Il carcere nuoce alla salute (mentale). E mancano i servizi territoriali di Marika Ikonomu Il Domani, 27 ottobre 2024 In tutta Italia circa il 12 per cento dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave, in totale quasi seimila persone. Se si aggiungono altre patologie, le percentuali aumentano. Bocci (Pd) ha raccolto i dati della Lombardia. “Il carcere è tossico, nuoce alla salute, soprattutto quella mentale. Occorre partire da qui per capire davvero qualcosa sui rapporti tra detenzione e salute mentale”. Lo scrive Michele Miravalle nel ventesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, il titolo è “Nodo alla gola”, per informare “un’opinione pubblica troppo distratta” sulle condizioni delle carceri italiane e sui “troppi morti che siamo costretti a contare”. Fino al 25 ottobre 2024, in base ai dati diffusi dal garante, i suicidi negli istituti penitenziari sono stati 73. Il numero più alto a Pavia, in Lombardia, dove, in poco più di nove mesi, se ne sono registrati tre. “Un’emergenza nazionale” quella dei suicidi in carcere - avverte Antigone - che richiede soluzioni immediate da parte di governo e parlamento, che però con il ddl sicurezza vanno “verso una strada opposta”. Pavia non è l’unico istituto lombardo. Anche Milano San Vittore, Cremona, Monza e Varese e Vigevano. Dieci in tutto nella regione, la prima per numero di suicidi. A questi dati si aggiungono i tentativi di suicidio dal 1° gennaio al 1° ottobre 2024: 62 nel carcere di San Vittore, 22 nella casa circondariale di Como e 17 a Cremona. E gli atti di autolesionismo: oltre novecento a San Vittore, 197 a Cremona e 127 a Brescia, 126 a Monza, 119 a Busto Arsizio. Le persone recluse sono costrette a vivere in condizioni degradanti, lo spazio vitale in cella è ridotto all’osso. A dirlo non solo la sentenza Torreggiani, con cui la Cedu ha condannato l’Italia nel 2013, ma anche le diverse condanne ricevute dai tribunali di sorveglianza, che in migliaia di casi hanno accolto le richieste di riduzione della pena per chi è stato costretto a vivere in condizioni inumane. La Lombardia è anche la regione con il più alto tasso di sovraffollamento dopo la Puglia. Negli istituti lombardi si aggira intorno al 143,9 per cento, con il carcere di Brescia Canton Monbello che, all’inizio di quest’anno, faceva registrare un 209,3 per cento, così come Lodi (200 per cento) e Varese (179,2 per cento). Dove dovrebbero vivere cento persone quindi, in alcuni istituti, ce ne sono 200. E, su poco più di 6mila posti in tutta la regione, le persone detenute al 31 marzo erano 8.854. La salute mentale - Nonostante i dati allarmanti, il presidente della regione, Attilio Fontana, “ha dichiarato che nelle carceri i detenuti con problemi psichici sono molto pochi”, spiega la consigliera regionale Paola Bocci (Pd). Ma i numeri pubblicati da Antigone, così come quelli raccolti dalla consigliera con un accesso agli atti, dimostrano che esiste un diffuso disagio psichico in tutti gli istituti italiani, e in particolare in quelli lombardi. Il 12 per cento delle persone detenute - registra Antigone - ha una diagnosi psichiatrica grave, quasi 6mila persone, su scala nazionale, in crescita rispetto al 2022 (+10 per cento). In Lombardia, nel 2022, il dato medio regionale era attorno al 12 per cento. Se alle diagnosi cosiddette maggiori si aggiungono anche altre diagnosi, come il disturbo di personalità o antisociale, le percentuali aumentano drasticamente. E così, in base all’accesso agli atti fatto da Bocci, alcuni istituti arrivano al 50 per cento. A questo si aggiunge la carenza di personale specializzato che, in alcuni casi, non è strutturato ed esercita la libera professione. I penitenziari lombardi - Quello dell’istituto di Pavia è il dato più alto: su 684 detenuti (al 31 agosto 2024) il 64 per cento ha una diagnosi psichiatrica asse I e asse II, che comprende, tra gli altri, i disturbi clinici principali come la depressione, la schizofrenia e quelli di personalità. Si contano tre medici psichiatri, a tempo indeterminato, che lavorano nell’istituto in totale 288 ore al mese. Con un calcolo piano, assicurano al mese poco più di mezz’ora a persona. Ma occorre tener conto che non tutti necessitano di una presa in carico piena. Gli psicologi sono invece sei, di cui tre a tempo indeterminato e tre liberi professionisti, con oltre 500 ore al mese. “Questo è un istituto con l’articolazione di salute mentale più grande della Lombardia e prevede un numero più alto di psichiatri in pianta organica”, spiega Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. Anche Milano San Vittore presenta una percentuale molto alta: su 1.094 presenze, il 50 per cento è affetto da disturbo psichico o psichiatrico, circa 500 persone. “San Vittore è la porta di ingresso di tutti gli accessi in carcere, ci sono persone in attesa di giudizio, e vengono fatte le prime diagnosi”, prosegue Verdolini. Qui gli psichiatri sono otto, di cui solo due sono strutturati, mentre cinque esercitano la libera professione. E in tutto vengono assicurate 500 ore. I sei psicologi, invece, sono tutti liberi professionisti. A Bergamo i detenuti con disturbi psichici e psichiatrici sono il 40 per cento, circa 230 persone; a Brescia il 38 per cento, 188 reclusi; a Cremona il 45, 258 persone. In quest’ultimo caso c’è solo una figura medica specializzata e non è strutturata. Il medico psichiatra è infatti libero professionista ed è presente per 100 ore mensili. Non tutte le persone necessitano la stessa presa in carico, ma si parla di circa 23 minuti a testa al mese. Su scala nazionale, invece, l’assistenza degli psichiatri è in media di 9,14 ore ogni cento detenuti, mentre quelle degli psicologi sono 19,8 ogni cento reclusi. Un luogo patogeno - “Sono le regioni ad avere la competenza e dover intervenire in materia di salute”, dice la consigliera Bocci. “In alcuni istituti non è assicurata nemmeno un’ora al mese per chi ha problemi di salute mentale”, prosegue, “manca una presenza continuativa di personale specializzato. E serve inserirlo in modo strutturale, non con la libera professione”. Il disagio psichico non esiste solo negli istituti in cui ci sono apposite sezioni, le articolazioni di salute mentale, ma “in tutte le sezioni detentive”, segnala Antigone nel rapporto. E lo strumento di governo della salute mentale è “il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzati con finalità non solo terapeutiche-sanitarie, ma di “sedazione collettiva” e “pacificazione” delle sezioni”. Il 20 per cento dei detenuti fa regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, con picchi in alcuni istituti (il 70 per cento a Trento). Mentre, segnala il report, il 40 per cento fa uso di sedativi o ipnotici. “È evidente che il carcere sia uno spazio patogeno”, sottolinea Verdolini, “e portare persone con diagnosi maggiori in un luogo basato sul controllo non aiuta”. Per Verdolini da un lato esiste un aumento della sofferenza sociale nella regione, dall’altro c’è una tendenza a un uso etichettante della categoria psichiatrica, che spesso “peggiora e stigmatizza i percorsi dei detenuti, soprattutto di origine straniera”. E la presenza molto alta di quelli che vengono definiti dal sistema “rei-folli” da un lato tende a deresponsabilizzare la gestione della relazione tra agenti e detenuti, dall’altro dà spazio alla richiesta dei sindacati di polizia del ripristino degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). “Istituzioni di scarico” - Gli Opg, come “istituzioni di scarico” per persone detenute con disagio psichico di più difficile gestione, sono stati chiusi per legge nel 2014 e nella pratica nel 2017. Si è stabilito che dovessero essere trovati strumenti di cura all’interno del sistema penitenziario, a meno che la patologia non fosse incompatibile con l’ambiente carcerario. “La soluzione non è quella che chiede la destra, cioè costruire nuove carceri, viste anche le condizioni di quelle già esistenti”, dice Bocci, “bisognerebbe intervenire fuori dal carcere”. I servizi territoriali però sono saturi e sempre più depotenziati. Spesso, racconta Verdolini, il primo contatto con un servizio psichiatrico avviene in carcere: “La sofferenza è visibile ma i servizi territoriali fanno fatica a intercettarla”. Ampliare la possibilità di formazione, inserimenti lavorativi, interventi di tipo sociale e ricreativo, aumentare l’uso delle misure alternative. Per Bocci sono alcuni degli elementi che possono contribuire a migliorare la situazione. Perché al carcere, un luogo di espiazione della pena, si deputa una funzione di cura, non la più indicata, conclude Verdolini. E si osservano sistematiche violazioni dei diritti individuali. Suicidi in carcere, Devis Dori (Avs): “Emergenza nazionale fuori controllo” bergamotomorrow.it, 27 ottobre 2024 Il deputato bergamasco denuncia l’assenza di interventi concreti per le condizioni critiche nelle carceri, dove il sovraffollamento e le difficoltà sociali e psicologiche accrescono i suicidi. Il parlamentare bergamasco Devis Dori, rappresentante di Alleanza Verdi e Sinistra (Avs), interviene a Bergamonews con forza sul tema dei suicidi in carcere, sottolineando come la situazione sia ormai “una vera emergenza nazionale”. Dori denuncia un Governo Meloni distante dai problemi delle carceri e inerte di fronte alla criticità delle strutture sovraffollate e delle condizioni di vita che portano molti detenuti alla disperazione estrema. Secondo Dori, le politiche del Governo sono insufficienti, con interventi limitati a decreti che, a suo dire, “non spostano di una virgola la situazione”, lasciando irrisolti i problemi strutturali. La preoccupazione di Dori e del suo gruppo parlamentare si concentra su un’emergenza carceraria che vede una crescita preoccupante dei suicidi: un dramma sociale che rappresenta una vera “sconfitta per lo Stato” e che, secondo il deputato, ha origine proprio nel problema del sovraffollamento, amplificatore di tutte le difficoltà presenti. In Aula, Dori e i colleghi di Avs, insieme a una parte del centrosinistra, hanno avanzato proposte per migliorare il sistema, come misure di liberazione anticipata per i detenuti che dimostrano buona condotta. Tali interventi, secondo il deputato, potrebbero alleggerire il sovraffollamento e offrire incentivi di riscatto sociale ai detenuti. Tuttavia, sottolinea come tali iniziative siano state respinte, lasciando di fatto invariata una situazione che il deputato definisce “fuori controllo”. A livello locale, Dori richiama l’attenzione sulla realtà bergamasca, ritenendo fondamentale l’ingresso di forme di solidarietà e assistenza volontaria nelle carceri. Il deputato propone l’impiego di volontari e il coinvolgimento delle imprese locali, che potrebbero attivare programmi di formazione e lavoro per i detenuti, in un’ottica di rieducazione e reinserimento sociale. Questo approccio, sostiene Dori, non solo alleggerirebbe la gestione carceraria, ma creerebbe un legame tra detenuti e comunità, sostenendo il processo di riabilitazione. Il parlamentare pone anche l’accento sul problema della salute mentale tra i detenuti, oltre al tema delle dipendenze, che trovano ulteriore terreno fertile nelle carceri sovraffollate e sottodotate. Dori considera il sovraffollamento come “padre di tutti i problemi” e sollecita una revisione delle scelte politiche per porre la prevenzione del sovraffollamento come responsabilità primaria dello Stato. “La riforma della giustizia non è negoziabile”. Nordio tira dritto e avverte le toghe di Luca Sablone Il Giornale, 27 ottobre 2024 Il Guardasigilli blinda la separazione delle carriere e la riforma del Csm. E sullo scandalo dossieraggi assicura: “Volevano minare la stabilità del governo, ma l’esito è stato contrario”. Nessun passo indietro. Carlo Nordio tira dritto e lancia un messaggio chiarissimo alle toghe: il dialogo istituzionale è doveroso, ma il governo non intende arretrare e rinunciare alla riforma della giustizia. Non si tratta solo di un’urgenza per consegnare al Paese un sistema migliore, ma anche di uno snodo importante per rispettare il mandato ricevuto dagli elettori il 25 settembre 2022. Il Guardasigilli non ha usato mezzi termini: su intercettazioni, Csm e separazione delle carriere non sono immaginabili compromessi al ribasso. Csm e separazione delle carriere: Nordio tira dritto - I cantieri sulle riforme in tema di giustizia sono diversi e molti sono già partiti. Nordio, intervenuto in occasione del CasaCorriere Festival, ha fatto sapere che in particolare “quello che non è negoziabile è la riforma costituzionale”. Il riferimento è alla separazione delle carriere e alla nuova composizione del Consiglio superiore della magistratura. “Quella legge è blindata”, ha garantito. Il Guardasigilli, a testimonianza della totale serenità mostrata verso l’indirizzo tracciato dall’esecutivo, ha ribadito l’auspicio di un referendum dopo l’approvazione da parte del Parlamento: “È una materia delicata ed è giusto che si esprimano gli italiani”. Dunque giù le mani dalla separazione delle carriere, punto cruciale contenuto nel programma con cui il centrodestra si è presentato agli elettori ed è stato premiato nelle urne. E, con buona pace di chi sostiene che il pubblico ministero sarebbe sottoposto al potere esecutivo, va ricordato che nel testo viene scritto a chiarissime lettere che il pm “è e resterà assolutamente autonomo e indipendente”. La stretta sulle intercettazioni - Anche le intercettazioni sono finite al centro del discorso di Nordio. “Siamo apertissimi”, ha assicurato. Fermo restando che non può essere ignorato un dato: si spendono centinaia di milioni di euro ogni anno per delle intercettazioni fatte sui cellulari che poi non producono gli effetti desiderati. Anche perché la grande criminalità organizzata non parla di certo al telefonino: “Comunica attraverso dei sistemi essenzialmente satellitari che noi non riusciamo a intercettare, non riusciamo a intercettarli perché non abbiamo gli strumenti adeguati, non li abbiamo perché sono costosissimi”. Il “caso Patarnello” - Nordio si è espresso anche sul caso della mail del magistrato Marco Patarnello. “La valutazione deve ancora iniziare”, ha precisato il Guardasigilli. Che però ha garantito che “sarà fatta” alla luce delle “affermazioni gravi”. E ha fatto notare che in qualsiasi altro Paese una vicenda del genere avrebbe creato non tanto un’atmosfera di tensione, “ma uno scandalo enorme”. È arrivata puntuale anche una stoccata nei confronti dell’Associazione nazionale magistrati: “Dobbiamo ricordare che le prime espressioni severe nei confronti del governo sono arrivate da alcuni magistrati e l’Anm, invece di prendere posizione contro queste affermazioni improprie, le ha difese”. Lo scandalo dossieraggi - Quanto allo scandalo dossieraggi, per Nordio la volontà era quella di “minare” la tenuta del governo. Non a caso sono state puntate personalità di alta caratura politica, come il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro della Difesa Guido Crosetto. “L’intenzione era quella, poi i risultati talvolta diventano boomerang, vengono scoperti e hanno un esito contrario”, ha annotato. Se l’Italia diventa un set di un’infinita spy story - Infine, commentando l’ultimo caso legato all’hackeraggio, ha posto l’attenzione sul fatto che ormai i malintenzionati sono sempre più avanti degli stessi Stati: “Dobbiamo attivare tutti i nostri sforzi per allineare da un lato la normativa vigente - e lo stiamo già facendo - e lavorare di fantasia, perché noi dobbiamo sempre prevedere quello che possono fare senza doverli inseguire”. Gli attacchi del governo ai giudici e il timore di un baratto: litigano per poi scendere a patti? di Andrea Reale* Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2024 Giustizia “pregiudiziale”, provvedimenti “abnormi”, giudici “ayatollah”, giustizia “politicizzata”: sono solo alcune delle espressioni utilizzate da importanti membri del governo italiano in queste ore per definire i provvedimenti giurisdizionali adottati dal Tribunale di Roma qualche giorno fa, a seguito di domande di protezione internazionale avanzate da cittadini stranieri condotti nel nuovo centro di accoglienza in Albania in attesa di rimpatrio. Peccato che la politica non sappia fare i conti con gli obblighi internazionali ai quali anche l’Italia soggiace - da svariati decenni, per la verità - a seguito dell’adesione all’Unione Europea. Invece che prendersela con sé stessa e con le scelte coraggiosamente e meritoriamente assunte da Politici italiani del calibro di Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi, certi importanti esponenti delle Istituzioni colgono l’occasione per dare fuoco, assistiti da veri e propri cannoni mediatici, all’ennesimo “scontro” (ma forse sarebbe più appropriato parlare di attacco unilaterale) con la magistratura. La colpa dei giudici è una, nel caso di specie: essere soggetti soltanto alla Legge e alla sua interpretazione vincolante, in virtù delle norme della nostra Costituzione e dei Trattati internazionali, che impongono ai giudici di operare per l’attuazione di essi in modo oggettivo e imparziale nei confronti di ogni potere - e/o di ogni persona- che intenda ostacolare o negare i diritti e le libertà fondamentali. La normativa Ue e l’interpretazione di quelle norme fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, infatti, godono di un primato applicativo anche nel nostro ordinamento, primato che è capace di determinare la disapplicazione di norme interne che siano in contrasto con esse. E’ ciò che è successo nella fattispecie, in quanto i magistrati si sono limitati a dare seguito ad un pronunciamento del giudice europeo, derivante dall’applicazione di una