Carceri, il gioco dei numeri di Anna Pizzo dinamopress.it, 23 ottobre 2024 Settantacinque detenuti che si sono tolti la vita in dieci mesi nelle carceri sono l’esito di una strage annunciata e di una piramide politica fatta di responsabilità e omissioni. Più che di suicidi sarebbe arrivato il momento di parlare di omicidi perché chi si è tolto la vita ha pagato il prezzo della solitudine e della disperazione. Intanto, il governo decide di affidare questa patata bollente al “mercato” e pensa a privatizzare. Dei detenuti nelle 190 carceri italiane sappiamo i numeri esatti, ce lo dicono le associazioni che da anni se ne occupano, ma anche il Ministero della giustizia e i garanti e i sindacati degli agenti di custodia e il parlamento. Tutti producono ricerche, statistiche, analisi, valutazioni. Sappiamo che sono 62mila, che uno su tre è dentro per reati contro la legge sugli stupefacenti (nei quali è compresa la cannabis) e che questo terzo nella stragrande maggioranza non è imputato di traffico ma di spaccio. Sappiamo che il 25% è in attesa di giudizio e che di media i tempi di questa “attesa” sono una variabile impazzita, tanto che attualmente almeno seimila sono in carcere senza ancora aver messo piede in un tribunale. Sappiamo che il costo medio annuo destinato agli istituti di pena è stato di 2 miliardi e mezzo di euro e che più dell’80% dei costi vanno a pagare il personale (polizia penitenziaria, amministrativi, dirigenti, educatori, ecc.), il 13% al mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale, ecc.), il 4% è stato speso per la manutenzione delle carceri e il 3% per il loro funzionamento (energia elettrica, acqua, ecc.). A conti fatti, infine, sappiamo che il costo medio giornaliero di ogni singolo detenuto è stato di 138 euro. Sappiamo, infine, ed eccoci alla tragedia nella tragedia, che quest’anno il numero delle persone che si sono suicidate in carcere sta superando il “record” del 2022 di 85, all’11 ottobre scorso erano già 75. Sappiamo che il più giovane che si è tolto la vita aveva 21 anni, il più anziano 66. Sappiamo tutto questo ma dei detenuti non sappiamo nulla. Ancora statistiche, ancora numeri. Ma dietro le statistiche e i numeri ci sono le storie. A fare una meticolosa ricostruzione delle biografie delle persone che hanno preferito togliersi di mezzo piuttosto che rassegnarsi a un destino di sofferenza in questo ultimo anno, unica nel panorama dell’informazione, è stata la giornalista dell’agenzia di stampa Agi, Manuela D’Alessandro, che, in poche righe è stata capace di restituire alle vittime uno scampolo di umanità. Vorrei riproporre questo lungo elenco di quelli che, a tutti gli effetti, non dovremmo chiamare suicidi ma omicidi perché non è difficile individuare, scavando nei loro percorsi, responsabilità e omissioni. L’articolo è stato scritto nell’agosto scorso quindi mancano “all’appello” undici vittime che si sono tolte la vita negli ultimi due mesi. 6 gennaio 2024: Matteo Concetti, 23 anni. Stava male da tempo, soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere di Ancona perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Il 5 gennaio aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”. 8 gennaio 2024: Stefano Voltolina, 26 anni, detenuto a Padova, soffriva di depressione. Una volontaria ha affidato il suo ricordo a ‘Ristretti orizzonti’: “Era sveglio, buono, curioso. Abbiamo fallito”. 10 gennaio 2024: Alam Jahangir, 40 anni, originario del Bangladesh, si è impiccato con un pezzo di lenzuolo a Cuneo, pochi giorni dopo il suo ingresso. 12 gennaio 2024: Fabrizio Pullano, 59 anni, si è impiccato nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento. 15 gennaio 2024: Andrea Napolitano, 33 anni. A Poggioreale per l’omicidio della moglie, soffriva di disturbi psichiatrici. 15 gennaio 2024: Mahomoud Ghoulam, 38 anni, marocchino senza fissa dimora, era entrato da poco a Poggioreale. 22 gennaio 2024: Luciano Gilardi, gli mancava un mese alla libertà ma è morto prima da detenuto a Poggioreale. 23 gennaio 2024: Antonio Giuffrida, 57 anni, era in carcere a Verona Montorio per truffa. 24 gennaio 2024: Jeton Bislimi, 34 anni, si è ucciso nel carcere di Castrogno a Teramo: musicista macedone, 34enne, aveva provato ad ammazzare sua moglie. Aveva già tentato il suicidio. 25 gennaio 2024: Ahmed Adel Elsayed, 34 anni, è stato trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano Calabro. Gli mancava poco per il fine pena. 25 gennaio 2024: Ivano Lucera, 35 anni, si è impiccato nel carcere di Foggia. Soffriva di dipendenze. 28 gennaio 2024: Michele Scarlata, 66 anni, si è ucciso nel carcere di Imperia pochi giorni dopo esserci entrato con l’accusa di avere tentato di uccidere la compagna. 3 febbraio 2024: Alexander Sasha, ucraino di 38 anni, aveva già tentato di tagliarsi la gola prima di impiccarsi a Verona Montorio. 3 febbraio 2024: un detenuto disabile di 58 anni si è impiccato nel carcere di Carinola (Caserta). Il suo nome non è noto. 8 febbraio 2024: Hawaray Amiso, 28 anni, doveva scontare solo tre mesi a Genova. Invece avrebbe “manomesso la serratura del cancello della cella per ritardare l’intervento degli agenti di custodia” prima di impiccarsi. 10 febbraio 2024: Singh Parwinder, 36 anni, bracciante agricolo, si è ucciso nel bagno del carcere di Latina. 11 febbraio 2024: cittadino albanese, 46 anni, imprenditore. Si è ucciso a Terni. Gli erano state revocate da poco le misure alternative al carcere. 13 febbraio 2024: Rocco Tammone, 64 anni, era in semilibertà. Rientrato dal lavoro, si è ucciso nel cortile del carcere di Pisa. 14 febbraio 2024: Matteo Lacorte, 49 anni, si è impiccato nel carcere di Lecce nel reparto di massima sicurezza. La Procura indaga per istigazione al suicidio. 26 febbraio 2024: cittadino marocchino, 45 anni, si è impiccato a Prato. 12 marzo 2024: Jordan Tinti, trapper, 27 anni, in carcere a Pavia per rapina aggravata dall’odio razziale. Aveva tentato il suicidio pochi mesi prima 13 marzo 2024: Andrea Pojioca, senza fissa dimora, 31 anni, ucraino. In carcere a Poggioreale per tentata rapina. 13 marzo 2024: Patrick Guarnieri, è morto il giorno in cui compiva 20 anni per asfissia nel carcere di Teramo. Il pm indaga perché l’autopsia lascia dei dubbi che si sia trattato davvero di suicidio. 14 marzo 2024: Amin Taib, 28 anni, tossicodipendente, si è ucciso nella cella di isolamento a Parma. 21 marzo 2024: Alicia Siposova, 56 anni, slovacca, si è suicidata mentre era in corso una visita del cardinale Matteo Zuppi nel carcere di Bologna. 24 marzo 2024: Alvaro Fabrizio Nunez Sanchez, 31 anni, attendeva come molti l’ingresso in una Rems da alcuni mesi per gravi sofferenze psichiatriche. Invece si è ucciso nel carcere di Torino. 27 marzo 2024: cittadino italiano, 52 anni, di cui non state rese note le generalità, si è impiccato al cancello della cella con il laccio dei pantaloni nel carcere di Tempio Pausania. 1 aprile 2024: Massimiliano Pinna, 32 anni, si è impiccato al secondo giorno di carcere a Cagliari dove era stato portato per un furto. 7 aprile 2024: Karim Abderrahin, 37 anni, si è impiccato in cella a Vibo Valentia. 10 aprile 2024: Ahmed Fathy Ehaddad, 42 anni, egiziano, attendeva l’inizio del processo per un caso di violenza sessuale nel carcere di Pavia. 17 aprile 2024: Nazim Mordjane, 32 anni, palestinese, è morto inalando gas da un fornello da campeggio nel carcere di Como. Nel settembre dell’anno scorso era evaso ferendo un agente di polizia. 22 aprile 2024: Yu Yang, 36 anni, si è impiccato attaccandosi alla terza branda del letto a castello a Regina Coeli. 4 maggio 2024: Giuseppe Pilade, 33 anni, pativa disturbi psichiatrici e sarebbe dovuto stare in una Rems ma, come per la maggior parte di chi ci dovrebbe stare, non c’era posto per lui e si è tolto la vita nel carcere di Siracusa. 16 maggio 2024: Santo Perez, 25 anni, si è impiccato nella sezione media sicurezza del carcere di Parma. 23 maggio 2024: Maria Assunta Pulito, 64 anni, si è soffocata con due sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola a Torino. Accusata di violenza sessuale assieme al marito, aveva sempre respinto le accuse. 2 giugno 2014: George Corceovei, 31 anni, ha approfittato che due detenuti uscissero dalla cella che condividevano con lui per impiccarsi a Venezia. 2 giugno 2024: Mustafà, 23 anni, si è impiccato nel carcere di Cagliari ma il suo corpo non ha ceduto subito. È morto due giorni dopo in ospedale. 4 giugno 2024: Mohamed Ishaq Jan, pakistano, 31 anni. Da una decina di mesi aspettava di essere processato per lesioni e rapina a Roma Regina Coeli. 11 giugno 2024: Domenico Amato, 56 anni, viene trovato impiccato alla mattina presto nel carcere di Ferrara. Con la sua morte, è stato osservato, lo Stato ha perso due volte perché era un collaboratore di giustizia e perché era nella custodia dello Stato. 13 giugno 2024: A.L.B., italiano di 38 anni, si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino impiccandosi alle otto della sera. 14 giugno 2024: Alin Vasili, 46 anni, rumeno, si è impiccato nel penitenziario di Biella. 15 giugno 2024: Giuseppe Santolieri, 74 anni, condannato a 18 anni per l’omicidio della moglie, si è ucciso nel carcere di Teramo soffocandosi con una corda. Lo aveva annunciato ai compagni di prigionia: “Non posso più andare avanti”. 15 giugno 2022: un detenuto di 43 anni si è impiccato nel carcere di Sassari con un lenzuolo nel reparto ospedaliero. 21 giugno 2024: Alì, un ragazzo algerino di 20 anni, si è impiccato nel carcere di Novara. “Con un cappio rudimentale”, riferisce il sindacato della penitenziaria. Era detenuto per reati di droga. Immagine da Openverse di Clarita82, Asinara 26 giugno 2024: Francesco Fiandanga di 28 anni, che lavorava nella cucina ed era impegnato in diverse attività rieducative, si è impiccato nel carcere ‘Malaspina’ di Caltanissetta. 27 giugno 2024: Luca D’Auria, un ragazzo di 21 anni, già sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, si è ucciso inalando gas nel carcere di Frosinone. 27 giugno 2024: egiziano, 47 anni, stava scontando una condanna. Si è impiccato con la cintura nel carcere genovese di Marassi. 1 luglio 2024: Giuseppe Spolzino, un ragazzo di 21 anni, si è impiccato nel carcere di Paola. Nel maggio del 2027, a 24 anni, avrebbe potuto ricominciare, uscendo. 2 luglio 2024: un uomo di cui non sono note le generalità si è ucciso nel carcere di Livorno a 35 anni. 4 luglio 2024: Yousef Hamga, 20 anni, egiziano, si è impiccato nella casa circondariale di Pavia. 4 luglio: nel carcere Sollicciano di Firenze si è tolto la vita il ventenne Fedi Ben Sassi. Poco prima di uccidersi, era saltata per mancanza di connessione una sua chiamata alla madre in Tunisia. 7 luglio 2024: Vincenzo Urbisaglia, accusato dell’omicidio della moglie, si è ucciso a 81 anni nel carcere di Potenza. Ai legali era stata negata pochi giorni prima la scarcerazione chiesta per il suo stato psicofisico. 9 luglio 2024: Fabrizio Mazzaggio, 57 anni, si è impiccato nel bagno della sua cella a Varese. Aveva problemi di tossicodipendenza. 12 luglio 2024: Fabiano Visentini, 51 anni, si è ucciso a Verona Montorio. 13 luglio 2024: un uomo di 45 si è suicidato a Monza chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica nella cella dove stava da solo. 15 luglio 2024: Alessandro Patrizio Girardi, 37 anni, detenuto per spaccio, si è impiccato nella sua cella nella casa circondariale Santa Maria Maggiore a Venezia dove stava per reati legati alla droga. 21 luglio 2024: alla Dozza di Bologna si è tolto la vita Musta Lulzim, 48 anni, albanese. È stato trovato impiccato nella sua cella infuocata dall’estate. 25 luglio 2024: Giuseppe Pietralito, 30 anni, si è ammazzato in cella a Rebibbia dopo avere manomesso la porta per ritardare i soccorsi. Aveva saputo da poco che sarebbe uscito nel 2026, 4 anni prima del previsto perché gli era stata riconosciuta la continuazione dei reati. “Ma non ho un lavoro, nessuno crederà in me”, aveva detto ai suoi legali. 27 luglio: ennesimo suicidio a Prato dove un giovane di 26 anni si è tolto la vita. 28 luglio 2024: Ismael Lebbiati, 27 anni, fine pena previsto nel 2032, si è impiccato nel carcere di Prato dove nelle ore precedenti c’era stata una rivolta. 30 luglio 2024: Kassab Mohammad si è suicidato a 25 anni nel reparto isolamento del carcere di Rieti dov’era stato portato dopo i disordini del giorno prima. 3 agosto 2024: un recluso marocchino, 31 anni, senza dimora, si è impiccato nel carcere di Cremona. 5 agosto: nel bagno del Tribunale di Salerno, dopo la convalida del suo arresto, si è ammazzato stringendosi un cappio al collo Luca Di Lascio, arrestato per codice rosso. 5 agosto 2024: a Biella, A.S., albanese, 55 anni, stava facendo lo sciopero della fame perché aveva chiesto di essere trasferito in un carcere più vicino ai suoi familiari. Poi, si è ucciso. 7 agosto: 35 anni, tunisino, si è tolto la vita impiccandosi con un laccio dei pantaloni nel carcere di Prato. Non si uccidono così anche i cavalli? Forse però, a ben guardare, come nel film di Sydney Pollack del 1969, anche qui fa capolino, fra disumanità e indifferenza, anche un goloso business. Si tratta della nuova “impresa” firmata dall’allora presidente del consiglio Mario Monti nel 2012 e oggi in via di attuazione a opera del ministro della giustizia Nordio, della privatizzazione delle prigioni. È infatti Bolzano il luogo del primo carcere privato italiano secondo la più rodata tradizione delle privatizzazioni all’italiana: lo Stato mantiene la gestione della sicurezza e quindi le spese e le linee di indirizzo per il lavoro di polizia penitenziaria ed educatori, mentre il privato si occupa di tutto il resto, dalla costruzione alla gestione, comprese le attività sportive, formative e ricreative. Questo significa che la funzione rieducativa del carcere, prevista dalla nostra Costituzione, sarà regolata da un attento calcolo di costi e ricavi, magari a discapito della qualità. E nel Ddl Nordio approvato lo scorso agosto si va oltre facendo riferimento a “strutture” non meglio definite che dovrebbero affiancare gli istituti di pena. Tanto che il Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza (Cnca) ha denunciato la volontà del governo di creare carceri private definite “comunità chiuse in stile Muccioli”. Pugno di ferro con manifestanti e piccoli criminali, guanto di velluto coi colletti bianchi di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2024 La giustizia doppia dei due anni del Governo Meloni. La riforma penale, la stretta alle intercettazioni, l’abolizione dell’abuso d’ufficio: in 24 mesi l’esecutivo ha indebolito i provvedimenti per colpire le condotte tipiche delle classi dirigenti. Moltiplicati invece i reati per punire borseggiatori, occupanti abusivi di case, manifestanti ambientalisti e pacifisti. Come si fa a velocizzare i tempi della giustizia? “Con una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”. Ne era sicuro Carlo Nordio, solo pochi minuti dopo aver giurato da guardasigilli. Un’affermazione che aveva provocato curiosità negli addetti ai lavori. In campagna elettorale né Fratelli d’Italia, il partito che ha eletto Nordio in Parlamento, né le altre forze della maggioranza avevano annunciato un’organica riduzione dei reati. E infatti si sono perse le tracce di qualsiasi forma di depenalizzazione. Dopo due anni trascorsi al governo del Paese si può dire che Nordio parlava a titolo personale. E che evidentemente le sue idee sulla giustizia non sono tutte condivise all’interno del Governo. Finora, infatti, l’esecutivo e il Parlamento hanno seguito una linea opposta rispetto a quella anticipata dal guardasigilli: invece di cancellare i reati più inutili ne hanno creato almeno sei nuovi, aggravandone altri. Di fattispecie abolite, invece, al momento se ne registra soprattutto una: l’abuso d’ufficio, non esattamente il principale colpevole dell’ingolfamento delle aule di tribunale. Pugno di ferro e guanto di velluto - Nel 2021, su circa un milione di procedimenti, erano appena cinquemila quelli finiti davanti ai gip e ai gup per abuso d’ufficio. Un reato elitario, previsto da tutti i Paese Ue, che però aveva il torto di far finire nei guai politici e amministratori pubblici. È questo il comune denominatore dell’attività di questo Governo sul fronte della giustizia: è stato indebolito il sistema di prevenzione per alcuni reati che sono spesso contestati agli esponenti della classe politica, ai grandi imprenditori e ai top manager. In ventiquattro mesi i provvedimenti per colpire le condotte dei cosiddetti colletti bianchi sembrano scritti usando il guanto di velluto. Nel frattempo, invece, è stato usato il pugno di ferro con le fasce più deboli della popolazione: i