Carceri più piene con il decreto sicurezza di Sergio Locoratolo La Repubblica, 21 ottobre 2024 “Le carceri rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte, ma la pena di morte che ammanniscono le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice”. Nel 1894, Filippo Turati, tra i fondatori del Partito socialista italiano, così commentava, in un discorso alla Camera dei Deputati, lo stato pietoso in cui versavano le carceri italiane. Da allora, oltre un secolo è trascorso. Inutilmente. Lo stato di insalubrità, degrado, insicurezza delle carceri si è andato moltiplicando e oggi con buone ragioni può dirsi, con Dostoevskij, che l’Italia, sotto questo profilo, è certamente fuori dai Paesi civili. Bastino pochi esempi. Celle microscopiche che ospitano anche 9 posti letto, dai quali i detenuti, se volessero, non potrebbero neppure scendere contemporaneamente, per mancanza di spazio. Il pericolo di epidemie sempre dietro l’angolo, per cui anche un semplice raffreddore diviene motivo di allarme e di panico generalizzati. E così, ammassati come carne da macello, i 62.000 detenuti nelle carceri italiane crescono di anno in anno, di migliaia di unità. Attualmente ci sono circa 14.000 persone detenute in più rispetto ai posti disponibili. I due terzi dei quali finiscono in carcere per reati minori. A Napoli, nel carcere di Poggioreale, i detenuti in esubero sono 700 e la struttura versa in condizioni di continua fibrillazione e di scontento generalizzato, nonostante il grande lavoro del personale di polizia e di tutti gli operatori. Che poi questo stato di fatto sconti una sorta di timore reverenziale che la classe politica avverte oggi nei confronti del tema della sicurezza, è fuor di dubbio. Quasi che intervenire a migliorare le condizioni dei detenuti costituisca ormai un cedimento ai principi securitari, che vedono al centro gli interessi dei cittadini. Solo di quelli liberi, però. Senza pensare che la sicurezza è principio che regola la convivenza civile non solo del “mondo di fuori” ma anche del “mondo di dentro”, quello chiuso tra le quattro mura carcerarie. Dove, nel disordine e nella inevitabile confusione che regna incontrastata, spesso vige la legge del più forte. È dunque chiaro che lo stato vergognoso delle nostre carceri meriterebbe una politica in grado di offrire un approccio sistematico al tema. Un approccio che passi da alcuni provvedimenti ormai inevitabili. L’introduzione del “numero chiuso” nelle carceri. “Si entra in carcere solo se c’è posto. Finché non si libera un posto, non si entra”. Parole sacrosante, quelle di Giuliano Amato. E ancora. Un piano strutturato di edilizia penitenziaria, un incremento delle risorse umane disponibili, la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena quando essa debba essere eseguita in strutture sovraffollate, il rafforzamento delle strutture deputate a trattare il disagio psichico, il potenziamento assoluto delle pene sostitutive della detenzione. I dati dicono, infatti, che chi esce dal carcere incappa in una recidiva nel 70 per cento dei casi, che si abbassa al 15 per chi esce da istituti di pena alternativa. Infine, un generale atto di clemenza. Amnistia e/o indulto, concessi dal Parlamento a maggioranza assoluta, come disposto dall’art. 79 della Costituzione. Potrà non piacere a molti paladini della “giustizia fai da te”, ma questa è la strada. L’unica. Si calcola che con il solo indulto potrebbero uscire dal carcere circa 16.000 persone, per lo più imputati di reati minori e l’amnistia consentirebbe di alleggerire le strutture carcerarie rendendo, frattanto, possibile l’attuazione di misure strutturali in grado di evitare nuovi sovraffollamenti. E invece no. Il Governo risponde a questa sacrosanta esigenza con il cd. “decreto sicurezza”, in corso di valutazione al Senato dopo aver superato l’esame della Camera. Un provvedimento di stampo illiberale, che sembra fatto a posta per “vendicarsi” dei più deboli, con fattispecie giuridiche al limite, se non ben oltre, la costituzionalità. Che va assolutamente emendato in molti punti. Basti pensare alle misure carcerarie pensate per le donne in stato di gravidanza o con bambini molto piccoli. O il divieto per gli immigrati privi del permesso di soggiorno di acquistare una carta telefonica. Per non dire della punibilità di ogni forma di protesta, anche attraverso forme di resistenza passiva o non violenta, per i detenuti e per gli immigrati accolti nei centri di accoglienza o di rimpatrio. Addirittura, diviene reato anche il “blocco stradale” attuato da singoli, gruppi o associazioni, anche in modo non violento, che prima era considerato mero illecito amministrativo. Nuove pene, nuove aggravanti, nuovi reati che sembrano pensati per alzare la scure dello Stato vendicatore essenzialmente contro i deboli, i diseredati, gli emarginati. Nella stragrande maggioranza colpevoli di “reati minuscoli”, come li chiama qualcuno. È, perciò, quella del Governo, una risposta panpenalistica con venature reazionarie e populiste, contro cui la sinistra dovrebbe intraprendere una battaglia epocale in Parlamento. Perché gli ultimi non si difendono solo, e giustamente, battendosi per salari e diritti economici migliori, ma anche lottando per quanti marciscono nelle patrie galere con la sola speranza di poterne, un giorno, uscire vivi. La speranza perduta dei detenuti di Nisida: un campo di battaglia sovraffollato di Donatella Stasio La Stampa, 21 ottobre 2024 Un tempo la struttura di Napoli era considerata il fiore all’occhiello del sistema di giustizia minorile. Dopo il decreto Caivano si è trasformata in un campo di battaglia sempre più sovraffollato. Sono trascorsi sei anni dalla prima volta, e quasi tre dall’ultima. Negli occhi ci sono ancora Elsy, Marta, Sonia, Mirko, Peppe, ragazze e ragazzi che hanno camminato sui pezzi di vetro, direbbe De Gregori, e superato sfide difficili. All’arrivo, il sole è caldo. Ogni cosa è illuminata, non solo i ricordi. Ma ecco che, dopo due ore, una cappa di piombo scende sulle nostre teste. Il cielo diventa minaccioso, si alza un vento forte, e piccoli mulinelli trascinano, insieme a rami e foglie, anche piatti e bicchieri di plastica, lattine vuote, pezzi di carta… rifiuti, che ogni giorno, per protesta, piovono dalle finestre delle stanze dei ragazzi, piene fino all’ultimo metro dei tre indicati dai giudici dei diritti dell’uomo. Nello spazio dove prima respiravano 55 giovani, ora ne sono stipati 76, per lo più campani, quasi tutti di 16, 17 anni, ma vai a sapere quanti ne hanno davvero gli stranieri trasferiti dal Nord, forse anche 30, se solo avessero uno straccio di documento. Per fare spazio, le ragazze sono state mandate in altri istituti, lontano da questo luogo operoso e benedetto dalla natura, visitato da presidenti della Repubblica, istituzioni, celebrità di ogni genere, che faceva dimenticare di stare in prigione mentre ormai è prigione come tutte le altre, con il tempo scandito dalla tensione, dalle tentate evasioni e dai tentati suicidi, dagli incendi e dalle risse, dove imporre l’uniforme ai già pochi poliziotti non serve né a farli rispettare di più né a convincerli a non abbandonare il campo, ma dove, pur nello sconforto, gli operatori continuano a credere nel mandato rieducativo affidato loro dalla Costituzione e perciò non hanno ancora gettato la spugna. Benvenuti a Nisida, nell’anno 2024! Un tempo fiore all’occhiello del nostro sistema di giustizia minorile, invidiatoci dall’Europa per l’approccio educativo e non repressivo, e oggi simbolo del progressivo declino di quel sistema - 17 istituti per 516 posti, occupati da 569 ragazzi e ragazze: erano 392 nel 2022 - non per inadeguatezza o incapacità di chi vi ha dedicato una vita, ma per mera volontà politica. C’è un prima e un dopo in questa storia. “Cambiamento” è una parola chiave dell’esecuzione penale, perché per la nostra Costituzione nessuno è perduto per sempre, ma oggi è diventata la parola chiave di una politica che sta riempendo a dismisura (anche) gli istituti penali minorili (Ipm), soprattutto di stranieri e di persone con disturbi psichiatrici, puntando su repressione e psicofarmaci, facendone un campo di battaglia dove tutti sono in guerra, l’uno contro l’altro, e dove sempre più spesso si muore o si fugge. Muoiono i detenuti e i poliziotti, fuggono gli uni e gli altri. “Seppellite quei ragazzi sotto litri di psicofarmaci e cumuli di altri anni di carcere” è il messaggio che, secondo l’associazione Antigone, il governo sta mandando, dal “decreto Caivano” al “Ddl sicurezza”. Il primo segno del cambiamento è l’aumento degli stranieri, scaricati qui a Nisida dagli Istituti del Nord proprio come dei rifiuti. Eravamo abituati “allo” straniero, non “agli” stranieri di culture ed etnie diverse, osservano gli educatori. Ragazzi difficili, più dei “locali”. I quali, prima facevano gruppo in base ai quartieri di appartenenza (Forcella, Scampia ecc), mentre oggi si coalizzano contro gli stranieri “nemici”, a loro volta organizzati in gruppi di 8/10 persone contro gli italiani “razzisti”. E questo crea una continua tensione. Eccoli nel campo di basket, rigorosamente distanti dagli italiani. Non riconoscono l’autorità. Con o senza uniforme, fa lo stesso. Anche qui il “cambiamento” si tocca con mano: la recente circolare ministeriale che ha imposto ai poliziotti di indossare la divisa nelle carceri minorili ha rotto la pluridecennale e virtuosa tradizione di “vestire a foggia civile”, ed è “l’ammissione - dice un educatore - dell’incapacità di affrontare una situazione di emergenza”. Questi ragazzi, quasi tutti arabi, hanno alle spalle una lunga esperienza migratoria, anche in Europa, che ha determinato una forte tendenza predatoria (le rapine superano di molto le violenze) per cui prendono tutto ciò che considerano utile, ma non per rimanere in Italia, dove non hanno nulla e nulla viene offerto loro. Spesso non hanno identità, famiglia, legami affettivi ma solo qualche “zio”: così chiamano gli amici incontrati lungo la strada. I loro volti hanno sostituito quelli di Marta, che nel frattempo si è laureata in scienze dell’educazione ed è in semilibertà; di Sonia, che lavora come guida turistica; di Elsy, cameriera in un bar e a fine turno studentessa alla scuola serale. Chiedo di Pino, il ragazzo-padre che raccontava quanto fosse importante avere la casetta colorata dove “rotolarsi” con i figli, evitando così di farli crescere con le immagini del carcere: oggi la casetta è semiabbandonata e Pino ha chiesto di andare in un carcere per adulti, dove si è interrotto il percorso di ricostruzione della sua vita. Destino comune ai tutti quei giovani che, “grazie” al Dl Caivano, vengono più facilmente trasferiti nelle carceri per adulti (Antigone ne ha contati 123 nel 2024, contro gli 88 del 2023 e i 58 del 2022). Oggi a Nisida ci sono solo un paio di ragazzi-padri: un italiano e un arabo, entrambi diciassettenni con due figli ciascuno. Come i loro compagni, non sanno che cos’è l’amore né potranno insegnarlo ai figli perché non sono stati educati a sillabare l’alfabeto emotivo e a familiarizzare con i sentimenti. Sono nati da mamme bambine, capaci di attenzioni solo ai bisogni materiali dei figli (immancabile la griffe su ogni capo di abbigliamento) ma incapaci di accudirli perché loro stesse hanno bisogno di accudimento, e a farsene carico sono proprio quei figli, un po’ padri e un po’ mariti. Confusi. Anche rispetto alla sessualità, sebbene siano molto esperti di sesso, che praticano “in modo articolato”. Rino (nome di fantasia, come tutti gli altri) è l’unico dichiaratamente gay ma è convinto che molti suoi compagni lo siano senza esserne consapevoli. Diciassette anni, capelli raccolti in un codino che scopre un viso gentile, racconta di sé infilato nel camice nero da sous chef, guadagnato con caparbietà. Ci confida il suo sogno di fare il poliziotto (“Per una volta starei seduto nella macchina davanti, invece che dietro”, scherza), ma ha un dubbio che lo tormenta: una volta fuori dal carcere, la fedina penale tornerà subito pulita? Altrimenti non lo prendono in polizia. Fin quando ti resta addosso il marchio del pregiudicato? La riabilitazione, certo, ma forse una traccia resta per tutta la vita, riflette, proprio come i tatuaggi, che però, è vero, si possono cancellare, anche se fa male, male assai, forse troppo, “ma non così tanto - conclude in questo suo ragionare a voce alta - quanto il male fatto a me stesso e a mia madre”. Il tutto esaurito, qui a Nisida, è stato micidiale anche per l’adesione alle attività. Sempre più ragazzi chiedono “di fare il detenuto, e basta”. D’altra parte, il carcere è diventato uno “sversatoio”, dicono gli educatori, una discarica dove vengono smaltiti i rifiuti della società, i marginali, i malati come Catello, 16 anni, arrivato con una dipendenza gravissima da qualunque sostanza, al punto da identificarsi con “la sostanza”. Chi deve prendersene cura? “Il carcere non ha questo compito né ha gli strumenti - dice il direttore Gianluca Guida, che a Nisida ha dedicato la vita - eppure è diventato il luogo del disagio psichico serio, non diagnosticato fuori e senza indicazioni terapeutiche, per cui l’unico approccio medico, dentro, è quello contenitivo. Sediamolo, neutralizziamolo”. La Repubblica ha “il dovere di rimuovere gli ostacoli” che limitano la libertà e l’uguaglianza delle persone e ne impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale: lo dice la Costituzione e quelle parole - un impegno, una promessa - sono state scandite, con emozione, proprio dai ragazzi e dalle ragazze di Nisida ospiti della Corte costituzionale nel Natale 2018. Quanta speranza in quelle voci. La stessa che leggo negli occhi di Enzo, mentre avvolto in una tuta bianca fa avanti e indietro nel campo di basket con un sorriso coraggioso, che guarda con fiducia al futuro, quando non