Cpr è il buco nero della democrazia”. Nasce una rete civica per l’accoglienza di Caterina Stamin La Stampa, 28 ottobre 2024 Dal Gruppo Abele ai sindacati, un fronte contro la riapertura della struttura di corso Brunelleschi. Lo promuove la Circoscrizione 3: “Pensiamo a un futuro diverso”. “Quello è il buco nero della democrazia”. Elena Ferro, segretaria della Camera del lavoro di Torino, ha messo piede nel Centro di permanenza per il rimpatrio mesi fa. Eppure ancora non trova le parole. “C’erano ancora tutti i segni delle rivolte - dice - le scarpe per terra, i biglietti abbandonati. Su un muro la scritta: “Noi siamo umani”, per ricordare un’umanità che lì dentro non esiste. Quello che accade in Albania, nel piccolo succede anche qui”. La “caserma” di corso Brunelleschi, destinata ad accogliere stranieri irregolari o colpiti da provvedimento di espulsione, ha chiuso nel marzo 2023. C’erano stati casi di autolesionismo, culminati con il suicidio di un giovane di soli 23 anni. Si chiamava Moussa Balde. “Era stato vittima di un’aggressione a Ventimiglia, l’avevano portato a Torino e rinchiuso nell’”ospedaletto” - ricorda, come se fosse accaduto ieri, Francesca Troise, presidente della Circoscrizione 3 - In quella sezione tavoli e sedie erano incollati a terra, era di fatto in isolamento. Non era un posto dove si poteva sopravvivere”. Si è susseguita una rivolta dopo l’altra. Incendi, devastazioni, intere aree distrutte. La struttura non era più adeguata. E così è iniziato un percorso di ristrutturazione. Ma ora, a qualche settimana da una possibile riapertura del palazzone di corso Brunelleschi, associazioni, enti del terzo settore e professionisti si uniscono in un appello: “Il Cpr non deve riaprire”. Anzi. “Deve chiudere definitivamente”. Il motivo lo spiega Troise: “Partiamo dal concetto che si tratta di persone. E lì dentro non è garantita la loro dignità, non sono rispettati i diritti umani”. Dopo che quest’estate la prefettura ha lanciato un bando per cercare un nuovo gestore della struttura, la presidente della Circoscrizione 3 ha firmato un ordine del giorno in cui ha chiesto di aprire un tavolo di confronto con enti e associazioni e una revisione delle politiche migratorie. “Sta passando l’idea che ci si debba difendere dai migranti - dice Troise - E quindi che vadano trattenute in qualsiasi modo”. Sono persone, aggiunge Lucia Bianco, vicepresidente del Gruppo Abele, che “arrivano qui con speranze, desideri, la voglia di aiutare la propria famiglia. Invece in luoghi come i Cpr i loro diritti sono annullati. Il futuro che vogliamo è un percorso di accoglienza, nel quale non si è ideologici ma si guarda anche alle prospettive economiche e sociali dei nostri Paesi”. Oggi, nella sede della circoscrizione (corso Peschiera 193) tante realtà diverse si riuniscono proprio per parlare di tutto questo. Ci sarà la Città, il Gruppo Abele, i sindacati, l’associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione. Ma anche la commissione solidarietà dell’Ordine dei Medici di Torino, la garante dei detenuti e il referente della Pastorale migranti della diocesi. Una rete civica per l’accoglienza. “Nei Cpr non c’è formazione, istruzione, intrattenimento. Non c’è nulla. Chi ci va, vive un periodo vuoto della sua vita - spiega Troise - Possiamo creare qualcosa di diverso”. D’accordo i sindacati (Cgil, Cisl, Uil). “L’accoglienza diffusa e i flussi di ingresso per lavoro, inseriti in un contesto dove non ci sia criminalità e sfruttamento, sono le uniche soluzioni - conclude Ferro - Per il governo queste persone non sono fragili ma delinquenti che vanno trattati come tali. Noi vogliamo uno spazio di accoglienza e inclusione”. Bologna. Al Pratello “posti letto di fortuna e sporcizia” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 28 ottobre 2024 Una delegazione ha fatto un sopralluogo all’istituto minorile: “Situazione peggiorata rispetto all’anno scorso”. Il tema delle carceri bolognesi continua a temere banco, dalla Dozza all’Istituito Penale Minorile. Ieri è scattato l’allarme in via del Gomito, quando un detenuto ha dato fuoco a una cella, rendendo necessario evacuare l’intera sezione. Nei giorni scorsi una delegazione del sindacato di polizia penitenziaria, FP CGIL, hanno effettuato una visita al Pratello. Evidenti le problematiche, dalle carenze di organico di penitenziaria e dei funzionari giuridici pedagogici, evidenziando le varie problematiche, al pensionamento del direttore. “La delegazione ha riscontrato una situazione gravemente peggiorata rispetto a quanto rilevato lo scorso anno. - scrive Donato Nolè, coordinatore nazionale Fp Cgil polizia penitenziaria, in una nota indirizzata ai dipartimenti e al sottosegretario alla giustizia, Andrea Del Mastro Delle Vedove - Oltre al sovraffollamento cronico con circa 44 ristretti, alcuni dei quali con problematiche psichiatriche, è emersa una carenza di personale tale da costringere la direzione