L’indulto o l’amnistia non sono un atto di debolezza o di resa dello Stato di Glauco Giostra* Il Dubbio, 26 ottobre 2024 Nessuna forza politica può dirsi esente da responsabilità sulla condizione inumana delle nostre carceri. Per questo aderisco alla proposta di Manconi. Vi è almeno un argomento su cui tutte le forze politiche sono sconsolatamente d’accordo: la drammatica e inumana situazione delle nostre carceri. Poi, ovviamente, ci si divide su come intervenire. Ma poiché nessuna forza politica può dirsi esente da responsabilità e poiché nessuna delle soluzioni “a regime” ha possibilità di essere validamente sperimentata se prima non si provvede a decongestionare sensibilmente e subito l’inferno penitenziario - che nelle attuali condizioni è in grado di produrre soltanto un doloroso e infamante rosario di suicidi, anche tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria, un dilagare dei disturbi psichiatrici, un inquietante moltiplicarsi di rivolte e di aggressioni - gli attori politici dovrebbero dare un segnale di responsabilità recependo il recente appello sottoscritto da venticinque autorevoli firme a favore di un provvedimento di amnistia e di indulto. Non si tratterebbe di un atto di debolezza, o ancor meno di resa dello Stato; semmai di un intervento giusto e provvidenziale per cancellare quella che altrimenti resterebbe una pagina vergognosa nella storia di questo. Ci sono, del resto, importanti considerazioni - ove si fosse disposti a tenerne conto al di sopra degli schieramenti e dei miopi calcoli elettorali- che dovrebbero indurre ad accogliere l’appello e ad approvare al più presto un provvedimento di amnistia e di indulto: - ridurre la pena detentiva non obbedirebbe a buonismo, ma a giustizia: le crudeli condizioni di esecuzione della pena ne hanno sensibilmente aumentato il grado di afflittività, per cui ridurne la durata significherebbe in parte risarcire il condannato dell’indebita sofferenza aggiuntiva che ha dovuto subire; - l’esperienza dei precedenti provvedimenti clemenziali dimostra - come opportunamente si ricorda e si documenta nell’appello- che ne è seguita una riduzione sensibile del tasso di recidiva e, quindi, un aumento della sicurezza sociale; - si interromperebbe l’ingravescente sovraffollamento carcerario evitando al nostro Paese un’altra ustionante e infamante condanna della Corte di Strasburgo per trattamento inumano e degradante dei nostri detenuti; - si darebbe doverosamente seguito, sia pure con un provvedimento tampone, alla sentenza con cui la Corte costituzionalità - più di dieci anni fa (!), in una situazione non dissimile dall’attuale- ammoniva “come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema” del sovraffollamento penitenziario (sentenza n. 23 del 2013); - si consentirebbe agli operatori della polizia penitenziaria di volgere la loro delicatissima e insostituibile funzione, senza doversi confrontare con una sconfortante quotidianità di disperante degrado e di difficile governo, che offre un alibi ai pochi violenti tra di loro per ricorrere a illecite vessazioni; - da ultimo, argomento prosaico, ma non privo di appeal di questi tempi, un decongestionamento carcerario comporterebbe un significativo risparmio per le finanze pubbliche che, in mancanza, dovranno continuare a far fronte a migliaia sia di mantenimenti in carcere e sia di risarcimenti per trattamento inumano e degradante. Ma un drastico provvedimento in grado di porre fine a questo scempio di umanità esibito dalle patrie galere otterrebbe un risultato, meno tangibile, ma non meno importante. In questa sconfortante stagione in cui il mondo offre quotidiani esempi di disumanità e di ingiustizia, in cui la retina dell’anima è costretta a guardare scene di raccapricciante e inutile barbarie, in cui per non cedere alla depressione si è costretti ad alzare continuamente l’asticella di ciò che è psicologicamente tollerabile, sarebbe un salutare segnale di civiltà poter constatare che la nostra politica - abbandonando recriminazioni, invettive, soluzioni farlocche ha saputo dire basta a questa non più tollerabile degradazione della dignità di decine di migliaia di persone recluse, che è poi degradazione - come ci ha ricordato il Capo dello Stato- della dignità del nostro Paese. “Colloqui intimi in carcere, sentenza della Consulta ancora non attuata” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2024 La denuncia del Comitato esecutivo del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza sull’affettività dietro le sbarre: in nessun istituto italiano è stata ancora attuata la pronuncia della Corte. Il Comitato esecutivo del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza lancia l’allarme sulla mancata attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2024 sui colloqui intimi nelle carceri italiane. La decisione, depositata il 26 gennaio e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 31 gennaio 2024, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo che impediva i colloqui privati tra detenuti e partner. “Il sistema penitenziario presenta molteplici criticità che ostacolano le finalità rieducative e risocializzanti della pena detentiva”, evidenziano i magistrati. Tra queste, emerge in primo piano il “permanente e gravissimo sovraffollamento carcerario”, accompagnato da carenze strutturali di personale che interessano tutti i livelli: dalla Polizia penitenziaria agli operatori dell’Amministrazione, dalle aree sanitarie fino ai Tribunali e agli Uffici di sorveglianza. La sentenza della Consulta aveva stabilito che i detenuti dovessero poter effettuare colloqui con il coniuge, il partner dell’unione civile o il convivente stabile senza il controllo a vista del personale di custodia. Tale diritto sarebbe stato subordinato alla valutazione del comportamento del detenuto e all’assenza di ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine. I magistrati sottolineano come l’impossibilità di esprimere una normale affettività con il partner rappresenti, nelle parole della Corte, “un vulnus alla persona nell’ambito familiare” che può portare a un “progressivo impoverimento” delle relazioni affettive, fino al rischio di una completa disgregazione dei legami familiari. “Una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari”, citano i magistrati dalla sentenza, “rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa”. Nonostante il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria abbia attivato un tavolo di lavoro per raccogliere informazioni necessarie all’attuazione della sentenza, i magistrati denunciano che “il tempo, non breve, ormai decorso dal 31 gennaio 2024” non ha portato a risultati concreti. In nessun istituto penitenziario italiano è stata data esecuzione alla decisione della Consulta, che pure dovrebbe avere efficacia immediata dalla sua pubblicazione. La Corte Costituzionale, pur consapevole dello “sforzo organizzativo necessario per adeguare strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”, aveva suggerito un’implementazione graduale, fornendo criteri guida per l’attuazione progressiva della nuova modalità di colloqui. Significativamente, la Consulta ha anche chiarito che non è necessaria l’adozione di una nuova legge per procedere con l’attuazione. Il Coordinamento conclude il proprio comunicato auspicando un “pronto adeguamento” dell’Amministrazione penitenziaria ai dettami costituzionali, sottolineando l’urgenza di dare concreta attuazione a una sentenza che mira a preservare i diritti fondamentali dei detenuti e il loro percorso di risocializzazione. A denunciare l’immobilismo delle istituzioni, ricordiamo, è intervenuto anche il Garante per il Lazio, Stefano Anastasìa, che non ha usato mezzi termini nel definire la situazione “inconcepibile” per uno Stato di diritto. “A dieci mesi dalla sentenza della Consulta”, ha sottolineato con fermezza il Garante, “nessun detenuto ha ancora potuto esercitare questo diritto fondamentale”. La drammaticità della situazione è emersa con particolare evidenza nel carcere di Viterbo, dove ben 102 detenuti languono nell’attesa di una risposta alle loro legittime richieste di colloqui riservati. Le domande, presentate il 2 giugno 2024, giacciono inevase da oltre 90 giorni, in un silenzio amministrativo che ha spinto il Garante a un intervento d’urgenza presso la direzione dell’istituto. Nel mirino delle critiche di Anastasìa è finito soprattutto il Dap, accusato di aver deliberatamente frenato le iniziative di quelle direzioni carcerarie che si erano mostrate pronte a dare seguito alla sentenza. La giustificazione addotta - l’attesa delle conclusioni di un non meglio precisato “gruppo di studio ministeriale” - viene bollata come pretestuosa dal Garante, che ha evidenziato come in molti casi basterebbero soluzioni semplici e immediate, come l’oscuramento delle finestrelle sulle porte delle sale colloqui, per garantire la necessaria privacy. La vicenda ha assunto contorni ancora più inquietanti quando Anastasìa ha suggerito un possibile collegamento con le pressioni dei “più retrivi sindacati di polizia penitenziaria”, gli stessi che nel 2018 avevano ostacolato un tentativo di riforma del ministro Orlando in questa direzione. La questione si avvia verso una possibile escalation legale. I detenuti, dopo aver presentato reclamo ai garanti, potrebbero rivolgersi ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza, con la prospettiva di arrivare fino alla Corte europea dei diritti umani. Chi ostacola la ricerca della verità sul caso Dal Corso di Marica Fantauzzi napolimonitor.it, 26 ottobre 2024 L’esame autoptico, più noto come autopsia, è un esame che si effettua dopo la morte di una persona con l’obiettivo di accertarne le cause, i tempi e le modalità. L’autorità giudiziaria può disporre l’autopsia quando si sospetta che la morte sia collegata a un reato o comunque sia avvenuta in circostanze non chiare. In molti Stati europei, quando il decesso avviene in un istituto penitenziario, l’autopsia è obbligatoria. In altri, come l’Italia e la Serbia, no: quando una persona detenuta muore e le circostanze del decesso vengono considerate “evidenti” o “palesi” l’esame autoptico è ritenuto inutile. Per questa ragione, ribadita per iscritto dal Ministro della Giustizia Nordio, la richiesta della famiglia di Stefano Dal Corso, giovane romano detenuto e poi morto a Oristano, è stata respinta per ben sette volte. Secondo il ministro, la sua era una morte “avvenuta in circostanze palesi”. Almeno fino a quando l’ottava richiesta non è stata accolta. Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, intervenendo mercoledì alla conferenza stampa presso la Camera dei deputati, ha mostrato come questa presunta “evidenza” sia tutta da dimostrare. Per lei e per la sua famiglia le certezze sono altre: Stefano stava per uscire dal carcere, avrebbe riabbracciato la figlia e immaginato, insieme a lei, un prossimo futuro da libero. Eppure poco tempo prima della sua scarcerazione è stato trovato morto nel reparto dell’infermeria dell’istituto sardo, esattamente due anni fa, in condizioni che secondo le relazioni ufficiali sarebbero compatibili con il suicidio. È utile fare un passo indietro e tornare a un articolo di Luna Casarotti, scritto nell’agosto del 2023, proprio a partire dalle parole della sorella di Dal Corso: “La ferita che Stefano aveva attorno al collo - si evinceva già all’epoca da una delle perizie - sembrava più vicina a quella di uno strangolamento che non a una impiccagione”. Armida Decima, legale della famiglia Dal Corso, durante la conferenza ha spiegato che l’unico modo per dimostrare che non si sia trattato di strangolamento ma di “impiccagione atipica” (parte del corpo che poggia su una superficie) sarebbe stato quello di verificare lo stato dei polmoni al momento del decesso. L’autopsia però è stata accordata solo nel gennaio del 2024, ossia più di un anno e mezzo dopo il decesso, quando il corpo era ormai in stato di avanzato deterioramento. Tuttavia, l’autopsia ha comunque restituito alcuni dati importanti: l’osso del collo, diversamente da quanto era stato lasciato intendere, non era rotto, ma perfettamente integro. Sulla coscia, lato interno, è stato rinvenuto un ematoma profondo, compatibile con un calcio. Inoltre, dalle analisi del sangue risultano evidenti tracce di medicinali, che certo potrebbero essere anche compatibili con la terapia che Stefano seguiva in carcere. Per esserne sicuri occorrerebbe però stabilire l’esatto dosaggio di queste sostanze presenti nel sangue, cosa impossibile dopo tutto questo tempo. E quindi? È proprio Decima a spiegarlo ai giornalisti: “I risultati dell’esame autoptico consentono di ritenere che le modalità siano compatibili con il suicidio? Si, ma allo stesso tempo non si può escludere una morte per strangolamento”. A questo interrogativo se ne aggiunge un altro, che deriva dalla presenza di tracce di sangue sul lenzuolo di Stefano. Da quel sangue sono ravvisabili tracce di Dna anche diverso dal suo. Alla richiesta, però, dell’avvocato della famiglia, di confrontare il Dna trovato con quello di chi era entrato effettivamente in contatto con Stefano quel giorno, la procura di Oristano non ha mai risposto. Piuttosto, ha fatto seguire una seconda richiesta di archiviazione. A cui, è stato ribadito mercoledì, la parte civile si opporrà. Le morti in carcere sono sospette per definizione: lo sono nella misura in cui il decesso all’interno di un penitenziario dovrebbe apparire come una anomalia del sistema. Lo Stato dovrebbe custodire il corpo del recluso, rispondere ai suoi bisogni e tutelarne l’incolumità. E quando questo non avviene, quando il corpo perisce, dovrebbe essere lo Stato stesso a pretendere la verità. A questo proposito, intervenendo in conferenza, i parlamentari Roberto Giachetti e Ilaria Cucchi hanno affermato la necessità di portare avanti un disegno di legge che è oggi in Commissione Giustizia e che intende introdurre, anche in