direttiva europea (che ha valenza di legge primaria). Ad aiutare i membri del governo e altri parlamentari ad infierire nei confronti dei magistrati sono state le idee espresse, in pubblici dibattiti o in private mailing list, da due esponenti di una nota corrente “progressista”, denominata Magistratura democratica, che avevano già criticato in tempi non sospetti la politica del governo in materia di migranti o che hanno apertamente contestato l’attacco alla giurisdizione mosso dal governo di destra, denunciando la “pericolosa” azione di governo e della sua leadership nell’intento di modificarne l’assetto a livello costituzionale. Anche in questo ambito, però, i politici hanno dimenticato una ovvietà. E cioè che anche i magistrati godono di diritti fondamentali, come quello di esprimere il loro pensiero. Lo fanno in base a principi enunciati nelle Carte fondamentali italiane e internazionali (art. 21 Cost.; art. 19 dichiarazione Universale diritti Uomo, art. 10 e 11 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) ma anche in documenti di altre importanti istituzioni che garantiscono questa principale libertà per i giudici. Basti pensare che lo Statuto Universale del giudice prevede che “i giudici godono, come tutti i cittadini, della libertà d’espressione (art. 3-5 statuto)”. Anche il Consiglio Consultivo dei giudici europei, organismo istituito dal Consiglio d’Europa, in ben due suoi pareri (il n. 3 del 2002 e il n. 25 del 2022), ha stabilito che il giudice gode del diritto alla libertà di espressione come qualsiasi altro cittadino e che “oltre al diritto individuale del giudice, i principi di democrazia, separazione dei poteri e il pluralismo richiedono la libertà dei giudici di partecipare ai dibattiti di interesse pubblico soprattutto per quanto riguarda questioni relative all’ordinamento giudiziario”. Si specifica, in modo ancor più pregnante, come “nelle situazioni in cui la democrazia, la separazione dei poteri o lo Stato di diritto sono minacciati, i giudici devono essere resilienti e avere il dovere di far sentire la propria voce in difesa dell’indipendenza, dell’ordine costituzionale e del ripristino della democrazia, nazionale e internazionale. Ciò include punti di vista e opinioni su questioni che sono politicamente sensibili e si estende all’indipendenza sia interna che esterna giudici e la magistratura in generale”. Altro che mordacchia o ayatollah, i magistrati hanno il diritto di esprimersi, e, in alcuni casi, persino un dovere morale, specialmente quando ad essere in gioco sono i principi fondanti della giurisdizione e l’interesse dei cittadini al mantenimento del “rule of law”. E’ chiaro che “nell’esercizio di questo diritto essi devono comunque dar prova di riserbo e comportarsi sempre in maniera tale da preservare la dignità delle loro funzioni, così come l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura”. Ciò significa che il magistrato non deve fare politica, né fuori, né dentro le aule di giustizia, e che ove coltivasse un pregiudizio in una certa materia o affare ha l’obbligo morale, prima che giuridico, di astenersi dalla trattazione dello stesso. La magistratura deve fare sempre autocritica e deve evitare qualsiasi collateralismo con i partiti politici. Ma non sembra sia questo il caso odierno. *Magistrato Cybersicurezza, Nordio vuole nuove leggi: “Tecnologia troppo veloce” di Flaminia Camilletti La Verità, 27 ottobre 2024 Il ministro della Giustizia studia norme ad hoc: verso un sistema di riconoscimento senza accessi da remoto. Il gigantesco e allarmante mercato dei dati riservati, così come lo chiama oggi il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, apre un vaso di pandora di cui è difficile scorgere il fondo e per cui appare difficile pensare di porre un argine con gli strumenti attualmente a disposizione. Per questo il ministro della Giustizia Carlo Nordio torna con maggior forza sulla riforma della giustizia. “Credo che non siamo al sicuro e non saremo al sicuro fino a quando la legge da una parte e la tecnologia a nostra disposizione non sarà riuscita ad allinearsi con la tecnologia a disposizione della criminalità”. Un gap difficile da colmare che il ministro ribadisce commentando l’inchiesta della Dda di Milano e della Dna che ha portato il gip a disporre sei misure cautelari. “In linea generale la tecnologia avanza sempre più in fretta rispetto alle leggi”, ha spiegato Nordio, “lo ha fatto in tutti i settori, a cominciare dalla bioetica. I malintenzionati sono sempre un po’ più avanti rispetto agli Stati, sono riusciti ad hackerare anche il Cremlino. Noi dobbiamo attivare i nostri sforzi per allineare la normativa vigente, che stiamo già facendo, e lavorare di fantasia per prevedere, senza dover inseguire”. Il governo si prepara a mettere in campo nuove linee guida per migliorare la sicurezza delle banche dati in prima battuta di forze dell’ordine e intelligence. Un decalogo che punta ad accrescere la consapevolezza dell’utente, il singolo finanziere o poliziotto o altro operatore che spesso non sa che anche il singolo accesso illecito è una fattispecie penale. Inoltre anche il controllore dovrà sapere che può essere perseguito per omessa vigilanza. Migliorare quindi il sistema degli alert in modo che non sia possibile che una moltitudine di accessi da parte di un singolo operatore non faccia scattare l’allarme. E poi evitare lo scambio di username e password con un codice otp pre rendere l’autenticazione più sicura. Non sarà più possibile l’accesso da remoto. La legge sulla cybersicurezza del giugno scorso ha aumentato le pene (da 3 a 8 anni) per i pubblici ufficiali che fanno accessi abusivi. Questo adeguamento dei sistemi comporterà una spesa stimata in alcune decine di milioni di euro. Si va avanti quindi, così come per la separazione delle carriere “non è negoziabile, avverrà. Ma non la si faccia coincidere col pericolo che il pm venga sottoposto al potere esecutivo. Nella riforma è scritto chiaramente che il magistrato resterà autonomo ed indipendente”. Sullo scontro con i magistrati: “Vorrei che si arrivasse al punto che non criticassero le leggi, se non sotto il profilo squisitamente tecnico”, ha detto il ministro spiegando che a breve riceverà l’anm e che ha accettato l’invito a partecipare al congresso di Magistratura democratica. I commenti all’inchiesta che ha coinvolto anche Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera Milano arrivano da tutta la politica. Il sottosegretario leghista Alessandro Morelli sulle eventuali dimissioni di Pazzali ha detto: “Leggeremo le carte, non so nulla. Mi sembra abbastanza adulto per fare le proprie valutazioni”. “Chi ruba dati sensibili deve avere almeno dieci anni di carcere come pena minima”, suggerisce Alfredo Antoniozzi, deputato di Fratelli d’italia: “Negli Stati Uniti queste sanzioni sono già durissime”. “Così si mette a rischio la nostra economia e la democrazia stessa”, il commento della senatrice Enza Rando, responsabile Legalità e contrasto alle mafie del Pd. “Chiediamo che anche di questo si occupi l’antimafia”, l’appello di Raffaella Paita, coordinatrice nazionale di Italia Viva e componente della commissione Antimafia in Senato. Napoli. Reportage: tra i ragazzi di Nisida, sempre più piccoli e più violenti di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2024 Le reazioni dei minori detenuti, dopo l’omicidio di Emanuele Tufano a Napoli. “Così si rischia di morire a 15 anni”. Potevano esserci loro. Al posto di Emanuele Tufano o al posto di chi l’ha ucciso a 15 anni, l’altra notte nel centro storico di Napoli. Potevano esserci loro, sia da una parte che dall’altra. Stesi per terra con un lenzuolo bianco addosso e molteplici buchi in corpo. Oppure indagati, dopo aver impugnato una o più armi, sempre più potenti, sempre più facili da trovare anche da parte di chi non ha fino in fondo la consapevolezza né del loro uso né delle effettive conseguenze. Loro sono i ragazzi dell’Istituto penale minorile di Nisida e con i protagonisti dell’ultima drammatica storia di cronaca nera, consumata nella notte tra il 24 e il 25 ottobre nel centro storico della città, o con i protagonisti di tutte le altre più o meno note degli ultimi anni, condividono l’età, il modo di parlare e il contesto di provenienza. Un tempo, neanche troppo lontano, anche il taglio di capelli e il modo di pensare. L’Ipm di “Mare fuori” - Così oggi lo sanno benissimo, che avrebbero potuto davvero esserci loro, immobili a terra, senza vita. Dall’altra parte, invece, dalla parte dell’autore del reato, ad un certo punto in effetti ci sono stati, per vicende altrettanto terribili o per altri reati comunque assai gravi e per questo ora sono qui, in quest’isola che non è più del tutto staccata dalla terra e che dal 1934 ospita il carcere minorile più famoso d’Italia, dopo il successo della serie “Mare fuori”; dopo essere stata nei secoli lazzaretto durante la peste del Seicento, ergastolo con i Borbone e in origine, con un balzo indietro di oltre duemila anni, luogo d’elezione di aristocratici romani, come Bruto, alla cui villa sono attribuiti i resti delle antiche mura incorporate in tutto il resto. Arrivo all’ipm di Nisida, in questo venerdì di fine ottobre per un altro progetto di cui potrete leggere presto su IlSole24ore. Ma l’attualità, con le tinte più fosche, entra d’impeto nel dialogo con questi adolescenti o poco più che incontro, insieme all’infaticabile direttore e al resto della sua squadra. “Se scendi co’ fierro ‘ncuollo è normale che può succedere”, esclama il più sincero dei ragazzi dopo qualche minuto di incertezza. (“Se vai in giro con una pistola, metti in conto di usarla”, ndr. E quindi metti in conto di sparare a qualcuno o di finire tu, ferito a morte). “Se prima se coceva, forse si salvava”, aggiunge il più alto, che sta qui già da sette anni e ne ha ancora un po’ davanti a sé. (“Se si fosse scottato prima, forse si sarebbe salvato”, ndr). Non chiarisce se si riferiva ad Emanuele, che è morto, o a chi l’ha ucciso: le prime ipotesi investigative puntano su un altro quindicenne, quale possibile killer, insieme ad un complice di due anni più grande, in un contesto di scontro tra bande di quartieri diversi. Non lo chiarisce e la riflessione - in un certo senso - può valere per entrambi. Essere fermati per tempo, per certi bambini con la pistola, può fare la differenza tra la vita e la morte. Alcuni di loro oggi lo sanno, di essere vivi anche perché sono stati arrestati prima. Quasi per caso. Come per caso è invece morto Giovanbattista Cutolo, Giogiò, il diciassettenne musicista assassinato a piazza Municipio l’anno scorso o come altri ancora prima di lui. I contesti di provenienza - In alcuni contesti, “dove cresci con l’idolo di chi fa più male o di chi ha le scarpe più griffate, ci si spara per senza niente (anche senza una vera ragione, ndr)”, raccontano i ragazzi. “Anche nel mio quartiere siamo cresciuti con il mito di chi aveva le scarpe da 500 euro e la pistola. E allora per darti importanza, per avvicinarti a quell’idolo ti ritrovi in qualcosa più grande di te”, è la considerazione di chi oggi sta affrontando complessi e faticosi percorsi di consapevolezza. Nel deserto delle occasioni di certe zone, in particolare laddove dispersione scolastica, disoccupazione e difficoltà economica toccano percentuali maggiori che altrove, può diventare troppo facilmente un’opzione chi ti mette in mano “nu’ mezzo (uno scooter, ndr), ‘na pistola e ‘nu poco e’ rispetto”, come disse un altro quindicenne detenuto qui qualche anno fa durante l’incontro con la mamma di un’altra giovane vittima della violenza di giovanissimi. Qui ci può essere una delle origini del rancore di questi giovanissimi, che nell’Ipm imparano però anche che imbracciare un’arma è comunque sempre una scelta. Più o meno consapevole. La rabbia e la scelta - “Quando ero piccolo, avevo un sacco di rabbia. La rabbia perché ho provato il dolore: questa è l’emozione che ho imparato a riconoscere. Oggi la so gestire”, racconta il più muscoloso dei ragazzi che incontro, con la sua storia tatuata sul bicipite. Delle emozioni ha imparato a parlare dopo una serie di incontri, che vanno al cuore di quel ribollire complesso di certi adolescenti che abbandonati per strada senza obiettivi possono diventare una pentola a pressione. Anche Libero, il cane mascotte che accompagna ogni passo, “era molto arrabbiato quando l’abbiamo trovato, abbandonato da chissà chi”, mi raccontano. Ora che è stato “adottato” da tutti loro è buonissimo, ubbidiente e mansueto. Il sovraffollamento dell’Ipm - In questo momento nell’Ipm di Nisida ci sono numeri che non furono raggiunti nemmeno nei mesi più difficili della stagione della cosiddetta “paranza dei bambini”, quando - intorno al 2015-16 - il fenomeno dei minori arruolati dalla camorra - e poi di una crescente criminalità minorile - si impose come emergenza e gli arresti fecero raggiungere il picco delle 60 presenze. Al momento sono settantasei gli ospiti: solo una manciata in custodia attenuata, tutti gli altri nel perimetro del carcere vero e proprio. Con le mura di cinta, i ripetuti cancelli, le grate alle finestre e i panni stesi - come in ogni carcere - a chiudere lo sguardo sul mare luccicante di quest’intarsio della costa flegrea, che mostra contemporaneamente tanto i suoi fallimenti quanto le sue ricchezze. Nisida e la costa flegrea - Il travaglio di Bagnoli, con l’acciaio arrugginito dell’Italsider e gli ultimi progetti di riqualificazione e - dall’altra parte della costa - la bellezza abbacinante del Parco letterario e naturale di Nisida, inserito nei percorsi del Fai, curato col lavoro anche di alcuni di questi ragazzi. Il tutto nella zona rossa dei Campi Flegrei per rischio vulcanico, come ricorda la presenza di un geologo impegnato in sopralluoghi. Detenuti sempre più piccoli - Se da diversi anni la criminalità organizzata arruola manovalanza minorile, “diventano sempre più piccoli i nostri ragazzi”, conferma il direttore dell’Ipm, Gianluca Guida, una vita spesa per questi fanciulli con troppa vita e troppi abbandoni già alle spalle. La maggior parte hanno condanne definitive, ma non tutti, e con i numeri delle presenze in aumento, con gli stessi spazi e gli stessi operatori (26 le presenze effettive; 6 le vacanze), diventa sempre più complesso costruire il percorso più adatto per ciascuno dei ragazzi attraverso i tanti laboratori attivi nell’istituto visitato tre anni fa anche dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, insieme all’allora Ministra della Giustizia, Marta Cartabia: dalla pasticceria alla pizzeria al catering, dalla ceramica all’edilizia all’artigianato. I percorsi scolastici - Oltre, ovviamente, ai percorsi scolastici: 13 frequentano corsi di alfabetizzazione; 11 scuola dell’obbligo; 6 secondaria di primo grado; 13 il triennio alberghiero; 15 il percorso di operatore nella ristorazione; 5 i corsi di ammissione alla maturità, secondo i dati - aggiornati a metà settembre - dell’ufficio statistiche del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia. Pene più lunghe - Sono sempre più piccoli e restano sempre più a lungo, segno di condanne lunghe per reati gravi. “Da tempo non abbiamo più le cosiddette “porte girevoli”, ragazzi che entravano ed uscivano in poco tempo”, racconta il direttore Guida. “Ora hanno condanne più impegnative, la maggior parte per reati contro il patrimonio - aggravati dalla violenza e dall’uso delle armi- ma sono sempre di più anche quelli arrestati per reati contro la persona, omicidi, tentati omicidi, violenze”. Più stranieri - Un cambio - insieme all’aumento delle presenze di stranieri, soprattutto maghrebini, in una maggioranza che resta di giovani napoletani - che porta anche a dei cambiamenti nei percorsi trattamentali per “saperli accompagnare nella fase complessa dell’adolescenza, guardando oltre il contingente”. Da dietro le grate di una finestra, al secondo piano, una voce squillante chiede al direttore cosa significhi quell’espressione che si è ritrovata tra le comunicazioni del magistrato: “giustizia riparativa”. “Quando provi ad aggiustare un po’ quello che hai rotto”, è la prima risposta - di cornice - che riceve da giù. Sovraffollamento e disagio - Percorro insieme al direttore e al comandante i viali dell’Ipm, tra palazzine color ocra, un campetto di calcio, la cappella, muretti decorati con mosaici e prati pieni - ad ora di pranzo - di stoviglie e bottiglie di plastica buttate dall’alto, da celle sovraffollate. Un modo per denunciare il proprio malessere. Il dibattito sulle cause del sovraffollamento, che non riguarda solo questo Ipm, è aperto e articolato. Per l’associazione Antigone, porta dritto agli effetti del decreto Caivano. Almeno da queste parti, in realtà, gli operatori in realtà non ne sono convinti per ora, analizzando i numeri. Ma in questa giornata sono impegnati soprattutto a far fronte alle diverse esigenze e alle molteplici problematiche che ciascuna di queste giovani vite ha dietro di sé e della loro gestione nell’insieme. I percorsi di consapevolezza - Alcuni ragazzi hanno avviato un cammino per la presa di coscienza del loro agire violento. “Provando a capire anche le emozioni della vittima e dei loro familiari. Allora non ci pensavo proprio”, raccontano due di loro. Allora è il momento del reato. Oggi, è il tempo della pena da scontare, della consapevolezza delle azioni, ma anche della speranza. Con una formazione, qualche lavoro - come quello che fa guadagnare 500 euro a chi è stato assunto dalla cooperativa “Nesis, gli amici di Nisida”, che realizza oggetti di ceramica gettonati soprattutto come regali natalizi; o chi ha avuto l’occasione di frequentare uno stage con famosi pasticceri, come