a sospendere i periodi di ferie richiesti”. La struttura, secondo la delegazione è “in stato di degrado avanzato, trascurata, con ambienti sporchi, spazi sportivi e ricreativi esterni con recinzioni danneggiate, e una postazione di controllo totalmente inutilizzabile”. Il posto letto, riferisce il sindacalista, sono assicurati “solo attraverso soluzioni di fortuna. Diversi posti di servizio restano scoperti per mancanza di personale, inclusa la sala regia, che dovrebbe monitorare l’intera struttura ma viene utilizzata per scopi impropri”. Anche il personale è “provato, scoraggiato ed esasperato, costretto a turni massacranti e straordinari eccessivi, con un sottufficiale - racconta - che, durante la visita, si trovava a svolgere molteplici mansioni contemporaneamente, tra cui il ruolo di comandante di reparto, sorveglianza generale, accompagnamento di un detenuto e accettazione di nuovi minori presso il Cpa (centro di prima accoglienza)”. “L’Istituto, in uno stato di degrado paragonabile a una realtà post-bellica, appare senza governo, con ristretti liberi di muoversi senza adeguata sorveglianza. La situazione di insicurezza è aggravata dal rapporto numerico tra operatori e minori, ben al di sotto dei livelli minimi - si legge nella missiva - a ciò si aggiunge la preoccupazione per i continui distacchi e le assenze di personale per vari motivi, compresi quelli impegnati in formazione. Gli agenti rimasti operativi affrontano sacrifici enormi, spesso anticipando di tasca propria le spese di missione, alcune delle quali ancora in attesa di pagamento per gli anni 2022-2023”. FP CGIL si rivolge dunque all’amministrazione “per prendere in mano una situazione che compromette i diritti elementari dei minori e le dignitose condizioni di lavoro del personale - e chiede un incremento dell’organico, educatori e assistenti sociali, un nuovo comandante titolare, la riduzione del numero dei minori detenuti “in particolare di quelli con problematiche più gravi, viste le dimensioni limitate della struttura che non consentono un controllo adeguato”. “Durante la visita, abbiamo incontrato un agente recentemente assegnato, entusiasta e sorridente - riferiscono - Il nostro auspicio è che questo giovane agente non perda quel sorriso a causa delle condizioni di lavoro proibitive che, purtroppo, hanno già segnato il resto del personale”. Il capo dipartimento della giustizia minorile, Antonio Sangermano, era presente in città per altri impegni istituzionali, fa sapere Nolè: “Esprimiamo il nostro rammarico per la mancata visita all’Istituto e speriamo che in futuro possa dedicare più attenzione alla situazione critica in cui versa”. Napoli. Al carcere di Nisida la campagna per prevenire e curare le malattie infettive Corriere del Mezzogiorno, 28 ottobre 2024 Parte l’iniziativa “Prevenzione a Nisida: Noi Ci siamo”, nata con la collaborazione dell’ospedale Fatebenefratelli e l’Istituto penitenziario minorile: incontri con i giovani detenuti. L’Epatologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Napoli e l’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida lanciano la campagna informativa “Prevenzione a Nisida: Noi Ci siamo”. L’iniziativa sarà presentata martedì 29 ottobre e si pone l’obiettivo di sensibilizzare e informare i giovani detenuti sulle modalità di trasmissione e prevenzione delle infezioni ematiche come HIV e HCV (epatite C). I passi in avanti della ricerca - La scienza e la ricerca, negli ultimi anni, hanno compiuto enormi passi avanti anche negli approcci terapeutici a patologie gravi che possono rivelarsi, nella loro evoluzione, letali. E in alcuni ambienti, quelli cosiddetti sensibili, ovvero popolati da persone potenzialmente più esposte, la tutela di questo valore diviene imprescindibile. La diffusione di questi virus avviene infatti, principalmente, attraverso l’uso di strumenti non sterilizzati oltre che per rapporti sessuali non protetti. Seppure il numero di infezioni sia diminuito rispetto al picco raggiunto negli anni 80 e 90, molti giovani sono ancora inconsapevoli dei rischi legati a queste malattie. L’educazione alla prevenzione - “Richiamare l’attenzione degli adolescenti è fondamentale. Riguardo l’epatite C, ad esempio, la percezione dei rischi legati a questa grave patologia è ancora molto limitata”, afferma il dott. Vincenzo Iovinella, Responsabile Epatologia e Malattie Infettive del Fatebenefratelli, che aggiunge: “grazie ai recenti progressi della medicina, oggi disponiamo di trattamenti in compresse che possono eradicare il virus in sole 8-12 settimane”. Convinta l’adesione della Direzione Sanitaria del P.O. Fatebenefratelli. La dottoressa Mariateresa Iannuzzo, sottolinea come sia fondamentale “portare la prevenzione e l’informazione direttamente nei luoghi in cui si trovano i giovani più a rischio”. Posizione condivisa da Gianluca Guida, Direttore dell’Istituto Penale per Minorenni di Nisida che sottolinea quanto “educare alla prevenzione sia un aspetto chiave per favorire una buona salute e ridurre il rischio di malattie nel lungo termine”. Tuttavia, nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia avviato un programma per l’eradicazione del virus HCV entro il 2030, i programmi di prevenzione spesso non raggiungono le fasce sociali più vulnerabili. La campagna “Prevenzione a Nisida: Noi Ci siamo” mira a colmare questo divario informativo, portando tra i giovani di Nisida conoscenze chiare sulle modalità di contagio e informazioni cruciali sulle possibilità di cura grazie a farmaci antivirali ad azione diretta la cui percentuale di guarigione sfiora il 97%. Varese. L’arte di Andrea “Ravo” Mattoni entra in carcere ilbustese.it, 28 ottobre 2024 L’artista varesino realizzerà un murale nella sala colloqui della casa circondariale di Varese. L’inaugurazione il 5 novembre. Il progetto è stato finanziato dal Lions Club Varese Prealpi. Martedì 5 novembre alle 16, nella sala adibita ai colloqui del carcere di Varese, si terrà l’inaugurazione del murale realizzato dall’artista Andrea “Ravo” Mattoni. Andrea Ravo Mattoni è un artista nato a Varese e divenuto celebre in tutto il mondo dal 2016 per il suo progetto “Recupero del classicismo nel contemporaneo”: riprendendo la tradizione pittorica della copia, riproduce dipinti classici, risalenti principalmente al periodo tra il ‘400 e l’800, su grandi pareti con la tecnica dello spray. Nel 2021 quando Ravo scopre l’Intelligenza Artificiale generativa, si apre una nuova via nel suo percorso: una nuova tecnologia che permette all’artista di trasformare un’immagine esistente, descrivendo ciò che si vorrebbe modificare e cosa si vorrebbe ottenere in un breve testo (un prompt). È così che nasce anche l’opera pensata per la Casa Circondariale di Varese “Allegoria della Libertà”. In un’ottica di abbellimento degli spazi, per concorrere al miglioramento della situazione detentiva, il murale verrà realizzato il 3 e 4 novembre nella sala colloqui. Il giorno 5, poi, l’inaugurazione ufficiale. Il progetto è finanziato dal Lions Club Varese Prealpi. “I detenuti avranno modo - spiega il Funzionario giuridico-pedagogico, Serena Pirrello - di incontrare l’artista prima della realizzazione del murale. Spiegherà loro le fasi del lavoro ed il significato dell’opera stessa. Avere la possibilità di interfacciarsi con un artista di fama internazionale e poter ammirare in momenti emotivamente partecipati un’opera di speranza, sarà certamente un valore aggiunto”. Parteciperanno all’inaugurazione i Funzionari pedagogici Serena Pirrello e Domenico Grieco ed il Comandante di Reparto Salvatore Castelli. Sono stati invitati il Prefetto Salvatore Pasquariello e il sindaco di Varese Davide Galimberti, i Consiglieri Regionali del territorio, l’Ufficio di Sorveglianza di Varese e altre Autorità. “La collaborazione con Andrea Ravo Mattoni - sottolinea la Direttrice Carla Santandrea - è iniziata in occasione di una visita al museo di Masnago della sua recente prima mostra personale “Img2img”, avvenuta la scorsa primavera, insieme ad una rappresentanza di detenuti. Ravo è un artista di straordinaria bravura e di incredibile sensibilità verso temi particolari come quello del carcere. È un onore ospitare la sua opera in un luogo di particolare importanza come la sala colloqui della Casa Circondariale. Ringrazio Ravo per averci donato la sua “Allegoria della Libertà”, opera di straordinario valore, il suo staff e il Lions Club Varese Prealpi aver colto l’importanza di questo progetto ed averne finanziato la realizzazione”. Al termine verrà offerto un rinfresco preparato da un gruppo di detenuti frequentanti un corso di cucina professionalizzante. Il quesito sbagliato sui femminicidi di Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 ottobre 2024 Spesso si sente dire: perché non si parla mai degli uomini uccisi dalle donne? Capita che a un incontro pubblico, in qualche titolo di giornale, in una discussione privata, ci sia qualcuno che a un certo punto dica: ci sono anche donne che uccidono uomini però non se ne parla mai. A parte il fatto che non è vero; le rare volte che succede se ne parla eccome. Ma quello che risulta fastidioso è la tracotanza di chi accende un faro sulle (pochissime) storie di violenza femminile convinto che sia giusto dare a quella violenza la stessa rilevanza che meritano - tutti assieme - i casi di uomini che si accaniscono contro le donne. Che poi: quando parliamo di violenza contro le donne spesso evochiamo unicamente il femminicidio ma come sappiamo c’è molto altro. C’è la violenza economica, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto quando ci sono di mezzo dei figli. C’è la violenza psicologia, sottile e tagliente come lama di coltello. E ci sono moltissime donne che portano i segni della brutalità del partner: lividi, fratture, lesioni di vario genere non di rado gravi o gravissime. Nel libro “Il futuro mi aspetta” (Feltrinelli Up) scritto a quattro mani con Daniela Palumbo, Lucia Annibali racconta del suo “dopo”. Dopo l’acido in faccia ordinato per lei dal suo ex e dopo il tempo della sofferenza fisica, del processo. In quel dopo ci sono anche gli incontri con i ragazzi nelle scuole e le domande più frequenti che le rivolgono. Una, definita “ricorrente” e “inquietante”, e che in genere viene dalla voce di un ragazzo, è proprio quel “perché si parla sempre di violenza sulle donne e mai viceversa?”