Italia, l’autopsia obbligatoria per le morti in carcere. “I dati statistici rispetto ai decessi nelle strutture detentive - si legge nel ddl - riportano ogni anno diversi casi in cui non sia possibile accertarne precisamente le cause. Sono stati infatti numerosi in passato i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra e incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino degli episodi di maltrattamenti a opera di agenti o di violenza da parte altri detenuti”. Alla fine della conferenza Marisa Dal Corso ha raccontato di aver ricevuto molte segnalazioni da parte di familiari di altri detenuti: le violenze, quando raccontate, ne portano con sé altre, più nascoste e dimenticate. In fondo, quello che chiede lei è quanto chiedono molti di loro: vivere senza il dubbio che un proprio caro sia morto nella menzogna e nell’oblio. Libera Corte di Stefano Cingolani Il Foglio, 26 ottobre 2024 Quante volte la Consulta si è dimostrata un argine a populismo e giustizialismo. Le intercettazioni. I diritti dei detenuti. La libertà economica. Libertà e sicurezza. Salute e lavoro. La paura della firma. Il suicidio assistito. E adesso arriverà anche il pasticcio albanese sul tavolo della Corte costituzionale? Come ricadrà sul garante di ultima istanza il contrasto che si è aperto tra i poteri dello stato? Poche altre volte nella storia della Repubblica il palazzo della Consulta che guarda il Quirinale (e non per un mero ghiribizzo architettonico) è stato tanto centrale nella vita pubblica e privata. Lo scontro tra governo e magistrati, il difficile equilibrio tra leggi nazionali ed europee, la dialettica tra diritti e valori, tutto ciò rischia di superare i confini tradizionali. Il conflitto è il sale del pluralismo, ma la ricerca di una composizione civile è sconfinata nella dialettica amico-nemico. Cacofonia delle corti, invasioni di campo, prevaricazione della politica sulla legge e viceversa, tutto ciò non fa parte dell’eccezione italiana. Robert Badinter, l’uomo che fermò la ghigliottina, il giurista francese che come ministro della Giustizia socialista abolì la pena di morte nel 1981, metteva in guardia negli anni 90 dall’emergere del giudice vendicatore. Oggi proprio in Francia Marine Le Pen accusa i magistrati di perseguitarla per impedirle di sfidare Emmanuel Macron nel 2027. Negli Stati Uniti Donald Trump si sente minacciato dalle toghe e conta sulla maggioranza conservatrice alla Corte suprema per “bollinare” una svolta autoritaria. Stiamo parlando delle due repubbliche nate da rivoluzioni liberali, figuriamoci il resto del mondo. In questo clima da assedio, a istituzioni come la Consulta non basta fare il custode della Costituzione anche perché “la costituzione appartiene a tutti, non solo ai custodi”, come ha ripetuto il presidente Augusto Barbera a Firenze alla Festa del Foglio. Senza forzare il suo mandato, la Corte sta inviando un messaggio chiaramente liberale. Per capirlo raccontiamo alcune sentenze che partendo da casi specifici toccano princìpi generali. Stefano Esposito, senatore del Partito democratico, viene intercettato 446 volte tra il 2015 e il 2018 dalla magistratura torinese senza che mai il Parlamento abbia dato l’autorizzazione. Il 28 dicembre 2023, la Corte stabilisce che non spettava alle autorità giudiziarie che hanno sottoposto ad indagine e, successivamente, rinviato a giudizio Esposito, disporre, effettuare e utilizzare intercettazioni rivolte nei confronti di un terzo imputato, ma in realtà “preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare”. Insomma, niente intercettazioni a strascico, come si dice; l’indagine deve essere mirata, in base a “specifici indizi di reità che si traducono nella richiesta di approfondimenti investigativi”. Il processo per corruzione viene smontato. Era stato il Senato a sollevare il conflitto tra i poteri dello stato. E in quel caso ha vinto il potere legislativo, anzi politico tout court. Nello stesso anno è stato annullato anche il sequestro dei messaggi whatsapp di Matteo Renzi. La Corte ha difeso i politici, accusati o condannati, ma la sfera dei diritti è ben più ampia e si estende anche a chi ha commesso reati. Una serie di sentenze ha fatto notizia. Nel gennaio di quest’anno la Consulta ha difeso il diritto dei detenuti di incontrarsi con coniuge o convivente senza il controllo a vista e ha bocciato “l’irragionevole compressione della libertà della persona”. Nel marzo scorso ha stabilito che un’archiviazione per prescrizione del reato, accompagnata da apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata, viola “in maniera eclatante” il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza. La difesa della persona è un principio fondamentale applicato anche alla legge che ha bruscamente aggravato la pena per appropriazione indebita. Il caso che aveva innescato l’intervento legislativo sembrava irrilevante ai limiti del ridicolo, si trattava di aver rubato 200 euro, ma la sentenza della Corte stabilisce un criterio di fondo: la discrezionalità del legislatore “non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”. Questa volta i limiti vengono posti al potere legislativo. Ma è anche una risposta a chi da molte parti esprime spesso fastidio sulle “intromissioni” della Consulta e, al grido di “lasciateci lavorare”, vuole il primato assoluto della politica. Ha fatto scalpore la sentenza del 19 luglio che dichiara incostituzionale il divieto di rilasciare nuove autorizzazioni per il servizio di noleggio con conducente (Ncc) sino alla piena operatività del registro informatico nazionale delle imprese titolari di licenza taxi e di autorizzazione Ncc. Ciò ha consentito, per oltre cinque anni, “all’autorità amministrativa di alzare una barriera all’ingresso dei nuovi operatori”, compromettendo gravemente “la possibilità di incrementare la già carente offerta degli autoservizi pubblici non di linea”. Le innovazioni nel settore dei trasporti “rappresentano il cardine della libertà d’iniziativa economica privata e dell’interazione fra le imprese in un mercato efficiente e attento ai bisogni dei consumatori”. Un pronunciamento clamoroso che ha dato torto al governo, anzi direttamente al presidente del Consiglio che aveva impugnato la legge della regione Calabria che liberalizzava gli Ncc. La libertà d’impresa in questo caso ha vinto su interessi corporativi protetti dal governo, ma più in generale viene ribadito il limite della politica quando mette in discussione diritti fondamentali sanciti dalla costituzione. Lo stesso vale per le concessioni balneari: a giugno è stata dichiarata incostituzionale la proroga concessa lo scorso anno dalla regione Sicilia e ha Lo stato attraverso le sue massime istituzioni difende l’individuo, questo il principio base, ma lo stato a sua volta si difende e ha il diritto di farlo. Un esempio concreto è il cosiddetto “Daspo urbano”: se sussiste il concreto pericolo che vengano commessi reati è del tutto legittimo impedire l’accesso a luoghi pubblici. La questione era stata sollevata dal Tribunale di Firenze. I casi sono in realtà innumerevoli da Forlì a Cuneo, da Palermo a Roma, non si tratta solo di eccessi delle tifoserie calcistiche, si va da atti vandalici contro i monumenti allo spaccio nei parchi. La sicurezza, spiega la Corte, deve essere intesa nel senso di “garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose”. Il decreto legge del 2023, detto decreto Priolo, autorizza il governo, in caso di sequestro di impianti necessari ad assicurare la continuità produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, ad adottare “misure di bilanciamento” che consentano di salvaguardare la salute e l’ambiente senza sacrificare gli interessi economici nazionali e l’occupazione. Secondo il gip di Siracusa che aveva disposto il sequestro degli impianti di depurazione di alcune raffinerie, questo schema normativo non garantirebbe adeguata tutela alla vita, alla salute umana e all’ambiente. La Corte costituzionale dopo aver letto le norme ha confermato che, una volta adottate le misure necessarie, il giudice è tenuto ad autorizzare la prosecuzione dell’attività degli impianti, senza poter rimettere in discussione le scelte del governo. In ogni caso, occorre “realizzare un rapido risanamento ambientale” e non invece consentirne “indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni”. La Corte così ha stabilito un limite di tempo che non c’era nel decreto e ha dato 36 mesi per ripristinare le condizioni di sicurezza. Affrontando una vicenda di danno all’erario che coinvolge alcuni carabinieri del comando della legione Campania, la Consulta ha deciso la questione di legittimità (sollevata dalla Corte dei conti) rispetto alla norma introdotta durante la pandemia, la quale limita alle sole azioni dolose, fino al 31 dicembre prossimo, la responsabilità degli agenti pubblici. La Corte ritiene legittima la sospensione e sottolinea che “la disciplina della responsabilità amministrativa va inquadrata nella logica della ripartizione del rischio al fine di trovare un giusto punto di equilibrio”. In sostanza, viene riconosciuto che occorre lasciare autonomia di scelta alla burocrazia il cui scopo è raggiungere risultati, non solo attuare la legge. Da un lato è necessario “tenere ferma la funzione deterrente della responsabilità” per scoraggiare comportamenti scorretti dei funzionari, dall’altro bisogna “evitare che il rischio dell’attività amministrativa sia percepito come talmente elevato da fungere da disincentivo”. È un atteggiamento sempre più diffuso, per il quale è stata escogitata la definizione di “burocrazia difensiva” o anche “paura della firma”. È la cosiddetta sentenza Cappato, perché le questioni poste alla Consulta nascevano da un procedimento penale contro Marco Cappato, rappresentante legale dell’associazione soccorso civile, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che hanno accompagnato in Svizzera Massimiliano, toscano di 44 anni, per ricorrere al suicidio medicalmente assistito. Per il gip di Firenze il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Pertanto ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte nella sentenza n. 242 del 2019. E ha chiesto di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i princìpi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta, invece, ha stabilito che in assenza di una legge i requisiti restano gli stessi compresa la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e vanno accertati dal servizio sanitario nazionale. La questione di fondo è che la Corte non ha voluto sostituirsi alla legge ordinaria e ha richiamato il Parlamento a esprimersi su una questione che mette diritto contro diritto, con implicazioni etiche, religiose, personali molto complesse. Lo stesso principio adottato di fronte al cambiamento di sesso. Registrata come femmina alla nascita, nel corso della pubertà L. N. realizza di non appartenere al genere femminile e afferma di riconoscersi in un genere non binario con prevalenza della componente maschile. Decide dunque di cambiare nome in I. e di presentarsi così in tutti i contesti che frequenta, poi chiede al tribunale di Bolzano l’autorizzazione alla mastectomia e la conseguente rettificazione dell’attribuzione di sesso in un genere non binario. Il tribunale solleva due questioni di legittimità costituzionale. Da un lato c’è il diritto all’identità di genere, cioè vedersi riconosciuto un genere di elezione diverso da quello corrispondente al sesso attribuito alla nascita; e ciò fa parte del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali. Dall’altro lato abbiamo il diritto fondamentale alla salute. La Corte costituzionale dichiara inammissibile la possibilità di rettifica verso un genere terzo, perché la materia appartiene alla discrezionalità del legislatore quale “primo interprete della sensibilità sociale”. Tocca al Parlamento occuparsene. Così come dei diritti di figli e figlie delle coppie omosessuali, pur considerando un reato la gestazione per altri. Separazione dei poteri, da Montesquieu non si torna indietro. Libertà e dignità della persona, anche quando si trova in prigione. Libertà che si estende all’impresa e alla concorrenza nel rispetto della salute e del lavoro, oppure alla responsabilità di un funzionario pubblico sollevato dalla paura della firma. C’è chiaramente un filo conduttore che guida l’operato di questa Consulta, un filo liberale che populismo e giustizialismo vorrebbero spezzare. Ma la Corte non può essere conquistata. I giudici sono eletti in blocchi di cinque dal presidente della Repubblica, dal Parlamento e dalle supreme magistrature (Consiglio di stato, Corte dei conti, Corte di cassazione), durano in carica nove anni (quindi più del Parlamento e del presidente della Repubblica) e vengono scelti tra ristrette categorie di giuristi con alta preparazione. Oggi ne manca uno e il 16 dicembre scadrà il mandato di tre giudici, a cominciare dal presidente Barbera, tutti eletti dal Parlamento. Un bel pacchetto, non c’è dubbio. E’ scoppiata una baruffa con le opposizioni e per ragioni diverse anche nella maggioranza quando Giorgia Meloni ha sponsorizzato Raffaele Borriello, capo di gabinetto di Lollobrigida all’agricoltura. La Corte dovrà occuparsi dell’autonomia regionale, la Lega teme la bocciatura e non si fida nemmeno dei suoi alleati, quindi vorrebbe mettere il suo segno sulle nomine. Ciò potrebbe davvero ridurre l’indipendenza della Consulta? Chi sale quello scalone entra a far parte di un collegio e porta il suo contributo a decisioni che sono di tutti. L’obiettivo è arrivare a una composizione dei punti di vista, anche per questo non è consentita l’opinione dissenziente, a differenza dalla Corte suprema americana nella quale i giudici sono a vita. La composizione della Consulta è fatta in modo che non ci sia una scadenza in blocco dei diversi mandati e non c’è mai una brusca cesura. La giurisprudenza può mutare, ma nell’ambito di una fondamentale