Rolando Morandini. L’isola approdo - Ecco che allora questa “piccola isola”, secondo l’etimologia del nome Nisida dal greco antico, può essere davvero il primo vero approdo, per provare a cambiare vita e “capire anche il male che hai fatto”, dice uno dei “pescetielli” o “muschilli” (piccoli pesci o moscerini), come vengono chiamati in dialetto napoletano i giovanissimi che si muovono in branco nei vicoli sovraccarichi di turismo o al servizio dei clan. Qui trovano dei punti di riferimento negli educatori e in tutta la squadra dell’Ipm. Fuori, i genitori - quando non provengono da famiglie criminali - “sono soli”, riflette uno degli operatori. I ragazzi annuiscono, a voler dire che mamma e papà ci avevano provato a fargli evitare certe derive. Le notizie di cronaca nera della città rimbalzano velocemente sull’isola: c’è un altro ventenne ferito. Ma c’è anche la partita di palla a volo che sta per cominciare. E c’è il mare fuori e la bellezza, che aiuta a curare. Lecce. Carcere di Borgo San Nicola, condizioni di vita e di lavoro da emergenza sociale cgillecce.it, 27 ottobre 2024 Una delegazione della Cgil e della Fp Cgil ha incontrato la direttrice del carcere. “Sovraffollamento al 40% e carenza di organico sconfessano la Costituzione”. I numeri “estremi” dell’attività del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. “Migliorare le condizioni di vita e di lavoro a Borgo San Nicola”. Nei giorni scorsi una delegazione provinciale della Cgil e della Fp Cgil è stata ricevuta dalla direttrice della casa circondariale, Maria Teresa Susca, per aprire un’interlocuzione sulle problematiche vissute dagli agenti penitenziari. E anche da chi nel carcere è costretto a viverci per espiare una pena. È emerso un quadro allarmante. Borgo San Nicola “ospita” 1.200 persone laddove dovrebbero essercene al massimo 740, con un tasso di sovraffollamento che sfiora il 40%. Carenza di organico. Una situazione vissuta in tutti i penitenziari d’Italia, ma che a Lecce è amplificata dalla dimensione dell’istituto, il più grande in Puglia. L’emergenza è gestita da anni in uno stato di affanno, vista la grave carenza di organico. “In una situazione ottimale, quindi senza sovraffollamento, per garantire la sicurezza all’interno del penitenziario e durante le traduzioni, il personale di polizia penitenziaria dovrebbe essere composto da almeno 570 unità”, spiegano Tommaso Moscara, segretario generale della Cgil Lecce, Fiorella Fischetti, segretaria regionale della Fp Cgil, e Francesco Donateo, coordinatore Polizia Penitenziaria della Fp Cgil Lecce. “A Borgo San Nicola invece operano 527 agenti, quindi 43 in meno, a fronte di un carcere sovraffollato. Inoltre abbiamo la spada di Damocle dei pensionamenti: ne sono previsti 40 entro il 31 dicembre. È intollerabile”. La delegazione riconosce l’impegno della direzione e del corpo di polizia penitenziaria per gestire al meglio la sicurezza. “Non deve essere semplice”, dicono i sindacalisti. “È possibile riuscirci solo grazie all’abnegazione del personale, che si ritrova a condividere disagi e situazioni critiche con la popolazione carceraria, ad affrontare turni prolungati, spesso a rinunciare a ferie e riposi”. Primo semestre da incubo. La mole di lavoro è oggettivamente enorme e gli agenti si ritrovano spesso a dover gestire in solitudine interi reparti. Particolarmente difficile l’attività del Nucleo Traduzioni e piantonamenti, il cui organico dovrebbe essere composto da 78 lavoratori, e invece ne conta appena 49 (un terzo in meno e ben 8 sono prossimi alla pensione): nel primo semestre dell’anno questi 49 lavoratori hanno gestito 1.139 traduzioni (ossia spostamenti di detenuti da e per il carcere) che hanno riguardato 2.409 detenuti, per una media di oltre 6 spostamenti al giorno. Tra queste, 77 si sono svolte su scala nazionale, 247 a livello regionale e 816 nella provincia. Ben 872 traduzioni tra visite sanitarie urgenti (141) e visite programmate (731). A questi numeri vanno aggiunti 37 piantonamenti. Il commento. “Tutto ciò si traduce in una difficoltà quotidiana nel garantire sicurezza, sanità, rieducazione ai detenuti e diritti e salute ai lavoratori, sottoposti ad uno stress psicofisico notevole. L’errore più grande che si possa fare è confinare questa emergenza nel recinto del carcere, considerarla un mero problema di carattere organizzativo che produce effetti solo all’interno delle celle. Nelle condizioni attuali i problemi del carcere, di insicurezza, di disumanità, di emergenza si riversano quotidianamente nella società. Aggravando di fatto l’insicurezza esterna. Garantire condizioni di lavoro e di vita dignitose in carcere, consente invece di rispondere pienamente al dettato costituzionale, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La Cgil ha già da tempo messo in luce la necessità di provvedimenti concreti che intervengano innanzitutto sul sovraffollamento e sul miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari, il governo invece ha emanato un provvedimento che non avrà alcun effetto sul miglioramento della condizione di vita e di lavoro negli istituti penitenziari e che non inciderà sul sovraffollamento. Anche le assunzioni annunciate dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), appena 1.000, sono del tutto insufficienti a colmare le carenze organiche su scala nazionale (attualmente mancano circa 7.000 unità)”. Frosinone. Paziente oncologico detenuto e “dimenticato” di Marina Mingarelli Il Messaggero, 27 ottobre 2024 La denuncia della famiglia: “Peggiora di giorno in giorno”. Il detenuto, affetto da un tumore, non sarebbe stato curato nei tempi e nei modi adeguati, per tale motivo i familiari hanno fatto scattare la denuncia. “Sono quattro mesi - scrivono - che il nostro parente un malato oncologico detenuto nel carcere di Frosinone la cui salute peggiora di giorno in giorno, attende di essere visitato. Nonostante le sue gravi condizioni nessuno si attiva per poterlo curare”. Per tale motivo hanno puntato l’indice nei confronti del dirigente medico del carcere di Frosinone e dell’Azienda Sanitaria Locale, mettendo nero su bianco le possibili “mancanze”. Dal mese di settembre dello scorso anno il detenuto, un 38enne che risiede a Supino, sta scontando una pena definitiva. “Il detenuto scrivono nella denuncia querela - è malato oncologico da anni. A questo si aggiungono anche altri problemi di salute, e da quando è in carcere la sua situazione di salute è peggiorata”. A detta dei familiari in cella il 38enne non verrebbe seguito come dovuto e non farebbe alcuna cura, a questo sempre a loro dire, non gli sarebbero state somministrate le pastiglie giuste, motivo per cui la sua situazione di salute sarebbe peggiorata notevolmente. Il detenuto tra l’altro sarebbe sprofondato anche in una seria depressione. Sempre secondo quanto riferito dai denuncianti il 38enne a causa della sua patologia importante, deve effettuare continuamente visite per monitorare la sua malattia. A tal proposito, hanno rappresentato che sono mesi che deve effettuare la visita oncologica prescritta da tanto tempo. Finora non sono bastati i numerosi solleciti, effettuati dal legale al dirigente sanitario del carcere. Nel frattempo il magistrato di sorveglianza sta valutando l’incompatibilità del regime carcerario a seguito di istanza depositata dal legale di fiducia. Della visita, finora, nessuna traccia. Nel frattempo però le condizioni di salute del detenuto continuerebbero a peggiorare. “Non sappiamo più cosa fare - hanno continuato i parenti - siamo davvero disperati, ha urgente necessità di essere visitato per verificare lo stato della sua malattia e quindi valutare la sua posizione. Tutto ciò è davvero assurdo, sono mesi che tentiamo di prendere un appuntamento, ma ad oggi tutto è rimasto lettera morta”. Da qui la decisione di presentare una denuncia querela. Dalla casa circondariale, però, si apprende che sono state effettuate tutte le analisi del caso e che la situazione sarebbe sotto controllo. Per quanto riguarda la visita oncologica è stata fissata, ma per il prossimo marzo. Insomma, il caso è seguito e il detenuto non sarebbe “abbandonato”c ome si denuncia. Resta il fatto che un paziente oncologico in carcere non dovrebbe proprio starci, al punto l’avvocato ha chiesto al magistrato di sorveglianza di valutarne l’incompatibilità. Viterbo. “Andrea Di Nino è stato ucciso. Sono entrati in cella e lo hanno pestato” di Raffaele Strocchia viterbotoday.it, 27 ottobre 2024 La rivelazione sul 36enne trovato senza vita a Mammagialla raccolta durante le indagini difensive della famiglia: “Non si è suicidato. Piangeva, urlava e chiedeva aiuto”. Nuovi sviluppi sulla morte del detenuto Andrea Di Nino. Secondo un supertestimone della famiglia, il 36enne romano trovato morto nel carcere di Viterbo il 21 maggio 2018 non si sarebbe suicidato nella cella d’isolamento di Mammagialla ma sarebbe stato vittima di un presunto pestaggio mortale. A riportare questa versione dei fatti è Tonino Lazzarini, uno degli otto fratelli di Di Nino, padre di cinque figli. La rivelazione, raccolta dall’avvocato della famiglia Nicola Trisciuglio nell’ambito di indagini difensive durante le quali sono state sentite diverse persone, indicano che il testimone avrebbe assistito a un’aggressione fatale: “Andrea fu ucciso. Ho visto che, dopo essere entrati in cella, lo hanno portato via morto. Ho sentito che lo pestavano. Andrea piangeva, urlava e chiedeva aiuto”. A parlare è un altro detenuto, italiano, che conosceva il 36enne e si trovava sul suo stesso piano. Le sue dichiarazioni sono state considerate attendibili e riscontrabili dalla famiglia, avendo raccontato dettagli precisi su persone e luoghi. Il contatto con questo testimone, avvenuto nei mesi scorsi tramite i social, ha riacceso le speranze della famiglia. L’avvocato Trisciuglio ha interrotto l’esame e il 22 ottobre ha trasmesso gli atti alla procura e al tribunale di Viterbo. Al momento si procede per omicidio colposo, reato per cui il gup Giacomo Autizi ha rinviato a giudizio due sanitari e un agente della polizia penitenziaria. Il processo inizierà il 22 gennaio davanti al giudice Jacopo Rocchi. La famiglia di Di Nino non si è mai rassegnata all’ipotesi del suicidio. Il 36enne aveva già scontato due anni di carcere per droga e sperava di trascorrere il terzo ai domiciliari per i suoi problemi di salute. I suoi otto fratelli - Tonino, Franca, Giorgio, Paolo, Graziella, Valentino, Patrizia e Angela - da anni portano avanti la battaglia. Oggi, alla luce delle parole del supertestimone, Tonino Lazzarini ribadisce: “A Mammagialla nel 2018 fu omicidio. Andrea è stato ucciso, non si è trattato di suicidio”. Roma. Caso Omerovic, il Viminale responsabile civile di Angela Stella L’Unità, 27 ottobre 2024 Accolta la richiesta delle parti civili. L’uomo, sordomuto di etnia rom, precipitò dalla finestra della sua camera a Primavalle durante un controllo di polizia. A causa delle gravi ferite trascorse otto mesi in ospedale. L’Associazione 21 luglio parte civile. Il ministero dell’Interno è stato citato come responsabile nel procedimento che vede imputati tre poliziotti coinvolti nella vicenda di Hasib Omerovic, giovane sordomuto di etnia rom precipitato il 25 luglio 2023 dalla finestra della sua camera nel suo appartamento a Primavalle, durante una attività di controllo da parte degli agenti. Lo ha deciso ieri il gup di Roma all’udienza preliminare che si è svolta a piazzale Clodio, accogliendo una istanza delle parti civili. Omerovic rimase gravemente ferito e ha dovuto trascorrere otto mesi in ospedale. Nei confronti degli imputati le accuse, a seconda delle posizioni, sono di tortura e falso. In particolare il reato di tortura viene contestato all’assistente capo della polizia Andrea Pellegrini, all’epoca dei fatti in servizio nel distretto di Primavalle. L’agente ha passato sei mesi ai domiciliari ed è sospeso dal servizio. Secondo quanto si legge nel capo d’imputazione, il poliziotto “dopo essere entrato all’interno dell’abitazione, immediatamente e senza alcun apparente motivo colpiva Omerovic con due schiaffi nella zona compresa tra il collo ed il viso” dicendogli “non ti azzardare mai più a fare quelle cose, a scattare foto a quella ragazzina’”. Il riferimento è ad un presunto episodio durante il quale Omerovic avrebbe infastidito una ragazzina per strada e le avrebbe scattato delle foto. Successivamente il poliziotto “impugnava un coltello da cucina e lo brandiva all’indirizzo di Omerovic chiedendogli, sempre con fare alterato e urlando, che utilizzo ne facesse; avendo trovato la porta della stanza da letto di Omerovic chiusa a chiave la sfondava con un calcio, sebbene il 36enne si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”. Inoltre “intimava a Omerovic di entrare all’interno della sua stanza da letto e lo costringeva a sedere su una sedia; dopo aver recuperato un filo della corrente di un ventilatore, lo utilizzava per legare i polsi” dell’uomo e “brandiva, ancora una volta, all’indirizzo dell’uomo il coltello da cucina in precedenza utilizzato, nel contempo minacciandolo, urlando al suo indirizzo la seguente frase ‘se lo rifai, te lo ficco nel c…’”. Gli agenti Alessandro Sicuranza e Maria Rosa Natale, accusati di falso insieme al collega, hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato. Ammessi come parti civili i familiari di Omerovic e l’associazione “21 Luglio”. A settembre un quarto indagato, Fabrizio Ferrari, che ha collaborato alle indagini, ha patteggiato una pena a 11 mesi e sedici giorni. “Siamo soddisfatti - commenta all’Unità il legale della famiglia Omerovic, Arturo Salerni -. La richiesta è stata fatta dalla parte civile perché il fatto è stato commesso nell’esercizio delle funzioni e nelle forze di polizia assumono ancora maggiore rilevanza. Pertanto la presenza processuale del Viminale dà ancora più rilievo alla vicenda maturata in quel particolare contesto. Discutere con quella parte, con l’Avvocatura dello Stato ci darà modo di riflettere su quello che può succedere in certi casi”. Il procedimento è stato aggiornato al 21 febbraio. Il rinvio a giudizio ancora non c’è stato. “Prima iniziamo, prima riuscirò a dimostrare la mia innocenza”, ha detto l’ex poliziotto Andrea Pellegrini in uscita dal tribunale di Roma parlando con i cronisti. Solo pochi giorni fa, il 22 ottobre, il Consiglio d’Europa ha pubblicato il suo sesto rapporto sull’Italia, in cui vengono denunciati alcuni episodi di profilazione razziale e di responsabilità delle forze dell’ordine in casi di abusi razzisti o Lgbtq-fobici. “Il rapporto Ecri, contestato con la pancia dagli organi più autorevoli delle istituzioni, andrebbe letto con la testa” - ha commenta Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio. “Scopriremo così che tra le sue righe si parla di alcune testimonianze raccolte da esponenti della società civile sulla profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine. Come quella che riguarda la vicenda del povero Hasib che probabilmente, se non fosse stato rom, oltre che disabile, non sarebbe finito oltre quella finestra che separa il mondo democratico e civile dalla ‘bestialità’ umana che nessuno ha il diritto di legittimare”. “Due anni fa con i legali e la famiglia di Hasib Omerovic e con l’Associazione 21 luglio denunciammo pubblicamente nel corso di una conferenza stampa alla Camera ciò che era accaduto al ragazzo nel luglio del 2022 quando è precipitato dalla finestra di casa sua durante un’ispezione non autorizzata della polizia”, ricorda Riccardo Magi, segretario e deputato di +Europa, “Oggi, il gup di Roma ha accolto l’istanza delle parti civili di citare il ministero dell’Interno come responsabile civile nel procedimento che vede imputati tre agenti. Le carte processuali fin qui fanno emergere l’agghiacciante dinamica di quel giorno ed è necessario che vi sia un rapido e completo accertamento della verità proprio a tutela delle forze dell’ordine e del rapporto di totale fiducia che i cittadini devono poter avere nei loro confronti. Ricordiamo che purtroppo fino alla nostra denuncia pubblica non vi erano state denunce dall’interno ma solo ricostruzioni platealmente false dei fatti”, ha concluso Magi. Bologna. Suicidi in carcere, un convegno. Tra gli ospiti Zuppi e Cucchi Il Resto del Carlino, 27 ottobre 2024 Convegno a Bologna sul drammatico fenomeno dei suicidi in carcere, con la partecipazione di importanti figure istituzionali e politiche. Obiettivo: trovare soluzioni concrete per affrontare l’emergenza. Il cardinale Matteo Zuppi presidente della Cei, il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, la deputata e responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi e Rita Bernardini, ex parlamentare radicale e presidente dell’associazione ‘Nessuno tocchi Cainò sono gli ospiti del convegno ‘Il drammatico fenomeno dei suicidi in carcere: un’emergenza non più rinviabilè organizzato per martedì, a Bologna, dalla locale Camera penale. L’appuntamento è sulla scia di una serie di iniziative di concerto con l’Unione delle Camere Penali Italiane, come la maratona oratoria sul tema, dell’8 luglio. L’incontro, nell’ex cinema Castiglione di piazza di Porta Castiglione 3, dalle 15.30 alle 19.30. Una prima sessione sarà dedicata alla discussione tra avvocatura, rappresentanti della Magistratura, dell’Istituzione carceraria, dei Garanti regionale e comunale, e delle associazioni maggiormente rappresentative che si occupano di carcere anche a livello nazionale. Alle 17.30 circa, il dibattito conclusivo con Zuppi, Sisto, Serracchiani, Cucchi e Bernardini. “Vogliamo creare un momento di dialogo concreto sul tema - dice l’avvocato Luca Sebastiani dell’Osservatorio