manifestanti, i piccoli delinquenti, chi ha il torto di essere nato nelle zone più complesse del Paese. Su questo fronte va sottolineato un aspetto: finora il governo Meloni ha tenuto il punto sul fronte della lotta alla mafia, a cominciare dalla norma che ha messo in sicurezza l’ergastolo ostativo. Diverso, invece, l’atteggiamento nei confronti di quei soggetti che rappresentano i complici principali di Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra. E che spesso garantiscono l’impunità alle stesse organizzazioni criminali. Ma andiamo con ordine. Migranti e Rave - Il primo reato ideato dal Governo di Giorgia Meloni arriva subito, solo poche settimane dopo l’insediamento. Nel dicembre del 2022, infatti, l’esecutivo ha varato il cosiddetto decreto Rave per punire i raduni musicali abusivi: da tre a sei anni per chi “organizza o promuove l’invasione di terreni o edifici”. Poi è arrivato il decreto Cutro, battezzato come la città calabrese teatro dell’ultima strage di migranti: per combattere gli scafisti, il Governo aveva inventato la fattispecie di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” con pene comprese tra i 10 e i 30 anni di carcere. Il provvedimento imponeva in origine pure una cauzione da cinquemila euro che doveva essere garantita dai richiedenti asilo: un po’ complesso disporre di una cifra simile per chi è arrivato sulle nostre coste con un barcone. Anche per questo motivo il decreto era stato disapplicato dal giudice di Catania Iolanda Apostolico, facendo scoppiare uno scontro clamoroso tra il Governo e la magistratura. Sarebbe stato il primo di una serie ancora aperta. Punire la miseria - Non era arrivata alcuna contestazione per il decreto Caivano, chiamato come l’omonimo comune del Napoletano diventato tristemente noto per le “stese”, cioè le minacce compiute sparando in aria dalle baby gang legate ai clan di Camorra. Per punire queste condotte è entrato nel codice il reato di “pubblica intimidazione con uso d’armi”: si rischia fino a otto anni. Lo stesso provvedimento ha poi inasprito le sanzioni per chi non manda i figli a scuola: prima si rischiava una multa, adesso fino a due anni di galera. Sono stati approvati quasi all’unanimità da Parlamento - su proposta di esponenti di Fdi - le nuove fattispecie di “omicidio nautico” e di “lesioni personali nautiche gravi o gravissime”. La fabbrica dei reati - È stato per il momento approvato solo alla Camera, invece, il ddl Sicurezza, che è praticamente una fabbrica di nuovi reati: punisce - fino a sette anni di carcere - “l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, una condotta praticamente già sanzionata da altri articoli del codice (e pure dal dl Rave). Tra le new entry anche la detenzione di materiale con finalità di terrorismo: rischi fino a sei anni se scarichi da internet un manuale sulla fabbricazione di bombe molotov. Viene trasformato da illecito amministrativo a penale il blocco stradale: prima si rischiava una multa fino a quattromila euro, ora fino a due anni di galera. L’hanno ribattezzata legge anti Ghandi: per finire in carcere basta partecipare a una protesta pacifica che blocca il traffico. Una modifica che sembra stata varata gli attivisti di Ultima generazione. Gli ambientalisti sono l’obiettivo anche della stretta per il reato di deturpamento e imbrattamento di beni pubblici: pene triplicate (fino a 18 mesi di reclusione e tremila euro di multa) se si colpiscono palazzi che ospitano sedi istituzionali. Aumentate anche la sanzioni per i danneggiamenti (fino a cinque anni di carcere e 15mila euro) e quelle per chi minaccia un pubblico ufficiale per “impedire la realizzazione di un’opera pubblica”: sono le condotte tipiche dei manifestanti anti Tav o anti Ponte sullo Stretto, che avranno pene aumentate fino a un terzo (fino a vent’anni di carcere). Altro nuovo reato è la rivolta all’interno dell’istituto penitenziario: chi si ribella può avere la condanna allungata anche di otto anni. Stesso principio varrà dentro i centri di accoglienza per migranti. Pene aumentate anche per chi sfrutta i minori, inviandoli a chiedere l’elemosina, mentre si potranno tenere in carcere anche le donne incinte e le madri con figli neonati: norma che sembra studiata per colpire il fenomeno delle borseggiatrici nelle metro. Sicuramente un problema, ma non esattamente un’emergenza tale da meritare una condotta ad hoc. Vietato arrestare corrotti - Sono invece ancora liberi gli esponenti di un gruppo di presunti spacciatori, che - come ha raccontato Il Fatto Quotidiano - hanno potuto comodamente leggere le accuse ai loro danni dall’ordinanza di custodia cautelare. Dopo aver appreso dalle carte pure il nome del soggetto che li aveva denunciati, sono andati a minacciarlo. È solo uno degli effetti nefasti del ddl firmato da Nordio. Mentre Parlamento e Governo producevano nuovi reati, infatti, il ministro è riuscito a fare approvare la sua riforma della giustizia penale, che ha dedicato a Silvio Berlusconi. Omaggio azzeccato. Tra le altre cose, la norma rende più difficile l’arresto delle persone accusate di reati contro la pubblica amministrazione. In pratica quando la richiesta di misura cautelare è motivata dal pericolo di reiterazione del reato, il gip deve emettere un “avviso di arresto”. L’hanno chiamato “contraddittorio preventivo: l’indagato deve essere interrogato, poi sarà il giudice a decidere se arrestarlo o lasciarlo a piede libero. Solo che nelle legge si sono dimenticati d’inserire dei limiti precisi entro i quali deve esprimersi il tribunale. E infatti Cristian Goracci, amministratore della società dei rifiuti dell’Umbria, ha atteso per giorni di conoscere il suo futuro, dopo essere stato interrogato in un’inchiesta per corruzione della procura di Perugia. Spacciatori liberi - Ma quello non è l’unico buco della riforma. Visto che la reiterazione del reato è la motivazione usata spesso dai pm per chiedere di arrestare i presunti spacciatori di droga, infatti, dell’avviso di arresto stanno beneficiando anche numerosi pusher. È successo a Napoli, mentre a Milano ne hanno beneficiato alcuni narcos coinvolti in un’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Lombardia. A Palermo, invece, alcuni ladri specializzati in furto di automobili dovevano essere arrestati a fine settembre: grazie a Nordio sono rimasti in libertà e saranno interrogati soltanto a fine ottobre, dato che nel capoluogo siciliano ci sono pochi giudici e troppi procedimenti. A questo proposito va capito cosa succederà tra due anni, quando a decidere sulle misure cautelari non sarà più un solo giudice per le indagini preliminari, ma ben tre. Considerando che il gip non può più occuparsi delle successive fasi del procedimento, la riforma Nordio rischia di paralizzare gli uffici più piccoli. Ecco perché l’entrata in vigore di questa modifica è stata prorogata al 2026: il tempo, però, scorre. Traffico d’influenze? Solo cash - L’arresto dei colletti bianchi sarà ancora più difficile quando il Governo dovrà dare seguito all’Ordine del giorno depositato da Enrico Costa e poi approvato dalla maggioranza: per tutta una serie di reati la misura cautelare per pericolo di reiterazione non si potrà applicare alle persone incensurate. Chi non ha precedenti si potrà arrestare solo se accusato di mafia, terrorismo, furto. Liberi invece gli incensurati sospettati di corruzione o la concussione. La riforma Nordio depotenzia anche un altro reato tipico delle classi dirigenti, il traffico d’influenze illecite: per essere punibile il mediatore dovrà sfruttare “intenzionalmente” le relazioni con il pubblico ufficiale, che dovranno essere “esistenti” e non più solo “asserite”: niente rapporti solo millantati. In più l’eventuale utilità data o promessa dovrà essere “economica”: non basteranno i favori diversi da quelli monetizzabili. Solo contanti col Governo Meloni, ma questo si sapeva: tra i primi atti della nuova maggioranza, infatti, c’è anche l’innalzamento a cinquemila euro del tetto al denaro contante. Bavagli e omissis - Molto corposo anche il capitolo dei bavagli: è già in vigore (e ha già fatto molteplici danni) quello introdotto da Marta Cartabia, che silenzia le fonti giudiziarie con la scusa della presunzione d’innocenza europea, Il centrodestra si è subito messo in pari col Governo di Mario Draghi, approvando quello proposto dal solito Costa sulla pubblicazione delle ordinanze cautelari da parte dei giornali. Una stretta che gli esponenti di Fdi vorrebbero addirittura potenziare. Solo per fare un esempio: se il bavaglio Costa fosse stato già approvato, avremmo saputo davvero poco dell’indagine anti corruzione che ha portato all’arresto dell’ex governatore della Liguria Giovanni Toti. Già approvato con la riforma di Nordio, invece, il divieto di pubblicazione delle intercettazioni contenute nelle richieste delle procure o nelle informative. Sarà omissato, inoltre, il nome di terze persone non coinvolte nelle indagini, ma citate nelle conversazioni registrate. L’indagato nell’inchiesta sulle presunte tangenti Anas parlava al telefono di un “accordo fatto con quelli della Lega di futura collaborazione con Matteo e con noi tramite Freni”? Oggi andrebbero sbianchettati sia i riferimenti a “Matteo” che quelli al sottosegretario all’Economia. Intercettare meno per scoprire meno reati - D’altra parte quello sulle intercettazioni è un chiodo fisso di Nordio, che ne ha più volte contestato il costo. Subito dopo l’insediamento, il ministro ha provocato roventi polemiche, sostenendo che i boss mafiosi “non parlano al telefonino” per commettere reati. Poche settimane dopo le intercettazioni sono state fondamentali per interrompere la latitanza trentennale di Matteo Messina Denaro. Un’altra occasione in cui la realtà si è incaricata di smentire l’operato del Governo risale a pochi giorni fa: è finito agli arresti mentre intascava una tangente da 15mila euro Paolo Iorio, direttore generale Business di Sogei, l’azienda del Ministero dell’Economia che si occupa di sicurezza informatica. Anche per quell’inchiesta sono state fondamentali le intercettazioni, che sette giorni prima hanno subito un’ulteriore stretta. Il Senato, infatti, ha appena dato il primo via libera alla norma che abbassa a 45 giorni il limite massimo per gli ascolti durante le indagini, con proroghe possibili solo quando dalle captazioni emergono nuovi elementi. Nell’inchiesta sul manager Sogei le prime intercettazioni risalgono al novembre del 2023, undici mesi prima dell’arresto: se la nuova norma fosse stata già approvata, Iorio sarebbe probabilmente ancora in libertà. Con strumenti d’indagine più deboli si scopriranno meno illeciti e dunque si celebreranno meno processi. Forse era questa la depenalizzazione promessa da Nordio: solo che non si tratta di abolire i reati, ma di evitare di scoprirli. Morace (Ocf): “Con il Ddl Sicurezza il governo promuove misure autoritarie” Italia Oggi, 23 ottobre 2024 Il responsabile dell’Organismo congressuale forense: nonostante alcune recenti riforme processuali siano state in linea con le richieste dell’avvocatura, il diritto penale è stato progressivamente modificato in senso repressivo e autoritario. L’Organismo Congressuale Forense (OCF) esprime grande preoccupazione per l’indirizzo intrapreso dal Governo in tema di azione penale e risposta giudiziaria, ritenendolo lesivo degli interessi dei cittadini e contrario ai valori fondamentali di una società giusta e democratica. L’ultimo disegno di legge, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza”, già approvato dalla Camera dei Deputati, rappresenta solo l’ennesimo tassello di una serie di riforme che mirano a creare uno Stato oppressivo. I diritti dei cittadini sono costantemente compressi e messi a rischio dall’ipotesi di incriminazioni e condanne, perfino per l’espressione di opinioni dissenzienti. “Con questo ddl Sicurezza, il Governo sta promuovendo un diritto penale autoritario, che colpisce le fasce più deboli della società: senzatetto, immigrati, detenuti e persino chi manifesta dissenso. Queste modifiche non affrontano i veri problemi, come il sovraffollamento carcerario o i suicidi tra i detenuti, ma rafforzano un sistema repressivo fondato sul carcere come strumento di controllo sociale”, afferma Carlo Morace, responsabile del Gruppo Penale dell’OCF. Nonostante alcune recenti riforme processuali siano state in linea con le richieste dell’avvocatura, il diritto penale è stato progressivamente modificato in senso repressivo e autoritario. Piuttosto che perseguire un modello di diritto penale “minimo”, ispirato a criteri di proporzionalità e ragionevolezza, il Governo ha optato per un “diritto penale massimo”, basato sull’errata convinzione che l’aumento delle pene e una maggiore criminalizzazione possano risolvere i problemi sociali. È un diritto penale che rischia di sminuire qualunque modifica, anche la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, che vedrebbe ridotta la sua efficacia a fronte di un sistema penale sempre più vincolante per il giudice. Negli ultimi due anni, abbiamo assistito all’introduzione di nuovi reati di pericolo, puniti con pene eccessive, che hanno portato alla criminalizzazione di raduni e assembramenti, anche quando questi sono pacifici. Allo stesso tempo, si è verificato un costante aumento delle pene già esistenti, spesso adottato come risposta emotiva a fatti di cronaca, accompagnato dall’aggiunta di circostanze aggravanti che rappresentano una manifestazione di un crescente populismo penale. Un altro aspetto preoccupante è stata l’estensione della detenzione carceraria anche ai minorenni. Inoltre, sono state introdotte nuove misure di prevenzione che hanno dato vita a una sorta di “terzo binario”, caratterizzato da pene detentive, sorveglianza speciale e interventi patrimoniali, con conseguenze significative sulla libertà economica e imprenditoriale. L’OCF considera sbagliata l’introduzione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene, specialmente nei confronti delle categorie più vulnerabili. Questo orientamento squilibra il rapporto tra Stato e cittadini, mettendo a rischio i principi costituzionali che garantiscono i diritti fondamentali. L’OCF esorta il Governo a riconsiderare il ddl Sicurezza e ad avviare un confronto costruttivo con l’avvocatura, per promuovere riforme autenticamente liberali, in difesa delle libertà dei cittadini. La mediazione discreta del Quirinale. Ma tra toghe e governo è tregua armata di Paolo Delgado Il Dubbio, 23 ottobre 2024 Mentre il decreto sui Paesi sicuri viene discusso, rimangono tensioni e incognite su come le forze giudiziarie risponderanno alle nuove norme. La pretesa di stabilire come è finito il braccio di ferro sul protocollo tra Italia e Albania dopo il dl del governo sui paesi sicuri, passati da 22 a 19, è un po’ assurda. La replica dell’esecutivo alla sentenza che ha imposto il ritorno dei 12 migranti egiziani e bengalesi dall’hot spot costruito in Albania non è una mossa decisiva e finale. Non voleva e non poteva esserlo. In termini pokeristici la si potrebbe definire un rilancio che evita però di andare ai resti, cioè di mettere l’intera posta a disposizione del governo sul tavolo. Il decreto si limita a passare da norma secondaria, cioè amministrativa, a norma primaria, cioè legge, la lista dei Paesi sicuri. In questo modo i ministri della Giustizia e degli Interni, Nordio e Piantedosi, si dicono certi che la magistratura sia obbligata a applicare la norma primaria salvo ricorrere alla Corte costituzionale ove ritenga che il decreto contravviene alle norme europee, che rivestono valore costituzionale. Nel decreto non figura invece alcun accenno all’eventuale scippo della competenza in materia, per qualsiasi via inclusi i ricorsi, ai danni dei tribunali e in particolare della Sezione Immigrazione del tribunale di Roma. Il testo è stato certamente concordato con gli uffici legislativi del Quirinale e nella maggioranza ammettono che si è trattato di una trattativa difficile. Altrettanto certamente l’intervento del Colle ha spinto con molta decisione i ministri ad abbassare i toni e a mettere da parte gli assalti all’arma bianca vagheggiati e anzi annunciati alla vigilia. La stessa decisione della premier di rinviare la conferenza stampa convocata per ieri mattina risponde probabilmente anche all’esigenza di evitare un appuntamento nel quale per Giorgia sarebbe stato impossibile evitare toni contundenti nei confronti della magistratura. Ma nella sostanza la tentazione di andare oltre il passaggio a norma primaria della lista dei Paesi sicuri non c’è mai stata. Significherebbe arrivare a uno scontro istituzionale apocalittico, che vedrebbe inevitabilmente in campo anche il capo