continuità. Certo ogni Corte costituzionale è anch’essa figlia dei tempi e questi sono i tempi in cui la liberaldemocrazia va difesa, anzi rafforzata. Tempi in cui tornano Arturo Rocco e Carl Schmitt, ma anche per questo vanno letti e riletti Benedetto Croce e Hans Kelsen. Troppo pesanti le pene per traffico di droga, la Consulta sollecita il Parlamento a ridurle di Francesco Perone* L’Unità, 26 ottobre 2024 Il legislatore invece aggrava anche quelle per spaccio di lieve entità. Quasi verrebbe da dire: e fu così, che al tempo del populismo penale e dell’ipertrofia sanzionatoria che ne è diretta discendente, la Corte Costituzionale batté un colpo che in pochi udirono tanto erano impegnati nell’inventarsi nuovi delitti e nuove pene. Lo scorso mese di luglio, il Giudice delle leggi con la sentenza n. 138/2024, pur dichiarando l’inammissibilità “tecnica” della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla bravissima G.U.P. del Tribunale di Brescia, Angela Corvi, ne ha di fatto condiviso le articolate argomentazioni afferenti il contrasto del trattamento sanzionatorio del reato di associazione finalizzata al narcotraffico con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, per essere stati violati i principi di proporzionalità e ragionevolezza della pena, nonché la necessaria finalità rieducativa della stessa. Per intenderci, attualmente i commi 1 e 2 dell’art. 74 D.P.R. 309/90 prevedono una pena non inferiore a 20 anni di reclusione per i promotori e gli organizzatori dell’associazione e non inferiore a 10 anni per i semplici partecipi. L’omicidio, per fare un paragone, è punito con la reclusione non inferiore agli anni 21. Tralasciando le ragioni più strettamente tecniche poste a sostegno della decisione, la Corte Costituzionale ha osservato come il vulnus segnalato dal Giudice remittente sia addirittura più grave di quello che nel 2019 diede luogo alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena prevista dall’art. 73 del testo unico sugli stupefacenti (sentenza n. 40), rilevando, tuttavia, l’impossibilità di porvi rimedio (e da qui l’inammissibilità della questione) poiché, a differenza di quanto accaduto per l’art. 73, il quadro normativo di riferimento non consente alla Corte l’individuazione di pene differenti, compatibili con i principi costituzionali violati. In pratica la Corte, pur affermando a chiare lettere l’illegittimità costituzionale delle pene previste dai commi 1 e 2 dell’art. 74 D.P.R. 309/90, ribadisce l’impossibilità di sostituirsi al legislatore, al quale però rivolge un auspicio: un sollecito intervento che valga a rimuovere “l’anomalia san zionatoria” riscontrata. Altro che colpo, è una bomba! Al netto di quel che sarà il contenuto dell’intervento legislativo auspicato, che non potrà non prevedere una sensibile riduzione delle pene rispetto a quelle attualmente in vigore, non può non rilevarsi come “l’anomalia sanzionatoria” riscontrata dalla Corte Costituzionale fu introdotta nel lontano 1990 con la legge n. 162 e successivamente trasfusa nell’attuale articolo 74 del testo unico sugli stupefacenti. Ciò significa che da un quarto di secolo il trattamento sanzionatorio del reato di associazione finalizzata al narcotraffico è contrario ai principi costituzionali posti a garanzia della persona e che ben due generazioni di condannati hanno espiato o stanno espiando una pena almeno in parte illegittima, la qual cosa, per chi ancora crede nello Stato di diritto, è francamente intollerabile. Non solo. Nei processi in corso i Giudici dovranno continuare ad applicare pene costituzionalmente illegittime, poiché, a differenza di chi è chiamato a eseguire un ordine illegittimo, che va necessariamente disatteso, i magistrati, soggetti soltanto alla legge, se hanno un dubbio devono limitarsi a sollevare questione di legittimità costituzionale, come ha per l’appunto fatto il Giudice di Brescia, la quale però e paradossalmente, pur avendo colto nel segno, nel processo in cui la questione è stata sollevata dovrà continuare ad applicare le pene oggetto di censura. Per fortuna non la pena di morte. Fino a quando? Fino a quando, come auspicato dalla Corte, il vulnus non sarà sanato da un Legislatore che forse non si è neanche accorto dell’importante pronuncia ma che, in compenso, ha trovato il tempo di aggravare le pene previste per le ipotesi di spaccio di lieve entità. *Camera Penale Irpina Non paghi la marca da bollo? Niente giustizia di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2024 La novità in manovra che fa infuriare giudici e avvocati. “Calpestati i diritti dei più deboli”. Chi non pagherà il contributo unificato, cioè la tassa dovuta per aprire una controversia, perderà il diritto di agire in giudizio civile, tributario o amministrativo. La novità, contenuta del disegno di legge di bilancio, fa infuriare l’avvocatura e la magistratura progressista, unite - come non accade spesso - contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel denunciare quella che definiscono una disposizione ingiusta e irragionevole ai danni dei cittadini meno abbienti. La previsione, contenuta all’articolo 105, modifica il codice di procedura civile introducendo una nuova causa di estinzione del processo “per omesso o parziale pagamento del contributo unificato”, che va da 43 a 3.372 euro a seconda del valore della causa e del grado di giudizio. “Alla prima udienza il giudice, verificato l’omesso o il parziale pagamento, assegna alla parte interessata un termine di trenta giorni per il versamento o l’integrazione del contributo e rinvia l’udienza a data immediatamente successiva. A tale udienza il giudice, in caso di mancato pagamento nel termine assegnato, dichiara l’estinzione del giudizio”, recita la norma, che si applicherà anche alle controversie disciplinate dal rito del lavoro e al processo esecutivo, ma non ai procedimenti cautelari e possessori. L’intervento, si legge nella relazione tecnica, “è suscettibile di generare un gettito in entrata per le casse erariali, che, in quanto di difficile quantificazione, tuttavia, non è stato prudenzialmente ascritto sui saldi di finanza pubblica”. Inveisce il sindacato degli avvocati civilisti, l’Unione nazionale delle Camere civili, che definisce la disposizione “inaccettabile”: “L’articolo 24 della Costituzione garantisce il diritto di agire in giudizio e non lo subordina ad alcun adempimento di carattere fiscale. La norma proposta viola invece tale diritto e non ha dunque alcuna ragionevolezza: la giustizia ai cittadini deve essere garantita, e non venduta. La tutela dei diritti e la giustizia rientrano tra i compiti istituzionali dello Stato, che non può subordinarne l’adempimento a versamenti fiscali, sicuramente dovuti, ma che trovano già nell’ordinamento tributario i propri rimedi e le proprie sanzioni”. Anche l’Organismo congressuale forense, il vertice della rappresentanza politica degli avvocati, esprime “notevole preoccupazione” per la previsione: “Ogni tentativo di subordinare il baluardo costituzionale della tutela dei diritti ad imposizioni o a prestazioni patrimoniali è stato, nel tempo, bocciato dalla Corte costituzionale”, sottolinea l’Ocf, promettendo che “adotterà ogni iniziativa volta a evitare la approvazione della norma, come ipotizzata, e di qualsiasi altro provvedimento che pieghi l’operato del giudice a ragioni fiscali”. “Aberrante” è invece la definizione che usa il deputato Devis Dori, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra in Commissione Giustizia: “Praticamente il diritto alla giustizia, costituzionalmente garantito, è condizionato ad un adempimento di natura fiscale. Pur di fare cassa non si limitano ai tagli con l’accetta, smontano i principi costituzionali: la destra torni sui suoi passi smettendola di fare guerra alla giustizia”, afferma. Dalla magistratura invece protestano le toghe progressiste di Area: in un comunicato dal titolo “Non sarà un processo per poveri” parlano di “una disposizione ingiusta che finisce con il calpestare i diritti di tanti cittadini, specie quelli delle fasce più deboli, privandoli della possibilità di vedere tutelate in giudizio le loro ragioni”. Si introduce di fatto, scrive il Coordinamento dell’associazione, “una sanzione che punisce con l’estinzione del processo non una condotta processuale delle parti (come, invece, è previsto per le altre ipotesi di estinzione) ma l’inadempimento di un’obbligazione tributaria, per il quale l’ordinamento già conosce altri strumenti di tutela”. Per Area, quindi, la norma “si pone in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione, che garantisce a tutti il diritto di difesa, e “viola gli articoli 6 e 13 Cedu e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che assicurano il diritto a un ricorso effettivo”. Al fatto.it il segretario Giovanni “Ciccio” Zaccaro, giudice di Corte d’Appello a Roma, sviluppa il ragionamento: “Molti non pagano il contributo ed è un problema, perché è come evadere una tassa e chiedere giustizia gratis. Ma pretendere che sia un giudice a verificare il pagamento e ad estinguere il processo qualora il pagamento di questo tributo non sia avvenuto significa trasformare il giudice in un agente delle tasse, ossia spogliarlo del suo ruolo di garante dei diritti. Il problema della evasione di questi contributi è serio, ma risolverlo spetta all’amministrazione e non alla giurisdizione”. Il caso Natoli-Pignatone: cortocircuito all’antimafia di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 26 ottobre 2024 L’indagine che ha coinvolto i due ex magistrati dimostra che la collaborazione fra una commissione parlamentare e una procura altro non è che un intreccio pericoloso fra politica e magistratura. La ricerca della verità su Borsellino non passa da lì. Le indagini della procura di Caltanissetta sul favoreggiamento alla mafia mediante il presunto insabbiamento di un procedimento su mafia e appalti da parte dei due noti ex magistrati Natoli e Pignatone, come è stato rilevato, sollevano questioni problematiche di elevata complessità. Ma queste indagini hanno continuato a suscitare attenzione politico-mediatica, come si desume dalle cronache di questi giorni, per le vivaci polemiche e le accese contrapposizioni politiche sorte intorno al caso Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo e attuale senatore pentastellato, accusato di avere preventivamente concordato con l’ex collega Natoli i contenuti di una successiva audizione di quest’ultimo alla Commissione nazionale antimafia, della quale lo stesso Scarpinato fa parte. Questa ennesima e recente vicenda politicamente conflittuale è stata finora prevalentemente affrontata nei termini fuorvianti e riduttivi di un forte attacco a Scarpinato da parte della maggioranza di destra o, al contrario, di una difesa a tutto campo da parte dell’opposizione, come se l’unico aspetto rilevante concerna la liceità o illiceità, opportunità o inopportunità dell’interlocuzione con Natoli avuta dall’ex magistrato oggi senatore. A ben vedere, i più rilevanti profili problematici sono invece di natura sistemica, e hanno quindi una portata ben più generale. A nostro avviso vengono, infatti, in rilievo importanti aspetti connessi alla logica di funzionamento e alle modalità operative della Commissione parlamentare antimafia considerate anche in rapporto all’attività di indagine della magistratura, specie nei casi in cui l’organo parlamentare e gli organi giudiziari finiscono con l’occuparsi contemporaneamente dei medesimi fatti. È su questo piano sistemico di connessioni funzionali che occorre, verosimilmente, rinnovare e approfondire la riflessione. Cominciamo col richiamare i compiti della Commissione antimafia, così come indicati dall’ultima legge istitutiva n. 22/2023. In sintesi, prescindendo dalla specificazione forse troppo dettagliata e sostanzialmente ripetitiva contenuta in tale legge, gli obiettivi caratterizzanti assegnati alla Commissione sono così riassumibili: acquisire elementi di conoscenza il più ampi possibili sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali; verificare l’attuazione e l’adeguatezza dei molteplici strumenti ordinamentali finalizzati a contrastare l’associazionismo criminale; proporre iniziative a carattere normativo e/o amministrativo volte a potenziare l’azione di contrasto. Da questa attribuzione legislativa di compiti principali si desume che la competenza precipua della Commissione parlamentare ha in ogni caso a oggetto le mafie come fenomeno criminale generale e, come conseguente finalità da perseguire, il miglioramento delle conoscenze in vista appunto di un progressivo rafforzamento e affinamento delle strategie di intervento. Ciò in coerenza del resto con l’art. 82 della Costituzione, che riconosce alle Camere il potere di compiere inchieste su “materie di pubblico interesse”, in cui indubbiamente rientra la criminalità associata. Da questo punto di vista, l’attività parlamentare di inchiesta si differenzia in linea di principio dalle indagini giudiziarie dal momento che, a differenza di queste ultime, non ha per scopo di accertare reati e dunque di ricostruire probatoriamente specifici episodi criminosi (quale che ne sia il livello di gravità). Se così è, ci si può allora problematicamente chiedere se assolva davvero le sue tipiche funzioni politico-istituzionali una Commissione parlamentare che si attribuisca il compito di indagare vicende di mafia specifiche per quanto gravissime, con l’obiettivo pur apprezzabile di fare maggiore verità rispetto a quanto sia riuscita a fare l’autorità giudiziaria competente, eventualmente collaborando a questo fine con una specifica procura in un gioco interattivo che rischia però di sovrapporre e confondere competenze che dovrebbero rimanere in teoria distinte. Si allude, com’è facile intuire, alla scelta politica dell’attuale Commissione antimafia di assumere a oggetto privilegiato di inchiesta la strage Borsellino e in particolare la pista del rapporto