Le nostre carceri sono dei cimiteri. Il Governo agisca di Franco Corleone L’Espresso, 25 ottobre 2024 Suicidi, sovraffollamento. Invece di aumentare reati e pene, l’esecutivo inverta subito la rotta. Filippo Turati pronunciò un’esaustiva analisi per la riforma carceraria alla Camera dei deputati il 19 marzo 1904 e il discorso fu pubblicato con il suggestivo titolo “I cimiteri dei vivi”. Dopo 120 anni, la crisi è ancora aperta. Crudamente si potrebbe dire che il carcere è un cimitero non metaforicamente: a metà ottobre si sono verificati 75 suicidi, 1.564 tentati suicidi, 105 morti “naturali” e 17 da accertare. Se aggiungiamo i 10.301 casi di autolesionismo, che sono costituiti soprattutto da tagli alle braccia o al torace, possiamo dire che il sangue scorre nelle carceri italiane nell’indifferenza diffusa e nella assuefazione colpevole. È davvero impressionante il quadro simile determinato dalla detenzione sociale. La novità di oggi con gli effetti della legge proibizionista antidroga, che provoca il 35% delle presenze per detenzione o piccolo spaccio di sostanze stupefacenti leggere e pesanti, e addirittura il governo ha aumentato le pene fino a cinque anni di carcere per i fatti di lieve entità. I detenuti presenti sfiorano ormai le 62 mila unità rispetto a una capienza regolamentare di 51 mila posti. Perché solo in carcere, luogo di esaltazione della sicurezza, non viene rispettato il limite massimo delle presenze, tassativo nelle sale pubbliche? È l’unico luogo in cui vige ancora la previsione illimitata dei posti in piedi. La situazione diventerà esplosiva se sarà approvato il disegno di legge Sicurezza che potrà riempire le celle di donne in gravidanza, di borseggiatrici rom, di disobbedienti e perfino di coltivatori di canapa tessile. I detenuti che protesteranno e rivendicheranno i loro diritti saranno sottoposti a processi con pene fino a otto anni di carcere anche se la resistenza sarà nonviolenta. Se ci fosse intelligenza politica, il ministro Carlo Nordio e il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dovrebbero proporre un provvedimento di indulto di due anni che libererebbe circa 16 mila persone e che dovrebbe essere seguito dall’approvazione di una norma sul numero chiuso e della proposta di legge sull’istituzione delle case di reinserimento sociale per i condannati con un fine pena sotto il 12 mesi, affidate alla gestione dei sindaci; piccole strutture di cinque o dieci posti caratterizzate dalla presenza del volontariato e dei servizi sociali con progetti di lavori di pubblica utilità. Non ci sarebbe bisogno di costruire nuove carceri, dedicandosi invece alla ristrutturazione di quelle esistenti. Il commissario per l’edilizia penitenziaria potrebbe così impegnarsi nella riconversione delle caserme degli agenti di polizia penitenziaria in case, monolocali o appartamenti, per garantire una vita sociale al personale. Qualcosa si sta muovendo. A Firenze il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Marcello Bortolato, ha emesso un’ordinanza che ordina all’Amministrazione penitenziaria di avviare entro 90 giorni i lavori indispensabili per far cessare una afflittività non giustificata e per assicurare una condizione di vita civile nel carcere di Sollicciano. A Udine è partita una campagna per chiudere una sezione invivibile per la presenza di muffa, umidità e deterioramento complessivo; una condizione inaccettabile tenendo conto di uno straordinario progetto di ristrutturazione del carcere di via Spalato che sta cambiando volto. Assieme alla lotta per il diritto all’affettività in carcere. Il pane e le rose. Come si spegne la coscienza dietro le sbarre di Alice Dominese L’Espresso, 25 ottobre 2024 Nelle carceri cresce la consapevolezza di poter rivendicare i diritti violati tra sovraffollamento e degrado. Il caso di Torino insegna. Ma il ddl Sicurezza mira a sopire ogni protesta pacifica. Con il ddl Sicurezza, gli spazi di protesta pacifica rischiano di ridursi anche in carcere. Con i nuovi reati che il disegno di legge introduce, chi manifesta il proprio dissenso nei centri di permanenza per il rimpatrio e negli istituti di pena rischia fino a vent’anni di carcere. In questi luoghi, rivendicare i propri diritti fondamentali è già molto difficile. Spesso, infatti, le persone detenute non hanno le risorse economiche per rivolgersi a un’assistenza legale e la priorità per loro è quella di affrontare i problemi quotidiani legati a sovraffollamento e degrado. Quando Nicoletta Dosio, storica attivista del movimento No Tav in Val Susa, è stata condannata per diversi episodi di disobbedienza civile, avvenuti tra 2012 e 2016, ha trascorso tre mesi in carcere per poi scontare il resto della pena ai domiciliari. “A parità di condotta, se fosse stato in vigore il ddl Sicurezza, avrebbe avuto una pena ancora più alta, perché il fatto di protestare contro una grande opera è considerata una circostanza aggravante”, osserva l’avvocato Gianluca Vitale. Oggi Dosio ha 78 anni e si trova in stato di detenzione domiciliare per avere violato le misure cautelari che le erano state imposte in precedenza poi ritenute inapplicabili dalla Corte di Cassazione. Dei giorni trascorsi nel carcere di Torino nel 2020, durante la pandemia, Dosio ricorda le proteste pacifiche nei confronti dell’ulteriore isolamento che lei e le altre detenute dovevano affrontare. Racconta che le proteste nascevano perché non era più possibile avere contatti con i propri cari e le persone si sentivano in pericolo. Il sovraffollamento, con il conseguente rischio di ammalarsi facilmente, generava agitazione. “Tantissime donne erano dentro per reati lievi, allora si chiedevano l’amnistia e l’indulto. Avevamo pensato di organizzare un’assemblea in presenza delle guardie carcerarie e il direttore aveva proposto di fare una commissione a cui dovevano partecipare anche le rappresentanti e i rappresentanti dei detenuti, ma alla fine chi doveva partecipare è stato scelto dalle guardie”. Tra i modi di esprimere il dissenso in carcere c’è la cosiddetta battitura, ovvero la pratica di battere sulle inferriate per farsi sentire dentro e fuori le mura. Anche Dosio e le altre detenute l’avevano utilizzata per farsi sentire dai parenti che si erano presentati davanti all’istituto per chiedere di riprendere le visite. Oggi, modalità di protesta come queste rischiano di essere pagate duramente. Tuttavia, in carcere la coscienza di poter rivendicare i propri diritti violati dal sovraffollamento e da pessime condizioni sanitarie esiste. Una spia di questo sono i risarcimenti riconosciuti dai magistrati di sorveglianza ai detenuti che hanno potuto presentare istanza per situazioni di detenzione contraria all’umanità della pena e non aderenti ai parametri stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Negli ultimi sei anni sono stati 24.301, circa 4.000 ogni anno. Questo significa non solo che negli istituti di pena italiani persiste una sistematica violazione della dignità umana, ma anche che i detenuti sono pronti a denunciarla. Secondo la rilevazione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, nelle carceri italiane sono presenti 61.134 detenuti in 47.004 posti regolarmente disponibili, con un tasso medio di sovraffollamento del 130 per cento. In 56 istituti il tasso di affollamento supera il 150 per cento, in cinque è superiore al 190 per cento. Dopo l’annunciata riduzione della popolazione carceraria lasciata intravedere con il decreto Carceri dal governo, le proteste non si sono fermate. Proprio nel carcere femminile di Torino, il 5 settembre scorso, oltre 50 detenute hanno avviato uno sciopero della fame a staffetta chiedendo alle istituzioni di ridurre il sovraffollamento e il limite della liberazione anticipata speciale. Tra queste ci sono anche coloro che Dosio considera delle “amiche e compagne”, donne che vogliono proteggere la loro dignità, animate dalla consapevolezza che i loro diritti hanno un valore. Nell’istituto torinese, solo nel 2023, si sono verificati quattro suicidi e 57 tentativi di suicidio, 135 atti di aggressione, 159 di autolesionismo, 255 atti di protesta individuale tramite sciopero della fame, sete o rifiuto delle terapie e 15 proteste collettive. Un mese dopo l’inizio della protesta nonviolenta delle detenute torinesi, il testimone dello sciopero è stato raccolto dai detenuti del carcere di Siracusa. “Anche una protesta pacifica come lo sciopero della fame delle detenute potrebbe essere considerata un reato di rivolta carceraria - spiega l’avvocato Vitale - perché con il ddl Sicurezza viene considerata tale la resistenza, anche passiva, agli ordini dell’autorità che mirano a mantenere la sicurezza all’interno dell’istituto. Attualmente lo sciopero potrebbe al massimo essere considerato motivo per ipotizzare una sanzione disciplinare, ma con l’entrata in vigore del ddl potrebbe esporre le detenute a un aumento di pena di alcuni anni”. Per Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino”, ong internazionale che si batte contro la pena di morte nel mondo e per i diritti dei detenuti, i reati introdotti dal ddl Sicurezza dentro e fuori dal carcere rappresentano un peggioramento della democrazia. “Un’iniziativa comune tra i detenuti, quando ritengono che siano violati i loro diritti, è quella della resistenza passiva. Anche questo oggi può diventare reato. Ma se i loro diritti non vengono rispettati, che strumenti hanno per difendersi dagli abusi?”. Bernardini visita regolarmente gli istituti di pena confrontandosi con i detenuti e, secondo lei, attualmente in carcere non c’è allarme sulle modifiche che potrebbero essere apportate dal ddl, di cui la maggior parte delle persone dietro le sbarre è all’oscuro. La Caporetto del carcere: la grande fuga di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 25 ottobre 2024 Lettera aperta. Signor Presidente della Repubblica, mi rivolgo a Lei con profondo rispetto e altrettanta preoccupazione per quanto sta accadendo all’interno del sistema carcerario italiano. Quello che emerge è un quadro drammatico, e la Sua autorevolezza e profonda umanità e verso il dolore che in esso si concretizza, è ormai l’unica speranza per promuovere un cambiamento reale e profondo in un contesto che non può più essere ignorato. Un contesto da 30 anni privo di una propria politica detentiva del come custodire, optando di essere solo a rimorchio delle varie richieste sindacali. Il 1° ottobre scorso, un evento che ha il sapore di una vera e propria “Caporetto” si è consumato tra le mura delle nostre carceri: non una fuga di detenuti, ma degli operatori della custodia. Lo attesta il concorso per allievi agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria, riservato sia a esterni che a chi già lavora dietro le sbarre ma non è ancora di ruolo, ha registrato un’assenza massiccia, quasi incredibile. Su 1.541 posti disponibili, per il personale interno non di ruolo (1.156 uomini e 385 donne), solo 443 domande sono state inoltrate, appena un quarto rispetto al previsto. Il dato assume contorni ancora più sconvolgenti se confrontato con le candidature degli esterni: per i 1.027 posti disponibili (770 uomini e 257 donne), le domande hanno superato abbondantemente le disponibilità, con 1.708 uomini e 1.140 donne idonei (da gNews Ministero della Giustizia). Questo fenomeno non è solo un campanello d’allarme, ma un grido disperato che proviene da chi vive quotidianamente il carcere come agente di sezione detentiva. Quello che emerge da questi numeri è una “grande fuga” non dalle carceri, ma dal ruolo di chi vive e opera nelle sezioni detentive a contatto diretto coi detenuti. Un messaggio inequivocabile: gli agenti non di ruolo che hanno operato nelle sezioni a contatto coi detenuti, non vuole che diventi una “condanna permanente”. È il rifiuto cosciente di chi ha vissuto dall’interno l’esperienza di operare in un ambiente che, per chi lo conosce, si è trasformato in un incubo, lontano dal mandato enunciato. Le ragioni di questo esodo collettivo sono tante e profonde. Prima fra tutte, l’insostenibilità delle condizioni operative. Le carceri italiane soffrono da anni di un cronico sovraffollamento, che rende la gestione quotidiana difficilissima e pericolosa. Gli agenti addetti alla custodia sono costretti a turni logoranti, con un personale sempre più ridotto, senza alcun riconoscimento per i sacrifici e le responsabilità che gravano sulle loro spalle e la lucidità e razionale fermezza nell’operare diviene altamente scemata. La sicurezza non è un’opportunità, è uno di quei diritti-doveri di tutti, in particolare per quelle personali che sono in uno stato precario, non solo per i detenuti, ma per tutto il personale penitenziario, che si sente costantemente esposto a rischi, senza supporto, abbandonato a sé stesso e impossibilitato a non svolgere quel mandato di aiuto che è nel garantire i diritti ai reclusi in quanto è umanamente più gratificante operare in situazione di disponibilità che di precarietà. Gestire le crisi negli istituti penitenziari e sulle modalità d’intervento delle forze dell’ordine per portarle alla normale operatività la proposta dell’ex Capo della Polizia, Franco Gabrielli, appariva quella più innovativa con la creazione di gruppi d’intervento misti locali composti da poliziotti della Polizia di Stato e agenti della Polizia Penitenziaria, conoscitori della struttura oggetto dell’intervento contesto. Questo approccio, basato su mediazione e dialogo, mirava a ridurre l’uso della forza, evitando situazioni potenzialmente qualificabili come torture. In contrasto, l’Amministrazione ha riproposto un modello centralizzato, già fallito in passato, basato su un corpo di punizione lontano dal luogo d’intervento, che rischia di generare azioni meno mirate e più violente. Tale organizzazione potrebbe aumentare il rischio di abusi, mentre un sistema periferico misto, più adeguato in quanto più radicato nelle realtà locali permetterebbe una gestione più immediata quindi efficace se non più rispettosa dei diritti umani. Signor Presidente, come a Lei ben noto non si fugge da un lavoro che può diventare stabile senza motivi negativi profondi. Se lo si fa è le motivazioni che sopportano il restare altamente negativo. Viceversa per coloro che non hanno mai operato nelle carceri, vedono ancora, nel ruolo di agente penitenziario, un’opportunità, spinti dalla ricerca di un lavoro certo. Ed è proprio qui che risiede la frattura: chi non conosce il sistema carcerario si affida all’apparente stabilità del posto, chi lo conosce, invece, ne fugge. Questo squilibrio tra chi entra e chi scappa è la testimonianza di un malessere profondo che affonda le radici nella cattiva gestione del sistema. Il lavoro nelle carceri è spesso reso insopportabile non solo per le difficoltà oggettive, ma anche per la mancanza di guida e supporto per chi opera in prima linea. Gli agenti nelle sezioni