Peggio dei decreti Salvini di Marco Boato L’Unità, 24 ottobre 2024 Abolire il diritto di protesta di lavoratori, ambientalisti, carcerati, anche se esercitato senza violenza, come pura forma di resistenza. Che cos’è questo se non un assalto alla Costituzione? Il 18 settembre 2024 alla Camera dei deputati la maggioranza di destra del governo Meloni ha approvato il disegno di legge sulla sicurezza, che poi è passato all’esame del Senato. Si tratta di un gravissimo provvedimento legislativo, che si colloca, ma ancor più aggrava, sulla linea dei “decreti sicurezza” dell’allora ministro dell’Interno Salvini e poi dei decreti “rave”, “Cutro” e “Caivano” dell’attuale Governo. Dal divieto di protesta per i carcerati, anche se esercitato con una resistenza passiva, al carcere stesso per mamme e bambini rom, l’Italia sprofonda in una spirale autoritaria che sembra imporre lo Stato di Polizia contro qualunque forma di dissenso cone neppure ai tempi del codice Rocco. “Una vergogna - per dirla con le parole dei sindacalisti della Cgil - che introduce norme pensate e volute per colpire in maniera indiscriminata chi esprime il proprio dissenso verso le scelte compiute dal governo o che manifesta per difendere il posto di lavoro e contro le crisi occupazionali, pacificamente ma in modo determinato, prevedendo fino a due anni di carcere per chi effettua queste proteste nelle strade o in altri luoghi pubblici”. Il governo ha deciso voler gestire numerose questioni sociali nella maniera più illiberale possibile, cioè reprimendole con l’utilizzo del sistema penale. Il 18 settembre 2024 alla Camera dei deputati la maggioranza di destra del governo Meloni ha approvato il disegno di legge sulla sicurezza, che poi è passato all’esame del Senato della Repubblica, dove è stato preceduto già da una forte manifestazione di protesta da parte di forze sindacali e politiche e da molti esponenti della società civile. Norme “anti-Gandhi” - Si tratta di un gravissimo provvedimento legislativo, che si colloca, ma ancor più aggrava, sulla linea dei “decreti sicurezza” dell’allora ministro dell’Interno Salvini e poi dei decreti “rave”, “Cutro” e “Caivano” dell’attuale Governo. Non solo i partiti politici di opposizione e i principali sindacati, l’Arci, l’Anpi e la Caritas, ma anche molti osservatori giornalistici (tra questi Roberto Saviano, il quotidiano cattolico Avvenire ed altri), giuristi e magistrati (in particolare Magistratura Democratica, ma non solo) hanno gettato l’allarme su misure finalizzate quasi esclusivamente alla repressione del dissenso, dei movimenti di contestazione in specie ambientalisti ed ecologisti, anche delle manifestazioni improntate alla nonviolenza e alla resistenza passiva, persino nelle carceri o nei Cpr, al punto che alcune delle norme sono state emblematicamente stigmatizzate come “anti-Gandhi”. Il portavoce italiano di Amnesty International, Riccardo Noury, ha definito questo provvedimento “un modello di ‘cattivismo’ che intacca profondamente, tra gli altri, il diritto di protesta pacifica inasprendo criminalizzazioni o introducendone di nuove”. In generale, ha osservato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “il ddl sicurezza contiene un attacco al diritto di protesta come mai accaduto nella storia repubblicana, portando all’introduzione di una serie di nuovi reati con pene draconiane, anche laddove le proteste siano pacifiche”. Secondo Gonnella, “così si colpiranno persone detenute che in carcere protestano contro il sovraffollamento delle proprie celle, gli attivisti che protestano per sensibilizzare sul cambiamento climatico, gli studenti che chiederanno condizioni più dignitose per i propri istituti scolastici, lavoratori che protestano contro il proprio licenziamento”. Inoltre, secondo il presidente di Antigone, “se consideriamo anche il carcere per le donne incinte e le madri con figli neonati o per chi occupa un’abitazione, si vede come il governo abbia deciso di voler gestire numerose questioni sociali nella maniera più illiberale possibile, cioè reprimendole con l’utilizzo del sistema penale, anziché aprirsi al dialogo e all’ascolto”. Perciò, è il suo appello, “chiediamo alle forze politiche di opposizione e anche a quelle moderate della maggioranza di non assecondare questi propositi e di fermare il disegno di legge nella discussione al Senato”. Sanzioni contro la “resistenza passiva” - Secondo i sindacalisti della Cgil, la parte più inquietante del disegno di legge è quella che contiene le sanzioni sulla cosiddetta “resistenza passiva”: “Una vergogna che introduce norme pensate e volute per colpire in maniera indiscriminata chi esprime il proprio dissenso verso le scelte compiute dal governo o che manifesta per difendere il posto di lavoro e contro le crisi occupazionali, pacificamente ma in modo determinato, prevedendo fino a due anni di carcere per chi effettua queste proteste nelle strade o in altri luoghi pubblici”. Per la Cgil, “il principio che anima questo provvedimento è lo stesso del decreto Caivano, del decreto rave, della legge 50 impropriamente chiamata decreto Cutro”, ossia con proposte che “vanno verso un inasprimento delle pene e la codificazione di nuovi reati che peraltro riducono gli spazi di dissenso e protesta, come i reati contro le manifestazioni o le occupazioni di immobili, arrivando a peggiorare il codice Rocco, con la non obbligatorietà del differimento della pena per le donne incinte e le madri di bambini fino a un anno di età. Norme con cui si danno risposte penali a problemi che sono soprattutto sociali e che non aumentano la sicurezza dei cittadini”. Un emendamento del governo ha equiparato inoltre le infiorescenze della canapa industriale alla droga, imponendo il divieto di importazione, vendita e distribuzione. Questa norma ha incontrato forti critiche dagli operatori del settore, preoccupati per le grandi ripercussioni economiche e occupazionali. Ordinamento penitenziario: alimentare la tensione - Per quanto riguarda le norme sull’ordinamento penitenziario, secondo la presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Ornano, si rischia “di alimentare la tensione già oggi molto forte nella popolazione detenuta”, per via di nuovi reati come quello di “rivolta all’interno degli istituti penitenziari”, che punisce chi promuove, organizza e dirige una rivolta all’interno del carcere, ma comprende “nella condotta di reato non solo il partecipare alla rivolta col ricorso alla violenza, ma anche con la resistenza, precisando ulteriormente che quest’ultima è integrata anche dalla mera resistenza passiva; previsione, quest’ultima, che appare di dubbia legittimità costituzionale”. Altro nodo è quello riguardante la norma “anti-borseggiatrici Rom”, come alcuni media l’hanno definita. Secondo la giudice Ornano, “si ritiene di far prevalere una presunta esigenza di sicurezza sulla salute e il benessere di individui innocenti, come i nascituri e i figli in tenerissima età di madri detenute, le quali (e con loro i bambini), con le nuove norme potrebbero venire incarcerate anche prescindere dalla reale pericolosità”. Magistratura Democratica: problemi sociali affrontati con la leva penale - Secondo Magistratura democratica, “colpisce la tendenza a introdurre nuove incriminazioni e a introdurre inasprimenti sanzionatori. E preoccupa, in secondo luogo, la costruzione di nuove fattispecie penali (o l’introduzione di aggravanti) che perseguono l’obiettivo di sanzionare in modo deteriore gli autori di reato che hanno commesso fatti nel corso di manifestazioni pubbliche o di iniziative di protesta”. In generale, argomentano i magistrati di Md, nel testo è contenuta “una ‘visione’ dei rapporti tra autorità e consociati fortemente orientata al versante dell’autorità, che coltiva l’ambizione di risolvere - con l’inasprimento di pene, l’introduzione di nuovi reati, l’ampliamento dei poteri degli apparati di pubblica sicurezza - problemi sociali che probabilmente potrebbero trovare più efficaci risposte senza usare per forza la leva penale”. Misure da “Stato di polizia” - Scettico sulle prospettive ipotizzate è pure Antonello Ciervo, docente di diritto pubblico, che appunta le proprie critiche su diverse misure, che definisce da “Stato di polizia”. Ad esempio, spiega, quella che “prevede l’arresto in differita anche per le manifestazioni pubbliche”. In pratica, osserva, “ti vengono a prendere a casa dopo aver visto il video della manifestazione; se alla polizia è sfuggito qualcosa, ex post ti arrestano per comportamenti che a questo punto anche discrezionalmente valuteranno come reato”. Oppure, aggiunge il professor Ciervo, rispetto all’aggravio di pena previsto “se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, il fatto che io commetta violenza o minacci un pubblico ufficiale in una manifestazione il cui obiettivo è la protesta contro un’opera pubblica è illogico”. A suo parere, “non c’è nessun nesso di conseguenzialità tra l’aggravamento di pena e il fatto che io protesti in un corteo per la liberazione della Palestina o perché sono contrario al Ponte sullo Stretto di Messina. Perché dovrebbe aumentarsi la pena in questo secondo caso? Cosa faccio di più grave rispetto a una ‘normale’ manifestazione?”. Secondo il docente universitario, “è chiaro l’intento di criminalizzare le proteste ambientaliste”. Un’altra previsione che fa discutere è quella che vieta ai gestori telefonici di vendere una scheda Sim con numero di cellulare a stranieri non provenienti da Paesi europei che siano sprovvisti di permesso di soggiorno valido. “Non crediamo che la misura possa avere un reale effetto di deterrenza - secondo Oliviero Forti, responsabile Immigrazione della Caritas italiana -. Rischia invece di essere una norma discriminatoria che va ad ostacolare il diritto di comunicare con i propri familiari nei paesi di origine e al contempo potrebbe alimentare il mercato nero delle Sim, con inevitabili conseguenze in termini di sicurezza”. Una stretta repressiva: allarme per la democrazia - Secondo il prof. Roberto Cornelli, audito alla Camera dei deputati, “i dati Istat oggi disponibili dicono che l’insicurezza derivante dalla percezione della criminalità nel proprio quartiere di vita è in netta diminuzione negli ultimi 5 anni e, negli anni precedenti, ha avuto degli innalzamenti, poi rientrati, proprio in corrispondenza dell’approvazione di decreti sicurezza o in presenza di campagne mediatiche particolarmente pressanti. L’ipotesi, già validata in altri Paesi, è che le leggi sulla sicurezza non intervengano per rispondere a una domanda di sicurezza che viene dal basso, ma al contrario che alimentino campagne politico-mediatiche finalizzate, a volte, a ottenere visibilità o legittimazione politica, altre volte, a irrigidire il quadro delle libertà e delle garanzie democratiche”. E ha aggiunto. “Non sembri un riferimento eccessivo: ogni torsione autoritaria è accompagnata o anticipata da strette repressive presentate come necessarie per garantire la sicurezza.” E ha concluso: “Il problema è semmai capire quando la stretta repressiva sia da considerarsi un effettivo segnale di allarme per la democrazia”. Corte costituzionale e Presidente della Repubblica - Sebbene non sia stato ancora licenziato il testo definitivo, che è ora all’esame del Senato, è possibile immaginare i margini di intervento della Corte costituzionale. In particolare, la Consulta ha più volte sottolineato che le scelte di politica criminale rientrano nella discrezionalità del legislatore, ma ciò non significa che la materia penale sia uno spazio franco, sottratto al sindacato di legittimità costituzionale. La stessa Corte costituzionale, infatti, ha chiarito che, salvo l’ambito di scelta discrezionale rimessa al legislatore, è sempre possibile valutare la compatibilità delle norme incriminatrici con l’assetto di princìpi e diritti consacrati all’interno della Carta costituzionale. E, prima ancora che talune norme del ddl sicurezza approdino eventualmente, una volta approvate definitivamente, al giudizio della Corte costituzionale, è lecito immaginarsi che lo stesso Presidente della Repubblica si astenga dalla promulgazione di un simile obbrobrio giuridico e possa rinviare il testo al Parlamento per un suo radicale riesame, sulla base delle sue prerogative costituzionali. Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria giustiziainsieme.it, 24 ottobre 2024 Il Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana del Professori di diritto penale con il documento che pubblichiamo ha espresso forti preoccupazioni in relazione al disegno di legge n. 1236 (Senato) “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. L’Organismo Congressuale Forense (OCF) con il comunicato stampa che pubblichiamo, formula critiche di analogo tenore. Carlo Morace, responsabile del Gruppo Penale dell’OCF, afferma: “Con questo ddl Sicurezza, il Governo sta promuovendo un diritto penale autoritario, che colpisce le fasce più deboli della società: senzatetto, immigrati, detenuti e persino chi manifesta dissenso. Queste modifiche non affrontano i veri problemi, come il sovraffollamento carcerario o i suicidi tra i detenuti, ma rafforzano un sistema repressivo fondato sul carcere come strumento di controllo sociale.” L’allarme dei professori di diritto penale è destato dall’ampliamento delle fattispecie penali e dall’aggravamento delle pene secondo un procedere panpenalistico che confligge con i principi di proporzionalità della repressione e necessaria sussidiarietà della tutela penale. Si tratta peraltro di un processo di penalizzazione in palese contrasto con la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio. Contesto di “penalizzazione” nel rientra l’introduzione del reato universale di maternità surrogata. L’obiettivo dell’intervento normativo in itinere - come si legge nel documento - è simbolico-comunicativo: nessuno dei nuovi crimini è idoneo ad assicurare una maggiore tutela della sicurezza individuale e collettiva. All’allarme dei professori aggiungiamo che il fenomeno della “penalizzazione” è in contrasto con il principio della certezza della pena, e ciò in quanto all’aumento dei reati non corrisponde un adeguato aumento delle risorse necessarie a celebrare i processi. Il disegno di legge prosegue il percorso iniziato con l’introduzione dell’art. 633 bis c.p. reato di rave-party (introdotto con il dl n. 162/22) con l’effetto dell’espansione del c.d. diritto penale d’autore. Gli autori da punire sono i dissenzienti e gli emarginati. L’aumento delle pene edittali poi, questo è bene chiarirlo, non è affatto idoneo a determinare una maggiore deterrenza dei precetti in ottica general-preventiva. L’attenzione del legislatore panpenalista è puntata verso settori di emarginazione: gli emarginati minacciati di punizione o punizione più grave; tutta qui la promessa di un Italia più sicura. Non è nelle corde del governo tentare di rimuovere, attraverso strumenti adeguati, le situazioni di grave diseguaglianza sociale che generano le condotte criminalizzate e più duramente quali l’occupazione di immobili e il ricorso all’elemosina. In contesti economici di estremo disagio sociale la risposta è dunque quella dello strumento penale in funzione repressiva; è in quest’ottica che si inaspriscono le pene per l’accattonaggio, senza alcuna riflessione in ordine alla circostanza che la mendicità sia fonte di sostentamento, in mancanza di interventi di sostegno dello Stato. È allarmante, secondo quanto messo in luce dagli accademici, la criminalizzazione delle manifestazioni di dissenso: il blocco stradale da illecito amministrativo, nella prospettiva del disegno di legge, diviene illecito penale. Sono proposte aggravanti ai delitti di violenza e resistenza a pubblico ufficiale in ragione della finalità della contestazione in relazione alle quali sono realizzate, ovvero quando i fatti sono connessi al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o un’infrastruttura strategica. Il deturpamento e l’imbrattamento di cose mobili altrui è aggravato in ragione della finalità di contestazione e di dissenso. Eppure come è scritto nel documento “in un contesto democratico, il dissenso può talvolta esprimersi attraverso condotte violente che integrano fattispecie di reato e in quanto tali vanno represse: contrasta, invece, con i principii del diritti penale del fatto e di offensività la repressione più severa di reati solo perché alla base hanno una motivazione di contestazione politica”. Un giudizio fortemente critico è espresso infine per le nuove fattispecie di rivolta, rispettivamente negli istituti penitenziari e nei centri di permanenza e di rimpatrio per immigranti irregolari, che puniscono chi all’interno di tali contesti “partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti commessi da più o tre persone riunite”. Particolarmente allarmante è l’attribuzione di rilevanza penale alla resistenza passiva che determina l’incriminazione di ogni atto di ribellione non connotato da violenza o minaccia - quali ad esempio il rifiuto del cibo o dell’ora d’aria - ma che impedisce il compimento di atti d’ufficio di gestione dell’ordine e della sicurezza. “Il giudizio negativo si aggrava quanto più si considera la situazione emergenziale di sovraffollamento nei centri per migranti e nelle carceri che la legge 8 agosto 2024, numero 112 di conversione del decreto legge numero 92. 2024 su “Misure urgenti in materia penitenziaria” non ha fatto contribuito ad allentare”. S’inventano reati invece di occuparsi dei nostri bisogni di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2024 Dal decreto Cutro al decreto Albania passando per la Gpa reato universale (ma gli esempi non finiscono qui) il governo ci tiene a ribadire che, nonostante l’ossessione securitaria e panpenalista, non riesce a scrivere leggi che stiano in piedi. Parlamentari, ministri e commentatori di corte ci vogliono far intendere che la gestazione per altri oggi è più reato di ieri, che è un reato più reato, più efficace, più vigoroso, più resistente! Naturalmente non è così. Alla legge 40 che regola la procreazione assistita e che già vietava la gestazione per altri, ora si aggiunge quello che i fratelli e le sorelle d’Italia chiamano “reato universale” (giuridicamente, una boiata pazzesca). Ma come è stato ampiamente notato, non può essere universale un reato che non è tale in 66 paesi del mondo su 193. In realtà con quell’”universale” intendono dire che d’ora in poi la legge starà alle calcagna dei cittadini italiani che violano il divieto di ricorrere alla gpa anche fuori dai confini. Se la legge li intercetta, una volta rientrati in patria, possono essere incriminati e rischiano da tre mesi a due anni di carcere e una multa da 600 mila a 1 milione di euro. E se la legge non li intercetta la ministra Roccella ha trovato il rimedio, incitando i medici a dimenticare Ippocrate e a denunciare i genitori di bimbi in odore di provenire da uteri sospetti. Diciamo che hanno una visione del mondo al cui confronto la Ddr era uno paradiso. Naturalmente questo reato universale non toccherà i vari Elon Musk, padre di più figli nati con la gpa, che possono dormire sonni tranquilli: continueranno a essere ricevuti con tutti gli onori dalla presidente del Consiglio senza tema di incriminazioni o discriminazioni. Ma non è della doppia morale di chi sta al governo che vogliamo parlare oggi. La gestazione per altri è una frontiera complessa che pone moltissimi interrogativi - il principale dei quali è se avere figli sia o no un diritto - ed è un peccato che il Parlamento abbia sprecato la possibilità di confrontarsi in un modo utile. Il governo ha scelto di criminalizzare i genitori, sperando nell’effetto deterrenza. Il che può anche essere legittimo, ma è miope. Fino a quando non è intervenuta la Consulta, con una sentenza scritta dal professor Zagrebelsky nel 2002, i figli nati da incesto erano figli di nessuno. Averli equiparati agli altri ha sdoganato la pratica dell’incesto? Ovviamente no. I bambini nati da gpa in Grecia, Stati Uniti, Russia, Ucraina (Paesi in cui la pratica è permessa, dove in maniera gratuita, dove retribuita) esistono già e i diritti dei bambini - hanno scritto le Sezioni Unite della Cassazione - “non possono mai, neanche in caso di gestazione per altri, ritenersi affievoliti”. Invece le vite e i diritti dei bimbi sono in balia del buon cuore dei sindaci che trascrivono i loro atti di nascita o delle zelanti iniziative di alcuni magistrati che, come è capitato lo scorso anno a Padova, impugnano le suddette trascrizioni sui registri comunali revocando di fatto la potestà di uno dei genitori. Sindaci e magistrati agiscono da supplenti perché la politica ha deciso di intervenire solo vietando e punendo le condotte illecite. Ma qui si parla della vita di bambini che non possono essere meno garantiti di altri. Aprire davvero il capitolo della gestazione per altri, con tutte le implicazioni sociali e morali che si porta dietro, sarebbe stato troppo faticoso per la politica che bada solo ai sondaggi e sa ormai esprimersi solo con slogan (come è accaduto nella non memorabile discussione sulla gpa). Così facendo però il Parlamento non fa che ribadire il proprio essere ormai quasi completamente superfluo. Perché le toghe devono disturbare chi governa di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 24 ottobre 2024 “Non disturbate il manovratore” si leggeva sui vecchi tram. Nelle aule di giustizia sta scritto “La legge è uguale per tutti”, che ha come presupposto la indipendenza della magistratura da “ogni altro potere” (art. 104 Cost.). I giudici hanno non il diritto, ma il dovere, se del caso, di “disturbare il manovratore”, interpretando le norme e anche sollevando eccezioni costituzionalità, magari su leggi sulle quali la maggioranza parlamentare ha molto investito politicamente o addirittura approvate bipartisan. Sono i principi fondamentali delle democrazie liberali, sempre peraltro a rischio ove vi sia un irrigidimento autoritario come avvenuto in Paesi “sovranisti” pur membri dell’Unione europea. Questi fondamentali sembrano dimenticati nelle reazioni, anche da parte di esponenti politici e di governo, ai provvedimenti del Tribunale di Roma che non hanno convalidato il trasferimento e il trattenimento di 12 migranti nel centro in Albania. La gestione dei flussi migratori verso l’Europa è un problema complesso ed è allo studio un nuovo regolamento dell’Ue che però è previsto entri in vigore solo nel 2026; l’Italia potrebbe adoperarsi per anticipare i tempi. Nel frattempo i giudici competenti non sono tenuti a “gestire i flussi” secondo i desideri del governo in carica, ma ad applicare le norme vigenti. Sono sei i decreti emessi da sei diversi giudici della sezione specializzata del Tribunale di Roma; non una singola “sentenza abnorme”, come impropriamente dichiarato dal ministro Nordio, dal quale almeno sarebbe lecito aspettarsi un minimo di precisione giuridica. Hanno deciso su 12 casi (su dodici persone) facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Ue, ribadita in una recentissima sentenza e applicando le cosiddette “schede-Paese” emanate dal nostro ministero degli Esteri. Hanno sbagliato nella interpretazione? Il governo può fare ricorso per Cassazione, non senza dimenticare che in recenti casi analoghi l’Avvocatura dello Stato si è vista costretta a rinunciare a impugnazioni troppo azzardate. I commentatori possono criticare queste, come tutte le decisioni dei giudici, giudici perché qui non si tratta di pubblici ministeri, la cui presenza non è prevista in queste procedure. Al ministro Nordio fa eco il sottosegretario alla Giustizia Delmastro: “Le toghe rosse non ci fermano”, come titola La Stampa di ieri e una volta tanto il titolo non è per nulla enfatico: ci ricorda “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, il film di Sydney Lumet del 1957. Non avanzo nemmeno la proposta di abbassare i toni, perché destinata a cadere nel vuoto, ma mi ostino a chiedere di confrontarsi con i fatti. Decisioni nella stessa linea di quelle dei sei giudici, ripeto sei e non un solo, del Tribunale di Roma sono state adottate da altri giudici di diversi tribunali italiani. Toghe rosse, ma se la decisione fosse stata di segno opposto avremmo dovuto parlare di toghe nero-verdi-azzurre? Ogni decisione della magistratura può essere criticata, ma con argomenti e non con invettive. Le donne e gli uomini che formano la magistratura italiana sono un campione della popolazione italiana ed è ragionevole ritenere che nelle ultime elezioni si siano divisi più o meno a metà tra sostegno ai partiti della attuale maggioranza e a quelli dell’opposizione. Poi nell’esercizio della loro funzione fanno i giudici e applicano la legge. Si è arrivati a dire che dopo Mani pulite, dunque da oltre trent’anni, la questione sarebbe quella “della magistratura politicizzata e delle toghe rosse”. Ma in questi decenni si sono succeduti diversi governi e spesso le toghe hanno “disturbato manovratori” di diverso colore. Iniziative giudiziarie che hanno avuto esiti diversi e possono essere analizzate e criticate singolarmente. Le invettive fanno male non ai magistrati, ma alla democrazia. Si dice che la credibilità della magistratura è in caduta libera: a forza di ripeterlo oggi dovrebbe essere sottozero. A fine settembre è stato pubblicato un sondaggio condotto dall’istituto Eumetra da quale emerge che se il 54% critica la magistratura, il 42% esprime fiducia; una minoranza, ma molto consistente tanto più se raffrontata al livello di fiducia espresso sui partiti (19%) e sul Parlamento (32%). Un paragone che spazza via affrettate valutazioni sulla nostra magistratura, ma che non consola, anzi preoccupa per lo scarso livello di fiducia verso altre istituzioni fondamentali della democrazia. E infine non sono solo magistrati a esprimere preoccupazione per la proposta di riforma costituzionale del governo, che non è solo separazione delle carriere, ma riscrittura di tutto il sistema costituzionale di garanzia della