mafia-appalti, instaurando una relazione di stretta collaborazione con la procura di Caltanissetta, la quale ritiene di poter ricavare dalle audizioni parlamentari input investigativi da valorizzare con immediatezza (così è nata l’indagine sull’ipotizzato favoreggiamento di Natoli e Pignatone) e, a sua volta, periodicamente inoltra alla presidente Colosimo documentazione relativa agli accertamenti giudiziari in corso (da qui ha tratto origine il caso Scarpinato, dopo che il quotidiano La Verità ha divulgato la notizia dell’invio da Caltanissetta alla presidenza dell’Antimafia degli atti relativi alle conversazioni intercettate tra Scarpinato e Natoli). Questa circuitazione, a ben guardare, rischia di produrre effetti perversi o comunque disfunzionali. A parte gli aspetti assai problematici dell’ipotesi di favoreggiamento tardivamente congetturata a carico di due noti e stimati ex magistrati come Natoli e Pignatone, va infatti evidenziata una non secondaria ragione di fondo che può in realtà rendere, alla fine, scarsamente produttiva la contestuale collaborazione dell’organo parlamentare con la magistratura inquirente in vista della acquisizione di una maggiore verità su eventi drammatici e gravissimi, bisognosi di ulteriori chiarimenti anche rispetto alle possibili causali. La ragione è questa: sembra poco realistico attendersi che la sede parlamentare risulti più idonea a fungere da luogo di approfondimento ricostruttivo se quanti hanno finora taciuto in sede giudiziaria per il timore di eventuali imputazioni continuano a dover pur sempre temere, qualora finalmente rivelino quel che sanno, l’incombere della spada di Damocle di una colpevolizzazione punitiva in tribunale. Sarebbe, forse, più realistico attendersi una maggiore verità se, come avviene nell’ambito delle Commissioni verità e giustizia a carattere riconciliativo, l’accertamento dei fatti avvenisse senza possibili conseguenze penali. È plausibile adottare anche nel nostro paese modelli di accertamento privi di seguiti processuali, rinunciando al bisogno emotivo di punire e considerando soluzione adeguata a rispondere anche alle aspettative delle vittime un dibattito storico-politico e un confronto pubblico volti a far maturare una più approfondita presa di coscienza e una maggiore responsabilizzazione collettiva rispetto a quanto accaduto? Non sembra azzardato sollevare un simile interrogativo. Non a caso, il discutibile intreccio collaborativo tra Commissione antimafia e procura nissena è anche all’origine del caso Scarpinato sopra accennato. La vera questione a nostro giudizio non è se sia opportuno che un ex magistrato si occupi, divenuto componente della Commissione antimafia, di vicende indagate nel precedente ruolo continuando a difendere tesi che non hanno ricevuto i necessari riscontri processuali. Piuttosto, può non apparire consono alla nuova funzione rivestita l’ostinato mantenimento di una mentalità e uno stile di comportamento di tipo giudiziario, con la connessa pretesa di far valere certe tesi per il solo fatto di averle sostenute da magistrato. Insomma, si tratta di cambiare atteggiamento e adeguarsi ai nuovi compiti, e questo cambiamento dipende non ultimo dalla capacità e disponibilità personale a compiere il salto qualitativo dal ruolo giudiziario al ruolo politico. Non sembra, pertanto, da condividere la proposta vagheggiata dalla presidente Colosimo di introdurre una previsione normativa che sancisca qualcosa di simile a un obbligo di astensione dalla trattazione di temi rispetto ai quali qualche componente della Commissione possa trovarsi in “conflitto di interessi”. Che vuol dire conflitto di interessi, chi lo stabilisce e sulla base di quali criteri? In realtà, non essendo i commissari antimafia giudici che incriminano e condannano, per contrastare un eventuale eccesso di prevenzione di giudizio di qualche commissario possono ben bastare il confronto dialettico e l’efficacia argomentativa. Ancora, la vicenda Scarpinato dimostra come un cortocircuito quale quello tra procura nissena e Commissione antimafia possa dar luogo a palesi e gravi violazioni della legalità sul piano procedimentale, essendo contrario alle garanzie costituzionali l’intercettazione di un senatore senza la preventiva autorizzazione parlamentare. Come è stato rilevato su questo giornale, casualmente si intercetta una o due volte, ma decine di intercettazioni non sono più un caso. Ed è legittimo chiedersi perché, invece di essere distrutte, queste intercettazioni siano state inviate alla presidente Colosimo ancorché - come ha riconosciuto la stessa procura nissena - prive di rilievo penale, con l’effetto negativo di intralciare i lavori della Commissione inducendo la presidente, imbarazzata e a disagio, a chiedere un parere tecnico prima di portare gli atti a conoscenza degli altri commissari. Le polemiche e gli attacchi a Scarpinato seguiti alla rivelazione giornalistica delle predette intercettazioni hanno soprattutto censurato o posto in dubbio la legittimità delle sue conversazioni con l’ex collega Natoli, ma hanno trascurato o sottovalutato la obiettiva gravità del ripetuto ascolto di un senatore al di fuori dei presupposti legali. Ciò si spiega per un verso col fatto che Scarpinato, percepito come un magistrato di sinistra di forte inclinazione giustizialista, costituisce un bersaglio troppo ghiotto nel caso in cui gli avversari trovino facili pretesti per denigrarlo. Ma è anche vero, più in generale, che il sentimento di rispetto per la legalità rigorosamente intesa può indebolirsi in contesti contingenti, in cui il paradigma vittimario tende a prevalere nella sensibilità collettiva e nell’orizzonte pubblico, e ciò sino al punto di assumere la sacrosanta aspettativa delle vittime a ottenere verità e giustizia a esigenza valoriale prioritaria, come un valore tirannico destinato a prevalere rispetto ai valori e alle pur rilevanti esigenze concorrenti, pressoché in maniera incondizionata. Con la massima comprensione e la massima considerazione per i familiari di Paolo Borsellino, dai quali è pervenuta una forte sollecitazione ad approfondire la pista mafia e appalti - e nonostante il timore di apparire poco sensibili a quel bisogno di verità che le vittime comprensibilmente avvertono come un diritto imprescrittibile - un rischio riteniamo vada segnalato: cioè quello di ulteriori effetti (involontariamente) perversi derivanti da un forse affrettato interventismo magistratuale che suscita l’impressione di sposare in pieno le ragioni di specifiche vittime in carne e ossa (come se la giustizia fosse - per dir così - privatizzabile sia pure a nobili fini) e dall’operare di una Commissione antimafia che nella sua attuale maggioranza sembra condividere la tesi - obiettivamente opinabile - che Borsellino sia stato eliminato per impedirgli di sviluppare indagini sul tema mafia e appalti. È questa a tutt’oggi un’ipotesi esplicativa che va verificata insieme ad altre, non una certezza acquisita. Mafiosi mai più scarcerati per decorrenza dei termini di don Maurizio Patriciello Avvenire, 26 ottobre 2024 “Scarcerati per decorrenza dei termini”, parole che non vorremmo più sentire. Non si possono sentire, suscitano rabbia, scoraggiamento. Invitano al pressapochismo, al menefreghismo, al tirare i remi in barca, perché “tanto è tutto inutile”. Non è possibile che nel giro di pochi giorni, in Sicilia, boss mafiosi rinchiusi fino al giorno prima al 41 bis, vengano rimessi in libertà per scadenza della carcerazione preventiva. Non è neppure lontanamente pensabile che chi ha obbedito alla propria coscienza e - con timore e tremore - si è deciso a denunciare, pur sapendo i rischi che corre, e correrà in futuro, si ritrovi a passeggiare per il corso del paese avendo dietro di sé l’uomo che potrebbe ucciderlo. Non è pensabile educare i nostri giovani alla legalità, quando la stessa giustizia non appare ai loro occhi capace di garantire incolumità e sicurezza. Perché una società inizi a funzionare bene, occorre che le regole siano rispettate. Da tutti. Mercoledì scorso, in un paese del Cilento, nel Salernitano, ci siamo ritrovati in tanti - vescovo della diocesi, parroci, insegnanti, sindaci, carabinieri - a dialogare con tanti studenti di diversi comuni, di legalità, lotta alla camorra, impegno civile. I ragazzi pendevano dalle nostre labbra, intervenivano, facevano domande. Erano e sono fortemente interessati. Hanno bisogno di testimoni credibili. Vogliono certezze. Bisogna convincerli che essere onesti “conviene”. Al di là di ogni altra motivazione morale, conviene. Per tanti motivi, conviene, non ultimo perché il carcere - in particolare il 41 bis - è una brutta bestia. L’unica bestia capace di impaurire e far fare un passo indietro ai mafiosi ammaliati dal danaro e dal potere. L’ho detto e ripetuto tante volte, una delle espressioni più orribili che ho dovuto, mio malgrado, ascoltare - e che mai più vorrei che fosse pronunciata - è stata quella di alcuni amici testimoni, o anche collaboratori, di Giustizia che per avere reso allo Stato un servizio, si ritrovano, non poche volte, a dover fare i conti con una burocrazia farraginosa che mette a dura prova la loro pazienza e che fa dire loro: “Se potessi tornare indietro, non lo rifarei”. Il problema esiste. I detenuti hanno i loro diritti che vanno rispettati, e su questo non ci piove. Ma anche i cittadini onesti che hanno pagato e pagano per le malefatte dei mafiosi hanno i loro sacrosanti diritti. Senza contare gli uomini delle forze dell’ordine ai quali viene chiesto di dare la vita pur di acciuffare i delinquenti. Cosa che fanno. Pronti come siamo a ingigantire un reato commesso da qualche mela marcia che sempre riesce a intrufolarsi tra le pieghe di qualsiasi organismo sano, non sempre sappiamo dire grazie per le tante operazione che essi, quotidianamente, mettono in campo con successo. Deve essere deprimente anche per loro, oltre che per ogni cittadino di buona volontà, assistere impotenti alla scarcerazione dei detenuti, per decorrenza dei termini, che, tradotto, sta a significare che Tizio viene rimesso in libertà non perché ritenuto innocente, e quindi incapace di colpire ancora, ma solamente perché la nostra bella Italia che amiamo e che tentiamo di servire, non è stata capace di fare il proprio dovere. Un vero tallone di Achille. Un punto, questo, talmente debole da risultare pericolosissimo. Corriamo ai ripari, tutti insieme, destra, centro, sinistra, giustizialisti e garantisti. Se a un mafioso - acciuffato con tanta fatica, sudore, indagini, spreco di danaro pubblico, e mettendo a rischio la vita di tanti nostri fratelli e sorelle - per legge, viene ridata la libertà, occorre che qualcuno si chieda, con grande serietà, che cosa quest’uomo non amante della legalità, non amante della solidarietà, non avvezzo all’onestà, né al rispetto per le regole e per la vita altrui, bisogna pur chiedersi, dicevo, che cosa mai potrà combinare nel tempo della tanto agognata e ritrovata libertà. Occorre smetterla di difendere i diritti a senso unico. In una comunità, per forza di cose, tanti diritti confliggono. È questione di priorità. Gli onesti, i lavoratori, coloro che non pesano sulle casse dello Stato, ma che, al contrario, nell’anonimato del proprio quotidiano, fanno il loro dovere, educano i figli, pagano le tasse, osservano le regole, costoro e non altri, hanno la precedenza. Essi rappresentano l’ossatura di qualunque società. Persone su cui contare. Conviene allo Stato non scoraggiarli. Se a troppi detenuti vengono spalancate le porte del carcere per decorrenza dei termini, vuol dire che bisogna incrementare le fila dei magistrati, rafforzare le procure e i tribunali, oleare meglio la macchina della giustizia. Una giustizia ingiusta è un orribile ossimoro. Frosinone. Senza energia elettrica, vetri e in 14 celle di notte si vive al buio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2024 In un sistema penitenziario già al limite del collasso, la denuncia del Garante del Lazio Stefano Anastasìa sulle condizioni del carcere di Frosinone getta nuova luce sulla drammatica situazione delle carceri. La sesta sezione dell’istituto laziale versa in condizioni che definire critiche sarebbe un eufemismo: assenza totale di energia elettrica, finestre prive di vetri e 14 celle ancora operative dove i detenuti vivono al buio dalle ore notturne all’alba. Ma il caso di Frosinone, con i suoi 604 detenuti stipati in uno spazio previsto per 484 persone - un tasso di sovraffollamento del 125% - non è che la punta dell’iceberg di una crisi sistemica che investe il territorio nazionale. I dati aggiornati al 21 ottobre 2024 dal Garante nazionale delle persone private della libertà dipingono un quadro allarmante: 61.998 detenuti presenti a fronte di soli 46.700 posti effettivamente disponibili, nonostante una capienza regolamentare teorica di 51.201 posti. Il sovraffollamento nazionale raggiunge così il 132,76%, con picchi preoccupanti in diverse regioni. La situazione più critica si registra nel carcere di Milano San Vittore, dove l’indice di sovraffollamento tocca il 223,21%, ma il problema è diffuso: ben 155 istituti su 190 (82%) superano la capienza consentita, e in 57 di questi la popolazione carceraria supera del 50% i limiti regolamentari. L’analisi regionale rivela disparità significative: la Puglia (168,57%), la Basilicata (154,61%), la Lombardia (153,33%), il Lazio (148,11%) e il Veneto (147,15%) mostrano le situazioni più critiche. Solo due regioni - Sardegna (97,84%) e Valle d’Aosta (77,71%) - si mantengono sotto la soglia regolamentare, ma il loro minor tasso di affollamento non può essere sfruttato per alleggerire altre strutture, data la necessità di mantenere i detenuti vicini ai propri nuclei familiari. In questo contesto, il decreto carceri del ministro Nordio appare come una risposta largamente insufficiente all’emergenza in corso. Le misure adottate non hanno prodotto gli effetti sperati sul