detentive, fulcro del sistema carcerario, si sentono abbandonati a causa della distanza dalla dirigenza, che è relegata a lavori considerati più autorevoli come quelli d’ufficio. La soluzione sta in una maggiore presenza dei dirigenti nelle sezioni a garanzia di quel supporto diretto e operativo sul campo che manca. La presenza diretta in sezione rafforzerebbe il senso di appartenenza, aiuto immediato e professionalmente alto che quel momento operativo richiede e non lasciato al noto moto “arrangiati”. Lo stato delle cose ha raggiunto un livello di tale profondo dissenso che porta il malessere ad un numero di suicidi tra detenuti e agenti in drammatico aumento. Questi tragici eventi vengono troppo spesso liquidati come questioni personali, senza mai affrontare le vere cause: condizioni di isolamento, il silenzio istituzionale e la totale assenza di attenzione al contesto umano. Il disagio è così estremo che il lavoro all’interno delle sezioni detentive viene ormai percepito come una forma di punizione, per gli agenti: di non ascolto e bruttale per i detenuti fino a portare alla codificazione del reato di tortura. È una tragedia silenziosa non può più essere ignorata o mascherata da vuote parole di compassione: è una crisi umanitaria in atto che esige soluzioni reali, non palliativi verbali. Signor Presidente, la “grande fuga” del primo ottobre è solo l’ultimo, tragico segnale di un sistema che ha fallito. E il fallimento non è solo tecnico, ma umano. Chiudere gli occhi di fronte a quanto accade nelle carceri significa tradire la funzione stessa del sistema penitenziario, che non può e non deve essere un luogo di degrado e di sofferenza perpetua, né per chi vi è detenuto né per chi vi lavora. La sicurezza data ai detenuti e quella al personale sia del Polizia penitenziaria che di tutto il personale civile diventi prioritaria è tanto necessario quanto un ripensamento radicale del sistema. Una riforma che rimetta al centro chi opera quotidianamente nelle sezioni detentive, non si ottiene con la emanazione di reati aberranti come quello di tortura, non necessario se vi è un controllo costante del fare in sezione e il dare sicurezza è anche rendere, il lavoro in carcere, non come una punizione e incorrere nel reato di tortura, reato aberrante che non si avvererebbe in una gestione di competenza del dirigente di reparto. che possa veramente assolvere alla funzione rieducativa e di abbandono della vita criminale da pare del recluso. Signor Presidente, Le chiedo ancora scusa il rivolgermi a Lei da chi ha operato nel carcere dal 1970 a vario titolo, poi pioniere dell’esecuzione pena non detentiva, vede nel fallimento del concorso e la fuga del personale non di ruolo giovane non solo uno dei tanti segnali del collasso imminente del sistema carcerario ma qualcosa di più drammatico. È necessario un intervento urgente, un’inversione di rotta che ridia dignità e sicurezza a chi lavora nelle carceri e a chi vi è detenuto. Solo così si potrà evitare il rischio che il sistema imploda definitivamente, con conseguenze gravissime per l’intera società. *Dirigente superiore Giustizia in quiescenza. Giudice Onorario T.S. Milano non operativo Il Ddl Sicurezza va di corsa, l’alt sulla cannabis di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 ottobre 2024 Procede veloce verso il via libera definitivo il pacchetto di norme penali malgrado il secondo no del Tar del Lazio al decreto Schillaci. Finite le audizioni, il 7 novembre è il limite per la presentazione degli emendamenti. Il tribunale amministrativo sospende il provvedimento ministeriale. Finito anche al Senato il breve (e, a quanto pare, assai poco considerato) ciclo di audizioni nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia, il ddl Sicurezza viaggia dritto e veloce verso l’approvazione definitiva. Il 7 novembre è il giorno fissato per il termine di presentazione degli emendamenti, ma la maggioranza già fa i conti con i voti in bilico e i mugugni interni sempre più forti che riecheggiano i malumori delle imprese del nord, tanto che qualcuno minaccia un improbabile voto di fiducia (mai ben visto in materia penale). L’accelerazione però è evidente. Malgrado alcune norme contenute nel pacchetto ancora prima di diventare legge abbiano già subito un primo stop da parte di organi giurisdizionali. Come il Tar del Lazio, che ieri per la seconda volta (dopo il pronunciamento dell’11 settembre scorso) ha dato ragione alle imprese di cannabis light che hanno fatto ricorso e sospeso in via precauzionale il decreto con cui il ministero della Salute ha inserito le composizioni orali contenenti cannabidiolo (Cbd) nella tabella delle sostanze stupefacenti. Il tribunale amministrativo entrerà poi, il 16 dicembre prossimo, nel merito di tutti i ricorsi contro il decreto che minaccia violentemente una filiera ormai ben affermata. Nel frattempo però il pacchetto omnibus di norme penali - di rango superiore al provvedimento amministrativo di Schillaci - potrebbe essere già divenuto legge. Con il suo carico di norme-bandiera, reati nuovi di conio (13), aggravanti e anni di carcere, ma anche - argomento sensibile pure per le destre di governo - con il rischio di creare un problema di Pil. “Accettato il ricorso di Ici-Imprenditori Canapa Italia, il Tar del Lazio non poteva che far altrettanto per quello di Sviluppo Srl - fa notare Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni e già presidente del Comitato referendum Cannabis legale. Il 16 dicembre prossimo è auspicabile che si metta la parola fine a questo ennesimo esempio di mala-normazione proibizionista”. Perduca si aspetta il “solito attacco alla magistratura” ma invita il governo “a desistere una volta per tutte da un’impresa che, torniamo a ripeterlo, non solo è a-scientifica, come dimostrato dall’istruttoria utilizzata per giustificare la decisione, ma va contro le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale delle sanità e - ancora una volta - le regole dell’Unione europea sul libero mercato”. Sono soprattutto queste ultime ad avere forza di legge, nel nostro ordinamento, e che potrebbero orientare la decisione del Tar del Lazio, secondo gli esperti. In ogni caso, bisognerà attendere che anche sull’articolo 18, quello che equiparando la cannabis light alla marijuana con alto contenuto di Thc la rende illegale, un tribunale civile o penale chieda l’intervento della Corte costituzionale. Anche la Uil, ieri ha protestato di nuovo perché il ddl Sicurezza “minaccia i principi fondamentali della democrazia del nostro Paese, in quanto reprime il legittimo dissenso e, a nostro avviso, limita l’iniziativa e le mobilitazioni sindacali per difendere i posti di lavoro e contrastare le crisi aziendali e occupazionali”. Il provvedimento, spiega il segretario organizzativo Emanuele Ronzoni audito nelle commissioni, invece di rafforzare l’ordine pubblico, “è in realtà caratterizzato da una logica punitiva e repressiva. In particolare ci sono norme che scoraggiano la partecipazione a iniziative collettive dei lavoratori in difesa dei diritti” (come quella contro il “blocco stradale”). D’altronde, come ha fatto notare ai senatori Debora Del Pistoia, di Amnesty International Italia, “ci dispiace constatare che il testo licenziato poi alla Camera e giunto in queste commissioni, non solo non è stato migliorato tenendo conto delle criticità evidenziate da noi e da altri soggetti auditi dai deputati, ma nel corso della prima lettura ha subito addirittura modificazioni che hanno esacerbato ancor di più le nostre preoccupazioni”. Audizioni di facciata, insomma. Anche per questo domenica 27 ottobre, in occasione del decimo Memorial Stefano Cucchi, a Roma la protesta si concentrerà anche sul ddl Sicurezza. “È solo l’ultimo capitolo di un assalto contro i diritti e la democrazia”, afferma la senatrice di Avs Ilaria Cucchi lanciando la manifestazione che partirà dal carcere di Rebibbia e si concluderà al Parco degli Acquedotti. Lì verrà deposta una targa per suo fratello, il geometra romano morto “il 22 ottobre 2009, mentre era sottoposto a custodia cautelare, nelle mani dello Stato. A causa dello Stato”. Riforma della Giustizia, ora anche l’Europa vuole fermarla di Gaetano Mineo Il Tempo, 25 ottobre 2024 Anche l’Associazione europea dei giudici (Eaj) si è unita al coro italiano di critiche contro la riforma della separazione delle carriere in magistratura promossa dal governo. Con una lettera indirizzata alla premier Giorgia Meloni e al ministro della Giustizia Carlo Nordio, l’Eaj ha espresso preoccupazioni, affermando che la riforma potrebbe mettere a rischio l’indipendenza della magistratura. Ma quanto di queste preoccupazioni è reale e quanto invece è dettato da interessi di una parte della magistratura che non vuole perdere il proprio potere? Il dibattito è vecchio e complesso. Giovanni Donzelli, esponente di Fratelli d’Italia, ha dichiarato in un’intervista al Corriere che il vero problema non è la riforma, ma l’incapacità di accettare che il governo Meloni sia legittimo e deciso a intervenire. “Il clima agitato non è causato dalle nostre riforme” ha spiegato Donzelli, “ma da chi non si è rassegnato al fatto che Giorgia Meloni ha vinto le elezioni”. “Non c’è uno scontro con la magistratura - ha precisato - ci sono alcuni magistrati politicizzati che si oppongono alla nostra volontà di riformare la giustizia”. Questa resistenza, secondo il meloniano, è alimentata da una parte della magistratura che ha intrecciato il proprio ruolo istituzionale con le logiche politiche, mettendo a rischio la terzietà del sistema giudiziario. “Alcuni magistrati interpretano il proprio ruolo in modo politico, ed è per questo che la riforma è necessaria” ha aggiunto. Un esempio di questa politicizzazione è il caso di Marco Patarnello, sostituto procuratore della Cassazione, che avrebbe definito la premier Meloni “pericolosa” in una mail interna dell’Associazione nazionale magistrati. Tali parole, hanno sollevato un’ondata di indignazione ma soltanto dalla maggioranza. Dall’altra parte, quella dell’opposizione, invece, un assordante silenzio. O quasi. Nordio, in merito, ha prontamente annunciato un’ispezione ministeriale: “Stiamo verificando i presupposti per un’ispezione del ministero”. Il Guardasigilli, con la sua lunga carriera alle spalle, non ha mancato di sottolineare come la fiducia nella magistratura sia precipitata negli anni. “Quando entrai in magistratura, nel 1976, godevamo del consenso dell’80% dei cittadini. Oggi quel consenso è crollato”, ha ricordato il ministro, lasciando intendere che gran parte delle colpe siano da attribuire all’interno stesso del sistema giudiziario. Per Donzelli, in sostanza, con la riforma “vogliamo garantire che i giudici possano svolgere il loro lavoro senza essere condizionati da pressioni ideologiche”. Intanto, nonostante le proteste e i tentativi di rallentamento, il governo è determinato a proseguire con la riforma della giustizia. Approvata dal Consiglio dei ministri a maggio, la proposta di separazione delle carriere è attualmente in discussione in Commissione Giustizia della Camera. Il ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, ha confermato che l’obiettivo è portare la legge in Aula per una prima lettura entro Natale. La riforma, composta da otto articoli, introduce modifiche sostanziali all’ordinamento giurisdizionale, tra cui la separazione tra le carriere di giudici e pubblici ministeri, come detto. Una delle innovazioni più rilevanti è anche la creazione di due sezioni distinte del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), con la componente togata selezionata tramite sorteggio, un meccanismo volto a ridurre corporativismi e giochi di potere. Così la camorra manovra i ragazzini: armi, droga e potere come nei cartelli sudamericani di Roberto Saviano Corriere della Sera, 25 ottobre 2024 Emanuele, ucciso a 15 anni nel centro di Napoli, da incensurato. I valori e le regole delle nuove “paranze”. In ogni angolo del pianeta l’età media dei membri delle organizzazioni criminali si è abbassata, dalla fratellanza Bahala Na Gang filippina alla Mocro mafia nella regione del Rif, sino ai clan napoletani. Le mafie affiliano giovani e giovanissimi. Si entra a 13, 15 anni e si arriva ad avere un ruolo ai vertici presto, prestissimo a 17, 20 anni. E così, come presto si scalano i pioli della scala gerarchica, repentina è la caduta. Presto si cresce, presto si muore. L’omicidio di Emanuele Tufano ammazzato ieri a 15 anni purtroppo non ci descrive una nuova vicenda, non ci apre a ipotesi rare, non è un caso che sovverte la normale dinamica criminale. È così da molti anni, ma l’attenzione non esiste salvo accendersi per qualche ora quando a terra massacrati dai proiettili non ci sono giovanissimi. Le “paranze” e i clan - Emanuele era incensurato e non proveniva da una famiglia di camorra, ciò non significa che non fosse dentro le dinamiche delle organizzazioni così come la sua morte violenta non lo rende un affiliato. Questa drammatica storia accade non lontano da Forcella, il quartiere che ha visto nascere quindici anni fa “la paranza dei bambini” il primo gruppo camorristico interamente composto da ragazzini. Il loro capo Sibillo è stato ammazzato a 19 anni e tutti gli appartenenti erano adolescenti e giovanissimi. Non baby gang, qui si parla di camorra. Perché i clan di camorra affiliano ragazzini? Molte le risposte. Un ragazzino ha fame di guadagno, ha pene meno pesanti e non ha paura della morte. Si muore tra i turisti - Nelle organizzazioni sudamericane, filippine, indiane, si affiliano dai 13 anni in su, e si muore sotto i 25 anni. Oggi a Napoli a 15 anni si muore tra i turisti sotto i colpi di pistola. Quando le informazioni restano relegate alla cronaca locale, volontà di gran parte della politica per evitare di dover dare risposte che non hanno, si perde la dimensione del fenomeno. Ma sono questioni che riguardano l’economia nazionale, il ruolo della politica, gli equilibri della borghesia del Paese. Gennaro e l’amico - Ignorato dal dibattito nazionale è stato il caso di Gennaro Ramondino pregiudicato ammazzato la scorsa estate. Il suo esecutore era uno dei suoi più cari amici e aveva 16 anni. “Me l’hanno ordinato i boss ma non ho avuto il coraggio di dare fuoco al cadavere”. Il corpo trascinato per le scale e in strada ha lasciato una densa scia di sangue che gli affiliati hanno lavato con acqua e sapone, tutto pubblicamente. Nessuna denuncia. A tutto questo come si risponde? Non con decreti d’emergenza, il decreto Caivano è stato realizzato sotto effetto della necessità propagandistica di attuare un piano anticrimine da parte del governo, non è stato frutto di un tempo ragionato, non c’è stata interlocuzione con maestri di strada e operatori di associazioni che da anni operano in queste situazioni. L’effetto boomerang - È stato un boomerang, doveva portare a un contrasto