. Lucia scrive che “è un quesito terribile che svilisce la cura e la fatica del mio racconto”. E aggiunge che “è anche capitato che a questa domanda seguissero applausi di gruppi di studenti presenti. Quando succede ci resto male. Mi sembra una provocazione e dunque un’occasione sprecata”. David Diop e la favola sulla migrazione: “La speranza si nutre di sogni” di Francesca Ferri Il Domani, 28 ottobre 2024 Si chiama proprio Sogno la protagonista del nuovo racconto dello scrittore, Premio Strega europeo 2019. Il suo viaggio viene raccontato usando il registro narrativo: “Permette di risvegliare l’intelligenza del cuore”. “C’era una volta Sogno, una ragazza bellissima. Sogno si chiamava così perché così avevano voluto i suoi genitori. Avevano pensato che fosse un dono, che Sogno fosse un nome magnifico in qualunque lingua. Non sapevano che ogni lingua considera il proprio sogno più bello di quello degli altri”. Sembra l’inizio di una fiaba, ma in realtà è la storia di un’orfana cresciuta dalla nonna in una città-discarica dove il mare s’intravede solo in lontananza oltre i cumuli di latta e il filo spinato. Nessun principe azzurro arriverà mai, nessuna carrozza a salvarla, nessun incantesimo a trasformare i suoi sogni in realtà. Il paese in cui vive l’eroina è un “inferno in cui da sempre correva il fuoco e scorreva il sangue. Uno di quei paesi che non conoscono mai tregua né respiro dove nei raccolti, invece che grano, riso e mais, si mietono migliaia di vite, animali e umane”. David Diop, vincitore del Premio Strega Europeo 2019 per Fratelli d’anima, romanzo consigliato anche da Barack Obama, ci regala questa volta un racconto iniziatico sull’ingiustizia del mondo, una favola moderna sull’emigrazione e l’esilio. Il paese di Sogno (Neri Pozza, settembre 2024) è un racconto per giovani lettori che, attraverso la poesia e l’immaginazione, esorcizza la violenza e la crudeltà della realtà. Lo scrittore nato a Parigi, ma cresciuto in Senegal, ha deciso di raccontare di una ragazza qualunque in un luogo imprecisato perché la sua diventasse una storia universale. Su chi parte, o spesso fugge, su chi arriva ma spesso non viene accolto, su chi sogna un’altra vita possibile ma non ha sempre la fortuna di viverla. Grandi vigliacchi - “Ho scelto di chiamare l’eroina Rêve, cioè Sogno in italiano, per offrire una lettura allegorica del racconto”. Per lo stesso motivo chiama la nonna Speranza. “Volevo suggerire che Sogno e Speranza formano una coppia, che Speranza si nutre di Sogno. Per questo, in diverse occasioni, ho specificato che il personaggio di Rêve porta il cibo a sua nonna. La speranza ha bisogno di sogni per mantenersi in vita”. E il paese in cui vivono Sogno e Speranza è governato da quelli che lo scrittore chiama i “grandi vigliacchi”, ovvero “tutti i potenti del mondo che fanno lavorare il popolo non per il bene comune, ma per il proprio e per quello della loro famiglia in particolare. I grandi vigliacchi nel Paese di Sogno sono i tiranni e i despoti che si mantengono al potere con la forza delle armi per continuare a sfruttare la ricchezza senza condividerla con i loro concittadini”. Il paese di Sogno in questo senso assomiglia a un racconto filosofico. “Rêve ed Espérance ricordano i personaggi dei contes philosophiques di Voltaire, dove i protagonisti non sono personaggi di un romanzo, ma concetti al servizio di una dimostrazione”. Ma è anche un “racconto di iniziazione incompiuto. Perché sta al lettore scoprire la fine del viaggio di Rêve”. Potere femminile - Il paese di Sogno è inoltre una riflessione sulla potenza del femminile che spesso costituisce un rischio e una minaccia per l’uomo nelle società patriarcali. “Nel paese di Sogno la bellezza era un pericolo, per una ragazza, un incitamento al delitto. In attesa di tempi migliori, la nonna di Sogno l’aveva imbruttita ricoprendola di stracci, sporcizia e miseria”, scrive David Diop in questo racconto delicato e struggente. “La bellezza può esporre le donne alla predazione in molti luoghi del mondo, così le prede si devono mimetizzare e rendersi invisibili per sfuggire ai predatori”. Perciò Sogno per sopravvivere è costretta a uscire solo di notte ricoperta di stracci, che in fondo non sono altro che i sogni di qualcun altro ormai abbandonati nella città-discarica. Tra plastica raggrinzita, lamiere a brandelli e cartoni ammuffiti di una città scurita dal fumo delle immondizie, ci facciamo