sovraffollamento, mentre le condizioni strutturali degli istituti continuano a deteriorarsi, come evidenziato dal caso di Frosinone. La situazione del carcere laziale è emblematica anche per un altro aspetto critico: su 268 ingressi nel primo semestre dell’anno, ben 150 detenuti sono stati trasferiti da altri istituti per ragioni di “ordine e sicurezza”, trasformando di fatto il trasferimento in una sanzione disciplinare che complica ulteriormente la gestione dell’istituto. In tutto questo rimane tuttora inevasa la proposta di legge avanzata da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Si chiede semplicemente la liberazione anticipata speciale, all’epoca varata dall’ex ministra Cancellieri e aveva funzionato nonostante le solite critiche non solo a destra, ma soprattutto da quei settori della magistratura vicini al movimento cinque stelle e parte del Pd. Firenze. La Commissione comunale Politiche Sociali a Sollicciano. E i detenuti si “ribellano” La Nazione, 26 ottobre 2024 Commissione e polemiche sul carcere di Sollicciano. Dopo una prima riunione saltata - lo scorso 18 ottobre il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non dette in tempo l’autorizzazione - la puntata due è andata in scena ieri e i consiglieri della Commissione Politiche sociali sono entrati dentro Sollicciano. Hanno parlato con alcuni detenuti nello spazio del “Giardino degli incontri” e con la direttrice Antonella Tuoni. Dal punto di vista dell’infrastruttura i problemi emersi - riferiti da molti consiglieri - sono gravi: infiltrazioni, cimici nei letti, un quadro in generale poco dignitoso. Dal punto di vista delle modalità dell’incontro non sono mancate le critiche. Dmitrij Palagi (Spc) è stato il più duro: ha parlato di “brutta seduta”, di un “Comune che si è confermato un corpo estraneo” e di “un dibattito alterato dalla presenza della direttrice”. “Io all’inizio della seduta avevo capito che la direttrice ci avrebbe raggiunto per un saluto - ha affermato Palagi -. E invece non è andata così. Però la commissione è stata utile: ha segnato ancora una volta la distanza tra le istituzioni e la popolazione detenuta”. Il presidente della commissione Edoardo Amato (Pd) ha parlato del fatto che la presenza della direttrice ha comunque “creato una logica binaria” tra detenuto e Tuoni. Ma ha voluto puntualizzare che “i detenuti comunque si sono potuti esprimere in modo libero. Per noi è stata un’esperienza molto forte dal punto di vista emotivo e per fortuna che le autorizzazioni sono arrivate in tempo, fino all’ultimo non sapevamo se si poteva entrare o meno a Sollicciano”. Francesco Grazzini (Iv) ha detto che “sul tema le sedute fatte erano state molto interessanti. Mi è dispiaciuto si sia creato troppo l’effetto gita, c’erano troppe persone presenti. Non ho niente con i consiglieri di quartiere che si sono presentati, però secondo me in generale eravamo troppi. Dai detenuti è emersa una certa sfiducia nelle istituzioni. La presenza della direttrice Tuoni? Ho stima di lei, ma se mi si chiede se sono d’accordo su aver fatto un incontro con i detenuti come è stato organizzato ieri rispondo di no”. Como. Non solo sovraffollamento, il Consigliere Gaddi: “Al Bassone è emergenza sanitaria” di Michela Vitale espansionetv.it, 26 ottobre 2024 Non solo sovraffollamento, “la prima emergenza del carcere di Como è quella sanitaria, legata anche al disagio psichico”. A spiegarlo è Sergio Gaddi, Consigliere regionale comasco di Forza Italia in visita ieri al Bassone per verificare le condizioni all’interno del penitenziario, ha incontrato il direttore della Casa Circondariale Fabrizio Rinaldi e Alessandra Gaetani, dal 2021 Garante per i diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Como. Gaddi, che è componente della commissione speciale “Tutela dei diritti delle persone private della libertà personale” di Regione Lombardia, ha fatto il punto sulla situazione del carcere comasco. “Se la prima emergenza è quella sanitaria - riferisce il consigliere - ci sono poi esigenze sanitarie molto concrete che potrebbero essere affrontate in collaborazione con Regione e Ats. Per esempio, un piccolo numero di posti per gli esami specialistici, perché nel caso del detenuto, l’attesa eccessiva e il timore della malattia grave amplificano la sofferenza già estrema della carcerazione e possono creare altri problemi al personale di vigilanza. Oppure la possibilità che l’attesa del detenuto al pronto soccorso sia offerta negli spazi già previsti in ospedale e non con gli altri pazienti. Aspetti apparentemente marginali- chiarisce - ma che possono dare un aiuto concreto in termini di benessere e dignità. Nel carcere di Como si ha poi l’esigenza di sviluppare attività culturali e formative”. Il Bassone, come più volte documentato, non sfugge al problema generale che affligge l’istituzione carceraria: il sovraffollamento. I detenuti sono 427, a fronte di una capienza regolamentare ben minore. Senza tralasciare i pochi educatori a disposizione e la difficoltà a motivare le persone nel loro percorso di recupero. Infine, viene ricordato, che non sono mancati casi di suicidio e clamorose proteste come il caso del detenuto salito sul tetto lo scorso gennaio. “Nonostante l’impegno della polizia penitenziaria e il supporto dei volontari, il carcere resta un luogo di sofferenza e di solitudine - ha detto ancora Gaddi - e il rischio di recidiva per chi vi è costretto è intollerabilmente alto”. Sul fronte dei percorsi di studio e lavoro il carcere di Bollate viene indicato come un esempio e un modello virtuoso. “Trovo necessario - chiude il consigliere - prestare la massima attenzione alle condizioni di lavoro in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria, a cui deve essere offerta una adeguata formazione per poter far fronte alle esigenze imposte da una popolazione carceraria così importante. Continueremo a lavorare, anche con l’apporto di Regione Lombardia, perché il sistema carcerario sia più giusto e più umano”. Catania. “Il senso della pena”, l’esperienza positiva del progetto Koinè La Sicilia, 26 ottobre 2024 La testimonianza: “Ora ho un futuro”. Il “presidio per la Giustizia di comunità in Sicilia orientale” traccia un bilancio: raggiunti 549 detenuti, erogati 300 sussidi economici e 27 per abitazione. E in 30 hanno fatto un tirocinio, qualcuno è diventato lavoro stabile. “Qual è il senso della pena? Costituzionalmente è chiaro, il reintegro in società. E lavoriamo perché questo sia sempre più vero”. Lo ha affermato Domenico Palermo, direttore del progetto Koinè, conclusosi a luglio, a l’incontro, nel salone delle Adunanze di Palazzo di Giustizia di Catania, su ‘Il senso della pena - Dalla rete al presidio per la giustizia di comunità’. Il progetto Koinè, con capofila la cooperativa Prospettiva Futuro di Catania, è stato da settembre 2022 ad agosto 2024 un “presidio per la Giustizia di comunità in Sicilia orientale”, che ha visto effettuare laboratori e dato supporto psicologico nelle carceri. Inoltre ha sono stati fatti interventi altamente impattanti sulla vita, come la possibilità di un tirocinio lavorativo, trasformatisi oggi anche in lavoro stabile per alcuni dei beneficiari, persone in esecuzione penale o messe alla prova. A guardare i numeri, l’obiettivo sembra raggiunto: “Il target era di 90 detenuti, ne abbiamo raggiunti 549, sei volte di più. Di questi il 75% era in carcere. Abbiamo inoltre distribuito oltre 300 sussidi economici per aiuti familiari ai detenuti e 27 per l’autonomia abitativa”, spiega Palermo. L’obiettivo dell’incontro a Palazzo di giustizia era interrogarsi sui risultati raggiunti da quello che è stato, di fatto, il primo tentativo regionale della Sicilia orientale di dare corso all’attuazione dei percorsi e dei programmi contenuti dalla cosiddetta riforma Cartabia che fa della giustizia riparativa uno dei suoi pilastri. È stato anche l’occasione per visualizzare due video di testimonianze da parte di aziende partner del progetto Koinè (Gusto market a Ortigia, con Valentina passata dalla pena al lavoro a tempo indeterminato, e Nisi Pasticcerie di Belpasso che fa export di prodotti tipici siciliani), e per presentare in anteprima il volume “Libero è il pensiero. Voci sogni parole e immagini dal carcere”, che raccoglie scritti e testimonianze dirette sul carcere, frutto dell’impegno ultra decennale di Prospettiva in materia. Hanno aperto i lavori i presidenti della Corte d’appello, Filippo Pennisi, del Tribunale, Francesco Mannino, la procuratrice facente funzioni, Agata Santonocito e la direttrice dell’Ufficio distrettuale esecuzione penale esterna di Catania, Maria Pia Fontana. Il progetto, a cui per i risultati raggiunti è stata data continuità per un nuovo biennio con il nome di ‘Koinè Restart’, ha costituito il “presidio” nell’area di competenza delle Corti d’Appello di Catania e Messina coinvolgendo come partner attivi l’Amministrazione penitenziaria, Uffici di esecuzione penale esterna e Tribunali di Catania e Messina, il Dipartimento di Giustizia ed è stato finanziato dalla Regione Sicilia e dalla Cassa delle Ammende. Fidenza (Pr). Pro.Digi, formazione digitale a persone in esecuzione penale Ristretti Orizzonti, 26 ottobre 2024 Primo percorso Pro.Digi concluso con successo a Fidenza. Formazione digitale alle persone in esecuzione penale, o sottoposte a misure di comunità in Emilia-Romagna: si è concluso con successo a Casa di Lodesana, a Fidenza (PR), il primo percorso di Pro.Digi, il progetto selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale, che punta a creare una seconda opportunità per 100 persone in situazione di fragilità, accompagnandole a maturare competenze digitali per la cittadinanza e l’inclusione, oltre che finalizzate al reinserimento lavorativo. Promosso da AECA (capofila), CEFAL Emilia-Romagna e CIOFS FP Emilia-Romagna ETS, Pro.Digi ha preso il via nel mese di giugno con due percorsi paralleli: uno all’interno del reparto di alta sicurezza degli Istituti Penitenziari di Parma, e il secondo presso la Comunità Terapeutica Casa di Lodesana, a Fidenza. È proprio a Casa di Lodesana che venerdì 25 ottobre si è svolta la cerimonia di consegna dei primi attestati di frequenza al corso, che è stato portato a termine da 9 delle 12 persone che lo hanno iniziato. Si tratta di otto uomini e una donna, sette dei quali stanno scontando la propria pena detentiva sotto la supervisione dell’Ufficio Interdistrettuale per l’Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) Emilia-Romagna e Marche, e due sono affidati alla struttura dal SERT per affrontare dei problemi di dipendenza. Il corso è stato realizzato dal personale di CIOFS FP Emilia-Romagna ETS. I primi nove “diplomati” di Pro.Digi hanno completato tutte le tre fasi del progetto formativo gratuito: la prima di riallineamento delle competenze dei partecipanti con corsi di lingua italiana o di pre-alfabetizzazione digitale; la seconda con moduli di formazione digitale, oltre che con cicli di accompagnamento orientativo; e la terza fase - conclusasi proprio venerdì - con il supporto ai corsisti nel loro percorso di inserimento lavorativo, in collaborazione con gli enti partner. È proprio sul fronte dell’inserimento lavorativo che arrivano ottime notizie da Casa di Lodesana. Ad oggi, infatti, 6 delle 9 persone che hanno concluso il primo percorso di Pro.Digi hanno attivato dei percorsi di tirocinio in cinque distinte realtà della provincia di Parma: due di esse stanno lavorando presso la Cooperativa Sociale EMC2, che si occupa principalmente di raccolta differenza dei rifiuti e manutenzione del verde pubblico; una è stata inserita nello staff di un noto ristorante di Parma; una presso una carrozzeria; una lavora presso una struttura dell’Associazione San Cristoforo e la sesta sta svolgendo la mansione di aiuto cuoco in una struttura di Casa di Lodesana. “Le nozioni digitali apprese grazie a Pro.Digi saranno sicuramente di grande aiuto a queste persone nel loro percorso verso uno stato di completa autonomia e libertà - commenta Giuseppe Ottani di AECA, responsabile del Progetto Pro.Digi -. Il processo di digitalizzazione accompagna ormai ogni singolo aspetto delle nostre vite, e siamo fieri di poter fornire a queste persone, che sono ormai vicine alla scadenza di pena, i necessari strumenti per affrontare con maggiore sicurezza le sfide del lavoro e, più in generale, della vita.” “Siamo molto soddisfatti dell’esito di Pro.Digi - racconta Massimo Sabasco, Direttore di Casa di Lodesana - che ha avuto un’alta percentuale di successo con i nostri ospiti, e che speriamo possa presto essere riproposto a favore di altre persone che hanno un gran bisogno di dotarsi di competenze che al giorno d’oggi risultano necessarie in tutti i contesti. Ci tengo a ringraziare lo staff di Pro.Digi per il lavoro svolto con passione e dedizione a favore di persone che meritano di avere una seconda opportunità”. Nel frattempo si è concluso il primo corso del Progetto Pro.Digi all’interno della sezione di Alta Sicurezza degli Istituti Penitenziari di Parma, con il coordinamento del personale di Cefal Emilia-Romagna. Il corso ha visto la partecipazione costante e continuativa di dieci detenuti, che hanno dimostrato un grande interesse per i temi trattati e per le competenze sviluppate. Grazie all’interazione con i docenti e ai colloqui individuali sono emerse le “potenzialità di ciascuno”, partendo dalle quali sono state sviluppare ipotesi di eventuali opportunità lavorative che potrebbero aprirsi sia all’interno che all’esterno del penitenziario qualora le condizioni giudiziarie dei singoli partecipanti lo consentissero. Il progetto formativo è stato reso possibile grazie alla disponibilità, al coinvolgimento e al supporto dell’area giuridico pedagogica e della polizia penitenziaria. Il corso è stato “contagioso”. Altri detenuti del circuito di Alta Sicurezza 1, infatti, hanno fatto richiesta alla Direzione di essere coinvolti nei percorsi di alfabetizzazione