della criminalità minorile invece ha portato solo a un incremento del 50% dei detenuti minori in un anno impedendo nelle carceri qualsiasi percorso di riabilitazione serio. La sovrappopolazione carceraria non permette recupero, solo repressione. Un decreto disastroso che non si rivolge al recupero ma alla sola punizione, un decreto non fa alcuna distinzione tra il minore che fa un reato comune e un minore che quel reato lo fa ma in un contesto di criminalità organizzata, che punisce anche le famiglie con multe (che spesso vengono coperte dai clan). Le luci del turismo - Napoli copre tutto sotto le luci del turismo, le friggitorie che l’hanno invasa, i tavoli che in ogni vicolo servono spritz ad ogni ora. Non porta questo overtourism una reale crescita, i profitti sono per i ristoratori e gli hotel, per i b&b in cui tutti i clan del centro storico hanno investito decidendo di abbassare l’impatto criminale su quartieri. Da un lato le famiglie si alleano per comprare abitazioni e ristoranti dall’altro non si è fermata la diffusione della coca che coni turisti si è alzata di prezzo creando tensione tra i gruppi. Il turismo così organizzato non porta borse di studio, non porta distretti industriali, non fa gemmare scuole alberghiere, non sta portando un aumento di contratti ma solo lavoro nero e anche se la camorra spara meno o spara meglio. I boss e i giovani - La terribile e amara verità è che le organizzazioni criminali sono le uniche che investono sui giovani: danno stipendi sicuri, se criminalmente vali e percorri le tappe giuste il premio arriva, anche se alla fine del percorso ci sarà carcere e morte per molti questo da senso di vita e sicurezza economica. Le altre alternative, quelle legali cosa danno? Cosa promettono, cosa mantengono? In un mondo dove conta solo avere denaro ed esser fighi, poter comprare consenso e mettere paura, perché non affiliarsi? Tutto suggerisce questa scelta. Bergamo. Giovane detenuto morto in cella. I volontari: “Situazione difficile per tutti” Corriere della Sera, 25 ottobre 2024 L’associazione Carcere e territorio è stata ascoltata oggi in Regione. “A Bergamo, venerdì scorso, abbiamo avuto un ulteriore decesso in carcere, un giovane di 34 anni trovato morto in cella. È la punta di un iceberg di una situazione di difficile gestione”. Lo dice Luigi Gelmi, vicepresidente dell’Associazione Carcere Territorio Bergamo che, insieme al presidente Fausto Gritti, è stato ascoltato questo pomeriggio dalla commissione speciale del Consiglio regionale della Lombardia che si occupa degli istituti penitenziari. “La popolazione carceraria ha avuto nel tempo una certa evoluzione verso problemi che riportano spesso al disagio mentale e alla dipendenza - spiega Gelmi. Sul tema della psichiatria, che sappiamo essere uno dei nodi problematici anche sul territorio, l’obiettivo strategico è di creare un Cps (Centro che si occupa di salute mentale, ndr) che faccia da raccordo tra il carcere e i territori di provenienza di queste persone. In attesa di ciò, la soluzione intermedia potrebbe essere di prevedere che in ognuno dei tre distretti della provincia di Bergamo venga individuato un referente delle strutture che si occupano di psichiatria, così avremo un’interlocuzione per le segnalazioni e l’invio nelle comunità che accolgono persone con disagio psichico”. Il vicepresidente dell’associazione, che da più di 40 anni opera nel carcere di Bergamo, sottolinea che “la situazione è veramente pesante per gli agenti, per il personale, ma soprattutto per i detenuti perché le celle in diverse sezioni sono ancora chiuse e la conflittualità è sempre molto alta”. Il carcere di Bergamo “come tutte le altre carceri, soffre di sovraffollamento e di carenza di polizia penitenziaria”, dice il presidente Gritti. Che chiede ai consiglieri “la continuità dei finanziamenti regionali anche nel 2025”. E spiega: “Grazie alle risorse stanziate dalla Regione abbiamo finanziato tre progetti che ci hanno permesso l’accompagnamento lavorativo di 110 persone, di cui 100 con dei tirocini extracurriculari. Di queste, 90 persone detenute hanno potuto accedere alle pene alternative”. L’associazione mette a disposizione anche degli alloggi che al momento accolgono 31 persone seguite da 7 educatori. Il presidente e il vicepresidente hanno poi sottolineato un rapporto critico con la nuova direttrice del carcere, Antonina D’Onofrio: “Ci sono delle resistenze” su alcune iniziative “che stiamo cercando pian piano di allentare perché la direzione vuole centralizzare tutto”, dice Gelmi. Per toccare con mano quanto emerso dall’audizione, la Commissione speciale farà visita al carcere di Bergamo entro la fine dell’anno. Oristano. L’autopsia non elimina i dubbi sulla morte in carcere, ma il pm chiede l’archiviazione di Luigi Mastrodonato Il Domani, 25 ottobre 2024 Nelle note alla relazione di consulenza della procura, si legge che “l’assenza di lesioni traumatiche del distretto cranio-cervicale consente di escludere la morte asfittica, contrariamente a quanto formulato dal medico penitenziario”. Tuttavia non esclude “con ragionevole certezza lo strangolamento con successiva sospensione”. Per sette volte la procura di Oristano aveva respinto la richiesta di svolgere l’autopsia sul corpo di Stefano Dal Corso. La sua morte nel carcere sardo, avvenuta il 12 ottobre 2022, da subito era stata derubricata a suicidio per impiccamento, nonostante nel corso del tempo si fossero accumulati elementi che facevano vacillare quella versione. Alla fine, l’inverno scorso, la procura ha disposto l’autopsia, che è stata eseguita il 12 gennaio 2024. Nelle scorse ore sono stati presentati i risultati, che non solo non fanno chiarezza sul decesso, ma alimentano nuovi dubbi. I segni possono essere compatibili con quelli dello strangolamento e non c’è traccia della rottura dell’osso del collo, come invece era stato scritto al momento del ritrovamento dai sanitari. La morte di Dal Corso - Il 12 ottobre 2022 Stefano Dal Corso è stato trovato privo di vita nel carcere di Oristano. Era arrivato da Rebibbia al carcere sardo da pochi giorni, doveva partecipare a un’udienza che lo riguardava e inoltre aveva chiesto il trasferimento per poter stare vicino alla figlia, che vive in Sardegna con la madre. Sin dal giorno della sua morte, la versione data per buona dalle autorità era che si fosse suicidato impiccandosi con un pezzo di lenzuolo strappato con un rasoio e attaccato alle grate della finestra. Ma la famiglia, in particolare la sorella Marisa Dal Corso, nel tempo hanno raccolto una serie di elementi che hanno messo in discussione questa versione, nonostante la procura nell’estate del 2023 abbia archiviato le indagini. La finestra situata troppo in basso per un’impiccagione, il letto rifatto senza strappi nelle lenzuola, la mancanza di immagini del corpo sospeso ma solo sdraiato e ben rivestito con indumenti che la famiglia non ha mai riconosciuto, le telecamere di videosorveglianza che in quel momento non funzionavano, le testimonianze di due detenuti su un presunto pestaggio subito da Dal Corso, confermate poi da un super-testimone che si è identificato come parte del corpo di polizia penitenziaria. E poi un secondo decesso avvenuto nel carcere negli stessi giorni, citato in modo del tutto casuale dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. I risultati dell’autopsia - Alla luce di tutti questi nuovi elementi, la procura nell’autunno scorso ha deciso di riaprire le indagini. E a dicembre, all’ottava richiesta da parte dei legali della famiglia Dal Corso, ha dato via libera all’autopsia sul corpo, compiuta il 12 gennaio 2024. Ora sono usciti i risultati, presentati in una conferenza stampa alla Camera a cui hanno partecipato Marisa Dal Corso, l’avvocata Armida Decina e i parlamentari Ilaria Cucchi (Avs) e Roberto Giachetti (Iv), che dall’inizio seguono la battaglia per chiedere verità sulla morte di Stefano Dal Corso. Nella relazione di consulenza della procura, che nel frattempo ha già presentato una nuova richiesta di archiviazione del caso, si dice che “l’autopsia eseguita a distanza di tempo dalla morte, quando già sono in atto i fenomeni cadaverici putrefattivi e trasformativi, rende l’indagine ancora più complicata”. Questo non ha permesso di approfondire alcuni aspetti, come l’eventuale presenza di segni interni di una morte asfittica, né di condurre un’indagine tossicologico-forense approfondita per comprendere quali e quante sostanze avesse in corpo Dal Corso. Il documento conclude comunque che gli elementi rilevati portano a ritenere che il solco sul corpo sia “maggiormente compatibile” con un impiccamento rispetto allo strangolamento. Ma restano parecchie ombre. Segni di strangolamento? Nelle note alla relazione di consulenza della procura, i tre medici incaricati dalla famiglia Dal Corso sottolineano che “l’assenza di lesioni traumatiche del distretto cranio-cervicale consente di escludere la morte asfittica violenta e rapida, generalmente dell’impiccamento tipico e completo, contrariamente a quanto formulato dal medico penitenziario”. E aggiungono che “l’andamento del solco, le caratteristiche istologiche, nel contesto del sopralluogo non escludono con ragionevole certezza lo strangolamento con successiva sospensione”. Dall’inizio Marisa Dal Corso è convinta che il suicidio del fratello possa essere stato in realtà una messinscena, creata ad hoc per celare un’eventuale morte violenta. L’autopsia doveva chiarire quest’aspetto, ma non ci è riuscita, o ci è riuscita solo in parte: ormai era passato troppo tempo per raccogliere una serie di elementi, altri sono stati raccolti senza arrivare a conclusioni certe. Tra le altre cose emerse dall’esame autoptico c’è anche la presenza di tracce di Dna estraneo sul lenzuolo intorno al collo di Dal Corso. L’avvocata Decima ha chiesto di compararlo con i profili genetici delle persone che quel giorno erano entrati in contatto con Dal Corso, altro elemento poco trasparente siccome quello era l’unico giorno in cui i nomi degli agenti di turno sono stati scritti a penna per una “stampante rotta”. La procura di Oristano ha ignorato la richiesta, mentre l’avvocata sta ora studiando le carte per fare opposizione alla nuova richiesta di archiviazione del caso. “Dall’autopsia sono emersi una serie di elementi che ci obbligano ad andare avanti con questa battaglia”, sottolinea la sorella di Stefano, Marisa Dal Corso. “Non si può rimanere con questi dubbi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuti-sarti con ago e filo di Anna Paola Merone Corriere della Sera, 25 ottobre 2024 Progetto di “Isaia”. Le divise della Polizia penitenziaria italiana vengono realizzate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ogni anno 33 mila camicie destinate alle guardie carcerarie sono tagliate e cucite nei laboratori della struttura che nel 2020 fu al centro di uno scandalo finito sulla stampa nazionale: i detenuti chiedevano test e mascherine dopo un caso di Covid e la loro protesta venne repressa con la violenza. Circa 100 gli agenti di polizia penitenziaria - oltre ai vertici del Dap e ad alcuni medici - finiti al centro di un feroce pestaggio ripreso con cruda evidenza dalle telecamere di videosorveglianza del carcere. Dopo quei giorni difficili è stata inviata a Santa Maria Capua Vetere Donatella Rotundo, con il preciso scopo di ricostruire l’immagine e la reputazione del carcere. E lei ha cominciato dal terreno che le è stato sempre familiare, da una formula che ha applicato anche in altre case circondariali: dal lavoro. “È stata una pagina difficile, ma siamo andati avanti con determinazione - racconta la direttrice. E questo progetto ha una forte valenza anche simbolica, è proprio il segno tangibile dell’incontro fra chi è detenuto e gli agenti. Un ponte significativo in questo luogo e anche il segno del processo di recupero cui i reclusi sono chiamati. È il lavoro che restituisce la dignità e la speranza”. Un progetto realizzato insieme con la maison di alta moda maschile Isaia, che ha allestito un laboratorio dietro le sbarre e fornito il know how indispensabile per avviare i corsi. “Non un semplice passatempo per i detenuti - spiega Gianluca Isaia, presidente e ad -. Abbiamo realizzato un laboratorio con macchine uguali a quelle che utilizzano i nostri dipendenti e chi segue questi corsi sarà in grado di lavorare, una volta libero, a tutti gli effetti in una sartoria”. Nell’accordo è previsto che la Fondazione Isaia ricopra il ruolo di consulente e supervisore della Casa Circondariale, con la direzione operativa del progetto e la valutazione degli standard e i compiti di verifica dei risultati. Alla Isaia & Isaia Spa il coordinamento della pianificazione produttiva e le funzioni relative all’expertise tecnico-sartoriale. Del progetto si è parlato nel corso di una serata di beneficenza promossa da Isaia e intitolata “Cucinapoli”, per la quale i detenuti hanno realizzato le divise per gli chef coinvolti. Un firmamento di stelle Michelin - Alfonso Iaccarino, Gennaro Esposito, Giuseppe Iannotti, Francesco Sposito, Maicol Izzo, Lino Scarallo, Domenico Candela - più due chef “resident” del ristorante Magnolia dove si è svolto l’incontro: Ignacio Hidemasa Ito e Antonio Chirico. Giacche per tutti e una uniforme in più per Donatella Rotundo, chef ad honorem, che è stata riportata in carcere con le firme di tutti gli stellati coinvolti nella serata. Da esporre con orgoglio fra i trofei, come una maglietta di una squadra di serie A con le firme dei giocatori. Monza. Il carcere non sarà più isolato: sarà più facile arrivare (anche per chi non è automunito) di Barbara Apicella monzatoday.it, 25 ottobre 2024 Votata all’unanimità la mozione presentata dal consigliere comunale Paolo Piffer (Civicamente). Diverse le soluzioni al vaglio per permettere ai lavoratori e ai familiari (ma non solo) di raggiungere il carcere coi mezzi pubblici. Quello che da alcuni politici è stato definito “l’undicesimo quartiere” di Monza non sarà più isolato. Adesso per raggiungere il carcere non sarà più indispensabile essere automuniti. Il Comune si attiverà con l’Agenzia di bacino e con il Trasporto pubblico locale per individuare una modalità (una nuova fermata, una navetta, un autobus a chiamata) per permettere di raggiungere Sanquirico coi mezzi pubblici. Oltre 1.000 persone isolate dal resto della città - Così è stato definito dalla mozione presentata dal consigliere di minoranza Paolo Piffer (Civicamente) e votata all’unanimità che impegna l’amministrazione a collegare il carcere con il resto della città. Una richiesta che Piffer aveva già avanzato, ma si era visto bocciare, ai tempi della giunta Scanagatti. “Era inaccettabile che nel 2024 una struttura penitenziaria che ogni giorno ospita circa 1-000 persone tra detenuti, agenti penitenziari, medici, volontari fosse isolata e accessibile solo da chi è in possesso di