Carcere della Camera penale - perché non c’è davvero più tempo. Il carcere è e deve restare l’extrema ratio, anche per chi non ha possibilità di usufruire di un domicilio e la politica deve intervenire e farsene carico. L’alternativa non può essere il carcere anche per pene brevi: con questi numeri il fine rieducativo della pena non esiste. E il tasso di suicidi così alto di quest’anno è uno dei più gravi campanelli d’allarme. Ne parleremo con l’obiettivo di cercare soluzioni e proporle a chi siede in Parlamento”. Verona. Tensioni al corteo per Moussa ma evitati gli scontri di Beatrice Branca Corriere di Verona, 27 ottobre 2024 In 3mila si sono presentati ieri al corteo dedicato al 26enne Moussa Diarra per chiedere verità e giustizia sulla sua morte, ucciso in stazione la scorsa domenica. Ci sono stati alcuni momenti di tensione contro la polizia davanti al tribunale. “Moussa non era un criminale. Vogliamo sapere perché è stato ammazzato. Vogliamo giustizia”. Queste parole sono state più volte ripetute durante il corteo partito ieri da piazza Bra e chiusosi alla stazione di Porta Nuova, dove la scorsa domenica il 26enne maliano Moussa Diarra è stato ucciso con un colpo di pistola da un agente della Polfer contro cui il giovane si sarebbe scagliato brandendo un coltello. Al corteo, organizzato per ricordare Moussa e chiedere verità sulla sua morte, hanno partecipato in 3mila tra cui il fratello Djembang, che ha però preferito rimanere in silenzio. Al suo posto hanno parlato alcuni rappresentanti della comunità maliana provenienti da Padova, Brescia e da altre città italiane che, assieme a lui, sono saliti sul furgoncino che ha guidato la manifestazione, incitando la folla a urlare “giustizia per Moussa” e anche “basta uccidere, basta razzismo”. Al corteo era presente pure il presidente dell’Alto Consiglio dei Maliani in Italia Mahamoud Idrissa Boune, gruppi di altre comunità africane, il Laboratorio Autogestito Paratod@s e altre 29 associazioni, alcuni rappresentanti dell’amministrazione comunale, tra cui l’assessore Jacopo Buffolo, finito al centro delle polemiche per aver rilanciato un post in cui stava scritto, a proposito della tragedia, che “a un bisogno di aiuto si è risposto con un colpi di pistola. “Moussa è stato ammazzato da un proiettile che non doveva mai essere sparato - sostiene Haby Dembele, presidente dell’associazione padovana Amavi -. C’era un altro modo per fermarlo. Noi siamo qui per lui e vogliamo giustizia”. Il corteo ha attraversato via Ponte Cittadella, via Carlo Montanari, via Santissima Trinità per poi fermarsi davanti al tribunale in via dello Zappatore ed è lì che ci sono stati dei momenti di tensione. Alla vista degli agenti della polizia posizionati all’ingresso del tribunale, alcuni manifestanti hanno iniziato a urlare “vergogna, assassini”. Alcuni poi si sono avvicinati alle forze dell’ordine per chiedere di appendere nel cortile uno striscione e altri cartelli dedicati a Moussa. Una richiesta negata dagli agenti che hanno invece invitato i partecipanti ad appendere lo striscione all’esterno. Il rifiuto ha portato alcuni manifestanti ad agitarsi e a provare a scagliarsi contro la polizia. Qualcuno ha preso in mano anche sassi, sampietrini e bottiglie di plastica per lanciarli. L’azione è stata fermata dagli organizzatori e da altri partecipanti che si sono presi per mano creando una sorta di muro contro i soggetti più alterati, invitandoli a seguire il corteo in modo pacifico. “Siamo qui per manifestare senza violenza - ha ribadito Dembele con il megafono cercando di ripristinare l’ordine o la nostra richiesta di giustizia rimarrà inascoltata”. Il corteo ha poi proseguito fino alla questura dove si è fermato, dove i partecipanti si sono messi in ginocchio, dedicando un minuto di silenzio a Moussa. “Voi ci chiedete perché veniamo qui in Italia - ha urlato poi al megafono Mahomad della comunità maliana -. Per salvare le nostre vite e quelle dei nostri figli. Ora rialziamoci e alziamo la mano sinistra chiusa a pugno per Moussa”. Un segno che è diventato il simbolo dei movimenti “Black Lives Matter” e che è stato riproposto con alcuni cartelli anche in questo corteo. “Moussa non è solo morto con un colpo di pistola - ha ribadito uno dei rappresentanti della comunità maliana - è morto perché c’è un problema di razzismo in questo Paese. Moussa è morto perché non aveva una casa, perché ha faticato a ottenere dalla questura i documenti di cui aveva bisogno dopo che era in Italia già da otto anni”. La manifestazione si è conclusa in piazzale XXV Aprile, dove in un angolo transennato sono state raccolte alcune sue foto, fiori con messaggi in cui si legge che Moussa era una persona buona e ceri accesi per ricordarlo. Un’area attorno a cui si sono stretti alcuni manifestanti scattando foto e video. “Djembang, il fratello di Moussa è molto provato ma è stato contento di tutta la solidarietà che ha ricevuto da migliaia di persone - fa sapere Giorgio Brasola del Paratod@s. Ma non aveva la forza di parlare anche lui”. Nel frattempo il momento di agitazione davanti al tribunale e le urla contro la polizia non sono passate inosservate alla Lega. “Le donne e gli uomini in divisa meritano rispetto e solidarietà contro fango, insulti e calunnie”, dice il vicesegretario della Lega Andrea Crippa. Solidarietà anche da Verona Domani ai poliziotti che “anche oggi nella nostra città hanno subìto l’ennesimo tentativo di aggressione da parte di violenti, sostenuti da una parte di estrema sinistra, presente, nei fatti, anche nell’attuale amministrazione Tommasi”. Napoli. Non solo violenza e spedizioni punitive nelle carceri: ecco Secondigliano di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 27 ottobre 2024 Il Garante Ciambriello: “Una giornata di inclusione sociale valorizzando lo sport e la cultura”. Oggi un’esperienza unica vissuta con alcuni detenuti del carcere di Secondigliano - reparto Mediterraneo, che nella prima mattinata si sono recati ad Acerra, per svolgere una partita di calcio con il Team Pino N 7 Style. Una giornata di inclusione sociale e di crescita umana, attraverso lo sport e la cultura che è il valore della bellezza. Il calcio di inizio è stato dato dal Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello e dalla Consigliera regionale della Campania Vittoria Lettieri. Dopo la partita, i detenuti sono stati ospiti della Consigliera regionale Vittoria Lettieri in una pizzeria di Acerra “Vincenzo Di Fiore”, insieme ai loro familiari che sono accorsi a vederli. Subito dopo pranzo, nel primo pomeriggio, i detenuti insieme al Garante, si sono recati al Museo Donnaregina - Diocesi di Napoli. Il Garante Ciambriello ha dichiarato: “Oggi è stato un buon connubio, lo sport come luogo di valori positivi spazio di lealtà e di amicizia, palestra di impegno. La cultura e la bellezza per alimentare in noi valori positivi. Un pranzo consumato fuori dalle mura del carcere come un grande segnale di umanità, semplicità ed inclusione sociale”. La consigliera regionale della Campania Vittoria Lettieri ha dichiarato: “Tra il nero e il bianco esiste una zona grigia sulla quale intervenire. Prevenzione, sensibilizzazione, e cultura della legalità si inseriscono in questo contesto e diventano uno dei compiti principali delle istituzioni. Ho accolto con piacere l’iniziativa del Garante Ciambriello per favorire il cosiddetto bacio tra pace e giustizia, per vivere il dettato costituzionale del reinserimento sociale del detenuto”. Presenti anche due familiari di vittime innocenti della criminalità: Lucia Di Mauro, familiare della vittima innocente Gaetano Montanino e Carmela Sermino, familiare della vittima innocente Giuseppe Veropalumbo. Carmela Sermino ha dichiarato: “È importante essere qui, in questo giorno con i detenuti di Secondigliano, per ricordare anche la memoria delle vittime innocenti, come Giuseppe Veropalumbo e Gaetano Montanino. La memoria è importante affinché la loro morte non sia vana, considerando che uno degli ipotetici assassini di mio marito all’epoca aveva 14 anni. Cosa abbiamo sbagliato? Non viene fatto abbastanza? Spero che i detenuti credano che ci sia un’alternativa alla vita fino ad ora condotta. Incontro tanti ragazzi nelle carceri anche grazie al Garante Ciambriello. A queste persone bisogna dare una possibilità. Magari conoscendo la storia di Giuseppe e Gaetano possono capire davvero che una sbagliata può portare solo alla morte o al carcere. Il mio augurio è che loro possano convertirsi. Ringrazio Lucia Di Mauro anche lei presente alla manifestazione”. Napoli. Criminalità giovanile: a Nisida e Poggioreale proiettato il film “Nati pre-giudicati” Il Mattino, 27 ottobre 2024 Il film sarà proiettato il 7 novembre, alle 14.30, a Nisida e il 18 novembre, alle 10 a Poggioreale. “Quando hai commesso il primo reato, non hai avuto paura del carcere o di morire?”. “No, né la prigione né la morte sono peggio della vita che facevo prima”. Domanda e risposta sono tra quelle emerse durante il laboratorio Nati - pregiudicati che il regista Stefano Cerbone ha svolto nell’istituto penale per i minorenni di Nisida. Risposte, quelle dei giovani detenuti, che sono lo specchio del disagio giovanile che spesso si trasforma in devianza e sfocia purtroppo in tragedie, come quella che ha portato all’uccisione del 15enne Emanuele Tufano, colpito a morte da un proiettile alla schiena nella zona di piazza Mercato. Parte da qui il progetto di Cerbone, imprenditore e cineasta originario di Secondigliano, che torna a parlare di detenzione e prevenzione con il suo film “Nati pre-giudicati”. Dopo l’anteprima nazionale alla casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano, il film sarà proiettato il 7 novembre, alle 14.30, a Nisida e il 18 novembre, alle 10, alla casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale, dove al termine seguirà un dibattito sul tema della violenza giovanile e degli strumenti preventivi con rappresentanti delle istituzioni, delle forze dell’ordine e della magistratura. La pellicola, la cui sceneggiatura è stata scritta da Cerbone insieme ai reclusi del reparto Alta sicurezza di Secondigliano, spinge i detenuti a interrogarsi sulla loro genitorialità e sul rapporto con i figli che, in molti casi, percorrono la stessa strada criminale. Asti. A teatro in carcere: in scena la compagnia formata da 15 detenuti lanuovaprovincia.it, 27 ottobre 2024 Sabato 23 novembre alla casa di reclusione di Quarto lo spettacolo in due atti aperto al pubblico, legato al laboratorio promosso da Agar ed Effatà. Uno spettacolo in due atti vedrà impegnata, sabato 23 novembre, la compagnia “Teatro Oltre”, composta da 15 detenuti della Casa di reclusione di Quarto. Si esibirà in due repliche, alle 10 e alle 15 all’interno del carcere, eccezionalmente aperte al pubblico. Inserito nel progetto “La città entra in carcere”, giunto alla seconda edizione, è stato presentato ieri (venerdì) dai suoi promotori: le associazioni Agar Teatro ed Effatà in collaborazione con il Comune di Asti e la Casa di Reclusione. “Il teatro - ha spiegato la direttrice del carcere, Giuseppina Piscioneri - è stato introdotto come attività in diverse casa di reclusione in considerazione dei molteplici vantaggi che garantisce. Rappresenta infatti un’opportunità per migliorare l’autostima, riflettere su di sè, promuovere le relazioni interpersonali, ridurre il rischio di emarginazione. Il tutto alla luce del comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione, in base a cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il progetto - Silvana Nosenzo e Mario Li Santi di Agar teatro, registi dello spettacolo insieme a Pellegrino Delfino, hanno quindi spiegato l’attività che ha portato alla realizzazione dei due atti. “Da settembre - ha ricordato Nosenzo - è partito il laboratorio di teatro che ha coinvolto circa 15 detenuti, molti dei quali hanno già preso parte alla prima edizione. Per questo il gruppo è decisamente eterogeneo e comprende coloro che hanno già dimestichezza col palco e altri che sono al livello base”. “Dall’attività laboratoriale - ha aggiunto Li Santi - è nato il testo collettivo “Non sia un giorno come tanti”, che ripropone in chiave teatrale i vissuti, le emozioni, i ricordi e le riflessioni dei detenuti che fanno parte della compagnia. Il secondo atto, invece, presenta i crismi della commedia napoletana. Scritta dal detenuto Michele C, è intitolato “Un letto per tre”“. Monica Olivero, educatrice della casa di reclusione, ha posto l’accento sull’evoluzione del progetto che, partendo da un laboratorio di teatro, ha portato alla costituzione di una compagnia e alla possibilità di realizzare uno spettacolo aperto al pubblico, oltre all’opportunità per il gruppo di assistere a spettacoli di altre compagnie. Soddisfatta del percorso compiuto anche Maria Bagnadentro, presidente di Effatà, mentre Giorgio Marino, dirigente dell’istituto superiore Penna, ha ricordato che la scuola ha un corso in carcere finalizzato al conseguimento del diploma, “la cui importanza è legata più che altro all’elemento riabilitativo, che incarna il valore racchiuso nella Costituzione”. Prenotazioni - Chi fosse interessato ad assistere allo spettacolo deve prenotare entro il 13 novembre tramite mail a: biglietteriateatroalfieri@comune.asti.it, allegando la copia della carta di identità in formato pdf. La prenotazione sarò confermata via mail in prossimità dello spettacolo. Biglietti: 10 euro. Perugia. “Golose Evasioni 2024”, al carcere di Capanne cena di gala preparata dai detenuti chef centritalianews.it, 27 ottobre 2024 Il 21 novembre all’interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia si terrà l’ottava edizione di “Golose Evasioni”, una cena di gala preparata dai detenuti che hanno portato a termine un periodo di formazione svolto con rinomati docenti chef, tra i quali figura Ada Stifani, prima chef donna stellata in Umbria. La cena, aperta a tutta la cittadinanza, darà modo ai partecipanti di degustare un menu d’autore firmato dai nuovi aspiranti chef e addetti al servizio sotto l’attenta guida dei professionisti dell’alta cucina. “Golose Evasioni” è organizzata al termine di un corso di cucina, parte del progetto “Opportunità lavorative professionalizzanti”, sovvenzionato dal Ministero della Giustizia e gestito dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro. Nell’ambito del corso della durata di 215 ore, 10 detenuti ospiti della struttura hanno avuto la possibilità di apprendere il mestiere della cucina sotto la guida di esperti per prepararsi ad affrontare le future sfide culinarie. Obiettivo del progetto infatti è proprio quello di aprire le sbarre ad un futuro prosperoso per permettere ai detenuti di ritrovare la propria dignità, autostima e rinnovata socialità, fornendo loro competenze base su diverse professionalità in grado di operare in un contesto lavorativo propedeutico ad un successivo reinserimento nel mondo del lavoro. Da sempre sostenitrice di questo progetto di inclusione Ada Stifani, insieme ad altri rinomati colleghi, ha condiviso i segreti del mestiere con i nuovi aspiranti chef, dando loro modo di mettersi in gioco e aiutandoli a creare il gustoso menù che verrà proposto proprio in occasione della cena del 21 novembre. Il coraggio delle Donne del Muro Alto di Patrizia Pallara collettiva.it, 27 ottobre 2024 Dai laboratori teatrali con le detenute e le ex della sezione femminile di Rebibbia, uno spettacolo presentato alla Festa del cinema di Roma. Portare il teatro in carcere per fare uscire le detenute dal carcere. Un’evasione bella e buona, con la mente, certo, ma in qualche modo anche col corpo. È uno dei tanti obiettivi perseguiti e centrati dal progetto Donne del Muro Alto, che coinvolge le detenute della sezione femminile di Rebibbia, un muro nel muro dell’istituto penitenziario. Un percorso che dura da undici anni e che oggi vede la realizzazione di attività dentro e fuori quelle mura. Pregiudizi al femminile - “Il laboratorio è nato nel 2013 dopo un’esperienza fatta nel carcere maschile di Rebibbia”, racconta la regista Francesca Tricarico: “Ho iniziato a pormi delle domande: si parla sempre di carceri maschili, uomini che leggono libri, che fanno teatro, che si laureano. E le donne? Cosa fanno? In giro si racconta davvero poco di quel mondo e quel poco è pieno di pregiudizi: è difficile lavorare con le donne, vivono male la detenzione, ancor più portare a termine un progetto, e così via. Questo ha alimentato la mia curiosità. E così ho iniziato un percorso”. Abissi e giudizi - Con 380 detenute su 272 posti disponibili, tra cui due mamme con bambini, la casa circondariale di Rebibbia, un tasso di affollamento superiore alla media, conta due grandi reparti e quattro più piccoli, spazi verdi e un’azienda agricola. Nata negli anni Cinquanta, quando ospitava anche minorenni, oggi è il carcere femminile più grande d’Europa. Qui sono recluse donne che spesso vengono da esperienze di violenza, di abbandono, persone che hanno tutta la famiglia dietro le sbarre. “Ho vinto la grande diffidenza delle donne - prosegue Tricarico -: è più complesso, è vero, c’è più rabbia, ma quando entri in questa dimensione riesci a fare un lavoro notevole. Perché le donne sono molto coraggiose, non hanno paura di nuotare nei loro abissi e di essere giudicate. E dal reparto alta sicurezza il laboratorio è stato portato alle sezioni comuni, poi al carcere di Latina, quindi alla sezione transgender di Rebibbia nuovo complesso, dove si trovano le donne trans che non sono operate”. Teatro dentro e fuori - Un altro laboratorio fatto all’esterno, con attrici ex detenute, è diventato uno spettacolo dedicato al cinema e al teatro in carcere ed è stato presentato al