dello Stato. Il sottosegretario Mantovano ha minacciato di percorrere quella strada forse senza sbocco con la formula ‘Ulteriori interventi non sono esclusi’ ma è evidente che la premier preferirebbe immensamente non percorrere quella strada e non è affatto detto che sia disposta a un tale azzardo anche qualora i magistrati si rifiutassero di applicare la norma varata per decreto sostenendo che le leggi europee sono ‘gerarchicamente superiori’ come ha già fatto Magistratura democratica. La formula che propone il governo è una sorta di resa non incondizionata della magistratura competente, che dovrebbe piegarsi alla legge ricorrendo però alla Consulta. Se però la Sezione Immigrazione deciderà di muoversi in altro modo e di ignorare il decreto, cioè se rilancerà ulteriormente sul rilancio del governo, la crisi diventerà ingovernabile o rischierà seriamente di diventarlo. Di fatto ci sono in campo almeno quattro incognite determinanti. La prima è la posizione di Sergio Mattarella. Il decreto è stato discusso nei dettagli con il Colle ma diplomaticamente il Quirinale faceva sapere lunedì sera che il presidente non avrebbe avuto tempo di leggerlo essendo impegnato nella cena di Stato con l’emiro del Qatar. Mattarella insomma si è tenuto tutte le porte aperte, inclusa l’eventualità di negare la sua firma o di ritardarla per lanciare un segnale preciso o ancora di intervenire con parole ben più puntuali di quelle pronunciate domenica scorsa che in realtà alludevano al conflitto di questi giorni solo molto di striscio. La seconda incognita è l’Europa. Il ministro Nordio ha affermato che i magistrati di Roma hanno interpretato per così dire a modo loro e in contrasto con il testo la sentenza della Corte di Giustizia Europea. Il protocollo con l’Albania è stato approvato, sostenuto e sponsorizzato dalla presidente della Commissione von der Leyen. Solo l’Europa dunque potrebbe fare chiarezza, specificare l’interpretazione reale della sentenza e così risolvere in un colpo solo la vertenza, avendo il governo dichiarato di voler rispettare la medesima sentenza. Solo che non è affatto detto che l’Europa voglia e, date le lacerazioni interne, possa farlo. La terza incognita dipende da come deciderà di muoversi il governo in merito ai trasferimenti in Albania. Per ora il decreto è lettera morta. La campanella del nuovo round suonerà solo quando il governo disporrà un ulteriore trasferimento. Il nodo arriverà comunque al pettine prima o poi ma rinviare il momento della verità permettendo così un abbassamento della tensione oggi estrema o scegliere subito lo showdown non sarebbe certo la stessa cosa. L’ultima variabile, quella decisiva, riguarda la reazione dei magistrati di Roma a un eventuale nuova partenza di immigrati per l’Albania. Una nuova sentenza che, ignorando il decreto in nome della prevalenza della legge europea, non convalidasse il trattenimento dei migranti vorrebbe dire dar fuoco alle polveri. Magistratura Indipendente “rifiuta” l’invito all’unità. Toghe spaccate sul caso Albania di Simona Musco e Valentina Stella Il Dubbio, 23 ottobre 2024 La corrente “di destra” non firma la richiesta di una pratica a tutela dei magistrati di Roma: il documento non prende le distanze dalle critiche della giudice Albano alle politiche migratorie del governo. Fontana: “Un segnale preoccupante, oggi la spinta propulsiva al cambiamento degli assetti costituzionali è così forte che non si riesce a tenere unita la magistratura”. Per un intero fine settimana, una parte delle toghe del Consiglio superiore della magistratura ha lavorato nel tentativo di convincere i colleghi di Magistratura indipendente che era il caso di prendere posizione. Non per difendere il merito dei provvedimenti della sezione immigrazione del Tribunale di Roma, che ha ritenuto illegittimi i trattenimenti dei migranti in Albania, ma per contrastare la “campagna in atto contro la magistratura”. E data la decisione di Mi di non sottoscrivere la pratica a tutela dei magistrati romani, chiesta oggi da 16 consiglieri (quindi la maggioranza del plenum), la conseguenza immediata, si legge nelle chat e nelle mail, è quella di offrire l’immagine di una “frattura” nel mondo della magistratura, immagine che “verrà certamente cavalcata” e che “non ci voleva in un momento tanto grave”. Il richiamo all’unità, “a fronte della gravità e palese infondatezza degli attacchi ai magistrati” è dunque fallito. Per giornali di destra si trattava di una chiamata alle armi contro il governo Meloni. L’idea era però quella di inviare un “segnale di una compattezza della magistratura”. Ma tale unità sembra non esserci. Anzi, l’idea è che le divisioni siano proprio dettate da logiche politiche e di campagna elettorale, in vista del rinnovo dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati. Il testo della richiesta di pratica a tutela era stato pensato per essere bipartisan, “incentrato chiaramente ed esclusivamente sulla difesa della giurisdizione, a prescindere ovviamente da valutazione nel merito dei provvedimenti”. Mi, però, ha rifiutato l’offerta rilasciando un breve comunicato, che rafforza l’idea di una scelta politica: pur esprimendo “solidarietà ai colleghi del tribunale di Roma” e dicendosi certi del fatto che abbiano, “in coscienza, applicato il diritto con professionalità e indipendenza”, la richiesta sarebbe carente di un punto: “La necessaria presa d’atto della inopportunità delle dichiarazioni pubbliche in precedenza rilasciate da un componente della sezione immigrazione, firmatario dei provvedimenti, con le quali era già stata più volte manifestata una precisa e netta posizione di contrarietà alla normativa da applicare”. Il riferimento è alla toga di Magistratura democratica, Silvia Albano, che aveva criticato pubblicamente il piano del governo dei cpr in Albania. “Le critiche su provvedimenti giudiziari sono legittime - hanno sottolineato Paola D’Ovidio, Maria Vittoria Marchianò, Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti, Eligio Paolini e Dario Scaletta, toghe di Mi in Csm -, ma devono essere ispirate a criteri di continenza ed ancorate alla motivazione giuridica ivi espressa”. Niente più che la solidarietà, dunque. La pratica è stata sottoscritta da tutti i togati - Area, Magistratura democratica, Unicost e gli indipendenti Roberto Fontana ed Andrea Mirenda - e tre laici - Ernesto Carbone, Michele Papa e Roberto Romboli. Ma cosa prevede? “Le critiche alle decisioni giudiziarie non possono travalicare il doveroso rispetto per la magistratura: applicare e interpretare le leggi di fonte nazionale e sovranazionale nei singoli casi non significa occuparsi di politiche migratorie o di altro genere” si legge nel documento sul quale si esprimerà tra pochi giorni il Comitato di presidenza, composto dal vicepresidente Fabio Pinelli e dai vertici della Cassazione, la prima presidente Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato. I consiglieri di Palazzo Bachelet evidenziano la sostanziale inevitabilità della soluzione adottata dal tribunale di Roma alla luce della pronuncia della Cgue: “I provvedimenti attaccati - sui quali non si esprime alcuna valutazione di merito - si fondano sulle decisioni della Corte di Giustizia europea, vincolanti per i giudici nazionali, e sulle informazioni predisposte dallo stesso ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale”. Tanto che tra le toghe, anche al di fuori dai vincoli associativi, circola l’idea che quella del governo sia stata una mossa studiata: farsi bocciare il piano Albania per poter rilanciare la battaglia contro la magistratura. “Le ordinanze del Tribunale di Roma - se non condivise - possono essere impugnate innanzi alla Corte di Cassazione - continua la nota -, come peraltro avvenuto in un caso similare di qualche mese fa e riferito alla cauzione prevista dal c.d. decreto Cutro, altro momento di tensione tra toghe e politica. Il documento si conclude sostenendo che “le dichiarazioni di queste ore da parte di importanti rappresentanti delle istituzioni alimentano un ingiustificato discredito nei confronti della magistratura, tanto da imporre l’apertura di una pratica a tutela della sua indipendenza e autonomia”. A commentare apertamente la scelta dei togati di Mi è l’indipendente Fontana, che ha definito “molto preoccupante” la scelta dei colleghi. “Se sei magistrati del Tribunale di Roma emettono delle ordinanze con cui non convalidano dei trattenimenti di immigrati, applicando un orientamento interpretativo che è frutto di un approfondito confronto che ha coinvolto tutti i magistrati componenti la sezione, e queste ordinanze - ritenute da più parti molto solide - e i magistrati che le hanno adottate vengono fatte oggetto di un violento attacco, non risulta ragionevolmente comprensibile per quale ragione una precedente presa di posizione, nella fase del dibattito sul varo delle nuove norme, da parte di un magistrato della sezione dovrebbe far venire meno l’esigenza di un’iniziativa a tutela del complesso dei magistrati della sezione - scrive in una mail indirizzata ai colleghi -. Ma il rilievo più grave attiene all’idea, sottesa al comunicato, che i magistrati non possano prendere posizione nell’ambito del dibattito che precede il varo di nuove norme, pena il dovere di astensione quando quelle norme, una volta approvate, diventano oggetto di applicazione”. Una posizione che dovrebbe rendere incompatibile un numero enorme di magistrati, data la quantità di commenti giornalmente sciorinata dalla magistratura sui vari interventi legislativi. “Ero certo che si sarebbe arrivati ad una richiesta sottoscritta da tutti i consiglieri togati, nella convinzione che sui temi di fondo, con i dovuti distinguo e le opportune precisazioni, alla fine una linea di azione condivisa la di debba trovare sempre - continua Fontana -. Questo mi fa pensare che oggi la spinta propulsiva al cambiamento degli assetti costituzionali è così forte che non si riesce a tenere unita la magistratura e nella specie i consiglieri togati del Csm su una presa di posizione che fino a poco tempo fa avremmo tutti ritenuto scontata. Mi pare che questi siano i segnali che ci si sta preparando anche sul piano culturale ai nuovi assetti. La divisone di oggi in Consiglio è una grave sconfitta perché, pur riguardando una vicenda specifica - ma anche di grande valore simbolico per la chiarezza con cui si attacca direttamente l’attività giurisdizionale in quanto tale (peraltro in un ambito diverso da quello tradizionale dell’azione penale in materia di reati contro la Pa o di rapporti tra politica e fenomeni mafiosi) - veicola il messaggio , soprattutto a chi vuole fortemente il mutamento degli assetti costituzionali ma più in generale all’opinione pubblica, che un varco si sta aprendo, anche all’interno della magistratura, sul piano anzitutto dell’introiezione progressiva di un modello di magistratura in linea con gli scenari che si stanno delineando per quanto attiene ai rapporti con gli altri poteri istituzionali”. Nel dibattito è intervenuta anche l’Anm, che con una nota ha chiesto il rispetto della giurisdizione “come esercizio di una funzione del tutto autonoma ed indipendente. Non può attendersi dalla magistratura che assuma decisioni ispirate dalla necessità di collaborazione con il governo di turno. Se agisse facendosi carico delle attese della politica, la Magistratura tradirebbe il mandato costituzionale”, afferma la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati in una nota. Critico anche il gruppo Articolo 101: “Neanche ai tempi di Silvio Berlusconi vi era tanto accanimento e tanta acrimonia nei confronti della magistratura - si legge in una nota -. Queste condotte costituiscono chiare intimidazioni e interferenze nei confronti di un potere dello Stato”. Costa: “874 milioni per le ingiuste detenzioni. Sbagliano i giudici, paghiamo noi contribuenti” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 23 ottobre 2024 Forza Italia spinge tutto il centrodestra a sostenerlo. A breve in Commissione. Enrico Costa (Forza Italia) è l’infaticabile garantista che in Parlamento ha presentato più iniziative di legge di chiunque altro per arginare quello non pochi definiscono strapotere giudiziario. Adesso osa dove nessuno ha mai osato: dice addirittura che chi fa spendere milioni di euro per migliaia di errori giudiziari potrebbe esserne chiamato a risponderne. “Questo emendamento nasce da lontano, dal mio interesse sul tema delle ingiuste detenzioni”. Quante sono, in Italia? “Le persone indennizzate dallo Stato sono state, dal 1992 ad oggi, 31.000. Una cittadina di medie dimensioni interamente popolata di innocenti che sono stati ingiustamente incarcerati. Detenuti poi del tutto assolti”. Sono tantissimi! “Ma sono una punta dell’iceberg. Oltre il 70% di chi fa domanda se la vede respingere per vizi formali o concorso all’errore del magistrato con colpa grave”. Chiedo scusa, forse non ho capito. Un innocente viene messo in carcere perché ha indotto con colpa grave il magistrato a condannarlo per errore? Praticamente autolesionismo… “Sì, era così fino a poco fa. Era una assurdità per la quale ho fatto approvare io un emendamento correttivo nella legge Cartabia. C’era secondo i magistrati una colpa grave quando l’imputato si rifiutava di rispondere all’interrogatorio (come è però suo diritto) o quando avesse avuto tra i suoi amici dei soggetti criminali”. Lo Stato quanto spende per risarcire dei suoi errori giudiziari? “Una cifra voluminosa, nel suo complesso: dal 1992 ad oggi 874 milioni di euro in indennizzi. 27 milioni l’anno in media”. È normale che lo Stato paghi e non batta ciglio? Nessuno ne chiede conto ai responsabili di quegli errori? “Non è normale, non è logico. Se un sindaco fa un esborso eccessivo, la Corte dei conti accende subito un faro e le responsabilità sono enormi. Invece questi pagamenti per gli errori dei magistrati vengono considerati errori fisiologici il cui costo è interamente riversato sui cittadini”. Cosa prevede il suo emendamento? “Quando lo Stato è condannato a pagare, deve trasmettere gli atti alla Corte dei Conti che deve valutare se c’è una responsabilità, che scatta in caso di dolo o colpa grave. In molti casi potrebbe non esserci responsabilità, ma deve esserci almeno un vaglio, che però sui magistrati non c’è mai”. Del resto non c’è neanche una valutazione sugli errori giudiziari, al di là del danno economico per lo Stato... “Non c’è un’analisi sull’esito delle attività, sulle inchieste flop, su chi vede spesso le sue inchieste ribaltate… c’è un avanzamento di carriera per anzianità che disincentiva i magistrati più bravi. E sul piattume proliferano le correnti. Un tassello per introdurre un criterio di merito è quello di valutare l’impatto economico degli errori giudiziari e capire chi ne causa di più, dove e perché”. Il centrodestra sosterrà la sua proposta di legge? “Forza Italia la fa sua, il centrodestra sarà conseguente, penso sarà presto incardinato in Commissione”. Bari. Suicidio in carcere di Giuseppe Lacarpia: tutti i dubbi sulla morte, aperta un’inchiesta di Nicolò Delvecchio Corriere della Sera, 23 ottobre 2024 Il 65enne era detenuto in carcere per l’omicidio della moglie 60enne, Maria Turturo, avvenuto il 6 ottobre scorso. La figlia, sui social, pubblica emotion di festa, ma precisa: “Non è un festeggiamento, è giustizia per mamma”. Lunedì aveva chiesto e ottenuto il permesso per visitare la tomba della moglie nel cimitero di Gravina, nel quale si era soffermato per un’oretta di pomeriggio, in orario di chiusura. Poche ore dopo, di notte, ha legato un’estremità del lenzuolo alle sbarre del letto e l’altra al suo collo, togliendosi la vita nella sua cella del carcere di Bari. Giuseppe Lacarpia, il 65enne di Gravina in Puglia fermato lo scorso 6 ottobre per l’omicidio della moglie, la 60enne Maria Arcangela Turturo, ha scritto così la parola fine a una tragedia familiare iniziata due settimane fa ma che, in realtà, andava avanti da molto più tempo. Perché prima della morte della donna c’erano state le botte, le denunce, i processi, il tentativo di accoltellare il figlio intervenuto per difendere la madre durante una lite. E anche due precedenti tentativi di suicidio per i quali era stato già ricoverato in ospedale. Una situazione molto problematica, al punto che una delle figlie della coppia, Antonella, ieri ha commentato la notizia del suicidio su Facebook con delle emoticon festanti: “Sono tutte le preghiere fatte per mamma”, ha scritto sui social. Salvo poi precisare: “Non è un festeggiamento, è giustizia per la mia mamma”. La vicenda giudiziaria, però, potrebbe non essere del tutto terminata: se l’indagine per l’omicidio non avrà evidentemente altro futuro, la