un mezzo di trasporto proprio - ha ribadito Piffer soddisfatto dell’accoglimento della sua proposta -. Si sente spesso parlare politici ed amministratori locali del ruolo rieducativo del carcere, di inclusività, di pene che non vadano contro al senso di umanità (come previsto dall’art. 27 della costituzione), finalmente qualcosa di concreto. Una madre, un figlio, un fratello potrà finalmente andare a colloquio senza troppe difficoltà. Di sicuro questa iniziativa non risolverà tutti i problemi legati alla carenza del personale penitenziario, alle criticità strutturali, al diritto alla salute però è un piccolo passo verso una città più civile, e sono felice che il consiglio comunale abbia approvato all’unanimità la nostra proposta”. Ex detenuti che si ritrovano a piedi - Un problema, l’assenza di mezzi pubblici nei pressi del carcere cittadino, che crea seri disagi anche agli stessi detenuti. Proprio come ha ricordato la consigliera Martina Sassoli (Gruppo Misto) che in Regione Lombardia fa anche parte della Commissione carceri. “Quando un detenuto viene scarcerato - ha ricordato - non è scontato che ad accoglierlo all’uscita ci sia qualcuno. La persona si ritrova abbandonata a se stessa. Che cosa succede se l’unica possibilità per raggiungere la stazione è quella di andare a piedi? È necessaria la presenza di un trasporto pubblico che reintegri comunque alla società”. L’assessore alla Mobilità Irene Zappalà ha annunciato che “c’è in corso una riflessione con Tpl per individuare una soluzione che possa essere una navetta, un bus o un bus a chiamata”. Cremona. “Il Ddl Sicurezza è un boccone indigesto”, sciopero degli avvocati di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 25 ottobre 2024 Dal 4 al 6 novembre: “Misure antidemocratiche, Stato onnivoro”. “Più galera, più controllo, più silenzio, più pene corporali: ecco a voi il Decreto sicurezza! Ecco il boccone amaro e indigesto che il legislatore riserva a questo Paese apparentemente muto e sbigottito”. È un ‘manifesto’ durissimo quello con cui la Camera penale della Lombardia orientale ‘Giuseppe Frigo’ (presidente Maria Luisa Crotti) annuncia l’adesione ai tre giorni di sciopero, dal 4 al 6 novembre, contro il ddl sicurezza all’esame del Parlamento. Incroceranno le braccia anche i penalisti della Camera penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’, presieduta dall’avvocato Micol Parati. Nel manifesto si spiega che “80 anni dopo Gandhi si andrà in galera, perché si esercita da carcerato la più civile e democratica delle forme di protesta e di manifestazione del dissenso: la disobbedienza civile!”. E ciò a fronte di una situazione carceraria italiana “a dir poco vergognosa ed esplosiva al tempo stesso con 76 suicidi dal primo gennaio all’11 ottobre di quest’anno”. I penalisti accusano il governo di inerzia: “Nessun impegno per rendere le carceri meno immonde e più vicine al senso di umanità ed alla funzione della pena: si risolve la questione, punendo chi protesta per il mancato rispetto da parte dello Stato delle proprie leggi oltre che della Costituzione e delle norme sovranazionali”. Nel manifesto si rincara la dose: “A ciò si aggiunge altrettanta pretesa di ordine e disciplina nel ‘mondo di fuori’ con l’introduzione continua di nuove fattispecie penali (sempre più fantasiose), l’irrazionale aggravamento delle pene, il continuo allargamento delle facoltà delle forze dell’ordine che, grazie alle nuove norme, potranno portare, senza licenza, armi diverse da quelle d’ordinanza. Il tutto con numeri che dicono che i reati sono in calo e che non c’è alcuna emergenza reale”. Ed ancora. “Si creano reati universali (la gestazione per altri, ndr), e contemporaneamente si mandano obbligatoriamente in galera i bambini insieme alle mamme: nemmeno nel codice penale che portava le firme di Rocco e Mussolini si arrivata a tanto. Si subordina il diritto a comunicare con i propri cari (articolo 15 della Costituzione) alla regolarità del soggiorno”. Poi, l’affondo: “Alla fine di questa Via Crucis dei principi democratico-liberali risulta evidente l’irresistibile impulso alla pan penalizzazione, al controllo globale della società, alla costruzione di uno Stato onnivoro che sovrasta il cittadino-suddito”. Sciopero “contro tali misure contrarie al diritto penale liberale e ai valori fondanti le moderne società democratiche occidentali”. Sciopero per dire “no alla galera indiscriminata, alla galera in conseguenza dell’esercizio di diritti costituzionali, alle carceri incostituzionali, luoghi immonde e discariche sociali, ai bambini in galera, al diritto penale d’autore, alle pene corporali”. Sciopero “per ribadire il sì al diritto penale minimo, al diritto penale del fatto, alla proporzionalità della pena al fatto, alla funzione rieducativa della pena, al diritto alla manifestazione pacifica e non violenta del dissenso”. San Gimignano (Si). Reinserimento dei detenuti con arte e cultura, protocollo con l’Arci sienanews.it, 25 ottobre 2024 Promuovere progetti di reinserimento sociale e lavorativo di persone detenute nel carcere di San Gimignano attraverso arte, cultura, percorsi di cittadinanza attiva e di educazione alla legalità. È questo l’obiettivo primario del protocollo d’intesa sottoscritto ieri, mercoledì 23 ottobre, da Arci Siena Aps, alla presenza della presidente del comitato provinciale, Serenella Pallecchi, con la casa di reclusione di San Gimignano, rappresentata dal direttore Maria Grazia Giampiccolo. “Il protocollo rafforza la collaborazione avviata negli ultimi anni fra Arci Siena e casa di reclusione di San Gimignano che ha coinvolto persone detenute in progetti culturali, artistici e di educazione alla legalità - si legge nel comunicato diffuso - fra cui esperienze residenziali a Suvignano insieme a studenti in arrivo da tutta la Toscana. Il documento siglato, in particolare, unirà Arci Siena e casa di reclusione di San Gimignano nella promozione di iniziative tese a favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone detenute che hanno accesso ai benefici penitenziari (quali Permessi premio ex art. 30 ter Op), consentendo loro di acquisire conoscenze e competenze professionali e sociali da utilizzare una volta usciti dal carcere. Le persone ritenute idonee saranno coinvolte come volontari in progetti, eventi, laboratori culturali, rappresentazioni teatrali, interventi di pubblica utilità e di altro genere a favore di soggetti deboli e fragili nel territorio della provincia di Siena”. Andria (Bat). Il lavoro per i detenuti, come occasione di riscatto educativo e di dignità sociale canosaweb.it, 25 ottobre 2024 Una visita attesa, accolta con piacere e senso di amicizia, quella compiuta dal Prefetto di Macerata, dottoressa Isabella Fusiello, nativa di Andria, che nei giorni scorsi è giunta accompagnata dal professor Giuseppe Losappio, docente ordinario di diritto penale all’ateneo barese, presso la Masseria San Vittore di Andria. Il progetto diocesano “Senza Sbarre” è ormai un rinomato ed apprezzato programma di reinserimento di detenuti ed ex detenuti delle carceri pugliesi ed italiane, ammessi a programmi alternativi alla detenzione e pertanto conoscerlo da vicino diventa una occasione di studio e di approfondimento. Propria la drammatica attualità dell’emergenza carceraria, delle condizioni di vita negli istituti di pena nazionali, del loro sovraffollamento e delle iniziative volte alla rieducazione dei detenuti sono stati al centro della visita del Prefetto Fusiello. Attraverso il lavoro e le attività agroalimentari connesse alla masseria San Vittore, estesa su una superficie di 10 ettari dell’altopiano murgiano, in cui è ospitato nel territorio di Andria questo innovativo progetto voluto fortemente dal Vescovo diocesano Mons. Luigi Mansi, diventato con gli anni un valido esempio di giustizia riparativa. All’incontro, cui ha preso parte con Don Riccardo Agresti e Don Vincenzo Giannelli, responsabili del programma di rieducazione e di inclusione sociale, c’era anche il notaio Sabino Zinni, tra i primi amici che hanno sostenuto sin dal suo nascere, nel 2018, il progetto della Diocesi di Andria. Il Prefetto Isabella Fusiello, nel visitare le ultime opere edili portate a termine da Don Riccardo e Don Vincenzo, con i finanziamenti da parte della Caritas e dai fondi dell’8xmille, ma anche con l’aiuto costante e attivo di tanti sostenitori, presenti anche in un sodalizio denominato “Amici di San Vittore Onlus - Progetto Senza Sbarre” ha preso atto delle verifiche che le Forze dell’ordine, su disposizione della Magistratura, compiono sugli ospiti della struttura. Nel dirsi compiaciuta e favorevolmente colpita dalla vita sociale che si svolge a San Vittore, ha rimarcato come sulla drammatica problematica circa il sovraffolamento carcerario e sulla portata della rieducazione della pena, lo scorso 11 settembre, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio ed il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa che ha mirato a rafforzare le opportunità lavorative dei detenuti nelle regioni Abruzzo, Lazio, Marche, Molise e Umbria colpite dal terremoto del 2016, promuovendo la loro assunzione nei cantieri coinvolti nella ricostruzione di edifici pubblici e di culto e favorendo il loro reinserimento nella società. La visita si è conclusa con una promessa circa prossime iniziative che potranno svilupparsi in tale luogo, al fine di rimarcare il senso del lavoro per i detenuti, come occasione di riscatto educativo e di dignità sociale, dando loro possibilità di occupazione, in particolare nel settore agricolo ed in ambito artigianale. Torino. “Prevenire è punire”, i penalisti e le misure di prevenzione di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 25 ottobre 2024 Oggi pomeriggio al palagiustizia un convegno (e un volume) della Camera penale Vittorio Chiusano. “Prevenire è punire”, ripetono alla Camera penale Vittorio Chiusano: è il titolo di un volume - sull’applicazione delle misure di prevenzione in Piemonte - e l’argomento, oggi (dalle 14 alle 19) nella maxi aula 4 del palagiustizia, di una tavola rotonda con avvocati, magistrati e docenti universitari su, appunto “Le misure di prevenzione tra Costituzione e diritto convenzionale europeo”. Ed è nel corso dell’incontro che verranno presentate statistiche, considerazioni e decisioni dei giudici raccolte nello studio curato dalla Commissione Misure di prevenzione della Camera penale. Commissione coordinata dall’avvocato Cosimo Palumbo e composta dai colleghi Silvia Alvares, Marco Longo, Luciano Paciello, Davide Richetta, Christian Rossi e Alessio Tartaglini. “Le misure di prevenzione patrimoniale sono in continuo aumento nel distretto di Torino - spiega Richetta - così come in tutta Italia. Il fatto di chiamarle misure antimafia è uno schermo comunicativo, perché la maggior parte delle volte vengono applicate a chi con la mafia non c’entra assolutamente nulla. Sono un metodo che prende sempre più piede perché per la Procura è molto meno faticoso del processo penale, dove bisogna provare effettivamente le responsabilità dell’imputato”. Di più, secondo il legale: “È molto più comodo affidarsi alle presunzioni, alla rilevanza di labili indizi, che caratterizzano il procedimento di prevenzione per sottrarre ingenti patrimoni”. Ovvero: “Dalla cultura della prova alla cultura del sospetto”. Dopodiché, le misure di prevenzione sono strumento insostituibile contro la criminalità organizzata: “Ma vengono usate per la maggior parte nei confronti dei criminali comuni; e possono essere strumento contro la mafia se usate in maniera seria, accertando davvero fatti e responsabilità, non ricorrendo a presunzioni, illazioni e ipotesi”. Torino. I nuovi orizzonti della sanzione: la pena senza condanna di Cosimo Palumbo* Corriere di Torino, 25 ottobre 2024 Le misure di prevenzione sono “vecchi arnesi” di controllo sociale, sopravvissuti alla Costituzione ed agli interventi del Giudice delle Leggi, grazie alla forza evocativa della “emergenza”, che si voleva di volta in volta contrastare, o della “sicurezza”, che si voleva assicurare. Applicabili indipendentemente dall’accertamento giudiziario della commissione di un reato, sono misure di “bando”, di esclusione, pensate per garantire l’ordine dei centri urbani, sono così diventate lo strumento per affrontare molte delle emergenze che hanno segnato la storia del nostro Paese. Ma la loro applicazione si è poi estesa indistintamente a tutti i fenomeni di vera o presunta pericolosità per la sicurezza pubblica. Oggi, il sistema prevede l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali anche per coloro che mafiosi non sono: soggetti, anche molto diversi - per estrazione sociale e reati commessi - dal tradizionale target di intervento preventivo. Dagli oziosi e vagabondi siamo arrivati agli stalker e alle imprese, colpite da interdittiva antimafia (definito un “ergastolo imprenditoriale”) Le leggi che, a cavallo tra il 2008/2009 hanno introdotto la possibilità di applicazione disgiunta delle misure di prevenzione patrimoniali, indipendentemente dalla attualità della pericolosità sociale sono l’emblema della trasformazione da finalità preventive a sanzionatorie. Uno strumento che le Procure hanno apprezzato perché costituisce una alternativa al procedimento penale, che richiede maggiori sforzi investigativi e tempi più lunghi per la sua definizione. Un sistema che non ha eguali in ambito europeo: siamo l’unico paese dell’Unione in cui il patrimonio può essere confiscato indipendentemente dalla accertata responsabilità penale per un reato. Anzi, talora addirittura a fronte di sentenze di assoluzione. Con ironia ma con altrettanta chiarezza, coloro che sono raggiunti da misure di prevenzione sono stati definiti, “ne’ colpevoli, ne’ innocenti “o ancor più efficacemente “i nuovi dannati”. Le misure sono applicate all’esito di un giudizio sommario, destinato a concludersi con un decreto che si basa su indizi neanche assimilabili a quelli sufficienti per la irrogazione di una misura cautelare. Sospetti e valutazioni probabilistiche che portano ad una pena senza condanna. È questa la strada verso una nuova frontiera della sanzione penale. È la mutagenesi del procedimento di prevenzione, che consente di “punire senza accertare”. Un ossimoro che fa rabbrividire, un paradosso per un sistema sanzionatorio di stampo accusatorio quale è il nostro. Il riconoscimento della funzione punitiva delle misure, da sempre negata dai sostenitori della prevenzione, arriva proprio dal Governo Italiano in una delle memorie dell’Avvocatura Generale dello Stato, nell’ambito del ricorso presentato alla CEDU dalla famiglia Cavallotti. Un capitolo, dedicato alla “Natura e finalità della confisca di prevenzione”, dal significativo titolo “Punire e prevenire”, vorrebbe, negli intenti della parte pubblica, tracciare un discrimine netto tra l’azione punitiva (esercitata