indipendenza della magistratura, quello preclude all’esecutivo di ordinare al pm prima e poi ai giudici di adeguarsi “al mandato ricevuto dai cittadini”. Fino a ieri si paventava il rischio che, nonostante tutte le rassicurazioni dei proponenti, si potesse in futuro mettere a rischio l’indipendenza dei pm; le vicende di questi giorni ci mostrano che potrebbe essere in pericolo anche l’indipendenza dei giudici. Siamo per fortuna molto lontani dall’Ungheria, ma sarebbe meglio essere prudenti prima di sconvolgere delicati equilibri costituzionali. Carriere separate, sprint del centrodestra dopo la lite con le toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 24 ottobre 2024 In un momento di forte tensione tra politica e magistratura, il centrodestra preme l’acceleratore sulla separazione delle carriere. È scaduto infatti ieri, in Commissione Affari costituzionali, il termine per la presentazione degli emendamenti, ma i partiti di maggioranza hanno deciso di non depositare nessuna correzione (fatta eccezione per qualcuna del Carroccio su diversa materia di cui si dirà alla fine dell’articolo) al disegno di legge costituzionale del governo che modifica anche l’elezione dei membri del Csm e prevede l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare. L’obiettivo è velocizzare quanto più l’iter di approvazione, in linea con i desiderata della premier che, dopo la decisione del Tribunale Civile di Roma sui migranti in Albania, aveva chiesto ai suoi maggiore speditezza, persino rispetto al premierato. Forza Italia e Fratelli d’Italia valuteranno l’opportunità di lievi aggiustamenti in corso d’opera, tramite o emendamento del relatore o dell’Esecutivo. Per questo si aprirà un tavolo del centrodestra, nella consapevolezza che ogni modifica costituzionale deve essere ponderata adeguatamente. Gli azzurri però provano intanto ad alzare il tiro, ipotizzando tre modifiche ancora più spinose nei confronti della magistratura: sorteggio solo per i togati del Csm e non per i membri laici, come al contrario previsto dal ddl Nordio per mitigare lo scontro con le toghe, due concorsi separati per l’accesso alle funzioni, istituzione di un nuovo organo di appello contro le decisioni dell’Alta Corte. Per l’esponente di FI Nazario Pagano, presidente della I Commissione e tra i tre relatori del provvedimento, questa è “una riforma necessaria per migliorare il funzionamento della giustizia in Italia. Essa rappresenta un cambiamento cruciale per garantire un sistema giudiziario più efficiente e trasparente, rafforzando l’indipendenza delle funzioni giudicanti e requirenti. Continueremo a lavorare affinché questa trasformazione venga completata al più presto, a beneficio di una giustizia più moderna e al servizio del Paese”. Per quanto riguarda i prossimi step spiega che ora si procederà “con l’esame delle inammissibilità e successivamente ci sarà spazio per eventuali ricorsi, per poi affrontare la discussione e la votazione. Se tutto procederà come previsto, la calendarizzazione potrebbe essere fissata entro fine novembre, consentendo alla Camera di votare entro l’inizio di dicembre”. Le opposizioni invece hanno presentato circa 250 emendamenti, di cui 170 del Partito democratico, tutti soppressivi dei diversi articoli e delle singole parti. “Non c’è una volontà di migliorare il funzionamento della giustizia nel nostro Paese ma unicamente di violentare la Costituzione, sacrificando il bene irrinunciabile dell’autonomia e indipendenza della magistratura”, hanno dichiarato i capigruppo del Pd nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, Simona Bonafè e Federico Gianassi. Il Pd ha presentato, quindi, anche un emendamento per sopprimere la creazione dell’Alta Corte disciplinare, perché com’è stata concepita dal governo è completamente diversa da quella elaborata in precedenza da Luciano Violante e Anna Rossomando. Italia viva ha presentato due emendamenti tra cui uno sempre soppressivo dell’Alta Corte, prevedendo invece “che ciascun Csm possa esprimersi sulle promozioni (anziché sulle valutazioni professionali) e sui provvedimenti disciplinari”. Cinquantadue quelli depositati da Alleanza Verdi e Sinistra: “Intendiamo svolgere un’opposizione ferma e totale contro un testo che smonta e indebolisce il nostro sistema giudiziario”, ha detto il capogruppo in Commissione, Filiberto Zaratti. Il M5S ne ha presentati 29, nessuno da Azione. Per Francesco Michelotti, relatore di Fratelli d’Italia, “l’abnorme presentazione di emendamenti da parte della sinistra la dice lunga sulla mancanza di volontà di dialogo costruttivo per realizzare una riforma importante ed attesa da anni da parte dei cittadini. È una riforma di cui si parla da tanto, troppo tempo; non solo dalle Camere penali che ne hanno fatto una giusta battaglia, ma anche dai cittadini attinti dal mondo della giustizia che invocano una riforma in questo senso. La sinistra mira - ha proseguito il deputato - invece allo status quo, all’intoccabilità anche dei magistrati che sbagliano. Anche le vicende di questi giorni, il clima politico che promana in alcune chat e in alcuni convegni culturali/ politici, rafforzano la necessità di spingere verso un sistema che ponga chiaramente la magistratura giudicante in posizione formalmente e sostanzialmente terza fra le parti e un sistema di autogoverno della magistratura che sia il più lontano possibile da logiche correntizie e di vicinanze partitiche”. Da segnalare, come anticipato all’inizio, che la Lega ha presentato “alcuni emendamenti aggiuntivi” che prevedono “che le norme italiane prevalgono rispetto a quelle europee”, come riferito dal capogruppo in Commissione Affari costituzionali Igor Iezzi. Il parlamentare della Lega ha convenuto sul fatto che l’emendamento è estraneo ai contenuti del ddl: “È difficile trovare un ddl che faccia da “treno” adatto a cui agganciare questa proposta. Tuttavia il ddl è di riforma costituzionale e si adatta per porre il tema”. Questa modifica chiaramente è una risposta alle polemiche sull’Albania. Al Carroccio evidentemente non basta l’approvazione del cosiddetto “dl Paesi sicuri”: intende imprimere nella Carta costituzionale la prevalenza della legislazione interna su quella sovranazionale, a differenza di quanto previsto dall’articolo 117 della Costituzione. Per Piero De Luca, capogruppo Pd in commissione politiche Ue alla Camera, l’unico modo affinché ciò avvenga “è uscire fuori dalla Ue: l’Italexit. A questo punto chiediamo alla premier Meloni se nelle intenzioni del governo c’è l’Italexit. Credo che i cittadini dovrebbero saperlo visto che si mette in discussione il loro futuro. Se così non fosse, metta freno a queste azioni deliranti che mettono in crisi la credibilità internazionale del Paese”, ha concluso il parlamentare. Antimafia: la patata bollente delle intercettazioni e l’intervista di Scarpinato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2024 Se fossero vere le ulteriori indiscrezioni pubblicate da La Verità sulle intercettazioni tra il senatore Roberto Scarpinato e il suo ex collega Gioacchino Natoli, ora indagato per favoreggiamento della mafia, i primi ad essere imbarazzati sarebbero i commissari del Partito democratico. In particolare Walter Verini che in commissione Antimafia ha sostenuto in maniera compulsiva Scarpinato. In sostanza, quest’ultimo, parlando con Natoli su come riempire di carte Chiara Colosimo con le solite tesi e soprattutto su come far porre le domande giuste durante le audizioni, avrebbe affermato che il suo collega del Pd non ne è capace, vista la scarsissima conoscenza del tema, così come gli altri commissari grillini. Se avesse affermato ciò, per la prima volta in assoluto non si può non essere d’accordo con l’ex procuratore. Resta il fatto che emergerebbe ancora di più, non solo il già palese “conflitto di interesse”, ma anche la perplessità sulle risposte date durante l’intervista rilasciata in prima serata a Massimo Giletti al programma ‘ Lo Stato delle Cose’ su Raitre. Ma le intercettazioni, ribadiamolo, non sono pubbliche, sono inutilizzabili e forse la procura di Caltanissetta, per non lasciare questa patata bollente alla presidente Colosimo, dovrebbe mettere a tacere le critiche che indirettamente riceve, chiarendo perché ha delegato alla politica la vicenda Scarpinato. Sì, è sicuramente un problema politico: ma le intercettazioni si possono utilizzare per sollevare il caso? E se sì, in che modo, visto che anche i commissari hanno l’ordine di mantenere il segreto sul contenuto? Una vicenda ingarbugliata che deve dipanarsi, onde evitare delegittimazioni visti i fili ad alta tensione che la procura guidata da Salvatore De Luca ha con coraggio toccato. Ma una cosa va ribadita: fin dalla nascita all’inizio degli anni 60, l’Antimafia collabora con le procure e compie indagini in tal senso. Entriamo, ora, nel merito dell’intervista a “Lo Stato delle Cose”. Soprassedendo sulla risposta rabbiosa del senatore, che ha tuonato che mai e poi mai ha archiviato il procedimento mafia- appalti (in questo caso sono le carte a parlare), è interessante sottolineare come si sia scaldato quando Giletti, meritoriamente, gli ha mostrato l’ultimo fascicolo che Borsellino ha preso dall’archivio della Procura il giorno prima di morire. Non pista nera, non Gladio, non le non meglio definite “entità”, nulla di tutto ciò di cui il senatore grillino avrebbe voluto che la Commissione si occupasse, scambiandola forse per un prolungamento delle sue attività giudiziarie. Parliamo del fascicolo sull’omicidio di Luigi Ranieri, imprenditore ucciso per essersi opposto al condizionamento mafioso degli appalti. Vicenda anche citata nel dossier mafia- appalti redatto dai Ros. “Cosa c’entra mafia-appalti, nemmeno risulta tra le carte sequestrate!” ha tuonato Scarpinato. Si è innervosito quando Giletti gli ha fatto notare quali erano le azioni investigative di Borsellino. Eppure parliamo dei fatti, non di teorie astratte e suggestioni, seppur intriganti per il pubblico fin troppo ammaestrato. Come detto, l’omicidio Ranieri rientra anche nel dossier, così come tutte le altre carte sequestrate dall’ufficio di Borsellino, a partire dall’imprenditore Aurelio Pino fino a tutti gli altri fascicoli di indagine (procura di Agrigento che il giudice coordinava) collegati a mafia- appalti. In quelle indagini ciso le imprese e taluni personaggi comuni che, molto probabilmente, sarebbero dovuti confluire nel procedimento principale in corso di cui però non era titolare. Borsellino stava facendo un lavoro colossale, e forse è arrivata l’ora di renderlo pubblico, così come i suoi appunti che curiosamente vengono tuttora snobbati. Perché? Che non ci fosse il dossier tra le carte sequestrate è una bella domanda. Abbiamo la certezza documentale che Borsellino ne ha ricevuto copia fin da subito, quando era a Marsala, per collegarlo all’indagine che stava svolgendo. Carte marsalesi che poi ha inviato, tramite Antonio Ingroia, alla procura di Palermo. Che cosa ci hanno fatto? La questione la sollevò lo stesso Borsellino nella famosa riunione del 14 luglio 1992. Quella riunione che, secondo l’articolo pubblicato da La Verità, avrebbe proprio a che fare con la chiacchierata intercettata tra Scarpinato e Natoli. Come se non bastasse, fa notare il saggista Vincenzo Ceruso, autore dell’ultimo libro sulla strage (L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio), Borsellino ebbe il dossier anche a Palermo, come emerge dalla testimonianza del collega Vittorio Aliquò. Durante uno degli innumerevoli processi sulla Strage di Via D’Amelio, a precisa domanda risponde: “Certo che lo aveva. Tutti lo avevamo, era stato fotocopiato e distribuito a tutti nella riunione della Dda”. Che il dossier non ci fosse tra le carte sequestrate è un altro mistero. In questo caso nessuna sparizione, bastava spostarlo altrove visto che era in mano a tutti i titolari. L’apoteosi dell’intervista con Giletti si è raggiunta quando Scarpinato ha esclamato: “Ogni volta che abbiamo provato a fare quelle indagini siamo entrati nell’occhio del ciclone: alcuni di noi hanno subito procedimenti disciplinari, altri sono stati buttati fuori dall’antimafia, altri ancora non hanno fatto carriera”. Il riferimento sono le indagini sull’eversione nera, Gladio ecc. Ma è vero? Di solito ci pensa Pagella Politica a smentire, visto che è un ottimo sito dedicato al fact- checking delle dichiarazioni dei politici. Ma qualche dato possiamo offrirlo noi. Partiamo dallo stesso Scarpinato: diventato Procuratore generale, per decenni è stato onnipresente - senza contraddittorio - in tutti i Tg nazionali, convegni e trasmissioni in prima serata come Report o Atlantide. Ora è anche senatore, grazie alla candidatura blindata offerta da Giuseppe Conte del M5S, ed è membro della commissione Antimafia parlamentare. C’è poi Nino Di Matteo, sostituto procuratore, il quale è stato nella Dna ed è diventato membro togato del Csm. Anche se, e questo va evidenziato, non si è occupato soltanto delle ‘ entità’. Anzi, quando non lo