museo Maxxi alla Festa del cinema di Roma, primo atto della nuova stagione: dentro le mura si lavorerà alla scrittura e alla realizzazione di una nuova pièce, da portare in scena in primavera nel teatro del penitenziario; fuori, la compagnia andrà in tournée in alcuni istituti di pena romani con l’Olympe de Gouges, la storia della paladina dei diritti delle donne durante la rivoluzione francese, finita in carcere e poi messa a morte con la ghigliottina. Proseguiranno inoltre per il secondo anno gli incontri di educazione alla legalità nelle scuole e le matinées per i ragazzi dello spettacolo Olympe a dicembre. Doppio stigma - “Per il laboratorio all’esterno è difficile trovare uno spazio adeguato per le prove”, conclude la regista: “Il progetto piace a tutti, ma poi scopri che sulle donne c’è un doppio stigma: perché hanno vissuto un’esperienza detentiva e perché sono donne. Io sono orgogliosa del loro coraggio e del coraggio dei loro figli che non si vergognano con i compagni di classe. Sono orgogliosa e anche onorata di lavorare con loro. È un’esperienza che ti cambia la vita per sempre. Quando perdi l’equilibrio, pensi a loro e tutto diventa immensamente piccolo. A livello umano ho più preso che dato. Devi fare anche tu un percorso, doloroso, ma il carcere mi ha regalato dieci anni di vita in più, per l’esperienza e l’umanità. Dopo, niente è più come prima”. Il potere della scrittura: premiate le voci dei detenuti al premio letterario “Città di Castello” Il Dubbio, 27 ottobre 2024 Celebrate per la prima volta le opere di detenuti, promuovendo l’inclusione e la crescita culturale all’interno degli istituti penitenziari e dimostrando come la scrittura possa diventare un potente strumento di speranza e riscatto. “Le cose come sono”, “L’infernale commedia” e “A mia madre” sono i titoli dei racconti scritti da tre persone recluse in alcuni istituti penitenziari che si sono classificati ai primi posti della sezione speciale della XVIIIesima edizione del Premio Letterario “Città di Castello”, la prima in Italia riservata ai detenuti grazie a un protocollo di intesa sottoscritto con il DAP - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dagli organizzatori della rassegna patrocinata dagli enti locali, regionali e nazionali. Oggi a Città di Castello si è svolta la cerimonia di premiazione. La scrittura come veicolo di inclusione - Si è svolta questo pomeriggio la cerimonia di premiazione della XVIIIesima edizione del Premio Letterario “Città di Castello” (ideato ed organizzato dall’Associazione Culturale “Tracciati Virtuali” e dalla Società Dante Alighieri, con il sostegno e patrocinio del comune, della Regione e Provincia di Perugia), alla quale sono intervenuti oltre 35 finalisti provenienti da ogni regione d’Italia e anche dall’estero. Per la prima volta in Italia sono stati premiati tre reclusi nelle carceri italiane, che si sono aggiudicati i primi tre riconoscimenti della nuova Sezione speciale, “Destinazione Altrove. La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”, promossa dal DAP, dalla Società Dante Alighieri e dall’Associazione Culturale Tracciati Virtuali. In questa nuova sezione sono state iscritte opere (poesie e racconti brevi) provenienti da 22 istituti penitenziari. Un Incarico di Crescita Culturale - Il Concorso Letterario Città di Castello è il primo in Italia ad avere istituito una sezione speciale rivolta alle persone recluse in tutti i penitenziari del paese con il nobile intento di contribuire alla crescita culturale delle persone recluse e al loro più completo recupero. Il progetto rientra fra le iniziative di collaborazione per favorire la crescita umana e culturale dei soggetti reclusi, come previsto dal protocollo d’intesa siglato il 28 marzo scorso con il DAP. I vincitori e le loro opere - Il primo classificato è risultato un recluso nella Casa Circondariale di Rebibbia - Roma, con il racconto “Le cose come sono”. Un testo autobiografico che racconta la sua vita dall’infanzia difficile fino alla condizione attuale di detenuto. L’autore scrive alla fine un grande messaggio di speranza: “Credo che ognuno di noi è fatto di luce e di buio in parti uguali. E quando sei immerso nelle tenebre puoi vedere una piccola luce dentro di te. È una piccola fiammella che vale la pena seguire perché un giorno potrebbe trasformarsi in un faro”. Come secondo classificato è risultato un recluso nella Casa Circondariale “Gozzini” di Firenze, con il testo poetico “L’infernale Commedia”. Il lavoro, a tratti autoironico e dissacrante della propria condizione, è una sorta di parodia della vita in carcere affrontata in metrica, alla maniera del sommo poeta Dante Alighieri. Terza classificata infine è risultata una reclusa nella casa circondariale di Latina con la poesia “A mia madre”: “Il componimento racconta l’amore verso la madre, il senso di vuoto dopo la sua scomparsa e la definitiva consapevolezza di sentirla sempre presente al proprio fianco.” Le loro opere, come tutte quelle dei vincitori delle varie sezioni, sono state declamate dalla straordinaria voce dell’attore, Piermaria Cecchini. Un futuro di iniziative culturali - Subito dopo la conclusione di questa edizione della sezione speciale verrà varata l’edizione 2025 e si cominceranno a promuovere iniziative all’interno degli Istituti penitenziari, come ad esempio presentazioni di libri, incontri con gli autori, corsi di scrittura creativa per cui gli organizzatori saranno lieti di raccogliere le disponibilità di tutti coloro che vorranno contribuire allo sviluppo di questo progetto. “Si tratta di un ulteriore e significativo passo in avanti dell’Amministrazione penitenziaria che sta procedendo con forte impegno a offrire ai detenuti in esecuzione della pena occasioni di rafforzamento educativo”, ha dichiarato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, nel corso della cerimonia di premiazione del concorso: “iniziative come questa danno una spinta molto importante per far sì che in questo mandato rieducativo che la Costituzione ci impone il detenuto possa finalmente non solo sentirsi ma essere effettivamente una persona diversa”. A testimoniare la straordinaria importanza di questo innovativo progetto è stata la partecipazione al momento conclusivo del premio della Vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, che ha sottolineato come “l’apertura della nuova sezione speciale del Premio Letterario Città di Castello destinata alle persone recluse rappresenta un’importante innovazione ed è per me veramente appassionante partecipare a un evento culturale che porta con sé un’idea di espiazione della pena in linea con quanto previsto dalla Costituzione. Iniziative come questa sono una grande opportunità di crescita culturale che per i detenuti si traduce in percorsi di umanizzazione degli Istituti di cui c’è assoluta necessità”. Altro intervento di grande valore e spessore culturale ed umano è stato quello del Procuratore Generale di Perugia, Sergio Sottani, che ha puntato l’attenzione “sull’importanza dello svolgimento di attività sportive e letterarie, oltre che più in generale, culturali per la finalità rieducativa della pena, sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari. La commissione di reati implica necessariamente una sanzione, ma lo scopo costituzionale della pena è sempre quello del reinserimento sociale del condannato e di ricomposizione della frattura determinata dal reato”. I riconoscimenti e il futuro del progetto - Per la sezione speciale sono intervenuti in video-conferenza, la senatrice Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia del Senato, che ha ringraziato gli organizzatori, i relatori ed il pubblico presente, “per essere stata coinvolta in questo progetto dove tutti i partecipanti sono da considerarsi vincitori, perché l’impegno artistico in uno stato della loro vita così complesso è da apprezzare. E questo in ragione delle difficili condizioni delle nostre carceri, dovute anche al sovraffollamento. La cosa bella di questa iniziativa è l’uso delle capacità, delle attitudini che diventano anche uno strumento di consapevolezza, uno strumento per crescere. Ci sono tre vincitori come previsto dal regolamento del concorso ma oggi hanno vinto tutti coloro che hanno partecipato con i loro scritti”. Il senatore Walter Verini, che ha avuto un ruolo preminente nella creazione di questa sezione speciale, ne ha spiegato il motivo e ragioni dell’impegno profuso. “Le carceri italiane sono in una situazione drammatica: suicidi, sovraffollamento, mancanza di personale, di formazione e lavoro. Non sono da Paese civile. Occorrerebbero interventi radicali, che purtroppo non si fanno. Poi ci sono iniziative come questa, che rappresentano un segnale, un seme di grande valore, di speranza. Dare voce e visibilità - con la poesia, con gli scritti - a persone che scontano una pena perché hanno sbagliato vuol dire che si crede nella possibilità di recupero. E quando un detenuto che ha pagato il suo debito con la società esce recuperato, non torna a delinquere. Investire in umanità vuol dire quindi rispettare la Costituzione, la civiltà e investire anche in sicurezza per la società”. Il professor Salvatore Italia, in rappresentanza della Società Dante Alighieri, ha sottolineato che “si tratta di un progetto di grande importanza che la Società Dante Alighieri appoggia con entusiasmo, un’esplorazione nell’abisso di sentimenti di persone costrette, loro malgrado, a vivere una condizione diversa”. Dal canto loro, i promotori del Concorso Letterario, Antonio e Andrea Vella, hanno dichiarato: “Se il periodo di detenzione nelle carceri, secondo l’ordinamento legislativo, deve essere soprattutto propedeutico al reinserimento dei detenuti nella società, il progetto va proprio in questa direzione”. Anche il sindaco di Città di Castello ha ribadito “l’importanza del premio letterario che porta il nome della città ed ora si è arricchito di una sezione speciale riservata a tutti gli Istituti penitenziari italiani di grande significato umano e valoriale: senza dubbio un vanto ed orgoglio per la comunità tifernate, per la sua storia e tradizione plurisecolare nel comparto della tipografia e grafica. Le istituzioni, il comune in testa, proseguiranno con rinnovato entusiasmo e determinazione a sostenere un progetto culturale e sociale che si è ritagliato con il trascorrere degli anni un ruolo di primissimo piano nel panorama nazionale”. Sul palco del teatro comunale degli Illuminati di Città di Castello, accanto al presentatore, Renato Borrelli, a premiare i vincitori delle singole sezioni ed in particolare di quella “speciale”, una rappresentanza dei membri della giuria che collaborano con il Presidente, Alessandro Quasimodo: dal giornalista, Marino Bartoletti, alla conduttrice di programma RAI, Benedetta Rinaldi, dalla regista, Emanuela Mascherini al docente Luiss, Luciano Monti, il giornalista, Osvaldo Bevilacqua, il Consigliere del Ministro per la Cultura, Claudio Mattia Serafin, il Consigliere Centrale della Società Dante Alighieri, Salvatore Italia, la scrittrice, Maria Borio, il Vicepresidente della Federazione delle Associazioni e dei Club per l’Unesco, Mauro Macale e la giornalista, Clementina Speranza. Draconzio, Boezio, Gramsci, teatro-carcere: prigionia e arte dal mondo antico a oggi di Alberto Fraccacreta Alias - Il Manifesto, 27 ottobre 2024 “La Musa incatenata” a cura di Maria Jennifer Falcone e Christoph Schubert, da Carocci I “girarrosti veri o supposti” del prigioniero montaliano, nella seconda delle conclusioni provvisorie della Bufera e altro, celano forse più di un contatto con Il prigioniero (1944-48) del compositore Luigi Dallapiccola, emblema di una reclusione esistenziale comunque irraggiata da una scintilla di speranza. I rapporti tra ispirazione artistico-concettuale e detenzione - metonimica, reale - segnano una lunghissima traiettoria che affonda le sue radici nel mondo antico e raggiunge a bomba il contemporaneo (e il bombarolo di De André che rinuncia alla sua “ora di libertà” può valere da solida metafora). La Musa incatenata. Prigionia e arte dall’antichità all’età contemporanea” (a cura di Maria Jennifer Falcone e Christoph Schubert, con la collaborazione di Edoardo Galfré, Carocci, pp. 320, € 34,00) è un’amplissima rassegna a più voci che indaga tali nessi e la loro pregnanza extra-topologica con un metodo rigorosamente multidisciplinare (à la Morin, per intenderci): si intersecano, infatti, prison literature, storia della filosofia e della musica, materiali iconografici, documenti d’archivio, laboratori di tipo teatrale. Come scrivono Falcone e Schubert nella premessa al florilegio: “Questo volume fa continuamente riferimento all’esperienza del carcere, che sia personale e diretta oppure solo indiretta, nonché all’immaginario carcerario che la società elabora a partire da queste esperienze e che è alla base di quei processi artistici e intellettuali che proprio da queste esperienze e da questo immaginario sono scaturiti”. Divisa in quattro parti, precedute da un prologo e un’introduzione che mette in chiaro alcuni problemi d’impostazione, la Musa incatenata - frutto di un convegno di studi tenutosi a Villa Vigoni nel febbraio 2022 che coinvolgeva specialisti di antichità e modernità - prende le mosse da Socrate, Cicerone, Paolo di Tarso, i martiri cristiani bizantini, Blossio Emilio Draconzio, Aratore e Severino Boezio. Lo sguardo si sposta poi sulle carceri operistiche tra Sei e Ottocento e sulle scene di prigione nelle opere di Georg Philipp Telemann e Dallapiccola, fino alle riflessioni di Antonio Gramsci e all’etica socratica dei resistenti tedeschi nelle galere del Terzo Reich. Infine, si considerano le pratiche di teatro-carcere con casi particolari relativi alla Tempesta scespiriana, alla Sala Prove dell’Istituto penale per i minorenni “Fornelli” di Bari e al Teatro patologico di Roma. L’obiettivo di fondo è un lavoro sul campo nella dimensione teoretica e prasseologica: ben oltre sterili curiosità accademiche, l’intenzione è dare luce nelle fessure delle sbarre, lasciar passare un messaggio di riscatto interiore. Un momento emblematico della miscellanea riguarda il già citato Draconzio, poeta cristiano, “esponente di spicco dell’élite culturale nordafricana durante l’età vandalica (seconda metà del V secolo d.C.)” che - ricorda Falcone - “è stato privato della libertà in circostanze non del tutto chiare e ha disseminato le tracce di questa esperienza nelle sue opere”. Finito ai ceppi durante il regno di Guntamundo per una “colpa” ignota, Draconzio scrive un carme enigmatico, la Satisfactio, costituita da trecentosedici distici elegiaci che si configurano come supplica per il rilascio e orazione a Dio, del quale si loda peraltro la clementia. Un elemento fondamentale del testo è il tempo, vero e proprio Leitmotiv di tutta la “poesia di prigione”: “Tempora servare iussit et ipse Deus. / Horam quaesivit faciens miracula Christus; / horam speravit passio sancta crucis” (“Fu Dio in persona a ordinare di osservare i tempi. Cristo attese il momento giusto per compiere i miracoli; la passione santa della croce attese la sua ora”, traduzione di M. J. Falcone). Ricalcata sull’Ecclesiaste, la sezione “temporale” della Satisfactio si conclude con l’idea che Dio è padrone assoluto degli evi e delle età, e questo serve a ribadire - sagacemente - che l’ira del sovrano deve avere la sua durata: un periodo limitato. Altro snapshot interessante è legato al concetto di “trasformazioni molecolari” nei Quaderni di Gramsci. Esse hanno attinenza con la volontà collettiva e la fabbrica del consenso costruita ad hoc dalle dinamiche totalitarie: una “rivoluzione passiva” che lascia però intravedere la filigrana di costrizione in cui sono incasellate esistenze pseudolibere. Osserva giustamente Francesca Antonini a commento del passo gramsciano: “Se ognuno, nella contemporaneità, è sottoposto a un processo di trasformazione molecolare, tanto sul piano collettivo quanto su quello individuale, ognuno è di fatto un “prigioniero” - e, paradossalmente, l’unico che se ne rende davvero conto è proprio colui che più di tutti il carcere lo subisce”. Ancora una volta la segregazione è pura immagine di una condizione ben precisa: quella dell’uomo tout court, nella più fulgida attesa di essere prosciolto da sé stesso e dalle proprie opprimenti gabbie per volgere il passo nel territorio del tu, il continente dorato della pienezza. Da Palermo a Torino contro ogni guerra: “Il tempo della pace è ora” di Luca Liverani Avvenire, 27 ottobre 2024 Pacifisti in 7 città (anche Milano, Firenze, Roma, Bari, Cagliari). Sergio Bassoli della Rete pace e disarmo: da Gaza all’Ucraina, cessate il fuoco, aiuti, diritto internazionale e giustizia. Cessate il fuoco. Aiuti. Diritto internazionale. Fine dei “doppi standard”. E Nazioni Unite di nuovo in grado di arbitrare e ricostruire la giustizia, indispensabile per la sicurezza. Sergio Bassoli, coordinatore dell’esecutivo della Rete italiana pace e disarmo, elenca le richieste del popolo pacifista - ambiziose “ma sicuramente più realistiche di chi crede che la pace si ottiene con la vittoria” - oggi in piazza in sette manifestazioni che animeranno tutto il Paese, da Nord a Sud isole comprese. “Il tempo della pace è ora. Prima che sia troppo tardi”. Perché manifestare ancora e perché in sette città invece che in un solo raduno nazionale? Sette città insieme come i sette colori della bandiera arcobaleno della pace. Abbiamo voluto mobilitare tutto il Paese, permettendo di “esserci” a chiunque lo voglia, riducendo le distanze e i costi di un viaggio a Roma. Isole comprese. C’è un desiderio diffuso di esprimere il rifiuto della guerra, percepito sui territori