strada nel paese di Sogno. “Non è un paese specifico, perché ce ne sono di simili in ogni continente, in Asia, in Africa, in America e anche in Europa”. Inevitabile non pensare ai tanti luoghi del mondo, abitati da miseria, orrore e violenza, dove l’unico desiderio possibile è quello di fuggire. La letteratura, a differenza della cronaca che snocciola fatti, cifre e statistiche, può far provare ciò che motiva spesso le partenze, può far vivere l’inferno dove è impossibile anche sognare. “Se la letteratura non può cambiare il mondo, può almeno contribuire a rendere i lettori più consapevoli del loro ambiente sociale, politico e culturale”. Realtà in filigrana - Del suo Senegal, invece, David Diop non ha voluto lasciar traccia, ma ammette di aver creato il paese di Sogno tenendo a mente alcune immagini reali, come per esempio le “discariche di vestiti sulle spiagge di Accra in Ghana o le bidonvilles di Manila”. La realtà quindi si intravede in filigrana nella narrazione. “Ho incontrato molti migranti a Pau, in Francia, dove vivo e insegno (letteratura francese all’università). Ho letto molte testimonianze di giovani, di cui molti bambini arrivati da soli soprattutto dall’Africa occidentale, alcuni dalla Costa d’Avorio e dal Senegal. Sono storie violente e crudeli in cui la realtà supera di gran lunga la finzione”. Ma David Diop ha bisogno di prendere le distanze dall’orrida realtà per poterla raccontare, senza però mai edulcorarla. “Mi sembra che la poesia e, più in generale, il racconto mi abbiano permesso di scrivere di un argomento che mi stava a cuore senza cadere nella trappola di cercare di imitare un’esperienza di vita che non avrei vissuto personalmente. La narrazione è universale: non ambientando i personaggi in luoghi reali, lascia allo scrittore e al lettore una maggiore libertà di immaginazione. Ed è a questa condizione che la finzione può diventare realtà. La narrazione permette al lettore di risvegliare la propria sensibilità, la propria intelligenza del cuore”. La doppia sensibilità - In quanto scrittore franco-senegalese, David Diop si ritiene fortunato di avere una doppia sensibilità che permette di vedere il mondo da diversi punti di vista e orizzonti culturali. “Ciò che in Europa e in generale nei paesi occidentali diamo per scontato in termini di bisogni primari (salute, casa, istruzione, lavoro), manca in molti altri paesi del mondo. Godiamo di tutti questi vantaggi senza pensarci, sottovalutando il fascino che invece questi esercitano su chi viene da paesi meno fortunati”. In una Francia che oggi deve fare i conti con il suo passato coloniale, “combattuta tra una forma di negazione da un lato e di lucidità dall’altro”, Diop sente il peso della scrittura come impegno politico. “Gli scrittori adoperano le loro armi, quelle della letteratura: incoraggiare i giovani lettori a riflettere sul mondo, senza costringerli a pensare in modo unilaterale”. La scrittura poetica e immaginifica di David Diop è, dunque, una porta aperta alla speranza; la scrittura è sogno. “Una parola dal significato antico che esprime quello che secondo me è il potere dello scrittore. Sognare non significa solo fantasticare, ad occhi aperti o meno, ma anche meditare, pensare, riflettere”. Il sogno per Diop quindi non è mai rêverie fine a sé stessa, ma un modo di riscrivere il mondo. Premio Oxfam: dal giornalismo alle startup, ecco chi combatte la disuguaglianza Famiglia Cristiana, 28 ottobre 2024 Da tre anni il riconoscimento viene assegnato a persone o enti capaci di distinguersi in tema di disuguaglianza con atti e fatti a vantaggio delle proprie comunità di lavoro e di vita. La cerimonia di premiazione della terza edizione si è svolta il 26 ottobre a Firenze. Ecco i premiati. I divari socio-economici lacerano il mondo e anche il nostro Paese. Sembrano insormontabili. Eppure la disuguaglianza, come la povertà, non è inevitabile. Si può denunciare e, soprattutto, contrastare. Lo possono fare i giornalisti tutti coloro che lavorano nella comunicazione. Lo può fare il mondo dell’associazionismo, così come quello delle imprese, a partire dalle startup innovative. A ricordarlo, anche quest’anno, è il riconoscimento pubblico che Oxfam Italia - Ong impegnata da anni nel contrasto alla fame e alla povertà in Italia e in molti Paesi del mondo - attribuisce a persone o enti (professionisti della comunicazione, operatori/associazioni) capaci di distinguersi in tema di disuguaglianza con atti e fatti a vantaggio delle proprie comunità di lavoro e di vita, dimostrando che è possibile combatterla in Italia e nel mondo. Il Premio “Combattere la disuguaglianza-Si può fare” è promosso in collaborazione con l’Associazione Alessandra Appiano-Amici di salvataggio, costituita in memoria della giornalista, autrice televisiva, scrittrice e ambasciatrice di Oxfam Italia scomparsa nel 2018. La cerimonia di premiazione dell’edizione 2024 si è svolta il 26 ottobre alla libreria