sarà più “scostumato”. Non conosce paura questo sedicenne che salta e vince sui vetri, che ride e sorride, perché ferirsi non è possibile, morire meno che mai, suggeriscono i versi di una canzone. Enzo non la conosce, ma ascolta. Poi riprende a rappare: Nuje vulimme ‘na speranza. È Nisida la sua speranza, la sua ultima carta, la vita che stringe nella mano, e alla quale sembra dire: “ti prego, non lasciarmi ferito”. Una sbornia giustizialista di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 ottobre 2024 Nei primi due anni di governo Meloni sono stati introdotti 48 nuovi reati e svariati aumenti di pena per un totale di 417 anni di carcere in più nel nostro ordinamento. La vena securitaria di FDI e Lega è prevalsa sulle promesse liberali di Nordio. Catalogo del nuovo populismo penale. Quattrocento diciassette anni di carcere. A tanto ammonta il numero di anni di pena in più inseriti nel nostro ordinamento da quando si è insediato il governo Meloni, che domani compie due anni. Abbiamo esaminato, una per una, le norme approvate dalla maggioranza e il risultato fa impallidire: 417 anni di carcere in più, frutto dell’introduzione di 48 nuovi reati (una media di due al mese) e svariati inasprimenti di pena. Una cifra destinata ad aumentare, se si considera che non tiene conto dei provvedimenti non ancora approvati definitivamente dal Parlamento. Il ddl Sicurezza, approvato dalla Camera e ora passato al Senato, tanto per fare un esempio, introduce in un colpo solo altri 24 tra nuovi reati, aggravanti e aumenti di pene. Insomma, altro che populismo penale, una sbornia giustizialista da offuscare il ricordo dei grillini al governo. E pensare che a rivestire l’incarico di ministro della Giustizia non c’è più Alfonso Bonafede, ma il liberale Carlo Nordio, colui che, uscendo dal Quirinale subito dopo aver giurato, si era detto favorevole alla depenalizzazione e all’abolizione di reati dal codice penale. Al contrario, l’elenco dei nuovi reati introdotti da allora è impressionante: rave illegali (fino a 6 anni di reclusione), morte e lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina (fino a 104 anni di reclusione), lesioni nei confronti di medici e operatori sanitari (fino a 5 anni), riproduzione abusiva di opere coperte da diritto d’autore (fino a 3 anni), incendio boschivo (fino a 3 anni), abbattimento di esemplari di orso bruno marsicano (fino a 2 anni), omicidio nautico, lesioni nautiche e violazioni del codice della nautica (fino a 76 anni), spaccio non occasionale di sostanze stupefacenti (fino a 5 anni), reato di “stesa” (fino a 8 anni), violazione degli ordini di protezione in caso di presunti abusi familiari (fino a 3 anni sei mesi), imbrattamento di teche e custodie che contengono opere d’arte nei musei (fino a 6 mesi), violazione delle disposizioni in materia di documentazione antimafia in caso di partecipazione ad appalti (fino a 6 anni), violenza o minaccia nei confronti del personale scolastico (fino a 4 anni), nuovi reati in materia di accessi abusivi a sistemi informatici e a informazioni relative alla sicurezza pubblica (fino a 138 anni), indebita destinazione di denaro o cose mobili (fino a 3 anni, ma fino a 4 se riguarda interessi finanziari dell’unione europea), danneggiamento delle apparecchiature in uso nelle strutture sanitarie (fino a 5 anni), maternità surrogata all’estero (fino a 2 anni). Se a questi nuovi reati si aggiungono le norme che hanno aumentato le pene per vari reati si giunge al totale di 417 anni di carcere in più. Da avere le vertigini. Insomma, dopo due anni di governo Meloni si può affermare senza alcun dubbio che, tra lo spirito garantista di cui Forza Italia dice di farsi portatore e la vena securitaria e giustizialista che anima Fratelli d’italia e Lega, a prevalere è stata quest’ultima. L’avvocato Gian Domenico Caiazza, già presidente dell’unione delle camere penali italiane, definisce “impressionanti” i numeri calcolati dal Foglio: “È l’esatto contrario di quello che il ministro Nordio disse dopo il suo giuramento”. Il Guardasigilli, infatti, dichiarò: “La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione quindi una riduzione dei reati. Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero. L’abbiamo sperimentato sul campo soprattutto quelli come me che hanno fatto per 40 anni i pubblici ministeri”. A distanza di due anni, nota Caiazza, “sta avvenendo proprio il contrario”: “È il segno del fallimento di un progetto di politica giudiziaria”. “La politica ha capito che il panpenalismo nell’immediato funziona in termini di consenso”, spiega Caiazza. “Il senso di insicurezza è diffusissimo, la percezione è largamente superiore alla realtà, i social premono verso quella direzione e quindi cosa c’è di meglio che annunciare aumenti di pena a costo zero? Il punto è che se tu, legislatore, punisci certe condotte in modo sproporzionato, stai sgangherando il sistema penale. Stai violando il principio di razionalità. Di questo passo si arriverà a prevedere una condanna a trent’anni per il borseggio in metropolitana. Prima o poi la Corte costituzionale dovrà intervenire”. “Ovviamente non è una novità - aggiunge l’ex presidente dei penalisti - Anche i governi di centrosinistra hanno inseguito il furore popolare. La cronaca offriva tre casi di persone uccise in strada e loro introducevano il reato di omicidio stradale. Insomma, questo inseguire la cronaca, le emozioni, la rabbia della gente non è esclusiva del governo di centrodestra, ma è una caratteristica della storia del nostro paese. Il governo Meloni, però, la sta portando all’estremo”. A impressionare maggiormente, oltre ai numeri, è il fatto che gran parte dei provvedimenti che hanno introdotto oltre 400 anni di carcere in più sono stati approvati quasi nell’indifferenza generale, salvo alcune eccezioni. Anche gli interventi che hanno avuto risalto sul piano mediatico, in realtà sono stati descritti soltanto in maniera parziale. Basti pensare al decreto Cutro, con cui il governo è intervenuto nel marzo 2023 per inasprire il contrasto all’immigrazione clandestina dopo il tragico naufragio avvenuto nelle acque crotonesi. Sugli organi di informazione si è data notizia dell’introduzione del nuovo reato che prevede fino a trent’anni di reclusione in caso di morte di più persone come conseguenza della violazione delle norme sull’immigrazione clandestina, ma un velo di disinteresse è sceso sulle altre misure contenute nel decreto. Nessuno, per esempio, ha scritto che la stessa pena (cioè fino a 30 anni di carcere) “si applica se dal fatto derivano la morte di una o più persone e lesioni gravi o gravissime a una o più persone”. E ancora: “Se dal fatto deriva la morte di una sola persona, si applica la pena della reclusione da quindici a ventiquattro anni”. Infine, “se derivano lesioni gravi o gravissime a una o più persone, si applica la pena della reclusione da dieci a venti anni”. Risultato: se si considerano anche gli aumenti di pena previsti, il decreto Cutro ha introdotto complessivamente nel nostro sistema penale 106 anni di reclusione in più (altro che trenta). Lo stesso è avvenuto nel caso della legge 138/2023, che nel settembre dello scorso anno ha introdotto il reato di omicidio nautico, punito con la reclusione fino a sette anni: “Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima o interna è punito con la reclusione da due a sette anni”. Ma se si va a leggere con attenzione il provvedimento, si scopre che questo introduce altri dieci reati, legati all’omicidio nautico commesso nei vari stati di ebbrezza alcolica (con pene che arrivano fino a dodici anni), e poi ai reati di lesioni gravi e gravissime commessi violando le norme sulla navigazione marittima (fino a sette anni se sotto l’effetto di alcool). In tutto fino a 76 anni di carcere. Quasi nel silenzio più assoluto, invece, è stato approvato il provvedimento che ha introdotto il maggior numero di nuovi reati e di aumenti di pena (fino ad addirittura 161 anni di carcere): la legge n. 90 del 28 giugno 2024, contenente “disposizioni in materia di rafforzamento della cybersicurezza nazionale e di reati informatici”. In questo caso, la vena securitaria della maggioranza sembra veramente essersi dispiegata in piena libertà. Il testo prevede, ad esempio, il reato di estorsione mediante reati informatici, punito con una pena fino a 12 anni di reclusione, ma fino a 22 anni se ricorrono alcune circostanze indicate dalla stessa legge. È poi prevista l’introduzione di nuovi reati o l’aumento di pene per quanto riguarda “accesso abusivo a un sistema informatico o telematico”, “detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature, codici e altri mezzi atti all’accesso a sistemi informatici o telematici”, “intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche”, “danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità”. E chi più ne ha più ne metta. È significativo notare che la stretta giustizialista del governo Meloni è cominciata il 31 ottobre 2022, vale a dire soltanto nove giorni dopo il suo insediamento, con l’approvazione del decreto legge n. 162 contro i rave party. Il tutto per rispondere alle polemiche provocate da un mega raduno organizzato in un capannone a Modena. Da qui l’introduzione del reato di “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, punito con la reclusione da tre a sei anni e con la multa da mille a diecimila euro. Fu solo l’inizio dell’introduzione a pioggia di nuovi reati. Il carcere come soluzione a ogni male del paese. Dopo il decreto Cutro, di cui abbiamo già parlato, il 30 marzo 2023, sempre con un decreto legge, il governo decise di seguire di nuovo la cronaca introducendo il reato che punisce chi provoca lesioni nei confronti di medici e operatori sanitari (reclusione da due a cinque anni). Come dimenticare poi l’introduzione, il 10 agosto 2023, sempre con decreto (che, ricordiamo, dovrebbe essere adottato in casi straordinari di necessità e di urgenza), del reato di abbattimento o cattura di orso bruno marsicano. Il linguaggio giuridico in questo caso restituisce tutto il parossismo della vicenda: “Arresto da sei mesi a due anni e ammenda da euro 4.000 a euro 10.000 per chi abbatte, cattura o detiene esemplari di orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus)”. Il reato venne introdotto sull’onda emotiva dell’uccisione dell’orsa Amarena (così venne chiamata), ammazzata a fucilate a San Benedetto dei Marsi, in Abruzzo. Si tratta probabilmente del caso più emblematico di impazzimento del populismo penale. Basti pensare che secondo l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sono 161 le specie di animali a rischio estinzione in Italia, quindi seguendo la logica panpenalistica nell’ordinamento penale bisognerebbe introdurre 161 reati autonomi a tutela di queste specie. Un altro momento di svolta della politica penale del governo si è avuto il 15 settembre 2023, con l’approvazione del decreto Caivano, adottato sull’onda dell’indignazione generata dal caso delle violenze ai danni di due bambine da parte di un gruppo di ragazzi, in gran parte minori. La misura prevede una serie di aumenti di pene, soprattutto per le violazioni delle norme sul porto d’armi, stabilisce addirittura la reclusione fino a due anni per i genitori che non mandano i figli alla scuola dell’obbligo senza giustificato motivo, e poi introduce il celebre “reato di stesa”, definito in gergo giuridico “pubblica intimidazione con uso di armi”: “chiunque, al fine di incutere pubblico timore o di suscitare tumulto o pubblico disordine o di attentare alla sicurezza pubblica, fa esplodere colpi di arma da fuoco o fa scoppiare bombe o altri ordigni o materie esplodenti” (reclusione da tre a otto anni). E pensare che a proporre l’introduzione di questo reato, come di quello sull’abbattimento dell’orso marsicano, è stata Forza Italia. Complessivamente, comunque, il decreto Caivano ha introdotto misure che prevedono 26 anni in più di carcere. Il decreto ha introdotto anche altre norme che estendono la possibilità per la magistratura di adottare misure cautelari in carcere per i minori. Come risultato, a un anno di distanza il numero di giovani reclusi negli istituti penali per minorenni ha raggiunto un record storico (oltrepassando quota 500), causando un grave sovraffollamento negli istituti. Tutto ciò, si badi, nonostante i reati commessi dai minori siano pure in calo. L’azione della maggioranza di centrodestra ha poi continuato a inseguire la cronaca. Con la legge numero 25 del 4 marzo 2024, per esempio, in seguito ad alcuni casi di aggressione a docenti da parte di alcuni genitori, la pena per l’aggressione nei confronti del personale scolastico è stata aumentata fino a sette anni e mezzo, mentre l’oltraggio fino a quattro anni e mezzo. Lo stesso è avvenuto di recente, a inizio ottobre, dopo una serie di casi di aggressione ai danni di medici e di devastazione di pronto soccorso e strutture sanitarie. Con un decreto legge (n. 137 del 2024), il governo ha introdotto un nuovo reato che prevede addirittura fino a cinque anni di reclusione per chi “distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili” le apparecchiature usate nelle strutture sanitarie. La ciliegina sulla torta è arrivata mercoledì scorso, con l’approvazione definitiva in Senato della legge che rende punibile la maternità surrogata anche se realizzata dal cittadino italiano all’estero: reclusione da tre mesi a due anni e multa da 600 mila a un milione di euro. Anche se diversi giuristi hanno espresso forti dubbi sulla reale applicabilità della norma. Il quadro è destinato a peggiorare ulteriormente con il ddl Sicurezza, già approvato dalla Camera e ora in esame al Senato. Come abbiamo già evidenziato su queste pagine, il provvedimento introduce in un colpo solo 24 tra nuovi reati, aggravanti e inasprimenti di pene. Il testo introduce