dallo Stato mediante le pene) e quella preventiva, affidata invece a strumenti di natura amministrativa. Secondo l’Avvocatura dello Stato, anche la pena assolve ad una funzione preventiva, oltre che retributiva e, quindi, è accettabile che le misure di prevenzione abbiano anche effetti punitivi. Il governo finisce per ammettere che le misure di prevenzione hanno natura sanzionatoria poiché “È certamente vero che i due interventi (punire e prevenire) possono essere effettuati con la stessa misura”. Insomma, prevenire è punire! *Avvocato, coordinatore Commissione misure prevenzione della Camera penale Torino. “Tutelare i diritti, ma solo aggredendo i patrimoni illeciti si combatte la mafia” di Gian Carlo Caselli Corriere di Torino, 25 ottobre 2024 Vale a dire affari in comune con vari personaggi che contano nel mondo legale, avidi anch’essi di “piccioli”. Tutti lo sapevano da sempre, ma per avere una risposta sul piano investigativo-giudiziario bisogna arrivare al 1982. Quando la sollevazione di popolo seguita alla rabbia e allo sdegno causati dall’omicidio del generale-prefetto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela e del poliziotto Domenico Russo svegliò il nostro Paese da un torpore durato troppo a lungo e impose di inserire nel nostro ordinamento due novità che si riveleranno decisive nella lotta alla mafia: il reato di associazione mafiosa (416 bis c.p.) e le misure di prevenzione patrimoniale, che permettono di colpire - oltre al mafioso che delinque per arricchirsi - proprio le ricchezze ottenute delinquendo, che vengono confiscate se il mafioso non è in grado di ricollegarle a una attività lecita. Ed ecco l’inversione dell’onere della prova, tanto utile nel contrasto della criminalità mafiosa quanto invisa ai garantisti tutti, quelli autentici e quelli “pelosi”, cioè volti a depotenziare la magistratura di fronte al potere economico e politico, oppure a graduare le regole in base allo status sociale dell’imputato. Falcone diceva “segui il denaro”, ma quando cominciò a lavorare a processi di mafia con Rocco Chinnici, questi dovette sorbirsi l’inviperita reprimenda di un alto magistrato che lo ammonì di non dare processi di mafia a quel Falcone, perché si rischiava di rovinare l’economia palermitana. Chinnici ovviamente non gli diede retta, sicché Falcone e gli altri del pool continuarono a occuparsi di criminalità mafiosa anche nei suoi risvolti patrimoniali. Ora le criminalità sono diverse rispetto ai tempi di Falcone. Si va da coloro che si approfittano degli anziani truffandoli, ai narcotrafficanti, a coloro che fanno dei dati personali illecitamente sottratti un fiorentissimo e innovativo modo di accumulazione di ingentissimi profitti, fino ai terroristi internazionali che trovano linfa proprio in patrimoni illecitamente accumulati. E le nuove mafie (senza per altro rinunziare alle redditizie attività “tradizionali”) agiscono anche su livelli più sofisticati. Parliamo di investimenti internazionali, di centrali off shore, del mercato delle criptovalute e delle monete elettroniche. Parliamo delle nuove tecnologie nel settore finanziario: blockchain, high frequency trading, import-export, fondi di investimento internazionali. Si registra dunque il passaggio delle mafie dalla strada alle stanze ovattate dei consigli di amministrazione e delle grandi centrali finanziarie, dove si possono decidere i destini di un intero comparto economico. Quindi ancora “segui il denaro”. Con le nuove criminalità abbiamo lo stesso fenomeno accumulatorio ingiustificato. E illecito. Per cui lo strumento dell’aggressione patrimoniale ai patrimoni illeciti resta sempre fondamentale. Certo bisogna cercare di coniugarlo al meglio con la tutela dei diritti individuali nell’ambito di quello che è un giusto processo. Ma guai se vi fosse un retro pensiero volto alla cancellazione di fatto delle nostre misure di prevenzione. Sul versante dell’amministrazione della giustizia, la nostra Corte di cassazione sembra muoversi bene, senza discostarsi dai fatti e dal loro contesto (il riferimento è in particolare alla sentenza 4.306/2015). Allo stesso modo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), occupandosi di questa materia, dovrebbe a mio avviso evitare il formalismo astratto del caso Contrada, che produce giustizia da laboratorio, avulsa dal mondo concreto della mafia. A meno di volersi richiamare al don Ferrante manzoniano: che negava la peste mentre ne stava morendo… In breve, benvenuti gli sforzi di condurre pure il procedimento di prevenzione all’ambito del giusto processo, ma tenendo saldo lo strumento dell’aggressione patrimoniale. E senza mai dimenticare che “l’economia cattiva scaccia quella buona”, penalizzando gli operatori onesti che un ordinamento democratico ha invece l’obbligo di tutelare. I confini esistono per essere superati di Eraldo Affinati Avvenire, 25 ottobre 2024 Tracciare il confine è l’inizio della Storia: qua ci siamo noi, dall’altra parte ci siete voi. Così tutto comincia, nell’intreccio ancestrale dei rapporti sociali al tempo stesso distinti e contigui, fra scorte, commerci, lingue, costumi, guerre e paci. La ragione politica, impegnata a comporre i dissidi legati ai territori contesi, risulta sempre in ritardo rispetto alla mobilità insita nella natura umana: oggi più che mai. Basti pensare alla recente vicenda dei migranti destinati in Albania. Chi, come me, è in costante contatto con le genti che arrivano in Italia da ogni parte del mondo, nel tentativo di sfuggire alla miseria costruendosi un’esistenza migliore, trattiene a stento lo stupore nel verificare lo scarto impressionante tra le regole protocollari, anonime e amministrative, e il volto concreto delle persone. Nei giorni scorsi alla scuola Penny Wirton di Roma mi è venuto a trovare Mohammad Jan Azad, un mio ex studente afghano, conosciuto vent’anni fa alla Città dei Ragazzi, quando era un adolescente carico d’energia propositiva, ben prima che diventasse l’imprenditore di successo che è ora. Accompagnava tre sorelle hazara, ricongiunte al fratello maggiore già attivo nella capitale, appena entrate nel nostro Paese grazie ai corridoi umanitari organizzati da Sant’Egidio, alle quali abbiamo immediatamente assicurato una volontaria per ciascuna. Vederle entrare in azione, pronte ad assorbire come spugne i primi rudimenti dell’italiano, è stato un balsamo spirituale. Sarebbe bastato osservare queste giovani donne, sopravvissute all’oppressione dei fondamentalisti, per comprendere la dimensione convenzionale e artificiosa di ogni dogana. Ma poi c’erano i racconti di Mohamed che tiene a mente le storie di molti suoi compagni, anch’essi miei antichi scolari. Ogni volta che ci incontriamo mi aggiorna sulle loro mutevoli sorti. Tempo addietro si era prodigato per far uscire dall’Afghanistan Jalil Rawnaq, il giornalista perseguitato insieme a due colleghi, salito alla ribalta delle cronache dopo che le foto delle torture subite dai talebani avevano fatto il giro di tutte le redazioni del mondo: dopo un paio d’anni trascorsi nel Bel Paese, è andato in Canada dove conta di continuare a lavorare quale corrispondente. E Alimi, gli chiedo, dov’è finito? Era uno degli alunni che mi aveva dato di più: ricordo quando lo portai in una scuola di Gubbio a parlare delle sue avventure. Le ragazze che lo ascoltavano piangevano dall’emozione. Adesso sta in Australia, mi dice Jan. Addirittura! E Rauf? Ragazzo sensibile, fragile, insicuro, eppure con una straordinaria luce negli occhi. Anche lui ha preso dimora nella terra dei canguri. Ma cosa fa? Lavora nell’edilizia. E Alì? Si è sposato, oggi vive in Germania con la moglie e la figlia appena nata. Rezai? Lui è tornato a casa, ne ha viste di ogni colore, poi è ripartito senza timbrare il passaporto, come fanno gli uccellini. Destinazione l’orizzonte infinito. Altri abitano in nord Europa, oppure in Francia. Torno con la memoria a uno dei libri più intensi che ho letto su queste traversie, dal titolo emblematico: Io sono confine di Shahram Khosravi, esule iraniano fuggito dalla sua patria come obiettore di coscienza e, dopo incredibili peregrinazioni fra Pakistan e India, giunto in Svezia dove ha insegnato antropologia all’università di Stoccolma. Lo so: ci sono anche quelli finiti male, in una catena di errori e recriminazioni, da piccoli non erano nemmeno i peggiori, anzi tutt’altro, però sapere che i componenti di queste mie vecchie classi sono in giro per il pianeta, a imparare nuove lingue, dopo aver appreso la nostra, costruire famiglie, partecipare al bene comune, mi entusiasma. Mohamed Jan sa cosa intendo: ricordo quando in aula, aveva sedici anni, mi aiutò a dirimere un contrasto fisico fra due scolari, un afghano e un rumeno. Intervenne d’istinto bisbigliando alcune magiche parole nell’orecchio del connazionale il quale si placò subito. In quel momento compresi che avrebbe fatto strada, come infatti è accaduto: i suoi tre figli piccoli che sorridono insieme alla madre, turca, dallo schermo del cellulare, lo dimostrano come meglio non si potrebbe. L’idea di poter governare con qualche semplice provvedimento legislativo questa grandiosa osmosi di popoli è chiaramente anacronistica, se non dettata da meri calcoli di condominio nazionale. I confini esistono per essere superati: peraltro quelli che lo fanno si trascinano dietro anche chi resta. Ed è bello quindi per me sapere di poter girare la Terra attraverso gli occhi aperti e sgranati dei miei studenti, come se fossi stato il fantasma dei padri che persero, perché forse qualcosa di quello che ci dicemmo in aula una volta continua ancora a vivere nel loro sguardo. Il populismo giudiziario senza popolo di Massimiliano Panarari L’Espresso, 25 ottobre 2024 Le politiche migratorie sono ritornate al centro della battaglia politica. Al punto da non poter neppure escludere in via di principio che la ripresa così massiccia di questo tema da parte della maggioranza serva alla premier come “arma di distrazione di massa” rispetto alla ristrettezza di risorse - a fronte dei consueti centomila appetiti - dell’odierna finanziaria. Sui migranti la grancassa propagandistica delle destre populiste, come noto, “ci va a nozze”, innescando fra di esse una spirale competitiva. Matteo Salvini ha infatti deciso di dare fiato alle trombe e di rispolverare il tema in occasione dell’ultima udienza del processo Open Arms. Di qui, il sit-in della Lega davanti al tribunale di Palermo, fortissimamente voluto dal vicepremier affinché gli esponenti principali del suo partito testimoniassero la loro solidarietà rispetto alla “persecuzione giudiziaria” subita dal capo. Una protesta che si è risolta - e poi rapidamente sciolta - in una delegazione di ministri e parlamentari con scarso seguito di folla. Certo, la finalità di questa “Capitol Hill in sedicesimo” era eminentemente comunicativa, e serviva a lanciare il messaggio che il tema della “difesa dei confini” appartiene al “patriota” (in Italia ed Europa) Salvini assai più che a Giorgia Meloni - e, in secondo luogo, a mostrare plasticamente come tutto il gruppo dirigente leghista fosse coeso e stretto attorno al leader su questa issue (elettoralmente) decisiva. La sostanziale assenza dell’“uomo della strada” ha, però, restituito la fotografia di quello che si potrebbe chiamare un populismo con pochissimo popolo. Naturalmente, si rivela legittimo per la politica esprimere pareri dissonanti da quelli della magistratura; e noi viviamo in un Paese che “vanta” una lunga tradizione al riguardo, quella della “guerra dei Trent’anni” fra i due mondi. Ma la critica è cosa ben diversa dall’opera di delegittimazione, e l’escalation dei toni salviniani nelle scorse giornate non fa presagire nulla di buono, palesando un comportamento irricevibile, visto che arriva da una carica pubblica dotata di una responsabilità così significativa. Le parole sono importanti, e fanno la differenza; e l’impressione è che, accanto alle bordate provenienti da TeleMeloni, venga già scatenata contro i giudici una nuova “Bestia” leghista (il famigerato apparato propagandistico e di marketing politico online che, nel passato, si era reso protagonista della diffusione di fake news e della character assassination di vari avversari politici). Nella manifestazione di piazza palermitana in opposizione a un procedimento giudiziario comparivano anche dei ministri. Ovvero figure del potere esecutivo che si sono così poste direttamente contro degli esponenti dell’ordinamento giudiziario, dando vita a quello che si configura in tutto e per tutto come un conflitto fra poteri, i quali, nell’ambito del costituzionalismo liberaldemocratico devono rimanere rigorosamente separati e stare in una condizione di rispettoso equilibrio. Ma di liberale nella destra neopopulista non c’è appunto nulla. Soltanto populismo giudiziario a corrente alternata, scagliato nei confronti dei “nemici”, salvo invocare una specie di garantismo a senso unico quando viene direttamente investito qualche suo rappresentante. Il modello Albania e la paura degli altri di Gabriele Segre La Stampa, 25 ottobre 2024 È probabile che il viavai tra tribunali, decreti legge e navi militari tra le due sponde dell’Adriatico manterrà vivo ancora a lungo il dibattito sul “Modello Albania”. Una questione che inevitabilmente porta con sé dilemmi morali e quesiti giuridici, chiamando in causa la nostra stessa idea di ordine e giustizia. Si tratta di riflessioni che vanno oltre i migranti e che emergono ogni volta che ci confrontiamo con mondi e identità percepiti come estranei. Viene da chiedersi, allora, se non stiamo sbagliando approccio: forse non è di etica o di giurisprudenza che dobbiamo parlare, ma di come diamo forma alla nostra conoscenza e affrontiamo la sua inevitabile complessità. In questo senso, è comprensibile che la politica voglia dare voce alla diffidenza di quella parte crescente del proprio elettorato, spaventata all’idea di entrare in contatto sempre più stretto e diretto con l’”altro”. Un sentimento che trova nell’hotspot albanese di Schengjin la sua espressione più palese, per lo meno a livello geografico. Per molti, però, non si tratta di egoismo o di rigidità di pensiero, ma di una necessità concreta in un mondo sempre più affollato: “assaliti” ogni giorno da un flusso incessante di nuove idee, connessioni frenetiche e popoli in fuga, non c’è più spazio per comprendere e accogliere realtà così aliene, che finiscono per amplificare le già angoscianti incertezze quotidiane. È una repulsione che appare più fisica che morale: non sono le persone in sé a risultare intollerabili, ma le informazioni scomode che incarnano. Meglio dunque non vedere e, di conseguenza, non sapere, così da evitare che, insieme ai corpi, arrivino anche esperienze, storie e prospettive capaci di rendere la nostra esistenza ancor più drammatica e complicata. Eppure, confrontarsi con la complessità dell’altro