Giunti-Odeon di Firenze, con la conduzione di Camilla Baresani e Paolo Iabichino, nell’ambito della terza edizione dell’Oxfam festival. Ecco i premiati di quest’anno. Per la categoria “Raccontare la disuguaglianza”: Goffredo Buccini, editorialista e inviato del Corriere della Sera, con il reportage Sabaudia Sikh & Vip, a un passo dai beach party sfila l’inferno degli schiavi, il racconto dello sfruttamento lavorativo degli indiani nelle aziende agricole a pochi passi dalla spiaggia dei vip e dei turisti. Menzione speciale al documentario Patente K di Tommaso Vezzosi e Francesco Faralli, che racconta la storia di Kamrun, arrivata dal Bangladesh ad Arezzo, e la sua avventura per imparare a guidare e prendere la patente. Per la categoria “Affrontare la disuguaglianza”: Scuola Fatoma, promossa da Fatoma Yaiw, un’associazione culturale nata dall’esigenza di abbattere barriere linguistiche e culturali nel ghetto di Borgo Mezzanone, tra Foggia e Manfredonia. La sua missione è fornire corsi di italiano e di integrazione sociale a chi, pur vivendo in Italia da anni, non ha ancora gli strumenti per comprendere appieno la lingua e la cultura del Paese. Scuola Fatoma è la prima scuola di italiano per migranti di Borgo Mezzanone. Menzione speciale per Seconda Chance, un’associazione del Terzo settore nata due anni e mezzo fa, una struttura con almeno un referente in ogni regione che cerca ininterrottamente, in tutta Italia e con ogni mezzo, compreso il “porta a porta”, imprenditori disponibili ad andare in carcere per valutare manodopera e per portare formazione, sport, attività ricreative. Ad oggi sono oltre 360 le offerte di lavoro procurate. Per la categoria “Costruire alternative alla disuguaglianza”: Homes4All, una startup innovativa società benefit BCorp ad alto impatto sociale che riduce l’emergenza abitativa favorendo la rigenerazione urbana grazie alla sua rete di investitori privati sensibili a logiche di sostenibilità. L’attività si esplica nell’acquisizione, ristrutturazione e gestione di immobili a fini sociali provenienti dal bacino delle proprietà non performative sia all’interno della Città di Torino che a livello nazionale. In questo modo realizziamo un ecosistema nel quale le famiglie bisognose trovano case dignitose e accessibili e gli investitori realizzano investimenti etici e remunerativi. Menzione speciale per Clothest, che raccoglie e vende abiti usati di brand del lusso per ?nanziare i progetti di assistenza della Casa Famiglia Caritas di Montevarchi (Arezzo). Quest’ultima aiuta circa 200 persone all’anno, con ospitalità per 40 persone, mista tra residenze stazionarie e temporanee. Acquistando abiti usati ma in ottime condizioni sulla piattaforma di e-commerce, chi fa un acquisto con Clothest contribuisce a ridurre l’impatto ambientale della moda e assistere individui in difficoltà. Il progetto inizia nel 2015 e in poco tempo ha raccolto più di 2.400 capi usati ancora in ottimo stato, rivendendoli in temporary shop e su eBay. Il Grand Prix Oxfam-Iabicus è andato a Sara Taschera, direttrice della comunicazione della campagna “Close the gap” di Coop, modello di riferimento dell’impegno sociale di chi sta sul mercato per produrre impatto e cambiamento. Migranti. C’è un’altra crisi dell’agricoltura, la salute mentale dei braccianti di Ferdinando Cotugno Il Domani, 28 ottobre 2024 Sugli stranieri che lavorano nei campi pesano tutte le disfunzionalità del sistema agricolo italiano. “Sono tendenti alla depressione, hanno ansia continua, che porta all’abuso di sostanze”. Il Rivotril è un potente ansiolitico, può essere usato anche per trattare gravi sindromi da stress post-traumatico. Questo farmaco sta diventando una delle sostanze più spacciate e consumate, fuori da ogni controllo medico, negli insediamenti informali - sarebbe più accurato definirli campi profughi - dove alloggiano i braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro. In Calabria sta per cominciare la stagione della raccolta degli agrumi e l’abuso di Rivotril è un indizio di come sta evolvendo l’emergenza cronica dell’agricoltura italiana: una crisi di salute mentale tra le persone stranieri che lavorano i campi. La tendopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, è l’insediamento più grande dell’area, a regime accoglierà quasi un migliaio di lavoratori, sulle tende si legge ancora il logo sbiadito del ministero dell’Interno, anche se ormai qui non c’è più nessuna vera presenza pubblica. Nel 2019, con Matteo Salvini ministro e Giuseppe Conte premier, fu sgomberato un insediamento molto più grande e consolidato, con la promessa di cambiare tutto e portare legalità e controllo. Niente di tutto questo è successo, da allora è stato tutto un rincorrere l’emergenza: quando ci sono soldi e bandi, vengono fatti partire dei progetti. Quando i soldi finiscono, i progetti vengono abbandonati e i braccianti devono tornare a cavarsela da soli, in un continuo