innanzitutto nuovi reati e inasprisce le pene nell’ambito della lotta al terrorismo. Ma è in materia di sicurezza urbana che il provvedimento si scatena. Introduce il nuovo reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (reclusione fino a sette anni), come se oggi l’occupazione delle case non fosse punibile, e prevede una stretta sui borseggiatori, con un’aggravante che punisce chi commette reati “a bordo treno o nelle aree interne delle stazioni ferroviarie e delle relative aree adiacenti”. Il ddl inasprisce poi le pene per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni pubbliche, trasforma in illecito penale “il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo”, introduce ben tre aggravanti ai delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale. Introduce, inoltre, il nuovo reato di “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle sue funzioni”, con reclusione fino a sedici anni. In ambito carcerario, infine, si prevede l’introduzione di un ennesimo reato, denominato “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” (reclusione da due a otto anni), specificando che può costituire il reato di rivolta la “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”. “La parte più grottesca del ddl Sicurezza è l’aggravante comune per i reati commessi in metropolitana o sul treno. Insomma, un omicidio commesso a piazza Navona è meno grave di un omicidio commesso alla stazione Termini. Ma stiamo impazzendo?”, dice Gian Domenico Caiazza. “I reati di minacce o resistenza a pubblico ufficiale raggiungono livelli di pena prossimi o superiori allo stupro. Senza parlare, poi, delle ostatività. L’istigazione a delinquere diventa un reato ostativo, quindi in caso di condanna non puoi avere benefici: vai in carcere. Per capirci, l’omicidio non è ostativo. Non so se è chiaro il paradosso”, prosegue Caiazza. “Ci si deve interrogare perché una stupidaggine del genere possa essere approvata. Avviene perché la gente è arrabbiata per ciò che succede nelle metropolitane, come i furti da parte di ragazze rom e le aggressioni ai capitreno. Non nego che ci siano delle realtà preoccupanti, ma non si può per questo introdurre un’aggravante comune per i reati commessi in metropolitana o sul treno. Sono discorsi che non hanno alcun senso. C’è solo un legislatore che insegue la bava della gente sui social”, conclude Caiazza. La bava, a quanto pare, continuerà a dettare l’azione del governo Meloni. L’appello al dialogo di Mattarella: le istituzioni cerchino la mediazione di Marzio Breda Corriere della Sera, 21 ottobre 2024 “Non limitarsi alla propria visione”. L’elezione dei giudici costituzionali la prima prova. Parlatevi, finalmente. Fate tutti un passo avanti, almeno quando è in gioco un interesse superiore. Sedetevi intorno a un tavolo e discutete, avendo coscienza del limite e sapendo che sarebbe una distorsione di una democrazia sana pretendere che una singola parte s’imponga sulle altre. Riscoprite il dialogo, insomma, perché “tra le istituzioni e al loro interno la collaborazione, la ricerca di punti comuni, la condivisione delle scelte sono essenziali”. Sono basilari “per il loro buon funzionamento e per il servizio da rendere alla comunità”. Sergio Mattarella riflette con disagio e senso d’impotenza, ai quali però non si rassegna, sull’aspro clima politico di questi ultimi mesi e lancia un appello a sgombrare l’incomunicabilità che paralizza certe decisioni fondamentali (e dovute) per il Paese. Un richiamo dai toni antiemotivi, com’è solito esprimersi lui, e comunque chiaro. “Vi sono dei momenti nella vita di ogni istituzione in cui non è possibile limitarsi ad affermare la propria visione delle cose - approfondendo solchi e contrapposizioni - ma occorre saper esercitare capacità di mediazione e di sintesi”. Poi aggiunge: “Questo è parte essenziale della vita democratica poiché le istituzioni appartengono e rispondono all’intera collettività e tutti devono potersi riconoscere in esse”. Ragionamento di carattere generale, certo, per quanto sia intuibile a che cosa il presidente si riferisca. Il 29 ottobre il Parlamento dovrà rivotare la nomina di un nuovo giudice costituzionale e, dopo un’impasse trascinatasi con otto inutili scrutini, non si profila ancora un’intesa tra forze di governo e opposizioni. Il muro contro muro si è alzato sul nome di Francesco Saverio Marini, “padre” del premierato e consigliere giuridico della premier Meloni, che ha finora tentato d’imporlo a quel ruolo. Ecco il primo banco di prova al quale pare alludere il presidente. Appuntamento che si incrocia con la nomina di altri tre giudici della Consulta in scadenza a fine dicembre. Presto si avrà dunque una partita a quattro che, nella logica di Mattarella, dovrebbe indurre i partiti a cercare “mediazioni e sintesi”, invece di puntare ad appropriarsi di quell’organo. Cercare cioè compromessi alti, come in altri tempi si faceva, evitando ogni “tirannia della maggioranza”, miraggio più volte censurato dal Quirinale. Si vedrà, anche perché il principio evocato può esser riferibile, per estensione, a diverse altre sfide in corso. È solo un cenno, questo, che il capo dello Stato si è concesso in un denso discorso al Festival delle Regioni e delle province autonome convocato ieri a Bari. Due i fili conduttori, legati ad altre e più complesse questioni aperte. Per esempio la transizione ecologica e quella digitale. Sulla prima definisce “obiettivi irrinunciabili” il contrasto al cambiamento climatico e l’impegno a “proseguire sulla via della de-carbonizzazione”, da perseguire “facendo leva su una governance sovranazionale”, come la Ue. Sull’intelligenza artificiale gira alla platea una fitta serie di interrogativi perché si chiarisca quale è, o meglio dovrà essere, “il soggetto chiamato a dettare le regole di tutela delle libertà”. Ha fiducia nel futuro, Mattarella, ma con diversi dubbi, che sorgono anche da un certo “intollerabile” modo di “manipolare l’informazione con le fake news”. Cosa ha scritto Marco Patarnello, il magistrato accusato da Meloni: “Non dobbiamo fare opposizione politica” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 ottobre 2024 Il caso Patarnello, dopo gli attacchi ad Albano: le parole scritte sulla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e la reazione della premier. Non si aspettava questa burrasca, Marco Patarnello. Dopo Silvia Albano, giudice della Sezione immigrazione del tribunale di Roma nonché presidente di Magistratura democratica, il nuovo bersaglio del governo (e della premier Meloni in persona) è diventato lui, 62enne sostituto procuratore generale della Cassazione dopo un lungo trascorso da giudice nella capitale (da ultimo al tribunale di sorveglianza, occupandosi di condannati e esecuzione delle pene), già vicesegretario generale del Consiglio superiore della magistratura. “Toga rossa” pure lui, in quanto aderente a Md. Pensava fosse scontato discutere fra magistrati su come reagire a un attacco così forte della politica alla giurisdizione; quindi alle pronunce dei magistrati, non alle loro idee politiche. Invece s’è scatenato il finimondo. Sulla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati, cioè un luogo di dibattito interno tra le toghe di tutti i colori, Patarnello ha scritto che a differenza di Berlusconi che se la prendeva coi giudici per interessi personali “Giorgia Meloni si muove per visioni politiche, e questo rende molto più pericolosa la sua azione. A questo dobbiamo assolutamente porre rimedio”. Parole che gli sono valse l’accusa di “eversione” e l’annuncio di interrogazioni parlamentari. Nonostante la risposta alle critiche fosse contenuta nella stessa mail: “Non dobbiamo fare opposizione politica, ma difendere la giurisdizione e il diritto dei cittadini a un giudice indipendente. Senza timidezze”. Era un’esortazione all’Anm e soprattutto al Csm, che dopo un anno non ha saputo partorire un documento a tutela della giudice catanese Iolanda Apostolico, presa di mira per avere disapplicato una norma del “decreto Cutro” ritenuta in contrasto con la legislazione europea (e ora sottoposta al giudizio della Corte di Lussemburgo, segno che quei dubbi non erano così astrusi). “Dobbiamo pretendere che il Csm apra un dibattito e deliberi una reazione chiara e netta”, ha scritto Patarnello. Auspicando “un approccio unitario fermo” dell’Anm, sulla linea “pacata ma piuttosto chiara” espressa dal presidente Santalucia. Un appello a evitare divisioni tra correnti dettate da interessi particolari. Come Albano, Patarnello preferisce non commentare gli attacchi subiti, turbato dagli esiti probabilmente controproducenti di un intervento a difesa dell’autonomia della magistratura. Tanto più che nelle altre mail toghe di tutti i colori mostravano pari preoccupazione per le reazioni di Meloni e del ministro Nordio alle ordinanze romane; un dibattito tra “addetti ai lavori” sulle risposte più efficaci da dare a politici che accusano i magistrati di non collaborare col governo. “Questa pretesa è uno strafalcione istituzionale - spiega Stefano Musolino, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e segretario di Md - perché compito dell’ordine giudiziario non è collaborare col potere esecutivo o legislativo bensì tutelare i diritti delle persone. Secondo ciò che prevedono le leggi nazionali e sovranazionali, a partire dalla Costituzione e dai Trattati europei. È ciò che ha sostenuto Patarnello a fronte di una presidente del Consiglio che evidentemente immagina una magistratura non più autonoma e indipendente bensì servente nei confronti di governo e Parlamento. Una visione pericolosa non per una corporazione, ma per i cittadini”. Il caso vuole che tanto Patarnello quanto Albano siano magistrati conosciuti - a Roma e non solo - per non essere tra i più estremisti e “identitari” di Md, nonché per il loro garantismo e rigore; caratteristiche che dovrebbero risultare gradite a una maggioranza e a un governo che invocano il rispetto delle regole e dei ruoli. Dopodiché hanno le proprie idee, come tutti, e intervengono spesso (forse troppo, dice a proposito di Albano un collega che pure condivide ragioni e contenuti dei suoi interventi) sui temi di cui si occupano. “Ma quello che conta è l’indipendenza nei casi concreti che ci troviamo ad affrontare”, dice Musolino: “Io che faccio parte dell’Antimafia ho partecipato a innumerevoli convegni sul 416 bis o sulle misure di prevenzione, il che non rende meno indipendenti le mie valutazioni sui singoli casi”. A proposito di indipendenza Silvia Albano, moglie di un noto avvocato romano, già presidente della Camera penale e paladino di tante battaglie a difesa dei diritti di indagati e imputati, ha ricordato in un’intervista del maggio scorso a Il manifesto di essere stata bollata in passato dai giornali di destra come una “giudice comunista e pro-migranti” per alcune decisioni e poi indicata, dagli stessi giornali, come esempio di imparzialità quando rigettò la richiesta di risarcimento di un magistrato contro Daniela Santanchè, chiosando: “Non credo che dichiarare che il proprio codice di valori si fonda sulla Costituzione, sulle Carte sovranazionali e sulla necessità di farle vivere nella giurisdizione significhi essere parziali”. Una considerazione che può valere, per lei come per Patarnello, anche di fronte agli attacchi di oggi. Roma. Domiciliari negati a un detenuto con gamba amputata e patologie: muore in carcere di Flaminia Savelli Il Messaggero, 21 ottobre 2024 Morto tre settimane dopo. La famiglia di Giuseppe Ruggieri, 66enne di Tivoli conosciuto come “Peppe lo zoppo”, chiede giustizia. Detenuto in carcere a Rebibbia con una gamba amputata e gravi patologie. La famiglia chiede i domiciliari per “incompatibilità con il regime carcerario”. Ma il tribunale respinge la richiesta e una perizia medica conferma: “Congrue e idonee le cure al detenuto. Le condizioni sono di compatibilità”. Tre settimane dopo però, il detenuto è colto da un malore fatale e muore in cella. Ora la famiglia di Giuseppe Ruggieri, 66enne di Tivoli e conosciuto come “Peppe lo zoppo”, chiede giustizia. “Durante l’iter delle perizie mediche, il personale del carcere aveva segnalato che il soggetto aveva necessità costante di rapporti con presidi sanitari e pur non esprimendosi faceva rilevare l’inadeguatezza delle cure somministrate in sede detentiva” spiega Pietro Nicotera, il legale che assiste la famiglia Ruggieri e che ha già depositato la denuncia: “La perizia del tribunale - sottolinea ancora il legale - pur rilevando le gravi condizioni di salute, ha ritenuto che Ruggieri potesse essere curato in carcere. Ma dopo pochi giorni è morto. Adesso vogliamo andare fino in fondo e capire cosa sia accaduto”. Ruggieri, Peppe lo zoppo, era stato arrestato lo scorso 12 luglio: con diversi precedenti, era finito in manette per aver aggredito l’ex fidanzata e il nuovo compagno. Un carabiniere libero dal servizio della compagnia di Tivoli lo aveva fermato mentre, armato di taglierino, si accaniva prima contro la donna e poi contro il nuovo fidanzato. Nella colluttazione la ragazza era stata sfregiata al volto. Ferito anche Peppe lo zoppo che dopo essere stato medicato al policlinico Umberto I, era stato trasferito in carcere con le accuse di stalking, aggressione e lesioni. Ed era già in condizioni di salute precarie: oltre alla gamba amputata, soffriva di altre gravi patologie tra cui cirrosi epatica. Ecco perché, poche ore dopo l’arresto, la famiglia aveva richiesto la sostituzione della misura cautelare con gli arresti domiciliari. Il 27 luglio viene notificata la prima istanza respinta e il tribunale di Tivoli dispone che la Direzione sanitaria del carcere proceda con una relazione sulle condizioni del detenuto e della compatibilità con il circuito carcerario. “Sono stati necessari due solleciti del giudice, il 21 e il 24 agosto, perché mentre