Procura di Bari ha avviato però altri accertamenti sul suicidio di Lacarpia. Da capire, infatti, se ci siano state falle nel sistema di sicurezza, anche se per l’uomo non era stata disposta la sorveglianza a vista per 24 ore. Sul corpo del 65enne, in ogni caso, verrà svolta l’autopsia, l’incarico sarà conferito nella giornata del 22 ottobre. Già il giorno dopo essere entrato in carcere, comunque, Lacarpia era caduto dal letto della sua cella ed era stato ricoverato per alcuni giorni nel Policlinico di Bari, e per questo la convalida del suo fermo si era svolta in sua assenza. Poi, interrogato dalla gip Valeria Isabella Valenzi, aveva fornito la stessa versione data subito dopo i fatti: “Ho provato a rianimarla, avevamo fatto un incidente e la macchina aveva preso fuoco”. Nessuno, però, gli ha creduto. A incastrare Lacarpia, infatti, sono state essenzialmente due circostanze. La prima è la testimonianza della moglie che, prima di morire, ha raccontato le sue verità alla figlia Antonella e a un poliziotto: “Mi voleva uccidere, mi ha messo le mani alla gola. Mi ha chiuso in macchina con le fiamme”. Arrivata in ospedale con ustioni e varie fratture, è morta al “Perinei” di Altamura dopo aver salutato per l’ultima volta la figlia. La seconda circostanza decisiva è invece il video girato da una ragazza che, in quel momento, passava con gli amici per la strada di campagna nella periferia di Gravina in cui è successo il fatto. “Ho sentito gridare “Aiuto, aiuto”, c’era la donna sdraiata a terra e un uomo in ginocchio che aveva le mani su di lei. Noi gli abbiamo gridato “Ma che stai facendo?”, e lui non rispondeva. Poi ha ripreso a spingere con le mani sul petto della donna”, ha detto agli inquirenti. L’uomo, malato di Alzheimer e demenza senile, in questa circostanza è stato giudicato capace di intendere e di volere. Ravenna. Processo per il suicidio in carcere di un 23enne: “In cella con un compagno depresso” di Lorenzo Priviato Il Resto del Carlino, 23 ottobre 2024 Psichiatra Ausl accusato di omicidio colposo per avere abbassato il rischio, le versioni dei colleghi. In caso di detenuti a rischio di suicidio, “dobbiamo dare un occhio in più”, spiega al giudice Michele Spina un agente penitenziario, mentre in aula in diversi sgranano gli occhi. Seconda udienza del processo che vede imputato di omicidio colposo un 66enne psichiatra Ausl della casa circondariale di Ravenna (difeso dagli avvocati Guido Maffuccini e Delia Fornaro), in relazione al suicidio di un giovane detenuto cui, secondo l’accusa, aveva abbassato il rischio da medio a lieve. Giuseppe Defilippo, 23anni segnati da un’infanzia difficile, abuso di sostanze e precedenti tentativi di farla finita, fu trovato impiccato in cella il 16 settembre 2019. Nella prima udienza aveva parlato la madre, che aveva fatto riaprire le indagini dopo un iniziale tentativo di archiviazione. Ieri ha testimoniato una dottoressa del Centro di salute mentale alla quale, in qualità di medico di guardia, dal cercare arrivò la richiesta di una visita urgente. Nel referto del 5 settembre (undici giorni prima del suicidio), il medico consigliava una maggiore sorveglianza e una valutazione psichiatrica a breve, ravvisando nel detenuto “una richiesta di aiuto per problemi di ansia, chiedeva una modifica della terapia per stare meglio”. Inoltre, aveva evidenziato “una potenziale condotta autolesiva mediante oggetti taglienti”, una eventualità che il ragazzo stesso le paventò come “reazione alla restrizione e al fatto di non riuscire a parlare con i familiari”. La dottoressa era al corrente di un precedente ricovero per “assunzione incongrua di farmaci”, ma in quell’occasione non ravvisò “rischio suicidario, altrimenti - ha spiegato - avrei attuato altri presidi. Manifestava invece una progettualità, desiderava lavorare e riprendere in mano la sua vita”. La guardia carceraria addetta alla sorveglianza ha poi spiegato che Giuseppe aveva un compagno di cella, anche con funzione di controllo. Eppure, secondo la successiva testimonianza di un altro medico che più volte lo aveva visitato, “il compagno era più depresso di lui, lo avevo segnalato al carcere e all’equipe medica”. Eventualità non emersa in fase di indagini, sebbene sostenuta dalla famiglia, parte civile con gli avvocati Marco Catalano e Marco Martines. Il medico Map (assistenza primaria) ha spiegato che spesso Giuseppe gli domandava benzodiazepine per curare l’ansia diurna, e così fece anche poche ore prima di togliersi la vita. Quel giorno, ravvisando “una flessione dell’umore, ma non scompenso psichico”, il medico Map chiese una nuova valutazione psichiatrica “urgente differibile” (7-10 giorni), ma non ci fu tempo di attuarla. La ricostruzione clinica dei giorni precedenti è tuttavia farraginosa. Secondo il medico Map, la richiesta della collega del 5 settembre di alzare il rischio aveva trovato riscontro il 7 ad opera di un’altra specialista, e due giorni dopo l’odierno imputato - fin qui convitato di pietra al processo che lo riguarda - lo avrebbe abbassato da medio a lieve, cosa che avrebbe comportato “un abbassamento della vigilanza”. Ma ciò, al momento, non è emerso dal punto di vista documentale. Secondo la ricostruzione dell’avvocato Giacomo Garcea, legale dell’Ausl, chiamata come responsabile civile, il giovane entrò in carcere il 20 agosto con un rischio suicidario medio, che tre giorni dopo gli fu abbassato a lieve, non dal solo imputato ma dall’equipe addetta a questo tipo di valutazioni. Nei giorni successivi non vi sarebbe stato alcun nuovo innalzamento del rischio, che semmai il 9 settembre fu mantenuto lieve. Prossima udienza a marzo, ai consulenti il compito di fare chiarezza. Sassari. L’inferno dietro le sbarre: 34 tentati suicidi, due riusciti,180 pazienti psichiatrici di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 23 ottobre 2024 Dietro i numeri la sofferenza dei detenuti. Tour per le carceri sarde di “Nessuno tocchi Caino”, l’organizzazione Transnazionale contro la pena di morte, ha toccato gli istituti del nord-Sardegna e di quanto visto si è parlato nel convegno promosso dall’Unione delle Camere Penali di Sassari. “Abbiamo notato - riferisce Rita Bernardini, presidente dell’Ong - un fenomeno che prima era estraneo nell’isola: il sovraffollamento”. Solo a Bancali i detenuti sono 524, di cui 349 quelli comuni, 24 le donne. “E nella casa circondariale - testimonia l’avvocata Maria Teresa Pintus - si trova anche una madre con una bambina molto piccola. Un fatto gravissimo”. I dati - “A causa dell’eccesso di persone ristrette - aggiunge Bernardini- ci sono conseguenze sulle loro condizioni, sulla possibilità di compiere gli studi e di riabilitarsi”. L’elenco di coloro che scontano la pena prosegue con 43 “protetti”, le persone cioè in prigione per reati sessuali di particolare gravità, 17 nel reparto Alta Sicurezza, con condanne legate al terrorismo di matrice islamica, e g al4i bis. Ma i dati più preoccupanti emergono in ambito sanitario, specchio di un crescente disagio sociale. Sono 66 i detenuti curati con la terapia sostitutiva, 100 quelli in carico al Serd, 4.50 che ricorrono agli antidepressivi, 180 i cosiddetti “psichiatrici”. “Persone - continuala presidente - che vengono se date con quella che chiamerei “contenzione farmacologica”. E a Bancali ne ho vista molto giovani, con una vita davanti”. Ma il dolore, e anche la vergogna, perla carcerazione non viene sempre frenata dalle medicine. “Nella struttura dichiara Danilo Manona. presidente delle Camere Penali di Sassari- ci sono stati 34 tentati suicidi e 2 suicidi dall’inizio dell’anno. Come avvocati siamo impotenti, dovrebbe intervenire lo Stato”. E oltre alla salute mentale latita pure quella fisica visti i casi di Tbc riscontrati qualche mese fa a cui si sono aggiunti, di recente, anche quelli di scabbia. In più, riferisce chi ha vi sitato Bancali, l’Asl non starebbe compiendo le ispezioni di prassi sulla salubrità dei luoghi. Non va meglio nemmeno a Tempio dove ci si lamenta che le figure di assistenza ai detenuti siano poche e poco impiegate. “E il sistema carcere a non funzionare più - dichiara il legale Marco Palmieri - bisognerebbe che si facesse una riflessione su questo”. Milano. A San Vittore i sogni perduti dei ragazzi dietro le sbarre di Ilaria Carra e Rosario Di Raimondo La Repubblica, 23 ottobre 2024 “Qui non è Mare fuori, e la libertà spaventa più della prigione”. Siamo entrati nel carcere più sovraffollato d’Italia. Un detenuto su tre ha meno di trent’anni, la metà ha una dipendenza da alcol o droga. “Io voglio fare il muratore”. Mahmud ha vent’anni ed è di un paese vicino a Il Cairo. È arrivato in Italia dopo essere stato respinto quattro volte. Ha pagato il viaggio in barcone quindicimila euro. Da Lampedusa, un lungo pellegrinaggio: Napoli, Taranto, Milano. Ora è detenuto al primo braccio di San Vittore. Chiama l’agente penitenziaria “madre ispettrice”, sostiene di essere dentro solo per un “calcio” sferrato a un ucraino e “da otto mesi sono qui a fare niente. Ma io voglio fare il muratore, sono bravo!”. Sulla parete della biblioteca qualcuno ha scritto: “A volte la libertà spaventa più della prigione”. L’ottava e ultima regola elencata sulla lavagnetta raccomanda: “Il tempo è prezioso”. Ma il tempo qui passa, giorno dopo giorno, e i ragazzi perduti di San Vittore non sanno che sarà di loro. Nel carcere più sovraffollato d’Italia le presenze totali sono più di 1.100. Gli uomini sono un migliaio. Quasi un terzo di loro ha un’età fra i diciotto e i trent’anni. Il 75% è di origine straniera. In 650 hanno una dipendenza da droga o alcol o entrambi, 220 i pazienti psichiatrici certificati. E ogni semestre “continuano a crescere”. Sono qui soprattutto per reati di spaccio, risse, lesioni, tentati omicidi: è un attimo, e durante la discussione si tira fuori il coltello. Il dramma è rinchiuso in poche parole che ripetono in molti: “Non hanno prospettive. Tu accogli ma poi vanno a sbattere”. Prima o poi usciranno, e nessuno potrà aiutarli. Avranno bisogno di cure, ma non avranno i soldi per essere seguiti in un centro specializzato. Vorranno un lavoro, ma saranno senza documenti. “Non ci sono alternative al carcere”, è l’altra impietosa diagnosi. Il paradosso è che per alcune di queste persone il carcere è la prima e forse unica possibilità di contatto con un medico, uno psichiatra, qualcuno che ascolti. Allora rieccoci nella biblioteca, e per un attimo non sembra nemmeno di essere in una casa circondariale. C’è un grande tavolo, e sul tavolo tante figurine che rappresentano volti e paesaggi. La professoressa del Politecnico Chiara Ligi e le sue collaboratrici spiegano: “Questo è un kit per creare storie, per cogliere stati d’animo, emozioni”. Queste storie inventate finiscono in un quaderno. Ilyas, vent’anni, inizia a parlare dei suoi desideri: “Vi leggo la mia piccola storia. Nel giorno più bello della mia vita ho incontrato una ragazza. Dopo un anno ci siamo sposati, siamo andati in viaggio di nozze a Miami, dopo un mese siamo tornati ed è nata nostra figlia. La famiglia è al completo”. Il giovane Wassim sogna a occhi aperti: “Mi sveglio la mattina e bevo il tè. Poi vado al mare a pescare il polpo, lo faccio alla griglia, torno al mare per fumare una sigaretta e ci torno la notte per andare a pescare”. Dalla finestra con le sbarre arriva un bellissimo sole ma qui non è Mare fuori. Giù al quinto braccio, che accoglie i “nuovi giunti”, ogni giorno arrivano in media venti detenuti in più, certi giorni trenta. La difficoltà è sistemarli. In quell’area vive anche chi è a rischio di autolesionismo. Dalla parte opposta, celle che “nei sogni” sarebbero singole ospitano tre detenuti: un letto a castello, un altro lettino a fianco, un tavolo. Un ragazzo seduto sul materasso fuma e guarda a terra. Un altro cerca di ordinare quel poco di spazio che gli hanno dato. E questi si ritengono pure fortunati: almeno non sono finiti negli stanzoni da otto posti. In intere sezioni, un solo poliziotto penitenziario ha la responsabilità di ottanta detenuti. Di divise, in questi casi, ne servirebbero almeno un paio. Le assunzioni sono arrivate ma sono bastate a rimpiazzare chi è andato in pensione. Due raggi di San Vittore sono ancora chiusi: se venissero riaperti garantirebbero respiro e posti in più ma bisogna fare i conti con la burocrazia. Nella cappella oggi si ricorda Pasquale Del Mastro. Si è impiccato a 44 anni lo scorso 11 ottobre. Un mese prima, un ragazzo era morto carbonizzato per un incendio in cella. Sul foglio per la preghiera rivolta al quarantenne si legge: “Pasquale era triste, malato di disperazione. La vita era stata dura con lui”. Da San Vittore gli augurano “una vita senza sbarre e senza dolore”. Celebra la cerimonia padre Danilo, uno dei due cappellani. A fargli da chierichetto, da qualche tempo, c’è Alessandro, 42 anni e un rosario al collo: “Sono in galera per maltrattamenti in famiglia. Non vedo i miei figli da un anno e mezzo. C’ho provato a salvarlo, Pasquale. Viveva nella cella accanto alla mia. Ho sentito le urla dei suoi compagni quando l’hanno trovato. Non ho potuto fare niente. Qui è dura. Basta non ricevere risposta a una telefonata per buttarti giù. E i ragazzi... arrivano perché si ammazzano di botte per niente. Io li vedo persi”. Conosciamo un altro Alessandro, anche lui 42enne: “Sono dentro per spaccio, rapina, estorsione. A giugno esco, ma con i reati vado in pensione. Io la penso così: sbagli, paghi, finisci. Voglio tornare a fare l’operatore socio sanitario”. Nonostante l’età vive nel reparto per giovani adulti: “Sì, seguo i detenuti più piccoli, qui faccio l’educatore. Mi chiamano zio, papà...”. Anche perché il carcere, dice Vincenzo, 57 anni, “è diventato una discarica sociale”, un modo duro per dire che è l’unico posto ormai capace di accogliere chi ha un problema, un disagio. Però Antonio, sessant’anni, 18 di crimini, entrato - l’ultima volta - il 2 dicembre del 2022, nei giovani vede ancora una speranza. La vede pure in se stesso: “All’inizio è stata dura. Il cervello si offusca, non sai cosa stai facendo. Finché non inizi a star bene. Succede quando hai il coraggio di dire: sì, sono stato un delinquente”. Da lì si può solo risalire. A San Vittore è nato uno spazio permanente dedicato all’arte contemporanea. Dicono che da questo corridoio passò Vallanzasca per evadere. Lo spazio si chiama ReverseLab ed è un’opera collettiva, una raccolta di “frammenti espressivi”. Su un post-it si legge una frase che farebbe bene ripetersi ogni tanto: “Tutti sbagliamo”. Vercelli. Lavori di pubblica utilità per 6 detenuti: c’è il patto tra carcere e Comune di Roberto Maggio La Stampa, 23 ottobre 2024 Saranno impiegati in interventi di cura del verde o lavori di manutenzione. Un passo importante verso il reinserimento in società dei detenuti del carcere di Vercelli è offerto dalla convenzione sottoscritta ieri tra Comune e Casa circondariale. Il protocollo, siglato dal sindaco Roberto Scheda e dal direttore del Billiemme Giovanni Rempiccia, permetterà a sei detenuti di svolgere lavori di pubblica utilità all’esterno del penitenziario, come ad esempio interventi di cura del verde o lavori di manutenzione. I candidati saranno selezionati dallo staff educativo interno del carcere, ed eventualmente il progetto sarà esteso anche ad altri. In contemporanea, altri detenuti saranno impiegati all’interno del tenimento agricolo del carcere cittadino, per la cura dei fiori e di altre specie da utilizzare poi nelle aree verdi pubbliche della città. In totale si partirà con una decina di detenuti coinvolti nelle diverse attività. Il direttore Rempiccia ha evidenziato la novità nel panorama penitenziario vercellese, essendo il primo protocollo stipulato con un ente pubblico. “Nelle esperienze che verranno svolte - ha affermato - si legge la volontà del detenuto di restituire qualcosa alla società da cui è stato espulso. Il protocollo cade in un momento di effervescenza in carcere, dato che abbiamo riavviato le attività agricole e sono stati eseguiti tanti lavori finalizzati a ristrutturare il carcere. Anche grazie ai detenuti”. Tra le iniziative annunciate da Rempiccia, quella del 5 novembre, una partita di calcio tra i carcerati e la Pro Vercelli. Scheda ha evidenziato il duplice significato della convenzione appena firmata, ossia “l’attenzione verso il reinserimento della persona, e la possibilità di farlo grazie ad un gesto per la collettività. La città non potrà che trarne un beneficio”. Ad assistere alla firma del protocollo c’era anche il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, intenzionato ad esportare il “modello Vercelli” altrove in Piemonte. A commentare l’iniziativa anche il prefetto Lucio