può rivelarsi vitale. Diventa evidente in quelle situazioni estreme dove la convivenza tra comunità vicine ma nemiche rappresenta l’unica scelta possibile per evitare il suicidio reciproco. Quando l’altro smette di essere un’immagine indistinta dietro al filo spinato e diventa un volto, un nome e un’identità, imbracciare le armi e infliggergli il colpo diventa un atto ben più gravoso. Solo il fanatismo o la disperazione riescono ad annebbiare la nostra umanità, rendendo possibile questa tragica opzione. Ma la conoscenza è un vantaggio anche in contesti meno dolorosi, quando scegliamo di rifiutare narrazioni astratte e impersonali, solo perché più comode. Che si tratti di rappresentare lo straniero come usurpatore o come “risorsa demografica”, entrambe le visioni sono espressioni della stessa estrema semplificazione: un modo per ridurre queste persone a oggetto del nostro racconto, personaggi preconfezionati più facili da archiviare nella nostra mente sovraccarica. In questo contesto, il “buonismo” risulta persino più insidioso, poiché, nel tentativo di eliminare lo stigma del pregiudizio, rischia di ridurre la sfida a una esclusiva questione morale, evitando così di affrontare le complessità e le ambiguità proprie della realtà. Le implicazioni di questo atteggiamento non si limitano, tuttavia, alla sola relazione con l’altro: hanno ricadute profondamente personali. Ogni stereotipo monodimensionale nei riguardi del resto del mondo ci priva di una connessione essenziale per definire la nostra stessa identità. Affermare “noi non siamo come loro” non è sufficiente: nessuno si riconosce in ciò che non è. Per essere veramente consapevoli di queste differenze, serve però, in primo luogo, accoglierle. Usando una metafora cara ai difensori delle “identità nazionali”, avere più migranti non significa sostituire i tortelli con il couscous, ma capire il valore di entrambe le ricette. In un certo senso, si tratta di una necessità egoistica: senza gli stimoli del confronto, come possiamo pensare di evolvere? Tenere l’altro a distanza con i muri o con i mari, con le retoriche o con i legittimi timori, non ci separa solo da lui, ma dalla possibilità di comprendere meglio il mondo e il nostro ruolo in esso. In un pianeta che torna nuovamente a riempirsi di barriere, dazi e embarghi, limitarsi ad interagire solo con noi stessi non è la via migliore per tentare di salvarlo. In fondo, anche se non sempre con nobili intenti, ogni società prosperata sulla Terra ha visto arrivare e partire navi e carovane, mescolando culture, popoli e idee. Dirottarle su altri lidi per evitare di conoscere chi trasportano non significa liberare spazio per il pensiero, ma privarlo di immaginazione. Oltre la “ruspa” e il pregiudizio anti rom: superare i campi ora è possibile di Enrico Dalcastagné Il Domani, 25 ottobre 2024 Il report del Consiglio d’Europa accusa la polizia di “profilazione razziale”, mentre il ddl Sicurezza amplifica lo stigma verso rom e sinti. Da anni l’Italia è il “paese dei ghetti”, ma forse qualcosa sta cambiando dal basso. L’esempio virtuoso di Collegno, con la chiusura di un campo senza bisogno di sgomberi, e la doppia faccia della Lega a Ferrara: assiste i rom nelle case popolari ma resta ostaggio della vecchia retorica. Un discorso pubblico xenofobo, con toni “divisivi e antagonisti” su stranieri e persone Lgbtq+. Una polizia che profila razzialmente, soprattutto nei confronti dei rom e delle persone di origine africana. Sei nero, parli un’altra lingua o comunque sembri “strano”? Noi ti trattiamo con le maniere forti, consapevolmente o inconsapevolmente che sia. È una critica dura nei confronti dell’Italia quella emersa dal rapporto della Commissione razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa (Ecri). Un documento aggiornato ad aprile e che quindi non menziona il ddl Sicurezza, che rende facoltativo (anziché obbligatorio) il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con bambini piccoli. Aprendo le porte del carcere alle donne incinte o con figli sotto l’anno d’età. “Una disposizione pensata come norma anti rom, basata sul pregiudizio che le donne siano dedite al furto e scelgano la maternità per sottrarsi alla prigione”, ha notato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Come scrive la stessa Ecri, in Italia molti rom risiedono ancora “in insediamenti formali e non formali, spesso privi di servizi di base e situati nelle periferie”. Per molti anni, nel panorama europeo, il nostro è stato il “paese dei campi”, quello più impegnato nella gestione di ghetti etnici. Oltre la narrazione dei “rom delinquenti”, qualcosa però sta lentamente cambiando: tra fughe in avanti e qualche frenata, c’è un’Italia che dice addio alle strutture escludenti nate a partire dagli anni ‘80. E lo fa senza ruspe o sgomberi forzati. “Forse siamo a un punto di non ritorno, con l’ultimo campo che è stato inaugurato ad Afragola nel 2018 - dice Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio - In anni recenti, vari comuni hanno intrapreso percorsi di superamento degli insediamenti e quindi la via dell’integrazione”. Da Torino a Palermo, da Ferrara a Olbia, fino alla chiusura del campo di via Bonfadini a Milano, lo scorso luglio, con quattordici famiglie ora ospitate nelle case popolari transitorie. Tra scuola e lavoro - A metà settembre è stata chiusa senza l’intervento delle forze dell’ordine la baraccopoli di via Lombroso, nel quadrante nord-ovest della capitale. Per la prima volta nella storia di Roma, trentatré famiglie hanno lasciato il campo volontariamente e sono state ricollocate “grazie al comune e al terzo settore sulla base di un percorso di integrazione”, ha rivendicato il sindaco Roberto Gualtieri. Chi era in graduatoria ha ottenuto la casa popolare “senza passare davanti a nessuno”, gli altri hanno seguito tragitti personalizzati per avere una sistemazione. È un modello di accompagnamento delle famiglie che l’amministrazione vuole replicare in altri campi della città e che è la naturale conclusione di un percorso di coprogettazione annunciato un anno fa, recependo la Strategia nazionale di inclusione di rom e sinti. “Alla chiusura del campo si è arrivati con vari step. Si è fatta una fotografia puntuale di chi ci viveva e si sono regolarizzati i documenti perché tutti avessero un medico di base. Poi un’equipe si è occupata dell’accesso alle case popolari e ai contributi per l’affitto, mentre un’altra ha pensato all’inserimento lavorativo degli adulti. Bisogna far sì che i bambini frequentino la scuola e che gli adulti trovino la loro strada”, dice ancora Stasolla. Il modello Collegno - Tra gli esempi più virtuosi c’è quello di Collegno, centro di 50mila abitanti alle porte di Torino. Qui lo scorso marzo si è arrivati alla chiusura di un campo regolare dopo un processo di inclusione durato venticinque anni. Non c’è stato uno sgombero ma uno svuotamento condiviso promosso dal comune (con il supporto della prefettura) e finanziato con 500mila euro dal Pnrr e 250mila dal ministero delle Infrastrutture. Una buona gestione che è diventata caso di studio a livello nazionale e possibile modello da replicare. “Negli anni abbiamo supportato le famiglie perché trovassero una sistemazione, abbandonando le baracche e la vita emarginata - dice Francesco Casciano, ex sindaco di Collegno e responsabile Enti locali del Pd metropolitano - All’inizio i rom erano preoccupati all’idea di doversi trasferire, ma anche loro sapevano di vivere in un ambiente inadeguato e isolato da tutto, in cui i matrimoni tra consanguinei hanno portato a un alto tasso di bambini disabili”. Casciano vede però un rischio nel modo in cui si è realizzata la sistemazione delle famiglie: “Dalla regione ci aspettavamo maggior sostegno per distribuire i cittadini in varie zone della provincia. Così non è stato: chi aveva diritto a una casa popolare l’ha avuta nella nostra città, che è abbastanza piccola. Gran parte dei rom si sono ritrovati nello stesso quartiere. Il rischio è di riprodurre la logica del campo nelle aree popolari e che si formino nuovi ghetti, in appartamenti anziché in baracche”. La retorica della ruspa - “Con un preavviso di sei mesi, io annuncio la ruspa e poi spiano, rado al suolo tutti i campi rom”, diceva Matteo Salvini nell’aprile 2015. “Vi pare normale che ci sia una zingaraccia, in un campo abusivo vicino a Milano, per cui Salvini “deve avere un proiettile”? Arriva la ruspa, amica mia”, ripeteva nel 2019 dalla spiaggia del Papeete. Argomenti più volte ripresi da politici di destra, per cui “i nomadi devono nomadare” (copyright Giorgia Meloni). Fino al lapidario “Non ci mancherà” pronunciato pochi giorni fa dal capo della Lega, dopo l’uccisione di un africano che aveva aggredito dei poliziotti. Eppure sono lontani i giorni in cui Susanna Ceccardi, ex sindaca leghista di Cascina (in provincia di Pisa), saliva sulla ruspa per demolire il campo rom locale, offrendo 500 euro a chi lasciava le baracche. E, di fatto, lasciando i residenti in mezzo alla strada. Era il 2018. Negli ultimi anni si è diffusa l’idea - a sinistra più per ragioni umanitarie, a destra per ragioni securitarie - che realizzare nuovi campi sarebbe assurdo e che gli insediamenti vanno superati non cacciando chi ci vive, che ne costruirà un altro poco distante, ma aiutandolo a trovare casa e a cercare lavoro. “Gli amministratori locali hanno questa consapevolezza e, a volte, registriamo più buon senso nel centrodestra che nel centrosinistra”, aggiunge Stasolla. “Ma la sinistra dovrebbe avere più coraggio e recuperare un’azione radicale, non di facciata. Non si può ripetere che sono i rom a non voler andare nelle case e poi scandalizzarsi se ottengono una casa popolare o se ne occupano una vuota”, dice Dijana Pavlovi?, portavoce del movimento Kethane - rom e sinti per l’Italia. Se c’è un evento che ha segnato il cambio di passo è quanto accaduto a Ferrara durante il primo mandato del leghista Alan Fabbri. Il campo di via delle Bonifiche, occupato trent’anni fa da una comunità rom, fu oggetto di un’ordinanza di sgombero nel 2019. Le persone coinvolte furono trasferite in altre zone della città e alcune inserite nelle case popolari di proprietà dell’Acer (che gestisce l’edilizia residenziale pubblica), sfruttando il fatto che ogni comune può escludere dalle graduatorie una quota di case da affidare a soggetti vulnerabili. “A differenza di quanto succedeva in via delle Bonifiche, negli alloggi Acer le famiglie corrispondono un canone mensile. Senza corsie preferenziali e senza passare davanti a nessuno - precisa Nicola Lodi, assessore alla Sicurezza di Ferrara, che in consiglio comunale è detto “lo sceriffo” - Dopo cinque anni non abbiamo criticità, abbiamo reso autonome queste persone e i problemi di criminalità sono quasi azzerati”. Ciò non toglie che sia stato proprio Lodi, a campo chiuso e famiglie trasferite, a salire su una ruspa per abbattere i container. Uno show a favore di telecamere che gli è valso una denuncia per usurpazione di funzione pubblica e violazione della normativa di sicurezza, oltre che per gestione di rifiuti non autorizzata. “In tribunale è rimasto solo un piccolo filone per quanto riguarda i rifiuti, ma il comune ha fatto tutto a regola d’arte con un appalto per la bonifica ambientale”, assicura l’assessore. “Le casette erano libere e dentro non c’era nessuno. La scena della ruspa era simbolica, per far capire che non era aria a chi avesse voluto rioccupare”, conclude Lodi. Ancora di più, era un’azione dimostrativa per dare l’immagine di una giunta che tiene fede a una delle promesse della campagna elettorale. Perché si possono fare passi avanti e realizzare politiche concrete, oltre che più giuste, ma è difficile rivendicarle del tutto e dire addio alla propaganda del passato. Il report sul razzismo delle forze dell’ordine arriva alla vigilia della causa per Hasib Omerovic di Carlo Stasolla* Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2024 Il 22 ottobre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) ha pubblicato il suo periodico rapporto sull’Italia. I contenuti del testo - che riguardano, tra le altre cose, anche il razzismo e l’intolleranza da parte delle forze dell’ordine italiane - hanno suscitato l’immediata reazione, forte e colorita, da parte di esponenti politici e dello stesso primo ministro. Nel report dell’organismo del Consiglio d’Europa si legge come “la delegazione dell’ECRI è venuta a conoscenza di molte testimonianze sulla profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine in particolare verso la comunità rom e le persone di origine africana. Queste testimonianze di frequenti fermi e controlli basati sull’origine etnica sono confermate anche dai rapporti delle organizzazioni della società civile. Le autorità - denuncia l’ECRI - non raccolgono dati adeguatamente disaggregati sulle attività di fermo e di controllo della polizia, né sembrano essere consapevoli dell’entità del problema, e non considerano la profilazione razziale come una forma di potenziale razzismo istituzionale. La profilazione razziale ha effetti notevolmente negativi, in quanto genera un senso di umiliazione ed ingiustizia per i gruppi coinvolti provocando stigmatizzazione e alienazione”. Per questo, si conclude nel rapporto viene raccomandato “in via prioritaria, che le autorità commissionino prontamente uno studio completo e indipendente con l’obiettivo di individuare e affrontare qualsiasi pratica di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine che riguardi in particolare i rom e le persone di origine africana”. Immediata la risposta sui social della presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “L’Ecri, organo del Consiglio d’Europa, accusa le forze di polizia italiane di razzismo? Le nostre Forze dell’Ordine sono composte da uomini e donne che, ogni giorno, lavorano con dedizione e abnegazione per garantire la sicurezza di tutti i cittadini, senza distinzioni. Meritano rispetto, non simili ingiurie”. Anche la replica di Matteo Salvini non si è fatta attendere sui social: “Donne e uomini in divisa attaccati vergognosamente dall’Ecri, un ente INUTILE pagato anche con le tasse dei cittadini italiani. Come Lega proporremo di risparmiare questi soldi per destinarli alla Sanità anziché infangare le nostre forze dell’Ordine. Se a questi signori piacciono tanto Rom e clandestini, se li portino tutti a casa loro a Strasburgo”. Tempistica perfetta per ricordare, sommessamente, che Presso il Tribunale di Roma è fissata per il prossimo 25 ottobre, l’udienza preliminare per i tre poliziotti coinvolti nel caso di Hasib Omerovic, il 37enne di origine rom precipitato dalla finestra nell’estate 2022 durante un’attività degli agenti del commissariato Primavalle nella sua abitazione. A seguito dell’inchiesta, coordinata dal pubblico ministero Stefano Luciani, sono indagati l’allora assistente capo della