nelle mobilitazioni precedenti delle “cento città”. Un unico evento avrebbe tagliato fuori molte persone. Per le cinque reti promotrici è una tappa importante verso la prossima Marcia della Pace Perugia-Assisi del 12 ottobre 2025, dove rilanceremo l’”Onu dei popoli”, per rinnovare lo spirito della carta costitutiva. Cinque reti pacifiste (Europe for peace, RetePace e Disarmo, Fondazione PerugiaAssisi, AssisiPaceGiusta, Sbilanciamoci!) unite per dare un forte segnale all’opinione pubblica sull’emergenza che viviamo. È chiaro che i conflitti hanno una saldatura tra di loro, che la guerra è ormai un’opzione possibile per la politica che pensa in questo modo di risolvere i conflitti e imporre nuove egemonie. Il tempo della pace è ora. Non possiamo più rinviare, non siamo più disponibili ad accettare violazioni eclatanti del diritto internazionale, che ci fanno scivolare nel buco nero di una guerra globale tra potenze nucleari. In Ucraina c’è una fase di stallo. Nonostante l’invio di armi sempre più sofisticate, presentate ogni volta come risolutive... Uno stallo sul campo, ma con un pericolosissimo allargamento: penso ai 12 mila soldati nordcoreani arruolati da Mosca, all’asse tra la Russia con l’Iran oltre che con la Cina. In Ucraina c’è una sofferenza enorme e una disgregazione della società. Ma anche in Russia, dove il dissenso è represso, oltre un milione di persone è espatriato. Non c’è possibilità di arrivare a un esito, finché si insegue la vittoria. Mosca è una potenza nucleare, difficile che si rassegni a una sconfitta. Il segretario della Nato, Rutte, considera ineluttabile l’ingresso di Kiev nell’Alleanza... Non proprio un segnale di distensione verso una soluzione diplomatica. Nei nostri incontri durante le carovane di aiuti, gli ucraini ci hanno sempre ribadito il desiderio di entrare nell’Unione europea. L’ingresso nella Nato più che una deterrenza sarebbe una ulteriore dichiarazione di guerra. A Gaza il conflitto è esondato in Cisgiordania, Libano, forse anche Iran. Israele non sembra esitare... Era abituata alle guerre lampo combattute dai riservisti, ora sta cercando soldati tra i richiedenti asilo, in Eritrea, tra i mercenari sudanesi. È la guerra più lunga che ha mai combattuto. Le guerre sono di nuovo strumento di colonizzazione economica, ma con sistemi molto più distruttivi che mettono a rischio l’umanità e il Pianeta. Abbiamo assoluto bisogno che nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie si comprenda questo rischio e si rimetta al centro l’impegno per la pace. Dopo la II guerra mondiale, con le Nazioni Unite si consolidò il diritto internazionale fondato sul ripudio della guerra. Serve quel clima politico e culturale. Proprio l’Onu, da tempo definanziata e svuotata politicamente, è nel mirino di Israele. Letteralmente... Si sta delegittimando l’unico strumento sovranazionale che può governare il mondo. L’Onu per alcuni è un ostacolo da rimuovere. Le nostre istituzioni stanno perdendo di vista questa crisi drammatica. Stiamo su una nave che sta affondando, ma continuiamo a ballare il valzer. E poi questo spargimento di odio a ogni latitudine: lo pagheranno le future generazioni. La vittoria è una via illusoria. E la corsa al riarmo è un danno enorme per le nostre società. perché toglie risorse alla spesa pubblica. Ora la priorità assoluta è fermare le mattanze in corso. E dire basta al doppio standard: non è possibile continuare a fornire armi agli ucraini, e lasciar massacrare i palestinesi con armi fornite a Israele dall’Occidente. L’integrità territoriale dell’Ucraina è intangibile? E quella della Palestina, violata da decenni? Serve una conferenza internazionale di pace, con tavoli sui singoli teatri di conflitti. Per costruire la giustizia, perché senza, non c’è sicurezza comune e non ci sarà mai pace. Migranti. Diritto d’asilo, sistema Ue: perché non serve “buttarla in politica” di Renato Balduzzi Avvenire, 27 ottobre 2024 Fanno discutere i provvedimenti con cui il Tribunale di Roma ha negato la convalida dei trattenimenti di cittadini stranieri trasferiti nelle strutture costruite in Albania, motivata con l’assenza dei presupposti di applicabilità della procedura accelerata in frontiera, in quanto i Paesi di provenienza, ai sensi di una direttiva europea come recentemente interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione, non sarebbero da considerare sicuri. Ne deriva una considerazione quasi ovvia: si tratta di una controversia giuridica, non politica. “Buttarla in politica”, gridare alla politicizzazione della magistratura, non giova alla comprensione delle questioni e fa, ancora una volta, male allo stato di salute della nostra democrazia: in uno Stato costituzionale di diritto si deve distinguere tra sin dove può arrivare la discrezionalità della politica e quando comincia il rispetto delle regole costituzionali, alle quali anche la politica è tenuta a sottostare. Il nucleo della discussione è il rapporto tra norme nazionali e norme europee. Aderendo all’Unione europea, l’Italia ha acconsentito a limitazioni della sovranità finalizzate, per usare il lessico dell’articolo 11 della Carta che ne ha costituito inizialmente la sola base giuridica, alla costruzione di un ordinamento che assicuri pace e giustizia tra le nazioni. Con una revisione costituzionale del 2001, è stato sancito nel primo comma dell’art. 117 Cost. l’obbligo per le leggi dello Stato e delle regioni di conformarsi ai vincoli europei. Ciò comporta, tra l’altro, che, in caso di contrasto tra una norma europea avente efficacia diretta e una norma nazionale, quest’ultima è destinata soccombere, dovendo i giudici disapplicarla a favore di quella europea. L’efficacia diretta, che è il presupposto per tale disapplicazione, è riconosciuta non solo a tutte le norme contenute in un regolamento dell’Unione europea e a quelle contenute in direttive direttamente applicabili, ma anche alle decisioni della Corte di giustizia che si pronunciano sulla validità o sull’interpretazione del diritto eurounitario. Inoltre, è fatto salvo il rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili, che compete alla Corte costituzionale verificare. Poiché la disapplicazione di cui si è parlato può concernere anche norme di rango legislativo, avere adottato un decreto- legge per stilare la lista dei Paesi cosiddetti sicuri (i provenienti dai quali dunque possano essere soggetti alla procedura accelerata) non muta i termini della questione, poiché i giudici nazionali potranno comunque disapplicarne le norme ove le reputino in contrasto con la direttiva europea, e perché continua a competere loro la verifica circa la circostanza che un Paese, definito in via generale “sicuro”, possa non esserlo con riferimento a determinati gruppi sociali, religiosi o politici: secondo la Corte di giustizia tale situazione osterebbe oggi a qualificarlo come sicuro, mentre soltanto a partire dal 2026 ritornerebbe in vigore la precedente clausola che lo permetteva. Aggiungo che tale decreto-legge prevede che l’aggiornamento dell’elenco di tali Paesi vada fatto con atto avente forza di legge e dunque presumibilmente un decreto-legge, così accentuando l’eccessivo ricorso a tale fonte. Senza contare che, consistendo esso in una reazione a provvedimenti giurisdizionali di primo grado, se ne enfatizza il carattere di legge-provvedimento, suscettibile di venire censurata dalla Corte costituzionale in quanto viziata da eccesso di potere legislativo. Perché allora ricorrere a un decreto legge, per giunta di dubbia costituzionalità, quando il Governo ha a disposizione i rimedi consueti, a cominciare dal ricorso in Cassazione? Perché, appunto, “buttarla in politica”? Ora, la materia dell’asilo è oggetto di un vero e proprio “sistema europeo comune di asilo”, che dovrebbe costituire un vanto per l’Unione Europea e per i singoli Stati che la compongono, proprio perché trova le proprie radici nella necessità di protezione della persona umana e nei principi dello Stato di diritto. A una condizione: che si tratti davvero di una politica comune, cioè che nessuno Stato membro sia lasciato a sé stesso, che l’Europa impari a parlare con una sola voce anche su tali materie. Ciò richiede, tuttavia, convinzione nella bontà del percorso europeo, oltre che capacità e volontà di essere autorevoli ai tavoli europei. Che stia proprio nella debolezza di tali premesse la risposta alle domande precedenti? Migranti. “Malta, Libia e Tunisia non rispondono mai. L’Italia sì”. di Chiara Sgreccia Il Domani, 27 ottobre 2024 La comunicazione delle Ong con le autorità. Domani è a bordo della Life Support, la nave di Emergency, per documentare cosa succede durante le missioni nel Mediterraneo. Abbiamo parlato con il comandante per capire quali sono le procedure da rispettare durante un salvataggio. “Ricordo bene le grida di una bambina. Avrà avuto due anni. Era sulla barca con la madre insieme a una cinquantina di altre persone. Era notte e il suo pianto squarciava il buio”, racconta Domenico Pugliese, 53 anni, comandante della Life Support, la nave di Emergency per ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, area in cui con la fine della missione Mare Nostrum sono rimaste solo le navi civili a monitorare il mare con l’obiettivo di assistere i naufraghi in difficoltà. “Dopo qualche ora a bordo della Life support la bambina si è tranquillizzata. Ma ogni volta che ci ripenso mi tornano in mente i suoi occhi enormi, spalancati. Così rifletto sulle esperienze terribili che deve aver vissuto, in soli due anni”, spiega ancora Pugliese che ricorda come fosse oggi i soccorritori prendere la bambina dalle braccia della madre, per portala al sicuro. E il suo pianto profondo, potente, probabilmente motivato dall’incapacità di comprendere che cosa le stava succedendo attorno. “Ho passato una vita in mare, sono più di 20 anni”, racconta Pugliese, che a casa, a Napoli, ha tre figli, alla guida della Life support fin dalla prima delle 25 missioni, nel dicembre 2022. Prima, lavorava per le navi commerciali, quando ha ricevuto la proposta dall’ong italiana si è preso del tempo per riflettere: “Perché era un’esperienza profondamente diversa da quanto avevo fatto fino ad allora. Ho accettato e infatti mi ha cambiato. Oggi comprendo la realtà di chi sceglie di partire, la disperazione ma anche il coraggio. La necessità di recuperare la dignità personale”. Pugliese spiega che solitamente arriva una telefonata per segnalare le imbarcazioni in difficoltà nel mediterraneo. Anche se quando la Life Support è in navigazione lo staff Emergency è organizzato in turni di guardia continui, notte e giorno, per monitorare il Mediterraneo. “La maggior parte delle volte la segnalazione proviene da enti riconosciuti, come il progetto Alarm Phone. Ma può succedere anche che ci arrivino chiamate anonime. In quei casi verifichiamo sempre l’informazione prima di muoverci. E prima di allertare le autorità italiane, maltesi libiche e tunisine. Non ci risponde mai nessuno, solo il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo italiano (Mrcc ndr)”. Una volta note le coordinate, la Life Support si dirige verso l’imbarcazione in distress, in difficoltà. “Dall’arrivo fino a quando il soccorso non si conclude comunichiamo costantemente con le autorità italiane. Che dopo qualche ora ci informano sul porto verso cui dobbiamo dirigerci”. Il comandante della nave di Emergency spiega di non sapere le motivazioni sui ci si basa l’assegnazione del luogo di sbarco. Così come, da quando il decreto Piantedosi sul soccorso in mare è legge, non sono chiare le ragioni che permettono di effettuare altri soccorsi dopo il primo: “A volte siamo stati autorizzati a soccorrere più imbarcazioni in difficoltà, durante una missione siamo arrivati fino a cinque, altre volte no. Lo stesso vale per lo sbarco, le autorità ci indicano dove andare e noi seguiamo le direttive”, chiarisce, sottolineando che i porti italiani in cui la Life Support ha attraccato sono tanti e diversi: da Siracusa, Augusta, Napoli, per dirne alcuni, a Livorno o Ravenna a quattro giorni di navigazione. “Il danno in questi casi è a noi per i costi della missione che lievitano. Ma soprattutto per i naufraghi. Già provati da enormi sofferenze e difficoltà durante la loro fuga”, conclude il comandante pochi secondi prima che un sorriso allarghi il suo volto: “Sono io ad annunciare il porto di sbarco. È un evento. Un evento piacevole anche se il porto assegnato è lontano. Perché così i naufraghi sanno che arriveranno in Italia, in un luogo sicuro, e qualcuno potrà finalmente aiutarli”. Migranti. Il ministro Tajani dice che i Centri in Albania sono come hotel a tre stelle di Luca Pons fanpage.it, 27 ottobre 2024 I Centri costruiti in Albania per trattenere le persone migranti in attesa che venga lavorata la loro richiesta di asilo sono “non dico come un hotel a cinque stelle, ma almeno di tre, molto meglio di certi centri italiani”. Lo ha affermato il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia Antonio Tajani. “Non ci sono carceri o segregazione”, ha aggiunto. Nel trasferimento dei migranti in Albania “non c’è alcun razzismo, così come non ci sono carceri o segregazione”. Parola di Antonio Tajani, il vicepremier e ministro degli Esteri che, nel suo intervento a un evento di Forza Italia in corso a Palermo, ha difeso le strutture costruite dal governo elogiandole. “Lì ci sono condizioni nelle quali la dignità delle persone viene assolutamente rispettata”. Il paragone è stato con gli hotel: “Sono, non dico come un hotel a cinque stelle, ma almeno di tre stelle, con l’aria condizionata, con i letti, le coperte, con i materassi”. E, anzi, “sono migliori addirittura di certi centri che abbiamo in Italia”. Le immagini disponibili dei centri albanesi in questione, però, mostrano più che altro dei campi di detenzione. Numerosi container di piccole dimensioni, con stanze che possono ospitare a malapena un letto a castello e un armadio, e con uno spazio aperto costantemente sorvegliato e rinchiuso da alte grate, anche sul ‘soffitto’. “Certo, sono centri chiusi, dai quali non si può scappare”, si è limitato a commentare Tajani. “È un esempio innovativo che è stato considerato come interessante novità, a cominciare dalla Commissione europea”, ha insistito il ministro degli Esteri. “Abbiamo detto che si poteva aprire un centro in Albania, Paese candidato a far parte dell’Ue, creando un centro nuovo di zecca. Serve per coloro che vengono da un Paese sicuro, che sono accompagnati lì e si resta sotto autorità italiana e poi viene valutata la posizione”. Le condizioni effettiva di vita all’interno dei centri, per il momento, non sono ancora davvero state messe alla prova. Le prime sedici persone arrivate a Shengjin (dove c’è il centro per le procedure di prima accoglienza) e poi trasferite a Gjader (dove si trova il centro per il trattenimento vero e proprio in cui aspettare l’esito della propria domanda di asilo, insieme a un Cpr per rinchiudere chi deve essere rimpatriato) se ne sono andate dopo pochi giorni. Il motivo, come è noto, è che i giudici del Tribunale di Roma non hanno convalidato il loro trattenimento, ritenendo che non rispettassero i requisiti richiesti. Infatti, i dodici rimasti a Gjader (altri quattro erano già tornati Italia, due perché minorenni e due perché fragili) venivano da Bangladesh e Egitto. Paesi che il governo Meloni ritiene sicuri, come ha ribadito anche in un decreto legge di ‘sfida’ ai magistrati. Invece secondo i giudici, applicando i criteri della Corte di giustizia europea e dei regolamenti Ue, non si potevano ritenere sicuri. Tajani ha commentato la decisione dei giudici: “È stata fatta negando la possibilità di farli stare lì. Prevede che questi tornano in Italia e sono liberi, se poi non li si trova più non possiamo farci niente”. In realtà, le dodici persone trasferite dall’Albania a Bari sono state inserite nel normale sistema di accoglienza italiano, e dovranno attraversare una trafila legale per capire se le loro richieste di asilo sono valide o saranno respinte. In ogni caso, il leader di Forza Italia ha insistito: “Sono tutti Paesi sicuri quelli da cui vengono, non c’è nessun razzismo, così come non ci sono carceri o segregazione nessun carcere e nessuna segregazione” in Albania. Dopo il primo intervento dei giudici romani, i trasferimenti nei centri si sono fermati. Più volte, il governo Meloni ha evitato di rispondere a chi chiedeva quanto fosse costato trasportarli lì: sedici persone, portate su una nave della Marina militare, e poi riportate in Italia su un’imbarcazione della Guardia costiera. In ogni caso, Tajani ha assicurato che le operazioni riprenderanno: “Assolutamente sì, è un progetto preso a modello e a esempio in tanti Paesi. Noi abbiamo deciso di inviare i migranti in un Paese che è candidato a far parte dell’Ue, e che ha quasi finito il suo percorso, non in carceri ma in luoghi d’accoglienza, in attesa del trasferimento nei Paesi d’origine di coloro che non hanno diritto ad essere considerati rifugiati”. Migranti. Cpr di Macomer, rimpatriato solo il 24%. E la metà esce per decorrenza dei termini” L’Unione Sarda, 27 ottobre 2024 Tra il 2020 e il 2023 solo il 24% dei migranti ospitati nel Cpr di Macomer è stato rimpatriato, un dato significativamente più basso rispetto alla media nazionale. È uno dei dati che emerge dal rapporto “Trattenuti 2024” di Action Aid Italia. Il dossier restituisce la fotografia del centro sardo di permanenza per i rimpatri e snocciola diversi dati. Nel periodo 2020-2023, ad esempio, il Cpr di Macomer ha registrato una media di 43 presenze giornaliere e di 222 ingressi annuali, 273 nel 2023. Vi fanno ingresso molti detenuti: la