le condizioni cliniche di Ruggieri peggioravano in cella, nessun perito lo aveva ancora visitato” sottolinea l’avvocato Nicotera. Relazione che arriva solo a settembre, il 4, in cui venivano confermate le patologie serie e il quadro clinico più che compromesso. Rimandando però il parere ai periti del tribunale. A metà settembre - il 16, per la precisione - viene infatti depositata la seconda perizia, questa volta del tribunale. Una perizia in cui tuttavia vengono ritenute “congrue e idonee le cure” a cui il detenuto accede nella casa circondariale. Tanto che, sempre secondo la perizia, Ruggieri è in condizioni di compatibilità con il regime detentivo e infatti resta in cella nel carcere di Rebibbia. Il 17 settembre quindi, l’istanza per i domiciliari viene respinta. Ma le condizioni del detenuto peggiorano tanto che, 25 giorni dopo, muore in cella colto da malore. Gli agenti di sicurezza lo trovano cianotico, steso sulla branda e già privo di coscienza. Per 70 minuti tentano di rianimarlo invano, quindi ne viene accertato il decesso. “Il mio assistito era stato arrestato per un reato grave e questo nessuno può negarlo - conclude l’avvocato Nicotera - ma le sue condizioni cliniche erano serie e compromesse. Tuttavia la sua situazione è stata trattata con superficialità nonostante i ripetuti solleciti della famiglia e le istanze depositate in cui venivano chiesti gli arresti domiciliari. L’obiettivo ora è fare piena luce su quanto accaduto”. Viterbo. Controllo visivo nei colloqui con i partner, 102 detenuti presentano un reclamo tusciaweb.eu, 21 ottobre 2024 Dal carcere di Viterbo alcuni detenuti hanno presentato un reclamo collettivo. In 102 si sono rivolti al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della regione Lazio, Stefano Anastasìa, per la mancata attuazione della sentenza della corte costituzionale, datata 26 gennaio 2024, che ha dichiarato illegittimo l’obbligo di controllo visivo durante i colloqui tra detenuti e partner. Un reclamo a cui il Garante ha risposto “raccomandando alla direzione della Casa circondariale di Viterbo l’immediata individuazione di spazi idonei all’effettuazione del colloquio senza controllo visivo”. “Per chi abbia fiducia nello stato di diritto è inconcepibile che una sentenza della Corte costituzionale non venga presa in considerazione da un’amministrazione pubblica dieci mesi dopo la sua pubblicazione - dichiara il Garante Stefano Anastasìa nella nota pubblicata sul sito sito del garante dei diritti dei detenuti del Lazio -. Così è per la sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024, che ha giudicato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che obbliga al controllo visivo sui colloqui dei detenuti e delle detenute con i propri partner: a dieci mesi dalla decisione della Corte, che io sappia alcun colloquio riservato è stato autorizzato”. “Laddove qualche direzione di carcere era pronta a farlo - prosegue Anastasìa -, è stata bloccata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in attesa degli esiti dei lavori di un misterioso gruppo di studio ministeriale, quando invece in alcuni istituti basterebbe oscurare le finestrelle sulle porte delle stanze dei colloqui con i gruppi familiari per consentire la riservatezza degli incontri. In questi giorni ho risposto a un reclamo collettivo di 102 detenuti della Casa circondariale di Viterbo, sollecitandone il direttore, nel rispetto della decisione della Corte, a disporre con proprio ordine di servizio le modalità di accesso dei detenuti ai colloqui riservati. Una raccomandazione di analogo tenore nel settembre scorso avevamo indirizzato, con la collega di Roma Capitale, Valentina Calderone, alla direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia, a seguito del reclamo collettivo di altri 55 detenuti”. “Non so se al Dap viga ancora l’interdetto dei più retrivi sindacati di polizia penitenziaria che nel 2018 impedì al ministro Orlando di anticipare il pronunciamento della Corte costituzionale. Certo è che dopo di esso, le cose non restano uguali a sé stesse: dopo aver proposto reclamo ai garanti - conclude Anastasìa - i detenuti potranno rivolgersi ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza, fino ad arrivare alla Corte europea dei diritti umani, e noi saremo con loro”. “È la seconda volta dunque che il Garante regionale interviene. Questa volta, i 102 detenuti reclamanti hanno rappresentato al Garante, di aver ‘presentato, singolarmente, in data 2 giugno 2024, alla direzione della C.C. di Viterbo, istanza per l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale 10/2024 del 26 gennaio 2024 ed essendo trascorsi più di 90 giorni senza ricevere alcuna risposta in merito da parte della direzione della suddetta Casa circondariale, unitamente denunciano la mancata operatività della sentenza della Corte costituzionale 10/2024”, chiedendo altresì di “avere notizie e date certe di attuazione della legittima richiesta”, si legge sul sito del garante dei diritti dei detenuti del Lazio. “Di qui la missiva del Garante Anastasìa il quale ritiene che l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale non sia procrastinabile e che di conseguenza il quesito dei reclamanti riguardo al quando della sua attuazione sia assorbito dalla vigenza normativa di quanto da essa disposto, che configura un obbligo di garanzia in capo all’amministrazione penitenziaria”, si legge ancora sul sito del garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Pertanto, il Garante “raccomanda alla direzione della Casa circondariale di Viterbo l’immediata individuazione di spazi idonei all’effettuazione del colloquio senza controllo visivo e - in assenza di determinazioni ministeriali - la definizione con proprio ordine di servizio della regolamentazione dell’accesso al nuovo istituto, tenuto conto di quanto stabilito dalla Corte costituzionale nei punti 6 e seguenti delle considerazioni in diritto della sentenza 10/2024 e della necessità di garantire a tutti gli aventi diritto la sua fruizione in maniera omogenea quanto ai tempi e alla frequenza dei colloqui di che trattasi”. Isili. La Colonia penale è come un girone infernale. La Garante: “Intervenga il ministro” sardiniapost.it, 21 ottobre 2024 “Non basta che i 30 internati nella colonia di Isili vivono in condizioni di sovraffollamento a fronte di una capienza regolamentare di 20 posti ma vengo a conoscenza che nei prossimi giorni si prevedono nuovi arrivi. È bene precisare che gli internati della casa lavoro di Isili sono persone che già hanno scontato la pena e che a causa di una legge del 1930 del codice Rocco sono costretti a stare in carcere per via delle misure di sicurezza dettate dalla pericolosità sociale. Sono davvero pericolosi?”. È l’interrogativo che si pone la garante per i detenuti della Sardegna, Irene Testa in merito a quanto sta accadendo nella colona penale di Isili. “Nelle visite che ho effettuato ho visto in realtà persone fragili con problemi di dipendenza, con disagi psichiatrici, senza fissa dimora - sottolinea -. Persone che in alcuni casi non hanno nessuno fuori disposto ad accoglierli o famiglie che non riescono a farsene carico. Sono gli ultimi degli ultimi, esseri umani costretti a scontare una doppia pena. Confinati a tre chilometri dal blocco centrale della colonia. Isolati e con scarsa assistenza sanitaria e psichiatrica, non curati, nascosti al mondo e privati della dignità umana. Alcuni si trovano lì anche a causa dell’insufficienza dei servizi territoriali di accoglienza. Se non fosse per il lavoro dei direttori, degli agenti e del magistrato di sorveglianza di competenza territoriale che già fanno sforzi sovrumani potremmo tranquillamente affermare che a Isili 30 persone vivono in un girone infernale”. La garante si interroga sulla situazione e sul fato che ancora nessuno è intervenuto. “Mi chiedo come sia possibile che il dipartimento di amministrazione penitenziaria continui a mandare persone alla colonia senza rendersi conto di quanto accade - evidenzia Irene Testa -. Sono del parere che quelle persone non dovrebbero stare alla colonia ma se si sceglie di lasciarle lì, allora il dipartimento di amministrazione penitenziaria dovrà con urgenza adottare misure per risolvere la situazione di sovraffollamento e bloccare i nuovi arrivi”. E poi elenca gli interventi da eseguire: “Potenziare l’organico del personale penitenziario - precisa. Garantire l’accesso tempestivo alle cure mediche per tutti gli internati che ne necessitano. Chiedo al Dap, al Ministro Nordio di intervenire con estrema urgenza poiché la situazione richiede un intervento immediato per ripristinare condizioni di detenzione conformi ai principi costituzionali e al rispetto della dignità umana”. Palermo. I disperati di Ballarò, i dannati del crack di Valentina Petrini La Stampa, 21 ottobre 2024 Una dose di crack costa 10 euro. Le prime fumate si regalano. Per una ragione precisa: far scattare la dipendenza e avere sempre nuovi clienti. Il crack non perdona. Costa poco, rende molto. Si ricava dagli scarti della cocaina che fusi con altre sostanze (bicarbonato e ammoniaca ma anche rifiuti, tipo plastica) dà vita ai cristalli. Questi si sciolgono e si fumano con pipette o bottiglie di plastica. Il crack provoca psicosi, stati paranoici, schizofrenia, aggressività, alienazione. È il nostro fentanyl. Se giri di notte per Palermo, vedi zombie trascinarsi e accasciarsi per terra. “Una città sotto scacco e nessuno fa niente, tanto meno a Roma”. Alberto ha 76 anni, ogni giorno prende il pullman da Trapani e viene a Palermo per cercare sua figlia tossicodipendente. Francesco Zavatteri, invece, suo figlio Giulio l’ha perso per sempre: aveva 19 anni, la prima dose di crack a 14. La mafia in Sicilia ha imparato a cucinare il crack dai nigeriani, lo compra dalla ‘ndrangheta, le dosi destinate alla vendita le preparano le donne. Per rendermi conto veramente di cosa sta accadendo, ho seguito per una settimana una madre, Carla, che da un anno ha perso sua figlia. Con lei ho vagato per le vie dello spaccio. “Occhi aperti, stiamo entrando a Ballarò. Qui mia figlia potrebbe spuntare”. Ci muoviamo dopo le 23. Guida Carla, io le sto accanto. Ballarò è il centro storico di Palermo, sede del mercato più antico e grande della città. “Mia figlia ha iniziato a fumare crack sette anni fa. All’inizio per giorni interi non dormiva. Usava l’eroina per spegnersi”. Ci fingiamo volontari, distribuiamo cibo e acqua, non facciamo domande. Con noi c’è anche Nino Rocca, un insegnante in pensione diventato un punto di riferimento per tanti genitori. Nino infatti è anche amministratore di sostegno di 8 dei loro figli, compresa la figlia di Carla. Su richiesta delle famiglie e coordinato dal giudice, Nino cerca di individuare per ciascuno di loro percorsi di recupero in comunità fuori regione. Sono figlie e figli che preferiscono, quando sono con l’acqua alla gola, telefonare a Nino piuttosto che a mamma e papà. Nino entra in un portone. Io lo seguo. Carla resta in macchina. Le porte ai piani sono chiuse con i lucchetti: “Perché così gli spacciatori trattengono dentro le ragazze che si prostituiscono in cambio della droga”. Anche la figlia di Carla si prostituisce. Lei lo sa. Bussiamo ad una porta. Ci apre un uomo, è nudo, quando sente chi cerchiamo, urla: “Non c’è più, andatevene”. Davanti al mercato passa una volante della polizia. Gli spacciatori si nascondono. Carla fa una telefonata. “Mia figlia l’hai vista?”, “L’ho vista davanti alla stazione in macchina con uno”. Chi hai chiamato, chiedo a Carla. “Un depravato sessantenne che va a letto con le ragazzine tossicodipendenti, regala loro il crack e poi se le porta a casa o le fa dormire nella sua macchina. L’ha fatto pure con mia figlia”. E tu perché lo tolleri? “Perché mi dà informazioni”. La prima volta che la figlia di Carla è sparita, questa madre l’ha ritrovata da sola dopo quattro mesi. “Mi sono finta tossicodipendente per agganciare gli spacciatori, sperando di entrare nel giro e incontrarla”. Una volta è finita a casa di uno che la voleva violentare, si è presa una coltellata sulla spalla ma è riuscita a scappare. Un’altra volta l’hanno condotta allo Sperone, periferia di Palermo. La volevano chiudere in un garage con un cliente. “Mi sono buttata a terra. Ho finto di stare male, in astinenza. Si sono spaventati e quando si sono allontanati sono scappata”. Correva Carla, correva veloce. “Mi sono detta: ora muoio”. Invece ce l’ha fatta. All’alba, è persino tornata indietro. “Il mio sesto senso mi diceva che mia figlia era dentro uno di quei garage”. E infatti. L’ha trovata svenuta su un materasso sudicio. Mezza nuda. “Me la sono caricata in spalla. Non so nemmeno come e l’ho portata via”. La ragazza non si è mai ripresa. “È vittima di sfruttamento della prostituzione. L’ho denunciato. Deve essere ricoverata con la forza. Altrimenti si ammazzerà o la ammazzeranno”. Quando le volanti della polizia se ne vanno, gli spacciatori escono di nuovo. Nascosti dietro le bancarelle, gli zombie: giovanissimi buttati a terra, con la bocca aperta, gli occhi chiusi, incapaci di reggersi in piedi. C’è persino una ragazza piegata in un cassone, circondata da uomini che la guardano mentre si buca. La figlia di Carla invece non c’è: “È andata via da poco”, ci dice un ragazzo del Ghana: “Sei sua sorella? La chiamo, aspetta”. Lei però non arriva. Il giorno dopo riceviamo un’altra segnalazione: c’è un asilo abbandonato in via Carmelo Lazzaro, accanto all’Ospedale Civico di Palermo, forse è lì. Scavalchiamo, entriamo. Dentro cumuli di immondizia, vestiti e bottiglie di plastica, una ventina di paia di scarpe messe in ordine in fila. Tende davanti alle porte di ex aule trasformate in alloggi di fortuna. C’è puzza di bruciato: “Perché la notte fumano, si addormentano e talvolta prende tutto fuoco”, spiega Nino. Lo sanno tutti che dentro