“Amnistia e indulto non sono un tabù”, l’appello sul carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2024 La richiesta di avvocati, giuristi, garanti, politici, intellettuali e rappresentanti delle associazioni affinché, vista l’inumana condizione degli istituti penitenziari, si adottino i provvedimenti previsti dalla Costituzione. Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage di vite e diritti nelle carceri italiane. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione. Dall’inizio dell’anno ormai ben oltre settanta persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, quanti non mai dall’inizio del secolo in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Ognuno di loro avrà avuto le proprie personali ragioni per arrivare a quella scelta ultima ed estrema, ma quelle morti ci interrogano sull’ambiente di vita e professionale in cui avvengono e sulle sue croniche carenze. Sono ormai 62.000 i detenuti nelle carceri italiane, circa quattordicimila in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il carcere, i suoi operatori, i detenuti non ce la fanno più. Anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di abbattere la recidiva attraverso il potenziamento della formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo dei detenuti, per potersi avverare hanno bisogno di ridimensionare il numero dei detenuti in modo che gli operatori possano seguirli efficacemente. Per non dire della prevenzione del rischio suicidario e della necessaria assistenza sanitaria. È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile e immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto dei principi dell’articolo 27 della Costituzione. In ultimo, ricordiamo che - contrariamente a una errata opinione molto diffusa - quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti, Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze. “Amnistia e indulto per i reati e i residui di pena fino a 2 anni”. Il testo dell’appello Il Dubbio, 22 ottobre 2024 Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage di vite e diritti nelle carceri italiane. Più di quanto non sia mai stato, le carceri italiane sono diventate un luogo di morte e disperazione. Dall’inizio dell’anno ormai ben oltre settanta persone si sono tolte la vita dietro le sbarre, quanti non mai dall’inizio del secolo in poco più di nove mesi. E con loro hanno deciso di farla finita sette agenti di polizia penitenziaria. Ognuno di loro avrà avuto le proprie personali ragioni per arrivare a quella scelta ultima ed estrema, ma quelle morti ci interrogano sull’ambiente di vita e professionale in cui avvengono e sulle sue croniche carenze. Sono ormai 62.000 i detenuti nelle carceri italiane, circa quattordicimila in più dei posti effettivamente disponibili. In un anno, quasi quattromila in più. Si tratta in gran parte di autori di reati minori, condannati a pene che potrebbero dar luogo a un’alternativa al carcere se avessero un domicilio adeguato, una famiglia a sostenerli, un lavoro con cui mantenersi. Non più di un terzo è autore di gravi reati contro la persona o affiliato a organizzazioni criminali. È questo il contesto in cui si sta registrando un numero di suicidi senza precedenti, tra i detenuti e nella polizia penitenziaria. Il carcere, i suoi operatori, i detenuti non ce la fanno più. Anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di abbattere la recidiva attraverso il potenziamento della formazione, dell’orientamento e dell’inserimento lavorativo dei detenuti, per potersi avverare hanno bisogno di ridimensionare il numero dei detenuti in modo che gli operatori possano seguirli efficacemente. Per non dire della prevenzione del rischio suicidario e della necessaria assistenza sanitaria. È da molto tempo all’esame della Camera una apprezzabile proposta, avanzata dall’on. Giachetti, volta a potenziare le riduzioni di pena per i detenuti che partecipano attivamente all’offerta di attività rieducative proposte dal carcere. Ma, se vedesse finalmente la luce, non consentirebbe prima di qualche mese o addirittura di un anno l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti a fine pena, tanti quanti ne sono entrati nell’ultimo anno. Serve un intervento più deciso, che consenta la cancellazione drastica e immediata del sovraffollamento e la realizzazione delle condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. È un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un provvedimento di clemenza generale, che potrebbe assumere le caratteristiche di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa sedicimila detenuti, con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per un po’ di tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile e immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto, che pure meriterebbe di essere rivista, lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il presidente del consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore del più recente provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto dei principi dell’articolo 27 della Costituzione. In ultimo, ricordiamo che - contrariamente a una errata opinione molto diffusa - quel provvedimento ha dato risultati molto positivi non solo nel decongestionamento degli istituti di pena, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca di Torrente, Sarzotti, Jocteau, commissionata dal ministero della Giustizia nel 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati grazie a quell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; d’altro canto, secondo l’indagine di Drago, Galbiati e Vertova, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Dati su cui riflettere e da cui trarre coerenti conseguenze. Firmatari: Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Michele Ainis, Mons. Vincenzo Paglia, Gaia Tortora, Giovanni Fiandaca, Gherardo Colombo, Clemente Mastella, Daria Bignardi, Mauro Palma, Francesco Petrelli, Tullio Padovani, Rita Bernardini, Dacia Maraini, Alessandro Bergonzoni, Mattia Feltri, Andrea Pugiotto, Ornella Favero, Franco Corleone, Patrizio Gonnella, Franco Maisto, Luigi Pagano, Grazia Zuffa, Valentina Calderone, Samuele Ciambriello Decreto Caivano un anno dopo, minorenni in carcere senza futuro di Ilaria Dioguardi vita.it, 22 ottobre 2024 A distanza di 12 mesi dal decreto-legge del 15 settembre 2023, cosa è cambiato? “La gestione degli istituti è andata peggiorando, sembra essere sempre più chiaro che si fa fatica a interrompere una situazione di costante tensione. Questi ragazzi vivono nel presente, senza un progetto per il domani”, dice Paolo Tartaglione, referente Area penale Minorile Cnca. Il decreto-legge 15 settembre 2023 n.123, detto “Decreto Caivano”, è diventato legge il 13 novembre dell’anno scorso. In un anno “la gestione degli istituti è andata peggiorando, sembra essere sempre più chiaro che si fa fatica a interrompere una situazione di costante tensione, di rivolte, di azioni clamorose compiute dai ragazzi, di evasioni”, dice Paolo Tartaglione, referente Area penale Minorile Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienti) e presidente della cooperativa Arimo. Tartaglione, a un anno dal Decreto Caivano, com’è la situazione? Dodici Istituti di pena per minorenni - Ipm su 17 sono sovraffollati. Il trend di affollamento non si è attenuato, nonostante una flessione della commissione dei reati e il fatto che la stragrande maggioranza dei ragazzi è detenuta in attesa di giudizio, quindi in misura cautelare. Il trend, negli ultimi mesi, è ulteriormente cresciuto. La gestione degli istituti è andata peggiorando, sembra essere sempre più chiaro che si fa fatica a interrompere una situazione di costante tensione, di rivolte, di azioni clamorose compiute dai ragazzi, di evasioni. A noi interessa cercare di provare a riportare la discussione su quello che potrebbe essere funzionale, che potrebbe effettivamente interrompere questa spirale un po’ perversa. Quale spirale? La spirale nella quale i ragazzi fanno finta di essere cattivi o, comunque, fanno la faccia sempre più dura e gli adulti, a quel punto, reagiscono, facendo a loro volta sempre più i duri. Ultimamente, il governo è arrivato addirittura a ripristinare negli Istituti penali minorili l’utilizzo delle divise. Che potrebbe sembrare una fesseria, invece, fu straordinariamente importante toglierle, provare a limitare o comunque ad attenuare l’evidenza delle “guardie” e dei “ladri”. Era una cosa simbolicamente importante. Dopo aver lavorato 20 anni, e molti miei colleghi più di me, sotto il cappello della legge dell’88 (d.p.r. 448/88, ndr), sappiamo che la possibilità di riuscire a limitare la commissione dei reati sta nella comprensione del senso del reato da parte dei ragazzi. Non le sembra che si stia lavorando negli Ipm in questa direzione? In questo momento quello che stiamo vedendo sono centinaia di ragazzi detenuti senza un progetto. E allora cosa fanno i ragazzi se non c’è un progetto per loro? Vivono nel presente. Quando entri dentro un istituto penale trovi una situazione di tensione tra i detenuti e gli agenti di custodia: se non hai in mente il futuro, fai quello che ti interessa (o quello che ti sembra ti faccia stare meglio) nel “qui e ora”. Molti fanno delle evasioni, sapendo benissimo che dureranno quattro ore e che avranno un reato in più. E questo non li frena perché tanto non guardano al futuro. Abbiamo ragazzi che entrano in carcere minorile con un reato, dopo due mesi ne hanno sette, otto, nove sulle spalle e continuano a commettere reati perché tanto è uguale. Se vivi nel presente, non hai nessun motivo al mondo per non fare reati. Quello che noi stiamo cercando di riportare nel dibattito è la necessità, fin dal primo giorno in cui il ragazzo entra in istituto, di dargli subito un ottimo motivo per non cominciare a moltiplicare i suoi reati. La maggior parte dei detenuti negli Ipm sono stranieri. In primis, cosa si dovrebbe fare per offrire a questi ragazzi stranieri un buon motivo per guardare al futuro? Impegnarsi, fin dal primo giorno, per iniziare un iter concreto verso la loro regolarizzazione, ad esempio. Il nostro ordinamento, per ciò che riguarda i minorenni, prevede di aprire una possibilità. In teoria solo le insopprimibili esigenze di difesa sociale dovrebbero portare un minorenne a essere detenuto. Quindi se decidiamo di metterlo in condizione di detenzione, deve essere un’occasione per interrompere uno stato di cose e aprire una nuova scelta. Quello che stiamo chiedendo in tutti i modi è questo: gli adulti devono fare gli adulti. Non c’è bisogno di mettere divise o di fare facce cattive. Gli adulti sono diversi dai ragazzi e devono essere capaci, in questo momento, di fare il primo passo. Non credo che possano aspettarsi che siano ragazzi disperati, in maggioranza stranieri che neanche parlano la nostra lingua, a fare un primo passo così complicato come quello di rimettere, al centro della loro esperienza di detenzione, un senso. Loro non ce lo mettono. Paolo Tartaglione Questo primo passo quale dovrebbe essere? Di sicuro noi solleciteremo governo e Parlamento a tornare a pensare interventi efficaci con i minorenni, anziché ricorrere in continuazione a presunte istanze di sicurezza, che non stanno funzionando minimamente. Anche l’idea di moltiplicare i reati, crearne nuove fattispecie , inserire il reato di rivolta all’interno delle carceri o, addirittura, di resistenza attiva e passiva alla pubblica sicurezza, non faranno altro che moltiplicare il tempo di detenzione di questi ragazzi. Soprattutto, non hanno nessuna incidenza positiva sulla sicurezza delle persone. La prima cosa che chiediamo a chi ha il potere di decidere le leggi è di ragionare, invece di continuare a fare decreti-legge basate sull’emergenza, come fu per il Decreto Caivano. È un continuo rincorrere l’emergenza. Qual è il primo intervento che bisognerebbe fare per migliorare la situazione negli Ipm? Recuperare in questo momento una visione che non sia a due giorni, ma che interessi l’arco di qualche anno. Se vogliamo intervenire positivamente in questo settore, la prima cosa è questa. Poi bisogna riportare la cultura penale minorile dentro i servizi. Ci spieghi meglio... Quando la giustizia minorile venne fusa alla giustizia degli adulti, con il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, la preoccupazione l’avevamo esposta. Voleva dire fondere un microcosmo, come quello della giustizia minorile, molto specializzato, con uno macro, con numeri incredibilmente più alti, che si occupava di adulti. Temevamo che perdesse le sue specificità ed è stato così. Dobbiamo tornare a ricordarci che ciò che ci ha portati a essere visti dal resto del mondo come un modello è la cultura del minorile, che oggi bisogna cercare di recuperare. Ad esempio, fare formazione congiunta a tutti gli operatori, educatori e agenti, perché tutti abbiano in mente chi è un minorenne che commette reato, perché lo commette e che tipo di messaggio funziona con i giovani autori di reato che stanno vivendo uno stallo di crescita che manifestano così, come altri ragazzi lo manifestano in altro modo. Molti agenti sono poco più grandi dei ragazzi detenuti negli Ipm. Abbiamo bisogno di lavorare moltissimo per dare obiettivi per il dopo. L’unica cosa che funziona con un giovane autore di reato è raccogliere la sfida del reato con una contro-sfida. Qual è la contro-sfida? Quella di tornare a crescere, di cercare di inserirsi in società e guardare al futuro con immagini desiderabili. Questa è l’unica cosa che può spingere un ragazzo a uscire da un circuito di delinquenza che, purtroppo, dà i suoi benefici secondari. Perché sappiamo che i ragazzi che spacciano, che delinquono, hanno delle disponibilità e anche un riconoscimento sociale in un certo ambiente, che per loro ha un senso. Per questo bisogna rilanciare un senso diverso nel futuro anziché nel presente. Poi bisogna fare in modo di svuotare le carceri. Come si possono svuotare le carceri? In questo momento almeno la metà dei ragazzi detenuti nelle carceri italiane non si trova lì per le insopprimibili esigenze di difesa sociale, previste dalla legge; è in quella condizione semplicemente perché non ha un altro posto dove stare. E questo ci deve interrogare moltissimo, perché sono numeri molto piccoli, anche se sono esplosi. Ma stiamo parlando di quasi 600 ragazzi. Io sono convinto che queste cose qua si risolvono come nei villaggi africani. Ovvero? Ci si mette tutti insieme e si cerca di capire, poi di capirsi. Quello che noi chiediamo è di sederci tutti intorno a un tavolo per capire come tornare a incoraggiare le comunità ad accogliere questi ragazzi. La nostra stessa legge dell’88 lo diceva: il luogo adatto per recuperare un giovane autore di reato non è il carcere, è la comunità. Se il tribunale non parla con il Centro Giustizia Minorile, che non parla con le comunità, non ne veniamo più a capo. L’idea è di capire quali sono i motivi per cui le comunità hanno ridotto la disponibilità ad accogliere i giovani autori di reato e a quali condizioni tornerebbero ad accoglierli. Invece noi vediamo con preoccupazione il fatto che regione Lombardia, ad esempio, raccogliendo una istanza del tavolo Stato-Regioni, ha aperto una manifestazione di interesse per aprire tre comunità che hanno delle caratteristiche che ci preoccupano molto. Quali sono queste caratteristiche che vi preoccupano? In Lombardia verranno fatte tre comunità con 12 posti ciascuna solo per giovani autori di reato che hanno problemi di salute mentale. Ci preoccupa moltissimo perché capiamo che possa risolvere il problema dei ragazzi non accolti, ma è la modalità con cui si pensa di risolverla che è lontana da noi. Sono decenni che si sa che non si debbono concentrare in un solo luogo tutte le criticità più alte. Siamo molto colpiti da questa scelta e stiamo cercando di interloquire con regione Lombardia per capire se non si poteva fare diversamente. Non ci credo che non riusciamo a collocare 36 ragazzi in Lombardia in altro modo. Il Dipartimento della Giustizia minorile è preoccupato del fatto che le comunità si siano tirate indietro rispetto alla gestione di alcuni casi e ha visto bene di concentrarli in luoghi che io tendo a escludere che verranno gestiti con strumenti educativi. Mi sembra più facile che verranno gestiti con la farmacologia piuttosto che con la contenzione. Vorremmo capire come mettere ogni ragazzo in una comunità diversa. Ci piacerebbe poter ripartire da qui, spiegare perché le comunità fanno fatica ad accoglierli, che cosa potrebbe mettere loro nella posizione di farlo. Ci sembra molto più vicino ai bisogni dei ragazzi rispetto alla creazione di tre piccoli carceri all’esterno al Beccaria, che non cambiano di molto la sostanza delle cose. Come si ridà l’idea di futuro a questi ragazzi? Chi conosce un adolescente, e ancor più un adolescente con la biografia dei nostri ragazzi, sa che l’unica strada non è quella di evitare i danni, è quella di guardare al futuro mettendoci delle immagini molto allettanti, molto positive, che permettano loro di dire: “Va bene, mi metto a fare lo sforzo di riprendere un percorso di crescita che ho interrotto”. Noi di Cnca abbiamo sempre lavorato così e sappiamo che così si ottengono i risultati che hanno fatto stimare la nostra giustizia minorile. Oggi negli Ipm vediamo centinaia di ragazzi reclusi senza nessun progetto per loro e che stanno giocando a fare guardia e ladri: in questo modo si stanno rovinando sempre di più il futuro. Perché un ragazzo che entra ed esce con cinque volte (quando va bene) il numero di reati che aveva quando è entrato, poi non è che non li pagherà, li pagherà tutti. E lo sa benissimo, ma non gliene interessa nulla. Cosa pensa del reato di rivolta penitenziaria (che include anche la resistenza passiva) previsto nel Ddl Sicurezza, approvato alla Camera e ora all’esame del Senato? Quando ci sarà una rivolta, una resistenza al pubblico ufficiale, anche se non violenta, sarà penale. Il reato, se è introdotto, lo è per chiunque lo commetta, i minorenni hanno delle condizioni particolari rispetto a una riduzione della pena. Questa misura è destinata a moltiplicare il numero di persone in carcere e soprattutto i tempi di detenzione. Mi stupisce che, chi sta assumendo decisioni, non sa chi sono i giovani autori di reato diretti. Pensano che siano dei delinquenti fatti e finiti, ma più piccoli. La nostra giustizia minorile privilegiava tre cose. Prima di tutto la riduzione della recidiva. Poi, aveva alla base l’intervento sui bisogni che stanno alla base della commissione dei reati da parte dei minorenni: cercare di capire qual è il bisogno sottostante la commissione di un reato e intervenire per fare in modo che quel bisogno si attenui o addirittura non ci sia più. Qual è il terzo e ultimo fattore che la giustizia minorile italiana privilegiava? Responsabilizzare i giovani. In questo momento, in carcere, non c’è alcuna responsabilizzazione. Riguardo all’intervenire sui bisogni, mi sembra che si faccia fatica anche solo a soffermarsi sull’idea che il reato possa nascere da un bisogno. E riguardo alla recidiva non ne parliamo. La conversione in legge del Decreto Caivano è destinata a moltiplicare i reati, soprattutto alcuni reati, quelli per i quali ha eliminato la possibilità di ottenere la messa alla prova. Quello che ci preoccupa di più è per i reati di natura sessuale, per quelli che hanno l’aggravante di essere commessi nei confronti di persone in minore età (cioè la totalità di quelli commessi dai minorenni), per i quali non è più possibile avere la messa alla prova: verranno tutti condannati e detenuti. Ed è noto a qualsiasi persona che lavori in questo settore che uno dei reati su cui è più alta la recidiva in caso di detenzione è proprio quello di natura sessuale. Con questo decreto si è, con un solo colpo di penna, moltiplicato un reato odioso e pericoloso come quello di natura sessuale commesso dai minorenni. La conversione in legge del Decreto Caivano ha in un istante generato l’esatto opposto di quello che sperava di ottenere. Il governo dovrebbe intervenire soffermandosi più sulle questioni e sui dati a sua disposizione, piuttosto che fare decreti in pochi giorni, dopo un fatto di cronaca, come è stato per il Decreto Caivano. Ingiusta detenzione, per i magistrati la stretta sul danno erariale d Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2024 Emendamento a firma di Enrico Costa alla riforma della giustizia contabile. Atti trasmessi alla Procura in caso di riconoscimento dell’indennizzo. Arriva nelle ore dello scontro più aspro tra maggioranza e magistratura la proposta di Enrico Costa, ora in Forza Italia, per agevolare la contestazione di danno erariale per ingiusta detenzione. Ieri alle 12 Si è chiuso il termine per la presentazione degli emendamenti à disegno di legge di riforma della giustizia contabile in discussione alla Camera e Costa ha messo nero su bianco la previsione per cui il provvedimento irrevocabile che ha accertato l’ingiustizia della detenzione inflitta deve essere trasmesso al Procuratore generale della Corte dei conti per l’eventuale avvio del giudizio di responsabilità contabile. Del resto, ancorandosi alla relazione di Corte dei conti per il triennio 2017-2019, uno solo è stato il procedimento per danno erariale a carico di un magistrato dopo il riconoscimento dell’ingiusta detenzione. “Lo Stato, per i casi di ingiusta detenzione, da11992 ad oggi, ha pagato quasi un miliardo di euro - spiega Costa - e non si è mai approfondito per valutare come si siano generati questi errori e se vi siano state delle responsabilità da parte dei magistrati che avevano disposto la detenzione”. Così, quando verrà accertato che una persona è stata in carcere ingiustamente perché è stata prosciolta con sentenza irrevocabile, perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato e dunque ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, gli atti, se l’emendamento verrà approvato, dovrebbero essere mandati alla Corte dei conti per verificare un profilo di responsabilità del magistrato. L’eventuale domanda di riparazione, recita l’altra norma a cui si fa riferimento nell’emendamento di Forza Italia, e cioè l’articolo 315 del Codice di procedura penale, deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o è stata effettuata la notificazione del provvedimento di archiviazione. E la “riparazione” pecuniaria non può comunque eccedere i 516.456,90 euro. E se la proposta di Costa contribuisce senza dubbio ad alzare ulteriormente la tensione con la magistratura in una fase già molto complicata per le polemiche sul fronte migranti, una road map sta prendendo corpo sulla “madre” di tutti i conflitti, la separazione delle carriere. Domani scade il termine per la presentazione degli emendamenti al disegno di legge di riforma costituzionale presentato dà Governo; subito dopo la valutazione di ammissibilità, con testo previsto per l’Aula alla Camera tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. “Ingiusta detenzione, le toghe paghino per i propri errori”: la proposta di Forza Italia Il Dubbio, 22 ottobre 2024 Valutare il procedimento di responsabilità a carico del magistrato per danno erariale: è quanto prevede l’emendamento firmato dai deputati azzurri Costa, Calderone e Patriarca. E se i magistrati pagassero di “tasca” loro per le ingiuste detenzioni risarcite dallo Stato? Tema vecchio e “sempreverde”. Che ora torna attuale con la nuova proposta lanciata da Forza Italia. Si tratta dell’emendamento alla proposta di legge che modifica il codice della giustizia contabile, in relazione ad alcune funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale (“Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale”), il cui termine per gli emendamenti scade oggi. Il testo, firmato dai deputati azzurri da Enrico Costa, Tommaso Calderone e Annarita Patriarca, interviene sugli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale e prevede, nei casi di riparazione per ingiusta detenzione, la valutazione di un procedimento di responsabilità a carico del magistrato per danno erariale. In particolare, l’emendamento dispone che gli atti vengano trasmessi al Procuratore Generale della Corte dei Conti per l’esercizio, da parte dello Stato, di un’azione di rivalsa nei confronti di colui che ha causato la carcerazione non dovuta. “Il provvedimento irrevocabile che accoglie la domanda di cui agli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale è comunicato al competente procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità”, recita il testo. Il tema è connesso alle riflessioni sull’abuso della custodia cautelare nella giustizia italiana. E l’idea di “responsabilizzare” le toghe dal punto di vista erariale e disciplinare è stata discussa più volte sul Dubbio, in ultimo con la proposta lanciata negli scorsi mesi dall’avvocato Riccardo Radi, per il quale “la magistratura risulta essere una sorta di isola felice dove l’operosità e l’efficienza regnano sovrane, eppure la realtà e i dati dicono il contrario”. “Quali sono gli ostacoli legislativi e di sistema che impediscono alla magistratura contabile di intraprendere le azioni di rivalsa? - si chiede il legale -. È necessario gettare un faro sulla questione per individuare “casi nei quali possano ravvisarsi i presupposti per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Parole della Corte dei Conti”. Anche l’Associazione Errorigiudiziari.com chiede da tempo un cambio di passo. “Negli ultimi 31 anni (dal 1992 al 2023) lo Stato ha speso circa 874 milioni e 500 mila euro per indennizzare 31.175 persone finite in carcere ingiustamente. Eppure nello stesso periodo la Corte dei Conti ha intrapreso una sola azione di rivalsa per danno erariale nei confronti di un magistrato, recuperando la somma di 10.425,68 euro”, sottolineano i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori dell’Associazione Errorigiudiziari.com. “Il caso riguardava un Gip di Salerno che ha emesso una misura cautelare agli arresti domiciliari, senza che il Pm l’avesse chiesta”, spiegano i due giornalisti ricordando che il magistrato cercò di giustificarsi sostenendo che “in fin dei conti la detenzione era stata breve”. “Sarebbe importante che l’emendamento alla riforma della Corte dei Conti (in questi giorni all’esame della Commissione Giustizia della Camera) presentato dai deputati di Forza Italia Enrico Costa, Tommaso Calderone e Annarita Patriarca, venisse approvato dal Parlamento. Così, ogni volta che il ministero dell’Economia provvede al pagamento di un indennizzo per ingiusta detenzione, nello stesso tempo procederebbe subito a inviare una nota alla Procura della Corte dei Conti competente”, auspicano Lattanzi e Maimone. La guerra tra poteri che porta solo guai di Marcello Sorgi La Stampa, 22 ottobre 2024 È abbastanza inutile applicarsi ai dettagli del decreto che il consiglio dei ministri ha partorito ieri sera per ribattere all’ordinanza con cui la giudice monocratica Albano ha disposto il rientro in Italia dei primi migranti avviati nei nuovi centri di permanenza in Albania. La sostanza infatti non è se un magistrato possa decidere quali siano i Paesi sicuri, e soprattutto quelli insicuri dai quali i richiedenti asilo in fuga abbiano diritto ad essere accolti. Né se questa nevralgica valutazione tocchi alla Corte di giustizia europea o ai singoli governi nazionali, pressati dagli arrivi degli immigrati che viaggiano in condizioni di pericolo. Sono problemi importanti, certo; di raffinata dottrina giuridica a cui non è detto che Meloni sia riuscita a dare risposta (si vedrà oggi, quando il testo del decreto verrà reso noto, il Quirinale dovrà valutarlo e in Parlamento si aprirà il confronto sulla materia). Ma la vera questione, che Meloni ha posto duramente, ma anche con estrema franchezza, fin dal primo momento dopo l’ordinanza della magistrata romana, e il presidente del Senato La Russa, solo apparentemente in termini più moderati, ha rimesso sul tavolo ieri con un’intervista a Repubblica, è questa: il governo di destra-centro, che ha vinto le elezioni sulla base del suo programma sottoposto agli elettori, ha diritto o no di attuare questo programma, senza che altri poteri dello Stato lo ostacolino ogni qual volta le scelte dell’esecutivo contrastano con lo status quo? E se il potere che disturba l’azione del governo è la magistratura, cioè l’organo chiamato a dirimere le controversie tra i cittadini, anche quelli stranieri, e lo Stato, fino a che punto i magistrati possono spingersi contro l’esecutivo, per non trasformarsi in un’altra forma di opposizione, diversa da quella presente in Parlamento, ma non eletta e non portatrice di consenso popolare? In altre parole, quando si presenta un conflitto fra governo e giudici, i secondi devono o no sottomettersi alla volontà popolare? Posta in questi termini, la risposta alla domanda non può che essere “no”. Da nessuna parte, né nella Costituzione, né nel Codice penale o di procedura penale, si trova un articolo che ordini qualcosa del genere. Si può discutere sul fatto che l’indipendenza della magistratura sia o sia diventata eccessiva; che ci sia o ci sia stata in qualche caso (non in quello della giudice Albano, o almeno non dichiaratamente) l’intenzione di colpire il governo, non solo questo, ovviamente. La storia trentennale dei rapporti tra politica e magistratura dopo Tangentopoli - che fu la ghigliottina di un’intera classe dirigente, con conseguenze fino ad oggi - è piena di episodi di questo genere, così come di errori giudiziari, non particolarmente frequenti, ma emblematici, che sono andati in quella direzione. C’è inoltre una crescente politicizzazione delle toghe, alla quale non si riesce a porre rimedio. Eppure il grosso dell’operato della magistratura è ancora ordinato e disciplinato: si guardi a cosa sta accadendo dopo che il governo ha abolito il reato di abuso di ufficio, con l’effetto di una raffica di assoluzioni per sindaci e pubblici amministratori - anche protagonisti di casi clamorosi - che dovevano risponderne e stanno uscendo assolti uno dopo l’altro, un giorno dopo l’altro. Così che forse si può riproporre la domanda uguale e capovolta: può il governo, con l’ausilio della propria maggioranza in Parlamento, provare a sottomettere la magistratura, per porla in posizione subordinata alla propria politica e al proprio programma e limitarne via via lo spazio d’azione? Anche stavolta, in termini di principi costituzionali, di codici e pandette, non potrebbe. Ma può, in effetti, anche a costo di qualche forzatura? Qui la risposta diventa più complicata, e riporta alle recenti reazioni della premier e del presidente del Senato. Meloni non lo ha detto, ma ha posto la questione della realizzazione del programma senza ostacoli di qualsiasi natura, a partire da quelli giurisdizionali delle sentenze. E anche La Russa non lo ha detto, ma ha spiegato che a suo giudizio sarebbe meglio cambiare la Costituzione per evitare che continui il conflitto che ha bloccato, forse sarebbe meglio dire rovinato l’inaugurazione del “Progetto Albania”. Non occorre neppure rivolgersi ad autorevoli costituzionalisti, basta aver letto la Carta, per sapere che se c’è una caratteristica che emerge dalla lettura è che la Costituzione è costruita con un sistema di pesi e contrappesi, creato proprio per evitare che un potere possa sopravanzarne un altro. Se si vuole cambiare, naturalmente, si è liberi di farlo. Anche se a onor del vero un cambiamento di questa portata - il popolo davanti a tutto e tutti - nel programma sottoposto dalla coalizione di destra-centro agli elettori non c’era. Per questo sarebbe meglio parlar chiaro, precisare i propri obiettivi, uscire dal caso particolare. Dire, ad esempio, se l’obiettivo è questo, che si tratta di risolvere una volta e per tutte il conflitto tra politica e magistratura, subordinando la seconda alla prima. Nasconderlo, invece, non ha senso, tanto si capisce lo stesso. E poi riflettere - quello è sempre necessario, anche se spesso trascurato - sul fatto che, finora, cambiamenti anche più semplici della Costituzione, talvolta perfino opportuni, rivolti a rafforzare il potere del governo e del premier rispetto ad altri poteri dello Stato non sono mai andati in porto. Anche a sorpresa, come accadde nel 2016 con il progetto di riforma di Renzi. Il popolo li ha bocciati. Ci sarà una ragione. Lo scontro tra governo e magistratura divide anche le toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 ottobre 2024 Magistratura democratica vuole che il Csm apra una pratica a tutela dei giudici romani che hanno respinto il trattenimento dei migranti in Albania. Ma viene attaccata da Magistratura indipendente sul caso Patarnello. Persino qualche consigliere togato del Csm appartenente alla “sinistra giudiziaria”, lontano dai microfoni, lo ammette: la giudice Silvia Albano avrebbe potuto astenersi dal rilasciare interviste nei mesi scorsi in cui criticava la politica migratoria del governo. Il riferimento è alla presidente di Magistratura democratica, tra i giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma che pochi giorni fa hanno bocciato il trattenimento di 12 migranti nel centro di permanenza di Gjader, in Albania. Le uscite di Albano sono state molto criticate dalle forze di maggioranza, così come la decisione del tribunale. Nonostante questo, però, i membri togati del Consiglio superiore della magistratura appartenenti alle correnti di “centrosinistra” (Area, Md e Unicost) sono pronti a chiedere al comitato di presidenza l’apertura di una pratica a tutela dei giudici romani finiti nel mirino del governo. La pratica a tutela è uno strumento ideato dal Csm negli anni Ottanta per replicare alle critiche rivolte da esponenti del mondo politico ai magistrati. Non ha un risvolto pratico, ma per lo più una valenza simbolica. Sulla decisione del tribunale di Roma le critiche dell’esecutivo sono state numerose e anche pesanti. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito la sentenza sull’Albania “abnorme”, aggiungendo che “non può essere la magistratura a definire uno stato più o meno sicuro, è una decisione di altissima politica”. Il vicepremier Matteo Salvini ha addirittura parlato di “attacco all’Italia e agli italiani sferrato da una parte di magistratura politicizzata”. Per le toghe di sinistra, il Csm dovrebbe prendere posizione in difesa dei giudici del tribunale di Roma in nome della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, come già diverse volte accaduto in passato. La faccenda, tuttavia, stavolta è resa complicata dal coinvolgimento in prima persona di un’esponente di punta della sinistra giudiziaria, la presidente di Md Albano. Non solo. Nei mesi scorsi, prima di rigettare la convalida del trattenimento dei migranti spediti in Albania, Albano si è espressa più volte pubblicamente contro il piano predisposto dal governo. Intervistata da Repubblica lo scorso dicembre, Albano aveva detto: “Immagino che ci sarà una pioggia di ricorsi su cui dovremo pronunciarci. E se non ci sarà una legge di ratifica che definisca le deroghe al quadro normativo nazionale previste da questo protocollo non potremo che prenderne atto”. A maggio, intervistata da Domani, si era espressa sul decreto ministeriale che aveva allargato l’elenco dei paesi sicuri con queste parole: “Mi pare che l’esigenza sia più quella di controllare i flussi migratori che di garantire i bisogni di protezione imposti dalle convenzioni internazionali e dalla Costituzione”. Insomma, Albano aveva in qualche modo anticipato il giudizio sulle controversie sulle quali poi è stata chiamata a decidere, in modo non proprio opportuno sul piano istituzionale. E’ proprio per il passato (e il presente) di Albano che lo scontro tra governo e magistratura è subito diventato uno scontro tra governo e “toghe rosse”. I membri togati di area “centrosinistra” al Csm vorrebbero evitare di aggravare il livello del conflitto. Insomma, non vorrebbero essere soltanto loro a chiedere l’apertura di una pratica a tutela. Se ciò avvenisse, la richiesta potrebbe apparire all’esterno come un’ennesima sfida dei magistrati “rossi” all’esecutivo. L’obiettivo, così, è conquistare l’adesione dei consiglieri moderati di Magistratura indipendente. Che però ieri è intervenuta in maniera molto dura sul caso che ha investito Marco Patarnello, altra toga aderente a Magistratura democratica e sostituto procuratore generale della Cassazione, finito nell’occhio del ciclone per un messaggio inviato alla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati. “Il presidente del Consiglio dei ministri, di qualsiasi partito politico, non è mai un avversario da fermare o da combattere, ma un interlocutore istituzionale da rispettare. Sempre”, hanno affermato in una nota la presidente di Mi, Loredana Miccichè, e il segretario generale, Claudio Galoppi. “Deflettere da questo principio - hanno aggiunto - significa indebolire la funzione giudiziaria compromettendone il ruolo e la funzione costituzionale. Essere e apparire indipendenti è la prima condizione per la credibilità della magistratura che mai deve essere coinvolta nelle contingenti vicende e contrapposizioni politiche”. La presa di distanza di Mi da Md è stata molto apprezzata da Lega (“sagge parole”) e Forza Italia. Così, l’obiettivo delle toghe di sinistra di raccogliere consenso trasversale al Csm sulla pratica a tutela sembra allontanarsi sempre di più La destra va a caccia delle toghe: l’arma è la riforma della giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 22 ottobre 2024 Salvini e Tajani contro i giudici “rossi”. E anche dentro la magistratura spuntano le prime divisioni. Il ddl che separa le carriere è la mossa per il contrattacco. Via Arenula sta lavorando al testo finale. Al terzo giorno di scontro con la magistratura dopo la mancata convalida dei trattenimenti in Albania, il mantra del governo continua a essere quello di tenere alti i toni. E non accenna a placarsi quello che ormai è un conflitto tra poteri in piena regola: da una parte le toghe, dall’altra l’esecutivo. La narrazione alimentata prima dalla premier Giorgia Meloni e poi da entrambi i vicepremier, è quella del ritorno delle “toghe rosse”, identificate nei magistrati di Magistratura democratica (fanno parte di questo gruppo sia Silvia Albano, che ha scritto la sentenza del tribunale di Roma, sia il sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, autore della mail pubblicata sul Tempo e ripresa dalla premier) con l’obiettivo di sovvertire il voto popolare. “C’è un piccolo gruppo, una corrente che si chiama Magistratura democratica, storicamente legata all’allora Partito comunista, che prima attaccava Silvio Berlusconi e ora attacca Meloni”, ha detto Antonio Tajani al Corriere della Sera. Mentre, a margine di un evento a Milano, Matteo Salvini ha sostenuto che Patarnello, “ennesima toga schierata contro il centrodestra”, “andrebbe licenziato in tronco, perché dimostra di non avere equidistanza e serenità”. La senatrice di Avs, Ilaria Cucchi, invece, ha presentato un esposto in procura contro la pubblicazione della mail, che era “una corrispondenza privata, contenente opinioni personali”. In questa polarizzazione, a sparire del tutto è il merito della vicenda: la motivazione di una decisione del tribunale di Roma, che è stata presa alla luce del diritto europeo e che era già stata anticipata dal dibattito giuridico intorno ai centri per migranti in Albania. L’effetto politico tuttavia, è un cortocircuito tra istituzioni. Ma anche dentro la magistratura - che non è un blocco monolitico - iniziano a emergere divisioni. Divisioni tra toghe - Le prime ripercussioni si hanno proprio dentro i gruppi associativi. Magistratura democratica ha difeso i colleghi e in particolare Patarnello, parlando di “surreali strumentalizzazioni del contenuto di una riflessione”, con reazioni “esorbitanti rispetto a ciò che realmente è stato scritto” e sottolinea che “un complotto non si prepara annunciandolo in una mailing-list”. Una presa di posizione opposta, invece, è arrivata dalla corrente conservatrice di Magistratura indipendente, che è intervenuta riprendendo le affermazioni di Patarnello: “Il presidente del Consiglio, di qualsiasi partito politico, non è mai un avversario da fermare o da combattere, ma un interlocutore istituzionale da rispettare. Sempre”. Non farlo significa “indebolire la funzione giudiziaria”, perché “essere e apparire indipendenti è la prima condizione per la credibilità della magistratura, che mai deve essere coinvolta nelle contingenti vicende e contrapposizioni politiche”. Proprio questa diversità di vedute sarà almeno parzialmente al centro di un dibattito che presto vedrà coinvolte le toghe: a fine gennaio l’Anm eleggerà il suo nuovo “parlamentino” e in pole position per la successione di Giuseppe Santalucia (espressione di Area) ci sarebbe l’attuale segretario di Mi, Claudio Galoppi. Gli altri gruppi hanno scelto di commentare criticamente solo gli attacchi alla sentenza di Roma. Area, corrente progressista, ha scritto che “il nostro timore è che la reiterata richiesta di apparire imparziali ci riduca a professare una imparzialità solo apparente, ma a praticare una giurisdizione addomesticata”. Su questa linea è anche la corrente centrista di Unità per la Costituzione, secondo cui c’è il rischio che si arrivi a sostenere “che il giudice dovrebbe violare la legge, anche sovranazionale, per allineare l’azione giudiziaria all’indirizzo politico del governo”. Intanto però le parole dure usate dal ministro Carlo Nordio - che ha parlato di decisione “abnorme” - rischiano di generare un cortocircuito. Il consigliere del Csm in quota Italia viva, Ernesto Carbone, ha annunciato la richiesta di un fascicolo a tutela di Albano, dopo gli attacchi per la mancata convalida del trattenimento dei migranti. Un atto dalla sostanza politica, che sarà inevitabilmente rivolto a stigmatizzare proprio le dichiarazioni del Guardasigilli e che potrebbe dividere il Consiglio. Gli effetti dello scontro, però, stanno già dispiegando i loro effetti indiretti, spingendo la maggioranza a procedere a tappe forzate per la riforma costituzionale della separazione delle carriere tra giudici e pm. Partita in sordina e avversata dalle toghe, sembrava essere la Cenerentola accanto alle riforme del premierato e dell’autonomia differenziata. Invece il disegno di legge costituzionale, spinto in particolare da Forza Italia, “a oggi è l’unico con reali possibilità di andare in porto, passerà davanti al premierato”, spiega una fonte qualificata al governo. Due le ragioni: da un lato le aperture positive dei centristi di Azione e Italia viva, dall’altro il fatto che la separazione delle carriere sia ormai diventata l’arma perfetta per il contrattacco nei confronti delle toghe. Anche se la maggioranza - nei momenti di calma - ha sempre sostenuto che non si tratti di una riforma punitiva, ormai il tic è evidente: quando cresce la tensione con i magistrati, la risposta del centrodestra è quella di sventolare la riforma e così è successo anche ieri, dal sottosegretario Tullio Ferrante al capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti, fino al responsabile dell’organizzazione di FdI Giovanni Donzelli. Fonti parlamentari confermano: la separazione delle carriere arriverà in aula alla Camera a inizio dicembre e nemmeno la legge di Bilancio ne arresterà il percorso a tappe forzate. L’obiettivo è di approvarla in prima lettura entro fine anno. Lo scontro istituzionale, il richiamo di Mattarella e le tutele minime in democrazia di Angelo Picariello Avvenire, 22 ottobre 2024 A chi e a che cosa si riferiva Sergio Mattarella nell’auspicare, domenica, che tra le istituzioni vi sia “collaborazione, ricerca di punti comuni, condivisione delle scelte essenziali per il loro buon funzionamento e per il servizio da rendere alla comunità”? Nella decennale dimestichezza con il galateo istituzionale, è ben nota la sua ritrosia a prendere parola su argomenti al centro delle libere valutazioni del Parlamento e dell’esecutivo. È quindi probabile che il riferimento principale del Capo dello Stato fosse rivolto alla perdurante inadempienza nella nomina del giudice costituzionale. Tuttavia questo ritardo - motivo di grande amarezza, per Mattarella - è la cartina di tornasole di un malessere più ampio, di cui la vicenda dell’ennesimo scontro, con rari precedenti, fra politica e magistratura è solo l’ultimo esempio. Dunque, se il Presidente, intervenendo a Bari al Festival delle Regioni e delle Province autonome, ha richiamato che “vi sono dei momenti nella vita di ogni istituzione in cui non è possibile limitarsi ad affermare la propria visione delle cose - approfondendo solchi e contrapposizioni - ma occorre saper esercitare capacità di mediazione e di sintesi”, il monito va riferito, inevitabilmente, anche a questa vicenda che apre una ferita gravissima fra istituzioni dello Stato che dovrebbero tutte avere, con lealtà e spirito collaborativo un riferimento comune nei valori della Costituzione e dei diritti inalienabili della persona umana. È davvero sconcertante l’incapacità del dibattito politico di restare concentrati sulla questione, preferendo alzare ognuno le proprie bandiere e le relative cortine fumogene. Stando ai fatti, invece, prima di accusare la magistratura di fare politica occorre ricordare che i magistrati sono chiamati a decidere del caso specifico, con un delicato inquadramento della questione “particolare” nell’”universale” delle norme poste a tutela di tutti, soprattutto dei più deboli. Certo, il coinvolgimento di un Paese aspirante all’ingresso nell’Unione, come l’Albania, nella gestione delle politiche migratorie, è stato visto con interesse anche da Bruxelles. Ma qui la domanda è un’altra: possono essere ritenuti “Paesi sicuri” Bangladesh ed Egitto? Perché questa è la questione posta alla base del rigetto della domanda di convalida dei 12 migranti riportati in Italia per decisione del Tribunale di Roma. Sono quesiti che un magistrato deve porsi e che nulla hanno a che vedere con vere o presunte appartenenze a correnti politiche che pure vi sono, fra i magistrati, e possono portare a distorsioni più volte denunciate anche da Mattarella, ma che in questo caso non c’entrano nulla. Il tema è semmai un altro, se è accettabile o meno che sia la Corte di Giustizia dell’Unione Europea a indicare, con effetto cogente all’interno di tutti gli Stati membri, quali sono i Paesi terzi in cui i migranti corrono il rischio di condanne a morte, torture o trattamenti degradanti. A capire la delicatezza della questione giova ricordare, come è stato fatto, il caso Regeni che chiama in causa il comportamento delle istituzioni egiziane, non di singoli funzionari o agenti infedeli, come purtroppo è avvenuto anche in Italia, ma senza che venisse coinvolto - grazie all’avvenuto accertamento dei fatti - la credibilità dello Stato italiano. Viene in mente allora la vera e propria “lezione” sulla democrazia tenuta a Trieste durante la Settimana sociale dei cattolici in Italia proprio da Mattarella. La maggioranza dei consensi conferisce il diritto-dovere di governare. Ma il capo dello Stato citando Dossetti, don Milani e la Populorum progressio di Paolo VI, ha invitato a non rassegnarsi a una democrazia “a bassa intensità”. Una sorta di assolutismo della democrazia che rinunci “alla tutela minima dovuta alla dignità di ogni essere umano”. Ed ecco allora il senso del richiamo. Come per il giudice costituzionale è necessario il dialogo per raggiungere la maggioranza dei tre quinti richiesta, così nella leale collaborazione fra istituzioni casi come quello creatosi con l’Albania richiederebbero ben altra condivisione prima, quando si è in tempo per evitarli, o almeno lungimiranza dopo, quando il caso è ormai esploso. Senza rifugiarsi in slogan divisivi che allontanano la soluzione. Vale nei rapporti con la magistratura, e vale nei rapporti con l’Europa. Chiedere e ottenere, di nuovo, per l’Italia incarichi di peso nel governo dell’Unione dovrebbe almeno aver sgombrato il campo da ogni tendenza ulteriore a indicare l’Europa come un’entità estranea, quasi una controparte. L’Europa siamo noi e se ci ricorda attraverso i suoi Tribunali l’inviolabilità dei diritti dell’uomo fa solo il suo dovere. In fondo è nata proprio per questo, sulla spinta dei padri fondatori, per riportare la pace dopo due guerre devastanti e terribili violazioni dei diritti umani. Il finimondo e i principi costituzionali di Costantino Visconti Giornale di Sicilia, 22 ottobre 2024 Ci risiamo. Come un vulcano quiescente ma ben attivo, lo scontro tra politica e magistratura oggi raggiunge un’ennesima vetta eruttiva. La lava incandescente si riversa, ineluttabilmente, su ogni centro abitato dal civismo costituzionale travolgendo tutto, buon senso istituzionale e gli stessi capisaldi dello stato di diritto. Era proprio necessario? No. Se non ci fosse una diffidenza cronica tra chi governa e chi applica il diritto nel nostro Paese, i provvedimenti