Parente, il garante provinciale dei detenuti Pietro Oddo, l’assessora alle Politiche sociali Valeria Simonetta e la dirigente del Comune Alessandra Pitaro. “I detenuti - hanno riferito - vivono in condizioni difficili, meritano un’opportunità: questo è lo spirito che ha animato la nascita della convenzione”. Brescia. Canton Mombello in emergenza: i lavori a celle e bagni al via solo nel 2025 di Giuseppe Spatola Brescia Oggi, 23 ottobre 2024 Delmastro risponde all’onorevole Girelli (Pd): “Pronti con il nuovo anno”. Ma l’intervento doveva partire già a ottobre. Nessuna notizia chiara nè una programmazione “precisa” dei futuri lavori per il carcere di Brescia. Questa la sintesi riportata dall’onorevole Gianantonio Girelli (Pd) che ieri mattina ha ascoltato nella seduta d’aula a Montecitorio la risposta del Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, all’interrogazione nella quale si chiedevano informazioni sulla situazione di sovraffollamento, di mancanza di personale di entrambi le carceri bresciane e se non fosse “improrogabile la chiusura di Canton Mombello a fronte dell’ampliamento di Verziano”. “Peccato che di notizie certe e chiare non ce ne siano state - ha affermato Girelli -. Avremmo preferito alla propaganda politica, informazioni certe. A fronte dei grandi sforzi del Governo nelle assunzioni di nuovo personale di Polizia Penitenziaria non abbiamo avuto risposte sicure di quando verranno destinati ai due carceri bresciani che nel frattempo soffrono di carenza di personale. Alcune notizie le abbiamo avute dal Sottosegretario e tra queste quella che partiranno i lavori per rendere bagni e celle di Canton Mombello, più confortevoli, dai primi mesi del 2025, anche se il progetto definitivo era annunciato per ottobre 2024”. Mentre per quanto riguarda Verziano i tempi di messa in opera delle nuove strutture non sono noti”. Dal canto suo il sottosegretario ha rilanciato l’assunzione di nuovi agenti: “Sono state trovate le risorse per finanziare le assunzioni, tra straordinarie ed ordinarie, di oltre 7.500 agenti di Polizia penitenziaria ed è già stato finanziato un futuro bando per 2.568 agenti”. Ferrara. Manuela Macario è la nuova Garante dei detenuti La Nuova Ferrara, 23 ottobre 2024 La presidente di Arcigay è stata scelta tramite procedura pubblica: cinque erano le proposte di candidatura pervenute. È Manuela Macario la nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrara individuata dal sindaco. L’iter che ha portato all’individuazione di Macario si è concluso questa mattina, con la firma del decreto di nomina. La nuova garante è stata scelta tramite procedura pubblica in cui erano pervenute cinque proposte di candidatura. L’investitura ufficiale è giunta dopo la presa in esame dei curricula. Macario è stata selezionata per la sua esperienza nell’ambito delle politiche sociali e del lavoro rivolta ad utenza vulnerabile e svantaggiata, percorso che l’ha vista realizzare progetti di reinserimento sociale e lavorativo, in collaborazione con i servizi sociosanitari e gli istituti penitenziari. La figura, che percepirà un’indennità annua di 4mila euro, dovrà operare con lo scopo di migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà, attraverso la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e tramite azioni orientate ad affermare il pieno esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile di tutti i soggetti. Firenze. Salute in carcere, prosegue il progetto finanziato dalla Regione e organizzato da Careggi firenzedintorni.it, 23 ottobre 2024 A fronte dei primi risultati ottenuti la Regione Toscana, approvando una delibera ad hoc in Giunta, ha deciso di finanziare ancora e proseguire il progetto dell’Azienda ospedaliero universitaria di Careggi, sulla salute in carcere, pensato per il personale degli istituti penitenziari. L’iniziativa, si ricorda, nasce nel 2022 per migliorare la capacità degli istituti di promuovere e mantenere il benessere, fisico e psicologico, dei lavoratori che operano all’interno, con interventi di gruppo e altri mirati, con sedute e colloqui personali, a singoli casi di disagio individuale. Un lavoro che “punta ad abbattere anche pregiudizi e stereotipi malvissuti”. L’anno passato vi hanno lavorato due professionisti, che hanno condotto più di cento incontri e riunioni. Il progetto di Careggi sulla salute in carcere è stato curato dal Centro regionale di riferimento per le criticità relazionali, che continuerà ad avere un ruolo centrale ed affiancherà gli uffici penitenziari nell’elaborazione dei singoli progetti, inserito nella più ampia cornice di collaborazione interistituzionale avviata tra assessorato e provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Il tema è oggetto di analisi anche da parte dell’Osservatorio regionale permanente per la sanità penitenziaria. “Migliorare la qualità del lavoro degli operatori penitenziari contribuisce a garantire una maggiore sicurezza e qualità dell’assistenza dei detenuti. Anche per questo è stato deciso di rinnovare il progetto” commentano il presidente della Toscana Eugenio Giani e l’assessore al diritto alla salute Simone Bezzini. Rossano Calabro. Giovane detenuto supera le selezioni e viene ammesso alla Bocconi di Milano lacnews24.it, 23 ottobre 2024 Già l’anno scorso un altro ospite della Casa di reclusione aveva intrapreso lo stesso percorso con l’iscrizione al corso di laurea in Economia aziendale e Management. Anche quest’anno la casa di reclusione di Rossano si distingue per un importante successo educativo: un giovane detenuto del circuito di Alta Sicurezza 3, identificato con le iniziali G.G., ha superato le selezioni per l’ammissione all’Università Bocconi di Milano, una delle più prestigiose istituzioni accademiche del Paese, iscrivendosi al corso di laurea in Economia aziendale e Management. Questo risultato segue quello dell’anno precedente, quando un altro detenuto, B. R., aveva intrapreso il medesimo percorso universitario. G.G., già in possesso di un diploma e impegnato in un ulteriore corso di studi all’interno dell’istituto, ha affrontato con impegno le complesse prove di selezione, dimostrando una determinazione che lo ha portato a raggiungere questa importante meta. Non solo un traguardo accademico, ma una nuova opportunità di riscatto personale e sociale, in linea con il principio costituzionale che prevede la finalità rieducativa della pena. Il carcere come luogo di opportunità - La direzione dell’Istituto, rappresentata dal direttore Luigi Spetrillo, insieme ai funzionari dell’Area trattamentale, ha espresso grande soddisfazione per il risultato conseguito, sottolineando l’importanza del supporto fornito lungo tutto il percorso di preparazione. Questo evento rappresenta un esempio di come la detenzione possa trasformarsi in un’opportunità di crescita personale e di rinascita, laddove l’istruzione diventa il motore di una nuova prospettiva di vita. Il successo di G. G. conferma il ruolo cruciale che lo studio può assumere all’interno del sistema penitenziario, aprendo nuove vie di riscatto per coloro che, nonostante il passato, decidono di investire in un futuro diverso. La formazione universitaria, specie in un contesto di alta sicurezza, non solo rappresenta uno strumento di acquisizione di competenze, ma anche una potente leva per un vero e proprio cambiamento esistenziale. La direzione dell’istituto ha voluto ringraziare l’Università Bocconi per l’attenzione rivolta a una categoria di studenti così peculiare, esprimendo l’auspicio che G. G. possa raggiungere tutti gli obiettivi che si è prefissato. In un contesto complesso come quello carcerario, queste opportunità educative forniscono un senso tangibile alla pena, consentendo ai detenuti di guardare al futuro con nuove speranze e concrete possibilità di reinserimento nella società. Napoli. Caffè Lazzarelle: dal carcere di Pozzuoli alla Bocconi di Milano di Gabriella Ambrosio, Francesco Casillo, Giuliana Cerenza, Maria Ianniello, Francesca Laezza, Maria Rosaria Napolitano* mark-up.it, 23 ottobre 2024 Il progetto offre dignità e riscatto alle detenute della struttura penitenziale, formandole secondo le norme della scuola artigiana napoletana del caffè. Lazzarelle non si nasce, si diventa. Ricorda la citazione della filosofa francese Simone de Beauvoir “Donne non si nasce, si diventa”. Questa affermazione esprime che l’essere donna non è determinato esclusivamente dalla biologia o dal fatto di nascere con un corpo femminile, ma è il risultato di un processo sociale e culturale. Nasce nel 2010 la società cooperativa Lazzarelle, grazie a Imma Carpiniello, dopo un incontro con le detenute del carcere femminile di Pozzuoli. La cooperativa ha scelto di impegnarsi attivamente in un’impresa tutta al femminile che valorizzi i saperi artigianali e generi inclusione sociale, perché solo il lavoro offre dignità e possibilità di riscatto reale. Alla cooperativa si sono avvicendate sino ad oggi 56 donne, ognuna con la propria storia, diversa e identica alle altre. Esse, grazie a questa esperienza, hanno imparato un mestiere e, soprattutto, hanno acquisito la coscienza dei loro diritti e delle loro possibilità. Il percorso, che si auspica possa consentire alle detenute di ritrovare un futuro, ha inizio con un colloquio motivazionale, in cui viene valutata la loro condizione di donna e le loro necessità, anche dal punto di vista economico. Successivamente si passa alla fase di prova, in cui le candidate vengono scolarizzate, imparano come lavorare il caffè, spesso anche guardando le altre dipendenti. Si giunge così all’assunzione, cui segue un percorso formativo all’interno del carcere e la conclusione della pena al di fuori, presso il Bistrot in Galleria Principe, in cui si possono gustare anche i prodotti derivanti da altre carceri d’Italia. Il caffè è prodotto senza aggiunta di additivi, rispettando i tempi naturali di preparazione della antica scuola artigiana napoletana. Le confezioni di caffè sono realizzate in materiale plastico senza alluminio in modo da poter essere riciclate con la plastica nella raccolta differenziata. Oltre al caffè artigianale, la cooperativa produce tè, infusi, tisane e creme spalmabili al gusto di caffè. Lazzarelle è, dunque, un’impresa napoletana, inclusiva su ogni aspetto, che si prende cura di ogni dettaglio e che per crescere con successo, dovrebbe perseguire tre obiettivi a lungo termine: lo sviluppo sostenibile, l’internazionalizzazione e l’innovazione. Con tale auspicio, un’idea innovativa proposta è l’utilizzo degli scarti del caffè per la realizzazione di scrub, creme e altri prodotti per la cura del corpo. Un’opportunità in tal sensi potrebbe essere una partnership con il marchio “The body Shop”: azienda che si occupa della vendita di prodotti naturali per il corpo con la finalità di far sì che le donne possano essere la versione migliore di se stesse. La realizzazione di tale partnership potrebbe consentire alla cooperativa di poter penetrare nuovi mercati, sensibilizzare la società sul tema dell’inclusione sociale e così incrementare i propri profitti. Inoltre, Lazzarelle potrebbe distribuire i cosmetici anche mediante i propri Bistrot e i vari rivenditori, anche istituendo dei pop up al fine di far conoscere ai consumatori i prodotti e invogliarli ad acquistare. Una seconda idea è la costituzione di un consorzio con le cooperative con cui già collabora -la Cooperativa Arcolaio Siracusa e Cooperativa rigenerazione Palermo- condividendo la vision di integrare le persone a rischio di marginalità sociale nell’ambito socio-economico. Ma guardare al futuro significa innovare. Il passo successivo per Lazzarelle è pertanto cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, in primis dell’intelligenza artificiale. L’integrazione dell’IA nel sito web darebbe ai clienti la possibilità di fare dei test che consentono di capire quale gusto del caffè si adatta alle loro preferenze oppure quali prodotti di cosmetica sono adatti alla loro pelle e alle loro esigenze. Il Caffè Lazzarelle è un caffe forte e audace, come tutte le donne a cui è rivolto questo articolo perché siamo un po’ tutte Lazzarelle. *Università Parthenope di Napoli Varese. Ai Miogni il murales di studenti e detenuti La Prealpina, 23 ottobre 2024 Presentata l’opera realizzata con i ragazzi del Frattini. L’arte oltre le sbarre. Oggi, martedì 22 ottobre, nel carcere dei Miogni, nel cortile adibito al passeggio dei detenuti per le ore d’aria, si è tenuta l’inaugurazione del murale realizzato da alcuni studenti del quinto anno del Liceo artistico “Frattini” insieme ad un gruppo di detenuti. Detenuti e studenti hanno lavorato insieme, guidati dal personale penitenziario e da due docenti, per la realizzazione di una grande parete di circa 11 metri. Il progetto, finanziato dal bando di Fondazione “La Sorgente” Onlus è stato promosso dalle Acli Provinciali di Varese. Il laboratorio è stato curato da Associazione 100Venti in collaborazione con Fondazione Enaip. “Il laboratorio di Street Art ha permesso ai giovani studenti liceali di lavorare fianco a fianco con un piccolo gruppo di detenuti. Tale attività - ha commentato Serena Pirrello, funzionario giuridico pedagogico - ha dato la possibilità di scambi e confronti sia sul piano artistico, che di riflessione e conoscenza reciproca”. Gli studenti coinvolti avevano già partecipato al progetto di legalità, avvenuto nella primavera del 2024 nella casa circondariale. Da questa esperienza, è nata la volontà di lasciare un segno visibile di un momento così intenso e significativo, che ha portato gli studenti a confrontarsi con una realtà complessa come quella del carcere. Hanno partecipato all’inaugurazione insieme ai detenuti ed agli studenti, i funzionari pedagogici Serena Pirrello e Domenico Grieco e il comandante di Reparto Salvatore Castelli. Erano presenti anche il responsabile dell’Ufficio scolastico provinciale Giuseppe Carcano, il dirigente scolastico Santo D’Angelo e le due docenti Claudia Canavesi e Marilisa Sturniolo, oltre alle rappresentanti della Acli Provinciali e dell’Associazione l’oblò Teatro ed Emanuela Frigerio, direttore Area Territoriale di Enaip Lombardia. “L’iniziativa - sottolinea la direttrice dei Miogni Carla Santandrea - è di pregevole valore, perché ha permesso di abbellire uno spazio particolare, dove i detenuti trascorrono assieme le ore d’aria. Con questo progetto l’istituzione scolastica si è messa in relazione con il carcere, sviluppando un percorso virtuoso nella realizzazione dell’opera che resterà visibile nel tempo. Ringrazio il Liceo Frattini, il suo dirigente e le docenti per essere riusciti a portare all’interno del nostro Istituto una forma di arte, che è stata molto apprezzata dai detenuti”. Al termine è stato offerto un rinfresco preparato da un gruppo di detenuti iscritti al corso di cucina professionalizzante. Milano. Che c’azzecca la rigenerazione urbana col carcere? di Giampaolo Cerri vita.it, 23 ottobre 2024 C’entra, per fortuna, come ci hanno raccontato Nadia Boschi di Lendlease, Vincenzo Lo Cascio del ministero della Giustizia e Filippo Addarii di PlusValue, a proposito dell’inserimento lavorativo di alcune decine di carcerati dell’istituto di Bollate nel cantiere Mind nell’ex-area Expo. Con loro, la voce di un docente di Bocconi, Edoardo Croci, che sta lavorando a un nuovo sistema di misurazione dell’impatto sociale che sarà presentato ufficialmente a Baku nell’imminente Cop 29. Prosegue il nostro viaggio, per voci, nel recente Salone della Csr e dell’Innovazione sociale. Prosegue la serie de I podcast di ProdurreBene dedicata al recente Salone della Csr e dell’Innovazione sociale, svoltosi a Milano. In questo nuovo episodio, che potete ascoltare qui, si parla di come gli interventi di rigenerazione urbana possano produrre valore sociale. A valle dell’incontro “Confronto pubblico-privato per creare valore sociale”, abbiamo incontrato Nadia Boschi, head of sustainability Italia ed Europa di Lendlease che ha realizzato, con Mind, a Milano l’intervento nell’area ex-Expo, Vincenzo Lo Cascio, responsabile Ufficio lavoro detenuti del ministero della Giustizia, e Filippo Addarii che, con la sua PlusValue, società londinese specializzata proprio in rigenerazione urbana, impatto e strutturazione sociale, ha contribuito anche all’intervento Mind. Attraverso le loro voci, abbiamo ripercorso appunto l’esperimento nell’area di Rho-Pero dove hanno lavorato alcune decine di detenuti del vicino carcere di Bollate (Mi). Con Edoardo Croci, docente di Bocconi, abbiamo invece toccato il tema di un nuovo meccanismo di misurazione dell’impatto sociale, messo a punto dal professore e altri colleghi, e che verrà presentato ufficialmente nel corso della