polizia presso il distretto XIV di Primavalle, Andrea Pellegrini, insieme ai suoi due colleghi Alessandro Sicuranza e Maria Rosa Natale. Secondo l’accusa, il primo, durante l’attività di identificazione in casa di Omerovic “con il compimento di plurime e gravi condotte di violenza e minaccia, cagionava al 36enne un verificabile trauma psichico, in virtù del quale lo stesso precipitava nel vuoto dopo aver scavalcato il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente e minacciose in atto nei suoi confronti”. Pellegrini oltre che del reato di tortura, in concorso con i poliziotti Alessandro Sicuranza e Maria Rosa Natale, è accusato anche di falso aggravato. Nell’annotazione di servizio, infatti, i poliziotti avrebbero ricostruito, secondo l’accusa, in maniera inveritiera i motivi dell’intervento e, soprattutto, avrebbero omesso “di indicare tutte le condotte poste in essere da Pellegrini all’interno dell’appartamento”. Chi vuole veramente prendere posizione a tutela del ruolo delle forze dell’ordine non dovrebbe farne una difesa “a prescindere”. Gli atti di cui gli agenti del “caso Omerovic” sono indagati sono pericolosi tanto quanto la mancata presa di distanza dalle loro azioni, così come lo screditare le raccomandazioni di un ente indipendente come l’ECRI. Un simile propaganda politica è dannosa quanto la profilazione razziale riscontrata all’interno delle forze dell’ordine italiane. “È inoltre dannosa - e qui riprendo le parole dell’ECRI - per la sicurezza generale in quanto diminuisce la fiducia nella polizia e contribuisce a non denunciare reati”. *Portavoce Associazione 21 luglio Fino a 71mila euro l’anno per tenere un migrante nel Cpr, ma eseguito solo il 10% dei rimpatri di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2024 Il report di ActionAid. Uno straniero nel Centro per rimpatri di Macomer, in Sardegna, costa 52mila euro l’anno. A Brindisi si sale a 71mila (quasi 200 euro al giorno) perché in due anni il centro non ne ha mai ospitati più di 14. A Torino nel 2023 abbiamo speso 3 milioni, ma il Cpr ha aperto per meno di tre mesi. Va così in tutta Italia, senza eccezioni. Le cifre sono ufficiali, ottenute a fatica dal Viminale e inserite nel report “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” di ActionAid e del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari. Ad emergere è un fallimento che i governi ignorano ma i cittadini pagano. Il risultato? “Si rimpatria di meno, a costi più alti e in maniera sempre più coercitiva”, dice Giuseppe Campesi dell’ateneo barese, tra i massimi esperti in Italia di detenzione amministrativa e rimpatri. La detenzione amministrativa nei Cpr è ammessa solo in funzione del rimpatrio degli irregolari, la giurisprudenza è concorde. Nel 2023 sono stati emessi 28mila ordini di allontanamento di cui 4.267 eseguiti, ma solo 2.900 riguardano chi è passato da uno dei dieci centri attualmente operativi, un contributo che vale appena il 10%. Dei costi “esorbitanti” dei Cpr parlava lo stesso Viminale già nel 2013, tanto che si smise di incentivarli. Paradossalmente, l’anno seguente il loro tasso di rimpatrio toccò il 60%. Risultato mai più raggiunto, nemmeno dopo gli investimenti rilanciati dal 2017. L’anno scorso siamo scesi al 44%, mai così in basso ed è solo la media: il centro di Bari ha rimpatriato solo il 16% dei detenuti. E tuttavia si persevera. Anzi, sono stati allungati i termini di durata massima della detenzione: dai 30 giorni del 1998, nel 2023 si è arrivati a 18 mesi, senza per questo aumentare i rimpatri. Tanto paga pantalone. Il Cpr di Roma Ponte Galeria è costato quasi 6 milioni tra 2022 e 2023. A Macomer spendiamo più per garantire vitto e alloggio alle forze dell’ordine a presidio del centro che per gestirlo. Così a Palazzo San Gervasio, che ad agosto ha registrato l’ennesima morte in un sistema dove solo il 15% delle persone proviene dal carcere “e per lo più non verranno rimpatriate”, dicono i dati: tutte le informazioni sono ora disponibili in formato accessibile e aperto sulla piattaforma Trattenuti. E poi “confusione amministrativa, mala gestione e sistematica violazione dei diritti: aspetti strutturali del sistema”, denuncia il rapporto. Lo Stato delega la gestione a cooperative e soggetti for profit, anche una multinazionale. A Milano (foto) la gestione del Cpr di via Corelli è stata commissariata e l’Anac ha rilevato la carenza dei controlli della prefettura. Che a Gorizia “dice addirittura di non essere in possesso di dati contabili”, riferisce ActionAid, tra le organizzazioni che hanno impugnato davanti al Tar del Lazio le nuove regole d’appalto, “per le carenze nel tutelare la salute e per l’assenza di standard per la prevenzione di suicidi e autolesionismo”, sollecitando il tribunale amministrativo a sollevare anche una questione di legittimità costituzionale. Uno dei gestori già attivi in Italia ha vinto la gara per gestire il centro di Gjader in Albania, dove oltre a quello che il ministro Piantedosi chiama “trattenimento leggero” c’è anche un Cpr da 140 posti. Se i costi sono quelli di un hotel, le persone vivono invece “in condizioni peggiori del carcere”, ha sempre ripetuto l’ex garante dei detenuti Mauro Palma, che i Cpr li definiva “vuoti a perdere” e non solo perché funzionano da sempre a capacità ridotta, l’anno scorso con 1359 posti, metà della capienza ufficiale. “Lì le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate, anche per l’impiego inquietante di psicofarmaci”, diceva nel 2023. Costosi, inefficaci, inumani. Eppure continuiamo a volerli riempire, tanto da cambiare le leggi per metterci anche i richiedenti asilo. Dal 2018 la loro presenza è passata dal 15,4% al 33,9%. Protagonista del nuovo corso è la Sicilia, come il Fatto ha già raccontato in merito ai respingimenti differiti e alle procedure accelerate. Ma parliamo ancora di piccoli numeri e il meccanismo funziona per lo più con i tunisini, che nel 2024 costituiscono il 13% degli arrivi. Se l’efficacia non giustifica costi economici ed umani, qual è il senso? “La detenzione in sé: assimilare le persone a criminali”, ragiona Fabrizio Coresi, esperto di migrazione per ActionAid. “Coi richiedenti, poi, si erode un sistema di accoglienza che quando è pieno vale appena lo 0,18% della popolazione italiana”. Perché? “Se sono criminali ci sentiamo legittimati a considerarli invasori, concorrenti nella crisi economica, e questo ci disciplina perché ci distrae da altre questioni. Visti i risultati, possiamo dire che i Cpr non servono a rimpatriare loro, ma a controllare noi”. Perché il decreto sui “Paesi sicuri” rischia di paralizzare la giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 ottobre 2024 Il testo approvato dal governo reintroduce il ricorso in appello contro le decisioni in materia di immigrazione. Come risultato le Corti d’appello saranno inondate di migliaia di nuovi procedimenti: se ne stimano circa 160-180 mila all’anno. Pur di ottenere decisioni giudiziarie più restrittive nei confronti dei migranti che arrivano in Italia, il governo rischia di paralizzare la macchina della giustizia, vanificando i risultati positivi ottenuti fino a ora per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. A lanciare l’allarme sono i magistrati stessi, stavolta senza distinzione di “correnti”. Non una lamentela da “toghe rosse”, insomma. Il decreto legge approvato in fretta e furia lunedì dal governo per risolvere il caso Albania, infatti, non contiene soltanto l’elenco dei “paesi sicuri”, ma anche alcune norme che reintroducono la possibilità (eliminata nel 2017) di ricorrere contro le decisioni sul trattenimento dei migranti nei centri di permanenza per i rimpatri e quelle relative al riconoscimento del diritto d’asilo. Nella prospettiva del governo, la possibilità di far esprimere non un solo giudice, bensì un collegio d’appello composto da tre giudici, porterebbe a un maggior numero di sentenze sfavorevoli ai migranti, e dunque più in linea con gli obiettivi governativi. L’inserimento di queste norme era stato ipotizzato nelle ore precedenti al Consiglio dei ministri di lunedì, ma poi, come affermato in conferenza stampa dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, le disposizioni non erano state inserite nel testo del decreto approvato in Cdm. Testo che, però, è stato poi cambiato con l’introduzione proprio del ricorso in appello. Un piccolo giallo politico, anche se a preoccupare ora sono soprattutto le conseguenze di questa novità. Le norme, infatti, prevedono che il migrante o il Viminale possa fare ricorso contro la decisione in materia di immigrazione entro cinque giorni di fronte alla Corte d’appello, che “decide entro dieci giorni dalla presentazione del reclamo”. Un termine brevissimo, che costringerà le Corti d’appello a dare inevitabilmente priorità ai procedimenti sull’immigrazione, con seri dubbi sulle reali capacità di rispettare i tempi. Di sicuro, come risultato le Corti d’appello saranno inondate di migliaia di nuovi procedimenti (se ne stimano circa 160-180 mila all’anno), che poi è il motivo per il quale nel 2017 il ricorso in appello era stato eliminato. “Una norma folle, l’anno prossimo saremo praticamente costretti a lavorare soltanto sui procedimenti che riguardano l’immigrazione”, dice al Foglio un magistrato di Corte d’appello. Non si tratta di una testimonianza isolata. Tutt’altro. La reintroduzione del reclamo al giudice di secondo grado era già stata prevista, seppur in maniera meno organica, da un decreto approvato lo scorso 2 ottobre. La cosa aveva generato le preoccupazioni dei 26 presidenti delle Corti d’appello (da Milano a Roma fino a Reggio Calabria e Venezia). In una lettera indirizzata alla premier Meloni, al ministro della Giustizia Nordio, al ministro dell’Economia Giorgetti e al Csm, i vertici delle Corti avevano affermato che il ripristino dell’appello in materia di protezione internazionale dei migranti “renderebbe assolutamente ingestibili i settori civili di tutte le Corti d’appello, impegnate, con ridotti organici di magistrati e di personale amministrativo, nello sforzo di raggiungere gli obiettivi del Pnrr per la Giustizia, in particolare quello della riduzione dei tempi processuali”. Tempi che “con la introduzione della nuova fase processuale d’appello, si allungherebbero a dismisura proprio per le cause civili oggetto degli impegni verso l’Unione Europea”. Ora che con il nuovo decreto l’appello viene reintrodotto con termini ancora più stringenti, le preoccupazioni delle Corti sono destinate ad aumentare. Intanto è già intervenuta la corrente moderata di Magistratura indipendente, che di certo non può essere accusata di rappresentare le “toghe rosse”: “L’inevitabile aumento del carico di lavoro delle Corti d’appello rischia di vanificare l’immane sforzo che i giudici di secondo grado stanno profondendo per la eliminazione dei procedimenti arretrati, in linea con gli impegni presi con l’Europa per l’attuazione del Pnrr”, afferma Mi in una nota, auspicando pertanto “un ripensamento di tale scelta”. Il “decreto Albania” e la sospensione del diritto di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 25 ottobre 2024 La procedura messa in piedi per deportare i migranti potrebbe configurare la violazione del divieto di respingimenti collettivi. Sotto gli occhi di Unhcr e Oim. Possiamo adesso leggere il decreto legge 158/2024 con il quale il governo tenta di fare fronte alle ordinanze dei giudici di Roma che non hanno convalidato il trattenimento di 12 richiedenti asilo provenienti da paesi di origine definiti come “sicuri”. Trasferiti poi nei centri di detenzione in Albania, dopo essere stati soccorsi da navi militari italiane nelle acque internazionali a sud di Lampedusa. Una operazione di polizia marittima, sotto gli occhi dell’Unhcr e dell’Oim, a bordo di nave Libra, che potrebbe configurare, al di là del paese di provenienza delle persone sbarcate a Shengijn dopo essere state a bordo di navi della Marina militare, dunque in territorio italiano, la violazione del divieto di respingimenti collettivi affermato, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati (articolo 33), dalla Cedu (che nel “caso Hirsi” ha condannato l’Italia, per la violazione di questo divieto) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articolo 19). E Meloni ha annunciato di voler ripetere i trasferimenti in Albania. Questo ennesimo decreto legge stabilisce che l’elenco dei Paesi di origine “sicuri”, finora contenuto in decreti interministeriali, vada aggiornato periodicamente con una legge e quindi notificato alla Commissione europea. Ma anche con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento i giudici resteranno soggetti alla normativa dell’Unione europea e potranno disapplicare il diritto interno in contrasto con disposizioni cogenti contenute in Regolamenti ed in Decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione. Per quanto riguarda le procedure accelerate in frontiera il governo ha preferito puntare sul ruolo attribuito alle Commissioni territoriali, ed in particolare a quella di Roma, la stessa che appena pochi giorni fa è stata dislocata in Albania per processare in poche ore le richieste di protezione, e adottare provvedimenti di diniego che contengono un’attestazione che impone l’allontanamento dal territorio, prima che possa intervenire la convalida, o più spesso la non convalida, del trattenimento da parte delle Sezioni specializzate del Tribunale competente. Con la possibilità - che si è già verificata in Sicilia - che il questore adotti un provvedimento di respingimento differito prima che la persona possa formalizzare la sua intenzione, già dichiarata, di richiedere asilo. L’articolo 2 del nuovo decreto prevede ulteriori modifiche al decreto legislativo 25/2008, come modificato da ultimo dal decreto Cutro (legge numero 50/2023). Si prevede che le nuove disposizioni sui ricorsi in appello si applicano “decorsi trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge 11 ottobre 2024 numero 145”. Si innesca in questo modo una serie di rinvii, perché il termine di inizio dell’efficacia della norma che prevede un nuovo grado di giudizio con il ricorso in appello (che il ministero dell’Interno intende riservarsi per ribaltare le decisioni sgradite dei tribunali) si riporta alla data di conversione di un altro decreto legge, che però si trova ancora in Parlamento. In ogni caso di mancata convalida del trattenimento da parte del Tribunale di Roma il richiedente asilo trattenuto nei centri albanesi dovrà comunque essere condotto in Italia, venendo meno, nella pendenza del ricorso del governo in Cassazione e malgrado il ricorso in appello dell’avvocatura dello Stato, il titolo giuridico di limitazione della libertà personale richiesto dall’articolo 5 della Cedu, oltre che dall’articolo 13 della Costituzione. E intanto gli apparati giudiziari potrebbero