emessi dalla sezione immigrazione del Tribunale di Roma sarebbero stati oggetto di una pacata discussione, anche critica, e sottoposti dalle parti interessate agli ordinari mezzi di impugnazione. E invece esplode il finimondo: “I magistrati vogliono fare entrare in Italia cani e porci”, “i giudici non collaborano all’attuazione delle politiche dell’esecutivo”, “il provvedimento del Tribunale di Roma è abnorme”: queste le prese di posizione scagliate nell’area mediatica. Che lasciano intendere una certa resistenza governativa a misurarsi con i meccanismi delicati di una democrazia costituzionale in cui la separazione dei poteri, in particolare tra esecutivo e giudiziario, è un valore posto a garanzia di tutti, compresi coloro che in questo momento vedono con il fumo negli occhi le decisioni dei giudici perché ritengono siano adottate per ostacolare i progetti politici del governo. Né, per la verità, è il momento di tirare le somme su quanto speso per la realizzazione del centro di Gjader: ma l’opposizione non può che fare il suo mestiere per mettere in difficoltà gli avversari con argomenti suggestivi, soprattutto quando scarseggiano proposte alternative in grado di raccogliere consenso. Finché, dunque, il vulcano continua a eruttare questo materiale incandescente, non è semplice resistere alla tentazione di schierarsi o scappare, rinunciando così in entrambi i casi a discutere nel merito giuridico la questione che, invero, è tutt’altro che pacifica. I giudici di romani, infatti, si sono assunti la responsabilità di esercitare pienamente il mandato riconosciutogli anche dalla Corte europea di giustizia, di valutare caso per caso i requisiti di “paese sicuro” come condizione prevista dalla legge per convalidare il trattenimento dei migranti nel centro albanese in vista del rimpatrio nei loro paesi di origine, centro costituito grazie a un protocollo approvato anche dai parlamenti delle due nazioni. Si tratta di una “procedura accelerata” prevista per i richiedenti asilo salvati in mare dalle autorità italiana in cui i magistrati, per considerare o meno “sicuro” il paese di origine del migrante, devono avvalersi di una lista di paesi contenuta in un decreto interministeriale periodicamente aggiornato, vagliando però di volta in volta la sussistenza attuale e in concreto del suddetto requisito, secondo quanto raccomandato appunto dai giudici europei. Ebbene, nel nostro caso il Tribunale di Roma ha preso atto che la predetta lista indica l’Egitto e il Bangladesh, paesi di origine dei migranti trattenuti, come “sicuri ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori, dissidenti politici, difensori dei diritti umani” e perseguitati per varie ragioni. Sicché, il punto giuridico della questione (e solo indirettamente politico) è rappresentato dall’estensione che si vuol dare alla garanzia apprestata dall’ordinamento sovranazionale (e quindi anche italiano) ai migranti per evitare di rimpatriarli mettendo a rischio la loro incolumità, ossia alla nozione di “Paese sicuro”: si tratta di un dato meramente “territoriale” (guerre in corso, porzioni di territorio fuori controllo, ecc.) o anche, per dir così, di tipo “soggettivo” (persecuzioni e discriminazioni contro categorie di individui)? Al riguardo i giudici romani ritengono - sulla scorta di una robusta giurisprudenza formatasi in precedenza e a prescindere dalla vicenda del centro albanese - che le fonti sovranazionali, e in particolare la sentenza del 4 ottobre scorso della Corte di giustizia (pluricitata in questi giorni), imporrebbero la seconda risposta tra le due possibili. Interpretazione, questa, sicuramente plausibile (e condivisibile dal punto di vista umanitario) ma certamente non scolpita sulla pietra, cioè opinabile come gran parte delle questioni giuridiche affrontate quotidianamente dalla magistratura. Ecco, allora: ai giudici delle corti superiori il compito di sciogliere l’eventuale dubbio che pure legittimamente può sussistere su questo specifico profilo. Mentre ai governi e alle loro maggioranze parlamentari la libertà di elaborare e realizzare le politiche di contrasto alle migrazioni irregolari che ritengono migliori. Ma senza mai mettere in discussione il pilastro dei valori costituzionali protetto dall’art. 13 della nostra Costituzione, ossia la garanzia per tutti, nessuno escluso e quindi compresi i migranti, che “la libertà personale è inviolabile” e che può essere limitata soltanto con atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge. Tutto sommato l’abc della civiltà democratico-costituzionale: tenercelo stretto significa, anzitutto, difendere la libertà di ciascuno di noi ora e nel futuro. Controparte del Governo di Tiziana Maiolo e Aldo Torchiaro Il Riformista, 22 ottobre 2024 Il giurista, già magistrato, parlamentare e Presidente della Camera invoca per la magistratura la terzietà necessaria: “Astenersi dai giudizi di parte”, ma ricorda al Guardasigilli Nordio che ha i suoi poteri ispettivi. Luciano Violante, magistrato a Torino negli anni di piombo, dal 1977, poi ordinario di Procedura penale e Presidente della commissione Antimafia dal 1992 al 1994, è diventato Presidente della Camera (con i Ds) nel 1996. Oggi è presidente onorario di Italia Decide e dal 2019 presiede Fondazione Leonardo - Civiltà delle Macchine. “Non è accettabile quello che leggo, i magistrati non possono schierarsi come controparte politica”, dice a proposito della contestata mail di Patarnello. Parliamo della mail del Procuratore generale della Cassazione. Esiste quella che qualcuno chiama “opposizione giudiziaria?” “Io credo che il magistrato per le sue specifiche funzioni, e per l’ampia discrezionalità che le caratterizza, debba essere sobrio, astenersi sempre e comunque da giudizi che riguardano l’atti- vità politica. Altrimenti è inevitabile che si diventi controparte. E se più di 30 anni di conoscenza me lo permettessero, direi che anche il Presidente del Consiglio non può diventare una controparte di un magistrato. Chi sta a Palazzo Chigi guarda al futuro del Paese, a cosa dev’essere l’Italia nei prossimi 10, 15 anni, alla sua direzione di marcia. Le polemiche non servono”. Rispetto alla mail del Procuratore Patarnello quindi lei ravvisa…? “Ho letto il testo integrale. Una mail sbagliata scritta da un magistrato stimato che tra l’altro dice che “non bisogna fare opposizione giudiziaria”. Ma se fossi in mala fede penserei che allora il tema della opposizione giudiziaria c’è, ma è inammissibile. Quello che un magistrato dice in una situazione di forte polarizzazione davanti alla opinione pubblica diventa parte della sentenza che scrive. Dunque può fare una sentenza splendida, ma se nel frattempo hai fatto un errore di comunicazione, quell’errore diventa parte della Riforma del Csm? Bisogna evitare che l’appartenenza a una corrente prevalga sulla competenza sentenza”. Sa cosa risulta indigeribile nella mail del dottor Patarnello? Che Meloni risulti pericolosa, perdipiù non avendo inchieste aperte. Sembra una sollecitazione in tal senso... “È una frase grave. Quasi si auspicasse che qualcuno apra una indagine penale sul Presidente del Consiglio. Un errore inaccettabile”. Raccomanderebbe una regola di condotta diversa, una terzietà rispetto al dibattito pubblico? “Il magistrato, anche se sollecitato, non deve mai essere parte di un conflitto”. Proprio in questi giorni le polemiche vanno sul giudizio sferzante che il ministro Nordio ha dato sul “giudizio abnorme” sulla vexata quaestio del centro migranti in Albania? “Con tutta l’esperienza che ha il ministro Nordio, un atteggiamento più cauto sarebbe stato auspicabile. Vale lo stesso principio, anche il ministro della Giustizia ha delle responsabilità specifiche su questo terreno: può fare ispezioni, promuovere azioni disciplinari, andare a vedere quel che succede nei tribunali e nelle carceri. Capisco che l’appartenenza al governo contempla anche dei vincoli disciplinari per i componenti stessi del governo, ma proporrei un maggiore equilibrio. Anche perché gli atteggiamenti di Carlo Nordio, prima di diventare ministro, erano molto più garantisti. Anche troppo”. Perché scusi, il garantismo può essere eccessivo? “Quando trascuri i diritti delle vittime, certamente”. Veniamo alla questione della lista dei paesi sicuri. Si può cambiare in corsa? “Dipende dai criteri con cui si stabilisce che un Paese è sicuro. L’Egitto è sicuro o no? Per chi? Da anni non ci danno i nomi dei quattro che hanno assassinato Regeni. Un paese così forse sicurissimo non è. Il problema non riguarda me, magari. Se vado io in Egitto, è sicuro. Un paese, in Africa soprattutto, che oggi è sicuro, tra qualche tempo potrebbe non esserlo più. Così come ci sono paesi sicuri per gli eterosessuali, non sicuri per gli omosessuali. La sicurezza dev’essere per tutti”. Un po’ un pasticcio, questo dell’Albania... “Governare è difficile. E sul tema dell’immigrazione nessuno ha trovato una soluzione, in Europa. La Turchia adesso ha chiesto 24 aerei militari in cambio di un argine all’emigrazione dei profughi da Libano e Siria… Nessuno ha trovato una soluzione efficace e rispettosa dei dirirtti umani; tutti i tentativi hanno visto emergere più difficoltà che soluzioni. Aspetterei cinque o sei mesi per valutare gli esiti dell’operazione in Albania, che per il momento ha avuto un vistoso inciampo. Il Presidente dell’Uganda in una vigorosa intervista a Il Sole 24Ore, ha chiesto l’abolizione dei dazi di Europa e Stati Uniti sui prodotti finiti africani, che penalizzano i giovani coltivatori del suo Paese. Se fosse vero, questa può essere una strada giusta, nella logica del piano Mattei”. Tornando alla giustizia, il Csm vede ancora le correnti come descritte da Palamara… “Le correnti esistono e tendono sempre a esercitare il massimo del potere all’interno della magistratura. Il tema è evitare che esse decidano della carriera dei magistrati. Bisogna evitare che l’appartenenza prevalga sulla competenza”. La storia di Moussa Diarra: fuggito dalla guerra in Mali, ucciso alla stazione di Verona di Francesco Sergio Corriere del Veneto, 22 ottobre 2024 I dubbi di amici e fratello: vogliamo giustizia. Chi viveva con Moussa dice che non beveva e non assumeva droghe. Una foto che lo ritrae sorridente posta accanto a una corona di fiori. Attorno, increduli, gli amici che con lui dividevano gli alloggi del “Ghibellin Fuggiasco”, oltre ai componenti del laboratorio autogestito Paratod@s che gestisce lo spazio e il fratello Ganga, arrivato direttamente da Torino per chiedere verità e giustizia. Un viavai commosso e silenzioso, ieri, all’interno del rifugio di emergenza per senza fissa dimora di Corso Venezia, per ricordare Moussa Diarra, il 26enne del Mali ucciso a colpi di pistola all’alba di domenica in stazione Porta Nuova da un agente della Polizia ferroviaria. E in serata, davanti al luogo della sparatoria in stazione, circa 300 persone - amici, militanti dei centri sociali, religiosi, esponenti della maggioranza in Comune e il cugino del ragazzo, Oussman Diallo, che ha letto un proclama per chiedere “verità e giustizia” si sono riunite per ricordare Moussa: “Ci mancherai”, si leggeva sullo striscione che faceva il verso alle dichiarazioni del ministro Salvini. Un episodio ancora pieno di ombre, per chi conosceva Moussa, e stenta a credere che un ragazzo della sua indole possa essersi scagliato armato contro il poliziotto che, per difendersi, gli ha sparato. “Non usciva quasi mai, stava quasi sempre a letto. Non fumava, non beveva e non si drogava. Dicono che avesse con sé un coltello, ma dove l’avrebbe preso?” afferma e si chiede Seko, amico e connazionale di Moussa, raccontando delle ultime ore della vittima. Sabato e domenica è stato a Quinzano in via Villa per due giorni in uno stabile abbandonato da 20 anni che Paratod@s vorrebbe riqualificare, anche perché lo spazio attuale di Borgo Venezia è fatiscente e andrà presto sgomberato. “Doveva venire anche Moussa - racconta l’amico, ci ha lasciato lo zaino con le sue cose, poi ha preso la bici per andare in stazione. La notte mi ha chiamato spiegandomi che, siccome pioveva, si sarebbe fermato lì e sarebbe tornato la mattina. Ma domenica, quando ho provato a chiamarlo, non mi ha mai risposto. Poi abbiamo letto la tragica notizia”. Secondo il racconto di Seko, l’ultimo avvistamento di Moussa risalirebbe alle 5 di domenica nella moschea in zona Stadio, dove sarebbe andato a pregare. Cosa sia accaduto dopo in stazione, invece, resta tutto da chiarire, per gli amici, i componenti di Paratod@s e il fratello. Non credono alla versione fornita dagli inquirenti e nemmeno che ci possa essere una correlazione col fatto che Moussa soffrisse di depressione: “Era andato al Cesaim a prendere degli antidepressivi - spiegano dall’associazione. Gli amici ci dicono che soffrisse di depressione, e che già tra 2019 e 2020 avesse dato segni di squilibrio. A noi non sembrava, lo stiamo scoprendo adesso”. Uno stato depressivo che addirittura lo portava a rimanere bloccato a letto: “Aveva trovato un impiego in agricoltura, con contratto regolare. Il 10 ottobre sarebbe dovuto andare a rinnovare il permesso di soggiorno con protezione speciale in questura. Il Community center era riuscito a fargli fare il codice fiscale necessario per aprire il conto corrente fiscale. Abbiamo scoperto che non è andato”. Fuggito nel 2016 dalla guerra in Mali, Moussa era arrivato in Italia giovanissimo, a soli 15 anni. A Verona era arrivato nel 2020: era stato ospite del rifugio della Caritas Il Samaritano, frequentava la mensa dei frati di San Bernardino ed era conosciuto anche alla Ronda della Carità. Aveva poi trovato ospitalità al Ghibellin Fuggiasco, ma a fine 2023, se n’era andato in Spagna, per poi tornare in città a inizio 2024. Nell’ultimo periodo, dicono gli amici, aveva espresso il desiderio di tornare in Mali, dove “stava costruendosi la casa”. “A un bisogno d’aiuto abbiamo risposto con colpi di pistola”. Sull’assessore scoppia la bagarre di Lillo Aldegheri e Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 22 ottobre 2024 L’ira del Siulp. E Tosi attacca i centri sociali: impuniti. Diventa un caso anche a livello nazionale una frase postata su Instagram dall’assessore comunale di Verona, Jacopo Buffolo (Lista Tommasi) commentando il tragico episodio avvenuto all’alba di domenica alla stazione di Porta Nuova: “Ad un bisogno di aiuto e cura si è risposto con un colpo di pistola”. Immediata la replica del Siulp, il sindacato unitario di Polizia, che fa intervenire il segretario nazionale Felice Romano: “Avevamo scelto di non commentare il drammatico epilogo - scrive il leader del sindacato - e credevamo che il comunicato della Procura e del vertice provinciale della Polizia di Stato fossero tali da evitare strumentalizzazioni. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Testimoniare il dolore per la scomparsa di una giovane vita è segno di una condivisibile sensibilità, ma addolora dover prendere atto di come vi sia chi ha scelto di sostenere questa iniziativa con espressioni gravemente scomposte ed indicative di un irrecuperabile pregiudizio. A chi afferma, con increscioso cinismo, che “ad un bisogno di cura ed aiuto si è risposto a colpi di pistola” rispondiamo che queste sono le conseguenze delle mancate risposte della politica”. Romano non si ferma qui: “I poliziotti hanno pochi istanti per decidere come reagire di fronte a situazioni emergenziali e non lo fanno certo a cuor leggero. Il collega che domenica, secondo i primi accertamenti, sembra essere stato costretto ad usare l’arma, ha immediatamente dopo cercato di soccorrere l’aggressore che stava morendo. Sotto quella divisa c’era una persona dotata di un profondo senso di umanità, che dovrà portare per tutta la vita il peso di quei brevi, drammatici momenti. Auspichiamo una corale presa di distanza da sconvenienti divagazioni che, ne siamo certi, non rappresentano il pensiero della comunità scaligera”. Per il centrodestra veneto quella frase social è inaccettabile e scoppia una bufera contro l’assessore. “Quanto accaduto domenica è una tragedia che ci colpisce tutti - commenta il presidente della Commissione giustizia Ciro Maschio (FdI) -da tempo evidenziamo l’emergenza sicurezza, sottovalutata dalla giunta di centrosinistra, a cui lavoriamo al Governo con nuove misure. Esprimo la piena solidarietà agli agenti intervenuti. E sono sconcertato che una parte del centrosinistra abbia il coraggio di affermare che il migrante del Mali stesse chiedendo aiuto. Un’equazione singolare: accoltellare degli agenti equivale a chiedere aiuto. Ancora volta, una mentalità che sottovaluta il problema e favorisce ulteriormente condotte pericolose”. “L’assessore Buffolo ha scelto di esprimere un’opinione che non solo non rispetta il lavoro dei nostri poliziotti, ma rischia di alimentare tensioni ingiustificate” reagisce Daniele Polato, eurodeputato FdI. Dalla Lega, arriva la voce dell’eurodeputato Paolo Borchia: “Inaccettabile che un esponente della giunta si esprima in questi termini nei confronti di chi rischia la vita quotidianamente per proteggere la comunità. Con tutto il rispetto e la comprensione per un dramma umano, la risposta non si può trovare addossando le colpe alle forze dell’ordine”. Borchia dice che “con tutta la sensibilità che serve per analizzare la perdita di una vita umana, la stazione è diventata il FarWest e un episodio simile purtroppo era nell’aria”. Aggiunge il consigliere regionale Filippo Rigo: “Nessuno si azzardi a polemizzare sull’operato delle forze dell’ordine: il poliziotto ha fatto il suo dovere. Senza l’intervento suo e dei colleghi, il balordo avrebbe potuto fare una strage”. Attacca anche l’ex sindaco Flavio Tosi, segretario regionale di Forza Italia: “ Sono sconcertanti e vergognose le parole di Buffolo perché sono un chiaro e diretto attacco alle Forze dell’Ordine. Buffolo deve essere rimosso dal sindaco Tommasi: non può restare in giunta e nelle istituzioni chi pronuncia parole così eversive”. Ma gli attacchi al centrosinistra veronese non finiscono con le bordate contro l’assessore. Tosi infatti rincara la dose: “C’è un evidente problema di sicurezza, a Verona, se un uomo per due ore può distruggere auto, vetrine e biglietteria senza che nessuno lo fermi. Non è ammissibile. L’amministrazione è assente, e lo dimostra anche che le occupazioni del centro sociale durano da anni, con il Comune che fa finta di nulla. Ospitano persone che non potevano rimanere lì, anche per motivi di sicurezza. Occupano immobili privati e comunali in totale impunità”. Il procuratore: “È stata legittima difesa, da valutare solo l’eccesso colposo” di Beatrice Branca Corriere del Veneto, 22 ottobre 2024 L’inchiesta sulla morte del maliano Moussa Diarra: “Il poliziotto si è fatto interrogare subito dal pm, dimostrando lealtà d’animo”. È iscritto nel registro degli indagati l’agente della Polfer che, con un colpo di pistola, ha ucciso domenica mattina il 26enne Moussa Diarra alla stazione di Verona Porta Nuova. Erano stati attimi concitati: il giovane aveva danneggiato vetrine e veicoli, oltre ad aver aggredito alcuni agenti della polizia locale e di Stato. Infine si era scagliato contro l’agente della Polfer con un coltello, costringendolo a usare la pistola per proteggersi. “Questo Ufficio ritiene che l’episodio si inserisca certamente in un contesto di legittima difesa - fa sapere il procuratore Raffaele Tito -. Tuttavia le indagini sono adesso orientate a valutare se vi sia stata o meno una condotta colposa”. L’agente della Polfer è infatti indagato con l’ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa. “Situazione che si presenta quando si ha una reazione di difesa esagerata - aggiunge il procuratore -. Non c’è la volontà di commettere il reato, ma viene meno il requisito della proporzionalità tra difesa e offesa, configurandosi così una valutazione colposa e sbagliata della reazione difensiva”. La ricostruzione - Quanto accaduto domenica mattina a Verona ha fatto presto il giro d’Italia. Moussa Diarra, prima di arrivare in stazione, aveva già aggredito alcuni agenti della polizia locale, minacciandoli con un coltello. Verso le cinque era poi arrivato a Porta Nuova iniziando a prendere a calci la biglietteria, alcune auto parcheggiate e la vetrina di una tabaccheria. Se n’era andato, per poi tornare due ore dopo, ma questa volta ad attenderlo c’era una pattuglia della polizia di Stato che ha cercato di fermarlo e identificarlo in piazzale XXV Aprile. Moussa ha però reagito con violenza, agitando il coltello che aveva con sé e aggredendo i poliziotti. Un agente della Polfer ha quindi estratto la pistola sparando prima due colpi in aria e poi un terzo colpo che ha centrato il petto di Moussa. Uno di quei colpi ha lasciato il segno anche in una delle vetrate che riparano le scale del parcheggio sotterraneo. Subito dopo il poliziotto ha tentato di rianimare il 26enne, ma invano. La squadra mobile sta cercando di ricostruire che cosa sia esattamente accaduto domenica mattina, verificando se le procedure sono state rispettate, come da protocollo, da parte del poliziotto ora indagato. Le rassicurazioni - Nel frattempo l’agente della Polfer è già stato interrogato dal pubblico ministero Maria Diletta Schiaffino, che in questo momento sta coordinando le indagini. “Con grande lealtà d’animo, forte senso istituzionale e presumibilmente sconvolto dall’evento, l’appartenente dalla polizia di Stato, peraltro persona di grande esperienza, si è reso fin da subito disponibile - dichiara il procuratore - a rendere l’interrogatorio davanti al pm. Atto di indagine nel corso del quale egli ha dettagliatamente ricostruito i fatti”. Il procuratore ha inoltre affermato di aver affidato le indagini alla squadra mobile della questura “a dimostrazione di una incondizionata fiducia”. Secondo gli inquirenti, le violenze e i danneggiamenti in stazione da parte di Moussa Diarra sono “il frutto di un forte disagio sociale e psichico nel quale egli era caduto e che sembrava incontenibile”. Il procuratore esclude infatti che le violenze di domenica siano legate a particolari attività criminose o di natura terroristica e coglie l’occasione per rassicurare la popolazione: “Non credo che l’episodio possa essere valutato come maggior indice di pericolosità della zona antistante la stazione ferroviaria - dice Raffaele Tito -, atteso anche il fatto indiscutibile che il comportamento aggressivo e apparentemente senza alcun valido movente tenuto dal giovane, prima e durante il tragico evento, era stato da lui iniziato due ore prima e in una zona della città lontana dalla stazione”. L’autopsia - Nei prossimi giorni verrà disposta l’autopsia e saranno condotti esami tossicologici per stabilire se l’alterazione di Moussa fosse dovuta anche all’assunzione di sostanze stupefacenti o alcoliche. La ricerca dei familiari del giovane procede su due binari: la procura attraverso il Consolato del Mali, la questura tentando di contattare i parenti prossimi di Moussa in Italia, per concedere loro di salutarlo un’ultima volta. Consulta, bocciata la norma antimafia che puniva i reclusi con pene inferiori di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 22 ottobre 2024 La Consulta, con la sentenza 162/ 24, ha giudicato illegittimo l’articolo 14, comma 2-ter, del Codice Antimafia: penalizzava chi fosse stato in cella per meno tempo. Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 162/24, depositata in data 17 ottobre 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 2- ter, del Codice Antimafia, perché esso prevede che il giudice debba rivalutare la pericolosità sociale del proposto solo se sia stato detenuto per più di due anni. La conseguenza immediata è che ai Tribunali viene imposta la rivalutazione d’ufficio della persistenza della pericolosità dei soggetti cui la misura è stata applicata dopo la espiazione di pena detentiva, anche se di durata inferiore a due anni. Fino ad allora, la sorveglianza speciale “in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa” e le “prescrizioni con essa imposta non potranno avere effetto” sino a che la rivalutazione non sia intervenuta. Il fatto è però di interesse anche “sociologico”, perché la norma incostituzionale era stata introdotta nel 2017 proprio in seguito ad altra sentenza della Consulta, questa volta additiva (la n. 291/ 13). Allora, infatti, la Corte costituzionale aveva censurato l’articolo 15 del Codice, perché non prevedeva l’obbligo di rivalutare la pericolosità della persona raggiunta da misura di prevenzione personale, ove fosse stata medio tempore detenuto. La ragione era (ed è) piuttosto evidente: se la pena assolve anche ad una funzione risocializzante, non può presumersi che un detenuto lasci il carcere nelle medesime condizioni antisociali nelle quali vi era entrato. Altrimenti, dovremmo ammettere che la pena ha solo natura afflittiva. Il Legislatore ha preso atto (?) di tale decisione e, quindi, ha introdotto l’obbligo di rivalutazione della pericolosità, al termine del periodo di detenzione, prima di dare corso alla esecuzione della misura di prevenzione. Ma siamo pur sempre nell’ambito della prevenzione, nel quale, ormai è chiaro a tutti, il Legislatore da anni sperimenta, sulla pelle dei cittadini, le nuove frontiere della sanzione senza condanna. Non si poteva allora resistere alla tentazione di introdurre una eccezione alla regola fissata dalla Corte costituzionale: se la pena espiata è stata inferiore a due anni, allora la misura di prevenzione inizierà a decorrere automaticamente al momento della scarcerazione. La disposizione è, come spesso capita nella materia, asistematica ed irragionevole. Innanzitutto, rappresenta probabilmente il primo caso in assoluto in cui il Legislatore, per integrare una norma dichiarata incostituzionale, ne produce un’altra parimenti contraria alla Carta. Significa non essere in grado di leggere le motivazioni di una sentenza. Nella risalente pronuncia del 2013, infatti, la Corte aveva già segnalato che escludere la necessità di rivedere il giudizio di pericolosità a seguito della espiazione di una pena detentiva, se letta da un’altra prospettiva, significava introdurre una presunzione di perdurante pericolosità, irragionevole rispetto a quanto avviene per le misure di sicurezza, che invece richiedono un tale doppio accertamento. Oggi, a seguito degli interventi della Cedu, la Consulta rileva pure che una simile presunzione è contraria all’articolo 13 della Costituzione, dal momento che le misure di prevenzione personali, come tutte quelle che incidono sulle libertà fondamentali, presuppongono un accertamento dei propri presupposti espresso, caso per caso, da un giudice. Il passaggio è assai rilevante, dal momento che la sentenza riafferma, dopo i precedenti del 2019, che lo statuto costituzionale delle misure di prevenzione passa attraverso le direttrici della esistenza di un’idonea base legale, della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, della riserva di giurisdizione. Il presupposto della base legale va letto alla luce del principio di “sufficiente qualità della Legge”, elaborato dalla giurisprudenza convenzionale e costituzionale: non è sufficiente che la norma fissi i casi ed i modi dell’azione di prevenzione, ma occorre che lo faccia in modo comprensibile ed armonizzato. Il criterio della proporzionalità, in particolare, continua a stridere irrimediabilmente con la natura definitiva della confisca di prevenzione, sulla cui vera natura si giocano importanti battaglie a Strasburgo. Quello della riserva di giurisdizione, infine, richiede un giudizio effettivo e privo di scorciatoie presuntive su presupposti di compressione delle libertà individuali. Ma un altro profilo di irragionevolezza si annida nella norma censurata dalla Consulta, che la sentenza liquida con un passaggio motivazionale non esente da sarcasmo. Presumere che un soggetto resti pericoloso, anche dopo aver trascorso due anni in carcere, significa teorizzare che le pene detentive più brevi non abbiano funzione risocializzante e ciò contrasta con l’articolo 27 della Costituzione. A questa riflessione vogliamo aggiungerne un’altra, che fissa ancor di più l’irragionevolezza della norma. Solitamente, alla minor durata della pena corrisponde una minor gravità del reato. Solitamente, ad una minor gravità del reato corrisponde una minore pericolosità sociale del condannato. Per ben sette anni, prima che la Corte costituzionale ne decretasse il giusto destino, l’articolo 14 comma 2- ter del Codice Antimafia ha ritenuto presuntivamente pericolosi i soggetti statisticamente meno pericolosi… e viceversa. E questo dice praticamente tutto. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione Ucpi “Era troppo amico del boss”, dopo l’assoluzione negato il risarcimento per ingiusta detenzione di Manuel Cartosio giornalelavoce.it, 22 ottobre 2024 Aveva rapporti di “stretta vicinanza” e di “notevole familiarità” con un boss della ‘ndrangheta: per questo motivo, nonostante sia stato assolto, non merita il risarcimento per ingiusta detenzione. È la decisione che è stata presa dalla Corte d’appello di Torino per uno degli imputati del maxi processo Minotauro sulla presenza della criminalità organizzata calabrese in Piemonte. L’uomo, A.V., 48 anni, fu arrestato il 1/o giugno 2011 e rimase detenuto fino al 14 novembre 2012. In seguito venne assolto sia in primo che in secondo grado con una sentenza che diventò irrevocabile nel 2016. Per i giudici, però, fu il suo comportamento a far sorgere negli investigatori il “grave sospetto iniziale” che fosse coinvolto a pieno titolo. La Cassazione, che ha confermato l’ordinanza di diniego dei magistrati subalpini, ricorda il contenuto delle sue numerose telefonate con uno dei boss condannati, che a quanto pare “riponeva in lui una notevole fiducia” al punto da “renderlo partecipe di accadimenti interni a un mondo criminale solitamente riservato” e rivelando episodi “dai quali A.V. non prendeva le distanze ma sui quali, anzi, interloquiva commentando”. Un atteggiamento che dimostra una “situazione di connivenza e contiguità” che, sebbene non fosse bastato per arrivare a una condanna, ora è sufficiente per negargli l’indennizzo. L’operazione Minotauro è stata una vasta indagine condotta dai Carabinieri, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino, che ha smantellato una rete criminale legata alla ‘ndrangheta in Piemonte. Avviata nel 2011, l’operazione ha portato all’arresto di oltre 140 persone, accusate di appartenere o essere collegate a una struttura mafiosa ben radicata nella regione, con connessioni al traffico di droga, estorsioni, usura e infiltrazioni nella politica e nell’economia locale. L’indagine ha fatto emergere come la ‘ndrangheta, originaria della Calabria, si fosse stabilita stabilmente nel nord Italia, riuscendo a esercitare potere attraverso una fitta rete di relazioni e accordi, spesso con l’appoggio di esponenti del mondo imprenditoriale e politico. Il processo che ne è seguito, noto anch’esso come processo Minotauro, è stato uno dei più grandi procedimenti contro la criminalità organizzata nel nord Italia. Si è svolto tra il 2012 e il 2016 e ha visto coinvolti oltre 70 imputati. Alcuni sono stati assolti, ma molti sono stati condannati a pene severe per associazione mafiosa, traffico di droga e altri reati. L’importanza di questo processo ha contribuito a svelare la pericolosità e la pervasività della ‘ndrangheta al di fuori dei suoi tradizionali confini meridionali. Da quell’operazione ne seguirono poi altre, alcune direttamente collegate come la “Colpo di Coda” dell’ottobre 2012 che smantellò una locale che operava tra Chivasso e Livorno Ferraris. Bari. Morto suicida in carcere Giuseppe Lacarpia, era accusato di aver ucciso la moglie di Ida Artiaco fanpage.it, 22 ottobre 2024 Si sarebbe tolto la vita con un sacchetto di plastica avvolto attorno alla testa. Si è suicidato nel carcere di Bari Giuseppe Lacarpia, il 65enne di Gravina in Puglia (Bari) che era stato fermato lo scorso 6 ottobre con l’accusa di aver ucciso la moglie 60enne Maria Arcangela Turturo. Il corpo dell’uomo è stato ritrovato senza vita dagli agenti della Polizia penitenziaria intorno alle 3 di questa notte tra le coperte della cella. Da una prima ricostruzione, come riporta Il Corriere della Sera, sembra che si sarebbe tolto la vita utilizzando una busta di plastica avvolta attorno alla testa. Sarebbe quindi deceduto per soffocamento. La salma è sotto sequestro nel carcere di Bari, non è escluso che venga effettuata l’autopsia. Solo ieri aveva ottenuto il permesso di fare visita alla moglie al cimitero. Il 65enne era finito in carcere dopo il delitto consumatosi nella notte tra il 5 e il 6 ottobre scorso. Era accusato di omicidio volontario aggravato dal legame di parentela, dalla premeditazione e della crudeltà. Lacarpia, di ritorno da una festa in famiglia con la moglie, avrebbe dato fuoco all’auto mentre la donna si trovava ancora all’interno e poi, quando la 60enne ha provato a fuggire, l’ha uccisa a mani nude. Tarturo è poi morta nell’ospedale di Altamura dove era stata trasferita. Durante l’interrogatorio di garanzia, lui si è difeso dicendo che in realtà stava cercando di rianimarla, non di ucciderla. La figlia della coppia, dopo l’omicidio della madre, ha raccontato anche dei problemi di salute del padre - Lacarpia soffriva di demenza senile e Alzheimer ed è in cura per questo - affermando però che il genitore è sempre stato “lucido e presente a se stesso”. Roma. Detenuto morto, la sorella: “Ucciso da quelle perizie, servivano cure quotidiane” di Flaminia Savelli Il Messaggero, 22 ottobre 2024 “Abbiamo cercato in tutti i modi di ottenere i domiciliari ma il giudice ha detto no più volte. Era chiaro che stava male”. “Mio fratello è morto solo, tra le sofferenze. Quando l’ho visto l’ultima volta, pochi giorni prima di morire, parlava a fatica e aveva i polmoni pieni di acqua. Ho capito subito che la situazione era già compromessa”. Luciana è appena rientrata dal funerale del fratello, Giuseppe Ruggieri, il 66enne detenuto nel carcere di Rebibbia deceduto lo scorso 13 ottobre. La famiglia ieri mattina si è stretta per l’ultimo saluto ed ora è pronta a combattere per fare luce su quanto accaduto. Ruggieri infatti, era stato arrestato il 12 luglio dopo aver aggredito e sfregiato la sua ex fidanzata e il nuovo compagno. Ma non appena è stato trasferito nell’istituto penitenziario, le sue condizioni cliniche sono apparse subito gravi. Signora Luciana, quando suo fratello è stato arrestato come stava? “Giuseppe era senza una gamba, gli era stata amputata. Ma era il quadro generale a preoccuparmi, soffriva di diverse patologie serie tra cui la cirrosi epatica. Ecco perché mi sono subito attivata per gli arresti domiciliari. Mi sembrava evidente l’incompatibilità con il regime carcerario”. E invece cosa è accaduto? “È iniziata la nostra odissea tra le perizie, il carcere e il tribunale. Mentre i giorni passavano e il quadro clinico di Peppe peggiorava sempre di più. Pure il personale del carcere aveva segnalato che aveva necessità costante di rapporti con presidi sanitari ma non è stato sufficiente per il tribunale che ha anche impiegato diversi giorni prima di depositare la perizia”. Tanto che sono stati necessari due solleciti... “Esatto, ad agosto mio fratello era già detenuto da un mese. Conoscendo la sua situazione, e che stava sempre peggio, sapevo che non avevamo più molto tempo a disposizione per aiutarlo, per assicurargli le cure adeguate. Il nostro avvocato, Pietro Nicotera, ha fatto il possibile per accelerare i tempi. Poi comunque è arrivata la perizia del tribunale che stabiliva la compatibilità con il regime carcerario e ho capito che non c’era più alcuna possibilità. E infatti mio fratello è morto pochi giorni dopo”. Quando lo ha visto l’ultima volta, in che condizioni era? “Sono andata a trovarlo tre giorni prima del decesso, era giovedì 10 ottobre. Era sdraiato nel letto, immobile. Faceva molta fatica a parlare, sbiascicava. Quando mi ha visto, è scoppiato a piangere. Credo che sapesse che ormai era alla fine. I medici del carcere mi hanno aggiornata che aveva i polmoni pieni di acqua. E infatti la domenica mattina la situazione è precipitata ed è morto. Secondo l’autopsia a causarne il decesso è stato uno choc emorragico da ricondursi alla cirrosi epatica”. Ha già depositato la denuncia: crede che agli arresti domiciliari, suo fratello si sarebbe potuto salvare? “Questo lo accerteranno le indagini. Quello che so è che mio fratello è morto solo, lontano dalla sua famiglia, tra dolori lancinanti. Questa battaglia non è solo per Giuseppe ma per tutti quei detenuti che, malati come lui, sono abbandonati a loro stessi”. Genova. Presunto pestaggio in carcere, detenuto trasferito dopo la denuncia Il Secolo XIX, 22 ottobre 2024 Il detenuto, di 25 anni, lo scorso 3 ottobre aveva denunciato un’aggressione da parte di alcuni agenti della Polizia penitenziaria nel carcere di Marassi. È stato trasferito ad Alessandria Y.A.M., il venticinquenne che lo scorso 3 ottobre ha denunciato un’aggressione da parte di alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Marassi, dove era detenuto dal mese di agosto. Sulla vicenda è stata avviata un’inchiesta dalla procura, affidata al sostituto procuratore Valentina Grosso e coordinata dall’aggiunto Vittorio Raineri Miniati, responsabile del pool della procura dedicato alle fasce deboli. Le indagini sono ancora nelle fasi preliminari: nelle scorse settimane sono stati ascoltati gli agenti presunti responsabili del pestaggio, ma al momento non risultano persone formalmente indagate. Il fascicolo aperto per lesioni aggravate è a carico di ignoti. Tra le testimonianze che saranno raccolte, figura anche quella dell’avvocata Sonia Bova, presente durante i fatti e testimone oculare. La legale ha già presentato un esposto, così come Doriano Saracino, garante dei detenuti della Regione Liguria. Nel frattempo, il detenuto è stato trasferito. Dopo l’aggressione denunciata, era stato posto in isolamento all’interno del carcere di Marassi, un provvedimento che secondo lo psichiatra e l’educatrice del carcere piemontese non sarebbe compatibile con le sue condizioni di salute, sia fisiche che psicologiche. Nonostante ciò, il giovane si trova attualmente in isolamento anche nel carcere di Alessandria. Il 3 ottobre, l’avvocata Sonia Bova del Foro di Lecco si è recata al carcere di Marassi per incontrare il suo assistito. Come previsto, il venticinquenne è stato condotto nella sala avvocati in attesa del colloquio. È a questo punto che, secondo le testimonianze, cinque o sei agenti di polizia penitenziaria sarebbero entrati nella stanza. Uno di loro avrebbe colpito il detenuto al volto con uno schiaffo, facendogli cadere gli occhiali. Il giovane avrebbe reagito, e questo avrebbe scatenato la reazione violenta degli altri agenti, che lo avrebbero picchiato con calci e pugni per diversi minuti, ignorando le urla disperate del detenuto e della sua avvocata. In seguito al pestaggio, l’avvocata Bova ha informato la famiglia del detenuto, la quale ha ripetutamente richiesto informazioni sullo stato di salute del giovane. Le uniche notizie iniziali sono giunte tramite la madre di un compagno di cella, che aveva riferito alla famiglia del venticinquenne le sue condizioni fisiche dopo l’aggressione. Solo dopo 48 ore il giovane è riuscito a contattare direttamente i suoi familiari, riferendo di avere il labbro spaccato e alcune costole fratturate. Crotone: Il Garante dei detenuti Ferraro scrive al Ministero: “Garantire l’uniformità operativa” lanuovacalabria.it, 22 ottobre 2024 Il Garante comunale scrive all’Ufficio legislativo del Ministero per la Giustizia, al garante nazionale ella Conferenza dei garanti territoriali. Come noto, sin dalla sua istituzione l’Ufficio del Garante dei detenuti si è strutturato da diversi anni nelle varie diramazioni regionali e locali, tuttavia, permane a tutt’oggi una difformità delle previsioni normative e regolamentari, specialmente in merito alle norme di rango secondario, che legittimano e garantiscono la copertura normativa dei Garanti dei detenuti territoriali: comunali e provinciali. Ad oggi, non si è ancora realizzata quella uniformità di strumenti in grado di far lavorare, compiutamente, i Garanti territoriali nelle attività di promozione di protocolli d’intesa con le Istituzioni ed in generale delle interazioni periodiche con le altre Autorità. Tali ambiti sono ancora aspetti da attuare compiutamente; per non dire poi delle attività di assunzione di informazioni, di confronto con le Autorità competenti e di intervento. Per tali premesse, nei giorni scorsi, il garante comunale dei detenuti di Crotone - avv. Federico Ferraro - ha inviato una comunicazione formale all’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, al Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al Portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali prof. Samuele Ciambriello ed al Garante Regionale dei detenuti della Calabria avv. Luca Muglia, in modo che sia da sprone per urgenti interventi nomativi adeguati a livello nazionale. Spesso i Garanti territoriali non possono operare autonomamente, come un’Autorità di garanzia dovrebbe poter fare, poiché occorre sovente una specifica delega in ambito nazionale, essendo, le basi giuridiche legittimanti i garanti territoriali, fonti di rango regolamentare e quindi sub legge ordinaria. Ad oggi, non è prevista a livello nazionale una misura legislativa capace di rendere effettivo l’operato dei Garanti territoriali ed uniformare in modo cogente tutti gli Enti e le PPAA ad una adeguata previsione di confronto ufficiale, di trattamento istituzionale e di risorse da poter gestire progettualità legate all’ambito penitenziario ed al reinserimento socio-lavorativo. Appare, quindi, ictu oculi l’urgenza di intervenire senza indugio, sulle criticità legate al sistema penitenziario, ma, per poter consentire alle Autorità di garanzia di intervenire in modalità sempre più concrete ed incisive, per assicurare tutela effettiva e completa delle persone private della libertà personale, urge al più presto un intervento normativo, di carattere nazionale, che riesca ad uniformare la disciplina, le funzioni e le potestà di intervento nell’interlocuzione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con le Istituzioni nazionali e le loro diramazioni territoriali. A tal proposito, è fortemente auspicabile, al più presto, l’adozione di nuove misure e previsioni legislative che regolino il funzionamento più completo, uniforme e compiuto della figura dei Garanti dei detenuti, soprattutto nei livelli territoriali, in uno dei prossimi provvedimenti legislativi “omnibus” che verrà emanato. Si rende necessario, infine, realizzare un potenziamento nel rapporto tra la Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali e le Istituzioni nazionali dello Stato e locali, che abbia come oggetto la stipula di protocolli e/o convenzioni volti a delegare con adeguata copertura normativa, le funzioni e le attività in essere secundum legem. Il Garante comunale, come noto, è un’Autorità istituzionale di garanzia e vigilanza per il rispetto dei diritti e la dignità in carcere ed opera in piena indipendenza. Rovigo. “In carcere serve anche sostegno psicologico” polesine24.it, 22 ottobre 2024 L’appello dell’onorevole Romeo, all’esito della visita alla Casa circondariale. Nella mattinata di lunedì 21 ottobre, l’onorevole Nadia Romeo, rodigina e deputata esponente del Pd, affiancata dal Garante per i detenuti del Comune di Rovigo Guido Pietropoli, ha visitato il carcere di Rovigo. Non si è trattato di una “passerella”, ma di un approfondito incontro di circa quattro ore, reso possibile dalla cortesia del direttore e dal dirigente della polizia penitenziaria. “Ringraziamo entrambi - spiega l’onorevole Romeo - per la gentilezza e il tempo che ci hanno concesso, guidandoci per tutta la struttura e consentendoci anche di parlare con i detenuti, per raccoglierne istanze e segnalazioni. Allo stesso modo, un grande grazie va al garante per i detenuti, che, con la sua grande esperienza e competenza, è stato una guida davvero preziosa”. “Il ritratto che esce della struttura rodigina - prosegue Romeo - è duplice: da un lato non possiamo che apprezzare lo sforzo di non ridurre l’esperienza dei carcerati alla mera detenzione, ma di mettere a loro disposizione un percorso di vero reinserimento sociale, con una serie di opzioni formative importanti; dall’altra, non possiamo che rilevare come permangano alcune carenze strutturali, come la dotazione organica della polizia penitenziaria, praticamente il 50% di quella prevista”. “Numeri del personale ridotti - prosegue la parlamentare Dem - che non hanno ripercussioni solo sul fronte della sicurezza, ma anche sul benessere degli operanti e sulla qualità del servizio, nonostante gli ammirevoli sforzi che tutti mettono quotidianamente in campo”. “Venendo alle note liete, la prima buona notizia è che a disposizione dei detenuti ci sono vari corsi professionalizzanti, come quello per idraulico, o meccanico, o elettricista. Ma anche veri e propri percorsi scolastici, come quello di scuola media, mentre si sta cercando di organizzare anche quello di scuola superiore. Sono opportunità fondamentali per quanti vivono l’esperienza della detenzione, dal momento che consentono di porre le basi di un autentico reinserimento sociale, facendo sì che chi esce dal carcere non sia una persona avulsa dalla società, ma, anzi, abbia in mano nuove e importanti competenze per inserirsi in questa”. “Non solo - prosegue il resoconto della lunga visita - Abbiamo anche visto, con ammirazione, come si stiano attrezzando camere per consentire ai detenuti, ovviamente con tutte le garanzie di sicurezza del caso, di contattare le famiglie anche in videocall: un aspetto senza dubbio importante, per evitare che l’esperienza della detenzione, comunque pesantissima, come impatto, segni anche una cesura irrimediabile con la vita familiare”. Non mancano, ovviamente, gli ambiti nei quali si potrebbe fare di più. “Come Partito Democratico - conferma Romeo - siamo particolarmente attenti all’aspetto del sostegno psicologico ai detenuti, certo, ma anche a quei componenti della polizia penitenziaria che ne dovessero avvertire l’esigenza. Questo anche alla luce dei numeri drammatici che registriamo da inizio anno a livello nazionale: settanta detenuti si sono tolti la vita, oltre a sette poliziotti della penitenziaria. Sono numeri che non hanno eguali nella storia dell’Italia Democratica e che impongono una seria riflessione”. “Ovviamente - chiude la deputata rodigina del Pd - a livello locale per fortuna non abbiamo assistito a tragedie simili, ma questo non significa che le fragilità non esistano e che, soprattutto, non sia fondamentale intercettarle e trattarle prima che esplodano: a nostro avviso un servizio di sostegno a tutti coloro che vivono il carcere, dall’una o dall’altra parte della ‘barricata’, è urgente e irrinunciabile”. Roma. Resta sospeso il servizio del Cpa: indirizzati a Napoli i minori arrestati garantedetenutilazio.it, 22 ottobre 2024 Sovraffollamento e carenza di personale sarebbero all’origine del provvedimento dello scorso agosto. Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia ha prorogato il provvedimento di sospensione del servizio del Centro di prima accoglienza di Roma fino al 17 novembre 2024. È quanto stabilisce il decreto dell’11 ottobre 2024, sottoscritto dal direttore generale Alessandro Bonino Grimaldi per il Capo del Dipartimento per la giustizia minorile di comunità. La chiusura del Cpa avvenuta lo scorso agosto sarebbe stata resa necessaria dalla difficile gestione legata principalmente al sovraffollamento e alla carenza di personale. Nel decreto si legge che “la direzione del Centro per la giustizia minorile per il Lazio l’Abruzzo e il Molise, data la delicata situazione interna dell’lpm di Roma e l’alto numero di minori presenti, propone a questo dipartimento di valutare la proroga della sospensione temporanea degli ingressi presso il Cpa di Roma, indirizzandoli verso altre strutture analoghe”. Pertanto, si stabilisce la proroga della sospensione del servizio del Centro di prima accoglienza fino al 17 novembre. Come si legge nel decreto, “per la durata della sospensione del predetto servizio i centri di prima accoglienza maschile e femminile di Napoli provvederanno ad accogliere i minorenni arrestati o fermati o accompagnati a disposizione dell’autorità giudiziaria minorile dei distretti di Corte d’appello di Roma, per i quali non è disposto l’accompagnamento presso una comunità ai sensi dell’articolo 18 comma due con dell’articolo 18 bis comma quattro del DPR 448/88 fino alla celebrazione dell’udienza di convalida”. “La direzione del centro per la giustizia minorile di Roma per i minorenni - si legge ancora nel documento - arrestati fermati o accompagnati di propria competenza individuerà in accordo con il centro per la giustizia minorile di Napoli le modalità per garantire le celebrazioni delle udienze di convalida, oltre alle necessarie attività per assicurare l’esecuzione misure cautelari adottate, restando a carico del centro della giustizia minorile di Roma le correlative traduzioni”. Milano. Detenuti e robot insieme. Al lavoro per riciclare vecchi pc e televisioni di Ruben Razzante Il Giorno, 22 ottobre 2024 Grazie ad A2A nel carcere di Bollate primo impianto in Italia con l’Intelligenza artificiale. È un esempio virtuoso di economia circolare, innovazione tecnologica e inclusione sociale. Ed è il primo impianto in Italia per il trattamento dei Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (Raee) che sfrutta l’intelligenza artificiale e la robotica collaborativa. Dietro le sbarre di un carcere, quello di Bollate, alle porte di Milano. È qui che ieri mattina il Gruppo A2A ha inaugurato la nuova linea robotica dell’impianto che si occupa del trattamento dei monitor di computer e televisioni, gestito dalla società LaboRaee, controllata da Amsa. Sviluppata in collaborazione con Hiro Robotics consente di ridurre i tempi di trattamento da 10 a 3,5 minuti per monitor e di aumentare del 100% la produttività, migliorando la precisione nella separazione dei materiali. Qui accanto ai robot lavorano già cinque detenuti, ognuno con un compito ben preciso, ma ora con questa nuova tecnologia verranno assunti altri tre detenuti che, grazie a percorsi qualificati, acquisiranno le competenze professionali necessarie. “Con l’inaugurazione della nuova linea robotica nell’impianto di Bollate, Amsa promuove un modello di economia circolare che comprende sia la sostenibilità ambientale che l’inclusione sociale - ha dichiarato Marcello Milani, amministratore delegato di Amsa -. I Raee costituiscono una vera e propria miniera urbana e con questa nuova tecnologia aumenteremo la capacità di trattamento valorizzando sempre di più risorse preziose come alluminio, rame e metalli rari. Allo stesso tempo, stiamo contribuendo a favorire il reinserimento nel mercato del lavoro delle persone impiegate attraverso l’acquisizione di nuove competenze professionali valide e richieste nel mondo del lavoro”. Un progetto, quello del Gruppo A2A, che nasce nel 2018 quando nell’area industriale del carcere aveva aperto l’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici. Ora, con il nuovo sistema robotizzato, la linea dedicata allo smontaggio dei monitor potrà trattare fino al 17% delle 5.750 tonnellate di tv e monitor raccolte ogni anno in Lombardia. Gestione sostenibile dei rifiuti e inserimento sociale dei detenuti nel carcere dove la custodia attenuata e la partecipazione attiva dei detenuti ai progetti ha dimostrato che è possibile abbattere la recidiva. Biella. Ai commercianti le borse sostenibili cucite in carcere le stoffe vip riciclate di Mauro Zola La Stampa, 22 ottobre 2024 Con il materiale di “fine pezza” donato da alcune delle principali aziende tessili locali saranno realizzati 7500 pezzi dotati di un kit multimediale di promozione del territorio. Sono tremila le borse, confezionate in tessuti pregiati dai detenuti nel carcere di Biella, che i commercianti di Biella potranno regalare ai propri clienti nell’ambito del progetto “Shopper” realizzato grazie ai fondi regionali destinati al Distretto urbano del commercio (a cui si è aggiunto anche un contributo diretto dell’amministrazione). Un progetto che a grandi linee segue quello già lanciato a Cossato: a coordinarlo è sempre Paola Fini, ma si discosta in più di un senso. A fronte di un investimento economico minore, pari e 7 mila 500 euro (presi dai 250 mila assegnati dalla Regione per il commercio) verranno realizzate molte più borse e i contenuti multimediali a queste collegate non comprenderanno il podcast che tante discussioni ha provocato nella cittadina confinante, ma proposte più legate direttamente al commercio, come un questionario per capire meglio la clientela e in futuro anche offerte e proposte dei vari negozi che aderiranno e che a loro volta riceveranno le Shopper gratuitamente. A spiegarlo è stata l’assessore comunale Anna Pisani, che ha anche delineato gli obiettivi cardine del progetto: “La promozione e il marketing dei negozi della città” ma anche “l’attenzione alla sostenibilità ambientale, alla promozione sociale e all’innovazione digitale”. Nel primo caso a far la differenza sono i tessuti pregiati, donati dai Piacenza 1733, Vitale Barberis Canonico 1663, Drago Lanificio, Carnet (che biellese non è ma si serve delle stoffe locali), che sono però dei cosiddetti “fine pezza”, quindi altrimenti difficilmente utilizzabili. Anche i manici saranno realizzati in materiale riciclato e le borse potranno naturalmente essere utilizzate più volte. A confezionarle penseranno sette detenuti, utilizzando le strutture del laboratorio di sartoria già attivo all’interno della casa circondariale. Per insegnare loro a maneggiare il tessuto e coordinarne l’attività, è stata scelta una sarta esperta, Angela Maltese, indicata da Confartigianato, che ha voluto entrare come partner del progetto, che mira a coinvolgere tutte le associazioni di categoria. “Favoriremo in questo modo così l’inclusione sociale dei detenuti - ha proseguito Pisani -, si tratterà per loro di partecipare a un processo di formazione di grande valenza, potranno infatti imparare un mestiere che saranno in grado di sfruttare una volta scontata la loro pena”. Per quel che riguarda la parte multimediale, a tutte le borse verrà aggiunto un Dx Marker (acronimo di Digital Experience Marker, una specie evoluta del Qrcode) che una volta inquadrato “indirizzerà il consumatore a visitare anche gli spazi digitali dedicati al racconto del progetto, alla promozione del commercio locale, alle attività della città e a servizi innovativi. Le borse diventano così un oggetto che esce dai punti vendita e continua a comunicare ogni volta che sarà riutilizzata non solo in città ma anche in altri luoghi. Con queste Shopper diffuse tra i consumatori avremo modo di raccontare anche le nostre radici, comunicando l’attitudine all’eccellenza e alla valorizzazione della bellezza”. Il primo contenuto disponibile sarà un video dell’assessore, seguiranno testi sul distretto urbano del commercio e il già citato questionario sulle abitudini di acquisto. Treviso. Carcere: il forte valore solidaristico della scrittura e della lettura di Federica Florian trevisotoday.it, 22 ottobre 2024 Con Cittadinanzattiva è in atto un progetto di auto scrittura riservato alle persone detenute in carcere a Treviso. Conclusa questa attività, si avvierà come negli scorsi anni la quarta edizione del progetto “Libro Sospeso 2025”. In questi giorni Cittadinanzattiva Treviso presenterà le risultanze del primo anno del progetto “Storie Sbarrate 2024/2025”. Si tratta nello specifico di un corso di autoscrittura che si è svolto nella Casa circondariale di Santa Bona Treviso con l’intervento di alcuni detenuti volontari. Il progetto è uno dei 44 progetti della DGR n. 1124/2023 finanziati dalla Regione Veneto, per le annualità 2024 e 2025 (Azioni della “Linea 2: Misure per il reinserimento e l’inclusione sociale” riferita alla DGR n. 1405 dell’11 novembre 2022 “Approvazione del Programma regionale triennale di interventi cofinanziati dalla Cassa delle Ammende in favore delle persone in esecuzione penale esterna. DGR n. 743 del 21 giugno 2022”). Questa attività è sotto la direzione della docente Francesca Brotto, e si sviluppa in due annualità, 2024/2025. L’obiettivo generale, tramite la scrittura e il teatro, è promuovere l’autoconsapevolezza e l’empowerment dei partecipanti. Inoltre, il raccontare le proprie storie, quelle delle persone carcerate, dovrebbe potenziare ed emancipare il loro personale e individuale impegno per l’integrazione e il reinserimento nella comunità, a fine pena. Le attività previste dal progetto sono: un corso di scrittura autobiografica e uno per il teatro, con la creazione di monologhi e infine uno spettacolo conclusivo, alla fine del progetto nel 2025. Il presidente di Cittadinanzattiva Treviso, dottor Francesco Rocco, nella sua presentazione ha detto che: “Il tema dei diritti riguarda tutti i cittadini, nessuno escluso, e include, ovviamente, le persone detenute. Dare la consapevolezza dei propri diritti significa coinvolgere direttamente le persone e una delle modalità più efficaci è alimentare la loro conoscenza attraverso la partecipazione a iniziative di lettura e scrittura”. Questo è un impegno di lavoro diffuso, che da alcuni anni l’associazione Cittadinanzattiva sta svolgendo con il mondo delle carceri e della giustizia. Cittadinanzattiva Treviso è anche, ad esempio, l’ideatrice e attivatrice, insieme con la Libreria Paoline di Treviso, del progetto “Il libro Sospeso”, che si svolge con cadenza annuale, da tre anni, con l’obiettivo di donare libri nuovi, acquistati nelle librerie, alle persone detenute nella Casa circondariale di Santa Bona Treviso”. In questi giorni, in concomitanza con la presentazione di “Storie Sbarrate”, l’associazione sta attivando il quarto anno del “Il Libro Sospeso”. Lo si fa sempre in collaborazione con la Libreria Paoline di Treviso e in accordo con la Direzione della Casa circondariale che poi distribuisce i libri donati ai detenuti. Il progetto si ispira al famoso “caffè sospeso” di lunga ed importante tradizione napoletana. In tanti caffè, spesso in modo automatico o sollecitati dai baristi, migliaia di persone lasciano pagata la “tazzulella di caffè” per persone che non se la possono permettere. Cittadinanzattiva ha pensato alla scrittura come momento per eccellenza di massima libertà di pensiero. Con essa si dà essenza al pensiero e a desideri di libertà. Il libro è sia il contenitore che il trasportatore di tale libertà. Il libro è anche testimonial che documenta e divulga. Su questo ambito, le parole e il libro sono imbattibili. Lo sono oggi e lo saranno in futuro. Lo dimostra anche l’Intelligenza Artificiale che per esprimersi usa la scrittura, quindi le parole e la carta sono il mezzo migliore per fermarle e distribuirle. Nel presente, il libro ha dimostrato e dimostra di essere un grande momento per superare o arricchire il “sapere” delle persone. Questo sapere viene sempre di più considerato, giustamente, un punto di grande valore per dare ali e sostanza alla libertà. Cittadinanzattiva la mette in primo piano nel suo impegno di rappresentanza. Il “Libro Sospeso” 2025, come negli anni scorsi si collega al periodo della Quaresima, con una lettura specifica come pubblico riferimento a quello del vasto mondo delle persone fragili, affinché una parte dei loro problemi di inclusione possono essere aiutati dalla conoscenza diffusa. Come negli scorsi anni, tra le persone “fragili”, un posto privilegiato è riservato alle persone detenute, alle loro famiglie e anche a tutto il personale che in qualche modo si occupa della gestione delle carceri. Il presidente di Cittadinanzattiva, dottor Francesco Rocco, sostiene che: “L’impegno di Cittadinanzattiva Treviso con i suoi progetti “Storie Sbarrate” e il “Libro Sospeso”, rende utile il libro come dono di valore di solidarietà forte. Valore che vale anche per i volontari della nostra stessa associazione, che si dedicheranno alla promozione e diffusione dei risultati dei due progetti. Attorno al mondo carcerario c’è uno stigma molto forte, che stravolge spesso il senso della giustizia contenuto nelle indicazioni della Costituzione Italiana, secondo la quale va rispettata la dignità delle persone detenute, esse stesse portatrici di diritti”. Il periodo di promozione del “Libro Sospeso 2025” sarà accompagnato da una serie di incontri dove verranno presentati alcuni libri che illustrano la cultura e il valore del dono. Questa considerazione di Cittadinanzattiva, oggi è ancora più pregnante, con la decisione di Papa Francesco di aprire una Porta del Giubileo 2025 dedicata alle persone detenute. La sua giornata è prevista per il 14 dicembre 2025, molto utile considerando anche che la Chiesa cattolica, attraverso la cappellania (i cappellani delle carceri territoriali), ha un ruolo molto forte, sul piano umano e sociale verso le persone dei detenuti, sempre nel rispetto della legislazione. Bari. Diritto allo studio e inclusione: l’Università in Carcere, il Carcere nell’Università uniba.it, 22 ottobre 2024 Mercoledì 23 ottobre presso la Casa di Reclusione di Turi, e nei giorni successivi, nei mesi di Novembre e Dicembre 2024, presso le Case Circondariali di Bari, Taranto, Trani maschile e femminile, avranno inizio le giornate di orientamento agli studi per i detenuti e le detenute che intendono iscriversi ai corsi dell’Università degli studi di Bari Aldo Moro. Le giornate di orientamento, coordinate dal Prof. Ignazio Grattagliano, delegato del Magnifico Rettore UNIBA per le azioni progettuali con le amministrazioni penitenziarie, ed affiancato dalle dott.sse Roberta Risola e Andrea De Leo, psicologhe e operatrici del servizio civile penitenziario UNIBA, e dalle tutor penitenziarie UNIBA, Doriana Costantino, Dell’Erba Lorena, Bossi Cristina, Spartano Vanessa e Siracusano Maria Luisa, vede il coinvolgimento dei funzionari dell’Ufficio Orientamento UNIBA, Rocco Antonio Mennuti Maria Teresa Bilancia, Viviana Miccolis, Silvia Curatoli, Annalisa Rella, Andrea Festa, Giuseppina Florio, Loredana D’ambrosio. Si tratta di personale, UNIBA, particolarmente qualificato alle attività di formazione e accompagnamento nelle diverse fasi di transizione della vita universitaria. Il coordinamento del personale è affidato alla dott.ssa Adriana Agrimi. Per l’Amministrazione Penitenziaria oltre ai Direttori delle strutture penitenziarie interessate: Dott.ssa Nicoletta Siliberti, (Casa di Reclusione di Turi); Dott.ssa Valeria Pirè, (casa circondariale di Bari), Dott. Luciano Mellone, (casa circondariale di Taranto), dott. Giuseppe Altomare, (casa di reclusione di Trani Femminile, Casa Circondariale Trani maschile), saranno presenti i funzionari giuridico pedagogici che si occupano della didattica penitenziaria in carcere: Eva Zappimbulso, Vitantonio Aresta, Luciana Prudente, Vincenzo Cassano e Giuseppina Stasi. L’impegno dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, in stretta sinergia con le Amministrazioni Penitenziarie e le Direzioni degli Istituti Penitenziari dove sono presenti studenti detenuti è quello di favorire un uso proficuo della pena stimolando l’interesse per la conoscenza, l’apprendimento e l’elevazione sociale. L’iniziativa dell’ateneo barese si colloca nell’ambito delle attività per favorire l’accesso allo studio delle persone private della libertà. L’obiettivo delle giornate di orientamento- è divulgare l’impegno dell’ateneo barese a favore di una categoria di persone che, a causa della reclusione, non ha libero accesso allo studio. Per questo UNIBA è impegnata nel garantire il diritto allo studio e nel promuovere la cultura in soggetti che presentano vulnerabilità nell’inclusione sociale, come nel caso dei soggetti in detenzione intramuraria ed extrramuraria Il Polo universitario penitenziario UNIBA, in stretta collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione carceraria e le Direzioni dei Carceri Pugliesi, infatti si rivolge a tutti i soggetti in stato di esecuzione di pena per fornire - supporto didattico, colloqui con i docenti, attività seminariali, attività di orientamento, supporto nell’apprendimento, esercitazioni, esami e tirocini nelle modalità compatibili con le misure di reclusione”. I Poli Universitari Penitenziari Nazionali, di cui UNIBA fa parte, sono stati istituiti dalla Crui (Conferenza Nazionale dei Rettori degli Atenei Italiani), nel 2018 e sono coordinati dalla Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari (Cnupp). Attualmente sono circa 40 gli atenei operativi a livello nazionale, con attività didattiche e formative erogate in oltre 80 istituti penitenziari con circa 1700 studenti e studentesse detenuti/e. Livorno: Marco, rinato dopo droga e carcere: “Potevo essere morto, ecco qual è stata la svolta” di Stefano Taglione Il Tirreno, 22 ottobre 2024 La sua sala da ballo si chiama “Ops” e porta le iniziali di chi lo ha aiutato: la madre Olga, il fratello Piero e il padre Silvano. I suoi primi 30 anni di vita li ha trascorsi “da irresponsabile, da chi pensava di essere più forte della legge, ma era un grande bluff”. La dipendenza dalla cocaina, lo spaccio: “Quando sono uscito di galera ero marchiato. Mentre ero alle Sughere ho perso mio fratello, non mi hanno fatto andare nemmeno al suo funerale”. Poi, però, dal ‘93 è iniziato il riscatto. E che riscatto: imprenditore, con una ditta di idraulica sulle sue spalle, nel 2011 ha aperto un ristorante-pizzeria (il “Ci Piace” di via Bacchelli, a Porta a Terra), l’anno scorso un bar (il “Last minute”, in via di Salviano) e da qualche mese pure una discoteca, l’Ops di via Aiaccia, a Stagno. La storia - È una storia di rinascita quella del ristoratore livornese Marco Brucioni, 61 anni, uscito dal tunnel della droga e diventato uomo di successo dopo aver sconfitto i pregiudizi che in molti nutrivano nei suoi confronti. Sbagliando. “Ero marchiato come spacciatore, per certi versi anche giustamente, perché quello che ho fatto non lo nascondo. Ma ho pagato i miei errori, era un’etichetta che non avrebbe dovuto restarmi addosso”. Il nome “Ops”, fra l’altro, riunisce le persone che lo hanno sostenuto, dandogli fiducia, nel cambiare vita: la madre Olga, morta un anno fa, il padre Silvano e il fratello Piero, anche loro scomparsi prematuramente. “Sono nel cuore, la mia vita”, spiega. Marco, parte della sua storia, l’ha raccontata in un libro scritto nel 2019 col giornalista Sergio Consani, “Al di là della linea bianca”. Il libro - “Negli anni Novanta - prosegue - potevo essere morto. Ho avuto il riscatto, la mia famiglia ha creduto in me, non mi sarei mai aspettato di farcela, ma ce l’ho messa tutta”. Il “Ci Piace”, vicino al Modigliani Forum, è ormai un’istituzione. Il “Last minute”, chiamato così perché dopo aver visto il fondo sfitto lo ha inaugurato con una rapidità incredibile, è un “circolino” dove i giovani possono anche giocare a biliardino e alla Playstation. L’Ops, invece, è un locale dove si balla il mercoledì, il venerdì e il sabato. “Il mercoledì mi aiuta il mio amico Dodo Salsa, che mi ha dato una grande mano e voglio ringraziare - sottolinea - mentre in futuro vorrei aprire anche il giovedì e la domenica. Balliamo latino-americano, il mercoledì è la serata dedicata, poi facciamo karaoke. Mi diverto a stare con le persone, nonostante i tantissimi impegni riesco a stare dietro a tutto. Non è facile, perché lavoro dalla mattina alla sera”. Il simbolo di “Ops” è un cuore rosso, con tre punti esclamativi. Tre, come gli amori della sua vita. Marco, all’inaugurazione, si è voluto subito scattare una foto con il nipote Jonathan Costa, “che insieme al resto della famiglia mi ha dato la forza per cambiare”. I consigli - “Un consiglio ai giovani? Non iniziate mai il mio percorso - le sue parole - perché è come una roulette russa, non sai mai se e come ci esci. Qualcosa mi ha dato, chiaramente, soprattutto dal punto di vista caratteriale, mi ha insegnato a essere forte. La vera vita è quella dopo il ‘93, la seconda. Ho iniziato a lavorare con mio padre e mio fratello per la ditta, poi è arrivata la condanna e sono finito in carcere. Quando sono uscito, anche se ormai ero fuori da certi giri, le persone mi ritenevano ancora uno spacciatore, avevo questa etichetta addosso. Era sbagliata, perché avevo già pagato. Ho dovuto sudare il doppio, ma ce l’ho fatta. Non è stato facile ricominciare, anche perché mio padre e mio fratello non c’erano più. Sono contento che la pecora nera di casa, ovvero io, ce l’abbia fatta. Grazie ai miei familiari”. La vita di Brucioni non è stata semplice. Neanche dopo. Il compagno della madre, il novantaduenne Nazzario Cerrai, nell’agosto di due anni fa è stato ucciso soffocato a scopo di rapina nella sua casa di via Garibaldi da un saldatore livornese, condannato in via definitiva a 23 anni e ora in carcere. Un altro dolore, per il ristoratore, che nel dicembre scorso la mamma Olga l’ha poi persa. “In quel caso, mio a modo di vedere - conclude - la giustizia completa non c’è stata”. Roma. Gli affetti ai tempi del carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 ottobre 2024 Un grande affresco corale composto da frammenti di vita amorosa e reclusa. In “Credo ancora nelle favole”, performance nata dal laboratorio di teatroterapia ideato e condotto nella casa di reclusione di Roma Rebibbia dalle psicoterapeute Irene Cantarella e Sandra Vitolo, detenuti e familiari si confrontano su sensi di colpa, assenze, sensazioni di abbandono e solitudine. Un’esperienza all’insegna dell’autenticità: non solo il copione è frutto di incontri con i detenuti e con i loro familiari, ma in scena - a raccontare conflitti, rimorsi, riconciliazioni e la vasta gamma di sentimenti di chi vive le privazioni affettive legate al carcere - sono i veri protagonisti. In tutto 32 interpreti tra detenuti, figli minorenni, mogli, compagne e altri familiari. Rappresentato a gennaio 2024, lo spettacolo, insieme ad attività di backstage e a interviste a protagonisti, autrici e addetti i lavori, è ora un docufilm diretto dal regista Amedeo Staiano. Autoprodotto e patrocinato dal ministero della Giustizia, “Credo ancora nelle favole” è stato realizzato grazie al coinvolgimento, in forma gratuita, di diverse aziende del settore cinema e tv. In particolare, tutte le figure tecniche - dal direttore della fotografia Gianluca Mastronardi all’autore della colonna sonora Alessandro Forte a Mauro Gervasi responsabile della color grading, all’aiuto regista Mario Cuozzo - hanno sostenuto con mezzi e tecnologie la messa in opera. Il documentario fa parte di una campagna di sensibilizzazione che prevede la proiezione, per tutto il 2025, in cinema, teatri e nel corso di eventi destinati a scuole medie e superiori con dibattiti sui temi della legalità e della devianza. Vincitore in ottobre di due rassegne online, l’Absurd Film Festival e il Rome International Movie Awards, il docufilm è stato selezionato come finalista e in concorso al Coliffa - Coliseum International film festival, al Prisma Rome Indipendent Film Award e, da ultimo, al Glocal DoC, festival nazionale di giornalismo in programma dal 3 al 7 novembre a Varese. Milano. Un cielo dietro le sbarre di Valeria Balocco Marie Claire, 22 ottobre 2024 La protagonista di questa storia è Federica Berlucchi, membro del consiglio di amministrazione dell’azienda agricola Fratelli Berlucchi Freccia Nera. Dal 2017 lavora come volontaria nel carcere di San Vittore di Milano dove ha ideato e dirige gli Incontri del giovedì, riunioni settimanali con le detenute. Sogna di realizzare, sempre nel braccio femminile, un progetto di sartoria. “Ci riuniamo tutti i giovedì al primo piano del braccio femminile. Non ci siamo scelte: eppure nonostante questa socialità forzata, sembriamo un gruppo di amiche che chiacchiera di amore, figli, famiglia. E libertà”. Prima ci sono i cancelli automatici e poi un portone di ferro. Lì lasci la tua borsa e il cellulare, ti spogli di tutti gli strumenti che ti permettono di avere un rapporto col mondo fuori. Dopo c’è il rumore stridente delle chiavi che girano nella toppa dell’entrata di ferro del braccio femminile - che si richiude dietro di te appena dentro - cui non riesco proprio ad abituarmi. Ho imparato a gestire l’aria ferma, il sole che passa dalle finestre e disegna sul pavimento quadrati e rettangoli, i cieli uggiosi che rendono necessaria la luce accesa durante gli incontri anche se si svolgono nelle prime ore del pomeriggio. Riesco pure a non abbassare più lo sguardo davanti ai loro visi che mi fissano da dentro le celle con le mani attaccate alle sbarre che fanno intravedere tendine e panni stesi. Ho costruito un bel rapporto anche con gli agenti che fanno un gran lavoro. Ho imparato persino a gestire quel senso di fortunata opportunità che ho avuto nella mia vita rispetto alle loro e che là dentro percepisco forte. Eppure, quel cigolìo meccanico delle chiavi di ferro in quella porta d’entrata continua a farmi uno strano effetto, mi rimbalza nello stomaco sempre, potente e unico. Poi, per fortuna, una volta all’interno tutto assume un’aria familiare. E potrà sembrare assurdo ma quell’appuntamento nel carcere di San Vittore a Milano tutti i giovedì è ormai parte della mia vita. E mi fa un gran bene. Ho iniziato quasi per caso. Un po’ come sono cominciate, spesso per me, le cose importanti. Volevo fare volontariato. Le amiche mi suggerivano l’ospedale, ma io sono ipocondriaca. Poi, mio zio mi parlò della sua esperienza come insegnante di inglese nel penitenziario di Brescia. Così, quando un’amica mi ha presentato Manuela Federico, Comandante della Polizia penitenziaria, (ha lavorato lì per 12 anni, ora è Comandante presso l’Ufficio esecuzione penale esterna di Milano, ndr) le ho parlato della mia idea. E, una volta ottenuta l’autorizzazione dal ministero della Giustizia, ho iniziato a fare piccole commissioni per gli uomini. È stata lei - oramai eravamo diventate amiche - che, dopo alcuni mesi, mi ha suggerito il braccio femminile. Così sono nati gli Incontri del giovedì, tra me e una ventina di carcerate scelte da Francesca, l’educatrice del carcere, tra quelle che lei valuta più strutturate e adatte a parlare, ad aprirsi, a condividere. All’inizio, però, venivano in poche, erano dubbiose, malfidenti. Chi ero, del resto, io per loro? Poi, un po’ per un’alchimia imprevedibile, un po’ perché in carcere le ore senza fare quasi nulla sono dure a passare, il gruppo è cresciuto. Oggi, a distanza di oltre sei anni, so che ci vengono volentieri e che le richieste di partecipazioni sono molte di più di quelle che possiamo gestire. Ci riuniamo una volta la settimana - il giovedì pomeriggio, da qui il nome - in una stanza al primo piano, in cerchio. E pur in una condizione di forzata socialità - io non le ho scelte e neanche loro, neppure una con l’altra -, chiacchieriamo come un gruppo di amiche, di tutto. E ci divertiamo pure. Prediligono il rapporto personale, ma qui il gioco è il gruppo, la capacità di condividere con le altre opinioni, idee, emozioni. Non sono amiche, in carcere - questo me lo hanno detto tante volte loro - è rara l’amicizia, poca è anche la solidarietà che si riduce al massimo in un aiuto a farsi la tinta ai capelli. Ma lì c’è uno spazio libero di parola e loro lo cercano. Non sono sempre le stesse, San Vittore è carcere circondariale dove le detenute sono in attesa di giudizio e quasi sempre, una volta arrivata la sentenza, vengono spostate in un altro penitenziario. Questo rende più difficili gli incontri: spesso si riparte da zero, ma non con tutte. Ho percepito che il male esiste, eccome. Loro sono lì perché hanno commesso un reato, anche se molte si dichiarano innocenti, ma in quelle tre ore settimanali colpe, muri e celle sembrano quasi annullarsi e scomparire. E io, che le prime volte uscivo commossa e turbata e piangevo, ho imparato e non giudicare. A sedermi in mezzo a loro con un sorriso empatico e ad ascoltare: “Come va? Come hai trascorso la settimana? Cosa è successo?”