prossima Cop29 di Baku. Ascolta il podcast: https://open.spotify.com/episode/7x3zHZ4lt3Yz3dgGN0Je5A?go=1&sp_cid=ce6dc533a006d6a5e4e59f88b3851c09&utm_source=embed_player_p&utm_medium=desktop&nd=1&dlsi=ce6c281f163d47f6 Si tratta del terzo podcast a valle del Salone della Csr, gli altri hanno riguardato le politiche sociali, di Ikea Italia, che ci ha raccontato Laura Tondi, sustainability manager italiano del gruppo svedese, e l’approccio di Abf - Andrea Bocelli foundation alle aziende, con la direttrice generale Laura Biancalani e la cfo e vicedirettore Silvia Gualdani. Il Consiglio d’Europa denuncia: “Razzismo tra forze dell’ordine italiane verso migranti” di Errico Novi Il Dubbio, 23 ottobre 2024 L’accusa nel rapporto sul nostro Paese: “Troppe critiche ai giudici, indipendenza a rischio”. Il centrodestra: “Allibiti”. Corto circuito. Nel giro di poche ore il governo passa dal decreto varato lunedì - con tempi e modi al limite del concitato - per legittimare i trattenimenti dei migranti in Albania, a un missile terra- aria scagliato da Strasburgo su politica e forze dell’ordine: il Rapporto presentato dal Consiglio d’Europa sulla diffusione del razzismo e del linguaggio d’odio in Italia riferisce di pratiche discriminatorie da parte delle forze dell’ordine e di parole xenofobe diffuse da rappresentanti delle istituzioni e in particolare da politici. Nessun nome, ma il contenuto del documento è pesantissimo. In particolare quando scaglia esplicite accuse nei confronti delle forze di polizia che ricorrerebbero a pratiche di “profilazione razziale durante le attività di controllo, sorveglianza e indagine, soprattutto nei confronti della comunità rom e delle persone di origine africana”. Un macigno. Una lapidazione politica e mediatica. Così grave che a esprimere “stupore” è innanzitutto il Capo dello Stato Sergio Mattarella. Il Quirinale riferisce che il presidente della Repubblica “ha telefonato al Capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, esprimendogli lo stupore per le affermazioni contenute nel rapporto della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa e ribadendo stima e vicinanza alle forze di Polizia”. La premier Giorgia Meloni replica così: “Le nostre forze dell’ordine sono composte da uomini e donne che, ogni giorno, lavorano con dedizione e abnegazione per garantire la sicurezza di tutti i cittadini, senza distinzioni. Meritano rispetto, non simili ingiurie”. Ma c’è, chi ci va giù con toni assai più pesanti, a cominciare da Matteo Salvini: “Donne e uomini in divisa attaccati vergognosamente dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, un ente inutile pagato anche con le tasse dei cittadini italiani. Come Lega proporremo di risparmiare questi soldi per destinarli alla sanità anziché infangare le nostre forze dell’ordine”. Fino alla battuta ricorrente in casi simili: “Se a questi signori piacciono tanto rom e clandestini, se li portino tutti a casa loro a Strasburgo”. Un autentico putiferio. A scatenarlo, per essere precisi, è un organismo, la Commissione del Consiglio d’Europa contro il razzismo e l’intolleranza appunto, nota con l’acronimo “Ecri”. Il Rapporto sollecita l’Italia a commissionare e presentare entro due anni uno “studio indipendente” sulle pratiche di profilazione sostanzialmente razziste che la polizia italiana è accusata di adottare. Com’è noto, il Consiglio d’Europa è entità sovranazionale assolutamente non assimilabile all’Ue: ne fanno parte numerosi Stati che non rientrano fra i Ventisette aderenti all’Unione di Bruxelles. Afferisce al Consiglio d’Europa la Corte europea dei Diritti umani, i cui pronunciamenti l’Italia è impegnata a rispettare. Dell’Ecri fa parte, in rappresentanza dell’Italia, un giurista dell’autorevolezza di Alberto Maria Gambino, che è impegnato anche nelle istituzioni forensi e che tra l’altro ha curato, per il Cnf italiano, il “Decalogo per il Diritto all’acqua”, proposto all’Expo di Dubai e condiviso a livello planetario. Eppure i meccanismi dell’Ecri sanciscono che un documento sulla diffusione del razzismo in un determinato Paese debba essere redatto senza che il commissario proveniente da quel Paese, ed è il caso dell’italiano Gambino, sia almeno consultato. Interpellato dal Dubbio, il giurista si limita a osservare come “nel Rapporto, al paragrafo 46, si plauda all’attuale governo e alla presidente del Consiglio in carica per la condanna chiara ai discorsi d’odio antisemita e alla “pronta reazione” del ministro della Difesa al “libro pubblicato da un generale italiano”“. Ovvio che si tratti che si tratti di Roberto Vannacci. Non è finita qui. C’è un passaggio del Rapporto che, pur ancorato a polemiche fra politica e magistratura italiane dello scorso anno, e in particolare al caso della giudice Iolanda Apostolico, sembrano fatte apposta per entrare a piedi uniti nello psicodramma innescato venerdì scorso dalla decisione con cui il Tribunale di Roma ha annullato il “trattenimento” dei 12 migranti in Albania: l’Ecri infatti denuncia anche “critiche indebite che mirano a minare l’autorità dei singoli giudici che decidono sui casi di immigrazione” tra gli esempi di negativi di “discorso pubblico e politico” colpevole di promuovere “una cultura dell’esclusione dei migranti piuttosto che la loro inclusione”. La Commissione di Strasburgo aggiunge che critiche come quelle rivolte ad Apostolico (non citata) “minano l’indipendenza della magistratura che tratta di questi casi”, indipendenza che invece deve essere “rispettata, protetta e promossa”. Un colpo da ko tecnico. I partiti d’opposizione - a battere tutti sul tempo è Avs - sollecitano il ministro che del presunto razzismo in divisa sarebbe chiamato a rispondere, Matteo Piantedosi, a riferire in Parlamento. Ma la posizione assunta da Mattarella fa argine all’onda di discredito. D’altra parte, il documento ha un valore relativo: a redigerlo sono stati due soli componenti della commissione, i membri bulgaro e rumeno, i quali non hanno condotto un vero studio: si sono limitati a raccogliere, in occasione di una loro visita in Italia, alcune testimonianze fra persone destinatarie di fermi di polizia. Non è un atto d’accusa formale, casomai il risultato di una sorta d’indagine conoscitiva, anche un po’ artigianale nei metodi. Eppure per Meloni si tratta di una grana non da poco. È la conferma, indiretta ma non trascurabile, che la materia dei migranti resta delicatissima. E che su un terreno del genere può trovarsi a proprio agio chi, come Salvini, ha decisamente meno da perdere di una premier di destra che ha scelto la strada dell’europeismo. Polizie, tribunali, carceri. L’Onu boccia l’Italia per razzismo di Susanna Ronconi Il Manifesto, 23 ottobre 2024 Nonostante qualche apprezzamento su poche buone leggi, nessun dubbio che il Rapporto dello International Independent Expert Mechanism to Advance Racial Justice and Equality in Law Enforcement - gruppo delle Nazioni unite per il superamento del razzismo nel sistema poliziesco e giudiziario - rappresenti una chiara bocciatura dell’Italia. Nel maggio 2024 il gruppo di esperti Onu ha visitato il nostro paese, le sue prigioni e i suoi Cpr, ha parlato con parlamentari, operatori istituzionali e associazioni: queste visite sono finalizzate a fare il punto sulle pratiche discriminatorie e razziste nel campo del law enforcement, con attenzione alla popolazione afrodiscendente, e soprattutto alla valutazione delle politiche italiane mirate a contrastare queste pratiche, nonché alla loro rispondenza agli standard internazionali. Prima di arrivare a una analisi delle pratiche discriminatorie e razziste riguardante le polizie, i tribunali e le carceri, il rapporto delinea un contesto generale di “razzismo sistematico e discriminazione razziale in diversi ambiti della società” e di “pratiche discriminatorie all’interno delle istituzioni pubbliche”, con un’enfasi contro le comunità afrodiscendenti. Che si tratti di hate speech (anche da parte di esponenti politici), di leggi restrittive (come quelle sull’immigrazione) che creano vulnerabilità e espongono alla violazione dei diritti umani fondamentali, di barriere nell’accesso al welfare o di sovra-detenzione degli stranieri, ci sono tre elementi trasversali su cui si basa la bocciatura dell’Italia. Il primo, la mancanza di accountability, il fatto cioè che non ci siano procedure cogenti di responsabilizzazione delle istituzioni, tramite cui conoscere, denunciare, riparare e risarcire le violazioni. L’Italia non ha un Ente nazionale a protezione dei diritti umani come previsto dai “Princìpi di Parigi”, e realtà come gli osservatori Oscad o Unar sono deboli, inefficaci e a rischio di limitata indipendenza. Secondo, la mancanza di dati di monitoraggio, che consentano di individuare violazioni e responsabilità e valutare i progressi. Terzo, variabili culturali, come la mancanza di ri-attraversamento critico del passato coloniale e delle sue rappresentazioni, inclusa l’assenza di questi temi nei curricula scolastici. Proprio nel campo del law enforcement, il Rapporto sottolinea un retaggio culturale che “continua a influenzare le pratiche di polizia, contribuendo a una sistematica profilazione etnica e a pratiche discriminatorie”, contro cui la formazione degli agenti si dimostra, nel merito, assente. Questo incide pesantemente sulla sovra rappresentazione degli stranieri, in particolare afrodiscendenti, tra i fermat?, i perquisit?, i denunciat?, gli arrestat? e gli incarcerat?. La profilazione etnica da parte delle polizie viene denunciata dal Rapporto come “praticata in modo sistematico”, con la conseguenza anche di costruire un rapporto di sfiducia con le istituzioni e le polizie stesse. All’Italia manca, secondo l’Onu, un chiaro quadro normativo sui limiti nell’uso della violenza, e manca anche - unico paese dell’Unione europea - un ente non giudiziario, interno alle polizie, che rilevi le pratiche razziste e discriminatorie. Sotto osservazione anche gli hot spot per i migranti, i respingimenti dei minori stranieri, e le attività di profiling e repressione correlate alle politiche delle droghe: un tema, questo, ripreso più volte dalle agenzie delle Nazioni unite, su cui il Rapporto - anche grazie ai rapporti-ombra di Forum Droghe, Harm Reduction International, Società della Ragione e altri - insiste, denunciando le condotte delle polizie italiane ai danni degli stranieri. Non mancano infine due pressanti inviti: contro la deportazione in Albania e contro l’intento di abolire o mitigare il reato di tortura. *Il report dell’ONU e i rapporti-ombra su Fuoriluogo.it Moussa Diarra, un omicidio razziale Made in Italy di Mackda Ghebremariam Tesfaù Il Manifesto, 23 ottobre 2024 Era stato torturato nei Centri di detenzione libici: “Gli hanno fatto di tutto”, dirà il fratello Djemagan. Anzitutto va detto che l’omicidio di Moussa Diarra è un omicidio razziale, e sebbene il colpo del poliziotto sia stato quello fatale, non è stato né il primo né l’ultimo in quel fuoco incrociato che è il razzismo istituzionale in questo Paese. Il primo colpo che ha ferito Moussa è stato sparato dal Governo Italiano nel 2008, quando Berlusconi e Gheddafi firmarono il loro “trattato di amicizia”. Con gli accordi bilaterali, l’Italia si impegnava a formare la Guardia Costiera Libica e a fornire risorse per la costruzione di centri di detenzione, impedendo ai migranti, come Moussa, di accedere al diritto di asilo, un diritto inalienabile. Nei centri di detenzione libici, Moussa è stato trattenuto e torturato. Suo fratello Djemagan dirà: “Gli hanno fatto di tutto”. Il secondo colpo che ha centrato Moussa è stato sparato dal Ministero dell’Interno con il decreto Salvini del 2018, che ha impedito la conversione della protezione umanitaria in permesso di soggiorno. Nonostante Moussa avesse ottenuto il riconoscimento del suo status di rifugiato, il decreto lo ha incastrato in una morsa legale che gli ha precluso la possibilità di stabilizzare la sua posizione. Dopo anni di attesa, confinato nel CAS Costagrande di Verona, tristemente noto per l’isolamento e le pessime condizioni di vita, Moussa ha visto svanire la sua opportunità di ricominciare. Questo ha ulteriormente peggiorato il suo stato psicologico, gettandolo in una disperazione comune a chi si ritrova con una vita sospesa, resa precaria e “illegale” dall’assenza di un pezzo di carta. Il terzo colpo è arrivato dal Comune di Verona, che, nonostante le continue richieste di Paratod@s, realtà attivista impegnata nel sostenere l’occupazione del Ghibellin Fuggiasco, dove Moussa aveva trovato rifugio, non ha trovato una sistemazione per le cinquanta persone presenti nella struttura. Molte di queste, con documenti e contratti di lavoro, si trovavano nell’impossibilità di trovare un alloggio a causa delle gravi e sistematiche discriminazioni che colpiscono le persone immigrate nel mercato immobiliare privato, e spesso anche nell’edilizia popolare. Persino il sindaco di Verona, Damiano Tommasi, era al corrente della situazione: nei primi mesi del suo mandato aveva visitato il Ghibellin Fuggiasco, promettendo che il Comune avrebbe trovato una soluzione dignitosa per le persone rifugiate. Il quarto colpo sì, l’ha sparato il poliziotto che ha scelto di rispondere al disagio psichico causato dalla marginalizzazione con una violenza omicida. Sebbene la dinamica dei fatti sia ancora poco chiara, possiamo affermare con certezza che, di fronte a una persona in stato confusionale da ore, la risposta adeguata avrebbe dovuto essere quella della cura e dell’intervento dei servizi medici, non certo un proiettile. Durante le due ore in cui si racconta che Moussa abbia vagato per la stazione, perché la polizia non ha allertato il 118? Il corpo nero di Moussa è apparso più minaccioso di quanto fosse realmente, come raccontano le storie di violenza poliziesca negli Stati Uniti? È possibile che il suo dolore fosse meno visibile nascosto sotto la sua pelle nera? Sul cadavere di Moussa, il quinto colpo l’ha poi infierito la stampa, cercando di dipingerlo come un criminale, inquinando le acque con affermazioni come “esclusa matrice terroristica” o descrivendo la zona della stazione come un luogo insicuro, preda di malviventi e malintenzionati. È stato creato il mostro, evocando lo spettro di Kabobo, dei machete e delle violenze barbariche dei colonizzati, senza che venisse mai diffusa alcuna immagine della presunta arma impugnata. E sul cadavere di Moussa ha infierito anche Matteo Salvini, pubblicando dichiarazioni agghiaccianti come: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere”. Queste parole meritano di essere portate all’attenzione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni d’odio. Infine, ciò che è gravissimo ma forse non sorprendente è l’umiliazione della memoria di Moussa, evidenziata da un comunicato stampa “congiunto” della Procura e della Questura, attualmente irrintracciabile ma di cui parlano le principali testate nazionali. Questa intesa sembra consolidare pratiche già osservate a Verona, dove, di fronte all’accusa di torture, inflitte dalla squadra mobile persone di origine non italiana, la Questura è stata messa a indagare su se stessa, in una totale confusione di interessi e funzioni. La morte di Moussa Diarra si colloca in un clima di crescente repressione, in coincidenza con la possibile introduzione del decreto legge 1660, che intensifica la guerra contro la povertà e la marginalizzazione delle persone con background migratorio. Per chiedere giustizia e verità per Moussa, come stanno facendo i numerosi presidi spontanei alla Stazione di Verona Porta Nuova in questi giorni, è fondamentale pretendere un’indagine trasparente sul suo omicidio per mano della polizia. Ma è altrettanto importante riconoscere che, prima del colpo letale, la vita di Moussa è stata costantemente segnata dal razzismo strutturale e istituzionale di questo paese. Maysoon Majidi è libera, il processo continua di Silvio Messinetti e Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 23 ottobre 2024 Il caso Venuti meno gli indizi di colpevolezza. Si dovrà invece attendere il 27 novembre per la sentenza di primo grado. Alle 20.50 esplode di gioia l’aula 3 delle udienze penali nel tribunale di Crotone. Maysoon Majidi è libera. Dopo nove interminabili ore di discussione, sono rimasti in pochi. Ma tutte e tutti piangono commossi. Persino gli uomini in divisa si chiedevano cosa ci facesse alla sbarra in terra di Calabria questa esile ragazza. L’avvocato Giancarlo Liberati corre a dirlo alla 28enne curda, attivista dei diritti umani, imprigionata da 10 mesi con l’accusa di essere una scafista. La ragazza si è sentita male al termine dell’udienza ed è stata trasportata in una sala