implodere sotto una mole crescente di ricorsi. I Centri di detenzione in Albania resteranno ancora vuoti, o funzioneranno a scopo propagandistico, con qualche decina di richiedenti asilo in stato di detenzione, la maggior parte dei quali al termine della procedura accelerata finirà per essere ritrasferita in Italia. Per non incorrere in una procedura di infrazione si dovrà comunque riconoscere il primato del diritto dell’Unione europea, anche in base al richiamo degli articoli 10 e 117 della Costituzione e dunque il potere/dovere di cooperazione istruttoria affidato ai giudici, sul rispetto delle regole sulle procedure accelerate in frontiera, anche in assenza di una allegazione di fatti specifici da parte del richiedente asilo. Ammesso che gli venga riconosciuto l’esercizio effettivo dei diritti di difesa, senza spazi fisici o temporali di sospensione del diritto. Il decreto Paesi sicuri tra farsa e imprecisioni imbarazzanti di Vitalba Azzollini Il Domani, 25 ottobre 2024 Il decreto-legge sui Paesi sicuri avrebbe dovuto risolvere ogni problema riguardante l’Albania, ma in realtà non risolve niente. Nella conferenza stampa con cui il decreto è stato spiegato sono state dette una serie di imprecisioni imbarazzanti. Il decreto-legge che aggiorna l’elenco dei Paesi di origine sicuri può essere letto attraverso la spiegazione che ne hanno dato in conferenza stampa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, nella serata del 21 ottobre. E siccome in tale conferenza stampa sono state dette diverse imprecisioni, è il caso di fornire qualche chiarimento. La sicurezza “generale e uniforme” - Carlo Nordio è partito dalla considerazione che i giudici di Roma non abbiano compreso la sentenza con cui, il 4 ottobre scorso, la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha fornito un’interpretazione vincolante della definizione di paesi sicuri contenuta nella cosiddetta direttiva Procedure (32/2013). Secondo il ministro, i giudici europei si sono limitati ad affermare che la “sicurezza” dev’essere presente su tutto il territorio, motivo per cui il nuovo decreto-legge del governo ha eliminato dalla lista dei paesi sicuri tre stati che presentavano zone di pericolo. Nordio sostiene che la Corte Ue - a differenza di quanto hanno capito i giudici di Roma - non avrebbe detto che tale sicurezza deve riguardare ogni categoria di persone, salvo un esame specifico caso per caso. Sorge il dubbio che a non aver compreso bene la sentenza forse sia proprio il ministro. Non è vero, infatti, che i giudici Ue si siano limitati a valutare la sicurezza di un paese solo nella sua dimensione territoriale. La Corte, infatti, andando oltre il caso di specie (Moldavia/Transnistria), ha fornito una lettura complessiva della normativa europea: l’espressione “in modo generale e uniforme”, contenuta nella direttiva con riferimento a “un Paese”, e non solo a sue parti, richiede che la sicurezza sussista per ogni categoria di persone e su tutta la superficie del paese stesso. Nordio lamenta pure che il tribunale di Roma non abbia fatto una valutazione specifica e circostanziata della situazione dei migranti. Valutazione che, a detta del ministro, sarebbe richiesta dalla Corte Ue nei punti 84 e seguenti della sentenza. Ma quei punti riguardano i giudici che esaminano il ricorso contro il diniego di asilo, non quelli che decidono sulla convalida del trattenimento del migrante. Peraltro, questi ultimi devono pronunciarsi entro quarantott’ore, e un esame accurato della situazione individuale del migrante sarebbe impossibile da fare in due giorni. La sentenza come norma - Durante la conferenza stampa, Alfredo Mantovano ha detto che la sentenza della Corte Ue non è una norma, ma l’interpretazione di una norma. Vero, ma è un’interpretazione cogente al pari di una norma. La Corte europea, investita di una questione pregiudiziale, fornisce l’interpretazione autentica della disposizione sottoposta al suo giudizio, e tale interpretazione è vincolante per tutti i giudici di ogni stato membro dell’Ue. Di conseguenza, le statuizioni della Corte di giustizia hanno valore pari a quello delle norme dell’Unione cui si riferiscono, con buona pace di Mantovano. La pseudo blindatura dei paesi sicuri - Nordio ha detto che il nuovo decreto-legge non potrebbe essere disapplicato dai tribunali, essendo una fonte primaria, e non più secondaria, come il precedente decreto interministeriale: il giudice, “se lo ritiene incostituzionale, può fare ricorso alla Consulta”. Insomma, il decreto-legge avrebbe blindato la lista dei paesi sicuri. Anche questa affermazione non è corretta. I tribunali, infatti, potranno disapplicare il nuovo decreto-legge esattamente come hanno disapplicato il decreto interministeriale, in quanto contrastante con la normativa europea interpretata dalla Corte Ue. Il principio della prevalenza del diritto dell’Unione rispetto a quello nazionale vale rispetto a qualunque fonte. I giudici potranno eventualmente ricorrere alla Corte costituzionale, ma non sono obbligati a farlo, a differenza di quanto dice Nordio. Peraltro, anche ove la Consulta fosse chiamata a pronunciarsi, difficilmente contraddirebbe la sentenza della Corte Ue. E così pure la Corte di Cassazione, alla quale qualche mese fa i giudici di Roma hanno presentato un ricorso pregiudiziale interpretativo circa la vincolatività della lista dei paesi sicuri allegata al decreto interministeriale. È verosimile che la Cassazione, la cui decisione è attesa per il 4 dicembre, non si discosterà dalla pronuncia dei giudici europei, che è vincolante, e anzi potrebbe richiamarla come decisiva della questione. Insomma, il decreto-legge che avrebbe dovuto risolvere da ogni problema in realtà non risolve niente. E la farsa, normativa e non, riguardante l’Albania va avanti. Una campagna di libertà contro le armi improprie di Luigi Manconi, Marica Fantauzzi, Chiara Tamburello Il Manifesto, 25 ottobre 2024 È consapevole Majidi di come lei, Marjan Jamali e altre centinaia di persone detenute in Italia e in Europa rappresentino l’ideale capro espiatorio di una lotta dei governi contro le organizzazioni criminali responsabili del cosiddetto “reato di scafismo”. Caro manifesto, nell’importante intervista rilasciata a Silvio Messinetti e Claudio Dionesalvi pubblicata ieri su questo giornale, Maysoon Majidi prende parola. E lo fa, per la prima volta, da persona libera. Come sappiamo, la liberazione definitiva dipenderà da come andranno le cose il 27 novembre, data prevista per la sentenza di primo grado. Tra i passaggi interessanti dell’intervista, c’è la risposta di Majidi alla domanda su cosa pensi della “caccia” allo scafista. “Non capisco il significato di questa parola. C’è una differenza enorme - dice - tra chi porta una barca per disperazione e chi traffica esseri umani”. È consapevole Majidi di come lei, Marjan Jamali e altre centinaia di persone detenute in Italia e in Europa rappresentino l’ideale capro espiatorio di una lotta dei governi contro le organizzazioni criminali responsabili del cosiddetto “reato di scafismo”. L’origine della parola “scafismo” spiega in parte la violenza con cui quel reato viene attribuito. Nell’antichità lo scafismo era una pratica di tortura, tra le più brutali che la storia abbia conosciuto. La tecnica consisteva nel rinchiudere la vittima in una sorta di bara stretta tra due imbarcazioni della stessa dimensione. Da cui emergevano solamente la testa, le due braccia e le due gambe, parzialmente sommerse ed esposte al sole. E ricoperte di latte e miele, così che diventasse cibo per gli insetti e gli uccelli. Si tratta di una forma di pena di morte dell’antica Persia, come si evince dal racconto che ne fa Plutarco narrando il lungo supplizio cui venne sottoposto Mitridate. Nella storia della tortura la crudeltà è stata sempre giustificata da un interesse superiore: la sicurezza dello Stato, l’ortodossia religiosa, la lotta al crimine. E anche oggi il cosiddetto “reato di scafismo”, corrispondente nella fattispecie penale al “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”, sembra essere utilizzato in maniera arbitraria per colpire chi viola i confini e chi entra in un paese diverso dal suo privo dei necessari documenti. In sintesi, equivale a un’arma politica e giuridica per difendere l’integrità dello Stato. Eppure, a volte capita che le crepe di questa accusa infamante si allarghino talmente da far crollare la struttura sulla quale è costruita. Alla luce delle dichiarazioni fatte da alcuni testimoni durante l’udienza del 22 ottobre, sono venuti meno gli indizi di colpevolezza a carico di Majidi. In sostanza, l’attivista era sulla barca come lo erano le altre persone migranti. Quasi un anno di detenzione basato interamente su una suggestione, se non un’auto manipolazione da parte degli inquirenti. In un altro passaggio dell’intervista Majidi dice: “Mi ha aiutato a resistere sapere che fuori c’erano ragazze e ragazzi della mia età (28 anni), ma anche persone più anziane, disposte a battersi per me. E sono stata felice di ricevere il loro abbraccio quando mi hanno liberata”. È un punto fondamentale: ci ricorda quanto i piccoli gesti di migliaia di persone, l’attenzione pubblica e la sollecitudine nei confronti delle vittime possano essere il fattore decisivo di una efficace campagna di libertà; e, per converso, quanto tutto ciò ancora manchi nei confronti di coloro - come si è detto centinaia - che vivono la medesima condizione di Majidi e Jamali e, per la nostra impotenza o per la nostra pigrizia non trovano conforto e soccorso. Così l’Onu è finito ai margini di Paolo Valentino Corriere della Sera, 25 ottobre 2024 Serve una riforma per l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Senza cambiamenti rischia di essere inefficace. Il diplomatico svedese Dag Hammarskjöld, che fu segretario generale dell’Onu dal 1953 al 1961, diceva che “le Nazioni Unite non sono state create per portarci in paradiso, ma per salvarci dall’inferno”. Se il metro di valutazione fosse la guerra nucleare, potremmo dire missione compiuta: l’abbiamo evitata. In realtà, la paralisi di fatto dell’Onu, impotente di fronte ai conflitti geopolitici e alle crisi umanitarie che incendiano il pianeta, minacciando la pace e la sicurezza globale, ci porta in direzione opposta: l’inferno, compreso uno scontro atomico, si è drammaticamente avvicinato. Ieri erano 79 anni dall’entrata in vigore della Carta di San Francisco, lo statuto dell’organizzazione adottato nella città californiana nel 1945. Sarà stata solo una coincidenza dettata dall’agenda, ma il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, la giornata dell’anniversario l’ha trascorsa a Kazan, al vertice dei Brics, accolto da Vladimir Putin, il presidente russo che ha ordinato l’invasione di un Paese sovrano, l’Ucraina, in aperta violazione dei principi di cui le Nazione Unite sono garanti e custodi. Di più, Putin è oggetto di un mandato di arresto della Corte penale internazionale, anch’essa parte del sistema onusiano. Questo non vuol dire che Guterres possa o debba snobbare, tantomeno ignorare un’organizzazione come i Brics, di cui sono parte due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Cina e Russia) e che mette insieme quasi la metà della popolazione mondiale. Maa andare in Tatarstan, certificando in tal modo il successo propagandistico del capo del Cremlino, sapendo già che non avrebbe portato a casa nulla (una frase, un rigo appena) segnala quantomeno totale assenza di sensibilità politica. Certo, sulla crisi ucraina sono stati i ripetuti veti, opposti da Cina e Russia in Consiglio di sicurezza, a vulcanizzare l’Onu e a minarne la residua credibilità. Ma Guterres non ha mai saputo gettare il cuore oltre l’ostacolo, a parte ripetere un po’ ambiguamente come ha fatto ieri che “c’è bisogno di una pace giusta”. Anche su Gaza, il segretario generale è apparso inadeguato. Sicuramente qui sono stati soprattutto i veti americani a bloccare le risoluzioni che chiedevano un cessate il fuoco umanitario nella striscia con la fine degli indiscriminati bombardamenti israeliani, anche se almeno una volta Cina e Russia hanno posto il veto a un testo degli Stati Uniti che, oltre a chiedere la tregua, condannava anche gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Ma Guterres è sempre apparso incerto, reticente, inopportuno a cominciare da quando, subito dopo il massacro di Hamas, dichiarò che “non era accaduto in un vuoto”. Perché non c’è dubbio, come dice l’ex premier svedese Karl Bildt, “che la minaccia materializzatasi il 7 ottobre abbia le sue radici nell’occupazione decennale dei territori palestinesi da parte di Israele”. Ma in quel momento contava soprattutto la solidarietà con il popolo ebraico, vittima di un’aggressione terroristica e barbara. Guterres non l’ha colto, perdendo ogni terzietà e attirandosi la dichiarazione di “persona non grata” dagli israeliani. Sbaglieremmo però a fare del segretario generale, pure senza qualità come quello attuale, il capro espiatorio della paralisi e dell’inettitudine dell’Onu. Che, occorre ricordarlo, continua a fare un grande lavoro con il sistema delle sue agenzie, per tutte l’Unhcr guidata da un italiano, Filippo Grandi, che assiste e protegge i rifugiati in tutto il mondo in condizioni rischiose e ingrate. È l’Onu che affronta grandi sfide come i cambiamenti climatici, grazie alla Cop, la convenzione quadro il cui ventinovesimo appuntamento si apre nei prossimi giorni. O ancora la lotta all’Aids o la battaglia per gli Sdg, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Il problema è strutturale: le Nazioni Unite non rappresentano più il mondo. Nate alla fine della Seconda guerra mondiale sono rimaste congelate, prigioniere di un Consiglio di sicurezza anacronistico, dove i cinque membri permanenti abusano del diritto di veto in difesa dei loro interessi o di quelli dei loro amici. Al suo interno si è creata una faglia insanabile tra i due Paesi autoritari, Russia e Cina, da un lato, e le democrazie, Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dall’altro. Ma nessuno è innocente. Lo stesso Guterres, in una intervista a Gideon Rachman, ammette che il Consiglio di sicurezza “ha un problema di legittimità”, che poi ne crea uno di efficacia. Di fatto, nella sua configurazione attuale l’organo esecutivo non è riuscito a fermare i conflitti, facendo prevalere la pace, fosse in Ucraina, a Gaza o in Sudan, una crisi dimenticata che dal 2023 ha causato 40 mila morti e provocato oltre 10 milioni di sfollati. Senza una riforma, che lo apra a una più equilibrata rappresentanza dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, il Consiglio di sicurezza è destinato a rimanere paralizzato, condannando l’Onu a una ulteriore marginalizzazione e all’insignificanza. Col risultato che non solo non ci porterà in paradiso, ma non potrà neppure evitarci l’inferno.