. I primi anni ci andavo da sola, poi ho compreso che gli incontri si sarebbero arricchiti molto con la presenza di altre persone. Ho iniziato con un astrologo, Stefano Vighi. Lui con un’affabilità naturale è riuscito a portarle “Altrove”, nel futuro, raccontando, con leggerezza e senza falsi buonismi, il loro quadro astrale. Un cielo oltre le sbarre, oltre l’attesa per gli incontri con gli avvocati o coi parenti (se ne hanno), i processi e le sentenze. Certo è solo un attimo di distrazione e svago, ma riesce a rompere il senso claustrofobico della prigione. Poi è stata la volta di Markus Krienke, un filosofo. E con lui le riflessioni sono andate su amore, figli, amicizia, legami, uomini. E libertà. Discussioni semplici, ma che aprono orizzonti di vita. La maggior parte delle detenute - tantissime extracomunitarie e giovani - sono dentro per reati di droga, truffa, prostituzione, vicende legate a uomini che le hanno usate e quando escono ci ricascano. Se non hai mezzi, cultura, famiglia, strutture cui appoggiarti, se sei nel vuoto è facile cadere preda di uomini che ti sfruttano. Ma in quei momenti ci credono al Bene, e vedono spiragli di un orizzonte positivo aprirsi davanti a loro. Quell’umanità così elementare mi si appiccica addosso. È successo anche in occasione della Festa della Donna quando avevo organizzato (in collaborazione con il Centro Europeo Teatro e Carcere e la Fondazione Fo Rame) un evento di poesia nel giardino di San Vittore e una detenuta ha letto dei versi di Alda Merini: “Mi sento come una farfalla cui vengono tarpate le ali, come un uccello chiuso in gabbia. La libertà è la cosa più preziosa. Nessuno potrà mai ridartela ma la potrai riconquistare”. È banale dirlo, ma in questi incontri mi sembra quasi più di ricevere che di dare. Elegante e ben truccata. Arrivo con un look mai lasciato al caso. Non per tracciare una linea di demarcazione tra me e loro, che si presentano quasi tutte con ciabatte e tute scolorite. Anzi. Lo faccio perché so che a loro piace. Sono rimaste entusiaste quando ho organizzato l’incontro con il make-up artist Fatjon Kacorri. Avevo portato dentro (con l’autorizzazione del carcere, ndr) smalti, rossetti, ombretti, mascara, fondotinta regalati da riviste di moda e loro, che non hanno neppure uno specchio (per ovvi motivi di sicurezza) hanno cominciato a truccarsi a coppie e sono diventate l’una lo specchio dell’altra. Si sono sentite belle, e lo erano. Là dentro si lasciano andare, come se la cura per sé stesse fosse solo legata al fatto che qualcuno ti guardi, spesso un uomo. È stato bello ricevere la lettera di una detenuta che mi ha scritto: “In quel tempo con te e Fatjon ci siamo dimenticate di essere rinchiuse e ci hai fatto sentire donne anche in questo ambiente. E con i regali ricevuti potremo farci belle tutti i giorni”. Alla fine, escono alla spicciolata. Così come quando entrano. Qualcuna è chiamata dalle agenti perché è di servizio alla distribuzione dei pasti, qualcuna perché ha il turno della doccia. Altre rimangono perché vorrebbero continuare a parlare da sole con me. Io le chiamo le “mie” ragazze. Ricordo una prostituta che mi raccontava della poca tenerezza ricevuta dagli uomini, di una simpatica zingara che mi chiedeva consigli su come insegnare alla figlia a non rubare e la storia di una giovane che aveva dato in adozione la sua bimba. Ricordo visi e sorrisi di donne che non ho mai più rivisto. Qualcuna, però, quando esce mi chiama: cerca aiuto, fuori è molto difficile trovare lavoro e non ritornare a delinquere. Sono così vulnerabili... In quei momenti ho quasi la certezza che quegli incontri abbiano lasciato un segno. E comunque a distanza di sei anni dietro quelle sbarre, il mio cuore si è nutrito e mi si è allargato il mondo. Monza. Il monaco buddista e i detenuti: “Uscite dalla spirale di violenza” di Alessandro Salemi Il Giorno, 22 ottobre 2024 Incontro alla Casa circondariale con l’americano Claude Anshin Thomas del progetto Liberation Prison Project “Ero mitragliere in Vietnam e ho tolto tante vite ma ora sono uscito dalla dipendenza dalle droghe e rinato”. “La prima cosa da fare la mattina, quando vi svegliate, è rifare il letto come se non ci aveste mai dormito. Poi sedetevi su una sedia, con i piedi ben appoggiati sul pavimento, e inspirate dal naso ed espirate dalla bocca. Questo per 5 minuti, ogni mattina”. Lo ha ripetuto come un mantra ai detenuti, diverse volte ieri, il monaco buddista americano Claude Anshin Thomas, durante la sua visita al carcere di Monza. Un precetto che parrebbe quasi banale, se non fosse “una pratica necessaria per entrare più profondamente nella propria dimensione religiosa”, la stessa che a lui è servita quando, molti anni fa, ha voluto cambiare la sua vita, da reduce della guerra in Vietnam, pieno di rabbia, in preda ad attacchi di violenza e all’uso di barbiturici e droghe, a uomo denso di spiritualità, che da 25 anni a questa parte ha volto la sua vita ad aiutare gli altri. “In Vietnam ero un mitragliere in elicottero - dice mentre intorno vige un silenzio attento - avevo solo 18 anni, e sono stato direttamente responsabile dell’uccisione di un numero di persone superiore a quante sono presenti in questa sala adesso. Ed io stesso ho rischiato di morire. La vita non aveva significato per me, venivo da una famiglia dove c’era molta violenza”. “Tornato dalla guerra è stato un susseguirsi di narcotici e violenza - continua -. E per questo sono stato anche a più riprese in carcere. Ho rischiato di morire per uso di sostanze, se non fosse che una clinica, nel maggio ‘83, riuscì a indirizzarmi a un percorso efficace di disintossicazione”. “Il mio processo di rinascita partì da lì - prosegue -, e voi ora avete la possibilità di rinascere. La condizione di adesso è un’opportunità per voi, la possibilità di avere un rapporto col silenzio, lasciare che la vita si riveli a voi”. Anshin Thomas ora ha 77 anni, e, avendo preso i voti della mendicanza, non ha denaro, non può lavorare, non può possedere proprietà, tutto il contrario “dall’avere successo, denaro, delle belle macchine”, o “delle donne viste non come esseri umani ma come trofei da esibire”, ma in realtà non gli manca nulla, perché “nulla di tutto quello era davvero importante”. Il suo impegno ora è essere al servizio di tutte le persone che hanno bisogno di uscire dai circuiti della violenza e dell’alienazione. È questo il senso delle iniziative come questa promosse da Liberation Prison Project, che in tutto lavora in 24 carceri italiane ed è molto attiva alla casa circondariale monzese. I buchi neri di giustizia e carcere, da Sciascia a oggi di Valter Vecellio sfogliaroma.it, 22 ottobre 2024 Un piccolo libro di consigliabile lettura: “Paura del registratore. Leonardo Sciascia e la stampa spagnola” (Rubbettino editore). Alejandro Luque, scrittore, giornalista, traduttore, raccoglie e commenta le interviste che Sciascia ha rilasciato a quotidiani, riviste e televisioni spagnole. Per esempio El Pais chiede un commento sulla candidatura, voluta da Marco Pannella, di Toni Negri, il leader di Autonomia, che viene eletto deputato e poi si rifugia in Francia sottraendosi alla giustizia italiana e al processo. “Non mi interessa la polemica su Negri né se debba o meno tornare in Italia”, risponde Sciascia. “L’unica cosa che mi interessa davvero in tutta questa faccenda è che la Giustizia possa trattenere in prigione un uomo per quattro anni senza un processo. È ingiusto”. Ancora una volta Sciascia spiazza il suo interlocutore e forse il suo lettore: ci si aspetta che dica la sua sulla vicenda specifica; lui richiama l’attenzione non sull’unghia del dito sporco (la fuga di Negri), ma sulla luna che il dito indica: la questione della giustizia; di come pessimamente viene amministrata, le sue innumerevoli vittime; del fatto che una persona può essere rinchiusa per anni in carcere senza essere processata e condannata. E si era, allora, nel 1984. Quarant’anni dopo, la situazione è per tanti versi persino peggiorata. Nel maggio scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio ci aveva invitato a pazientare, ad avere fiducia: nelle disastrate carceri italiane la situazione sarebbe migliorata; i primi frutti li si sarebbe già cominciati a cogliere a settembre. Vien da chiedere di quale anno; siamo alla fine di ottobre e in concreto nulla è mutato. Intanto siamo arrivati a quota 75 per quel che riguarda i carcerati che si sono tolti la vita. Almeno sette gli agenti della polizia penitenziaria suicidi. Non sappiamo quanti sono i tentati suicidi che gli agenti sono riusciti a sventare all’ultimo minuto, ma certamente nell’ordine di centinaia. Non sappiamo quanti siano gli episodi di autolesionismo, ma certamente nell’ordine di migliaia. Non sappiamo quanti ingiustamente incarcerati per settimane e mesi; ma anche qui nell’ordine delle centinaia ogni anno. Nel suo complesso, la classe politica di questo Paese mostra la più completa indifferenza. Il problema per loro semplicemente sembra non esistere. Non solo loro: silenziosi, omertosi verrebbe da dire, i professionisti del dibattito e della chiacchiera. Non un programma di cosiddetto approfondimento politico nelle televisioni, siano esse pubbliche o private. Non un Porta a porta, una Carta bianca, un Di Martedì, un Piazza pulita, un 8 e mezzo. Ancora dal libretto citato all’inizio di questo articoletto; il quotidiano Informacion, chiede a Sciascia della speranza; risponde: “La speranza sta nel seguire la verità, nel vivere secondo ragione, nell’avere il coraggio di dire quello che alcuni non vogliono sapere”. Non resta che rimboccarsi le maniche: per la verità e la ragione sono tempi più che duri; pochi i coraggiosi che cercano di dire quello che tanti non vogliono sapere e soprattutto che si sappia. Quando Pannella e Diaconale si appellarono al Papa “Santità, chieda l’amnistia!” di Ruggiero Capone L’Opinione, 22 ottobre 2024 L’amnistia era l’argomento che accompagnava le saltuarie passeggiate mattutine che facevo col compianto amico Arturo Diaconale: mi diceva “lascia di scrivere, facciamo un salto al Partito Radicale”. In quella passeggiata tra Via Del Corso e Largo di Torre Argentina incontravamo tutti: spesso Gabriele La Porta e qualche volta Gianfranco Funari. Fermavano Arturo chiedendo lumi sulla politica, io rincaravo la dose con “inseriamoli nel nostro dibattito sull’amnistia”. Arturo di rimando alzava le braccia al cielo, e quasi stizzito “Figurati! Non la faranno mai... il coraggio di certi atti è terminato con la Prima Repubblica”. Ricordo che tutti i suoi interlocutori, a cominciare da Marco Taradash che ci aspettava per il caffè a Largo Arenula, erano convinti che ci volesse un’amnistia generale. Oggi nessun partito o singolo parlamentare s’azzarderebbe a parlare d’amnistia, temendo di finire nel tritacarne giustizialista, o anche solo dispiacere a quegli elettori che reputano lo Stato debba sbattere sempre più cittadini in galera. Quante volte abbiamo ascoltato nei bar o per strada commenti come “le carceri le dovrebbero ancora riempire, stipandoli nelle celle, troppi nullafacenti girano a cercare pane e quattrini”. Insomma, la ricetta vittoriana contro la povertà, quegli arresti per indigenza che nella seconda metà dell’800 cambiarono demograficamente il volto dell’Australia. Ma ottocento anni fa, forse anche per opportunismo, il cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi convinceva Bonifacio VIII ad istituire il Jubileo. Da allora è usanza per il potere che, per acquisire indulgenze, e varcare almeno una volta la Porta Santa, necessiti perdonare i più deboli prima di prendere l’Eucaristia. Sovrani e governanti hanno da allora dimostrato la propria bontà perdonando, concedendo amnistie. Questo almeno fino allo scadere della Prima Repubblica. L’ultima amnistia reca firma del presidente della Repubblica Francesco Cossiga sul Decreto del Presidente della Repubblica del 12 aprile 1990, n.75: Concessione di amnistia per reati con pena reclusiva fino a 4 anni, non finanziari. E poi dello stesso Cossiga sul Decreto del Presidente della Repubblica del 20 gennaio 1992, n. 23 Concessione di amnistia per reati tributari”. Più o meno ogni quattro anni, dall’Unità d’Italia fino alla caduta della Prima Repubblica, governi e presidenza della Repubblica erano soliti assecondare la richiesta pontificia di fare amnistia per coloro che disgraziatamente erano incappati nelle maglie della legge. Inizialmente in Italia l’amnistia era prevista con decreto regio, come atto di grazia il sovrano la poteva concedere, ma non diretta ad un singolo caso bensì generalizzata. Con la caduta della monarchia, l’amnistia ha cominciato a subire una progressiva evoluzione: con l’instaurazione della Repubblica il capo dello Stato è andato a sostituire il sovrano, firmando grazie su impulso del Parlamento. Dal 1992, l’ultima riforma costituzionale ha attribuito questo potere direttamente al Parlamento, come espressione della volontà popolare, abbracciando un principio più democratico, con votazione a maggioranza qualificata. La disposizione vigente modifica l’amnistia in Italia, ed è prevista dall’articolo 79 della Costituzione: normata dall’articolo 151 del Codice penale, il quale recita: “L’amnistia estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione e le pene accessorie. L’estinzione del reato per effetto dell’amnistia è limitata ai reati commessi a tutto il giorno precedente la data del decreto. L’amnistia non si applica ai recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell’articolo 99 Codice Penale, né ai delinquenti abituali, o professionali o per tendenza, salvo che il decreto disponga diversamente. Come fissato dalla Costituzione, l’amnistia si applica ai reati commessi anteriormente alla data di presentazione del disegno di legge in Parlamento. Va detto che, se il decreto è di “amnistia impropria” e non totale va a cessare solo l’esecuzione della condanna e le pene accessorie, ma permangono gli altri effetti penali: perciò malgrado il provvedimento di clemenza, la condanna costituisce titolo per la dichiarazione di recidiva, di abitualità, di professionalità nel reato o per escludere il beneficio della “sospensione condizionale” della pena per future condanne. Così l’amnistia impropria rimette la competenza al giudice dell’esecuzione, il quale procede (senza formalità, con procedura de plano) con ordinanza comunicata al Pm e notificata all’interessato. L’amnistia propria è invece applicata direttamente dal giudice penale (di merito o di legittimità) che deve dichiarare l’imputato non punibile e il reato estinto per intervenuta amnistia”. “Santità!” recitava da laico il compianto amico Arturo Diaconale presentando il suo ultimo libro sul Papa, e poi rivolgeva un appello perché ci facesse grazia di chiedere l’amnistia al presidente della Repubblica. Diaconale aveva raccolto la staffetta da Marco Pannella. Lo scrivente continua a perorare la causa dell’amnistia, e perché si ridia speranza ai tanti perseguitati dalla giustizia. Perché perdono e garantismo devono essere alla base della convivenza civile. L’Italia continua a vivere avvolta in sorta di febbre defatigante, una continua guerra civile tra sinistre e destre, con ripercussioni tra cittadini e casta giudiziaria. Perdonare ed amnistiare dovrebbe essere obiettivo basilare di chi crede in un percorso di rappacificazione nazionale. “No all’Iva sul non profit”: Legge di Bilancio, appello del Forum per il Terzo settore di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 22 ottobre 2024 Il Terzo settore è “valore sociale”, non esiste per far soldi: “No alla partita Iva per le attività associative del Terzo settore”. È questo l’appello del Forum nazionale Terzo settore all’avvicinarsi della scadenza del primo gennaio 2025. Il Terzo settore è “valore sociale”, non esiste per far soldi: “No alla partita Iva per le attività associative del Terzo settore”. È questo l’appello del Forum nazionale Terzo settore all’avvicinarsi della scadenza del primo gennaio 2025, quando a meno di un intervento o di una nuova proroga migliaia di enti e associazioni dovranno assumere un commercialista - o comunque far qualcosa del genere - per cominciare a tenere una contabilità Iva con tutto quel che ne segue, comprese le realtà che non dovranno comunque pagarla. Spiegazione per i non addetti. Il nuovo regime Iva per il Terzo settore che, in assenza di interventi normativi entrerà appunto in vigore dal 1 gennaio 2025, rischia di causare la riduzione, se non addirittura la cancellazione, di numerose attività e servizi alla cittadinanza, senza peraltro apportare nuove entrate per le casse dello Stato. Pur non dovendo pagare l’imposta, infatti, gli Ets non commerciali saranno costretti a dotarsi di partita Iva e ad assolvere così una lunga serie di adempimenti burocratici e amministrativi, particolarmente gravosi e difficilmente sostenibili soprattutto per le realtà sociali più piccole, che rappresentano la gran parte del Terzo settore nel nostro Paese. Per questo motivo il Forum Terzo Settore, in vista della discussione della nuova Legge di Bilancio, lancia l’appello a Governo e Istituzioni intitolandolo “È valore sociale, non vendita. No alla partita Iva per le attività associative del Terzo settore”. “Chiediamo che si trovi una soluzione definitiva - sintetizza la portavoce del Forum Vanessa Pallucchi - a un problema nato dall’apertura di una procedura d’infrazione europea nei confronti dell’Italia, che si trascina e che denunciamo da anni. Ma, stando a quanto si legge finora, la bozza della Manovra 2025 non contiene nulla a riguardo. Nelle scorse settimane abbiamo presentato una nostra proposta al viceministro all’Economia Maurizio Leo, che mantiene per il Terzo settore il regime di esclusione Iva e offre una risposta adeguata alle questioni aperte. In attesa di ricevere riscontro dal Governo, sale la preoccupazione tra gli Enti di Terzo Settore”. E la portavoce sottolinea: “Temiamo che a livello politico non sia stata compresa l’importanza di questo tema per la sostenibilità del Terzo settore, dunque anche per la coesione dei territori, la partecipazione delle persone e lo sviluppo delle comunità. Ecco perché nei prossimi giorni intensificheremo il lavoro di informazione e denuncia su questo fronte, augurandoci di trovare questa volta una concreta volontà da parte delle istituzioni di giungere a una effettiva risoluzione, che tuteli il Terzo settore e la libera associazione dei cittadini”. L’Italia a un bivio tra democratura e difesa delle nostre libertà di Nadia Urbinati* Il Domani, 22 ottobre 2024 Le esternazioni di Giorgia Meloni e di Carlo Nordio a proposito della sentenza dei giudici del tribunale di Roma, che ha annullato il trattenimento di 12 persone nei Cpr in Albania, indicano senza tanti giri di parole il tipo di regime che ispira il nostro governo. Tradizionalmente il potere costituito non ama i controlli, un’intrusione che, ci dicono, fa perdere tempo (non disturbare il conducente). Le comunità politiche hanno impiegato secoli a stabilire forme di limitazione del potere; e in alcuni casi hanno dovuto tagliare la testa ai re. Non perché volessero l’anarchia, ma perché non volevano piú subire il potere di giudicare e di reprimere che il sovrano usava arbitrariamente per indurre paura e sottomissione. La prima rivoluzione della modernità, quella inglese, si diede due obiettivi: limitare il potere di chi governa e rappresentare gli interessi dei governati. Monarchia costituzionale e potere legislativo di un parlamento eletto. Da quel momento, tutte le rivoluzioni politiche sono partite dalla rivendicazione dei diritti di libertà. Successivamente, le assemblee elette hanno ricalcato le orme dei monarchi e altre garanzie si sono rese necessarie per prevenire la tirannia della maggioranza, per esempio col bicameralismo, la costituzionalizzazione della divisione dei poteri politici (esecutivo e legislativo) e l’indipendenza della giustizia. Si legge nello Spirito delle leggi di Montesquieu che “negli Stati dispotici, il principe può fungere egli stesso da giudice” mentre negli stati repubblicani “è nella natura stessa della costituzione che i giudici seguano la lettera della legge” non il volere di chi governa. Due condizioni che ci allertano sul rischio di una traiettoria “dispotica” nel nostro paese. Le esternazioni di Giorgia Meloni e di Carlo Nordio a proposito della sentenza dei giudici del tribunale di Roma, che ha annullato il trattenimento di 12 persone nei Cpr in Albania, indicano senza tanti giri di parole il tipo di regime che ispira il nostro governo. In un social, Meloni ha riportato parte di un post del sostituto procuratore della Cassazione, Marco Patarnello, decurtando il testo così da mutarne il significato e usarlo a suo vantaggio. Una forma di manipolazione per scopi propagandistici, tra i quali questo: gettare nella mischia politica i giudici, inducendoli a prendere posizione pro o contro quel magistrato, ottenendo, insomma, quel che Meloni vuole, politicizzare i giudici. Il ministro della Giustizia Nordio completa il progetto addirittura giudicando la decisione dei giudici romani (“aberrante”) e nascondendo ai cittadini quel che egli sa: che i giudici hanno applicato una normativa europea (che subordina decisioni di espulsione dei migranti alla caratteristica del paese di provenienza, per cui non è concesso a nessun stato membro della Ue di rimpatriarli se vegono da paesi che violano i diritti umani). Nordio sa bene che questa è la procedura. E la presidente del Consiglio avrebbe dovuto sapere che la messa in atto del suo piano albanese doveva tener conto delle normative europee, che sono leggi italiane a tutti gli effetti. È evidente che il governo sta facendo campagna elettorale (tra l’altro si vota a breve in Liguria). Ma oltre a ciò, aspira a preparare il terreno per assestare il colpo decisivo al governo della legge e alla divisione dei poteri. Questo scenario grave per le sorti delle libertà nel nostro paese si completa con la situazione, questa sì aberrante, per cui i giudici di Palermo nel processo che vede imputato Matteo Salvini per la denuncia mossagli da Open arms sono sotto scorta, per i rischi alla loro incolumità causati alla mobilitazione della Lega contro di loro. La polizia di stato protegge i magistrati non contro criminali e organizzazioni mafiose, ma contro un partito di governo, quello del vicepresidente del Consiglio. Questa è la fotografia della nostra Italia. I liberali e i moderati sono stati fin qui benevoli con l’esecutivo, e anche disposti a sostenerne le proposte di riforma costituzionale e della giustizia. A loro oggi spetta una grande responsabilità: quella di essere coerenti ai principi liberali che professano. Di essere moderati come il costituzionalismo liberale vuole essere. Stanno con Robert Filmer o con Montesquieu, con chi difende le prerogative del sovrano assoluto o invece i diritti di libertà contro la pretesa di assolutezza di chi governa? Non si tratta di una gara di conoscenza. Ma di coerenza - qui e ora - coi principi liberali professati. L’Italia si trova a un bivio, ed è un dovere civile di chi opera nella politica e nell’opinione pubblica essere consapevole della posta in gioco. Non per difendere un Sacro Graal del passato, ma per difendere - qui e ora - le nostre libertà. L’opposizione parlamentare (essa stessa a tratti inefficace e non pienamente consapevole del ruolo fondamentale che ricopre) non può da sola fare quello che la sfera pubblica di una democrazia ha anche l’onere e il dovere di fare: proteggere il governo della legge e le libertà. *Politologa Migranti. Via libera del Consiglio dei ministri al provvedimento sui Paesi sicuri di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 22 ottobre 2024 Il provvedimento messo a punto dal governo dovrebbe elevare al rango di norme primarie le regole che individuano i paesi per i quali è possibile il rimpatrio. Come anticipato nei giorni scorsi dalla premier, il governo ha approvato il decreto con cui tenta di sanare la delicata questione della lista dei paesi di provenienza dei migranti, da considerare sicuri. La cosa è stata posta da Meloni in cima alle priorità dell’esecutivo, dopo la sentenza del tribunale di Roma che ha ritenuto illegittimo il trasferimento nel Cpr albanese di Gjader di alcuni cittadini egiziani e bengalesi, in base a un pronunciamento della Corte di Giustizia Ue dello scorso 4 ottobre, secondo cui possono essere trattenuti in vista del rimpatrio, solo i migranti che provengono da paesi che si possono definire sicuri senza eccezioni territoriali o di altra natura. Egitto e Bangladesh, secondo la Corte di Lussemburgo e di riflesso secondo i giudici italiani, non possono cadere sotto questa definizione, a causa di conclamate discriminazioni operate nei confronti di determinate categorie di cittadini. Il provvedimento, varato al termine di una giornata convulsa e di un Cdm iniziato in ritardo e senza ordine del giorno verosimilmente a causa di ripetute limature del testo e della cornice giuridica, ha l’intenzione di “blindare” la lista dei paesi sicuri già messa a punto dalla Farnesina, che sono diventati 19 rispetto agli originari 22, con una norma primaria e di immediata valenza come il decreto. Resta però il nodo di quale diritto debba ora ritenersi prevalente, se quello nazionale o se quello comunitario. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nella conferenza stampa che ha seguito il Cdm, ha ribadito il proprio punto di vista, affermando che “siamo arrivati a questo punto a seguito di una sentenza della Corte di giustizia europea, scritta in francese, che non è stata ben compresa”. Secondo il Guardasigilli “questa sentenza, oltre a ribadire il principio che è compito degli Stati individuare quali siano gli Stati sicuri, pone poi delle condizioni nel momento in cui un giudice intenda dare una definizione diversa di Stato sicuro in merito alla situazione di determinate persone. Il nocciolo di questa sentenza, è che il giudice deve, nel momento in cui si pronuncia, dire in maniera esaustiva e completa, nel caso di specie, quali siano le ragioni per cui per quell’individuo quel determinato Paese non è ritenuto sicuro. Nelle motivazioni dei decreti al centro del dibattito in questi giorni”, ha concluso, “questo manca”. Sia il sottosegretario Alfredo Mantovano che il ministro dell’Interno hanno indicato la prossima entrata in vigore del nuovo Regolamento Ue sui migranti, prevista per il 2026, che a loro avviso darà indicazioni più stringenti. Nel frattempo, secondo Piantedosi, il decreto “consente ai giudici di avere un parametro rispetto ad un’ondivaga interpretazione”. Da Bruxelles, per ora, non si sbilanciano: quella del tribunale romano è una sentenza, ha osservato la portavoce per gli Affari interni e l’immigrazione della Commissione europea Anitta Hipper, di cui è a conoscenza: “Siamo in contatto” ha detto, “con le autorità italiane”. La parte più rilevante delle considerazioni du Hipper, sono quelle relative al cuore della questione, vale a dire su quale fonte giuridica debba valere per la definizione della lista dei paesi sicuri: “Da parte nostra, per ora non abbiamo liste comuni dell’Ue per i paesi terzi sicuri, è qualcosa che è anche previsto che faremo, su cui dovremo lavorare, ma che gli Stati membri attualmente non hanno, solo liste nazionali. Dovremo garantire di avere criteri comuni, e questo è qualcosa che stiamo esaminando”. Hipper ha anche aggiunto che “il protocollo Italia-Albania applica la legge nazionale italiana, ma ovviamente applica anche gli standard stabiliti nella protezione dei richiedenti asilo e nelle procedure che sono previste dal diritto Ue. E abbiamo anche detto”, ha proseguito, “che tutte queste misure che le autorità italiane stanno adottando devono essere pienamente conformi e non dovrebbero in alcun modo compromettere l’applicazione del diritto comunitario e dei trattati Ue”. Il tutto al termine dell’ennesima giornata convulsa, contrassegnata da aspre polemiche politiche e dalle scorie lasciate prima dalla sentenza del tribunale che ha valutato come illegittimo l’invio nei cpr albanesi di migranti provenienti da Egitto e Bangladesh, poi dalla diffusione di una mail anti-Meloni del sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello, appartenente a Magistratura democratica. A far salire di tono lo scontro tra la maggioranza e le toghe, in ossequio al suo stile, è stato il leader leghista Matteo Salvini, che riferendosi a Patarnello ha affermato che quest’ultimo andrebbe “licenziato in tronco”. Ma in generale tutte le prese di posizione degli esponenti del centrodestra (in primis l’ulteriore intervento sui social della stessa premier), nelle ore che hanno preceduto il Consiglio dei ministri, avevano teso ad assimilare le parole del magistrato alla sentenza romana, come facenti parti della stessa strategia di una parte della magistratura per fiaccare l’azione del governo su tutti i fronti. Ecco l’elenco dei Paesi sicuri dove i migranti possono essere rimpatriati Le provenienze considerate sicure scendono da 22 a 19: escluse Colombia, Camerun e Nigeria. Nella conferenza stampa dopo il Cdm che ha approvato il decreto sull’immigrazione, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha confermato che con “il decreto di oggi diventa fonte primaria l’indicazione dell’elenco di 19 Paesi sicuri sugli originali 22”. Il nuovo provvedimento conferma dunque in gran parte la lista delle 22 provenienze che scendono, però, a 19 escludendo Camerun, Colombia e Nigeria. La lista dei 19 Paesi considerati “sicuri” - I 19 Paesi sono stati individuati secondo i criteri stabiliti dalla normativa europea (art. 2bis del decreto legislativo 25/2008) e dai riscontri rinvenibili dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti e sono: Albania; Algeria; Bangladesh; Bosnia-Erzegovina; Capo Verde; Costa d’Avorio; Egitto; Gambia; Georgia; Ghana; Kosovo; Macedonia del Nord; Marocco; Montenegro; Perù; Senegal; Serbia; Sri Lanka; Tunisia. “La lista norma primaria” - La lista dei Paesi sicuri diventa “norma primaria e affida ai giudici parametri” rispetto “a un’ondivaga interpretazione, e lo dico con profondo rispetto della magistratura - ha affermato il ministro dell’Interno -. Si tratta di procedure accelerate adottate già in Italia - ha ricordato Piantedosi - nei centri di Porto Empedocle e Modica, e abbiamo già avuto centinaia di casi precedenti di decisioni che non condividiamo e che abbiamo legittimamente impugnato”. Questo provvedimento “è in linea con la sentenza della Corte Ue” e “sono stati esclusi i Paesi che in alcune parti dei loro territori non sono complessivamente sicuri”. “Stiamo attuando una normativa europea e anticipando l’entrata in vigore di un sistema più dirimente e stringente - sostiene Pianteodisi. Dal 2026 entra in vigore un regolamento che prevede addirittura l’individuazione dei Paesi sicuri con esclusivo riferimento alle percentuali di approvazione delle domande di asilo a livello europeo, attestandole sotto il 20%”. Migranti. Il Governo scommette sulla “norma primaria”, che però potrebbe non essere risolutiva di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 ottobre 2024 Con il decreto legge approvato in Consiglio dei ministri il numero dei “Paesi sicuri” scende da 22 a 19. Ma la gerarchia tra fonti normative Ue e nazionali è in questo caso fondamentale. La decisione del Tribunale di Roma, che non ha convalidato il trattenimento in Albania di 12 migranti provenienti da Egitto e Bangladesh, è stata presa tenendo conto dell’orientamento della Corte di giustizia dell’Unione europea. “Una sentenza molto complessa e particolare”, l’ha definita il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, durante la conferenza stampa di presentazione del decreto legge sui migranti e i “Paesi sicuri”. I giudici di Lussemburgo il 4 ottobre scorso sono intervenuti in materia di procedura per il riconoscimento della protezione internazionale per richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine designati come sicuri. Alla base del pronunciamento del giudice nazionale e di quello europeo, vi è, pertanto, la classificazione dei Paesi di provenienza delle persone che raggiungono l’Unione europea. Con il decreto legge approvato in Consiglio dei ministri il numero dei “Paesi sicuri” scende da 22 a 19. Sono stati esclusi Camerun, Colombia e Nigeria. Nella vicenda dei migranti rientrati dall’Albania la gerarchia delle fonti normative svolge un ruolo fondamentale. Occorre ricordare che gli Stati membri dell’Unione europea hanno la possibilità di designare Paesi di origine “sicuri”, sulla base di informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO (Ufficio europeo di sostegno per l’Asilo), dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti, in riferimento all’articolo 37 della Direttiva 2013/32/UE, la quale, all’Allegato 1, stabilisce che “un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e uniformemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Dunque, la definizione di un Paese “sicuro” rappresenta uno snodo cruciale nelle procedure di esame delle domande di asilo dal momento che queste ultime, presentate da cittadini provenienti da Paesi considerati sicuri, vengono esaminate con una procedura accelerata. La Giunta e la “Commissione Centri di Permanenza per i Rimpatri” dell’Unione Camere penali si sono espresse con chiarezza sulla decisione del Tribunale di Roma. Evocare scontri tra poteri dello Stato non solo è fuorviante, ma deleterio considerato che il momento storico impone collaborazione e chiarezza. “Il Giudice - scrive l’Ucpi - non ha svolto alcuna particolare attività interpretativa, né si è sostituito al potere esecutivo o a quello legislativo, si è limitato ad applicare un principio chiaro e vincolante enunciato dalla Corte di Giustizia sulla base di un giudizio di pericolosità espresso da Governo. Ciò che rischia di determinare un corto circuito tra poteri dello Stato non è però quanto è accaduto, ma quanto accadrà nei prossimi giorni”. Sulla delicata materia è intervenuto il governo. Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge (norma primaria che, come ha precisato Mantovano, non va in contrasto con la sentenza della Corte di giustizia) che mira a far funzionare i meccanismi dei rimpatri. “L’elenco dei Paesi sicuri - ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio - è meditato, non apodittico. Nell’elenco sono estromessi, in ossequio alla sentenza della Corta di giustizia europea, Paesi che contengono aree territoriali non sicure: Nigeria, Camerun e Colombia”. Il governo ha voluto pure anticipare alcuni interventi. “Stiamo parlando di attuare - ha commentato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi - una normativa europea, e di anticipare, come dice la stessa Corte di giustizia europea, l’entrata in vigore di un sistema che noi riteniamo addirittura più dirimente e stringente. Dal giugno 2026 entra in vigore il nuovo regolamento che prevedrà addirittura l’individuazione dei “Paesi sicuri” con esclusivo riferimento alle condizioni percentuali statistiche di approvazione delle domande a livello europeo, attestandole sotto il limite del 20%”. Migranti. Sicuri per decreto? “I soldi da spendere? Meglio nell’accoglienza”. di Daniela Fassini Avvenire, 22 ottobre 2024 La società civile: progetti per l’inclusione. La Caritas e le associazioni ecclesiali ribadiscono la necessità di uscire dalla logica emergenziale: dare a chi arriva la possibilità di avere un futuro nel nostro Paese. La scuola d’italiano, il riconoscimento dei titoli di studio, un percorso di formazione professionale ma anche un aiuto verso l’autonomia. E basterebbe anche un solo anno per mettere in pratica tutto questo: per rendere “integrato” il migrante che arriva in Italia. Sullo sfondo ci sono invece quei centri in Albania e quel gioco dell’oca sulla pelle delle persone. Ne sono convinte le realtà cattoliche e il mondo dell’associazionismo che fa capo alla Chiesa. Su una cosa tutti concordano: quei 900 milioni destinati alla realizzazione dei centri in Albania, potevano certo essere destinati a opere di buona accoglienza e di buona prassi di integrazione. Parla di un percorso di primissima accoglienza, semi autonomia e autonomia completa, Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi ai migranti. “Dopo dieci anni di esperienza con i corridoi umanitari possiamo dire che bisogna intervenire presto e avere subito un luogo dove vivere che può essere un centro di accoglienza -spiega - ma quello che è importante è che l’accoglienza preveda l’insegnamento della lingua italiana o il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero o per i minori l’inserimento a scuola”. È ovvio che la cosa migliore per tutti sarebbe quella di “favorire al massimo le vie legali d’ingresso per togliere anche ai trafficanti di uomini un’arma nelle loro mani” aggiunge la responsabile di Sant’Egidio. L’insegnamento della lingua, aggiunge, andrebbe però fatta in centri esterni al luogo in cui il migrante vive: ad esempio nelle scuole per cominciare a conoscere la realtà del territorio. L’altro tema fondamentale è anche la proposta di corsi di formazione professionale, “ vista anche l’enorme carenza di lavoratori che si trova ad avere il nostro sistema produttivo”. In aggiunta al riconoscimento dei titoli di studio. “In questo modo possiamo rendere utilizzabili delle risorse che già abbiamo -aggiunge Daniela Pompei - tra chi è arrivato negli ultimi due anni in Italia ci sono persone ad esempio latino americane che hanno titoli di studio per infermieri e bisogna pensare come rendere accessibili questi titoli per il nostro sistema”. Dopo il lavoro però c’è anche la questione “casa”. “Oggi i migranti che sono già arrivati quasi alla fine del percorso di integrazione trovano difficoltà a trovare un alloggio e a mantenerlo - aggiunge - servirebbe quindi un sostegno iniziale anche per sostenere ad esempio il costo delle patenti”. Mettendo in campo tutte queste misure basterebbe un un anno per rendere integrato una persona singola e un anno e mezzo per un intero nucleo familiare. Soldi necessari per l’accoglienza e l’integrazione, quindi. Anche Padre Camillo Ripamonti del Centro Astalli non ha dubbi. “Negli ultimi anni si è persa di vista la dimensione dell’inclusione e dell’integrazione - spiega - ci concentriamo molto sull’accoglienza, sull’arrivo, sull’investire per non farli partire”. Anche Padre Camillo mette al primo posto l’insegnamento dell’italiano. Gli ultimi provvedimenti del governo, in materia di ospitalità, prevedevano invece che nei Cas (i centri di accoglienza straordinaria delle persone richiedenti asilo, ndr) venissero erogati solo vitto, alloggio e assistenza sanitaria. “L’insegnamento dell’italiano e la formazione lavorativa sono invece i due elementi che, anche in seguito ai processi di valutazione delle domande d’asilo andrebbero comunque portati avanti perché se poi le persone vengono rimpatriate in una percentuale bassissima di casi: queste persone alla fine rimangono sul nostro territorio e nel frattempo hanno perso tempo”. Insegnamento dell’italiano e formazione lavorativa “sono i due elementi che servono per guardare un po’ al futuro” sottolinea Padre Camillo. A lungo andare il rischio è quello di creare marginalità. “I soldi dei centri in Albania? Sarebbero stati investiti meglio in processi di integrazione, uscendo così dalla logica punitiva del migrante che arriva in modo irregolare sul territorio italiano e non ha diritto a niente”. Intanto l’impegno della Chiesa italiana per l’accoglienza dei migranti e per l’assistenza a profughi e richiedenti asilo sul territorio nazionale, lungo le rotte migratorie e nei Paesi d’origine resta forte e in aumento. E tra le grandi città, c’è Milano che non si tira indietro. L’ultimo rapporto della Caritas Ambrosiana parla di un 63,9% di immigrati (contro il 60,9% del 2022) che si sono rivolti ai servizi di aiuto. Ma guardando alle politiche migratorie nazionali, Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, non nasconde la difficoltà a gestire le persone sul territorio. “In generale bisogna avere ben chiaro quale è l’obiettivo finale di questa accoglienza - sottolinea - se è quella cioè di dare la possibilità a questi migranti di manifestare la propria domanda e poter entrare in un percorso per avere un futuro. Se l’obiettivo e questo da quando sbarcano a quando vanno con le loro gambe ci deve essere una coerenza complessiva”. Ma non è così perché poi l’accoglienza e per chi è in prima linea per integrare, “è una lotta estenuante, una corsa ad ostacoli per l’emigrato che capisce che è indesiderato. Lo avverte da quando sbarca sino a quando ha più anni di permanenza in Italia e ha i figli a scuola”. È necessario invece, per il numero uno dell’ente caritatevole ambrosiano, “pensare a un’ospitalità più diffusa, con piccoli numeri, in comunità che li possano accompagnare. Ma manca la volontà politica e se manca quella volontà anche chi si occupa di queste cose fa fatica a fare un lavoro fatto bene e così i migranti diventano fantasmi e invisibili e ci lamentiamo”. Migranti. Cambiare le regole. Sì ma come? Dibattito fra esperti sulla querelle del “Paese sicuro” di Matteo Matzuzzi Il Foglio, 22 ottobre 2024 L’obbligo di recepire il diritto dell’Ue, ma anche l’urgenza di riscrivere le regole dell’accoglienza dei migranti. Dibattito fra esperti sul senso della nozione di “paese sicuro”. E sul futuro (difficile) del “modello Albania”. Paese sicuro o non sicuro? Il dilemma del “modello Albania” si attorciglia su questo giudizio, diventato una sorta di tagliola giuridica che ha bloccato il progetto del governo italiano di inviare sull’altra sponda dell’Adriatico i migranti provenienti da paesi sicuri. I giudici del Tribunale di Roma hanno deciso di applicare le sentenze europee, che ridefiniscono questa nozione. Ma cosa si intende davvero per paese sicuro? Chi decide quale paese lo sia e quale no? Che poteri ha la magistratura e in che modo questa discussione è arrivata al punto dal disinnescare il progetto del governo? Lo abbiamo chiesto ad alcuni esperti e giuristi che ci hanno spiegato quanto sia complicato fare convivere l’esigenza di soluzioni politiche nuove nella gestione del fenomeno migratorio con il rispetto delle leggi nazionali e, soprattutto, europee. Ne è venuto fuori un forum di riflessioni e proposte sul tema del “modello albanese”. Un “attacco della magistratura” o un “pasticcio giuridico”, così è stato definito l’inghippo della nozione di paese sicuro. Da che parte schierarsi? Fabio Spitaleri (professore di Diritto dell’Ue all’Università di Trieste): “Da una lettura della sentenza del Tribunale di Roma, questa sembra corretta e ben motivata, e fa riferimento alla normativa dell’Ue in maniera precisa, così come fa riferimento in maniera precisa alla sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia dell’Ue. Credo che in questo caso opportunamente il magistrato che ha redatto la sentenza ha dato una motivazione molto puntuale poi della decisione presa”. Gianfranco Schiavone (giurista dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione): “Io sono dell’avviso che si tratti di un pasticcio, perché il governo italiano ha voluto forzare la mano non riconoscendo la supremazia del diritto dell’Ue sul diritto interno e addirittura, in questo caso, non riconoscendo che cos’è esattamente la nozione di paese di origine sicuro nel diritto dell’Ue e nell’interpretazione che ne ha data la Corte di Giustizia alla quale i giudici si devono, non si possono, attenere”. Giovanni Fiandaca (giurista): “Più che di pasticcio, si deve a mio avviso parlare di una interazione complessa che si spiega in base al costituzionalismo multilivello che caratterizza il nostro ordinamento attuale come altri. Ora il costituzionalismo multilivello pone dei limiti vincolanti che la politica tenta di superare perché può avere anche le sue comprensibili ragioni. Ma è difficile che possa superarli come la politica desidererebbe, come vorrebbe fare questo governo di centrodestra perché questo comporterebbe un mutamento generale sul piano del costituzionalismo italiano ed europeo, un’impresa difficilissima per cui tutte le norme che eventualmente il governo Meloni si prefigge di modificare, tutte le disposizioni normative, possono sempre andare incontro a un controllo giurisdizionale”. Adesso è allo studio un decreto per portare al rango primario la norma che stabilisce l’elenco dei paesi sicuri. Funzionerà per trattenere i migranti in Albania? Spitaleri: “Nella prospettiva dell’Ue la designazione come paese terzo di origine sicuro è una facoltà per gli stati, dalla quale poi discende una conseguenza importante perché le domande delle persone provenienti da paesi terzi di origine sicura possono essere trattate con procedura accelerata o alla frontiera, alla quale spesso poi si connette una situazione di trattenimento. Dal punto di vista del diritto dell’Ue il tipo di fonte, quindi che sia un decreto del ministero degli Esteri piuttosto che un’altra fonte interna, quindi una legge, un decreto legge poi convertita in legge, è indifferente. Quel che conta è che siano rispettati i presupposti per questa designazione. La direttiva stabilisce i presupposti di merito, cioè deve trattarsi di stati in cui generalmente e costantemente non ci sono persecuzioni o trattamenti o pene inumani o degradanti, deve essere riesaminata periodicamente l’elencazione dei paesi fatti e la determinazione dei paesi terzi di origine sicura deve essere fondata su elementi e fonti attendibili provenienti o da agenzie dell’Ue o da organizzazioni internazionali. Resta fermo il rapporto tra norme interne e norme di diritto dell’Ue. Detto in parole semplici comunque a prevalere è il diritto dell’Ue. Quindi laddove ci siano dei profili di incompatibilità, il giudice interno disapplica la normativa interna, a prescindere dal rango e dalla tipologia di atto”. Schiavone: “No, non può bastare perché il diritto dell’Ue è sovraordinato rispetto a quello interno. Però vede, si fa confusione tra due livelli completamente diversi. Uno è il fatto che la procedura d’asilo intende per paese di origine sicura un paese nel quale non vi sono in via generale, costante e uniforme violazioni gravi dei