l’ex asilo vengono a drogarsi e prostituirsi, ma nonostante le denunce dei cittadini, non è cambiato niente. L’ultima segnalazione che arriva è quella giusta. “La ragazza sta male, andate a prenderla”. Davanti al parco d’Orléans ci sono dei blocchi di cemento, ricoperti da plexiglass, profondi due metri. Siamo davanti alla sede della Presidenza della Regione Sicilia. Tra cumuli di immondizia, vecchi vestiti, bottiglie di plastica e persino un gattino, finalmente la troviamo. È magrissima, fa paura. Nino informa i servizi sociali, il Comune, la polizia. “Va prelevata e ricoverata in maniera coatta”. Arrivano i vigili, la conducono al pronto soccorso. Ma dopo un’ora la doccia fredda: “Non possiamo trattenerla”. Come? Perché? E che si fa? Nel cuore della notte, senza nemmeno aspettare la fine degli accertamenti, lei scappa. E ora è di nuovo dispersa. Vado al Sert di Palermo, i servizi pubblici per le tossicodipendenze, infermieri e medici mi accolgono così: “Siamo messi male. Non abbiamo servizi di psicoterapia familiare. Solo una psicologa che viene due volte a settimana ma sta andando in pensione. Non c’è un servizio specifico per i genitori, per esempio. Solo a pagamento. Da un mese lavoriamo senza contenitori di urine e le analisi le dobbiamo fare a tutti. Qualche volta li mandiamo via e altre volte usiamo come contenitori delle urine i bicchieri di plastica per bere”. Da un anno in Sicilia c’è una comunità di genitori, attivisti e volontari che ha deciso di non restare in silenzio. Sono nate associazioni, La casa di Giulio per esempio, in memoria di Giulio Zavatteri. Denunce e proteste sotto i palazzi del potere per ora hanno ottenuto solo uno stanziamento di 11 milioni di euro per l’emergenza crack, briciole che non sposteranno molto. “Stiamo sottovalutando la gravità della situazione. Roma non ne parliamo. Il governo centrale non fa niente”. Servono investimenti in sanità pubblica, psicoterapia, strutture per disintossicarsi, di primo e secondo livello e a doppia diagnosi, cioè comunità in cui si cura la tossicodipendenza ma anche il disagio mentale. Serve far fuori la mafia e i suoi business. Ma in fondo: le vittime saranno anche giovanissime, i nostri figli, ma sono pur sempre solo tossici. Possiamo farne a meno. Verona. Aggredisce i poliziotti con un coltello: ucciso da un agente con un colpo di pistola di Eleonora Camilli La Stampa, 21 ottobre 2024 Salvini: “Non ci mancherà”. La vittima aveva 26 anni ed era un cittadino del Mali. La Lega organizzerà un sit-in di protesta: “È l’ennesimo episodio, allarme sicurezza nel quartiere”. Un uomo di nazionalità straniera, un cittadino del Mali di 26 anni, è stato ucciso con un colpo di pistola da un poliziotto dopo che, nella stazione di Porta Nuova, si era scagliato contro gli agenti armato di un coltello. A quanto si apprende l’uomo avrebbe dapprima aggredito dei vigili urbani che, intorno alle 5 di questa mattina, stavano constatando un incidente automobilistico. Successivamente avrebbe raggiunto la stazione ferroviaria di Porta Nuova, dove in stato di alterazione ha danneggiato dapprima la biglietteria, poi la tabaccheria e infine anche alcune vetture in sosta nel parcheggio dello scalo. Dopo essersi dileguato, l’uomo si è ripresentato intorno alle 7 alla stazione ferroviaria e qui è stato intercettato da una pattuglia di polizia che ha tentato di fermarlo per identificarlo. A quel punto l’uomo avrebbe aggredito gli agenti armato di coltello e uno dei poliziotti, dopo aver sparato alcuni colpi, ha ferito mortalmente l’aggressore. Lo stesso poliziotto avrebbe disperatamente tentato di rianimare l’uomo ferito, che però è morto pochi minuti dopo. “C’è una differenza sostanziale tra l’azione del collega della Polfer di Verona e il 26enne del Mali morto questa mattina. Il collega si è semplicemente difeso perché rischiava di beccarsi qualche coltellata, il 26enne invece voleva uccidere e avrebbe potuto colpire chiunque, visto che ha devastato le vetrine all’interno della stazione” commenta Fabio Conestà, segretario generale del Movimento Sindacale di Polizia. “Sulla vicenda indaga ora la magistratura e non ci sorprenderebbe affatto se il collega venisse iscritto nel registro degli indagati per “atto dovuto”. Oramai siamo abituati in quegli attimi concitati a scegliere se finire a processo o al campo Santo. Abbiamo fiducia nella magistratura - dice Conestà - ma ci auguriamo che la nostra Amministrazione supporti il collega e che non parta la solita gogna mediatica. Servono protocolli operativi idonei e non ci stancheremo mai di dirlo. Non possiamo pagarci l’avvocato e i periti solo perché abbiamo deciso di tornare vivi dalle nostre famiglie”. “Adesso basta parlare di percezione, a Verona esiste un problema sicurezza. E l’episodio di Porta Nuova, avviene nel bel mezzo del processo contro chi rischia sei anni per aver fermato l’immigrazione illegale - commenta Paolo Borchia, capo delegazione della Lega al Parlamento Europeo, segretario provinciale della Lega di Verona -. Mi auguro che nessuno si sogni di inscenare processi sommari contro le Forze dell’ordine, che stanno facendo miracoli, in tutta Italia, per tamponare gli effetti di anni di scelte suicide sulle politiche migratorie. A Verona serve una cultura della sicurezza diversa, impensabile possano continuare a esistere zone franche”. “Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere”. Matteo Salvini commenta così via social quanto accaduto a Verona questa mattina. Da quanto si è appreso, l’uomo in un primo tempo ha aggredito gli agenti della polizia locale intervenuti per i rilievi di un incidente automobilistico. In seguito si è diretto verso la stazione ferroviaria dove, in preda ad uno stato di alterazione (probabilmente dovuto all’assunzione di sostanza alcoliche o stupefacenti) ha preso a calci la biglietteria danneggiandola, in seguito alcune auto parcheggiate ed anche la vetrina di una tabacchiera. Due ore più tardi, verso le 7 di questa mattina, l’uomo è tornato davanti alla stazione dove una pattuglia della Polizia di Stato ha cercato di fermarlo per procedere alla sua identificazione. Ha reagito con violenza ed ha aggredito i poliziotti brandendo un coltello. Uno degli agenti ha sparato alcuni colpi a scopo intimidatorio e poi ha colpito l’aggressore, che è rimasto ucciso. Altri due episodi negli ultimi giorni - L’episodio accaduto questa mattina alla stazione di Verona, con la morte di un giovane straniero che si era scagliato con un coltello contro gli agenti, è solo l’ultima di una serie di violenza che si sono registrate a Porta Nuova negli ultimi giorni. Sabato scorso agenti della Polfer erano stati aggrediti da un algerino 36enne, che si era rifiutato di scendere da un treno ed era stato arrestato dopo aver scagliato un basamento di pietra contro i poliziotti. Il giorno prima era finito in manette un cittadino marocchino di 39 anni che si aggirava nello scalo ferroviario brandendo una spranga di ferro con la quale ha minacciato i ferrovieri e poi ha cercato di colpire gli agenti della Polizia Ferroviaria e i militari dell’Esercito Italiano impiegati nel servizio “Stazioni Sicure”. “Ennesimo episodio di criminalità alla stazione di Porta Nuova, dove uno straniero armato dà in escandescenza e aggredisce i poliziotti, con un epilogo tragico. Violenza, rapine, scippi, sono all’ordine del giorno nella zona della stazione di Verona” commenta il deputato Alberto Stefani, segretario della Liga Veneta. La Lega organizzerà un sit-in di protesta “per sensibilizzare l’amministrazione comunale sull’allarme sicurezza nel quartiere, ascoltando la voce dei veronesi e dimostrando anche tutta la solidarietà agli agenti che quotidianamente sono al lavoro per contrastare la criminalità”. Milano. Poliziotto sotto accusa: “Pistola alla testa, calci e insulti razzisti a un minorenne” di Andrea Gianni Il Giorno, 21 ottobre 2024 Il fatto nel Centro d’accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Reazione violenta dopo che il ragazzo, trovato in possesso di un coltello, si è rifiutato di firmare il verbale. Imputati anche tre agenti per omessa denuncia. La difesa: “Quel giovane girava armato in strada di notte”. L’episodio al centro del processo è avvenuto nel centro di prima accoglienza Casa Testi, la struttura in viale Fulvio Testi a Milano che ospita minori stranieri non accompagnati. Il 5 aprile del 2023 un giovane, originario dell’Egitto e all’epoca 16enne, sarebbe stato minacciato e colpito alla testa con il calcio della pistola d’ordinanza da parte di uno dei poliziotti che quella notte lo avevano bloccato per un controllo sulle strade di Milano, trovandolo in possesso di “una pinza multifunzionale contenente fra i vari utensili una lama di 8 centimetri”. Una reazione violenta scattata dopo che il ragazzo si era rifiutato di firmare il verbale. Per questo episodio sono stati rinviati a giudizio l’agente, accusato di minaccia grave, e altri tre colleghi che avrebbe assistito alla scena e sono imputati per omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. Il processo si è aperto davanti alla settima sezione penale del Tribunale di Milano, e tra i testimoni sono stati citati il responsabile della struttura, un medico che all’epoca collaborava con il centro di accoglienza e due custodi notturni. Presente all’udienza anche il ragazzo (persona offesa), assistito dall’avvocato Floriana Maio, che attualmente è detenuto nel carcere di Monza per reati non legati a questo procedimento. L’episodio è ricostruito nel decreto con cui la pm Cristiana Roveda ha disposto la citazione diretta a giudizio dei quattro agenti, difesi dall’avvocato Piero Porciani. Il giovane egiziano era stato bloccato a Milano e riaccompagnato a Casa Testi, per formalizzare successivamente la denuncia a piede libero per porto abusivo di armi. Nel centro di accoglienza si sarebbe rifiutato di firmare il verbale e avrebbe iniziato a urlare in arabo contro i poliziotti, manifestando un “atteggiamento aggressivo e non collaborativo”. A quel punto uno degli agenti presenti lo avrebbe ammanettato e fatto sedere a terra, “puntandogli la pistola d’ordinanza alla tempia, colpendolo con calci sulle gambe e con la pistola sulla testa e proferendo frasi intimidatorie e insulti a sfondo razziale”. Per questo deve rispondere dell’accusa di minaccia, con le aggravanti contestate dalla Procura dell’uso dell’arma, della “minorata difesa” del ragazzo e “dell’abuso dei poteri e in violazione dei doveri inerenti alla funzione di pubblico ufficiale”. I tre colleghi, invece, sono sotto processo per non aver denunciato l’episodio, con l’aggravante “di aver commesso il fatto rivestendo la qualifica di agente di polizia giudiziaria”. Nelle prossime udienze dovrebbero essere ascoltati anche loro in aula, e potranno rispondere alle domande del giudice. “Sembra incredibile - spiega l’avvocato Porciani - che quattro poliziotti siano processati sulla base della testimonianza di un ragazzo che gira di notte per la nostra città armato di coltello”. Se abbiamo smesso di restare umani di Elvira Serra Corriere della Sera, 21 ottobre 2024 Non c’è nessun filo a unire storie come il ladro di Gratta e vinci ucciso a Milano e il suicidio del ragazzo di 15anni a Senigallia, esasperato dai bulli, se non la domanda che le collega: abbiamo smesso di restare umani? “La gentilezza cambierà il mondo”. È lo slogan dell’undicesima Assemblea del Movimento Mondiale della Gentilezza, che si è svolta a Palermo dal 17 al 20 ottobre e che ha premiato il ministro della Giustizia Carlo Nordio come ambasciatore della gentilezza nel mondo. Il Guardasigilli, nel ricevere la benemerenza, ha commentato che “la kindness, ossia la gentilezza, dovrebbe connotare ciascuno di noi: vedere nell’altro un proprio fratello, essere coscienti dei nostri limiti, fissati dall’imperfezione del nostro intelletto. Da questa consapevolezza deve derivare la modestia, e da essa, appunto, la gentilezza”. Parole perfette, e drammaticamente stonate con le cronache dell’ultima settimana, segnate non soltanto dai femminicidi, ai quali quasi sembriamo assuefatti come alle allerte meteo e alle alluvioni che periodicamente erodono un altro pezzo d’Italia e lasciano senza casa decine di famiglie. Ci sono però due storie che solo a leggerle mi hanno procurato una inquietudine nuova. Una è quella del ladro di “Gratta e vinci” ucciso a forbiciate dal nipote della titolare di un bar di Milano mentre tentava di scappare con il suo triste bottino. L’altra è quella del povero Leo, il quindicenne di Senigallia che si è tolto la vita sparandosi un colpo con la pistola di ordinanza del padre vigile, esasperato dalle angherie dei compagni di scuola. I due casi non potrebbero essere più diversi. La gip, che pure ha scarcerato zio e nipote accusati di omicidio volontario in concorso, ha scritto “che vi è stata la perdita totale dell’autocontrollo in una dimensione del farsi giustizia da sé non ammissibile nel nostro ordinamento”. Poiché il bar quest’anno era “stato oggetto di 3 o 4 azioni predatorie”, in quest’ottica si inserisce “la manifestazione di rabbia e frustrazione”: “I due indagati non hanno saputo gestire questa emozione negativa con la necessaria lucidità e razionalità”. Nemmeno Leonardo è riuscito a gestire la sua frustrazione, verso un mondo di coetanei ai quali tendeva inutilmente la mano, e di adulti che non sono riusciti a intercettare il suo grido di aiuto (la procura valuterà se ci sono responsabilità da parte degli uni e degli altri). Leo la sua rabbia l’ha rivolta su di sé, nell’unico modo che avrebbe avuto un effetto sicuro. Non c’è nessun filo a unire queste storie, se non la domanda che le collega: abbiamo smesso di restare umani? Migranti. Oggi il decreto sui Paesi sicuri per stoppare le sentenze di Federico Capurso e Francesco Olivo La Stampa, 21 ottobre 2024 Meloni: “I giudici contro