ha fatto, ha raggiunto ottimi risultati se pensiamo all’omicidio di Rocco Chinnici, facendo finalmente condannare i mafiosi. Nella lista c’è anche Roberto Tartaglia, all’epoca giovane Pm nel processo sulla trattativa Stato- mafia e, caso unico, promosso a vice capo del Dap, ruolo che solitamente richiede lunga esperienza. L’unico a non aver fatto carriera è stato Antonio Ingroia, al quale va dato il merito di aver reso giustizia all’omicidio mafioso di Mauro Rostagno. Però ha fatto tutto da solo: si è dimesso per candidarsi in politica, ma non ha avuto fortuna. Vediamo ora chi invece è stato davvero ostracizzato, emarginato o ucciso. Chiunque abbia toccato il tema mafia- appalti ha avuto ripercussioni. Felice Lima, sanzionato dal Csm per la sua indagine a Catania e la gestione del pentito Li Pera, da Pm antimafia finì a fare il giudice civile per molti anni. Augusto Lama di Massa Carrara, ora a tutti noto per il caso Natoli, indagò insieme al suo braccio destro il maresciallo Franco Angeloni sui legami tra i mafiosi Buscemi e la Ferruzzi Gardini nel settore delle cave, finendo poi a fare il giudice del lavoro. Alberto Di Pisa aveva messo il naso nella gestione degli appalti di Pizzo Sella (dove emersero collegamenti tra Buscemi e la Ferruzzi Gardini) e nelle attività dell’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Fu ingiustamente accusato di essere l’autore della lettera del “Corvo”, sospeso per anni, processato e assolto. Per Falcone e Borsellino - come recitano tutte le sentenze - ha pesato il loro interessamento per dossier mafia- appalti. Le indagini sui collegamenti tra mafia e grandi imprese, infatti, avevano allertato Cosa Nostra e scatenato una reazione violentissima. E questo è solo l’aspetto che riguarda i magistrati. C’è poi la scia di persecuzioni giudiziarie contro i Carabinieri vicini a Borsellino e le morti di Guazzelli, Russo, Lombardo, Dalla Chiesa - che indagava sugli appalti dei Costanzo - fino al giornalista Mario Francese, il quale anticipò di anni parti del dossier indagando sulle collusioni mafiose negli appalti delle dighe. Senza dimenticare le altre vittime eccellenti. Per ora, può bastare. Bari. Suicidio in carcere, si muove la Procura di Nicolò Delvecchio Corriere del Mezzogiorno, 24 ottobre 2024 Gravina, autopsia su Lacarpìa accusato del delitto della moglie. Prima l’autopsia, poi i funerali. Che potrebbero però non essere l’ultimo atto della vicenda che ha coinvolto Giuseppe Lacarpia. Sul suicidio del 65enne di Gravina, avvenuto martedì nel carcere di Bari in cui era recluso per l’omicidio della moglie, Maria Arcangela Turturo, si muove infatti la Procura di Bari per capire se ci sono aspetti ancora da approfondire. Da capire, infatti, se a contribuire al suo decesso ci siano state altre persone o se ci sono state omissioni, nonostante per Lacarpia non fosse prevista la sorveglianza a vista. Domani, intanto, la Procura di Bari conferirà l’incarico per l’autopsia al dottor Biagio Solarino dell’istituto di Medicina Legale del Policlinico. Solo dopo si potranno svolgere i funerali ai quali potrebbero non partecipare i figli. L’uomo, che già in passato aveva provato a togliersi la vita, è morto nella sua cella dopo aver legato un’estremità del lenzuolo al suo collo e l’altra alle sbarre del suo letto. Il fatto è avvenuto alle 2 di notte, in cella c’erano altri sette detenuti che hanno lanciato l’allarme, ma all’arrivo degli agenti di polizia penitenziaria non c’era più nulla da fare. Oristano. Morte di Stefano Dal Corso, dall’autopsia segni “compatibili con lo strangolamento” di Enrico Tata fanpage.it, 24 ottobre 2024 Sono stati presentati in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati alcuni elementi emersi dall’autopsia sul corpo di Stefano Dal Corso, morto in carcere a Oristano nel 2022. Sono due le principali novità che arrivano dai risultati degli esami sul cadavere: sono emerse tracce di dna diverso da quello di Stefano e, in secondo luogo, ci sono segni compatibili tanto con l’impiccagione che con lo strangolamento. Il 12 ottobre 2022 Stefano Dal Corso viene trovato morto all’interno della sua cella con un lenzuolo stretto al collo. La famiglia, tuttavia, non ha mai creduto alla tesi del suicidio e ha chiesto di poter effettuare un’autopsia. Una richiesta accordata dai giudici dopo ben otto istanze presentate dai legali. Nel corso della conferenza stampa che si è tenuta alla Camera l’avvocata Armida Decina ha spiegato che l’esame autoptico si è rivelato estremamente complicato, perché il corpo, “pur ben conservato, era chiaramente ormai in uno stato di putrefazione e di deterioramento”. Il primo elemento riscontrato è legata alla causa del decesso: “È sbagliato affermare che Stefano sia morto a causa della rottura dell’osso del collo, poiché l’osso del collo era integro”, ha spiegato Decina. L’autopsia, inoltre, permette di rilevare elementi compatibili tanto con l’impiccamento atipico quanto con lo strangolamento. Gli elementi che permetterebbero di accertare se si tratta di strangolamento è l’analisi dei polmoni, “ma a distanza di tutto questo tempo i polmoni erano putrefatti e quindi non è stato possibile analizzarli”. Un altro risultato dell’autopsia è legato alla presenza di altri dna: “L’esame ha individuato la presenza sul lenzuolo di tracce ematiche e di dna diverso da quello di Stefano. Gli esperti parlano di altro o di altri dna. A seguito di questo nuovo elemento ho chiesto alla procura di predisporre la comparazione tra il dna rinvenuto con quello delle persone che effettivamente il 12 ottobre avevano preso contatto con il lenzuolo trovato intorno alla gola di Stefano. A questa istanza ancora non ho trovato riscontro”. Verona. Perché il poliziotto ha sparato con la pistola e non ha usato il taser di Angiola Petronio Corriere di Verona, 24 ottobre 2024 Cos’è lo “storditore elettrico” e le regole per il suo utilizzo: “Non è in dotazione a tutti gli agenti, ma solo a quelli che hanno fatto la formazione. Mulinano, le domande sulla morte di Moussa Diarra. E aleggiano, di pari passo con le ipotesi. Ma ce n’è una che prevarica sulle altre. E che da domenica mattina sussurra come una nenia. “Perché per fermarlo non è stato usato il taser?” recita il refrain. Già, il taser. Quella “pistola elettrica” detta anche “storditore elettrico”, che molti vedono come una panacea. Alternativa “non letale” alle armi da fuoco tradizionali. Ma pur sempre un’arma. Con tanto di “inquadramento” legislativo come “arma propria”. Tanto che per impiegarlo serve un’apposita licenza. Elementi che, alla luce di quanto accaduto domenica in stazione, non sono per nulla secondari. Già, perché quell’”apposita licenza” per le forze dell’ordine si traduce in uno specifico percorso formativo, analogo a quello per l’uso delle pistole. Tutti gli agenti e gli operatori delle forze dell’ordine possono usare il taser? “Il taser non è in dotazione a tutti gli agenti, ma solo a quelli che hanno fatto la formazione”, spiega Davide Battisti, segretario provinciale del Siulp, il sindacato italianounitario dei lavoratori della polizia. “Inoltre non si tratta di una “dotazione individuale”, ma di reparto. E per poterlo portare in servizio bisogna essere almeno in due, entrambi formati per l’uso”. Quindi, probabilmente domenica o gli agenti non potevano utilizzare lo storditore elettrico o non ne erano forniti. Perché, continua Battisti, “c’è anche un problema di rifornimento delle cartucce. Il costo è notevole, anche per quelle dell’addestramento e gli acquisti sono “calmierati”. Quindi spesso la filiera della formazione e degli acquisti è in ritardo rispetto alle necessità”. Perché per usare il taser serve un percorso di formazione? E perché è previsto che debbano esserci almeno due agenti al momento dell’uso? La risposta sta in quella definizione di “arma propria”. Il taser non è esattamente un “giocattolino” e può diventare più pericoloso del dovuto. Quello in dotazione alle forze dell’ordine non è lo storditore elettrico “da contatto” che si vede nei film e che per funzionare deve essere appoggiato al corpo. Quello che utilizza la polizia è ben diverso. Si tratta di una vera e propria pistola con due dardi. “Quindi si deve fare molta attenzione - prosegue il segretario provinciale del Siulp -. Ad esempio che non vada a colpire organi importanti come gli occhi. Ecco perché uno dei due agenti ha il compito di mettere in sicurezza l’area di tiro, anche per evitare di colpire altre persone e per poi ammanettare il soggetto dopo la scarica”. Tornando ai fatti di domenica è stato detto che l’agente ha seguito il “protocollo”. In cosa consiste? “Nel caso ci si trovi di fronte una persona che può mettere in pericolo la vita di altri, l’operatore punta l’arma e fa una sorta di “richiamo verbale”, tipo “fermati e metti giù l’arma, altrimenti sparo”. Se questo non avviene in genere, se le circostanze lo consentono, si spara il primo colpo d’avvertimento in aria. Se anche questo non sortisce alcun effetto, il secondo va a colpire organi non vitali, come una mano, un piede. Se anche il secondo colpo non porta a nulla, si spara il terzo che può esser letale. Deve comunque essere chiara a tutti una cosa: noi interveniamo per neutralizzare un potenziale pericolo. Non interveniamo per uccidere, anche se può succedere”. Genova. Youssef e la violenza strutturale sui detenuti più vulnerabili di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 24 ottobre 2024 Genova, carcere di Marassi. Youssef è un giovane detenuto di venticinque anni con una lunga storia di problemi psicologici e comportamentali. Il 3 ottobre è stato brutalmente aggredito da diversi agenti penitenziari. Il ragazzo - affetto da disturbo borderline della personalità e con una diagnosi di ritardo mentale lieve - si stava recando nella sala colloqui dove era atteso dal suo avvocato. La tensione emotiva che caratterizza il suo stato mentale lo ha portato a un’interazione con un brigadiere della polizia penitenziaria presente, innescando una reazione a catena che si sarebbe certamente potuta evitare. Secondo le testimonianze raccolte, alla provocazione da parte di Youssef - un insulto verbale - è seguita una risposta di forza da parte del brigadiere, che ha colpito il giovane al volto distruggendogli gli occhiali. La situazione è successivamente degenerata in una violenta aggressione collettiva, con altri agenti della penitenziaria che si sarebbero uniti al pestaggio, a ridosso della stessa sala colloqui, lasciando Youssef con ferite evidenti. Nonostante la presenza di testimoni e la denuncia dei fatti, è stato uno dei detenuti che aveva visto Youssef durante l’ora d’aria a diffondere per primo la notizia, raccontando a sua madre le condizioni in cui lo aveva trovato. La donna ha riferito queste informazioni alla sorella del ragazzo, mentre solo due giorni dopo l’episodio, suo figlio, il detenuto che la aveva avvertita, è stato trasferito. Il quadro clinico di Youssef - emerso dalla perizia psichiatrica allegata all’esposto-querela presentato dall’associazione Yairaiha - evidenzia una condizione estremamente complessa che richiede interventi terapeutici specifici e mirati. Nato a Milano, di origini tunisine, Youssef ha manifestato fin dall’adolescenza comportamenti “devianti”, culminati in reati di furto e rapina. Sin dai suoi primi anni di vita ha mostrato segni di difficoltà cognitive, con una diagnosi di disturbi dell’apprendimento come disortografia e discalculia, accompagnati da un quoziente intellettivo sotto la norma (QI 65). Queste problematiche si sono aggravate con l’abuso di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina e cannabinoidi, che ha portato anche a comportamenti autolesionistici documentati. Youssef presenta una grave fragilità cognitiva e psicologica, aggravata da un disturbo borderline e antisociale della personalità e da una dipendenza da sostanze (cannabis, cocaina e alcol). Ha vissuto diversi ricoveri per agitazione legata all’abuso di sostanze, con comportamenti esplosivi e impulsivi. Nonostante accetti il trattamento, rifiuta farmaci che ritiene inibiscano le sue emozioni. Durante l’esame psichiatrico ha mostrato limitate competenze cognitive, con difficoltà nell’autocontrollo e una scarsa consapevolezza delle proprie azioni. Il pensiero è povero e concreto, privo di introspezione. Pur non manifestando deliri o allucinazioni, presenta un tono dell’umore deflesso con scatti di rabbia e un’emotività instabile. Le sue capacità progettuali sono grossolanamente limitate e condizionate dall’impulsività. Dal punto di vista psichiatrico forense, la valutazione suggerisce un possibile “vizio parziale di mente”, dovuto alla somma di carenze cognitive e disturbi di personalità: “Si raccomanda un trattamento presso una struttura comunitaria con doppia diagnosi, vincolato a un intervento giuridico, per affrontare il problema delle dipendenze e il disturbo mentale”, è scritto nella relazione. A fronte di situazioni così complesse e delicate, gli episodi di violenza a danno delle