attigua, in attesa che si concludesse la camera di consiglio. Appena il suo difensore le ha dato la notizia, ha perso conoscenza per un attimo e subito si è ripresa. La libertà è stata ottenuta seduta stante, in virtù della richiesta di scarcerazione presentata, già in precedenti udienze, dal legale. Chissà come la prenderanno al tribunale del Riesame di Catanzaro, che dopo quattro giorni ancora non si è pronunciato sulla richiesta di sospensione della custodia cautelare. È davvero un caso di scuola nella storia della procedura penale: la scarcerazione arriva dal tribunale competente in merito, prima ancora che si pronunci il Riesame. È l’ennesimo corto circuito, questa sì una vera “abnormità” di una giustizia capovolta. Pareva che i giudici a queste latitudini avessero timore di decidere. Eppure Maysoon non aveva alcun interesse alla fuga. In Iran e Paesi limitrofi non voleva e non poteva tornare. Nel resto d’Europa sarebbe stata braccata. Inoltre non avrebbe potuto inquinare le indagini di un processo che volge al termine. Proveniente dal carcere di Reggio Calabria, verso mezzogiorno l’imputata è arrivata in manette nel palazzone di Corso Mazzini. Il suo stato di salute preoccupava. All’udienza del Riesame aveva assistito da remoto, su consiglio dei medici. Ieri ha voluto fortemente esserci. Quella di ieri era l’udienza del fratello di Maysoon, Rayan, destinatario nei giorni scorsi di un provvedimento “ad orologeria” di espulsione dalla Germania, a pochi giorni dalla deposizione in aula, contro cui ha fatto ricorso. Malgrado ciò, ieri ha risposto in videoconferenza alle domande della difesa, dell’accusa e del collegio giudicante, presieduto da Edoardo D’Ambrosio. Rayan ha ripercorso il viaggio in fuga dall’Iran prima e dal Kurdistan iracheno poi. Ha raccontato il loro arrivo in Turchia nell’agosto 2023, insieme ad altri attivisti: “Abbiamo pagato 5mila euro per entrare in Turchia come rifugiati. Dopo avere ricevuto i passaporti falsi, ci siamo recati a Istanbul con vari mezzi e macchine. Eravamo in 15 e siamo stati truffati. Ci hanno derubato dei soldi, ci minacciavano, ci facevano violenze continuamente”. Infine, ha confermato quanto affermato da Maysoon: i fratelli Majidi hanno dovuto aspettare fino a dicembre per avere i soldi del viaggio in Italia. Sono arrivati grazie alla raccolta fondi promossa dalla loro organizzazione, il partito Komala. Nulla di fatto invece per la citazione di Hasan Hosenzadi. La polizia tedesca non è riuscita a rintracciarlo. Si tratta di una testimonianza che avrebbe potuto scagionare l’imputata, in quanto negherebbe che Maysoon sia stata tra gli organizzatori del viaggio. Il teste è stato rintracciato in passato più volte dalla difesa. Ma non dai nostri solerti inquirenti. È un’altra falla di un processo che stava andando in una direzione contraria allo Stato di diritto. I video prodotti dall’accusa sono stati smentiti; altre riproduzioni videofotografiche documentano che l’attivista era sopra coperta insieme ai migranti. Un’intera famiglia che viaggiava su quella barca, composta da madre, padre e figlia, ieri in udienza ha ribadito che non è Maysoon la scafista. Lo stesso presunto timoniere della barca, Ufuk Akturk, ha scagionato la donna. Lo ha confermato anche ieri. Akturk ha dichiarato che i soldi ricevuti da lui sono stati un regalo dei migranti, ma non ha pagato il viaggio. Maysoon dovrà invece attendere il 27 novembre per la sentenza di primo grado, ma intanto per la prima volta può percorrere da libera i viali illuminati di Crotone. Le migrazioni e il “bighellonaggio” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 23 ottobre 2024 I dati dei salvataggi dei migranti. E il numero dei morti in mare, anche a causa della decisione del governo di scoraggiare i soccorsi dirottando le Ong nei porti più lontani possibili. Bighellona oggi e bighellona domani, per usare il verbo spudorato usato da Giulia Bongiorno nella sua alluvionale arringa in difesa di Matteo Salvini, le navi che battono il Mediterraneo per salvare in mare uomini, donne e bambini alla deriva sono state costrette a fare tra febbraio 2023 e aprile 2024, grazie alle decisioni del governo di scoraggiare i soccorsi dirottando le Ong nei porti più lontani possibili, 154.538 chilometri in più. Tre volte e mezzo il giro del mondo. Lo scrive il Dossier Statistico Immigrazione 2024, edito da IDOS. “Sono andata a guardare quante persone non si è riusciti a salvare in rapporto alle persone che sbarcavano. I dati di questo governo sono i più bassi”, disse Giorgia Meloni per spiegare la sua scelta. Il dossier lo nega: “Solo nel 2023 si contano almeno 3.155 vittime, di cui 2.526 nel Mediterraneo centrale, segnando il numero più alto dal 2017”. Di più: “A queste si aggiungono oltre 1.400 decessi da gennaio a ottobre 2024”. Anche a causa, appunto, di quella decisione di allontanare il più possibile le navi Ong con “21 fermi e 446 giornate di inattività complessive” col risultato di “impedire il soccorso ad altri naufraghi”. Sia come sia, quella parola scelta per marchiare i soccorritori come dediti al “bighellonaggio”, parola che Giuliano Ferrara bolla come “temeraria”, la dice lunga sulla sensibilità della celebre avvocatessa. Peccato. Attentissima ai codicilli forse ignora che solo a Ellis Island arrivarono negli anni della Grande emigrazione italiana (segnata da migliaia di morti in decine di apocalittici naufragi: Bourgogne, Sirio, Mafalda, Utopia, Lusitania, Titanic...) 958 siciliani col cognome “Bongiorno” (compresa una Giulia Bongiorno, 18 anni, sbarcata a New York il 20 gennaio 1907 dalla Principessa Irene) più 252 “Buongiorno” e un’infinità di siciliani dai cognomi simili storpiati dagli impiegati all’ingresso. Più chissà quanti clandestini se è vero che il gangster Albert Anastasia si vantava che la mafia aveva fatto entrare illegalmente almeno 60mila italiani nel solo porto di New York. Per non dire dei tanti siciliani che, raccontati dai reportage di Egisto Corradi, dalle copertine della Domenica del Corriere, dal film di Pietro Germi, dai libri di Sandro Rinauro, passarono clandestinamente le Alpi nel primo e nel secondo dopoguerra. Ma che ci frega, erano solo i nostri nonni. Il decreto legge sui Paesi sicuri per ora è soprattutto un decreto fantasma di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 23 ottobre 2024 Dopo il varo in Consiglio dei ministri del decreto legge con la nuova lista di “Paesi sicuri”, di cui peraltro da lunedì ancora non si conosce il testo per esteso, il governo prosegue con la serie di contromosse escogitate per circoscrivere la falla aperta nel funzionamento del Protocollo Italia-Albania dalle ordinanze del tribunale di Roma. E lo fa in un clima di tensione vibrante fra le forze di maggioranza e la magistratura, con l’ennesimo botta e risposta fra esponenti dell’esecutivo e dell’Anm, mentre le opposizioni chiedono a gran voce che la premier Giorgia Meloni vada in Parlamento a riferire sulla situazione. Secondo alcune fonti, nel testo finale del decreto potrebbe alla fine trovare posto pure una nuova norma per introdurre il ricorso in Corte d’Appello contro le ordinanze del tribunale sul trattenimento dei migranti nei centri (che finora possono essere impugnate solo in Cassazione). Sui principi cardine del decreto, in attesa di conoscere il dettato delle norme, già avanzano dubbi diversi giuristi, ipotizzando che della questione in futuro possa essere interessata la Consulta. Inoltre il Viminale ha dato mandato all’Avvocatura di Stato di presentare un ricorso in Cassazione contro le ordinanze della sezione immigrazione del tribunale di Roma che non hanno convalidato il trattenimento di 12 migranti egiziani e bengalesi a Gjader, uno dei due centri italiani costruiti in Albania. L’ordinanza “è errata e ingiusta”, si legge in uno dei ricorsi, relativo a uno straniero proveniente dal Bangladesh. Per gli avvocati dello Stato, “l’ordinanza deve essere cassata non solo per essersi fondata su una ricostruzione normativa errata”, ma anche per aver omesso “di indicare le ragioni in fatto che hanno condotto il Tribunale ad affermare, sulla base di detta ricostruzione, che il Paese di origine dell’odierno intimato non fosse sicuro per quest’ultimo”. Il timore di “un contenzioso seriale” - Nei fatti, l’incubo che agita il Viminale, e in definitiva l’intero governo, è che pronunce analoghe ora si susseguano, tanto da sollecitare - nei suddetti ricorsi - una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che dia una linea univoca, “in modo da pervenire quanto prima a una interpretazione che scongiuri l’ulteriore moltiplicarsi di un contenzioso seriale e una situazione di incertezza interpretativa” tale da pregiudicare “il buon funzionamento dell’attività amministrativa di governo del flusso di migranti e dell’esame delle domande di protezione internazionale”. Peraltro, più di un mese fa, i giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma hanno rivolto un interpello alla prima sezione civile della Cassazione, affinché si pronunci in merito alla possibilità di agire autonomamente o di doversi attenere alla lista dei Paesi sicuri stilata dal ministero degli Esteri. La richiesta (avvenuta prima della sentenza della Corte di giustizia europea del 4 ottobre) potrebbe avere risposta il 4 dicembre. Le opposizioni: Meloni riferisca alle Camere sul “dl fantasma” - In Parlamento, intanto, le opposizioni chiedono in coro che la premier si presenti al più presto alle Camere per riferire sia sull’applicazione e sui costi del protocollo con l’Albania che sul nuovo decreto. A dare il la alle richieste è il Pd, con la capogruppo alla Camera Chiara Braga, che sollecita “un’informativa urgente della presidente del Consiglio sul decreto fantasma licenziato ieri dal Cdm”. spiegare “cosa sta scritto in quel decreto e cosa può aggiungere al diritto europeo, che è chiaro e vi dice che non si possono rimpatriare persone se i paesi non sono sicuri in tutte le loro parti”. Nuove frizioni fra Lega e Anm - Nel frattempo, non accenna a raffreddarsi il clima di scontro fra le forze di governo e la magistratura associata. La Legacontinua a punzecchiare l’Anm: “È auspicabile che, ricordando alcuni scandali come quelli Palamara, Apostolico e Patarnello, sappia finalmente fare autocritica per trovare equilibrio e moderazione - si legge in una nota sferzante -. Dalle toghe ci si aspetta che applichino la legge, che non cerchino di ribaltare il voto popolare e che la smettano di fare comizi sfruttando ruolo e impunità. Lascino governare chi è stato scelto dagli italiani: se vogliono fare politica si dimettano e si candidino col Pd”. Dal canto suo, l’Associazione nazionale magistrati, indignata per le affermazioni dell’altra sera da parte del Guardasigilli Carlo Nordio sull’operato dei giudici romani (“La sentenza della Corte europea è molto complessa e scritta in francese, probabilmente non è stata ben compresa o ben letta”) lamenta atti di “dileggio”, chiedendo con forza il rispetto della “giurisdizione come esercizio di una funzione autonoma ed indipendente”. Tensioni in seno al Csm - E le fibrillazioni politiche si riverberano anche dentro Palazzo dei Marescialli. I membri togati del Consiglio superiore della magistratura (con 16 firme di esponenti delle correnti di Area, Magistratura democratica e Unicost, più gli indipendenti Fontana e Mirenda, ma senza quelle di Magistratura indipendente, corrente di centrodestra) hanno depositato la richiesta di apertura di una pratica a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei giudici capitolini, lamentando che “le critiche alle decisioni giudiziarie non possono travalicare il doveroso rispetto per la magistratura”. A loro volta, i consiglieri laici di centrodestra del Csm chiedono al comitato di presidenza l’apertura urgente di una pratica nei confronti del sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, il magistrato che il 19 ottobre ha inviato la criticata mail di considerazioni sulla premier Meloni nella piattaforma dell’Anm, innescando un caso politico. I consiglieri chiedono di valutare la sussistenza dei presupposti per richiedere l’attivazione di un’azione disciplinare e l’eventuale trasferimento di ufficio del magistrato. Il sogno deportazioni finisce qui: il Colle spezza le reni a Giorgia di David Romoli L’Unità, 23 ottobre 2024 Il decreto presentato ieri in Consiglio dei ministri sottraeva al Tribunale di Roma le decisioni sui migranti deportati in Albania, ma Mattarella ha minacciato: “O questa parte salta o non firmo”. Ieri a metà pomeriggio il presidente della Repubblica non aveva ancora potuto leggere il decreto con la lista dei paesi considerati sicuri che il governo dovrebbe emanare. Il testo era fermo a palazzo Chigi e questo, data la tensione e le complicazioni che avevano accompagnato 24 ore prima la gestazione del testo, inevitabilmente ha destato qualche sospetto su possibili tentativi di far rientrare dalla finestra, magari tra le righe, quel che la presidenza della Repubblica aveva cacciato dalla porta il giorno prima. Il decreto illustrato lunedì sera dal sottosegretario Mantovano e dai ministri Nordio e Piantedosi non è quello a cui miravano la premier e il Governo. C’è solo la metà inerente alla trasformazione in norma primaria invece che secondaria, cioè amministrativa, della lista dei Paesi considerati sicuri, portata da 22 a 19. Manca la parte che riguardava le procedure. L’ha bloccata il Colle nel corso di una trattativa a tratti molto tesa. I contenuti procedurali non sono noti e la consegna del silenzio è materia rigida sia a palazzo Chigi che al Quirinale. Di certo però si trattava di norme che avrebbero permesso di sottrarre alla Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma il giudizio sui trasferimenti in Albania nel quadro dei rimpatri accelerati. Il Colle si è messo di mezzo, la maggioranza ha provato a insistere e a forzare, poi ha capito che si sarebbe arrivati a uno scontro frontale con il presidente e ha preferito arretrare. Nel decreto è rimasta solo la parte meno aggressiva e di fatto a forte rischio di rivelarsi del tutto inoffensiva, data la prevalenza codificata delle norme europee su quelle dei singoli Stati. Anche così, dunque al netto di possibili tentativi di reintrodurre nel testo quelle norme procedurali sulle quali grava il pollice verso di Mattarella, il decreto desta dubbi formali non ancora del tutto risolti. Necessitano i requisiti di necessità e urgenza, e come si fa a considerare una normale sentenza del Tribunale di Roma evento tale da giustificare una procedura necessaria e urgente? La firma del capo dello Stato, necessaria per emanare il decreto, è probabile ma non ancora scontata. Per decidere il presidente aspetta di leggere ed esaminare nel dettaglio il testo. Mattarella è orientato a firmarla ma solo se, come si aspetta, il decreto si limiterà alla lista dei 19 Paesi. Non è la prima occasione di tensione anche alta tra il Colle e il governo Meloni, anche se quasi sempre gli incidenti sono stati tenuti quanto più nascosti possibile. Ma è la prima volta che un provvedimento importante del governo sbatte contro la blindatura del Colle. In ballo c’è la divisione dei poteri e Mattarella non ha alcuna intenzione di legittimare un precedente che permetterebbe al governo di rimuovere i magistrati che infastidiscono, cosa peraltro ben diversa dal ripristinare quei confini tra poteri dello Stato che la magistratura stessa ha più volte oltrepassato nei decenni scorsi. Anche se la firma del presidente ci sarà, la vicenda non sarà affatto conclusa. Prima o poi il governo dovrà per forza imbarcare nuovi migranti alla volta dell’hotspot albanese e a quel punto saranno i magistrati di Roma a scegliere tra l’ignorare un decreto che ritengono sbatta con la norma europea sancita dalla sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre oppure rivolgersi alla Consulta perché dirima la vicenda. Nel primo caso, però, sarebbe probabilmente il governo, che ieri ha dato mandato agli avvocati del Viminale per il ricorso in Cassazione contro la sentenza di Roma, a ricorrere alla Corte costituzionale. Neppure sul fronte politico la tempesta si placherà presto. L’opposizione reclama la presenza in aula della premier per un’informativa e quanto il passaggio sia delicato è dimostrato dalla derubricazione dei festeggiamenti del secondo anno di governo minore, che dovevano essere fragorosi, a occasione minore, celebrata dalla premier con un paio di anonimi messaggi video. Troppo imbarazzante l’annunciata e poi cancellata conferenza stampa, nella quale le domande si sarebbero concentrate sull’Albania ma altrettanto può dirsi di un eventuale dibattito in Parlamento. Il capo dello