diritti fondamentali, e che, in questo caso, non si può applicare una procedura accelerata di frontiera, ma si deve esaminare la domanda in procedura ordinaria. Un altro piano giuridico e logico, completamente diverso e sul quale si fa una totale confusione, è invece su cosa avviene se la domanda di asilo è stata esaminata in procedura ordinaria, è stata rigettata ed è stata anche rigettato l’appello. Allora, se nel caso concreto si ritiene dal giudizio amministrativo e dal giudizio in sede giurisdizionale che quella singola persona non abbia un motivo di protezione internazionale, il rimpatrio può essere effettuato. Il concetto di ‘paese di origine sicura’ è procedurale ed è incardinato nell’ambito della procedura di esame delle domande. Sono ambiti completamente diversi”. Il ministro della Giustizia ha parlato di “sentenza abnorme” sui paesi di origine sicura... Fiandaca: “I giudici romani si sono adeguati alla sentenza dell’Ue in modo un poco estensivo. Nel senso che hanno ritenuto che il carattere sicuro o meno dovesse essere rivalutato non soltanto facendo riferimento a tutti i contesti territoriali all’interno di un determinato paese, ma hanno ritenuto che il giudizio di sicurezza o insicurezza dovesse tenere conto anche della tipologia soggettiva dei migranti in questione. Nel senso che hanno ritenuto che un certo paese ritenuto sicuro può essere insicuro per le donne, gli omosessuali, per i dissidenti politici, quindi per categorie soggettive di persone. Ma i giudici romani, premesso che avevano il dovere e il potere di sindacare in concreto sulla sicurezza del paese, hanno dato una valutazione estensiva che può apparire discutibile. I giudici romani possono essere andati al di là di quanto stabilito da quelli di Lussemburgo, ma nella giurisprudenza le interpretazioni estensive non sono un fatto abnorme, come ha detto il ministro Nordio. Nella giurisprudenza, per lo più in penale per esempio, avviene quasi sempre che le interpretazioni sono prevalentemente estensive rispetto al tenore letterale delle norme”. Matteo Villa (Senior Research Fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale): “Finché siamo in Europa è abbastanza chiaro. Cioè, la giurisprudenza che ha creato la Corte di Giustizia europea dice che è il giudice in quel momento specifico a dover ridecidere se quel paese è sicuro. Naturalmente utilizzando tutte le fonti che dovrebbe utilizzare lo stesso governo quando va a scrivere le schede paese. Quindi, se la maggioranza fa un decreto che dice quali sono secondo lei questi paesi sicuri, vista la sentenza della Corte di Giustizia europea, questa lista non ha così tanta importanza perché il magistrato che deve poi convalidare l’ordine di trattenimento deve tutte le volte chiedersi se quel paese è sicuro oggi, a prescindere da quello che dice il governo. Probabilmente a questo punto si pone un grosso problema”. Schiavone: “La questione di fondo è che, nel momento in cui sono state inserite delle procedure di tipo accelerato e con garanzie inferiori il diritto dell’Ue, per cercare di anche di controbilanciare ed evitare abusi, ha previsto che queste siano percorribili solo in alcune circostanze nelle quali può sembrare ragionevole che la domanda d’asilo sia infondata”. Spitaleri: “L’elencazione dei paesi terzi sicuri spetta agli stati membri, quindi secondo le rispettive norme di competenza. In questo caso noi abbiamo un decreto legislativo che poi affida al ministro degli Esteri il compito di redigere questa legge. Questo è perfettamente in linea con le indicazioni, è una facoltà degli stati. La lista però poi è suscettibile di valutazione da parte dell’autorità giudiziaria o nel contesto, come in questo caso, della convalida del trattenimento, o eventualmente nel contesto di un ricorso contro una decisione delle commissioni territoriali per riconoscimento della protezione internazionale che neghi lo status di rifugiato o di titolare di protezione sussidiaria. Quindi in questi contesti l’autorità giudiziaria, normalmente viene fatto sulla base di una censura di una contestazione dell’interessato. Ma anche quando - e per questo le dico, è un profilo che non è stato sufficientemente sottolineato - il giudice nazionale ha un dubbio sulla correttezza della designazione. In tal caso può, anzi è tenuto a valutare d’ufficio se quella designazione è corretta. Ma perché le persone dirette in Albania devono per forza arrivare da “paesi sicuri”? Villa: “Il motivo è perché in quel modo tu li puoi sottoporre a una procedura di asilo accelerata che, in teoria, li fa stare lì dentro al massimo quattro settimane. A quel punto, tu hai un trattenimento per un periodo di tempo limitato. D’altra parte, con le procedure ordinarie si allungherebbero i tempi e più il trattenimento diventa lungo e più, ovviamente, andrebbe convalidato dall’autorità giudiziaria e diventerebbe un grosso problema. Quindi nel memorandum tra Italia e Albania sono previsti solo specifici casi, altrimenti appunto, cadrebbe tutto il progetto. Per farle restare lì, o si rifa il protocollo e si dice che queste persone arrivate in Albania sono libere di girare - ma a quel punto il primo ministro albanese Edi Rama dirà di no, ovviamente, perché non vuole che restino lì in circolazione da loro - o viceversa si devono mandare soltanto le persone per cui puoi fare le procedure accelerate”. Il governo ripete però che molti paesi europei stanno guardando al modello Albania e che vorrebbero replicarlo. Cosa si prospetta in futuro per questi casi? Schiavone: “Sembra che nessuno ricordi, anche se sono passati pochi mesi, il caso della Gran Bretagna, che in maniera diversa e da paese non più appartenente all’Ue, ha tentato quello che è il sogno nel cassetto di molti paesi dominati dalla destra e dall’estrema destra europea, cioè quello di delocalizzare la procedura d’asilo in altri paesi terzi, impedire l’accesso al territorio, esaminare al di fuori del territorio le domande d’asilo e semmai dopo ammettere nel territorio soltanto coloro a cui la domanda è stata accolta. Questa è un’idea politica che molti paesi coltivano già da alcuni anni, la cosa è sempre più insistente, ma non è prevista nell’attuale diritto dell’Ue. Ci troviamo di fronte a delle forzature, anche nel caso degli altri paesi, che però hanno nel frattempo solo annunciato e non hanno fatto, diversamente dal governo italiano, come se gli altri dicessero ‘vai avanti tu, che io guardo’. Ma tutti sanno benissimo che ciò che oggi si vuole fare non si può fare”. Spitaleri: “Secondo me vanno considerati due punti. Il primo è la direzione che è stata presa in questa grande riforma del diritto dell’immigrazione approvata nel maggio scorso, e che va nel senso di fare procedure alla frontiera in maniera rapida, per valutare alla frontiera le domande di protezione internazionale e per svolgere sempre dalla frontiera le procedure di rimpatrio. Questa è la direzione generale che molto sinteticamente è stata recepita in questa nuova riforma. L’esperienza di svolgere procedure di frontiera in paesi terzi non ha precedenti, e come stiamo vedendo solleva numerosissime difficoltà giuridiche e ce ne saranno sicuramente molte altre. Facile immaginare che anche sotto il profilo della possibilità di garantire adeguata tutela giurisdizionale alla persona in quei contesti saranno sollevate delle questioni. Quindi essendo un’esperienza senza precedenti sicuramente troverebbe analoghe difficoltà. Realizzarla nella cornice delle garanzie fondamentali delle persone, dell’assetto normativo complessivo dell’Ue è un qualcosa di sicuramente molto complicato”. Ma come si esce da questa impasse giuridico e politico? Schiavone: “A mio avviso non c’è nessuna via d’uscita nel senso che, rispetto alla vicenda specifica su come rendere sicuri paesi che non lo sono, il governo italiano non ha nessuna possibilità. Nessuna. Questo però non vieta che per paesi diversi da quelli di cui stiamo parlando (Egitto e Bangladesh, ndr) che è impossibile siano valutati come sicuri - come la Tunisia per esempio a cui il governo italiano tiene molto - i giudici valutino che ci sia una conformità fra il fatto che quel paese sia inserito nell’elenco dei paesi sicuri e il fatto che sia realmente sicuro. I giudici non hanno detto che quell’elenco è tutto falso. Hanno detto che, in questo caso, quell’elenco non era corretto, perché non corrisponde ai princìpi della direttiva. Per altri paesi potrebbe invece coincidere”. Spitaleri: “Qui c’è un grande problema di fondo che prima o poi dovrà essere sciolto perché, a rigore, questa è una situazione che si pone al di fuori del diritto dell’Ue. Perché con questa impostazione, nel caos albanese è stata l’Italia a concludere l’accordo, non l’Ue. Quindi probabilmente quello che succederà nei prossimi anni è se iniziative di questo tipo non debbano essere ancorate ad accordi conclusi dell’Ue. Credo che la grande questione sia: se si sceglie questa linea chi la deve condurre? Ogni singolo stato membro o l’Ue nel suo complesso? Credo che questo sarà il grande dibattito in futuro”. Fiandaca: “In linea di principio io capisco l’esigenza di accordi come quello con l’Albania. Certo che bisogna riconoscere alla politica la più ampia libertà di movimento e di decisione. E anche la più ampia libertà di modificare, di innovare, di modificare le politiche migratorie. Non è che siamo sempre vincolati a seguire una sola politica. Però tutte le modifiche devono essere pensate e studiate in maniera compatibile col complesso quadro costituzionale attuale che impone sempre a un giudice l’ultima parola sulla tutela della libertà personale. Non perché siano i giudici arbitrariamente a volerlo fare, ma perché ciò è imposto dall’ordinamento attuale”. Migranti. Cercansi respingimenti contro le due propagande opposte di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 ottobre 2024 Come mandare in vacca un dibattito serio sui confini dell’immigrazione. Bloc notes di un delirio bipartisan. Un tempo era l’onestà (tà-tà), oggi è la discrezionalità (tà-tà). Chiunque provi a offrirvi risposte estremamente semplici a problemi particolarmente complessi, come quelli che riguardano l’intorcinatissimo conflitto tra potere esecutivo e potere giudiziario sul tema dell’immigrazione, sta provando a prendersi gioco di voi. Quello che pensiamo sulla disputa tra governo e magistratura sulla definizione di paesi sicuri lo sapete e abbiamo provato a scriverlo nero su bianco sabato scorso: nel momento in cui il potere giudiziario viene legittimato a interpretare in modo molto restrittivo e molto discrezionale una sentenza della Corte europea che riguarda la definizione dei paesi sicuri dove poter rimpatriare i migranti che non hanno diritto a chiedere l’asilo in Italia, e nel momento in cui viene concesso al potere giudiziario non solo di considerare potenzialmente non sicuro ogni paese che il potere esecutivo aveva invece considerato come sicuro ma anche di rendere quasi impossibile la politica di rimpatrio per un governo legittimato a governare, è evidente che quel paese ha scelto di considerare come normalità assoluta la presenza di un’autorità giudiziaria in grado di poter avere sulle politiche migratorie più influenza rispetto a un governo eletto. Ma in questi giorni, sul nostro bloc-notes, accanto a qualche elemento utile per ragionare attorno alla nostra idea, abbiamo avuto modo di appuntarci diversi elementi a metà tra lo spassoso e il surreale che hanno contribuito a spingere il dibattito sul tema dell’immigrazione verso la modalità del tutto in vacca. Ne abbiamo isolati cinque. Il primo punto riguarda la questione da cui siamo partiti: la definizione del cosiddetto paese sicuro. Se il tema non fosse terribilmente serio verrebbe da sorridere: la definizione di paese sicuro è così discrezionale e così soggetta a un numero così ampio di elementi non oggettivi da essere oggettivamente la definizione probabilmente meno sicura presente oggi sulla faccia della terra. Il secondo punto riguarda un elemento meno serio e più leggero: se fosse vera la descrizione dell’Italia data in questi giorni dalle opposizioni, un paese nemico dello stato di diritto, un paese governato dal fascismo, un paese avviato verso una deriva autoritaria, un paese in cui vengono garantiti solo i diritti degli eterosessuali, l’interpretazione molto restrittiva scelta dai giudici italiani per definire la presenza di un paese sicuro dovrebbe far considerare un paese molto insicuro, da cui scappare, anche il nostro paese. Il terzo punto, per tornare a essere più seri, riguarda invece la posa assunta dal governo per provare ad affrontare il duello con la magistratura. La maggioranza di centrodestra avrebbe potuto cogliere il conflitto politico con un pezzo di magistratura per ragionare su quali sono i confini della sovranità concessi dall’Europa agli stati sovrani, tema reale quando si parla di immigrazione, ma di fronte a un problema complesso ha scelto la strada più semplice, più scontata e forse più ridicola, ovvero quella dell’evocazione del grande e famigerato complotto ordito dalla magistratura contro il governo. Non c’è nessun complotto, c’è uno scontro più di sistema tra potere giudiziario e potere esecutivo ed è uno scontro che riguarda la possibilità che il potere esecutivo possa avere o no l’ultima parola quando si parla di immigrazione. Il quarto punto, per restare sul tema, riguarda ancora questo terreno, il terreno del complotto, e si può dire che nonostante il tema questa volta sia diverso, e più alto se si vuole, la magistratura italiana ha fatto di tutto negli ultimi mesi per offrire alla destra un buon alibi per dire: vedete, ce l’hanno con noi. Uno dei giudici che hanno firmato i provvedimenti che hanno contribuito ad ammaccare il modello Albania è la presidente di Magistratura democratica (idolo del Manifesto), il magistrato che ha criticato Meloni inviando una mail ai propri colleghi segnalando il pericolo rappresentato dal governo Meloni è di Magistratura democratica (la mail non dice quello che sostiene Meloni, il magistrato dice che “non dobbiamo fare opposizione politica”, ma quando un magistrato considera un presidente del Consiglio “un pericolo” sta facendo una scelta di campo, lasciando intendere indirettamente che la magistratura si deve mobilitare per fermare l’avversario) e anche il magistrato che mesi fa suggerì ai suoi colleghi di allargare il perimetro delle proprie prerogative per contrastare il melonismo è un altro idolo di Magistratura democratica (ad aprile del 2023, Questione giustizia, l’organo ufficiale con cui comunica Magistratura democratica, ospitò un duro editoriale in cui Nello Rossi, già presidente di Magistratura democratica, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati e già componente del Consiglio superiore della magistratura, invitò i colleghi a svestire i panni del “magistrato burocrate” suggerendo di essere sempre più pronti a esercitare esplicitamente un potere di supplenza nei confronti della classe politica con l’obiettivo di rivestire “un ruolo di garanzia dei diritti e della dignità delle persone e delle molte minoranze che popolano le moderne società”). Il quinto spunto di riflessione, utile a ragionare sul tema, riguarda un tema di carattere per così dire giuridico. I magistrati hanno ragione a dire che la recente sentenza della Corte di giustizia europea impone ai giudici di tenere conto delle nuove indicazioni offerte dalla giurisprudenza europea in materia di individuazione dei paesi sicuri. Si potrebbe però dire che non sempre il mondo della magistratura ha mostrato la stessa sensibilità degli ultimi giorni alle indicazioni offerte dalla Corte europea. Per dirne una: nel 2021, la Corte di giustizia europea, intervenne sul tema delle intercettazioni (non ridete) e disse che i magistrati europei (compresi quelli italiani) avrebbero dovuto da quel momento in poi seguire un nuovo principio: “La Corte considera che soltanto gli obiettivi della lotta contro le forme gravi di criminalità o della prevenzione di gravi minacce per la sicurezza pubblica sono idonei a giustificare l’accesso delle autorità pubbliche a un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione, suscettibili di permettere di trarre precise conclusioni sulla vita privata delle persone di cui trattasi, senza che altri fattori attinenti alla proporzionalità di una domanda di accesso, come la durata del periodo per il quale viene richiesto l’accesso a dati siffatti, possano avere come effetto che l’obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati in generale sia tale da giustificare un accesso del genere”. Ci sono sentenze che non possono non essere applicate in modo rigido, nelle procure e nei tribunali, e ci sono invece sentenze che possono essere applicate in modo meno rigido. Individuare i paesi sicuri non è semplice, lo sappiamo, ma individuare criteri sicuri con cui applicare lo stato di diritto non è un’operazione più semplice. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, se il tema non fosse terribilmente serio e se non riguardasse il perimetro con cui la giustizia italiana può scegliere in modo arbitrario di sostituirsi, quando vuole, al potere esecutivo, con o senza il bollino dell’Europa. Benvenuto nell’èra pazza dell’oggettività non oggettiva e della sicurezza non sicura: è la discrezionalità-tà-tà, bellezza, e tu non puoi farci niente, neanche urlare al complotto. Migranti. Oltre i “Paesi sicuri”, tutti i problemi del protocollo con Tirana di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 ottobre 2024 Tanti ostacoli giuridici, a ogni livello. La copertura politica dell’Ue ancora non basta. Von der Leyen vuole perfino hub extra-Ue per i rimpatri. “I tempi, però, sono lunghi”, ammettono i portavoce della Commissione. I problemi giuridici di deportazioni e trattenimenti in Albania sono molti di più di quanto si creda e non riguardano solo il tema dei “paesi sicuri”, su cui è intervenuta la Corte di giustizia Ue. Superato quello, infatti, resta ciò che prevede la normativa europea: “Gli Stati membri non trattengono una persona per il solo motivo che si tratta di un richiedente”. È un principio fondamentale contenuto in due direttive: “procedure” e “accoglienza”, entrambe del 2013, poi recepite nell’ordinamento nazionale. Quella frase, con le specifiche condizioni elencate dalla seconda, significa una cosa precisa: la privazione della libertà personale dei richiedenti asilo può essere solo l’extrema ratio, “ove necessario”, “sulla base di una valutazione caso per caso” e a patto che “non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (per esempio: obbligo di firma o dimora, garanzia finanziaria). Fatte salve queste premesse, la norma dice in quali casi il trattenimento è legittimo: determinare l’identità, evitare il pericolo di fuga, decidere dell’ingresso nel territorio nazionale, etc. Tutto ciò vale anche per le procedure accelerate di frontiera che il governo vuole delocalizzare in Albania e per le quali ha introdotto la detenzione con il dl Cutro. Infatti anche se il duro attacco governativo è stato sferrato contro il tribunale di Roma, competente per le strutture d’oltre Adriatico, altre due corti hanno già bocciato la nuova forma di trattenimento: Palermo e Catania, relativamente ai centri di Porto Empedocle e Pozzallo. Se i giudici etnei, anticipando i colleghi del Lussemburgo, avevano stabilito che Bangladesh, Egitto e Tunisia non sono “sicuri”, i magistrati del capoluogo regionale hanno seguito un’altra strada ma sono arrivati quasi sempre alla stessa conclusione: non convalida dei trattenimenti. Esaminando “caso per caso” Palermo ha valutato, in concreto, l’eventualità del pericolo di fuga. In pratica ha tenuto dietro le sbarre solo i richiedenti già rimpatriati dall’Italia e poi ritornati. Ritenendo questo comportamento indice del rischio di una nuova sottrazione ai controlli. C’è poi un altro tema emerso dalle prime deportazioni: le vulnerabilità. Dalle procedure accelerate sono esclusi i soggetti che si trovano in tale condizione: minori non accompagnati, famiglie, donne, anziani, malati, vittime di tratta o tortura. Dopo le valutazioni nell’hotspot di Schengjin 4 persone su 16, due con problemi di salute e due minori, sono state portate a Brindisi invece che a Gjader. Il 25% del totale, non poco. Il problema, però, riguardava anche le altre: tutte venivano dalla Libia dove è ormai noto che le violenze anti-migranti sono strutturali. Per esempio il richiedente seguito dagli avvocati Gennaro Santoro e Salvatore Fachile ha detto di essere stato vittima, in quel paese, di rapimenti, violenze e schiavismo. “Non sono stati fatti approfondimenti su chi ha subito torture - afferma Fachile - Se non è successo con numeri così bassi, è difficile avvenga quando i richiedenti saranno di più e l’attenzione mediatica di meno”. Gli ostacoli giuridici sulla via dell’Albania, quindi, restano tanti, a tutti i livelli. Ieri i portavoce della Commissione hanno ribadito che sul protocollo vale sì la legge nazionale, ma “le misure delle autorità italiane devono essere pienamente conformi e non compromettere l’applicazione del diritto comunitario”. Sui “paesi sicuri” hanno ricordato che, per ora, le liste sono nazionali sebbene si stia lavorando a un elenco europeo. Ma non se ne parlerà prima dell’estate 2025. Nel giugno dell’anno seguente, a meno di anticipazioni, entrerà in vigore il nuovo patto Ue immigrazione e asilo che renderà possibile la detenzione di massa di chi viene da paesi con percentuali europee di accoglimento delle domande d’asilo inferiori al 20%. Il ministro dell’Interno Piantedosi ha richiamato spesso, e anche ieri nella conferenza stampa post consiglio dei ministri, il carattere di anticipazione delle norme italiane su questa riforma. Ma, appunto, mancano due anni. È invece dal livello politico Ue che la premier Meloni sente le spalle coperte. Sull’esternalizzazione delle procedure d’asilo e perfino dei rimpatri da Stati extra europei restano le aperture di vari governi e della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Queste indicano la convergenza tra centro-destra e destra-destra. Anche qui, però, i tempi sono lunghi. “Stiamo discutendo degli hub per i rimpatri - hanno precisato i portavoce Ue - Ma è ancora presto”. Migranti. Strasburgo, destre e Ppe: “No alla discussione sul protocollo Italia-Albania” di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 22 ottobre 2024 Europarlamento Verdi, socialisti e sinistra avevano chiesto un dibattito in plenaria sulla sentenza del tribunale di Roma sui migranti in Albania: “Il governo italiano attacca l’indipendenza della magistratura”. Non è riuscito il tentativo di discutere la sentenza del tribunale di Roma sull’accordo Italia-Albania a Strasburgo, dove si tiene la sessione plenaria del Parlamento europeo. La domanda di inserimento nell’ordine del giorno era stata avanzata dal gruppo dei Greens per iniziativa dell’eurodeputato Leoluca Orlando, raccogliendo il consenso di tutta la parte sinistra dell’emiciclo, dai socialisti (S&D) a Left. Quasi impossibile però raggiungere la maggioranza, data l’opposizione del Ppe, certamente interessato ai buoni rapporti con il governo italiano. E potrebbe non aver aiutato la scelta dei liberali di Renew di presentare una richiesta separata. Il voto dell’Eurocamera ha respinto entrambe le proposte, con il voto decisivo di tutta la destra, ovvero i conservatori di Ecr patrioti (PfE) e sovranisti (Esn) insieme al Ppe. Anche se il dibattito non si terrà, in Aula ne è comunque andata in scena un’anticipazione, con lo scontro tra la co-capogruppo dei Greens Terry Reintke e il leader dei conservatori Nicola Procaccini. La prima ha indicato la necessità di accendere un faro europeo sul rispetto dello stato di diritto, dato che “membri della coalizione di estrema destra e anche del governo italiano hanno attaccato l’indipendenza dei giudici e la sentenza stessa”. Il fedelissimo di Meloni ha replicato che “la sentenza non riguarda il protocollo Italia-Albania”. Eppure, i segnali che arrivano dall’Ue non sono incoraggianti per Roma. Al netto dell’apprezzamento di alcuni paesi e della stessa von der Leyen verso l’esperimento con Tirana, Bruxelles chiede “pieno rispetto del diritto e dei trattati Ue, senza minarne in alcun modo l’applicazione”, come ha detto ieri una portavoce della Commissione. Tenere i migranti il più possibile lontani, “esternalizzando” le frontiere è un conto. Ma il modello Albania rischia di essere un caso molto scivoloso per l’Ue.