persone che vivono questo tipo di sofferenza all’interno delle carceri non sono casi isolati, ma il riflesso di una cultura carceraria che glorifica la repressione di ogni istinto e ignora le esigenze riabilitative dei detenuti, soprattutto quelli più fragili. La mancanza di protocolli adeguati per la gestione delle crisi, e in generale dei comportamenti delle persone affette da disturbi psichici, evidenziano l’assoluta necessità che queste persone vengano curate, e non ristrette in un carcere. La cultura dell’abuso di potere all’interno delle strutture è spesso nascosta inoltre dietro il velo dell’indifferenza istituzionale. Le segnalazioni di violenze, maltrattamenti e vendette personali da parte del personale penitenziario nei confronti dei detenuti più vulnerabili sono numerose, ma raramente portano a sanzioni o a cambiamenti strutturali. Il trasferimento dei testimoni, come nel caso di Youssef, non fa altro che alimentare il sospetto di un sistema che cerca di proteggere i propri abusi. In seguito all’aggressione l’avvocato di Youssef, insieme al Garante dei detenuti e all’associazione Yairaiha, ha chiesto un’indagine urgente per fare chiarezza sull’accaduto e garantire giustizia. La richiesta di acquisizione di testimonianze e filmati di video sorveglianza potrebbe essere cruciale per far luce sulla vicenda e rivelare la verità dietro l’ennesimo episodio di violenza. Tuttavia, resta il dubbio che queste prove possano essere occultate o manipolate, come spesso accade in casi simili, ancor più di quando la parte lesa è un detenuto “ordinario” e quindi considerato maggiormente “credibile”. Invece di riconoscere e affrontare le vulnerabilità, di fatto, anche nella gestione dei singoli casi il sistema gestisce le fragilità con ordinarie punizioni che non fanno altro che esasperare il disagio di persone come Youssef, affette da disturbi mentali complessi. Il carcere, così com’è strutturato, fondato su un meccanismo meramente punitivo, sublima la sua inutilità nell’incapacità di offrire alcun tipo di intervento e supporto adeguato per chi si trova in condizioni così problematiche. Intanto, qualche giorno dopo l’inoltro dell’esposto, è giunta notizia del trasferimento di Youssef al carcere di Alessandria, dove si trova in stato di isolamento, l’ennesima tappa di un doloroso percorso fatto di spostamenti tra istituti penitenziari, senza interesse alcuno per una vera soluzione. Prima di Alessandria, Youssef era infatti stato detenuto a Torino, Cuneo e Marassi, una gestione estemporanea ed “emergenziale” del caso, che non ha mai tenuto conto dei suoi bisogni fisici e psichici. Ogni trasferimento di questo ragazzo da una prigione all’altra non fa che spostare il problema, senza mai affrontare le radici della sua fragilità e anzi peggiorando il suo stato mentale, privandolo di riferimenti stabili, sia umani che medici. Ogni nuovo carcere si traduce per lui in un ulteriore trauma, che compromette la sua già fragile stabilità emotiva e ostacola l’avvio di un percorso terapeutico continuativo, fondamentale per gestire le sue dipendenze e problematiche psichiatriche. Un circolo vizioso che non potrà mai risolvere la condizione di Youssef o né di nessun altro detenuto che si trova in situazioni simili. *Associazione Yairaiha ETS Ferrara. Detenuti, parla la Garante Macario: “Porterò progetti e lavoro. Sarò la garante di tutti” di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 24 ottobre 2024 La neo nominata traccia le linee guida del suo mandato: “Massima responsabilità. Togliere i tempi vuoti in queste strutture per il benessere di chi ci vive. Mi farò conoscere da chiunque. Bisogna fermare suicidi e sovraffollamento”. “Da dove partirò? Quello che posso dire è che ricoprirò questo ruolo con grande responsabilità, in tutti i sensi. Non verrò meno, mai, alle garanzie e alle tutele dei detenuti. Nessuno escluso”. Manuela Macario, una laurea al Dams e una seconda in dirittura d’arrivo in Sociologia, attuale presidente di Arcigay Ferrara, è prontissima al suo nuovo incarico. Quello di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale dell’Arginone, nomina firmata l’altro ieri dal sindaco Alan Fabbri. Erano cinque le candidature, la scelta è caduta su di lei per la sua grande esperienza nell’ambito delle politiche sociale e del lavoro rivolto alle persone più vulnerabili. Macario è pronta per questa nuova sfida? “Assolutamente e sono onorata per la fiducia che mi è stata accordata”. Una realtà molto complessa quella dell’Arginone. Da dove si comincia? “Innanzitutto voglio capire lo stato delle cose. Voglio conoscere la vita dall’interno, ciò che c’è, che si fa, i progetti, le realtà istituzionali che lavorano con il carcere, chi opera da dentro. Voglio incontrare presto la Camera penale e Unife, la quale ha un progetto di studio molto interessante”. Quali sono le problematiche principali del nostro penitenziario? “Non ho ancora visto con i miei occhi la situazione ma sappiamo benissimo quali sono le criticità che vivono l’Arginone e tutte le carceri italiane. I suicidi sono arrivati a 77, le condizioni di vita e convivenza dei detenuti sono difficilissime ovunque. In Italia queste strutture esplodono perché vengono riempite di persone accusate di aver commesso i cosiddetti reati minori”. Dunque che fare? “Sono convinta che si possa agire con percorsi alternativi. Professionalmente ho seguito percorsi di inserimento di ex detenuti anche recentemente. Alcuni ragazzi che avevano vissuto dentro carcere la pandemia, uno dei periodi forse più duri per le strutture detentive. Sarò presente, mi farò conoscere, voglio che tutti i detenuti sappiano che c’è una garante che ne tutela i diritti”. Parlava di progetti: secondo lei dentro il carcere sono abbastanza? “Il tempo dedicato ad azioni positive è fondamentale per il benessere dei detenuti. Se mancano i progetti, lasci le persone a fare nulla e questo rischia di diventare pericolosissimo. Il tempo vuoto in queste strutture è qualcosa di terribile. Lavorerò molto su questo punto. Partendo dagli aspetti lavorativi e culturali”. Si spieghi meglio... “Nel carcere della Dozza di Bologna, ad esempio, c’è una officina meccanica. Ecco, vorrei poter creare il miglior percorso possibile in diversi settori, un qualcosa che possa coinvolgere sempre di più le persone detenute”. Se questi ultimi lamentano enormi difficoltà dentro il carcere, stessa sorte tocca anche a chi ci lavora ogni giorno: gli agenti della Penitenziaria... “Lasciando da parte ogni tipo di pregiudizio, i poliziotti fanno un lavoro molto complesso. Ma sono convinta che anche per loro sarebbe interessante lavorare su progettazione e formazione. Ci credo molto e cercherò di portare la mia esperienza per migliorare le cose”. Catania. Giustizia riparativa, la storia di Valentina e degli altri ex detenuti in cerca di riscatto rainews.it, 24 ottobre 2024 Il bilancio biennale del progetto Koinè: tirocini lavorativi e supporto materiale e psicologico per fare la differenza tra chi vive in carcere e chi cerca di rifarsi una vita fuori. Non sono numeri, ma persone. Eppure il successo del progetto Koinè, rivolto a chi si trova in carcere o ha avuto una condanna si osserva proprio attraverso i numeri e le storie, come quella di Valentina: due figlie, errori passati, una scommessa vinta: farsi strada nel mondo del lavoro. In due anni, da settembre 2022 ad agosto 2024, il “presidio per la Giustizia di comunità in Sicilia orientale” ha visto effettuare attività laboratoriali e il supporto psicologico all’interno delle carceri, e interventi altamente impattanti sulla vita come la possibilità di un tirocinio lavorativo, trasformatisi oggi anche in lavoro stabile per alcuni dei beneficiari, persone in esecuzione penale o messe alla prova. Il target era di 90 detenuti, ne abbiamo raggiunti 549, sei volte di più. Di questi il 75% era in carcere. Abbiamo inoltre distribuito oltre 300 sussidi economici per aiuti familiari ai detenuti e 27 per l’autonomia abitativa” ha detto Domenico Palermo, direttore del progetto conclusosi a luglio nel corso di un convegno al tribunale di Catania. L’obiettivo era interrogarsi sui risultati raggiunti da quello che è stato, di fatto, il primo tentativo regionale della Sicilia orientale di dare corso all’attuazione dei percorsi e dei programmi contenuti nel D. Lgs. 150/2022, la cosiddetta “riforma Cartabia” che fa della giustizia riparativa uno dei suoi pilastri. Il reintegro in società il fine ultimo sancito anche dalla Costituzione. Aspetti fondamentali anche per Santi Consolo, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia: “È chiaro che chi ha messo su il progetto ha raggiunto gli obiettivi - premette Consolo-. Ma i risultati più importanti sono stati su alcuni profili poco numerosi nelle carceri in Sicilia. Parlo delle 35 donne e dei 72 stranieri, raggiunti in percentuali molto più alte nel progetto rispetto a quelle che rappresentano tra gli oltre 6.800 detenuti in Sicilia, ovvero circa il 3 e il 13%. Si è cercato di superare le difficoltà di comunicazione e inserimento che hanno le persone straniere, tramite i mediatori linguistici, un profilo importante perché si superano i pregiudizi e si agevola il reinserimento”. Per Consolo l’aspetto principale è stato però quello relativo al supporto psicologico. “Il carcere amplifica le fragilità mentali, che da qualche anno sono più complesse da affrontare per via della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, per i quali non c’è mai stata una vera alternativa. Questo crea una situazione complessa per i detenuti e per il personale, che è poco e non preparato. E tutto questo considerando la Sicilia un’area dove queste problematiche sono meno gravi, come testimonia il numero di suicidi, che sono stati 3 nell’ultimo anno, una percentuale molto più bassa che nel resto d’Italia”. Esperienze, quelle del progetto Koinè, che vanno tutte verso l’attuazione del concetto di “giustizia riparativa”, ovvero la ricomposizione dello strappo tra il responsabile di un delitto e la società, A fare il punto su questo è stata la professoressa Vania Patanè, docente di Diritto Processuale Penale dell’Università di Catania. “Per anni abbiamo inteso la Giustizia riparativa come composizione del conflitto in modo non ufficiale, fuori dai processi. La riforma Cartabia introduce questa possibilità in ogni fase per ogni reato, nei casi meno gravi anche come estinzione del reato, in quelli più gravi in modo complementare con eventuali sconti di pena. Il problema è che la riforma ha demandato ai servizi di giustizia riparativa con mediatori esperti, con apposito Albo al ministero della Giustizia, il ruolo di riavvicinare le parti. Solo che questi sono talmente pochi che è a oggi impossibile attuare. E per formarli servono accordi tra università e i centri per la mediazione. Solo che questi non ci sono. Un paradosso”, ha spiegato la docente. “I risultati raggiunti ci rendono orgogliosi - ha detto nel suo intervento conclusivo Luca Rossomandi, presidente del Tribunale di sorveglianza di Catania - mai infatti si era visto un progetto che coinvolgesse in maniera così ampia carceri, esecuzione penale esterna, magistratura giudicante e di sorveglianza. L’evento è stato anche l’occasione per visualizzare due video di testimonianze da parte di aziende partner del progetto Koinè (Gusto market a Ortigia, con la testimonianza di Valentina passata dalla pena al lavoro a tempo indeterminato e Nisi Pasticcerie di Belpasso che fa export di prodotti tipici siciliani): due storie di riscatto, ma anche di solidarietà. Firenze. Rieducazione, inclusione e sport: il progetto di Uisp uisp.it, 24 ottobre 2024 Il comitato da tempo opera dentro agli istituti di detenzione. Uisp Firenze da tempo opera dentro agli istituti di detenzione di Firenze con un progetto finanziato dal Comune di Firenze per organizzare l’attività sportiva all’interno del carcere, ex progetto Sport e Libertà. La finalità è quella che già era stata il filo conduttore, per esempio, del recente Vivicittà Porte Aperte, la manifestazione podistica che la scorsa estate ha fatto correre all’interno dell’Istituto penitenziario Casa Circondariale Mario Gozzini i detenuti insieme ai podisti delle società fiorentine affiliate a Uisp: l’obiettivo di creare momenti di sport in carcere resta quello di dare opportunità e competenze a coloro che vivono all’interno dell’istituto di pena; lo sport come occasione per arricchire il processo di formazione culturale, fornendo conoscenze che rappresentano uno spunto verso la rieducazione e la ricollocazione nella società civile una volta scontata la pena. Fattore che rappresenta l’autentica finalità della detenzione. Ed è quello che è accaduto a C. B., detenuto di origine albanese, che però (per sottolineare ancora di più la sua appartenenza e italianità) si fa chiamare “Nico”. Nico ha iniziato come utente delle attività sportive presso la casa circondariale di Sollicciano. Poi, dopo la fase di scarcerazione, seguito dagli operatori della struttura