elastico tra assistenzialismo e abbandono. Nella tendopoli - Il nuovo accampamento si è formato così: oggi è un groviglio di cavi scoperti, fiamme libere per cucinare, galli e capre allo stato brado, nessuna raccolta rifiuti, allacci elettrici abusivi ed esseri umani che in generale non ne possono più. La tendopoli è diventata è una specie di cittadella della sindrome da stress post-traumatico. Gli operatori di Emergency, che da anni fanno da presidio sanitario e supplenza dello stato nell’area, segnalano che la salute mentale sta diventando uno dei principali problemi sanitari della tendopoli, anche perché è il più difficile da trattare. “La crisi del settore agricolo, la riconversione dei suoli da arance a kiwi, l’onda lunga dei decreti sicurezza, la pandemia, il cambiamento climatico che ha accorciato la stagione di raccolta. Sono tutti problemi che esplodono sulla vita e nella psiche dei lavoratori”, spiega Mauro Destefano, uno degli operatori di Emergency. I braccianti sono sull’orlo di, e spesso oltre, una crisi di nervi irrecuperabile, perché su di loro si sono scaricate tutte le disfunzionalità economiche e sociali del sistema agricolo italiano. Parlano da soli, si isolano, smettono di comunicare con le famiglie nei paesi di origine, fanno incubi continui, non dormono più, abusano delle sostanze che riescono a procurarsi, a volte smettono di lavorare, perché non sono più in grado di farlo. “La notte la gente non fa che urlare, spesso manca la corrente, sento i topi camminarmi addosso”, dice Mamma Ceesay, che è arrivato dal Gambia col sogno di fare il decoratore di interni, ha il viso gentile e allungato, prepara il tè con un braccio ancora rigido per l’incidente in bici che quasi lo ha ucciso, un mese fa. A questi problemi si incrocia il fatto, ancora sottovalutato, che i braccianti stanno invecchiando a fare questo lavoro, non è raro incontrarne cinquantenni o sessantenni, acciaccati o del tutto rotti dopo decenni di lavoro nei campi in queste condizioni. Jean Michel Guhei viene dalla Costa d’Avorio, ha 65 anni. Josef Kwadwo ne ha 57, viene dal Ghana. Entrambi zoppicano, si stanno riprendendo da guai fisici seri (Kwadwo addirittura un trauma spinale per una caduta), non riescono a trovare lavoro in modo continuativo, non sanno né come andare avanti, né come tornare indietro. Come spiega Destefano, “fare il bracciante è il fallimento della migrazione, di tutti i progetti e gli investimenti umani che a essa erano collegati, è qualcosa di difficile da elaborare”. L’isolamento - A questo si collega a uno dei principali fattori scatenanti dell’emergenza psichiatrica dei braccianti: l’isolamento. Smettono di chiamare casa, smettono di rispondere, spariscono, perché non sanno come raccontare a genitori, parenti, mogli, figli cosa gli sta succedendo in Italia. “Diventano chiusi, sprofondano in sé stessi, vivono una vera e propria destrutturazione della personalità e di tutto il carico di speranza con cui erano arrivati qui”, spiega Francesco Lando, psicoterapeuta di Rosarno che, in assenza di un presidio pubblico, per anni ha portato assistenza psicologica ai braccianti come volontario. “Senza feedback positivo c’è un vero e proprio degrado della personalità, qui sono tutti tendenti alla depressione, hanno ansia continua, che porta all’abuso di sostanze, in particolare il Rivotril, e ai disturbi sonno-veglia. Il fatto è che non dormono più se non prendono farmaci. È come se degrado esterno e interno si saldassero, si sentono dei fantasmi, si chiedono: ma chi sono io? E non riescono più a darsi una risposta”. Stretta securitaria - Questa è anche l’eredità dei decreti sicurezza del 2019 e della stretta securitaria. I braccianti si trovano in una zona grigia di rinnovi dei permessi di soggiorno sempre più difficili, arbitrari, imprevedibili, con tutte le difficoltà che seguono per l’accesso ai diritti più basilari e a una prospettiva di vita più stabile. Lasaba Brubelly ha i documenti in regola, ma spiega che ottenerli è stata la parte più difficile della sua esperienza in Italia, più della tendopoli o dello sfruttamento, perché propedeutica a entrambi: “La burocrazia qui uccide le persone, perché ti porta alla follia, non capisci mai perché succedono le cose, perché non succedono, perché devi aspettare”. Ousmane Thiam fa il mediatore culturale per Emergency in Calabria, ma ha avuto un percorso simile a tanti dei braccianti che aiuta ogni giorno, è stato lavoratore nei campi, sono stati gli anni più duri della sua vita, ha sofferto la fame, la paura, l’umiliazione per come i lavoratori agricoli stranieri vengono trattati in Italia. “Per anni continuavo a chiedermi una cosa: è questa l’Europa per cui ho fatto tutto questo?”