di me”. La premier rilancia la mail di un magistrato che la considera “più pericolosa di Berlusconi”. Schlein: “Vittimismo quotidiano e disastri a oltranza”. Giorgia Meloni fatica a uscire dall’angolo dopo lo stop imposto dai giudici del Tribunale di Roma ai primi trasferimenti di migranti in Albania. La difficoltà della premier si misura sulla ferocia con cui si scaglia sui giudici, nel tentativo di scaricare le responsabilità della figuraccia. “Sono contro di me”, sembra voler gridare Meloni. D’altronde la strada per aggirare le future sentenze (basate su un pronunciamento della Corte di Giustizia europea) con un decreto da approvare oggi in Consiglio dei ministri, si sta rivelando non priva di ostacoli. E a incupire ulteriormente gli animi arriva anche lo schiaffo dei vescovi italiani: “I migranti non sono pacchi da sbattere da una parte all’altra - ammonisce il vicepresidente della Cei, monsignor Francesco Savino -. Chiediamo il rispetto delle persone”. Sui centri costruiti in Albania, poi, “dispiace per quei soldi buttati via, mentre si chiedono sacrifici agli italiani”. Il centrodestra sembra voler alimentare a tutti i costi un clima di scontro con i giudici. Arriva persino a utilizzare una mail pubblicata da Il Tempo, in cui il sostituto procuratore generale della Cassazione, Marco Patarnello, si rivolge ai suoi colleghi con toni critici nei confronti delle riforme che ha in cantiere il centrodestra. La premier la pubblica, con diversi tagli, sui propri canali social: “Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi - riconosce Patarnello - non si muove per interessi personali, ma per visioni politiche, e questo la rende molto più forte e anche molto più pericolosa la sua azione”. Poi, Meloni ne taglia un’altra e la incolla: “Dobbiamo porre rimedio”. Messa così, sembra quasi che i giudici si stiano armando contro l’esecutivo. Basta leggere il testo integrale per capire, però, che le cose non stanno così. Il magistrato riconosce la forza di Meloni e la pericolosità - dal suo punto di vista - delle riforme che ha in mente il governo, ma chiede ai colleghi di “porre rimedio” alle “divisioni interne alla magistratura”, sottolineando che “non dobbiamo fare opposizione politica”. Poi, in conclusione: “Non possiamo fare molto, ma essere uniti, tenere la schiena dritta e parlare con chiarezza, questo sì”. L’ordine di attaccare su questo punto i giudici era arrivato già sabato sera, prima ancora che Il Tempo andasse in edicola. Il dirigente di FdI, Giovanni Donzelli, rilancia: “Le toghe rosse non fermeranno le nostre riforme”. Il capogruppo di Forza Italia in Senato Maurizio Gasparri annuncia addirittura un’interrogazione parlamentare al Guardasigilli. Per Elly Schlein, segretaria del Pd, quella della premier è la dose di “vittimismo quotidiano e disastri a oltranza”, la prevedibile offensiva di chi “si è chiusa nei Palazzi da due anni e parla con le persone solo via social”. Ora c’è un problema giuridico da risolvere. I tecnici di Palazzo Chigi e del Viminale lavoreranno fino all’ultimo minuto utile per mettere a punto il decreto. Il Consiglio dei ministri è stato fissato per le 18 di oggi, un orario che consente un supplemento di riflessione. L’obiettivo è quello di dare cornice giuridica al protocollo tra Italia e Albania per evitare che i centri restino vuoti, a causa della sentenza del Tribunale di Roma. Dei due pilastri su cui si baserà il provvedimento solo uno appare certo: la lista dei Paesi sicuri dove rimpatriare gli stranieri senza diritto d’asilo sarà inserita all’interno di una legge per metterla al riparo (anche se non completamente) dalla interpretazione dei giudici. I consiglieri giuridici dell’esecutivo, invece, mostrano dei dubbi sull’altro capitolo del decreto che affronta la questione dei tribunali che non convalidano il trattenimento dei migranti, introducendo un secondo grado per fare i ricorsi contro le decisioni dei giudici che finirebbero in appello e non, come avviene oggi, in Cassazione. Un intervento che verrà letto con grande attenzione dagli uffici del Quirinale. Il governo si muove anche sulle riforme. Questa settimana vedrà i primi passi concreti della separazione delle carriere dei magistrati: mercoledì scade il termine per gli emendamenti in commissione Affari costituzionali e Forza Italia proverà a portare il disegno di legge in Aula quanto prima. La speranza dei post berlusconiani è di arrivare a una prima approvazione entro la fine dell’anno. Un obiettivo giudicato impossibile da Fratelli d’Italia, vista la concomitanza con la legge di bilancio. In ogni caso, il segnale politico c’è: a Palazzo Chigi si è deciso di dare la precedenza alla separazione delle carriere, rispetto al premierato, l’altra riforma costituzionale del governo Meloni, il cui testo andrà modificato, rispetto a quello votato dal Senato a luglio. “Non è una vendetta”, si ripete nella maggioranza. Ma verso le proteste della magistratura ci sarà, questo è certo, meno sensibilità Migranti: l’equilibrio incerto dei poteri di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 21 ottobre 2024 Saggezza civile vorrebbe una riflessione più accurata della posta in gioco e di quanto certe uscite violente, certi strappi minacciati, facciano probabilmente del bene alla propria parte elettorale e sicuramente male al Paese. Ancora una volta sulla pelle dei migranti, e come sempre a loro insaputa non avendo né diritti riconosciuti né udibile voce, si combatte un’aspra battaglia della quale non si sentiva il bisogno. Il fronte principale è in apparenza l’Albania, con 12 “maschi maggiorenni non vulnerabili” prima spediti laggiù e poi subito richiamati indietro dal tribunale di Roma. Il governo, che aveva pensato di dare così un segno tangibile della sua incrollabile volontà di fermare la marea inarrestabile di chi si ostina a sbarcare, non ha gradito, eufemismo, questo stop e programma già per oggi un Consiglio dei ministri urgente. Al centro della questione, c’è il tema di quali siano i “Paesi sicuri” dove rispedire senza più problemi chi ha scelto inopinatamente di fuggirne. La Corte di Giustizia europea ne ha appena ridefinito i criteri (Egitto e Bangladesh, da cui provenivano i 12 sbarcati a Shengjin, non rientrano nel novero delle nazioni a diritti rispettati, come ben sapeva chi li ha imbarcati). Questi criteri sono però variamente interpretabili e come tali saranno ridefiniti dal governo Meloni con un decreto che estenderà d’arbitrio la lista dei “sicuri”, con lo scopo dichiarato di meglio blindare i Paesi d’approdo come appunto il nostro. E l’Europa, di cui siamo parte? Aspetta guardinga la mossa italiana, non gradendo soluzioni non concordate. Ma essendo la questione molto spinosa anche per Bruxelles, si troverà un qualche compromesso, magari più avanti, a primavera, rivedendo l’ultima e recentissima sentenza della Corte di Lussemburgo in materia. D’altronde, l’aria che tira va proprio in quella direzione: nell’ultimo Consiglio Ue, i leader dei 27 hanno condiviso una stretta sui rimpatri e un favore diffuso per “soluzioni innovative”, formula tra cui rientrano i centri al di fuori del territorio dell’Unione. Ma la verità è che il molto costoso (800 milioni di euro), e al momento fallimentare, caos albanese sta diventando il pretesto per una ridefinizione dei confini non tanto tra Italia e resto del mondo, quanto all’interno dei poteri che garantiscono la nostra democrazia. Alcuni vertici dell’Esecutivo sono partiti lancia in resta contro la Magistratura, cioè il potere giudiziario, con toni e soprattutto argomenti che destano qualche preoccupazione. Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: “È molto difficile dare risposte alla Nazione quando si ha l’opposizione di parte delle Istituzioni”. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa: “Il verdetto del giudice di Roma mi stupisce ma non mi sorprende. Penso che vada stabilita in modo chiaro la perimetrazione delle rispettive funzioni”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “La magistratura esonda, attribuendosi prerogative che non può avere, e allora la politica deve intervenire”. Il ministro dei Trasporti e vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini, in un’intervista al Tg1 delle 20, cioè il programma informativo più seguito di tutto il palinsesto: “C’è qualche giudice che pensa di essere in un centro sociale più che in tribunale. Mi sembra evidente che c’è una parte della magistratura che fa pesantemente politica di sinistra”. Per concludere con un affondo piuttosto brutale: “Se qualcuno di questi 12 stupra, rapina, uccide qualcuno, chi paga le conseguenze? Il magistrato che li ha riportati in Italia?” La frase, incommentabile, è l’ideale prolungamento di quanto detto dall’avvocato difensore di Salvini, Giulia Bongiorno, nel processo di Palermo istruito contro il suo assistito per la vicenda Open Arms: “Quella nave bighellonava in mezzo al mare”. Per 19 giorni, 147 profughi, praticamente una crociera. E comunque a sostenere il leader leghista, per cui la procura ha chiesto sei anni di carcere per sequestro di persone, c’erano quattro ministri in carica (Giorgetti, Valditara, Calderoli, Locatelli) e una folta schiera, specie sui social. Processo ad alto rischio, in ogni senso, anche per chi l’ha istruito, cioè i tre magistrati della procura di Palermo, adesso sotto scorta per insulti e minacce. Delle tante frasi altamente infiammabili ascoltate in questi giorni, la più ambigua, e insieme la più carica di sviluppi per la tenuta dell’architettura democratica di questo Paese, è quella che sottende tutte quelle fin qui riportate: “E comunque, alla fine, è il popolo sovrano che decide”. E siccome il popolo sovrano ha votato in maggioranza per chi ha giurato di tenere alla larga dall’Italia il popolo stracciato e indesiderato di “barchini e barconi”, la magistratura deve prenderne atto. Se la legge italiana, quelle europee e internazionali, non sono allineate al nuovo volere, si sta già lavorando per cambiare norme e codici. Intanto i giudici si adeguino per tempo, non ostacolino chi ha conquistato legittimamente il potere e quindi ha il dovere di mantenere le promesse fatte alla Nazione. La forzatura sulla questione albanese, in palese dispetto della normativa europea, potrebbe essere solo uno degli esperimenti all’interno di un disegno più grande. Disegno che sembra avere come fine una riconfigurazione degli equilibri su cui è nata la Patria democratica: invece di governare per tutti, come Costituzione vorrebbe, chi vince le lezioni prende tutto e redistribuisce gli altri poteri, Legislativo e Giudiziario, rimodellandoli in forma ancillare, ausiliaria, del potere primo, quello Esecutivo. Quanto al Presidente della Repubblica, ci penserebbe il premierato, per ora solo annunciato, a sminuirne il ruolo di garante, oltre che della Legge, anche dell’autonomia dei tre pilastri fondamentali del nostro ordinamento. Saggezza civile vorrebbe una riflessione più accurata della posta in gioco e di quanto certe uscite violente, certi strappi minacciati, facciano probabilmente del bene alla propria parte elettorale e sicuramente del male a un Paese che, in un momento complicato e con gli occhi dell’Europa addosso, avrebbe un disperato bisogno di altro. Per esempio, come scriveva ieri nell’editoriale Ferruccio de Bortoli, di immigrati nelle aziende, che gli imprenditori vorrebbero salvo poi sostenere che, certo, una società multietnica non è desiderabile. Migranti. Gli italiani contro i Centri in Albania: “Costosi e inutili” di Alessandra Ghisleri La Stampa, 21 ottobre 2024 L’immigrazione ha ripreso posizioni nel dibattito politico nazionale: è al sesto posto tra le priorità. L’opinione pubblica è mossa più dal senso di appartenenza ai partiti che dalle singole convinzioni. I Centri di accoglienza per migranti in Albania hanno suscitato divisioni nell’opinione pubblica fin dal loro annuncio. In un sondaggio di Euromedia Research rilevato all’inizio della scorsa settimana il 33,8% reputa molto dispendiosa la costruzione di questi centri al di là dell’Adriatico - in terra straniera - il 19,9% sbagliata e inutile. Un cittadino su 4 (23,2%) invece la considera necessaria e imprescindibile e un 13,3% pur guardandola con interesse crede che sia necessario rivedere alcune situazioni. In sintesi, il 43,1% la commenta in maniera molto severa, mentre il 36,5% positivamente. La gestione degli arrivi ha da sempre messo sotto pressione i servizi di accoglienza del nostro Paese e le sue risorse economiche, oltre ad aver scosso una buona parte della cittadinanza associando l’immigrazione con i problemi di sicurezza. Con la pandemia gli italiani avevano abbandonato il tema nel ranking delle loro priorità, lasciando spazio ad argomenti strettamente più connessi alla vita delle famiglie italiane come la salute e l’aumento del costo della vita a partire dall’alimentare, passando all’energia, alla casa, ai temi connessi al lavoro che rimangono comunque ancora oggi, sempre in vetta alla classifica. Oggi la ragione dell’immigrazione ha ripreso una posizione centrale nel dibattito pubblico nazionale e internazionale. Accadimenti geopolitici che hanno scosso il pianeta come Siria, Afghanistan e conflitti in diverse parti dell’Africa hanno generato flussi significativi di migranti verso l’Italia e l’Europa. Anche le scelte politiche dei diversi governi nazionali in Europa, con modifiche alle leggi sull’immigrazione e il maggiore controllo delle frontiere, hanno riacceso il dibattito. Con l’avvento del governo di Giorgia Meloni, l’uso strumentale come leva politica da parte delle opposizioni e in particolare del Partito Democratico, ha fatto sì che il tema immigrazione rientrasse ai primi posti - oggi al 6°- nell’agenda pubblica e nelle priorità degli italiani, dopo le tasse -che “soffocano” aziende e famiglie- e il cambiamento climatico. Si