del Centro Attavante, è stato coinvolto insieme ai volontari in alcuni eventi curati da Uisp Firenze, come alcune manifestazioni votate all’inclusione e per i Mondiali Antirazzisti. Sullo sfondo l’obiettivo di una piena inclusione. Durante una di questi eventi Nico espresse il desiderio di lavorare presso un impianto Uisp che aveva frequentato, nella fattispecie il Centro Sportivo La Trave in zona Peretola nel Quartiere 5, dove giocano tra l’altro le squadre maschili e femminili del Centro Storico Lebovski e dove peraltro è in corso la costruzione della tribuna per il pubblico. Nico lavora quindi dal primo di ottobre 2024 alla manutenzione dell’impianto con contratto di assunzione a 40 ore settimanali. Il progetto e i suoi protagonisti sono stati presentati in una conferenza stampa che si è tenuta in Comune di Firenze a Palazzo Vecchio, presenti tra gli altri l’assessora allo sport del Comune di Firenze Letizia Perini, l’assessore al Welfare, accoglienza e integrazione del Comune di Firenze Nicola Paulesu, Marco Ceccantini, presidente di Uisp Firenze, Debora Calderaro, responsabile del Centro Attavante per persone detenute ed ex detenute. Una vicenda che testimonia un volta di più la valenza e l’importanza dei progetti sportivi gestiti da Uisp Firenze all’interno delle case circondariali dell’area metropolitana fiorentina. Città di Castello (Pg). “Destinazione altrove”: ecco i detenuti scrittori di Claudio Lattanzi La Nazione, 24 ottobre 2024 Sabato agli Illuminati i vincitori del concorso letterario riservato alle persone recluse. Il teatro degli Illuminati di Città di Castello sarà sede della cerimonia del Premio letterario che ha previsto anche una sezione dedicata alle opere dei detenuti. È il primo concorso nazionale che ha aperto una sezione speciale riservata alle composizioni letterarie dei detenuti e sabato si conosceranno i nomi dei vincitori. La cerimonia di premiazione al teatro degli Illuminati vedrà la partecipazione dei 30 finalisti (dieci per ciascuna delle sezioni principali del premio) provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. Tra le sezioni, il primo concorso letterario in Italia rivolto alle persone recluse nei penitenziari. “Destinazione Altrove - La scrittura come esplorazione di mondi senza tempo”, è il titolo della nuova sezione speciale permanente inserita nell’ambito del Premio letterario internazionale Città di Castello. Alle 16 di sabato 26 ottobre sarà conferito il premio ai primi tre detenuti classificati. Presto verrà varata l’edizione 2025 e saranno promosse iniziative specifiche all’interno degli istituti penitenziari, come presentazioni di libri, incontri con gli autori, corsi di scrittura creativa. “Con questo progetto di straordinaria valenza sociale, ma non solo - ha spiegato il promotore della manifestazione letteraria, Antonio Vella - intendiamo contribuire alla crescita culturale delle persone recluse e al loro più completo recupero”. A testimonianza dell’importanza di questo specifico progetto, la partecipazione alla cerimonia di premiazione della vicepresidente del Senato, Anna Rossomando e del Procuratore Generale della Corte d’Appello di Perugia, Sergio Sottani. A premiare i vincitori ci saranno anche gli altri membri della giuria della nuova sezione, e cioé la senatrice Giulia Bongiorno, il senatore Walter Verini, il giornalista Osvaldo Bevilacqua, la giornalista Benedetta Rinaldi e la scrittrice Maria Borio. Al concorso nelle varie sezioni sono state iscritte opere di scrittori provenienti da Portogallo, Francia, Turchia, Belgio, Svizzera e Germania. Roma. Nasce il premio teatrale Maurizio Costanzo per il miglior spettacolo nelle carceri di Silvia Fumarola La Repubblica, 24 ottobre 2024 La figlia Camilla: “Papà ne sarebbe fiero, era vicino ai detenuti. Verrà messo in scena il 20 maggio al Teatro Parioli di Roma”. Il suo camerino è al Teatro Parioli, che oggi porta il suo nome ed è stato per una vita la sua seconda casa. Ed è nel teatro romano che è stato presentato il premio intitolato alla memoria di Maurizio Costanzo, che sarà assegnato al migliore spettacolo scritto dai detenuti. “Mio padre” dice la figlia Camilla Costanzo “è stato sempre vicino al mondo delle carceri”. È il primo progetto della neonata Associazione Maurizio Costanzo, ideata dai figli del giornalista, Camilla, Saverio e Gabriele, insieme ad alcuni degli amici e collaboratori storici (Giorgio Assumma, Lorenzo Vecchione, Fabio De Palo e Valentino Tocco). In platea, con i giovani allievi della Scuola di polizia penitenziaria, Rita Dalla Chiesa e Giancarlo Leone, lunga carriera in Rai, amici storici di Costanzo. “Siamo emozionati - dice Camilla sul palco - perché anche se papà è morto da un anno e mezzo, sembra sia passato un minuto... Con i miei fratelli e altre persone care, che sono diventate famiglia, abbiamo deciso di dar vita a questa associazione perché siamo convinti che papà sia stato un patrimonio di tutti e vogliamo portare avanti le sue battaglie civili. Fece una puntata del talk show da Rebibbia, ero ragazzina, portò me e mio fratello: lì ho capito tante cose di lui. Col programma Altrove, raccontò gli istituti di pena. Oggi credo che sarebbe felice di questa iniziativa”. Ogni compagnia teatrale delle carceri potrà presentare uno o più spettacoli, realizzati dai detenuti, e i lavori saranno valutati da una giuria di esperti presieduta dal regista e conduttore Pino Strabioli. Il testo vincitore sarà messo in scena al teatro Parioli il 20 maggio. A firmare l’accordo il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, al fianco del capo del Dap Giovanni Russo, che spiega: “Nelle 191 carceri italiane esistono 150 laboratori teatrali e 120 compagnie: accanto ai detenuti che recitano tanti altri partecipano ai lavori come scenografi, truccatori, costumisti, misurandosi con professioni che possono costituire occasioni di riscatto una volta riacquistata la libertà. Anche così” sottolinea Russo, che quando era magistrato a Napoli incontrò Costanzo proprio al Parioli “si combatte il rischio che le persone in detenzione possano essere attirate nelle grinfie della criminalità oppure si può allontanarle dal miraggio dello stereotipo criminale in cui hanno vissuto”. “Costanzo, oltre che uomo di profonda cultura, mai ostentata, era uomo di grande equilibrio che tuttavia - osserva Delmastro, ricordando di essere cresciuto guardando il talk show - sapeva che con la mafia non doveva esserci equilibrio, tanto che decise di puntarci contro in modo frontale, con un coraggio straordinario e gesti eclatanti come quello di bruciare la maglietta con la scritta ‘mafia made in Italy’. È entrato negli istituti e ha dato voce a tutti, ai detenuti e alle guardie carcerarie, perché nella sua profonda cultura nazionalpopolare sentiva quello che disse un altro intramontabile, Pasolini, secondo cui gli uomini in divisa sono i veri figli del popolo”. Quell’inutile cattiveria ai figli dei migranti di Chiara Saraceno La Stampa, 24 ottobre 2024 Se sei cittadino italiano o di un Paese Ue, l’anno prossimo potrai continuare a fruire delle detrazioni per i figli maggiorenni (fino a 30 anni) a carico e per altri familiari eventualmente a carico (coniuge, genitori, suoceri), anche se non vivono con te e anche se vivono all’estero. Se invece non hai la cittadinanza italiana e neppure di un altro Paese Ue, dall’anno prossimo non potrai più fruire delle detrazioni per i familiari che hai a carico, ma che vivono all’estero, anche se sei tu a mantenerli con le tue rimesse e puoi dimostrarlo nelle forme richieste. Così è stipulato nella legge di bilancio che ha iniziato ieri il suo iter di approvazione. L’Italia è il Paese europeo che ha la definizione legale (art. 433 del codice civile) più ampia di familiari che possono essere considerati a carico e simmetricamente di familiari tenuti agli alimenti. I genitori sono teoricamente responsabili economicamente per i figli per sempre (quindi anche oltre i 30 anni), in caso di bisogno, ma lo sono anche i nonni e gli zii verso i nipoti, i figli adulti verso i genitori, i generi e le nuore verso i suoceri. Questa forma di solidarietà legalmente imposta è stata utilizzata per limitare i diritti individuali a ricevere un sussidio o un servizio, che si trattasse di sostegno economico o dell’esenzione dal pagamento della retta in Rsa. Nel tempo questo uso estensivo è stato ridotto, anche a seguito di controversie giudiziarie. Ma rimane, ad esempio, nel calcolo dell’Isee e nella definizione di chi può essere destinatario della pensione di reversibilità. È stato anche rivitalizzato da questo governo per escludere dall’Adi persone adulte con una disabilità grave che vivono da sole, ma ora poste a carico dei loro genitori. In ogni caso, le detrazioni per i familiari a carico hanno la loro fonte legale, appunto, nella norma del codice civile che definisce i famigliari tenuti agli alimenti. Si può discutere se nel 2024 sia opportuno mantenere una definizione così estesa, o se non sia meglio sostenere l’autonomia economica dei giovani e degli anziani poveri. E può sembrare ragionevole abbassare a 30 anni l’età massima entro la quale un figlio può essere considerato a carico (ma allora, almeno fino a quell’età, non dovrebbe essere escluso dal novero dei componenti di una famiglia quando si tratta di valutare il diritto a ricevere l’Assegno di inclusione e l’importo di questo). Ma occorrerebbe, appunto, allineare le norme. Soprattutto non si possono applicare regole diverse ai contribuenti sulla base della loro cittadinanza. Se il contribuente è tenuto ad osservare le norme fiscali del Paese di residenza a prescindere dalla propria cittadinanza, anche questo è tenuto a osservarle senza fare distinzioni in base alla cittadinanza. Aggiungo che si tratta di una distinzione particolarmente punitiva nei confronti di persone spesso a reddito molto modesto che hanno responsabilità estese nei confronti di chi è rimasto nel Paese di origine. Probabilmente in molti casi il loro reddito non è neppure sufficientemente capiente per fruire delle detrazioni. Ma toglierle a chi potrebbe invece fruirne è pura cattiveria, probabilmente inutile ai fini di far cassa. Polizia razzista, sbalordimenti e democrazia di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 24 ottobre 2024 I migranti, o i cittadini di origine migrante, sono sovra-esposti all’attenzione delle forze di polizia, per la loro marginalità sociale, per il loro aspetto, per la difficoltà a esprimersi in italiano. Il risentimento dell’esecutivo rispetto al rapporto del Consiglio d’Europa, che definisce razzista la polizia italiana, non sorprende. È stata la premier Meloni, qualche mese fa, ad affermare che criticare la polizia è sbagliato. E poi si sta lavorando a una modifica della legge sul reato di tortura, faticosamente introdotta nel 2017, che in realtà suona come un’abolizione vera e propria, sempre sulla scia di quanto sostengono dalle parti di Palazzo Chigi. Sorprende di più, e un tantino amareggia, lo sbalordimento del Capo dello Stato, che ha chiamato il Capo della Polizia per esprimergli la sua solidarietà. Se da un lato si comprende che il Presidente ha il compito di difendere le istituzioni di cui è il massimo rappresentante, dall’altro lato è vero che la difesa non dovrebbe essere acritica, ma dovrebbe considerare il rispetto della democrazia e delle libertà fondamentali. Tanto più che non si capisce perché l’Europa va bene quando si discute di guerra e di manovre economiche mentre sarebbe inattendibile quando mette in discussione il funzionamento, o le disfunzioni, degli apparati di stato. Le istituzioni europee si avvalgono del lavoro di personale qualificato, che, nel caso specifico, supplisce all’assenza di una commissione interna, preposta ad indagare sugli abusi delle forze di polizia. Una misura che maggioranze di colori opposti, vuoi per calcolo elettorale, vuoi per non entrare in conflitto con un’istituzione nevralgica non prendono in considerazione di istituire. Qualora si volesse attribuire poca credibilità al rapporto del Consiglio d’Europa, basterebbe consultare i numeri e osservare da vicino i fatti nostrani per capire che siamo di fronte a un problema da considerare seriamente. Un terzo dei detenuti è di origine straniera, e la carcerazione rappresenta il culmine del processo di produzione della devianza. Ci troviamo davanti a un meccanismo selettivo, che vede le forze dell’ordine, in quanto gatekeepers del sistema penale, in prima fila. I migranti, o i cittadini di origine migrante, sono sovra-esposti all’attenzione delle forze di polizia, per la loro marginalità sociale, per il loro aspetto, per la difficoltà a esprimersi in italiano. Una volta immessi nel circuito penale, difficilmente possono contare su risorse come una difesa di nomina, interpreti, mediatori culturali, che li aiutino a chiarire positivamente la loro posizione giudiziaria. Finendo per ricevere una condanna penale, non di rado grazie alle sole testimonianze di esponenti delle forze dell’ordine che, in quanto pubblici ufficiali, non possono essere smentiti, a meno che non ci siano testimonianze in senso contrario. Se non bastasse questo, ci sono recenti fatti di cronaca che suffragano quanto affermato dagli osservatori europei, come il caso della caserma di Piacenza, del 2020, o quello della questura di Verona del 2022. Gridare al complotto, sbalordirsi, non sono perciò le reazioni migliori da mettere in atto, e non è una questione di colore politico. Il caso inglese ne è un esempio. Quando nel 1981 gli Afrocaraibici di Brixton si sollevarono, innescando una catena di proteste nel resto del Regno Unito, Maggie Thatcher li definì usual rabble (canaglia abituale). Però si preoccupò di incaricare la Camera dei Lord di istituire una commissione di inchiesta sui fatti di Brixton, che produsse il rapporto Scarman, le cui conclusioni attribuivano i fatti di Brixton al razzismo delle forze di polizia. 