. L’Italia? Altro che sostenibilità: siamo in affanno sull’Agenda Onu di Elena Comelli Corriere della Sera, 28 ottobre 2024 In ritardo il Paese su tutti i 17 Obiettivi: tra 2010 e 2023 peggioramenti su 5 Goal. Dati negativi per povertà e disuguaglianze. Enrico Giovannini: “Dalla politica scelte inadeguate”. L’Italia è su un sentiero di sviluppo insostenibile. Lo dice il Rapporto annuale dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, frutto della competenza di quasi mille esperti che operano nei suoi gruppi di lavoro, rappresentando le oltre 320 organizzazioni della società civile aderenti all’Alleanza. “Gli indicatori statistici più aggiornati descrivono con chiarezza il drammatico ritardo dell’Italia su tutti i 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030”, precisa Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza. E siamo a soli sei anni dal traguardo. In alcuni ambiti, addirittura, l’Italia sta andando indietro invece che avanti. Il rapporto, intitolato “Coltivare ora il nostro futuro”, riscontra peggioramenti nell’arco temporale tra il 2010 e il 2023 per cinque Goal: 1 (povertà), 10 (disuguaglianze), 15 (ecosistemi terrestri), 16 (governance) e 17 (partnership). Miglioramenti molto contenuti, meno di un punto all’anno, si registrano per sei Obiettivi: 2 (cibo), 7 (energia pulita), 8 (lavoro e crescita economica), 11 (città sostenibili), 13 (clima) e 14 (ecosistemi marini). Miglioramenti più consistenti si evidenziano invece per cinque Goal: 3 (salute), 4 (educazione), 5 (genere), 6 (acqua) e 9 (innovazione). L’unico Goal con un aumento superiore al punto all’anno è quello relativo all’economia circolare (12). Guardando alle disuguaglianze territoriali, emerge una riduzione per un solo Goal (16), un aumento su due (4 e 6) e una sostanziale stabilità per i restanti dodici per cui sono disponibili dati regionali. Non siamo messi meglio sugli obiettivi definiti dalla Strategia nazionale di sviluppo sostenibile 2022, approvata l’anno scorso in seguito agli impegni presi in sede europea: sulla base delle previsioni formulate in collaborazione con Prometeia, dei 37 obiettivi al 2030 solo otto (il 21,6%) sono raggiungibili, 22 (il 59,5%) non sono raggiungibili e sette (il 18,9%) hanno un andamento incerto. “Insomma, siamo di fronte a un disastro annunciato”, commenta Giovannini. “Questa situazione dovrebbe far raccogliere attorno all’Agenda 2030 tutte le forze politiche, economiche e sociali del Paese. Purtroppo, così non è: nonostante il sostegno della cittadinanza a queste tematiche e gli impegni assunti in sede Ue, G7 e Onu dal governo italiano, l’attuazione dell’Agenda 2030 non appare centrale nel disegno delle politiche, visto che gli interventi adottati negli ultimi due anni non solo non sono in grado di produrre il cambio di passo necessario, ma diversi di essi sono andati in contrasto”, sottolinea Giovannini. La disattenzione della classe politica all’attuazione dell’Agenda 2030 “appare incomprensibile anche alla luce delle opinioni espresse dagli italiani”, precisa Giovannini: il 62% chiede al governo una transizione ecologica rapida e incisiva e il 93% ritiene che l’Italia dovrebbe rafforzare i propri impegni per affrontare il cambiamento climatico. Il rapporto suggerisce una serie di possibili soluzioni, in particolare invitando il governo a impegnarsi su un Piano di accelerazione verso gli obiettivi dell’Agenda 2030, anche alla luce del Patto sul Futuro firmato il 22 settembre alle Nazioni Unite. Gli interventi prioritari dovrebbero puntare a prevenire il rischio idrogeologico, a orientare la politica di coesione nel quadro di riferimento della Strategia nazionale di sviluppo sostenibile 2022, a rilanciare la strategia nazionale per le aree interne, ad attuare pienamente la legge europea per il ripristino della natura, a dare piena attuazione al Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, ad approvare quanto prima una buona legge sulla rigenerazione urbana e a varare una riforma organica del governo del territorio. Correggere gli errori - Questi, secondo l’Alleanza, sono i punti salienti su cui operare per correggere la rotta. Senza trascurare la necessità di riorientare la barra del timone sugli errori già compiuti. “La legge sull’autonomia differenziata presenta numerosi problemi che possono determinare crescenti disuguaglianze fra i territori”, commenta Giovannini e auspica che le norme vengano modificate, riconducendo le materie di rilevanza nazionale (infrastrutture, energia, ecc.) all’esclusiva potestà legislativa dello Stato. Sul fronte dei possibili fattori positivi di cambiamento, il rapporto individua invece il Regolamento europeo sul ripristino della natura. “Si tratta di una grande opportunità, anche per creare occupazione di qualità, non solo per il miglioramento ambientale nelle aree extraurbane, ma anche in quelle urbane, visto che il Regolamento prevede lo stop immediato al consumo di suolo netto in alcune parti significative del territorio nazionale”, spiega Giovannini. Per questo, il Piano di ripristino andrebbe preparato il prima possibile, coinvolgendo la comunità scientifica e la società civile.