Stato ha di fatto imposto un brusco abbassamento dei toni e ordinato di mettere la sordina alle polemiche contro la magistratura. In conferenza stampa, dopo le dichiarazioni di fuoco dei giorni precedenti, la premier non avrebbe potuto onorare l’impegno e non potrà farlo neppure se sul tema affronterà il Parlamento. Ma il semaforo rosso del Colle implica una conseguenza in più, non direttamente legata ai rimpatri o all’immigrazione. Mattarella ha dimostrato nei fatti quanto sia importante e necessaria la presenza di un presidente della Repubblica non asservito ai voleri della maggioranza e il precedente, non unico però mai così netto, peserà se mai si arriverà a un referendum su quella elezione diretta del premier che non a caso la premier non sembra avere più alcuna fretta di varare. Migranti in Albania, il ricorso del Viminale: “Travisata Corte di Giustizia Ue” di Luca Sablone Il Riformista, 23 ottobre 2024 Il ministero dell’Interno dà mandato all’Avvocatura di Stato contro il decreto del Tribunale di Roma. Le opposizioni si compattano: “Meloni chiarisca in Aula”. Prima il nuovo decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri per blindare i rimpatri, ora la battaglia in Cassazione contro il provvedimento della sezione immigrazione del Tribunale di Roma. Il braccio di ferro tra il governo e le toghe sul trattenimento dei migranti nei centri di permanenza in Albania è solo alle prime battute. Il ministero dell’Interno, facendo leva sulla mancata applicazione della norma italiana sui paesi sicuri, ha dato mandato all’Avvocatura di Stato per preparare il ricorso. La decisione dei giudici viene definita “errata e ingiusta”, accusando l’ordinanza di essere “viziata per aver fatto mal governo delle norme che regolano la designazione di paese di origine sicura” e soprattutto per aver “travisato il contenuto e la portata della sentenza della Corte di Giustizia Ue” del 4 ottobre 2024. In sostanza, è il ragionamento, bisognava valutare caso per caso i motivi per cui il richiedente asilo non poteva essere riportato nel suo Stato d’origine. E viene scritto nero su bianco che il decreto di trattenimento doveva essere convalidato, considerando che - si legge - il richiedente “proviene da un paese di origine sicuro che è tale in tutto il suo territorio e che non sussistono i gravi motivi per ritenere che quel paese non sia sicuro per lui”. L’obiettivo del governo è quello di evitare una serie infinita di contenziosi, visto che una situazione di incertezza interpretativa rischia di “pregiudicare il buon funzionamento dell’attività amministrativa di governo del flusso di migranti e dell’esame delle domande di protezione internazionale”. Perciò lunedì sera il Cdm ha dato il via libera al nuovo testo che, di fatto, “potenzia” l’elenco dei 19 paesi di origine sicuri grazie a un atto con forza di legge. Diventa così fonte primaria. Ne fanno parte Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia; invece restano fuori Camerun, Colombia e Nigeria. Ma l’avvocato Paolo Iafrate, che assiste un migrante originario del Bangladesh, obietta: “Non si può dire che il paese sia sicuro in tutto il suo territorio”. Irritata la replica del vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini: “È stato arrestato nelle Marche uno stupratore del Bangladesh. Visto che un giudice lo ritiene un paese non sicuro, che facciamo? Gli offriamo un pezzo di focaccia col formaggio di Recco?”. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ostenta ottimismo: “Offriamo un parametro che sia l’applicazione di una legge rispetto a qualche ondivaga interpretazione”. Ma bisognerà vedere se la posizione del governo sarà davvero rafforzata di fronte alle norme del diritto europeo. Le opposizioni, almeno per una volta, si compattano e giurano barricate in Parlamento. Partito democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi-Sinistra, Azione, Italia Viva e +Europa chiedono a Giorgia Meloni di riferire in Aula con un’informativa urgente per fare chiarezza sull’accordo con Tirana e sulle ultime misure varate a Palazzo Chigi. Chiara Braga, capogruppo del Pd alla Camera, parla di “decreto fantasma” e invita la presidente del Consiglio a rendere conto “di questo spettacolo indecoroso e ridicolo”. Altrettanto al veleno le critiche di Carlo Calenda, secondo cui non cambierà nulla perché il giudice potrà sempre impugnare sulla base di ciò che stabilisce la Corte di Giustizia europea. “Ridicolaggine, è un gran rumore sul nulla. Meloni è molto furbacchiotta”, tuona il leader di Azione. Avs presenta un’interrogazione su costi, navi e personale. Le polemiche sul protocollo Italia-Albania si trascinano anche in Europa. I socialisti e democratici al Parlamento Ue ribadiscono il netto “no” a ogni proposta di esternalizzare la politica di asilo e rimpatri. Iratxe García Pérez, presidente del gruppo S&D, mette le mani avanti: “Siamo molto preoccupati dal fatto che von der Leyen voglia adottare questa strategia. Voglio dirlo in maniera diretta: così non può contare sul nostro sostegno”. Parole che suonano come un avvertimento per Ursula: una linea del genere sull’immigrazione pone in salita la strada del voto per la Commissione. E, addirittura, potrebbe compromettere l’appoggio al voto di fiducia. Intanto resta in piedi l’ipotesi di un elenco di paesi sicuri a livello Ue, ma servirà tempo e la discussione si preannuncia già complicata. Piantedosi: “Rimpatri, non ci si può fermare. E avanti con i centri in Albania” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 ottobre 2024 Il ministro dell’Interno: “La nuova regolamentazione, che potrebbe entrare in vigore prima del giugno 2026, renderà obbligatorie le procedure accelerate alla frontiera e prevedrà criteri molto più diretti di qualificazione dei Paesi sicuri legandoli al numero di domande di asilo accolte in tutta l’Unione europea. L’entrata in vigore di queste regole rafforzerà sicuramente la nostra capacità di contrastare il traffico di esseri umani senza limitare in alcun modo il diritto d’asilo. E sarà il completamento delle politiche finora adottate dal Governo che ad oggi hanno permesso di ridurre del 61% gli sbarchi rispetto al 2023 e del 29% rispetto al 2022”. Ministro Piantedosi, mentre è ancora alto il livello dello scontro tra governo e magistrati sui rimpatri, sotto accusa finisce la polizia... “È incredibile che una organizzazione internazionale che dovrebbe tutelare i diritti umani, promuovere l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa possa fare simili affermazioni, del tutto destituite di fondamento”. L’Ecri, commissione del Consiglio d’Europa, chiede di cambiare le regole di identificazione per rom e cittadini africani. Non seguirete l’indicazione? “Le nostre forze di polizia sono apprezzate in Italia e nel mondo quali baluardi della democrazia, della difesa dei più deboli e della vicinanza ai problemi quotidiani dei cittadini. Questa è la linea”. E sui rimpatri crede che la linea tracciata per decreto basterà a chiudere la polemica? “Noi riteniamo che aver fissato con norma primaria l’elenco dei “Paesi sicuri” possa contribuire a una maggiore certezza applicativa di procedure importanti”. Molti giuristi ritengono invece che i magistrati potranno continuare a ritenere i Paesi non sicuri e comunque giudicare caso per caso. “Ogni magistrato ha autonomia e indipendenza nelle decisioni che assume, ma ogni pronuncia può essere impugnata innanzi alle magistrature superiori”. Lei ha detto che le procedure seguite dall’Italia anticipano di un anno la normativa che entrerà in vigore in Europa. Non era meglio aspettare? “È il nodo centrale della discussione. La nuova regolamentazione, che potrebbe entrare in vigore prima del giugno 2026, renderà obbligatorie le procedure accelerate alla frontiera e prevedrà criteri molto più diretti di qualificazione dei “Paesi sicuri” legandoli al numero di domande di asilo accolte in tutta l’Unione europea. L’entrata in vigore di queste regole rafforzerà sicuramente la nostra capacità di contrastare il traffico di esseri umani senza limitare in alcun modo il diritto d’asilo. E sarà il completamento delle politiche finora adottate dal Governo che ad oggi hanno permesso di ridurre del 61% gli sbarchi rispetto al 2023 e del 29% rispetto al 2022”. Avete presentato ricorso in Cassazione contro l’ordinanza del tribunale civile di Roma. Invece di forzare la mano con un decreto, non sarebbe stato opportuno seguire solo la via giudiziaria? “Le due strade non sono alternative. Il ricorso sarà l’opportunità per sottoporre alla Suprema Corte una interpretazione univoca della normativa vigente. Ma crediamo sia tutt’altro che inutile intervenire sull’attuale regolamentazione per chiarire alcuni profili interpretativi”. Ma se gli sbarchi sono diminuiti qual era l’urgenza? “Come ho già detto la scelta di individuare per legge l’elenco dei “Paesi sicuri” si inquadra nell’ambito del rafforzamento del sistema dei rimpatri, proprio per completare l’azione proficua che stiamo svolgendo per contrastare le partenze irregolari. Rammento che tale rafforzamento è un obiettivo richiesto dalla stessa Unione europea. Lo ha sottolineato anche la presidente von der Leyen in una lettera ai capi di Stato e di governo quando ha parlato della necessità di “continuare a esplorare possibili strade da percorrere per quanto riguarda l’idea di sviluppare hub di rimpatrio al di fuori dell’Ue”, evidenziando peraltro che, con “l’avvio delle operazioni previste dal protocollo Italia-Albania, potremo anche trarre lezioni da questa esperienza pratica”“. Lei davvero ritiene che i 19 Stati siano tutti sicuri? “L’elenco dei “Paesi sicuri” non si fonda su elementi opinabili ma su precisi parametri nonché su informazioni acquisite da organizzazioni internazionali. Se volessi risponderle con una provocazione, potrei dirle che l’Italia non rimpatria persone in Afghanistan, come pure fanno altri Paesi europei di cui non è in dubbio la vocazione al rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. Condivide la linea del governo di attacco alle toghe? “Io non credo si possa dire che ci siano stati attacchi da parte del governo. Se può essere legittimo e comprensibile che i magistrati liberamente esprimano le loro opinioni, soprattutto nell’ambito dell’attività associativa, credo che analoga prerogativa non possa essere negata alla politica che, per definizione, si caratterizza per libertà di espressione. Per quanto mi riguarda, da ministro dell’Interno, ritengo importante che ogni possibile obiezione ai contenuti degli atti giudiziari sia effettuata attraverso le impugnazioni”. In questo caso gli attacchi sono stati personali, senza peraltro riconoscere che il sistema dei rimpatri è in affanno, visto che molti Stati non accettano il ritorno a casa. “I rimpatri stanno già progressivamente aumentando. Nella maggior parte dei casi riguardano persone che si sono contraddistinte anche per atteggiamenti pericolosi. Rafforzare il sistema dei rimpatri, come ho detto, è un obiettivo che ci viene assegnato dall’Europa, oltre che una forte aspettativa dei cittadini. Per ciò che riguarda gli ingressi regolari, che condivido essere altra cosa, questo governo ha adottato provvedimenti concreti come mai nessuno in precedenza, programmando l’arrivo di 452.000 lavoratori in tre anni”. Ma allora che bisogno c’era di creare centri in Albania che hanno costi altissimi? “Le nuove regole europee richiedono all’Italia di organizzarsi per l’accoglienza e il trattenimento di diverse migliaia di persone. Rinunciare all’opportunità di 880 posti che, in prospettiva, potranno offrire i centri in Albania sarebbe stato illogico. Quando il sistema andrà a pieno regime, la conseguente deterrenza sulle partenze irregolari determinerà un significativo risparmio sugli attuali costi dell’accoglienza”. Con lo stesso investimento non sarebbe stato meglio creare hotspot in Tunisia o in altri Stati di provenienza? “Sono soluzioni non alternative tra di loro, ma per essere realizzate necessitano della disponibilità dei Paesi che li ospitano”. Carceri affollate, la lezione inglese: liberi migliaia di detenuti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 23 ottobre 2024 Il provvedimento riguarda chiunque abbia scontato il 40% di una pena inferiore a cinque anni. Sono esclusi dal piano i crimini violenti, i reati sessuali o connessi al terrorismo. Le carceri del Regno Unito stanno letteralmente esplodendo per il sovraffollamento e il governo è stato costretto a correre ai ripari applicando misure straordinarie, ma anche di naturale buon senso. Da oggi infatti sono stati rilasciati in anticipo 1100 detenuti nel quadro di un piano di emergenza che prevede di rimettere in libertà chiunque stia scontando una pena superiore ai 5 anni dopo aver passato almeno il 40% del suo tempo dietro le sbarre. Sono esclusi i detenuti che sono stati condannati per violenze gravi, crimini sessuali e terrorismo. In realtà si tratta già di una seconda tranche di rilasci, iniziati a settembre, mentre il governo sta avviando un’importante revisione delle condanne che probabilmente porterà a nuovi modi di scontare la pena al di fuori delle carceri. L’intento è dunque quello di ridurre in modo drastico il sovraffollamento che soffoca gli istituti di pena e potrebbe portare i giudici a condannare le persone con quello che viene definito oltremanica “carcere fuori dal carcere”, una serie di misure che vanno dagli arresti domiciliari, all’obbligo di firma, ai cosiddetti lavori socialmente utili. Il nuovo pacchetto di scarcerazioni è stato illustrato dalla ministra laburista della Giustizia, Shabana Mahmood in un incontro con i giornalisti: “Dobbiamo avere un piano a lungo termine che ci metta in una posizione diversa, in cui il carcere funziona, mantiene il pubblico al sicuro, ma che si occupi anche della riabilitazione dei delinquenti”. I rilasci anticipati sono conseguenza dei preoccupati avvertimenti dei funzionari penitenziari circa il rischio di un esaurimento completo dello spazio nelle carceri del Regno Unito. Il programma definitivo libererà 5500 posti in Inghilterra e Galles, rilasciando i detenuti che saranno monitorati dalle autorità britanniche. Molti di coloro che lasceranno le celle, proverranno da “carceri aperte”, cioè che hanno già seguito un percorso di riabilitazione. In Gran Bretagna la popolazione carceraria è cresciuta di circa 4500 persone all’anno, più velocemente di quanto successo prima. L’attuale numero è di 87465 detenuti, con solo 1671 posti liberi rimasti. La ministra della Giustizia ha in tal senso assicurato che l’esecutivo laburista guidato da Keir Starmer costruirà i 14mila posti promessi ma non realizzati dai precedenti governi conservatori, ma vuole anche cambiare il modo in cui funzionano le condanne per evitare che la crisi del sovraffollamento si ripeta. Shabana Mahmood ha spiegato che in questo momento si apre “l’opportunità di rimodellare e riprogettare l’aspetto della punizione al di fuori di una prigione. È chiaro che deve ancora essere una sanzione, le persone che hanno commesso dei reati devono ancora avere la loro libertà limitata, devono sapere e credere che ci sono conseguenze per aver infranto le nostre leggi”. Il programma sarà guidato da David Gauke, ex segretario alla Giustizia conservatore, ribellatosi a suo tempo al proprio partito da posizioni più moderate e progressiste. Il suo rapporto, atteso per la prossima primavera, esaminerà la sostituzione delle pene detentive brevi con nuove forme di punizione comunitaria e l’utilizzo della tecnologia per migliorare la riabilitazione dei detenuti. Tra gli strumenti che saranno impiegati, il cosiddetto “tag di sobrietà” che monitora se un trasgressore beve alcolici, insieme a dispositivi simili a orologi intelligenti, sperimentati in alcune parti degli Stati Uniti, che inviano messaggi immediati a coloro che infrangono le misure di sorveglianza e di limitazione della libertà. Tuttavia nel programma di rilasci anticipati si sono verificati alcuni gravi errori da parte del governo. Trentasette detenuti le cui condanne non erano state correttamente registrate sono stati liberati anche non avendone diritto, anche se è stato assicurato che ora sono stati tutti individuati e rimessi in custodia. Una goccia nel mare di un provvedimento che renderà le prigioni britanniche più vivibili. Secondo Mark Fairhurst, presidente nazionale della Prison Officers Association, il tasso di nuova carcerazione per i prigionieri rilasciati arriva quasi al 50% in alcune aree, il che significa che la metà dei detenuti rilasciati con licenza avrebbe violato le proprie condizioni. Ma in altri casi il percorso di riabilitazione si rivelato positivo e incoraggiante.