informatica. Questo perché - a prescindere dalla lunghezza del fine pena - per un detenuto, formarsi in questa materia vuol dire acquisire uno strumento in più verso l’inclusione sociale, e non da ultimo, sul piano valoriale, sentirsi ed essere al passo con la rapida evoluzione tecnologica che sta avvenendo al di fuori delle mura. Due nuovi percorsi di Pro.Digi saranno attivati nel mese di novembre 2024 nelle carceri di Ferrara e Bologna, dove saranno coinvolte persone in scadenza di pena, che potranno godere di un accompagnamento personalizzato al reinserimento sociale e lavorativo. Il progetto è stato selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale. Il Fondo per la Repubblica Digitale è nato da una partnership tra pubblico e privato sociale (Governo e Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio - Acri) e, in via sperimentale per gli anni 2022-2026, stanzia un totale di circa 350 milioni di euro. È alimentato da versamenti effettuati dalle Fondazioni di origine bancaria. L’obiettivo è accrescere le competenze digitali e sviluppare la transizione digitale del Paese. Per attuare i programmi del Fondo - che si muove nell’ambito degli obiettivi di digitalizzazione previsti dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e dal PNC (Piano Nazionale Complementare) - a maggio 2022 è nato il Fondo per la Repubblica Digitale - Impresa sociale, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata da Acri. Per maggiori informazioni www.fondorepubblicadigitale.it. Trieste. La Presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune in visita al Coroneo triestecafe.it, 26 ottobre 2024 “Pensiamo che la nostra libertà sia un diritto scontato, che essendo nati in Occidente nessuno possa arrivare e portarcela via. Non è così, la libertà va difesa ed è stata duramente conquistata col sacrificio di chi ci ha preceduti e ha combattuto per i diritti dei quali oggi beneficiamo”. Così la presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Trieste, dott.ssa Margherita Paglino, durante il suo intervento in occasione della visita del 24 ottobre, presso la Casa Circondariale di Trieste Ernesto Mari, nell’ambito del progetto finanziato dalla Fondazione Casali e realizzato dall’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste. Il progetto, che intende favorire la consapevolezza e l’esercizio dei diritti civili da parte delle persone detenute, attraverso una loro maggiore conoscenza, ha visto il coinvolgimento del reparto detentivo femminile, attraverso la proiezione del film “Kafka a Teheran” con a seguire un dibattito incentrato sul confronto tra l’Iran, dove non sono consentite le libertà e gli Stati democratici, dove invece sono riconosciute - prosegue Paglino ‘L’evento è stato anche occasione per conoscere personalmente le detenute. Confrontandomi con loro e conoscendo le loro storie e il contesto socio-culturale di provenienza, è emerso come sarebbe utile ripensare ad una progettualità di lungo termine per rieducare queste donne (anche giovanissime) alla vita, per affrontare al meglio il reinserimento nella società una volta scontata la pena’ continua Paglino ‘Fornire loro strumenti pratici per una vita lavorativa ma anche psicologici, per strutturarsi come persone, significa trasformare l’esperienza del carcere, oltre che di pena anche di redenzione, significa offrire nuove opportunità per una vita migliore a chi magari è stato meno fortunato, il che avrebbe un impatto positivo sulla società stessa oltre che sul sistema carcerario. Reintrodurre in società persone ‘nuove’ consapevoli, formate, serene è una vittoria per tutti’ prosegue Paglino e conclude ‘Voglio ringraziare il presidente dell’OISL dott. Enrico Sbriglia per aver realizzato questo significativo evento e per avermi coinvolta, il Direttore del carcere, dott. Graziano Pujia, per la sua professionalità e cura’. Cagliari. Genitori detenuti e figli minori: al via a Uta il progetto “Liberi dentro per crescere fuori” ilporticocagliari.it, 26 ottobre 2024 L’idea, sostenuta dall’impresa sociale Con i Bambini, offre un’opportunità di riscatto e integrazione a 90 destinatari. “Liberi dentro per crescere fuori” è il nome del progetto che in Sardegna si impegna a combattere stigmi e pregiudizi per favorire la crescita e l’integrazione sociale dei minori con genitori detenuti, sia dentro che fuori la Casa circondariale di Uta. Selezionato in Sardegna da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, l’iniziativa mira a creare opportunità e a preservare il legame affettivo con il genitore recluso, in linea con il bando nazionale Liberi di crescere. Un supporto integrato per famiglie e minori - Con una durata di 48 mesi, l’iniziativa prevede un sistema di interventi personalizzati e multidimensionali per offrire supporto non solo al genitore detenuto e al figlio, ma anche all’intero nucleo familiare. Attraverso una rete di collaborazione tra le cooperative sociali cagliaritane Elan, Exmè, Panta Rei Sardegna e Solidarietà Consorzio, insieme al Carcere di Uta, all’Ufficio di esecuzione penale esterna della Sardegna (UIEPE), al Comune di Cagliari e alle associazioni Prohairesis e Aragorn S.r.l., il progetto punta a fornire un sostegno concreto a queste famiglie. Coinvolgimento dei minori e delle famiglie - Il progetto coinvolgerà almeno 20 minori e 10 nuclei familiari l’anno, per un totale stimato di 90 destinatari diretti nel quadriennio. L’obiettivo è attivare percorsi di aiuto per 30 nuclei familiari. Le attività si basano su un modello di progettazione familiare partecipata, che vede la collaborazione di psicologi, pedagogisti, educatori e assistenti sociali. L’idea è quella di sviluppare progetti educativi personalizzati, pensati per adattarsi alle esigenze di ogni singolo minore e della sua famiglia. Iniziative di presentazione e incontro - Lunedì 28 ottobre, dalle 14, presso il carcere di Uta si terrà un incontro inaugurale nell’ambito dell’iniziativa La partita con mamma e papà, ideata da Bambinisenzasbarre. Durante l’incontro, i partner del progetto avranno l’opportunità di presentarsi alle famiglie delle persone sottoposte a pena detentiva. Sarà anche organizzata una partita di calcio tra genitori e figli, con la partecipazione dello street artist Manu Invisible. Successivamente, saranno illustrati i dettagli del progetto Liberi dentro per crescere fuori, avviando un dialogo con le famiglie interessate a intraprendere il percorso. Attività e percorsi di crescita - Il progetto prevede numerose attività, tra cui il potenziamento delle visite in carcere, con spazi adeguati per un contatto fisico sicuro tra genitori e figli. Saranno inoltre creati ambienti accoglienti per i minori in attesa degli incontri. L’iniziativa offre anche supporto psicologico e coinvolge i bambini in laboratori artistici, attività sportive e culturali e gite all’aperto. Il progetto prevede poi attività come la promozione della lettura e l’organizzazione di eventi culturali all’interno e all’esterno del carcere. Inclusione sociale e sostegno ai genitori - Per le persone detenute, il progetto prevede anche tirocini di inclusione sociale e lavorativa e un servizio di supporto psicologico dedicato. Il percorso offerto da Liberi dentro per crescere fuori si pone come obiettivo quello di dare ai bambini e alle loro famiglie un’opportunità di crescita integrata e sostegno continuativo, contribuendo al superamento delle difficoltà che derivano dalla condizione detentiva e promuovendo un ambiente familiare positivo per i minori coinvolti. Asti. Il teatro abbatte le sbarre: torna “La città entra in carcere” nella Casa circondariale lavocediasti.it, 26 ottobre 2024 Seconda edizione del progetto che unisce arte e rieducazione. Due spettacoli aperti al pubblico il 23 novembre. L’arte drammatica come strumento di cambiamento e rinascita. Torna per il secondo anno consecutivo il progetto teatrale nella casa circondariale di Asti, un’iniziativa che sta dando risultati sorprendenti nel percorso di recupero e risocializzazione dei detenuti. Il prossimo 23 novembre, la compagnia “Teatro Oltre”, formata da quindici detenuti, presenterà al pubblico uno spettacolo in due atti, frutto di mesi di lavoro e preparazione. “Raccontare i luoghi e gli eventi e anche quello che accade intorno a noi: cultura è fare esattamente questo: cercare di capire quali sono le istanze che arrivano dal basso, quelle che sono le esigenze di un territorio, quelle che sono le nuove sensibilità da abbracciare”, sottolinea l’assessore Paride Candelaresi. Uno strumento che persegue la legislazione carceraria più avanzata - “Il teatro in carcere è un potente strumento di cambiamento della personalità”, spiega la direttrice del carcere Giuseppina Piscioneri. “Non si tratta solo di intrattenimento, ma di un vero e proprio percorso di crescita che sostiene la legislazione più avanzata nel perseguire l’obiettivo del reinserimento in società”. L’iniziativa, che vede la collaborazione tra il Teatro Agar, l’associazione Effatà e l’amministrazione comunale, si inserisce nel solco dell’articolo 27 della Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ricorda la direttrice “La vecchia idea punitiva è stata ribaltata: la funzione della pena rappresenta un mezzo per la rieducazione e la risocializzazione del detenuto”. Lo spettacolo, dal titolo significativo “Non sia un giorno come tanti”, si articola in due parti: la prima nasce dal recupero di ricordi, esperienze ed emozioni dei detenuti, mentre la seconda è una commedia brillante scritta da un detenuto, Michele. “Quest’anno i partecipanti sono stati molto più esigenti e pretenziosi”, spiega Silvana Nosenzo, della compagnia Agar, che ha curato il laboratorio. “Non si sono accontentati di produrre qualcosa di buono, ma hanno voluto migliorare le loro capacità artistiche ed espressive, entrare meglio nelle dinamiche di gruppo e appropriarsi dei meccanismi teatrali. C’è stato un vero salto di qualità”. “Il laboratorio non si è configurato come un semplice corso di recitazione, dove i partecipanti imparano le parti a memoria e le recitano meccanicamente”, precisa “È stata una vera e propria ricerca sulle parti del sé, dove noi come attori, registi e psicologi abbiamo puntato a far emergere le emozioni, anche quelle più intime, metterle sotto controllo e poi portarle sul palcoscenico”. “Tra gli obiettivi raggiungibili con l’attività teatrale ci sono la riduzione del rischio di emarginazione, il miglioramento dell’autostima, l’occasione per riflettere su di sé e sul proprio rapporto con il mondo esterno”, aggiunge Mario Li Santi, anche lui della compagnia Agar “Si promuovono comportamenti relazionali positivi, come rispetto, sostegno, solidarietà e collaborazione, valorizzando le aree sane della personalità e offrendo stimoli per contrastare la deprivazione culturale”. “Questa esperienza mi ha fatto vedere che ero capace di fare cose che non pensavo” - Le testimonianze dei detenuti - lette dalla direttrice del carcere - che hanno partecipato a precedenti esperienze teatrali sono emblematiche: “Mi ha fatto vedere che ero capace di fare cose che non pensavo, mi ha insegnato a saper parlare, ad esprimermi. Mi ha dato la possibilità di socializzare con le persone e mi ha fatto crescere, mi ha dato nuovi stimoli”, racconta uno di loro. “Con gli altri compagni eravamo più compatti, più vicini”, aggiunge un altro partecipante nel suo racconto “Anche dopo il laboratorio avevamo qualcosa di cui parlare. Mi ha fatto capire che se ci metto la buona volontà ce la posso fare, a fare anche altro, a cambiare. A volte noi pensiamo che siamo discriminati perché siamo detenuti. Invece, vista questa esperienza, si vede che se ci mettiamo la buona volontà ce la possiamo fare”. Il progetto quest’anno si arricchisce anche di una significativa collaborazione con l’Istituto Penna. “Non sono soltanto i carcerati che beneficiano di aspetti di arricchimento”, osserva il dirigente scolastico Giorgio Marino, “c’è anche un arricchimento degli studenti nostri che, da semplici cittadini oramai quasi maggiorenni, possono vivere un’esperienza che tutti i cittadini dovrebbero fare per capire di cosa stiamo parlando”. Nuovi progetti all’orizzonte - “Il nome della compagnia, Teatro Oltre, incarna perfettamente lo spirito dell’iniziativa”, sottolinea Monica Olivero, educatrice che ha seguito le varie fasi del progetto “I detenuti vogliono andare oltre le sbarre e i cancelli, sia fisici che interiori, e scoprire sempre nuove profondità. C’è una vera fame di emozioni, di nuove esperienze e di dimostrare che possono rappresentare un’altra parte di sé”. Il percorso non si ferma qui: sono già in cantiere nuovi sviluppi, tra cui la possibilità di creare opportunità lavorative in ambito teatrale attraverso un corso tecnico di audio luci, nell’ottica di offrire concrete possibilità di reinserimento professionale. Gli spettacoli del 23 novembre, con due repliche previste una al mattino (ore 10) e una al pomeriggio (ore 15), rappresentano un’occasione unica per la cittadinanza di entrare in contatto con questa realtà e di assistere a un esempio concreto di come l’arte possa trasformarsi in strumento di riscatto e rinascita personale. Una precedente rappresentazione, dedicata alle famiglie dei detenuti, è prevista per il 12 novembre. Informazioni e costi - Il programma, intitolato “La città entra in carcere”, prevede due rappresentazioni: “Non sia un giorno come tanti”, un testo collettivo, e “Un letto per tre”, scritto da Michele C. La regia è affidata a Pellegrino Delfino, Mario Li Santi e Silvana Nosenzo. Per partecipare è necessaria la prenotazione obbligatoria entro il 13 novembre, da effettuare via e-mail all’indirizzo biglietteriateatro.alfieri@comune.asti.it, allegando copia della carta d’identità in PDF. I biglietti, del costo di 10 euro, saranno disponibili presso la biglietteria del Teatro Alfieri. L’iniziativa gode del patrocinio della Città di Asti e del sostegno della Banca