16 anni dopo, la commissione d’inchiesta Macpherson, appurando l’insabbiamento da parte di poliziotti della Metropolitan Police londinese sull’omicidio del giovane afrocaraibico Stephen Lawrence, parlò di “razzismo istituzionale” dei poliziotti inglesi. In entrambi le occasioni nessuno gridò al complotto, si scandalizzò o sminuì le inchieste. Anzi, si istituì la commissione indipendente sugli abusi di polizia e, dal 1997 in poi, si promosse l’apertura della polizia alla diversità. Non che i problemi siano stati risolti (tuttora gli Afrocaraibici vengono fermati 27 volte in più dei bianchi), ma si è tentato di stabilire dei contrappesi. È davvero triste dover prendere lezioni di democrazia da Maggie Thatcher. Ma questa è l’Italia di oggi. L’invenzione del “Paese sicuro” attacco al diritto d’asilo di Marco Bascetta Il Manifesto, 24 ottobre 2024 Si tenta di smantellare in Europa una conquista di civiltà, vissuta come limite alla sovranità nazionale e data in pasto alle frustrazioni popolari. Ma le migrazioni non si arrestano. Le politiche migratorie, o più propriamente le politiche di difesa dall’immigrazione, applicate con maggiore o minore durezza da tutti i paesi europei non sono che una crudele messa in scena. Crudele perché provocano innumerevoli morti e sofferenze, messa in scena perché impraticabili, inadeguate, economicamente insostenibili, o del tutto inefficaci. In questo gioco di finzioni e di velenosa propaganda un posto d’onore spetta senza dubbio all’invenzione del “paese sicuro”. La nuova fattispecie fu istituita, senza alcuna attenzione per le realtà politiche e sociali di fatto, al solo scopo di poter respingere, simulando di tener conto delle regole umanitarie, la massa dei migranti in fuga da condizioni economiche e ambientali o da condizioni di oppressione sempre meno sostenibili. Puntava a riconoscere un diritto di accoglienza e protezione solo a chi si trovasse in pericolo di vita o avesse subito violenza per ragioni politiche o culturali in un paese ufficialmente riconosciuto per la sistematica negazione dei diritti umani. Si trattava, insomma, di una classificazione di comodo, del tutto arbitraria e di carattere astrattamente generale che avrebbe permesso di avvicinarsi per tappe, procedure accelerate e trattenimenti, a quei respingimenti di massa, o almeno a ciclo continuo, che il diritto dell’Unione esplicitamente vieta. Ma l’inconsistenza e la strumentalità di questa patente di sicurezza si è rivelata ben presto fonte di innumerevoli controversie. Quasi sempre le minoranze di ogni genere e i dissidenti politici ne restano fuori, per non parlare dell’oppressione e delle gravissime discriminazioni subite dalle donne in diversi “paesi sicuri”. Due esempi minori ma chiari che riguardano la Germania: quando Berlino decise di includere la Moldavia e la Georgia nella lista dei paesi sicuri, molte voci di protesta si levarono, anche all’interno della maggioranza di governo, perché nel primo paese i Rom erano oggetto di gravi discriminazioni e, nel secondo, gli orientamenti sessuali costituivano motivo di persecuzione. Più vergognosa ancora la protezione revocata agli esuli curdi in Svezia e Finlandia, fino a quel momento considerati perseguitati politici, in cambio della rimozione del veto turco all’ingresso dei due paesi nella Nato. Quando la politica decide, decide in modo infame. Gli accordi stipulati dall’Unione europea con la Turchia (sovvenzionando i terrificanti Lager aperti in quel paese) cui si chiedeva dietro lauti compensi di fermare e in qualche modo integrare temporaneamente il flusso migratorio siriano hanno funzionato in realtà come una gigantesca macchina di reclusione, respingimento e “remigrazione” forzata, tanto per usare il termine caro ai neonazisti austriaci e tedeschi. Quanto all’Italia, può vantare il sostegno ai trafficanti tagliagole della cosiddetta guardia costiera libica e il corteggiamento del dittatore tunisino che manda i migranti a morire nel deserto. La sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 4 di ottobre, nello stabilire i requisiti richiesti a un paese per essere considerato “sicuro”, (per tutti e in ogni sua parte) smonta nei fatti questo sporco gioco di finzioni e di omissioni: forse solo qualche paese, da cui quasi nessuno penserebbe di fuggire, finirebbe col superare l’esame. È insomma la fattispecie stessa di “paese sicuro” a finire travolta da un principio seriamente inteso di giustizia sovranazionale. La minaccia di persecuzione e dunque il diritto di fuga (che è ridicolo voler ricondurre a un percorso di espatrio legale) è una questione che attiene alle condizioni di pericolo che incombono su ogni singolo e su ogni particolare figura sociale e che non possono essere subordinati a nessuna categoria astrattamente generale e, men che meno, alla provenienza geografica. Le migrazioni sono un fenomeno di massa, un movimento collettivo, ma irriducibile a qualunque forma di omogeneità, una moltitudine di singole storie e di personali aspirazioni di libertà. Un guardasigilli, campione di improntitudine e di arrampicata sugli specchi, pretende che per derogare dalla regola del paese sicuro, e dunque idoneo al rimpatrio, il magistrato debba argomentare nel dettaglio i rischi di violenza e persecuzione cui ogni singolo richiedente asilo sarebbe esposto nel paese di provenienza. Ma le procedure accelerate e trasportate in un altrove recluso, opaco e irraggiungibile come i Lager fuori dai confini sono appositamente studiate proprio per impedire questo esame e automatizzare quindi la macchina del respingimento. È in atto, in tutta Europa, lo smantellamento progressivo di una delle più importanti conquiste di civiltà: il diritto di asilo. Vissuto come un limite alla sovranità nazionale e dato in pasto alle frustrazioni popolari da una demagogia senza scrupoli. Ma quello delle migrazioni è un fenomeno talmente imponente e articolato che nessuna messa in scena, per quanto crudele e rumorosa, sarà in grado di arginarlo. Figuriamoci gli isterici decreti legge del governo di Roma. Migranti. Caso Albania, idea Lega: “Le norme italiane prevalgano su quelle europee” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 ottobre 2024 Dopo lo scontro tra politica e magistratura, il carroccio ha presentato tre emendamenti per far prevalere il diritto italiano su quello Ue. La Lega ha presentato in Commissione Affari costituzionali alcuni emendamenti aggiuntivi al ddl governativo sulla separazione delle carriere che prevedono che le norme italiane prevalgono rispetto a quelle europee. In particolare gli emendamenti recitano così: “All’articolo 117, primo comma, della Costituzione, le parole: “nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” sono soppresse”. Quindi rimarrebbe che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione”. L’altro emendamento prevede che “all’articolo 11 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma: “In ogni fase e tipo di giudizio, di ogni ordine e grado, la Costituzione non costituisce, in ogni sua previsione, fonte subordinata ai Trattati e agli altri atti dell’Unione europea”. In pratica qui si intende formalizzare il primato nella nostra Carta sulla legislazione europea. La terza correzione presentata è la seguente: “Alla legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87, dopo l’articolo 23 è aggiunto il seguente: “Art. 23-bis. 1. Qualora nel corso di un giudizio l’autorità giurisdizionale ravvisi il contrasto tra una norma di legge o di un atto avente forza di legge e una norma europea direttamente applicabile, è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale”. Si vogliono dunque modificare le “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale” per obbligare il giudice a rivolgersi sempre alla Consulta quando oggi ha invece anche la possibilità di interpellare la CGUE. Per la professoressa Chiara Favilli, ordinario di Diritto dell’Unione europea all’Università di Firenze, “l’articolo 117 della Costituzione è stato modificato nel 2001, in modo da far sì che fosse esplicitato quello che già era stato affermato, cioè che la violazione di un obbligo che deriva dall’Unione è sempre anche una violazione della Costituzione. Poi ogni ordinamento ha i propri strumenti per valorizzare o per superare meglio il contrasto tra la legge e una norma Ue. In Italia negli ultimi anni si è molto discusso di questo: se il giudice debba prima sollevare una questione di legittimità costituzionale o prima debba rivolgersi alla CGUE. Le due strade sono possibili. Non è possibile prevedere tuttavia un obbligo del giudice a rivolgersi in via esclusiva all’una o all’altra Corte. L’equilibrio ancora una volta è stato raggiunto nel lasciare al giudice la discrezionalità, l’apprezzamento dell’opportunità di rivolgersi all’una o all’altra e a quale Corte rivolgersi prima, con una preferenza per la questione di legittimità costituzionale quando vengono in rilievo diritti fondamentali tutelati nella nostra Costituzione, lasciando alla Consulta la scelta di sollevare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia come già avvenuto in diversi casi, con l’obiettivo di innalzare lo standard dei diritti fondamentali nello spazio europeo”. Aggiunge la professoressa: “Adottare una regola di questo tipo - come hanno affermato le Corti supreme in Polonia e Ungheria - costituirebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, a cui seguirebbe l’apertura di una procedura di infrazione. Lo Stato che si pone in rotta di collisione con il diritto dell’Unione è uno Stato che vuole uscire dall’Ue, e può farlo utilizzando l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un Paese membro. Ma fin quando è parte dell’Unione, è tenuto a rispettare gli obblighi, come è avvenuto per il Regno Unito”. L’abbandono dell’Ue sarà automatico? “Non direi che l’Italia sarebbe automaticamente fuori. Diciamo che sarebbe una grave violazione, alla quale potrebbe seguire una scelta politica di avviare la procedura di recesso”, conclude l’esperta. Così dal punto di vista tecnico giuridico. Ma politicamente come è stata accolta la proposta del Carroccio? Senza dubbio le opposizioni esprimono un totale dissenso. Mentre gli altri due azionisti di maggioranza per ora si differenziano. Se Fratelli d’Italia ci fa sapere che attenderà la prossima settimana per la valutazione degli emendamenti, più netta è la posizione di Forza Italia. Infatti sostiene al Dubbio il capogruppo azzurro in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone: “la prima cosa che io noto è che gli emendamenti non sono omogenei al corpo della riforma in esame: se si discute di separazione delle carriere non si può parlare di altro, quindi credo che abbiano profili di inammissibilità. Da un punto di vista del merito giuridico non li condivido e i motivi sono tanti. Innanzitutto ci sono le gerarchie delle fonti e noi non possiamo modificare una norma costituzionale soprattutto in un momento in cui storicamente si parla di grande cooperazione tra Europa e Stati membri, quindi che cosa vogliamo? Vogliamo disconoscere la normativa europea? Modificare un tal tipo di norma costituzionale è un argomento molto complesso che merita una trattazione a parte. Noi non abbiamo presentato emendamenti perché intanto abbiamo la necessità, la voglia e il desiderio di portare a compimento la riforma della giustizia”. Finisce l’odissea in cella della Majidi. L’attivista in fuga da Teheran è libera di Franco Corbelli La Verità, 24 ottobre 2024 La donna, arrivata con altri migranti sulle coste della Calabria, non è una scafista. “La scarcerazione della giovane attivista iraniana, Maysoon Majidi, 28 anni, detenuta da dieci mesi in Calabria dal momento dello sbarco a Crotone insieme ad altri migranti, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, disposta ieri dal Tribunale del Riesame di Catanzaro, è un atto di giustizia giusta e umana, il primo, importante pronunciamento in attesa adesso dell’esito finale del processo in corso a Crotone, che appare oramai scontato avendo i giudici dell’appello di fatto assolto completamente la ragazza parlando