percentuale di ingressi dal carcere (29% nel periodo e 28% nel 2023) è significativamente più alta rispetto alla media nazionale. Il tempo di permanenza medio è stato di 68 giorni (quasi il doppio rispetto alla media nazionale), 52 giorni nel 2023, e l’incidenza dei rimpatri pari al 24% (un dato più basso della metà rispetto alla media nazionale del periodo), 36% nel 2023. Molto più alta rispetto alla media nazionale anche la percentuale media di uscite per decorrenza termini del trattenimento, che raggiunge il 48% degli ingressi (il 29% nel 2023). Ex detenuti - “Il Cpr di Macomer - si legge nel report di Action Aid - di fatto funziona come una propaggine del carcere. Il dato si spiega forse con la configurazione materiale del centro, che è ospitato da un ex carcere di massima sicurezza e che potrebbe renderlo agli occhi del Ministero dell’Interno una struttura idonea ad ospitare ex detenuti”. “Il dato sulle persone tradotte dal carcere unito al tempo di permanenza medio e all’alta percentuale di uscite per decorrenza termini mostrano come le persone in uscita dalle carceri sono tuttavia più difficili da espellere e, di conseguenza, restano trattenuti più a lungo”, commenta Giuseppe Campesi dell’Università di Bari, tra i massimi esperti in Italia di detenzione amministrativa e rimpatri. Che aggiunge: “L’ulteriore periodo di trattenimento e? dunque doppiamente afflittivo, poiché in gran parte ingiustificato alla luce della scarsa probabilità di eseguire un rimpatrio”. I costi - Il report analizza anche i costi per la gestione del centro, ritenuti “esorbitanti”. Nel periodo 2020-2023, il Cpr di Macomer ha avuto un pro-capite pro-die medio di euro 37,94 (40,18€ nel 2023), largamente al di sopra della media nazionale. Nello stesso periodo il costo complessivo della struttura è stato di oltre 5 milioni di euro, di cui il 41% spesi per costi di manutenzione straordinaria. Ancora, nel 2023 il Cpr di Macomer è costato complessivamente poco più di un milione di euro, per un costo medio di un singolo posto di quasi 21mila euro”. “Costi esorbitanti - prosegue il dossier - ma sottostimati, poiché non includono “spese accessorie” come quelle connesse alla presenza delle forze dell’ordine impegnate a presidio della struttura. A Macomer, ad esempio, costa di più garantire loro il solo vitto e alloggio che gestire il Cpr: 5 milioni e 800 mila euro tra 2020 e 2023 che, sommati a quanto speso per la sola struttura, portano il costo medio di un posto a superare i 52mila euro nel 2023”. “Nel contesto sardo - conclude la nota dell’associazione - queste politiche sembra stiano di fatto determinando un preoccupante mutamento della vocazione lavorativa del territorio, al punto di basare l’occupazione locale proprio sull’indotto generato dall’ex carcere di massima sicurezza”. Stati Uniti. Di nuovo condannato a morte dopo essere sopravvissuto all’iniezione letale di Sergio D’Elia* L’Unità, 27 ottobre 2024 Ne avevamo parlato a febbraio, proprio su questa pagina, con un articolo di Valerio Fioravanti. Lo Stato dell’Idaho aveva tentato di far fuori con una iniezione di veleno Thomas Eugene Creech, detenuto da oltre 50 anni nel braccio della morte. Tre agenti “volontari”, passati troppo in fretta dalla custodia e mantenimento in vita dei condannati alla pratica paramedica della loro messa a morte, dopo un’ora di accanimento sul corpo del “povero cristo” inchiodato alla lettiga a forma di croce, si erano fermati. Dopo otto tentativi falliti di inserire gli aghi per i farmaci velenosi in diverse vene delle braccia e delle gambe, l’esecuzione era stata sospesa e l’uomo era stato riportato in sezione, nella sua cella nel braccio dei morti viventi. Creech è diventato noto all’interno delle mura dell’Idaho Maximum Security Institution semplicemente come “Tom”, un uomo che occasionalmente scrive poesie ed è generalmente considerato una persona ben educata. La sua richiesta di clemenza prima dell’ultimo tentativo di esecuzione ha trovato il sostegno dello stesso giudice che lo ha condannato a morte, di un ex direttore del penitenziario e dei guardiani che hanno raccontato come ha scritto loro poesie di sostegno o di condoglianze. L’Ottavo Emendamento della Costituzione americana vieta le punizioni “crudeli e inusuali” quando possono durare sessanta minuti, ma non vieta la condanna a “vivere” per mezzo secolo nei bracci della morte. Non vieta neanche la crudele e inusuale intenzione di uccidere con lo stesso metodo lo stesso uomo una seconda volta. Tant’è, i funzionari della prigione dell’Idaho tenteranno di giustiziare il condannato a morte più longevo dello Stato il mese prossimo utilizzando nuovi protocolli al posto di quello pasticciato al primo tentativo diversi mesi fa. Un giudice ha emesso un altro mandato di morte per Thomas Eugene Creech una settimana fa, dopo che il Dipartimento di correzione dell’Idaho ha annunciato di aver ristrutturato la sua camera di esecuzione per consentire alla squadra della morte di inserire cateteri in profondità nel collo, nell’inguine, nel torace o nelle braccia dei detenuti se non sono in grado di stabilire una linea endovenosa periferica standard. In base al nuovo ordine di esecuzione, Creech verrà giustiziato alle 10 del mattino del 13 novembre 2024. La sola descrizione di come gli architetti del nuovo patibolo hanno immaginato debba avvenire il prossimo supplizio, dovrebbe bastare a convincere i patiti della pena di morte in America e nel mondo che è giunta l’ora della fine anche dell’iniezione letale, la versione “dolce, civile, umana” dell’omicidio di stato, che è praticato tanto nel mondo libero, l’America, quanto in quello illiberale, la Cina, l’altra faccia del mondo, tanto opposta quanto simile in questo alla prima. Dopo la teoria infinita dei mezzi per metterla in pratica - dalla forca al plotone di esecuzione, dalla camera a gas alla sedia elettrica -, anche la pena di morte tramite iniezione letale non si sottrae alla maledizione dei mezzi che pregiudicano i fini, di uno Stato che in nome di Abele diventa Caino. Sentite come intendono fare giustizia gli ingegneri della morte dell’Idaho, lo Stato del nord americano famoso per le sue montagne maestose e la sua produzione di patate. Il Dipartimento di correzione ha annunciato di aver rifatto la camera della morte in senso più “chirurgico” per consentire al plotone di esecuzione di inserire cateteri venosi centrali nei condannati se non è possibile stabilire una flebo periferica. La procedura di catetere centrale prevede che un medico decida se utilizzare la vena giugulare nel collo, la vena femorale nell’inguine o altre grandi vene vicino alla clavicola o nella parte superiore del braccio. Addormentano la zona con un anestetico locale prima di usare un ago per inserire una guida nella grande vena. Il tessuto molle che circonda il sito di puntura viene quindi allargato usando un bisturi e uno strumento di dilatazione prima che il catetere venga infilato sulla guida. Una volta che il catetere è all’interno della vena, viene guidato i n una posizione appena fuori dal cuore con l’aiuto di un ecografo. Il protocollo stesso contempla la possibile manifestazione di segnali che indicano un inserimento improprio del catetere centrale: dal “sanguinamento rosso vivo dal sito di puntura” a “un cambiamento nei segni vitali del paziente”. Sarebbe davvero preoccupante un “cambiamento nei segni vitali” prima che il “paziente” nelle mani dello Stato sia messo a morte per mano dello Stato! Se dovesse accadere una seconda volta nella vita di Thomas Eugene Creech il fallimento della sua morte, lo Stato dell’Idaho ha comunque predisposto una terza via. L’anno scorso, il governatore repubblicano Brad Little ha firmato una legge che consente allo Stato di utilizzare un plotone di esecuzione per giustiziare i condannati quando l’iniezione letale non è disponibile. Il cerchio si chiude, via via, di mezzo in mezzo, si torna al punto di partenza, alla pena di morte crudele e inusuale, allo Stato-Caino. *Nessuno Tocchi Caino Russia. La rete di sostegno dei prigionieri politici di Memorial Italia huffingtonpost.it, 27 ottobre 2024 “Non arretriamo, l’ingiustizia non prenderà il sopravvento”. Il sostegno ai prigionieri politici attraverso lo sguardo di coloro che lo offrono: “Ovviamente, la cosa di cui ha più bisogno è la libertà, ma quella non posso procurargliela né spedirgliela con il Servizio Penitenziario Federale. Però posso esprimergli tutto il mio amore continuando a lottare per lui”. Attualmente, in Russia, più di 1.300 persone sono private della libertà per motivi politici. Intorno a loro si formano comunità di parenti e amici, sostenitori e attivisti, che cercano di sfondare il vuoto carcerario. Raccolgono fondi per avvocati e pacchi di beni essenziali, ma riescono anche a procurare una rara edizione della Bibbia, a salvare un gattino dal centro di detenzione preventiva, a sparare dei fuochi d’artificio sotto le finestre della cella d’isolamento e a informare la società civile sulle torture. Di tutto questo, ma anche del burnout e della stanchezza dovuti a questo tipo di lavoro gratuito, è trattato nel testo di OVD-Info. “Una persona non deve perdere l’agentività” - Liza ha ventitré anni. Vive a San Pietroburgo, ha i capelli corti e chiari, i dilatatori ai lobi e occhi scuri ed espressivi. In questo momento, è accovacciata a terra e sta impacchettando alimenti per Paša Sinel’nikov, detenuto da più di un anno per il caso “Vesna”. Paša si trova in uno dei più noti centri di detenzione preventiva della Russia, il SIZO n. 1 “Kresty”. Nei sacchetti finiscono verdura e frutta, confezioni colorate di noodles istantanei, cracker, formaggio, barrette di cioccolato, cereali, dentifricio e sapone. Bisogna fare in tempo a compilare moduli e inventari. All’alba Liza si recherà a Kolpino, dove si trova “Kresty”. Lo fa più volte al mese. Liza e Paša si sono conosciuti dopo il suo arresto e ora attendono l’autorizzazione del giudice per sposarsi. Si tratta di uno dei pochi modi per sostenere una persona in prigione: le visite in carcere sono permesse solo all’avvocato e ai parenti stretti; per gli amici e i partner è impossibile ottenere il permesso di vedere il detenuto. Del resto, i condannati per motivi politici spesso vengono privati anche delle visite a cui hanno diritto per legge. Molto tempo prima di tutto questo, Liza aveva fatto amicizia con [un altro imputato del caso “Vesna”]. Ženja Zateev e sua moglie Lina. Liza brontola ancora ricordando la leggerezza con cui Ženja reagiva agli avvertimenti degli amici su un suo possibile arresto e come non sia fuggito dal paese. Ora Ženja, come Paša, è detenuto nel centro di detenzione “Kresty” di San Pietroburgo. “Capisci, per un anno intero gli abbiamo detto: ‘Ženja, te ne devi andare. Finirai in prigione!’”, si dispera Liza. Un anno prima dell’arresto, a Zateev erano già stati imposti alcuni divieti: non poteva uscire di casa di notte, né usare Internet, né partecipare a riunioni e parlare con i suoi compagni. Per tutto questo tempo, gli amici lo hanno implorato di andarsene. Lui ha sempre rifiutato, categorico. “Tutti ci preparavamo lentamente, tutti tranne lui. Era convinto che sarebbe andato tutto bene!”, si infuria Liza. “Forse sperava in una sospensione della pena, ma sapevamo perfettamente che non sarebbe successo. Chiedeva continuamente a Lina: ‘Perché leggi libri sulle prigioni? Perché studi tutte quelle cose?’ - E che cavolo, Ženja, come te lo devo spiegare più chiaramente?! Alla fine quelle conoscenze ci sono servite, perché è stato arrestato.” Ženja non voleva lasciare sua nonna, alla quale era molto legato. Natalija Veniaminovna è morta a gennaio di quest’anno, quando il nipote era già in carcere. La madre di Ženja è morta il 22 maggio per insufficienza cardiaca. Aveva 53 anni. Zateev e Sinel’nikov, insieme ad altri imputati del caso “Vesna”, sono stati arrestati il 6 giugno dello scorso anno. “Tutti gli imputati avevano amici che sono diventati i loro gruppi di supporto, ma Anja Archipova e Paša non avevano nessuno, perché lei è di Novosibirsk e lui di Barnaul,” spiega Liza. “Una nostra amica di Mosca ha preso Anja sotto la sua ala, e io mi sono occupata di Paša. Postare, fare posizionamento sui social, presentarli su Internet: tutte le azioni per la campagna di supporto le coordiniamo con loro. Una persona non deve perdere la sua agentività, in prigione.” “Lavorare per sentirsi vicini” - “In realtà, potresti tirarti indietro, dire che semplicemente non vuoi occupartene”, dice Liza. “Ma io non avevo questa opzione: per un intero anno ci siamo preparati al fatto che Ženja potesse finire in prigione, e alla fine è successo. Non potevo abbandonarlo, sapevo che lo avrei aiutato. Poi è arrivato anche Paša, che aveva bisogno di supporto, e mi sono fatta carico anche di questo”. Tutti i protagonisti di questa storia, sia coloro che avevano già aiutato i prigionieri politici, sia quelli per i quali l’arresto di una persona cara è stato il primo contatto con il sistema penitenziario, concordano su una cosa: non hanno mai considerato l’opzione di “tirarsi indietro”. Il sostegno a un amico o a un parente è diventato una parte della loro vita, difficile, ma imprescindibile, e per alcuni, come Saša (Aleksandra) Popova, è ora “la parte più importante “. Saša è la moglie di Artëm Kamardin, che è detenuto da due anni. “Pensiamo continuamente a come si sente, a cosa gli sta succedendo, alla sua alimentazione e alla sua salute, ai problemi che non può risolvere”, racconta. “Faccio in modo che abbia tutto il necessario. Ovviamente, la cosa di cui ha più bisogno è la libertà, ma quella non posso procurargliela né spedirgliela con il Servizio Penitenziario Federale (“FSIN”). Però posso esprimergli tutto il mio amore continuando a lottare per lui”. Anche Sonja (nome cambiato su sua richiesta), ex compagna di classe e vecchia amica di Dima Ivanov, programmatore e creatore del canale Telegram “Protestnyj MGU”, dice la stessa cosa: “Se ci si arrende e ci si dimentica [di qualcuno che è in prigione], non ci sarà più alcun rapporto stretto negli anni a venire. Come in qualsiasi relazione, bisogna lavorarci su per sentirsi vicini nonostante la distanza e l’impossibilità di stare insieme.” Nel marzo 2023, il tribunale Timirjazevskij a Mosca ha condannato Dmitrij a otto anni e mezzo di carcere per “diffusione di fake news” sull’esercito russo (art. 207.3 del Codice penale). “A causa delle particolarità del caso, ancora prima della condanna ho avuto modo di viaggiare parecchio: nel 2022 sono stato in sei carceri di Mosca e ho cambiato una quindicina di celle, ognuna delle quali con una vita a sé”, ha scritto Dmitrij riguardo alla sua detenzione. Per far felice l’amico che aspettava la sentenza nel centro di detenzione preventiva, il suo gruppo di supporto ha deciso di sparare dei fuochi d’artificio in suo onore: per il compleanno e per l’anniversario dell’apertura del caso penale - date che in prigione vengono tradizionalmente celebrate. La difficoltà principale era fare in modo che Dima potesse vederli, i fuochi d’artificio. “Di solito ordinavamo una torta o un po’ di carne, così che tutti in cella potessero festeggiare”, racconta Sonja. “Dopo il banchetto, iniziavano i fuochi d’artificio!”. Il Centro di detenzione preventiva n. 5 “Vodnik” è un edificio tetro e anonimo, con quattro piani di finestre rettangolari tutte uguali. Il gruppo di supporto doveva sapere con certezza dove si affacciavano le finestre della cella di Dima, ma non potevano chiederlo nelle lettere, poiché la richiesta sarebbe stata censurata dal Servizio Penitenziario. Così gli amici idearono dei complicati messaggi in codice. Per esempio, Dima scriveva banalmente (o così’ sembrava): “Ogni mattina nella mia cella sorge il sole” - e loro capivano che le finestre si affacciavano a est. Tuttavia, non bastava sapere da che lato era la finestra: bisognava anche trovare un posto sicuro da cui lanciare i fuochi d’artificio senza rischiare di colpire le finestre delle case vicine. Cosa non semplice, perché attorno a “Vodnik” non ci sono terreni vuoti, ma zone industriali dove non si può lanciare nulla. “I fuochi d’artificio sono un grande supporto dall’esterno”, dice Sonja. “È poco probabile che una lettera arrivi esattamente il giorno del compleanno o in una data precisa. Quella, invece, è una comunicazione che esula dal sistema carcerario. È qualcosa che vedi dalla finestra, che accade qui e ora, solo per te. Quando sei in prigione, tutto è rallentato e monotono, e le emozioni intense ed estemporanee sono molto rare.” “Li definivano radicali e terroristi” - Alcuni membri dei gruppi di supporto imparano da zero a condurre campagne informative in difensa dei loro cari e a rispondere alle pubblicazioni nei canali Telegram filogovernativi o legati alle forze di sicurezza. “Quando hanno arrestato i nostri ragazzi, eravamo terrorizzati”, racconta Inna (nome cambiato su sua richiesta), del gruppo di supporto agli imputati del ‘Caso di Tjumen’. “È stato un vero shock per i parenti, gli amici e gli stessi accusati. Avevano piani per il futuro, nessuno era pronto, non immaginava nemmeno che una cosa del genere potesse accadere.”