di Asti. Si consiglia di presentarsi all’ingresso della Casa di Reclusione un’ora prima dell’inizio dello spettacolo. Migranti e politica, a difenderci sarà la nostra umanità di Mario Giro* Il Domani, 26 ottobre 2024 Più si politicizza la questione migratoria e meno se ne esce. Davanti a 120 milioni di rifugiati nel mondo, meglio sarebbe preparare una ragionevole strategia bipartisan. Invece, tra centri off shore e respingimenti in mare, stiamo diventando antipatici a tutti. “L’ong ha scelto di bighellonare…”: si racchiude in questo termine tutta la cultura (dis)umanistica dell’avvocata Giulia Bongiorno a difesa del ministro Matteo Salvini. Se salvare vite è paragonabile a bighellonare, allora vuol dire che siamo del tutto fuori e lontani dalla tradizione e dalla cultura umanistica, civile e giuridica euro-occidentale. Si può essere in disaccordo sul fatto che le ong si facciano carico di un’incombenza che dovrebbe essere della Guardia costiera; si può pensare che la questione migratoria debba essere risolta in altro modo e non con interventi di questo tipo. Ci si può scontrare sul credere che difendere i confini sia più importante che difendere la vita, anche se siamo già al limite. Ma disprezzare con termini beffardi l’impegno di giovani che decidono di dedicarsi alla salvezza in mare invece che farsi gli affari propri e curare soltanto la propria carriera, è dimostrazione di un cinismo e di una insensibilità che sa di anti democratico. È abitudine delle culture autoritarie quella di diffamare l’avversario con epiteti beffardi. Sì perché una delle caratteristiche della democrazia è occuparsi della res publica, cioè sentirsi responsabili degli altri, della collettività, delle vite degli altri come una cosa preziosa. È questo che è iscritto sui più importanti codici della nostra civiltà ma l’avvocata Bongiorno fa finta di non saperlo e irride. Non sa e non conosce (ma probabilmente simula) cosa sia la disumanità delle condizioni di molti migranti, oppure (peggio) dà loro la colpa di tale situazione. Non sa e non vuole sapere cosa sia la disumanizzazione del nostro mondo che ormai si è abituato a tutto e non prova più nessuna empatia. Una società così è una società che si prepara alla ferocia e poi alla guerra. Sarebbe meglio litigare tra di noi invece che schernire o deridere chi aiuta: dimostrerebbe maggior sensibilità. Criminalizzare e dileggiare chi aiuta gli altri non è degno della nostra civiltà. Ci sarebbe da dire: se non lo vuoi fare non farlo, critica pure ma porta rispetto. Detto questo resta vero ciò che ha dichiarato il cardinale Matteo Zuppi in materia migratoria: finché sarà politicizzata non se ne esce. Anzi, la questione dei migranti torna indietro come un boomerang verso chi l’ha troppo manipolata creando allarmismo che si rivela vacuo. Infatti non c’è invasione ma siamo nel cul de sac dei respingimenti in mare e dei centri off shore d’Albania. Il diritto internazionale e quello europeo non sono cambiati e anche se muterà quello nazionale ci aspettano lunghi mesi di diatribe, scontri e polemiche. Trovare un futuro - Perché costituzionalmente il parlamento può votare leggi che poi vengano dichiarate non conformi alla Carta e ai diritti dell’uomo: può accadere. Ne andrà di mezzo la giustizia stessa e tutto questo si ritorcerà contro tutti. Una perdita e di tempo e una macchinazione inutile invece di guardare all’essenziale che è anche molto più semplice: c’è chi ha solo bisogno di trovare un futuro perché gli è stato negato nel proprio paese di origine. Lo possono testimoniare afghani, libici, siriani e così via. Lo possono raccontare tante donne la cui vita non è per niente “sicura” anche in paesi non sospetti. Dovremmo resistere alla tentazione di fare dei migranti una sfida elettorale e concentraci su cosa fare (in maniera bipartisan se possibile) perché il fenomeno durerà. Non si tratta di un’invasione: da noi i numeri sono piccoli ma se allarghiamo lo sguardo notiamo che non tanto distante si svolgono dei drammi. Siria 5 milioni di sfollati e 6 di rifugiati; Sudan 7 milioni di sfollati e 2,5 di rifugiati. E poi c’è l’Afghanistan, Gaza, il Kivu ecc., senza dimenticare gli ucraini (che già i polacchi non sopportano più): 120 milioni di profughi nel 2024. Davvero pensiamo di rimanere immuni da tutto questo? Davvero - per usare le parole di papa Francesco - crediamo di rimanere sani in un mondo malato? Prima o poi le conseguenze di tali immani spostamenti di popolazione arriveranno da noi e non sarà possibile difendere nessun confine. Meglio organizzarci subito e con ragionevolezza invece che sbraitare alla luna e diventare sempre più cattivi. Restiamo umani - C’è in Europa una convinzione: siamo troppo buoni e basta diventare più cattivi per respingere “l’invasione”, per difenderci e così via. Il mondo è minaccioso e l’unica soluzione sarebbe incattivirsi per proteggersi meglio. Si tratta di un’idea puerile: davanti agli sconvolgimenti del mondo attuale ci vuole intelligenza e non rigidità ottusa. La storia già abbondantemente dimostra che i confini non si difendono dalle masse che si muovono: meglio orientarle, accompagnarle, aiutarle e procedere, trovare misure multilaterali e solidali assieme ad altri. Meglio ancora: applicarsi a risolvere le cause di tale caos. Se gli stati europei non rispondono, facciamolo con altri ma in modo umano. Se resteremo soli ed arrabbiati a difendere i nostri privilegi nessuna grande muraglia ci proteggerà. Incattivirsi avrà come unico risultato di renderci la vita più difficile, di dividerci internamente, di farci diventare più antipatici al resto del mondo. Se c’è una cosa che caratterizza gli italiani è la loro umanità e simpatia: è qualcosa che ci difende meglio di tante altre. Se perdiamo anche questo non aumenta la stima per altro: davvero ci conviene? *Politologo Migranti. Rimpatri fermi al 10%: i Cpr (che ci costano tanto) sono inefficaci di Ilaria Sesana Avvenire, 26 ottobre 2024 Un rapporto di ActionAid svela la cruda realtà di questi centri per immigrati, molto simili a prigioni. Nel biennio 2022-2023 hanno pesato sulle casse dello Stato per 39 milioni di euro. I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani nel biennio 2022-2023 sono costati 39 milioni di euro. Con un costo medio che sfiora i 29mila euro per posto letto, che registra picchi di 40mila euro a Torino, 71mila a Brindisi, 36mila a Milano. Queste cifre sono state elaborate da ActionAid e dal dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Bari in base ai dati ufficiali ottenuti (non senza fatica) da ministero dell’Interno, questure e prefetture all’interno del report “Trattenuti 2024. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”, pubblicato ieri. Tra il 2014 e il 2023 sono state 50mila le persone straniere trattenute “in centri che violano i diritti umani e sono un disastro per le finanze pubbliche - denuncia ActionAid -. I Cpr in Italia appaiono come modello di disumanità, gestione incontrollata e fallimentare da cui prendono forma i nuovi centri di trattenimento in Albania”. Uno dei primi dati che balza all’occhio è il loro bassissimo “tasso di efficacia”: nel 2023 su oltre 28mila persone straniere colpite da provvedimento di espulsione quelle effettivamente rimpatriate dai Cpr sono state 2.987. “Una politica che ottiene il 10% dei risultati attesi è inammissibile, a meno che non si riconosca che l’obiettivo non è quello esplicito del rimpatrio, ma di assimilare le persone migranti ai criminali, erodendo le basi del diritto d’asilo e del sistema di accoglienza”, commenta Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid. Oggi i Cpr attivi e funzionanti in Italia sono dieci sui 12 previsti. Tra quelli chiusi c’è Torino (da marzo 2023) che però ha continuato a produrre costi per circa 3,4 milioni di euro nel corso dell’anno per l’affitto della struttura versato a Ferrovie dello Stato e per appianamenti di debiti con l’ente gestore. Sono luoghi in cui si verificano regolarmente proteste anche violente, atti di autolesionismo, suicidi come quello del giovane Ousmane Sylla avvenuto a febbraio 2024 nel Cpr di Ponte Galeria a Roma. Le persone trattenute trascorrono le proprie giornate in spazi spogli che ricordano molto quelli delle carceri, spesso sedati da un uso massiccio di psicofarmaci e tranquillanti, come ha documentato un’inchiesta della rivista Altreconomia di aprile 2023. Il costo di questa “macchina” inefficiente è salato. Quasi 93 milioni di euro nel periodo 2018-2023; di questi oltre 33 milioni sono stati spesi per la manutenzione dei centri di cui oltre il 76% è stato utilizzato per interventi straordinari, cioè ristrutturazioni dovute a danneggiamenti. Questa voce di spesa ha registrato un aumento significativo a partire dal 2020 e per tutti gli anni successivi. “Tempi più lunghi di detenzione aumentano la tensione e la conflittualità nei centri, portando ad un immediato incremento dei costi di manutenzione straordinaria”, sottolinea Fabrizio Coresi. Ma le spese non sono finite. A questi costi, infatti, bisogna aggiungere le spese “accessorie”, come vitto e alloggio per le forze dell’ordine a presidio delle strutture: 5,8 milioni di euro tra il 2020 e il 2023 a Macomer (Nuoro) e circa 680mila euro all’anno a Palazzo San Gervasio (Potenza). “L’investimento nei Cpr ha prodotto una crescita dei costi umani ed economici delle politiche di rimpatrio. Dal 2017 si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva - commenta Giuseppe Campesi, dell’Università di Bari, tra i massimi esperti in Italia di detenzione amministrativa e rimpatri -. Il ricorso a queste strutture ha già dimostrato di essere fallimentare, tuttavia, si continuano a presentare i centri di detenzione come una soluzione per aumentare il numero dei rimpatri. I dati raccolti, invece, dicono l’esatto contrario”. Migranti. Il Decreto sui Paesi “sicuri” e quell’intreccio di diritti, doveri, Corti e ordinamenti di Dino G. Rinoldi* Il Dubbio, 26 ottobre 2024 C’è voluto un po’ ma finalmente, a distanza di due giorni dal Consiglio dei ministri che l’ha approvato (lunedì), il decreto legge contenente Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale ha superato il vaglio del Presidente della Repubblica, che ai sensi dell’art. 87 della Costituzione fra l’altro “emana i decreti aventi valore di legge”. Nel testo, sostitutivo di precedente regolazione di rango interministeriale, i Paesi definibili sicuri ai fini del ritorno del migrante cui non sia riconosciuta la protezione internazionale da parte del nostro Paese son ridotti a 19, con l’esclusione dei precedentemente compresi Colombia, Camerun e Nigeria. Ciò per venire incontro - nelle parole di esponenti del governo - alla sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre scorso, resa in via pregiudiziale circa un caso di negazione della protezione a un cittadino moldavo da parte della Repubblica Ceca. Ma, conseguentemente, l’esigenza è quella di superare i 12 decreti della sezione specializzata del Tribunale di Roma di “non convalida” del trasferimento in Albania di altrettanti stranieri per i quali era stato avviato un percorso procedurale accelerato, comprensivo di dislocazione territoriale, consentito dal Protocollo italo-albanese del 6 novembre 2022 sul “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria” (i “delocalizzati” erano inizialmente 16 ma riguardo a 4 si era incorsi in errore perché in condizioni o di minore età o di vulnerabilità già contemplate dal Protocollo come impedimento al trasferimento). I decreti del Tribunale, adottati da sei giudici diversi compresa la Presidente di sezione Sangiovanni, si rifacevano alla sentenza pregiudiziale interpretativa della direttiva UE 2013/ 32, in materia di procedure comuni agli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. In ragione dell’effetto sostanzialmente erga omnes di siffatte decisioni giudiziarie della Corte Ue ne hanno affermato l’applicazione in Italia fra l’altro in modo tale da negare la qualifica di Paese “sicuro” d’origine del migrante quando rispetto a quel Paese, “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale”, NON “si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o internazionale”. Così si esprime il punto 52 della sentenza sopra ricordata della Corte Ue anche con riferimento a ulteriore direttiva, la 2011/ 95, che stabilisce norme sull’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, aggiungendosi all’altra che interviene sulla procedura. E infatti i decreti romani prendono atto, ad esempio riguardo all’origine egiziana del trattenuto in Albania (decreto n. R. G. 42251/ 2024), che questo Stato, “nelle conclusioni della scheda- Paese dell’istruttoria del Ministero degli affari esteri (…), basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone,: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani o coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’art. 8, comma 1, lettera e) del D.lvo 19 novembre 2007, n. 251”. O ancora, riguardo all’origine dal Bangladesh (decreto n. R. G. 42260/ 2024), si rileva che nelle conclusioni dello stesso Ministero, “basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, il Bangladesh è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune persone appartenenti alla comunità Lgbtq+, vittime di violenza di genere (…), minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici”. Ne consegue che il Paese dei suddetti trattenuti in Albania “non può essere riconosciuto come Paese sicuro” per violazione delle “condizioni sostanziali della qualificazione (…) enunciate nell’allegato I della direttiva 2013/ 32”. Il ribadire da parte del nuovo decreto, fra i “Paesi sicuri”, Stati come gli ultimi due appena nominati non esenta comunque da futuri interventi giudiziari che, facendosi carico di un adeguato onore della prova nel caso concreto e pur nell’articolazione di ricorsi possibili, disapplichino la norma benché contenuta in una legge ordinaria di trasformazione del