direbbe che gli italiani seguono passo passo l’andamento della manovra finanziaria… o forse viceversa?!? Sui centri di accoglienza in Albania le posizioni politiche dei diversi partiti influenzano fortemente l’opinione pubblica che, mossa più dal senso di appartenenza che dalla convinzione sull’opportunità di queste strutture italiane dislocate al di fuori dei nostri confini, si divide con i partiti di maggioranza che sostengono fortemente i risultati significativi dell’operazione con la media del 65,0%, a confronto con le opposizioni che si schierano -e forse confidano- sul fallimento con la media del 72,0%. In questo contesto la sentenza del Tribunale di Roma, che ha ritenuto illegittimo il trattenimento dei 12 migranti nei centri di accoglienza in Albania, ha alzato ulteriormente la temperatura del dibattito politico portando all’aumento dell’attenzione mediatica sullo scontro tra i poteri dello Stato e sulla definizione della ragione tra chi deve avere l’ultima parola tra governo nazionale e magistratura. Infatti, come riportato nella Gazzetta ufficiale del 7 maggio 2024, Egitto e Bangladesh, Paesi di origine dei migranti trasferiti, sono considerati sicuri dall’Italia; mentre per le leggi europee a cui si sono rifatti i giudici no. Le opposizioni, appoggiandosi - e qualcuno insinua anticipando questo verdetto- si appellano alle questioni di legittimità delle procedure di rimpatrio, ai diritti umani dei migranti e alle responsabilità dello Stato italiano sotto la guida del centro destra, mentre gli elettori dei partiti di maggioranza leggono questo fatto come l’ennesimo impedimento di una magistratura politicizzata che cerca in ogni modo di intralciare e burocratizzare i percorsi e l’azione del governo. Certo le parole espresse in una mail scambiata da un esponente di Magistratura Democratica e i colleghi dell’Anm all’indomani dello stop del tribunale di Roma, rivelate da uno scoop de Il Tempo sulla premier Giorgia Meloni, non aiutano a sedare lo scontro, ma al contrario, nutrono il ragionevole dubbio esponendo il motivo per cui parte della magistratura farebbe di tutto per ostacolare l’azione di governo e alzare il tifo dei sostenitori della maggioranza sbilanciando anche i sentimenti e le opinioni sulla giustizia ad orologeria. L’immigrazione è sempre stato un argomento chiave per il centro destra, in quanto tocca questioni fondamentali relative all’identità, alla sicurezza, all’economia e alla sovranità nazionale, permettendo ai partiti di posizionarsi come i guardiani dei valori e degli interessi percepiti dalla società. Sulla questione i partiti di centro sinistra, che in generale sostengono un approccio più inclusivo e umanitario, si trovano invece a dover affrontare la sfida di bilanciare le loro posizioni - con molte importanti sfumature da partito a partito - con le pressioni della società e delle forze politiche più conservatrici e per questo promuovono diverse iniziative che non li mostrano compatti al loro elettorato. Per affrontare l’argomento appaiono più focalizzati ad incoraggiare politiche di sviluppo e cooperazione per combattere conflitti e ingiustizie nei Paesi di origine dei migranti, sostenendo un’accoglienza più “aperta”. Queste differenze portano spesso a dibattiti intensi e polarizzati nell’opinione pubblica che si divide tra tifoserie di opposte fazioni con un atteggiamento che tende più al fanatico che alla comprensione. Mentre ancora oggi 1 italiano su 2 non esprime il suo voto politico. La sentenza europea che ha causato il rilascio dei migranti in Albania di Luca Sofri ilpost.it, 21 ottobre 2024 Riguarda il caso di un cittadino moldavo e non c’entra con l’Italia, ma spiega come si valuta se un richiedente asilo proviene o meno da un “paese sicuro”. Venerdì il tribunale di Roma non ha convalidato il decreto di trattenimento dei 12 migranti che si trovavano in Albania nei discussi centri per richiedenti asilo costruiti lì dall’Italia. In queste ore il governo ha attaccato con toni molto duri il tribunale, accusandolo di avere preso una decisione di natura politica. Anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto che a suo dire i giudici di Roma hanno preso una decisione che esula dalle proprie competenze. In realtà il tribunale di Roma si è semplicemente adeguato a una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il principale tribunale dell’Unione, che riguarda proprio la categoria di persone che l’Italia ha trasportato nei centri in Albania. Il governo italiano infatti ha stabilito che nei centri in Albania possano andare soltanto migranti che provengono da paesi che considera “paesi di origine sicuri”, cioè che rispettino le libertà e i diritti civili, e abbiano un ordinamento democratico (è una definizione prevista dalle attuali norme europee sulla migrazione). In sostanza: paesi da cui le persone non hanno ragioni fondate per scappare e chiedere asilo in Italia. Per questa ragione ormai da un anno e mezzo l’Italia prevede per i migranti che provengono da paesi “sicuri” una procedura accelerata di esame della loro richiesta d’asilo, che prevede un esame sommario e soprattutto la detenzione in un centro per migranti. Inoltre le persone destinate ai centri in Albania devono essere uomini in buono stato di salute, e non donne, bambini o persone fragili. Di recente il governo ha ampliato la lista dei paesi che considera sicuri, includendo l’Egitto e il Bangladesh, due paesi da cui ogni anno in Italia arrivano migliaia di richiedenti asilo. Le 12 persone in Albania venivano appunto da Egitto e Bangladesh. La sentenza della Corte di Giustizia (PDF) è stata emessa il 4 ottobre e non ha a che fare né con l’Italia, né con Egitto e Bangladesh, ma si esprimeva su richiesta della Repubblica Ceca a proposito del caso di un cittadino moldavo. L’uomo aveva fatto richiesta di asilo in Repubblica Ceca, dove la Moldavia viene considerata un “paese sicuro” a eccezione della Transnistria, la striscia di terra al confine con l’Ucraina, considerata fuori dal controllo del governo moldavo. La richiesta dell’uomo era stata respinta, ma dato che il richiedente asilo veniva appunto dalla Transnistria, il tribunale regionale di Brno aveva chiesto il parere della Corte di Giustizia europea per capire se potesse davvero considerare la Moldavia un paese “sicuro”. Un altro elemento che metteva in discussione lo status di paese sicuro per la Moldavia era il fatto che il paese avesse fatto richiesta di derogare agli obblighi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), il trattato europeo più importante nell’ambito dei diritti umani. È una clausola prevista dall’articolo 15 per i paesi in guerra o in altre situazioni di emergenza. Le questioni su cui doveva esprimersi la Corte erano tre: se un paese si può considerare sicuro solamente in alcune parti del suo territorio; se si può considerare sicuro pur avendo fatto ricorso all’articolo 15 della CEDU; e se, nel caso, gli organi giudiziari competenti debbano riesaminare la qualifica di “paese sicuro” quando si verificano una o entrambe le prime due condizioni. La Corte ha stabilito che un paese non smette di essere sicuro solamente per aver fatto ricorso all’articolo 15 della CEDU, ma è necessario che per essere sicuro lo sia in tutto il suo territorio in modo omogeneo, e per tutte le persone che ci vivono. Inoltre ha stabilito che la qualifica di paese sicuro debba essere verificata e riesaminata da un giudice al momento di ciascuna decisione, non basta solo l’adozione di una lista di paesi sicuri da parte di uno Stato. Sulla base di tutti questi pronunciamenti, il tribunale di Roma ha fatto sapere di non poter convalidare il trattenimento dei migranti proprio in base alla sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre, perché il Bangladesh e l’Egitto non sono paesi in cui il rispetto dei diritti viene garantito in tutto il territorio e verso ogni categoria di persone. In entrambi i paesi gli attivisti politici di opposizione vengono spesso perseguitati, e ci sono leggi molto severe contro chi appartiene alla comunità LGBTQ+. Il diritto dell’Unione Europea ha preminenza su quello italiano, secondo la Costituzione, e quindi il tribunale di Roma ha respinto la convalida della detenzione dei 12 migranti, sostenendo che i loro paesi di provenienza non possono essere definiti “sicuri” e il governo italiano non può esaminare le loro richieste d’asilo con la “procedura accelerata”, che appunto prevede una detenzione. Per questa ragione ha ordinato il loro rilascio. In base a questa interpretazione del tribunale di Roma l’intero progetto di “esternalizzare” in Albania la gestione dei migranti - su cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è spesa molto - rischia di essere compromesso: la stragrande maggioranza dei migranti che cercano di arrivare in Italia via mare proviene da paesi in guerra o dove le violenze sono diffuse, oppure da paesi che difficilmente secondo la sentenza della Corte di Giustizia possono essere definiti “sicuri”. Per questo le reazioni del governo alla decisione del tribunale di Roma sono state così dure. Migranti. I cani e porci di Salvini e il naufragio albanese di Andrea Malaguti La Stampa, 21 ottobre 2024 “Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare” (Norberto Bobbio).. Dunque, i migranti sono cani e porci. Dunque, non esiste un limite all’umiliazione e al disprezzo degli esseri umani. Dunque, vale tutto. I dibattiti, anche quelli più seri, decisivi e delicati, sono ridotti a grugniti etilici da osteria. Si apre la bocca e si dice la prima cosa che passa per la mente. Anzi, non la prima, la peggiore, la più volgare. Meglio se feroce, così il successo è assicurato. Deve essere per questo che il vicepresidente del Consiglio italiano, Matteo Salvini, aggiunge alla personale collana degli orrori verbali una nuova perla: “I confini sono sacri. Non si capisce perché, secondo qualche giudice, qui in Italia possono arrivare cani e porci”. Forse pensa a Viktor Orban che lo chiama “eroe” mentre si bea della sua schietta aggressività medievale, o magari ai suoi amici ultrà della curva del Milan, che loro sì saprebbero come risolvere questo irritante fastidio delle migrazioni mondiali. Loro cani e ai porci saprebbero come fermarli. A cazzotti e pistolettate. Ma chi riporta alla civiltà i furori tracimanti del Vicepresidente del Consiglio, un uomo che ormai ispira solo timori e idee lugubri? E chissà quanti di quei cani e di quei porci lavorano nelle nostre case come badanti, nei nostri ospedali come infermieri, ci rifanno le facciate delle case o ci portano il cibo a domicilio, magari anche a Lui. Cani e porci. Non esseri umani. Animali. E sai che liberazione dirlo con voce stentorea a favore di telecamere e della curva degli abbrutiti. Sai come salgono i like e il sogno ridicolo di allargare un bacino elettorale sempre più annoiato dal gran vociare del Capitano indifferente al declinante fascino dei populismi da cortile. Davvero non riesce a fare meglio di così? Davvero la Lega è diventata unicamente stereotipi e cinismo demolitorio? Davvero è capace soltanto di incendiare il confronto istituzionale con i giudici e di invocare la radiazione dal consesso umano di chi è in fuga da guerra e povertà? Ma nello sconfortante universo zoologico di queste ore, il ministro delle Infrastrutture abbandonate purtroppo non è solo. Uscito ridimensionato dalla mancata Capitol Hill di Palermo (cit. Flavia Perina) - una passerella imbarazzante per delegittimare il tribunale che lo giudica nel caso Open Arms - il leader leghista è stato oscurato, forse non a caso, dal pasticciaccio brutto dei Cpr d’oltremare, un capolavoro di superficialità gestito - resto alle metafore faunistiche - da furbastri o da somari. Provo a mettere le cose in ordine anche se, confesso, è un esercizio acrobatico di un certo livello. L’Italia manda in Albania sedici migranti che vengono dal Bangladesh e dall’Egitto, dando attuazione concreta, per la prima volta, al costosissimo (ma molto ammirato a Bruxelles) accordo tra Edy Rama e Giorgia Meloni. Esternalizzazione dei disperati, affinché il messaggio arrivi forte e chiaro: se provate a venire da noi finisce male. Deterrenza spiccia. Mezza Europa applaude - stai a vedere che si può fare davvero - l’altra metà osserva indispettita. I giudici italiani applicano una norma europea piuttosto facile da capire. Esiste una lista di Paesi considerati insicuri. Chi arriva da quei confini deve essere protetto. Egitto e Bangladesh sono in quell’elenco. Non esiste alcuna ambiguità, persino in Italia dove ogni parola è ambigua interpretabile e scivolosa. Morale: i sedici disperati tornano da noi con tanto di sentenza di accompagnamento e grandinata di polemiche. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, cresciuto nei tribunali, dice: “Se la magistratura esonda dobbiamo intervenire”. Allarme, allarme, allarme. Rilanciato da Salvini, da Meloni (“È difficile dare risposte al Paese quando si ha contro anche parte delle istituzioni”) e persino dal moderato Tajani. L’intero governo si schiera contro le Toghe. Poteri dello Stato l’un contro l’altro armati. La pubblica opinione - noi - guarda sbadigliando perché allo spettacolino indegno è abituata da quarant’anni. Ma se volessimo prendere sul serio le parole di chi ci guida dovremmo pensare di essere sull’orlo di una guerra civile. Non è così, ma alzare una spessa cortina fumogena attorno al “processo-Salvini” e sotterrare il dibattito su una manovra che non abbassa le tasse, anzi le incrementa un po’, riduce i fondi alla sanità, non tocca gli stanziamenti alla difesa e si dimentica di mettere nero su bianco i numeri reali degli interventi, è un risultato concreto che Palazzo Chigi incassa in tempo reale. Parlare dei migranti, fingersi spietati, intransigenti, duri contro i minacciosi invasori, è più facile che spiegare come ridare peso ai salari, spingere la crescita, realizzare un’Autonomia equa e costruire il presidenzialismo. Eppure, apparentemente, esisterebbe un crinale dove una prova di potenza e determinazione si trasforma in una dimostrazione di impotenza: l’applicazione pratica. In Albania si è rivelata fallimentare. Paga un prezzo la premier? Nessuno, le basta annunciare un Consiglio dei ministri per domani in cui metterà a posto le cose. Del resto se l’operazione fosse andata a buon fine avrebbe riscosso gloria e onori internazionali. Ora che non funziona ha buon gioco a dire: il governo vi vuole difendere, ma la magistratura ce lo impedisce, le toghe cattive si mettono di traverso. Una fesseria che funziona sempre. Secondo un sondaggio Ghisleri che pubblichiamo domani, prima dello scontro sui centri albanesi, il tema migranti era al ventesimo posto tra le preoccupazioni degli italiani, sostanzialmente inesistente, oggi balla tra il quinto e l’ottavo posto, agganciandosi alla questione sicurezza. Meglio alimentare odio, paure e ossessioni complottarde, che discutere di ospedali e pensioni. Meglio rilanciare l’ostilità ideologica nei confronti dei magistrati e chiamare a raccolta fedeli nel fortino, piuttosto che trovare tavoli di confronto. Verrebbe da liquidare tutto con un aggettivo usato da Marco Revelli due giorni fa, qui a Torino: disgustoso. Ci siamo visti, in via Sacchi 66, a casa di Norberto Bobbio, dove il Comune ha fatto mettere una targa ricordo a vent’anni dalla scomparsa. C’era un sacco di gente. A cominciare da suo figlio Marco. Tutti ipnotizzati dalla frase incisa sulla placca dorata. “Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare”. Quanto ci manca Bobbio. Quanto è siderale la distanza tra quella visione e lo sgangherato e confuso situazionismo dell’oggi. Revelli ha preso il microfono. Ha detto: “Via Sacchi 66 non è solo un indirizzo. È un luogo dal quale sono passati la cultura e molta Storia”. Lì intorno, in un raggio di poche centinaia di metri, hanno vissuto, assieme, Bobbio e Vittorio Foa, Franco Antonicelli e Massimo Mila, Cesare Pavese e la famiglia Einaudi. Erano gli anni che precedevano la guerra. Gli anni di Mussolini. Delle retate dell’Ovra (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo). “Era un nido di antifascisti questo quartiere”, dice Revelli. E nel Sancta Sanctorum di Bobbio, finito il disastro mondiale, sarebbero passati intellettuali e capi di Stato, economisti e studenti, industriali e gente comune, comunisti e liberali. Ognuno con le proprie domande. Ognuno certo di trovare risposte chiare. “Questo era Bobbio, un cultore della chiarezza. Della tolleranza. Della pace. Del rispetto dei diritti umani”. La chiarezza contro le cortine fumogene dei somari. Pensa che meraviglia! C’è stato un applauso infinito. Poi qualcuno ha detto: “Prendiamo i libri di Bobbio e lasciamoli davanti ai Palazzi romani. Magari imparano qualcosa”. Ne è seguita una grande risata. Ma era solo amarezza. Il metro della distanza tra le esigenze della gente comune e il balletto scomposto di poteri che si delegittimano a vicenda, minando alle fondamenta l’architrave su cui si regge qualunque organizzazione civile: la fiducia. Che non si consolida con gli insulti. Ma col pensiero critico. Dal quale - mi appoggio liberamente a Gustavo Zagrebelsky - nasce la scintilla di ogni insubordinazione sana, sale delle democrazie e nemico giurato di ogni autoritarismo. Migranti. Ministro Salvini, le racconto la mia odissea di cane di Soumaila Diawara* La Stampa, 21 ottobre 2024 Mi chiamo Soumaila Diawara e non sono né un cane né un porco, sono un rifugiato. Da dieci anni questo paese, l’Italia, è la mia casa. Qui sono stato accolto, qui sono riuscito a ricostruire la mia vita spezzata. Eppure da due giorni non faccio che pensare a quelle parole, non faccio che pensare che per qualcuno sono un “cane”. Un “porco”. Un pericoloso nemico della nazione che mi ha dato una seconda possibilità. Un delinquente qualsiasi pronto a rubare, addirittura a stuprare. Sabato ero seduto a cena con mia moglie, in una sera come tante, quando ho ascoltato dal Tg1 le affermazioni piene di disumanità del ministro Salvini. L’ho sentito paragonare me e quelli come me a degli animali, con un linguaggio volgare e aggressivo che ho trovato inaccettabile. Siamo noi i cani e i porci, noi migranti e rifugiati? Noi perseguitati, noi torturati nelle carceri libiche? Noi che abbiamo rischiato la vita in mare? Io, è vero, da animale sono stato trattato nel mio viaggio verso l’Italia, quasi tre anni attraverso l’inferno, mentre cercavo solo di salvarmi la vita. Ho lasciato il Mali nel 2012, dopo il colpo di Stato dei militari. Prima di allora la mia vita era normale, a Bamako avevo una casa e da poco avevo terminato gli studi. Ma il mio attivismo nel Sadi, il partito della Solidarietà Africana per la Democrazia e l’Indipendenza, una formazione politica di opposizione, faceva di me un nemico. Così come centinaia di migliaia di miei connazionali mi sono rifugiato prima in un paese vicino: l’Algeria. Ad Algeri avevo trovato lavoro. Ma quando è scoppiata l’epidemia di Ebola nei paesi subsahariani, tanti nel Maghreb hanno iniziato a pensare che fossimo noi neri a portare il virus. Eravamo discriminati ed era rischioso restare. Avevo ottenuto un visto di studio per la Svezia, che mi permetteva di entrare in Europa legalmente. Ma il giorno della partenza, in aeroporto senza alcuna spiegazione, non mi hanno permesso di partire, nonostante avessi i documenti in regola. La scelta obbligata è stata quella di entrare all’Inferno vero, in Libia. Il posto più pericoloso dove sia mai stato e dove non augurerei neanche al mio peggior nemico di finire, neanche a chi mi considera un animale. Sono stato rinchiuso in un centro di detenzione libico per più di un anno e mezzo. E quello che ho subito è ancora inciso sulla mia pelle, dove resterà. Le cicatrici che ho sulla schiena, sulle braccia e sulle gambe, sono ognuna il ricordo di una tortura. Di quelle botte che i trafficanti di uomini, miei carcerieri, mi infliggevano per chiedermi di chiamare casa e chiedere soldi. Non ero il solo a subire di tutto. Le donne venivano costantemente stuprate, alcune portate fuori dal centro, costrette a prostituirsi e poi violentate di nuovo dalle guardie una volta dentro. È anche difficile parlarne, perché tanto orrore non si può descrivere. Alla fine del 2014 sono riuscito a mettere insieme i soldi per uscire da quel posto irraccontabile, un buco nero che risucchia le vite di tanti di noi. E ho provato la traversata in mare. Una scommessa al buio. Eravamo in 120, stipati in un barcone di legno. Ricordo quei momenti con terrore, non vedevo nulla, mi mancava il respiro, pensavo che da un momento a un altro saremmo potuti finire in mare. Tanti non sanno nuotare. E ci sono le onde, nere, sconosciute, spaventose. Intorno a me le persone piangevano e urlavano dalla disperazione. Qualcuno pregava. Ci siamo sentiti al sicuro solo quando una nave della Guardia costiera è arrivata a salvarci. Avevo 26 anni. Ero un giovane uomo, non un animale. Oggi, che vado nelle scuole a raccontare ai giovani cosa significhi essere un rifugiato, penso a quei ragazzi, soccorsi in mare come è successo a me, anime perse che invece di iniziare un percorso per il riconoscimento dei loro diritti in Italia sono finiti nei centri in Albania. E poi sono stati riportati indietro. Gli studenti mi fanno tante domande, vogliono capire perché si lasci il proprio paese a rischio della vita, domande che non si pone chi ci governa. Mi domando se qualcuno abbia spiegato ai migranti portati avanti e indietro con l’Albania cosa stava succedendo. Li immagino smarriti come ero io appena arrivato. Avranno pensato di essere finalmente arrivati: sono ancora in un limbo. E poi quelle parole. Che dimostrano solo l’arroganza del potere, di chi si sente al di sopra di tutto, anche del rispetto delle leggi e dei diritti umani. *Testo raccolto da Eleonora Camilli L’incomprensibile mistero della faccenda immigrati-Albania di Giuliano Ferrara Il Foglio, 21 ottobre 2024 Accettati o respinti, gli immigrati raccolti in acque internazionali saranno comunque riportati in Italia. In che senso funzionerebbe la deterrenza se l’approdo albanese è equivalente all’approdo italiano? Non meno misterioso l’argomentare delle opposizioni. Sfido chiunque a dirmi in coscienza: ho capito la questione dell’Albania e sono in grado di renderti ragione dell’accordo tra Meloni e Rama e della fiera opposizione all’accordo. Pagherei oro. Quelli che non hanno letto romanzi e racconti di Franz Kafka tendono a giudicare ogni situazione burocraticamente minacciosa e ingarbugliata come “kafkiana”. Beati loro che hanno questa via d’uscita facile dai pasticci. Ma nella faccenda immigrati-Albania campeggia incomprensibilità totale delle ragioni e dei torti, e Kafka non è incomprensibile, e regna la farsa dell’incomunicabilità di contenuti razionali e anche irrazionali, e Kafka non è un autore farsesco. Anche dopo aver letto la massima razionalizzazione possibile, quella del direttore di questo giornale sabato, la domanda resta inevasa: perché l’Albania? Procediamo con ordine nel disordine. Il ministro dell’interno Piantedosi con sicurezza e l’economist con scetticismo hanno sostenuto che la funzione della trasferta albanese è o potrebbe essere, salvo monitoraggio (il miraggio del monitoraggio o il monitoraggio del miraggio è apparso anche alle autorità europee) quella della “deterrenza”. In che senso non si capisce, io non lo capisco. Le regole del patto con Rama dicono che fa tutto l’Italia, di tutto è responsabile l’Italia, i costi sono italiani, la progettazione, il trasporto, la giurisdizione sono di pertinenza italiana. I tempi della procedura accelerata di vaglio per l’accettazione o il respingimento di “adulti non vulnerabili” (definizione sublime del burocratese umanitario) sono gli stessi della procedura su suolo italiano. Di quei tempi e modi a decidere sono giudici che stanno a Roma, Italia. Sia in caso di accettazione sia in caso di respingimento, gli immigrati raccolti in acque internazionali saranno riportati in Italia, infatti l’Albania extra-Ue non si fa carico né di una loro eventuale residenza in loco né del trasferimento altrove, e il viaggio di ritorno in Italia è effettuato vuoi per vivere da persone libere, da titolari di diritto d’asilo, vuoi per ripartire per i paesi di provenienza, ciò che si chiama rimpatrio e che è una circostanza già in atto e molto rara (2.000 e poco più a fronte di 13.000 decisioni di espulsione a carico di immigrati illegali). La domanda dunque resta inevasa, la ratio non si capisce: perché Albania e non Bari? In che senso funzionerebbe la famosa deterrenza se l’approdo albanese è perfettamente equivalente all’approdo italiano? Mistero. Misterioso anche il forte argomentare delle opposizioni politiche. Il centro del discorso è che si sperpera danaro pubblico, si fa un danno erariale. Sembra un argomento di Meloni vecchia maniera, dei tempi della furia e del blocco navale e delle polemiche roventi sull’industria dell’immigrazione affidata alle cooperative, per fortuna superati. Spendiamo nella sanità, per curarci meglio, quei quattro soldi che sono serviti a costruire il centro di trattenimento, dicono con fare un po’ demagogico. L’argomento è francamente populista, arretrato, me schino. Se funzionasse lo schema albanese, perché mai non dovrebbe essere adeguatamente finanziato? In sottofondo però l’argomento vero è che invece di accogliere in Italia i disgraziati del mare li si “deporta” in un altro paese chissà a che scopo anti-umanitario. In realtà vengono scortati, gli adulti non vulnerabili e eventuali minori non ancora identificati per tali, da una capiente nave della marina militare e fatti sbarcare normalmente in un centro che fa ribrezzo come tutti i luoghi di detenzione ma ha almeno la caratteristica di essere nuovo e nelle intenzioni congegnato per una breve permanenza, la procedura accelerata, al termine della quale ci sarà comunque il ritorno in Italia. E allora: perché l’Albania? Perché no all’Albania? Chi finge di avere capito secondo me mente o scambia le impressioni vaghe per intelligenza certa delle cose. Sulla questione della Corte di Giustizia europea e dei giudici italiani le cose si fanno apparentemente più chiare. Questi adulti non vulnerabili sono come le migliaia di immigrati legali che l’Italia concorda, attraverso i suoi decreti-flussi, di accogliere da certi paesi. Tranne che arrivano fuori dall’accordo, illegalmente e a loro massimo rischio, via mare. Il governo, finito il tempo grottesco e avvilente di Salvini e della sua pretesa di chiudere i porti e lasciare la gente in mare, moltiplica i porti di accoglienza e offre anche l’occasione albanese a coloro che guardia costiera e marina salvano nelle acque internazionali. Con le stesse procedure, con gli stessi avvocati a assistere e gli stessi giudici a vagliare. Il trasferimento dopo il salvataggio avviene quando si tratta di persone che arrivano da paesi con i quali esistono patti di flusso migratorio e che si considerano sicuri (entro i limiti della sicurezza in tutti i paesi di emigrazione di Africa e Asia, dove non vigono in genere democrazie liberali e stati di diritto solidi). Ora, e questa è l’unica cosa che si capisce, la magistratura decide che i paesi sicuri al cento per cento non esistono, e quindi si smantella tutto, che vuoi mai rimpatriare? e dall’Albania si torna in Italia quando l’Italia si era trasferita in Albania per un mese di accertamenti. Si preparano ricorsi, contromisure eccetera, e si ingaggia una lotta ideologica vecchio stile sull’umanitarismo delle condizioni di partenza degli immigrati: ma su che basi, perché, perché in un’Albania equivalente all’Italia o in un’Italia equivalente all’Albania?