. Nei primi giorni dopo l’arresto, secondo Inna, erano “confusi e non sapevano cosa fare”. Mentre raccoglievano le idee, iniziarono ad apparire articoli in cui una fonte anonima affermava che [l’imputato del caso] Jurij Neznamov, uno degli accusati, “stava organizzando gruppi di nazisti”. “Li definivano radicali e terroristi e dicevano che dovevano essere incarcerati”, ricorda Inna. “Abbiamo capito subito che dovevamo smentire quell’informazione, che altrimenti avrebbe invaso lo spazio mediatico. Dovevamo urgentemente denunciare le torture e raccontare che i nostri amici erano innocenti, affinché la gente non credesse alle informazioni fornite dalle forze di sicurezza e dai loro canali.” All’inizio, questa storia di provincia non ebbe lo stesso impatto mediatico dei casi “Set’“ o “Novoe Veliie”. Inizialmente gli amici non sapevano a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Il gruppo di supporto era grande, ma nella chat molti erano in preda al panico. Fu utile il consiglio di alcuni conoscenti, difensori dei diritti umani, che furono ammessi nella chat e proposero un piano pratico d’azione: come raccogliere fondi, come diffondere informazioni, dove scrivere e con chi entrare in contatto. “Ženja, sei deficiente?” - “Adesso rimarrai a bocca aperta!” ride Lisa, un’amica di Zateev. “Ženja ha chiesto di procurargli una lettera di intercessione del Papa! Quando era ancora sotto restrizioni, si è avvicinato al cattolicesimo, cosa che gli dà conforto ancora oggi. All’epoca avevamo un gruppo di supporto con [un altro imputato del caso ‘Vesna’] Valentin Chorošenin, che è anche lui cattolico, così come la sua fidanzata, e che avrebbe dovuto occuparsene, ma alla fine non è successo nulla.” - All’inizio dell’invasione in Ucraina, in una chiesa luterana di San Pietroburgo si celebravano messe contro la guerra. Ženja ci andava con Lina e cominciò a interessarsi alla religione, e quando finì dietro le sbarre, chiese agli amici di portargli una Bibbia cattolica. “Noi gli dicevamo: ‘Ženja, sei deficiente o cosa? La perderai al primo trasferimento! - ricorda Lisa. - Qualcuno la userà come carta igienica!’ E poi quella Bibbia era enorme e costava quattro mila rubli. Lui rispondeva: ‘No, mi serve’. Beh, se gli serviva.... Quando abbiamo provato a mandargliela nel primo pacco, ovviamente non l’hanno accettata. Di recente abbiamo riprovato e finalmente è arrivata a destinazione.” Le ultime regole del Ministero della Giustizia consentono l’uso nelle prigioni di ebook e libri cartacei per autodidattica. Tuttavia, nella pratica, i detenuti possono essere puniti per questo. P esempio, nel 2022 un sospettato in un centro di detenzione preventiva ordinò per posta un libro di filosofia e ricevette un pacco con l’“Ermeneutica Cognitiva”. L’amministrazione ritenne che fosse una violazione delle regole e lo mandarono in cella di isolamento per 15 giorni. Per far arrivare i libri ai prigionieri politici in detenzione preventiva bisogna inventarsi vari metodi. “È stata un’epopea!” - racconta Lidija, un’amica di Vsevolod (Seva) Korolev. “Seva è un filosofo di formazione, un intellettuale per natura, e non può vivere senza libri. Nel suo appartamento la quantità di scaffali è sconvolgente, con testi su ogni ambito del sapere umanistico. Ovviamente non è abituato al fatto che l’accesso a questa conoscenza sia limitato.”. Gli amici di Seva scoprirono rapidamente che i libri non erano ammessi nei pacchi. Mandarli per posta poteva teoricamente funzionare, ma non c’erano garanzie. Così decisero di inviare per lettera pezzi di libri stampati dal computer: “Trovavamo il libro che lui richiedeva in formato elettronico, lo stampavamo - il che spesso rendeva il libro molto più costoso - e lo dividevamo in varie buste. Massimo venti pagine per busta, o non l’avrebbero accettata. Nella chat ci accordavamo su chi stampava cosa. Spesso erano gli abbonati del canale Telegram [di sostegno a Vsevolod] a coprire tutte le spese, altre ero io che inviavo loro del denaro.” Una volta, racconta Lidija, ci fu un episodio curioso. Seva chiese due libri di Aleksej Karpov della collana “Vite di Grandi Persone” su personaggi della Russia antica: Vladimir il Santo e Jaroslav il Saggio. Una ragazza del canale si offrì di aiutare. Il testo fu stampato e inviato, ma i libri non arrivarono mai a Seva - forse perché erano dedicati alla Rus’ di Kiev. “In pratica abbiamo speso diverse migliaia di rubli - una cifra molto superiore al costo del libro fisico - e alla fine quei fogli saranno in qualche stanza del centro di detenzione a coprirsi di polvere e marcire”, sospira Lidija. “Un lavoraccio di merda. Burnout e stanchezza” - “Quando il primo momento di grande entusiasmo è passato, gli animi si sono raffreddati e la partecipazione attiva alla vita di Dima è diminuita. A quel punto ho capito che se non avessi fatto qualcosa io stessa, nessun altro lo avrebbe fatto”, racconta Sonja, amica di Dima Ivanov. Quasi tutti i membri dei gruppi di supporto ai prigionieri politici concordano su una cosa: all’inizio sono molte le persone che prendono l’iniziativa e sono pronte ad aiutare, ma dopo alcuni mesi la maggior parte si tira indietro. Fra burn out e abbandono, rimangono solo i più fedeli - genitori, coniugi, fratelli, sorelle e amici più stretti. “La cosa più frustrante è quando le persone (del gruppo di supporto) iniziano a sparire e a mollare: è una cosa che ti fa arrabbiare e ti toglie le forze,” spiega Lisa. “Ad un certo punto, smetti di contare sugli altri e inizi a fare tutto da sola. È un lavoraccio di merda, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per tutti i 12 mesi dell’anno, e gratis. È letteralmente un lavoro a tempo pieno da cui non puoi staccarti, senza weekend o vacanze: sei costantemente in contatto con l’avvocato e il prigioniero, ti assicuri che gli arrivino le lettere, i pacchi con cibo, vestiti e sigarette, ricarichi regolarmente il conto del negozio penitenziario e prepari i pacchi da inviare.” “La prima crisi depressiva è stata quando hanno condannato [s 14 anni di reclusione] Vladlen Men’šikov,” racconta Ljudmila Alekseevna (nome cambiato su sua richiesta), attivista di una grande città russa. “Non riesco a immaginare come sua madre e l’avvocato Valentina Vladimirovna siano riuscite a superare tutto questo: non riuscivo nemmeno a parlare con loro.” Ljudmila Alekseevna ha 68 anni. È attivista da molti anni, e ha partecipato a “Strategia-6”, manifestazioni mensili a sostegno dei prigionieri politici. Attualmente è una delle poche persone nella sua città che presenzia regolarmente alle udienze in tribunale anche per i casi politici che non hanno avuto grande risonanza. Ljudmila Alekseevna raccoglie e consegna regolarmente pacchi per diversi prigionieri del centro di detenzione preventiva della sua città. Dice di aver scelto un carcere in periferia, più facile da raggiungere. Per coloro che sono detenuti lontano, invia pacchi per posta, scrive lettere e rimane in contatto con i parenti di alcuni dei prigionieri che sostiene. “Non possiamo abbandonare i detenuti,” spiega. “Recentemente la madre di Deniz [Ajdyn, imputato nel caso “Tjumen”] mi ha chiesto di andare a prendere sua nonna alla stazione e accompagnarla all’hotel. Sembrerà strano, ma per me è stato il secondo duro colpo. Il treno è arrivato intorno alle sei del mattino, e io ero in piedi dalle tre: mi sono preparata, sono andata lì, ho cercato il treno, ho controllato dove sarebbe arrivato. Tutto a posto. I passeggeri sono scesi tutti, ma lei no! Sono andata dal controllore e mi ha detto che non c’era! Com’era possibile?! Si è scoperto che la nonna si era addormentata nel posto sbagliato e stava ancora dormendo. Inoltre, il suo telefono non funzionava, quindi non riuscivo a chiamarla, e lei non poteva contattare sua figlia. Alla fine, siamo uscite sulla piazza della stazione, ho chiamato un taxi e siamo arrivate all’hotel, ma apriva solo alle undici! Nessun cartello, nessuna indicazione, solo porte di ferro chiuse. Ho chiamato la madre di Deniz, e ho scoperto che avrei dovuto lasciare la nonna da sola in una città straniera fino alle due del pomeriggio, quando sarebbe iniziato il processo del nipote. Ero sotto shock!” I parenti di Ljudmila Alekseevna non la sostengono nel suo attivismo civico. La storia della nonna di Deniz Ajdyn l’ha profondamente colpita. È rimasta chiusa in casa per due giorni, dormendo quasi tutto il tempo. “Mi sono arresa ,” ricorda. “Non volevo fare nulla, né uscire di casa, né andare agli eventi per scrivere lettere ai prigionieri politici, né alle udienze in tribunale. Ma non potevo permettermelo troppo a lungo: mio padre ha 94 anni, devo andare da lui mattina e sera per cucinare, pulire. Anche se io non ho voglia di mangiare, gli altri sì. Insomma, pian piano bisogna riprendere a fare le cose. Per me, sostenere i prigionieri politici significa sostenere persone care. Spesso li spediscono lontano da casa, e i loro familiari non possono aiutarli. Non c’è tempo per curare i propri nervi: guariranno da soli.” “La detenzione costa cara” - “Se ci arrendiamo, questa ingiustizia senza fine prenderà il sopravvento su tutto,” afferma Inna, amica degli imputati del “caso Tjumen’”. “Parlare del caso e fare i nomi degli agenti coinvolti nelle torture è un buon modo per contrastare l’impunità nei centri di detenzione preventiva e nelle colonie, soprattutto durante il processo, quando tutti cercano di ottenere confessioni degli imputati. Rendere tutto pubblico: funziona.” Secondo Sonja, amica di Dima Ivanov, l’attenzione pubblica sul caso influisce anche sul sostegno economico, poiché mantenere un prigioniero politico comporta spese elevate. “La detenzione è costosa”, conferma Saša Popova. “Per mantenere una persona in condizioni decenti in un centro di detenzione preventiva servono circa 40.000 rubli al mese: cibo, sigarette, beni di prima necessità. La cifra include anche il ‘fondo comune’, poiché spesso bisogna comprare cibo non solo per il proprio detenuto, ma anche per gli altri compagni di cella. Artëm, per esempio, è stato per diversi mesi in un blocco speciale insieme a persone che non ricevevano cibo da fuori. Qualsiasi cibo che arrivava in cella veniva diviso in quattro parti uguali, e affinché Artëm potesse mangiare e non solo annusare il cibo, ne mandavamo per tutti.”. Esistono dei negozi nelle carceri dove i detenuti, se hanno soldi sul proprio conto, possono ordinare un numero limitato di prodotti. Tuttavia, spesso gli articoli disponibili sono solo tè, caffè e sigarette. A volte bisogna aspettare settimane per ordinare qualcosa. Per esempio, gli attacchi hacker dopo l’assassinio di Aleksej Naval’nyj hanno mandato offline il sito del negozio del sistema penitenziario per diverse settimane. Per chi è detenuto a Mosca le possibilità aumentano: lì si può ordinare del cibo pronto per date specifiche. Un’altra voce di spesa è l’assistenza legale. Cui vanno aggiunti i costi per i viaggi degli avvocati in altre città per partecipare ai processi e incontrare gli imputati. “Sono somme astronomiche,” dice Inna. “Abbiamo quattro imputati, inizialmente erano sei, e ciascuno ha bisogno di un buon avvocato a cui dobbiamo pagare i viaggi a Tjumen’. Inoltre, bisogna fornire ai ragazzi tutto ciò di cui hanno bisogno nel centro di detenzione preventiva. Solo nel primo mese abbiamo speso circa un milione di rubli per i sei imputati.”- Ora sono iniziati i processi e la questione del denaro è tornata a essere urgente: bisogna pagare la partecipazione degli avvocati alle udienze, oltre alle spese di viaggio. Grossi onorari a parte, servono in media 300.000 rubli al mese, ma con le spese processuali si arriva a circa 700.000 rubli al mese per tutti gli imputati.” Di gatti e “mogli sotto copertura” - Col tempo, i detenuti e i loro cari si adattano a vivere secondo le nuove regole. Per mantenere i contatti con i compagni e i familiari, i membri dei gruppi di supporto devono essere ingegnosi. Inna racconta che le mogli di due imputati del “caso Tjumen’” siano riuscite a ottenere l’accredito di una testata giornalistica, e per un anno intero hanno partecipato ai processi come rappresentanti dei media: intervistavano i ragazzi, li filmavano e facevano domande. “Il pubblico ministero impazziva appena le vedeva in aula,” dice Inna. “Voleva che i ragazzi venissero condannati in silenzio e in fretta. Durante i processi, le fissava sempre, ma non poteva fare nulla: avevano i permessi necessari, e il giudice sapeva della loro presenza e l’aveva persino approvata. Nessuno sapeva che fossero le loro mogli. Il tribunale le convocava persino, le “mogli”, che però, guarda un po’, non si presentavano. Solo dopo un anno il pubblico ministero ha scoperto che quelle donne erano proprio le mogli che aveva chiamato per l’interrogatorio. Durante un’udienza, il giudice esaminò attentamente passaporti e accrediti, probabilmente confrontandoli con i documenti del caso che riportavano i cognomi dei familiari. E chiese loro quale fosse la loro relazione con gli imputati. Le mogli ammisero onestamente la verità, ma chiarirono che erano presenti in aula non come parenti, ma per svolgere la loro attività professionale, in piena conformità con la legge. A detta di Inna, il pubblico ministero si girò verso di loro stupito ed esclamò: “Cioè eravate voi tutto il tempo?!”. In prigione, le persone consolidano dei rituali che li aiutano a mantenere la percezione di una vita normale. A volte nelle carceri vivono dei gatti, e alcuni detenuti li portano con sé in cella. I detenuti si affezionano, e scherzano: anche il gatto, dicono è un prigioniero, solo che ha l’ergastolo. Tuttavia, quando un detenuto viene trasferito dopo la condanna e non può portare animali con sé, separarsi da un amico a quattro zampe può essere molto difficile. Ad attendere fuori dalla prigione Paša Krisevi? ci sono la moglie Lena e la gatta Musja, che viveva con lui in cella ed è ora libera grazie al suo gruppo di supporto. Paša scriveva che Musja era “nata in prigione e, da vera gatta, negava in modo felino la prigione intorno a lei”. Raccontava anche che le piacevano le palline del rosario e che le rincorreva sul pavimento, che “mordeva le gambe ai compagni di cella quand’erano stesi, e una volta aveva tentato di tirare fuori il tappo per le orecchie al vicino di branda.” “Paša voleva da tempo un gattino,” racconta Lena, “diceva che se non lo avessero rilasciato al riesame del caso da parte del tribunale Tverskoj, avrebbe preso un micio. Ma la gattina arrivò prima. Paša aveva un amico in un’altra cella con una gattina - Musja, appunto - e spesso ne parlava quando si incrociavano. Un giorno accadde un miracolo: l’amico e Musja furono trasferiti nella cella di Paša. Dopo un po’, lui fu mandato a un’altra prigione, e Paša si prese cura della gattina. Diceva che Musja aveva quasi dimenticato a camminare, dato che tutti la portavano in braccio!” Il 18 ottobre 2022, il tribunale Tverskoj di Mosca condannò Krisevi? a cinque anni di colonia per una performance-suicidio sulla Piazza Rossa. Potevano trasferirlo in qualsiasi momento, Musja stava crescendo, e in prigione era pratica comune sloggiare i gatti adulti dalle celle al corridoio. Gli amici, e Paša con loro, erano preoccupati che non ci sarebbe stato nessuno a prendersi cura di Musja, e la sua sopravvivenza nel corridoio era incerta. Paša parlava spesso di Musja nelle sue lettere e si era molto affezionato a lei. Anche Lena si era affezionata alla gattina, e un giorno il gruppo di supporto decise di portare di nascosto Musja fuori dalla prigione. “Purtroppo, non posso raccontare i dettagli di questa operazione,” dice Lena. “Posso solo dire che persone buone e umane esistono ovunque. Ho la prima foto di Musja in libertà, dove è tra le mie braccia e guarda il mondo con occhi sbalorditi. Con Paša scherzavamo, dicendo che anche lui avrebbe guardato il mondo con gli stessi occhi, quando sarebbe uscito.” Dopo che Musja fu liberata, Paša scrisse che la cella sembrava vuota senza di lei e che si sentiva molto la sua mancanza. Qualche settimana dopo, scrisse a Lena di aver cucito una Musja di peluche e le regalò il giocattolo per Capodanno. La vera Musja ora vive con un’amica di Lena e, secondo Lena, tutti aspettano con ansia il momento in cui Paša sarà liberato e potrà incontrarla di nuovo. I detenuti trovano conforto anche nei loro rituali, come cucinare. Saša Sko?ilenko raccontava ai suoi amici delle ricette che preparava in carcere: le chiamava “Il libro di cucina del pacifista.” Per i suoi compleanni, gli amici le portavano delle basi per torte: non era permesso consegnare una torta alla crema senza glutine, ma la base da completare sì. I detenuti preparavano la crema con i mezzi disponibili: caramello liquido, latte condensato, marmellate. “Per esempio, preparano panini caldi,” racconta Leša, amico di Saša. “In cella c’è solo un bollitore e una resistenza. Quando vogliono fare un panino caldo con pane senza glutine, formaggio e pomodori, procedono così: prendono una bacinella di metallo, riscaldano l’acqua con la resistenza, avvolgono il panino in un sacchetto di plastica e lo immergono nell’acqua bollente, così si scalda senza inzupparsi. Nella haute cuisine francese, questa tecnica si chiama “sous-vide”. La si può trovare nei ristoranti stellati Michelin o nel centro di detenzione preventiva n. 5.” *** Al momento, Lisa sta preparando merchandising per aiutare Paša Sinel’nikov; quello per Ženja Zateev è già in vendita. Dice che aiutare i prigionieri politici la fa sentire utile. Prima del 24 febbraio 2024 si interessava poco alla politica, nella sua famiglia non si discuteva dell’attualità, ma con l’inizio della guerra ha iniziato a partecipare alle manifestazioni; lei e Lina, la moglie di Zateev, sono state arrestate insieme a una delle prime proteste contro la guerra. Lisa ora crede che sostenere i prigionieri politici sia un modo per esprimersi in Russia, dove ormai è quasi impossibile farlo. Alla fine della nostra conversazione, ricorda che chi, come Ženja Zateev, ha ammesso la propria colpa, riceve molto meno sostegno. “Ma ammettere la propria colpa non significa affatto tradire i compagni gli altri o scendere a patti con le autorità. Anche queste persone vanno sostenute. È importante”.