decreto legge. Si tratta infatti di tener conto dell’art. 11 della Costituzione in ordine, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale (fra tutte v. la decisione 170/ 1984), alla superiorità della norma dell’Ue su quella contrastante nazionale, la quale ultima va disapplicata quando non interpretabile conformemente alla regola dell’ordinamento euro- unitario di applicabilità diretta. E ben può essere di applicabilità diretta un principio sancito dalla Corte di giustizia e una regola pur contenuta in una direttiva. Ovvero è l’art. 117, co. 1, della Costituzione a poter determinare il rinvio da parte del giudice ordinario in Corte costituzionale della norma interna di legge contrastante col diritto Ue quando non di diretta applicabilità nazionale. *Professore ordinario di Diritto dell’Unione europea - Docente di Organizzazione internazionale nell’Università Cattolica Migranti. Dagli “irregolari” ai richiedenti asilo, la nuova geografia della detenzione di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 ottobre 2024 “Trattenuti”. Lo studio di Action Aid e Uni Bari mostra la nascita di un circuito di privazione della libertà personale parallelo ai Cpr: serve a rinchiudere chi chiede protezione. Prima rinchiusero i migranti che consideravano “irregolari”, poi vennero a prendere i richiedenti asilo. Sempre di più. È questa la principale direttrice di cambiamento del sistema italiano di detenzione amministrativa, quello riservato a chi non ha commesso reati. Sistema che doveva restare un’eccezione e invece guadagna spazio, estendendosi a nuove categorie di persone e differenziandosi al suo interno. Di “nuova geografia della detenzione” parla Trattenuti, rapporto curato da Action Aid e Uni Bari. Uno studio sistematico che copre gli anni dal 2014 al 2023 e si basa sulle informazioni contenute nelle (poche) fonti pubbliche ufficiali e sui dati ottenuti con una mole importante di accessi civici generalizzati. Strumento usato per rompere l’omertà istituzionale e superare l’opacità di informazioni disponibili sul tema. Che comunque in parte resta. Nel decennio analizzato sono state circa 50mila le persone transitate “in centri che violano i diritti umani e sono un disastro per le finanze pubbliche”, si legge nel report. È noto che i rimpatri effettivi riguardano circa la metà di chi finisce nelle galere etniche. Il rapporto registra una tendenza decrescente - dal 52,9% nel quinquennio 2014-2018 al 48,2% di quello tra 2019 e 2023 - mentre aumenta il grado di coercizione di queste operazioni e dunque i loro costi. I voli charter, quelli con il maggiore coefficiente di costrizione, pesano sempre più rispetto all’utilizzo dei vettori commerciali (dove le persone possono salire con scorta o senza). I numeri mostrano poi che l’aumento dei tempi di detenzione, recentemente innalzati a 18 mesi per alcune categorie di migranti, non incidono sul tasso di rimpatri e come si stia progressivamente realizzando una sorta di differenziazione funzionale dei Cpr. Quelli del continente servono soprattutto ad allungare i tempi di detenzione di chi proviene dal carcere, quelli siciliani di Trapani e Caltanissetta a rispedire le persone nel paese di origine. Ma ciò non vale per tutti allo stesso modo. Dalle strutture dell’isola partono il 54% dei rimpatri nazionali e ben l’85% riguardano cittadini tunisini. Lo Stato con cui l’accordo di riammissione funziona meglio. In pratica, dice lo studio, i Cpr sono “sempre più utilizzati per gestire le procedure di rimpatrio accelerato dei cittadini di nazionalità tunisina”. L’aspetto maggiormente innovativo esaminato dal rapporto, comunque, è quello che riguarda la creazione di un circuito di trattenimento parallelo ai Cpr e destinato specificamente a chi fa domanda di protezione internazionale. Si tratta delle strutture chiamate Ctra: Centri di trattenimento richiedenti asilo. Ufficialmente non hanno ancora una definizione formalizzata. Il primo è stato aperto a Modica lo scorso autunno, il secondo a Porto Empedocle quest’estate e il terzo a Gjader, in Albania, a ottobre. La loro gestione viene data in appalto ai privati seguendo il capitolato dell’hotspot. Dovrebbero servire a svolgere le procedure accelerate di frontiera, ma i tribunali di Catania, Palermo e più recentemente Roma non hanno convalidato i trattenimenti dei richiedenti. Così finora sono rimasti vuoti. Ma le cose cambieranno quando entrerà in vigore il Patto Ue su migrazione e asilo che prevede la detenzione generalizzata di chi chiede protezione internazionale ma ha poche speranze di ottenerla. Così un modello fallimentare - dal punto di vista della tutela dei diritti, dell’efficacia funzionale e dei costi - sarà esteso in “una progressiva ibridazione del sistema di accoglienza con quello detentivo destinato ai rimpatri nelle zone di frontiera”. Russia. Mai più soli: come scrivere lettere ai prigionieri d’opinione di Raffaella Chiodo Karpinsky Avvenire, 26 ottobre 2024 Sette anni di prigione per aver recitato poesie e criticato la guerra in Ucraina. Secondo organizzazioni russe un migliaio di persone sono state processate e incarcerate per aver espresso dissenso. Professori e maestre d’asilo, negozianti e pensionate: è il mondo dei reclusi sconosciuti che pagano la ribellione alla violenza. La repressione in Russia è tutt’altro che finita. Dopo lo storico scambio di prigionieri si è diffusa una sorta di illusione, come se tutti i prigionieri politici ancora detenuti fossero stati liberati. Eppure secondo le organizzazioni russe per i diritti umani che seguono la situazione nel Paese sono tra 800 e 1200 le persone che per aver espresso il dissenso hanno subito un processo e sono detenuti. Spesso in colonie penali lontane migliaia di chilometri dai propri di cari e dai loro legali. Una condizione che rende difficile poterli visitare e garantire il supporto legale. I costi per il viaggio sono spesso insostenibili. L’aiuto arriva dalle catene di solidarietà che via via si sono create all’interno del Paese nonostante la paura e la dura repressione. Fanno miracoli per i prigionieri e le loro famiglie. Raccolgono fondi per le multe di chi ha avuto la fortuna di essere vessato solo con misure economiche oppure per sostenere le spese per garantire una difesa di chi non è in grado di farlo. Tra i prigionieri molti giovani e giovanissimi, ragazze, che pur consapevoli delle conseguenze non sono riusciti a trattenere un gesto di disobbedienza, di coscienza contro la guerra. Giovani come Artem Kamardin, Yegor Shtovb, condannati a 7 e 5,5 anni di carcere per avere recitato in pubblico poesie di Majakovskij e dello stesso Kamardin, o Daria Kozyreva per avere scritto frasi contro la guerra su un’installazione che celebra il gemellaggio tra San Pietroburgo e Marjupol. Un gesto che la ragazza non ha saputo trattenere pensando al fatto che la città ucraina è ormai tristemente nota per il fatto di essere stata rasa al suolo e dove nel suo Teatro colpito dai missili 400 persone tra donne, bambini e anziani che avevano cercato là rifugio sono morte. Insieme a Daria e gli altri ragazzi, ci sono casi come quello di Andrej Shabanov, sassofonista jazz, in carcere per aver fatto un post contro la guerra. Andrej soffre di patologie difficili da reggere senza le cure necessarie; Olga Menshikh, infermiera anestesista che per due post sul social russo Vkontakte sulle stragi di civili avvenute a Vinniza e Bucha è stata condannata a 8 anni di carcere; Ibrahim Orudzhev che per avere fotografato l’orario di un distretto militare mentre passeggiava con la madre ora rischia l’ergastolo con l’accusa di sostegno al terrorismo; Daniil Ljuka insegnate di disegno che per avere scarabocchiato dei baffi, barba e un cilindro intorno a un testo propagandistico su un giornaletto di quartiere è stato prima licenziato e poi condannato a 20 anni con l’accusa di sostegno al terrorismo. L’accusa si basa su un versamento di denaro che Daniil ha fatto al fratello che vive nel Donetsk e che secondo l’accusa era in realtà destinato all’Azov. Il sistema della delazione è certamente una delle più impietose forme di oppressione che colpisce chiunque tenti di rendere pubblico il proprio dissenso sulla guerra, perciò i difensori dei prigionieri politici denunciano come vengano spesso costruite ad arte prove di colpevolezza. Tra le più esilaranti c’è stata la testimonianza che venne portata al processo a Oleg Orlov, difensore dei diritti umani e coportavoce di Memorial, premio Nobel per la Pace poi liberato in occasione dello scambio di prigionieri. In quella occasione due veterani della seconda guerra mondiale testimoniarono contro di lui riconoscendolo corresponsabile dello scioglimento dell’Unione Sovietica. Oggi è sufficiente che si scriva la parola guerra su un cartello, o in un post, per essere accusati di sostegno al terrorismo, tradimento della patria, discredito delle forze armate e via dicendo. Accuse che portano a condanne tra i 5 e 25 anni di reclusione. Alcuni detenuti versano in condizioni di salute gravi. È il caso Alexey Gorinov, Consigliere municipale di Mosca per il quale media indipendenti, reti di appoggio ai prigionieri politici e partiti dell’opposizione hanno lanciato una mobilitazione ad hoc. Ma il numero dei prigionieri perseguiti per il dissenso verso quella che il regime continua a chiamare “operazione speciale” è molto più alto di quello conosciuto. Sono tanti coloro di cui non si sa che sono stati arrestati. Sono semplicemente spariti. Le proteste contro la guerra si sono verificate anche in città e villaggi remoti, in Siberia. Il caso del pianista Pavel Kushmir è l’emblema di una infinita solitudine e abbandono in cui si trova chi come lui ha agito, semplicemente parlando contro la guerra. Pavel totalmente solo nel suo dissenso morale ha scelto lo sciopero della fame nella speranza qualcuno si accorgesse della sua protesta, affinché il suo grido non rimanesse soffocato nell’isolamento acustico e disumano delle quattro mura della sua cella. In diversi, tra politici, attivisti e giornalisti quando hanno saputo della sua morte e così del suo caso, hanno sottolineato che Pavel si è trovato in un completo stato di abbandono, non aveva mai ricevuto una lettera perché nessuno sapeva di lui. Nessuno può sapere quanti Pavel ci sono in questo momento e quale sia la disperazione nel buco nero in cui sono sprofondati. Tanti i semplici cittadini che tutto pensavano meno che diventare eroi. C’è l’insegnante di scuola primaria o secondaria, il professore di letteratura russa o di disegno, la maestra d’asilo, la pediatra, il docente di fisica, il negoziante, la pensionata che si trovano di colpo, per le proprie idee con una vita distrutta. Per questo nel corso dei mesi di account in account è cresciuta l’onda della mobilitazione per rilanciare l’appello a scrivere ai prigionieri politici. Si tratta di una forma semplice e fortissima di solidarietà che aiuta a resistere e al carcere e all’isolamento. Ha sottolineato quanto questo sia importante la giornalista Maria Ponomarenko dietro le sbarre da oltre due anni in una lettera a Nadezhda, madre di Alexandra Skochilenko (la giovane artista incarcerata per 2 anni e mezzo poi liberata con lo scambio dei prigionieri). Ha chiesto a lei di farsi da tramite e ringraziare coloro che le scrivono perché per lei è davvero ciò che le dà la forza di resistere. Hanno ribadito questo concetto anche Vladimir Kara Murza, Ilya Yashin e Andrej Pivovarov i prigionieri politici più noti e il giornalista rilasciati in occasione dello scambio di prigionieri lo scorso agosto in occasione della loro prima conferenza stampa e poi negli incontri pubblici e istituzionali come le visite ufficiali di Kara Murza in diversi Paesi europei tra cui la Finlandia e la Francia dove è stato ricevuto dai rispettivi presidenti della Repubblica e dai Parlamenti. La storia di Pavel, il suo desiderio di pace chiuso e sepolto di cui abbiamo saputo solo dopo, troppo tardi, è un peso terribile che dovrebbe fare riflettere e aiutare a capire che ognuno può fare qualcosa di importante. Non è vero che siamo disarmati. Abbiamo la possibilità di usare le risorse di umanità e responsabilità. Perciò è importante rilanciare l’appello e invitare tutte le persone sensibili a scrivere a questi prigionieri, a prenderci cura di loro. Meglio ancora come suggeriscono le organizzazioni di solidarietà che se ne occupano, individuando quelli meno conosciuti e per questo più fragili e indifesi. È una cosa semplice e consentita via posta ordinaria o via email. Quest’ultima attraverso un servizio che funziona dall’estero grazie a una catena di solidarietà che permette di aggirare le sanzioni e pagare l’invio e la consegna delle lettere ai detenuti. Si posso inviare lettere o cartoline che sono molto gradite perché portano in cella anche un’immagine del mondo di fuori. Per scrivere è necessario rispettare alcuni criteri (ad esempio evitare l’uso del termine guerra.). Inoltre è d’obbligo scrivere in russo. Perciò anche in Italia ci sono associazioni e gruppi che organizzano incontri per supportare la scrittura e traduzione delle lettere. Gli account dei promotori di queste iniziative sono molteplici e alcuni anche in lingua inglese e italiana. Per chi fosse interessato è possibile conoscere l’elenco dei prigionieri politici riconosciuti tali dall’organizzazione Memorial (Premio Nobel per la Pace 2022) accedendo al suo sito https://memopzk.org/persecuted/. Oppure il sito di “OVDinfo” https://en.ovdinfo.org/reports che ha una versione in inglese e dove si può trovare la lista di tutte le persone arrestate dall’inizio della guerra con brevi descrizioni dei casi, i dati anagrafici necessari e l’indirizzo dove inviare le lettere. Oppure si può entrare in contatto per informazioni e aggiornamenti seguendo alcuni di degli account Instagram e Telegram come ad esempio quelli di: OVD info https://www.instagram.com/ovdinfo_en/ e https://www.instagram.com/lettersoffreedom_russia.