di insussistenza di indizi di colpevolezza”. In questi mesi, insieme alla Verità, chi scrive si è sempre schierato a favore della liberazione di questa giovane attivista per i diritti delle donne iraniane, con una serie di accorati appelli, l’ultimo pochi giorni fa, sempre dalle pagine di questo quotidiano e nel corso del popolare programma Diritti Civili, in onda sulla tv privata calabrese Rtctelecalabria. La scarcerazione di M aysoon Majidi per il venir meno dei gravi indizi di colpevolezza, in relazione al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per lo sbarco del 31 dicembre scorso, è un atto di giustizia giusta e umana. Avevamo ragione. Per mesi, dal maggio scorso, questo provvedimento, o quantomeno la concessione degli arresti domiciliari, lo abbiamo chiesto insieme al difensore della donna, l’avvocato Giancarlo Liberati, e a quanti, non molti, si sono battuti per questa giusta causa giudiziaria e umanitaria. Questa bella, importante notizia non viene minimamente scalfita, né inficiata dalla continuazione di questo processo che si svolge al Tribunale di Crotone e il cui esito non potrà adesso che confermare la sentenza emessa dal Riesame di Catanzaro. Questa vicenda deve comunque far riflettere per quanto è successo a questa donna, che è qualcosa di allucinante, doloroso e inaccettabile. Lei in fuga dall’oppressione del regime iraniano, dopo un viaggio avventuroso e sofferto, arriva in Italia, insieme ad altri migranti, la fine dello scorso anno, e viene arrestata e tenuta dieci mesi in una cella, con l’accusa di essere un’aiutante degli scafisti. La domanda a cui bisogna ora dare una risposta è questa: perché, se mancavano i gravi indizi di colpevolezza, come ha stabilito il Tribunale penale di Catanzaro, è stata tenuta dieci mesi in carcere e le sono stati negati, per ben cinque volte, gli arresti domiciliari, finanche con l’utilizzo del braccialetto elettronico? Perché non sono stati ascoltati e creduti i due testimoni iraniani e lo stesso comandante dell’imbarcazione che ieri l’hanno scagionata, ribadendo di fatto quanto avevano già sostenuto nei mesi scorsi, come più volte abbiamo ricordato? In tv la settimana scorsa avevo posto questa domanda: e se fosse innocente, come ha sempre sostenuto sin dal primo istante, con forza, determinazione e dignità, chi mai potrà risarcirla del dolore, delle pene, della sofferenza vissuti in questi lunghi mesi di prigionia, nella disperazione assoluta che l’ha portata a fare lo sciopero della fame e a scrivere anche al presidente della Repubblica? Dopo la sentenza del Tribunale del Riesame, che l’ha scarcerata, e in attesa dell’esito finale del processo, con il doveroso rispetto come sempre della magistratura e delle sentenze, ripropongo questa domanda con la forte convinzione dell’assoluta innocenza di questa giovane iraniana. Serve un nuovo modello per le prigioni europee di Renate van der Zee* Internazionale, 24 ottobre 2024 Perché in alcuni paesi le prigioni sono sovraffollate mentre in altri, come i Paesi Bassi, la popolazione carceraria è diminuita del 40 per cento negli ultimi anni? Ieri sono andata al cinema nell’ex prigione di Koepelgevangenis ad Haarlem, nei Paesi Bassi. L’edificio monumentale, un’enorme struttura in stile panopticon inaugurata nel 1901, ospitava uno degli oltre venti penitenziari olandesi che hanno chiuso i battenti negli ultimi vent’anni. Alcuni oggi sono usati per scopi molto più gradevoli rispetto a quelli originari, come il centro culturale creato ad Haarlem. Negli ultimi vent’anni la popolazione carceraria nei Paesi Bassi è diminuita del 40 per cento. All’estremo opposto il Regno Unito ha il tasso d’incarcerazione più alto dell’Europa occidentale e deve affrontare una crisi senza precedenti. Il ministro britannico per le carceri, la libertà condizionale e la libertà vigilata, James Timpson, ha dichiarato che quello olandese è un esempio da seguire. Cosa potrebbe insegnare al resto del mondo? Il calo dei detenuti non è il risultato di politiche introdotte recentemente da leader illuminati, ma è in gran parte dovuto ai cambiamenti nel numero e nella natura dei crimini commessi nel paese. Nei Paesi Bassi, e spesso altrove in occidente, i crimini violenti si sono ridotti significativamente negli ultimi decenni. Questo non significa che siano diminuiti i reati in generale, spiega il criminologo olandese Francis Pakes, che insegna all’università di Portsmouth. “Sono in calo i crimini convenzionali e violenti. Buona parte dei reati si è spostata online, quindi è meno visibile. Inoltre è possibile che esista una criminalità organizzata ancora poco conosciuta. In ogni caso i tribunali e la polizia devono affrontare un numero minore di casi gravi”. La conseguenza è che sempre meno persone finiscono in prigione. Il punto, quindi, non è che i Paesi Bassi, hanno una politica che potrebbe ispirare il resto del mondo. Ma potrebbe essere istruttivo l’atteggiamento generale degli olandesi: secondo Peaks sono consapevoli del fatto che la permanenza di una persona in prigione è dannosa per la comunità. Incarcerando un criminale la società se ne libera per qualche tempo, ma in molti casi gli ex detenuti riprendono la loro attività illegale appena escono. Alcuni anzi si comportano in modo più spietato a causa del clima violento in cui hanno vissuto in cella, dove tra l’altro potrebbero aver allargato la loro rete di conoscenze nel mondo della criminalità. Questo è valido anche per le condanne più brevi, che possono stravolgere la vita di un individuo. È raro che qualcuno diventi una persona migliore dopo essere stato dietro le sbarre. A causa delle crudeltà avvenute durante l’occupazione nazista, nei Paesi Bassi si tende a non imporre lunghe condanne carcerarie. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti la cultura invece è molto diversa: spesso i politici chiedono sentenze più dure per presentarsi come leader forti, una posizione che di recente è stata assunta anche da diversi politici olandesi, per lo più legati alla destra. Il Regno Unito ha deciso nel settembre 2024 di scarcerare i detenuti che avevano già scontato il 40 per cento della pena: sono uscite finora 1.700 persone. Non è raro che un giudice britannico emetta una sentenza che a un olandese può sembrare particolarmente severa per un crimine minore. In questi casi, infatti, i giudici olandesi sono molti più inclini ad affidare all’imputato dei servizi socialmente utili o a sospendere la pena. Diverse ricerche indicano che questo approccio non solo è meno dispendioso, ma riduce la recidiva. Anche quando viene inflitta una pena carceraria, la lunghezza della condanna per i crimini minori come il furto si è ridotta significativamente nell’ultimo decennio. Le condanne per i crimini violenti e sessuali, invece, sono diventate più lunghe. In ogni caso l’atteggiamento dei giudici non è la ragione del recente declino nella popolazione carceraria olandese, che è sempre stata bassa, soprattutto rispetto agli Stati Uniti. Le condanne lunghe, inoltre, esercitano una pressione enorme sul sistema penitenziario. Considerando quanto incide la gestione delle carceri sulla spesa pubblica, se il denaro fosse speso per la prevenzione i risultati sarebbero stupefacenti. Di sicuro i Paesi Bassi possono offrire almeno un messaggio di speranza al resto del mondo: l’aumento continuo della popolazione carceraria non è inelutttabile. E non è detto che una società diventi meno sicura se i penitenziari sono meno affollati. Lo dimostra il fatto che, nonostante lo svuotamento delle prigioni, gli olandesi possono ancora camminare la notte in piena sicurezza, soprattutto rispetto a un paese come il Regno Unito, dove sono in aumento i crimini e la paura dei cittadini. Il ministro Timpson farebbe bene a considerare anche l’apprezzabile sistema carcerario della Norvegia, dove i penitenziari sono spesso piccoli e orientati soprattutto al reinserimento dei detenuti. Le strutture sono progettate in modo che la vita all’interno scorra nel modo più normale possibile. Il risultato è che i carcerati sono meno alienati dalla società e reintegrarsi per loro è più facile rispetto a un ex detenuto che ha vissuto in strutture sovraffollate, dov’è stato rinchiuso in una cella per 22 ore al giorno perché non c’era abbastanza personale per gestire le attività. In contesti come quello britannico il ritorno nel mondo esterno è estremamente brusco, e non è raro che una persona scarcerata torni a commettere un crimine. Qualcuno potrebbe sostenere che il sistema creato in un paese poco popolato come la Norvegia non è adatto al Regno Unito o ad altri grandi paesi. Ma è chiaro che il sistema britannico ha raggiunto il limite. Trovare un nuovo approccio è urgente, non è un lusso. James Timpson sembra deciso a cambiare le cose. Sarà interessante scoprire quali saranno i suoi progetti. *Giornalista e scrittrice olandese Follia australiana basta avere 10 anni per andare in carcere di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 ottobre 2024 In carcere ad appena dieci anni. In Australia, nella regione dei Territori del Nord (NT), il governo ha infatti varato una controversa riforma che abbassa l’età della responsabilità penale. Una vera e propria controtendenza visto che attualmente si sta tentando in tutta la nazione di aumentare l’età minima a 14 anni, in linea con gli altri paesi sviluppati e con le raccomandazioni delle Nazioni Unite. In realtà l’anno scorso il NT era diventata la prima giurisdizione ad alzare la soglia a 12 anni, ma il nuovo governo del Partito Liberale (CLP), eletto ad agosto, ha affermato che è necessaria un’inversione di tendenza per ridurre i tassi di criminalità giovanile. Secondo i legislatori l’abbassamento dell’età alla fine proteggerà i bambini, nonostante i medici, le organizzazioni per i diritti umani e i gruppi aborigeni contestino questa logica. Proprio le comunità indigene saranno le più colpite dalla nuova legge, già oggi nei Territori del Nord i bambini aborigeni vantano un triste record di un tasso di incarcerazione superiore di ben 11 volte rispetto alle altre regioni del paese. Gli aborigeni costituiscono il 3,8% degli oltre 26,5 milioni di abitanti dell’Australia. Al contrario, questa minoranza rappresenta il 33% della popolazione carceraria australiana, attualmente composta, secondo i dati ufficiali, da circa 42 mila detenuti. La leader dell’opposizione laburista, Selena Uibo, la prima e unica donna aborigena a capo di un grande partito in Australia, ha definito il varo della riforma come un’aberrazione: “È un giorno buio per il nostro Paese. Sappiamo, perché tutte le prove ce lo dicono, che prima un bambino entra in contatto con il sistema di giustizia penale, più è probabile che il suo coinvolgimento sia prolungato nel corso della sua vita. Vogliamo vedere i bambini ritenuti responsabili di comportamenti scorretti, ma poi sostenuti per intraprendere un percorso migliore”. Il commissario per l’infanzia del NT Shahleena Musk, una donna dell’etnia Larrakia di Darwin, ha affermato che i bambini aborigeni hanno meno probabilità di essere ammoniti, più probabilità di essere accusati e perseguiti attraverso i tribunali e di essere trattenuti in custodia rispetto ai criminali non aborigeni. Attualmente l’Australia sembra essere in preda ad un’esplosione di criminalità giovanile, in diverse regioni si sono susseguiti una serie di incidenti violenti quest’anno che hanno provocato addirittura l’istituzione del coprifuoco da parte delle autorità locali, come quello decretato per tutti i teenager nella città di Alice Springs. Il primo ministro Lia Finocchiaro ha detto che al suo governo è stato dato un mandato, dopo la vittoria elettorale schiacciante, e che il cambiamento consentirà ai tribunali di sottoporre i giovani a programmi progettati per affrontare le cause profonde dei loro crimini che, secondo le statistiche, sono principalmente reati di effrazione e aggressione. Il governo del NT ha anche inasprito le regole sulla cauzione e introdotto sanzioni per chi pubblica i propri atti criminali sui social media. Tuttavia, gli studi sia a livello globale che nella stessa Australia hanno dimostrato che incarcerare i bambini li rende più propensi alla recidiva e spesso ha un impatto disastroso sulla loro salute, sull’istruzione e il lavoro. All’inizio di quest’anno un rapporto della Commissione australiana per i diritti umani, un’agenzia federale indipendente, ha rilevato che la politica in tutta la nazione è guidata dalla retorica populista e giustizialista della “tolleranza zero” contro il crimine, e che i governi dovrebbero invece reinvestire il denaro speso per incarcerare i bambini in servizi di supporto che siano in grado di garantire il loro reinserimento sociale. Secondo la commissaria Anne Hollonds “Abbassare l’età della responsabilità penale a dieci anni non renderà le comunità più sicure, ma aumenterà solo i tassi di criminalità infantile. Si tratta di bambini in età di scuola primaria e le risposte dure e punitive non sono la risposta”.